Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Diritto dell’Unione Europea corso completo, Dispense di Diritto dell'Unione Europea

Riassunto completo per l'esame di diritto dell'Unione Europea con Gatti

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 15/05/2024

Gigiramovini
Gigiramovini 🇮🇹

6 documenti

1 / 136

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Diritto dell’Unione Europea corso completo e più Dispense in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Il punto di partenza per compiere un ragionamento sull'ordinamento dell'UE è rappresentato dal fenomeno delle organizzazioni internazionali, in quanto le comunità europee sono state istituite mediante trattati e presentano quelli che sono gli elementi distintivi di una qualsiasi organizzazione internazionale. Un’organizzazione internazionale è un soggetto di diritto internazionale dotato di personalità sul piano delle relazioni del diritto internazionale. È un soggetto, in secondo luogo, derivato (e non originario a differenza dello stato) in cui la soggettività è attribuita normalmente, ma non sempre, da stati. Vengono istituite da stati e con trattati internazionali e si fondano sul principio di specialità o attribuzione delle competenze motivo per cui quindi, possono operare solo nei limiti delle competenze loro attribuite. Questa è una definizione condivisa di organizzazione internazionale. L'unica comunità europea rimasta in vita è la comunità europea dell’energia atomica. Se guardiamo le 3 comunità europee nel momento della loro fondazione notiamo che sono state istituite da stati, mediante trattati e dotate di personalità autonome. Da questo punto di vista è naturale sostenere che siamo esattamente di fronte a un fenomeno che rientra nel novero delle organizzazioni internazionali. Se vogliamo essere più precisi possiamo andare anche oltre e dire che siamo di fronte a un’organizzazione internazionale, regionale, politica e di integrazione: ● Regionale, e a riguardo possiamo fare riferimento alla dicotomia tra organizzazioni internazionali universali (Nazioni Unite) e regionali. Le organizzazioni internazionali universali sono potenzialmente aperte a tutti gli stati della comunità internazionale, sia pure nel rispetto di determinate condizioni; mentre, un’organizzazione si dice regionale quando l'adesione è limitata da un fattore politico forte che non coincide necessariamente con la delimitazione geografica. Infatti, non dobbiamo pensare che le organizzazioni regionali si basano tutte sul criterio geografico, basti pensare alla NATO che non è geograficamente definita/delimitata, ma si basa su un diverso criterio politico. ● Politiche: sotto questo punto di vista bisogna distinguere tra organizzazione politica e tecniche, la cui differenza sta nel mandato conferito all’organizzazione; l’organizzazione tecnica svolge un mandato di natura tecnico-operativa, dunque molto limitato e caratterizzato da un’alta qualificazione di carattere tecnico (si pensi all’organizzazione mondiale della sanità); mentre le organizzazioni politiche tendono ad avere un ambito di competenze molto vasto, si pensi appunto all'UE dove la cooperazione va dal mercato interno alla cooperazione giudiziaria penale di polizia. ● Integrazione: questa qualifica potrebbe essere inutile da menzionare perché è stata creata proprio guardando il fenomeno di integrazione europea, ma in realtà ha senso esaminarla per effettuare una distinzione, ossia la distinzione tra le organizzazioni internazionali di cooperazione e le organizzazioni internazionali di integrazione. In termini generali la distinzione sta nel fatto che la cooperazione tra stati membri UE è molto qualificata sul piano giuridico in quanto finalizzata ad un’integrazione normativa. Invece le organizzazioni di cooperazione sviluppano strumenti di cooperazione che però non implicano una integrazione sul piano normativo. Questo è il punto di partenza, e parliamo di un processo iniziato negli anni 50 il quale può essere diviso in vari stadi della vita delle comunità europee: ● Origini ● Consolidamento del modello ● La nuova frontiera ● Una nuova unione ● L'assestamento dell'unione ● Lo slancio costituzionale e il suo fallimento LE ORIGINI Parliamo della prima forza motrice del processo di integrazione, nel mentre si consolida la cooperazione politica aumentano gli stati che partecipano al processo di integrazione. Vi sono i sei paesi fondatori, cioè: ● Francia ● Germania ● Belgio ● Italia ● Olanda ● Lussemburgo Il c.d. Big Bang è il 9 Maggio 1950, perché durante questa data, il ministro degli esteri francese Schuman pronuncia nella sala dell'Orologio di Parigi un discorso fondamentale, nota come dichiarazione Schuman, che rappresenterà il manifesto politico delle future comunità europee in quanto contenente l'essenza della novità di questi enti rispetto alle tradizionali organizzazioni internazionali sino a quel momento esistenti. Si arriva a questo discorso in quanto vi era una determinata esigenza, ossia quella di garantire la pace dopo due guerre mondiali. La soluzione proposta consiste nel creare un ente autonomo di diritto internazionale chiamato a gestire nell'interesse generale quei fattori economico-produttivi che, se fossero stati lasciati agli stati avrebbero potuto causare un nuovo conflitto. Si guardano in particolare i rapporti tra Francia e Germania che erano compromessi alla fine della Seconda guerra mondiale e in particolare c'è un tema economico rilevante che potrebbe generare controversie tra questi 2 stati, controversie che, come detto, avrebbero potuto portare ad un nuovo conflitto. Questo tema economico si colloca alla di frontiera tra questi 2 stati e riguarda un’area geografica che rappresenta una zona contesa: stiamo parlando dei bacini carbo-siderurgici che erano contesi per una questione energetica e bellica. L'industria del carbone e dell’acciaio è fondamentale perché di fatto è strumentale alla difesa dello stato. Dunque, l’intento è quello di creare un ente sovranazionale che gestisca la produzione del carbone e dell'acciaio per evitare conflitti. Questo ente deve presentare caratteristiche peculiari: ● In primo luogo, deve poter decidere non sempre all'unanimità perché altrimenti non si arriverebbe al veto ● In secondo luogo, deve poter imporre obblighi e deve essere un ente in cui sia possibile verificare il rispetto dei suddetti obblighi da parte degli stati membri, parliamo di una verifica non effettuata dagli stessi stati, bensì da un organo terzo: una Corte. L'organo comunitario si caratterizza per la possibilità di deliberare a maggioranza, per la possibilità di adottare atti vincolanti e per la possibilità di esercitare un controllo di legittimità che è incardinato in capo ad un giudice. Alla fine della Seconda guerra mondiale venne istituita un’altra organizzazione internazionale ossia le Nazioni unite, ora vediamo come si comportano le Nazioni unite, (ONU) ● In primo luogo, il potere decisionale risiede in una istituzione: il Consiglio di sicurezza dove siedono 5 stati a titolo permanente (gli altri ruotano) che possono esercitare diritto di veto. Questa è una differenza importante rispetto a ciò che avviene a livello europeo. ● In secondo luogo, nelle nazioni unite a differenza di quanto pensato da Schuman, osservando le prerogative dell'assemblea generale e CdS notiamo come il potere decisionale è molto limitato. L'assemblea generale non può praticamente imporre obblighi ma può tutt’al più prendere una un processo politico ma mediante uno strumento antico rimanendo nel solco del diritto internazionale. L'idea era creare un’unica Unione Europea unita e governata unicamente dal metodo comunitario: si inserisce una carta dei diritti fondamentali, si dice quale è l'inno dell’UE e la sua bandiera. Vi è però una differenza con le normali costituzioni che spesso sono sintetiche, in quanto il suddetto trattato è di circa 400-500 pagine, molto più lungo delle tradizionali costituzioni. Questo tentativo ambizioso fallisce in quanto il trattato non supera il meccanismo delle ratifiche. Ci sono, infatti, due stati cioè Francia e Olanda, che prevedranno un referendum per l’approvazione del trattato e inevitabilmente con questi referenda il trattato verrà bocciato tanto dai francesi quanto dagli olandesi. Il trattato, dunque, non entra in vigore, è un brutto momento per l'UE e si decide di prendere un periodo di riflessione, l'esito di questo momento di riflessione è un nuovo trattato: il trattato di Lisbona. Il trattato di Lisbona (2007-2009) riprende il 75% del contenuto del trattato costituzione perché viene meno la dimensione costituzionale: infatti, si torna a una dimensione intergovernativa. L'esito di questo processo è comunque di semplificazione, la comunità europea e le sue attribuzioni vengono trasferite all’UE e scompare la struttura dei pilastri, rimane un unico pilastro. Ma in realtà non è davvero un unico pilastro, se lo analizzo ci sono parti del pilastro autonome, in particolare rimane una dimensione di autonomia che riguarda la politica estera di sicurezza comune, qui la dimensione intergovernativa permane ma viene attenuata in quanto si riconosce un ruolo alla Corte di giustizia: la Corte inizia ad iniettare dosi comunitarie per scogliere elementi intergovernativi. Rimane l'UE e l'Euratom e quindi si verifica una forte semplificazione. Alla luce di tutto questo, ci sono due dati fondamentali da considerare. Il primo è che si tratta di un processo continuo di evoluzione, nel senso che non ci sono stati decenni non interessati da revisioni del quadro istituzionale dell’UE, dato che si intendeva determinare un ever ending union: un’unione sempre più stretta tra popoli in conformità all’art 1 TUE. Questo non è un dato affatto scontato, soprattutto se guardiamo ad altre organizzazioni internazionali, in cui la capacità di evoluzione e di cambiamento insita è molto meno sviluppata, si pensi alle Nazioni unite: il suo assetto istituzionale è quello del 1945, il che provoca problemi nel mondo attuale che ha equilibri molto diversi da quelli del 1945. Infatti, sono decenni che si discute di una riforma della composizione del CDS. Il capitolo settimo della carta delle nazioni unite dà conto di un quadro che in realtà non si è mai realizzato in concreto: si parla di contingenti militari che gli stati contraenti avrebbero dovuto fornire all'organizzazione, cosa che però non è mai accaduta. Ciò nonostante, non è arrivata nessuna riforma. In realtà anche se guardiamo organizzazioni regionali più piccole (Consiglio d’Europa) anche qui la capacità di evoluzione dell’organizzazione non è paragonabile a quella del processo di integrazione europea. Il secondo dato è che queste tappe sono tutte scandite da trattati internazionali; quindi, pur nella sua peculiarità questo processo si sviluppa nel contesto del diritto internazionale: ossia stati che concludono tra loro trattati per modificare un assetto di cooperazione particolarmente rafforzato. Ciò ha determinato una stratificazione dei trattati: i trattati successivi non hanno spazzato via i precedenti ma li hanno integrati e modificati, si arriva ad una stratificazione appunto. Bisogna ricordare il passaggio dal 2004, cioè da un momento di ottimismo, al momento del 2007 dove il processo di integrazione si riattiva attraverso il trattato di Lisbona (2007). Bisogna però anzitutto ritornare al momento del 2004 Il 2004 è importante non solo perché si tenta di andare oltre il diritto internazionale e creare qualcosa di nuovo (trattato costituzione che poi fallirà), è un anno importante anche perché avviene un grande round di allargamento dell'UE. Nell’aprile 2004 vi erano 15 stati nell’UE, mentre il 1° maggio 2004 entrano in UE 10 nuovi stati, come i paesi baltici: si tratta di un passaggio davvero epocale perché cambiano gli equilibri dell’organizzazione e questo rende necessario un intervento sull’assetto istituzionale per renderlo efficiente. Il trattato di Lisbona (2007) dunque cosa fa? Lisbona riesce nell’operazione di non buttare tutto il lavoro fatto per arrivare ad un consenso per il contenuto del trattato costituzione; infatti, la maggior parte del contenuto di questo trattato ritorna con Lisbona, ciò che invece non c'è più è la dimensione costituzionale. Facciamo un esempio per capire la razionalizzazione effettuata: bisogna tornare leggermente indietro nel tempo. Siamo nel 2000 quando viene elaborato un documento non giuridicamente vincolante, però politicamente rilevante, ossia la Carta dei diritti fondamentali, l’idea è quella di dotare il processo di integrazione di un proprio catalogo di diritti fondamentali, che tenga conto delle sue peculiarità. Il trattato costituzione in un’ottica costituzionale aveva deciso di incorporare la Carta e di collocarla nella prima parte del trattato (in modo simile alle costituzioni in cui i diritti e le libertà fondamentali sono menzionati nella prima parte), quindi ci sono due operazioni: La carta viene trasformata e diventa diritto pattizio diventando vincolante, ma non solo, addirittura viene collocata nella parte prima del trattato in un’ottica costituzionale. Il trattato costituzione come sappiamo non entra in vigore e Lisbona cerca di preservare quanto fatto dal trattato costituzione ma in modo diverso. Innanzitutto, la Carta dei diritti fondamentali non viene incorporata nei trattati né quanto meno collocata in una posizione di priorità; però il Trattato sull’Unione Europea inserisce nell’Art 6, considerato fondamentale per la tutela dei diritti, alcune parole in cui si evince che la Carta dei diritti fondamentali ha lo stesso valore dei trattati ed è giuridicamente vincolante. Dunque, non viene incorporata ma con questo rinvio diviene diritto fondativo dell’UE e diviene giuridicamente vincolante. Dunque, si depotenzia la simbologia legata alla dimensione costituzionale ed è chiaro che con questo depotenziamento costituzionale è più facile ottenere il consenso degli stati. Questo è un elemento che segna il cambio di paradigma però bisogna fare una precisazione: nel dire che con Lisbona viene meno la dimensione costituzionale si intende dire che è un venir meno relativo perché comunque i trattati, anche attuali, hanno una dimensione costituzionale, hanno una dimensione costituzionale nella misura in cui hanno dato vita a quell'ordinamento e nella misura in cui rappresentano il quadro costituzionale di riferimento dell'ordinamento, dunque non viene quindi totalmente meno la suddetta dimensione costituzionale ma è semplicemente assunta implicitamente e, perlomeno, secondo la Corte di giustizia, è ritenuta fondamentale per il processo di integrazione. Il fatto che la Corte riconosca all’ordinamento una dimensione costituzionale non esclude che più avanti si possa arrivare ad un riconoscimento formale di tale natura costituzionale. Lisbona dunque cosa fa? Semplifica l’assetto: la comunità europea scompare e viene assorbita nell’UE e scompare la struttura a pilastri, anche se i pilastri non scompaiono del tutto perché, se osservo la struttura mi rendo conto che vi sono ambiti politici in cui continuano a permanere delle specificità, il più evidente è quello della politica estera di sicurezza comune che però si sta comunitarizzando. Vi sono altri ambiti di questo tipo come l’unione economico monetaria. Dunque, le distinzioni vi sono ancora nonostante la semplificazione. Da menzionare poi che nello stesso anno di Lisbona (2007) entrano altri 2 stati (Romania e Bulgaria che dovevano entrare con i precedenti 10 ma i loro negoziati di adesione avevano portato a rilevare delle questioni aperte e ciò porto a fermare e rimandare il processo di adesione). Nel 2013 entra la Croazia ed è l’ultimo paese ad essere entrato in UE. UN’ERA DI CRISI Nel 2020 esce dall’UE il Regno unito: ciò segna un’era di crisi non irrilevante sotto il profilo del processo di integrazione ma che anzi lo hanno riordinato rendendo necessarie modifiche all’assetto istituzionale. Facciamo un esempio, si pensi alla crisi economico-finanziaria, il MES è uno strumento che è stato adottato fuori dai trattati, il MES non è altro che un’altra organizzazione internazionale costituita mediante trattato. Gli stati membri hanno modificato l’Art. 136 Tfue per consentire un processo che ha avuto ricadute sul sistema, è chiaro che la Brexit ha avuto ricadute sull’assetto UE. Parliamo di un periodo di crisi causata anzitutto dalla pandemia, la pandemia del 2020 non ha modificato i trattati, trattati che hanno dimostrato in quel periodo di crisi una particolare resilienza. Parliamo anche della guerra in ucraina, guerra che non ha portato ad una modifica dell’assetto istituzionale o dei trattati (come avvenuto invece con la Brexit) ma tuttavia anche in questo caso ci sono state ricadute significative, si pensi al dibattito sulla membership, facciamo un esempio pratico: il 9 maggio 2022 il presidente della repubblica francese ha proposto la costituzione di una comunità politica europea che sia più estesa in quanto a membership dell’UE ma che si fondi sulla medesima dimensione valoriale consentendo a stati che non sono membri dell’UE di condividerne la dimensione valoriale. Quindi vi è un dibattito istituzionale generato dal conflitto in ucraina. Ma non è tutto, si pensi alle decisioni UE in materia di politica europea di difesa e in particolar modo si pensi alle decisioni UE sul finanziamento del riarmo ucraino. Quindi ci sono ricadute istituzionali rilevanti derivanti dal conflitto tra Russia e Ucraina ma al tempo stesso non si arriva a nessuna modifica del diritto primario vigente. Quest’era è quella che viviamo noi ed è segnata non da modifiche dei trattati ma da modifiche più puntuali o, meglio, da cambi di paradigma nell’applicazione dei trattati. PROCESSO DI STRATIFICAZIONE DEI TRATTATI Dagli anni 50 agli anni 70 abbiamo 3 trattati... ● Trattato istitutivo CECA ● Trattato istitutivo Comunità economico europea ● Trattato istitutivo Euratom questa situazione dura qualche anno; ci sono trattati che intervengono nel mentre ma solo con piccoli ritocchi. Il quadro si complica tra gli anni 80 e 90 perché in una prima fase abbiamo l'atto unico europeo che si aggiunge ai 3 trattati precedenti andando a modificarli. Nel 1992 entra in vigore il trattato di Maastricht, quindi abbiamo il TUE (introdotto da Maastricht), il trattato istitutivo della comunità economica europea che diventa il trattato istitutivo della comunità europea e infine abbiamo il trattato Euratom e della CECA. ...Negli anni 2000... ● Trattato di Amsterdam che si aggiunge a quelli precedenti, CECA, Euratom, comunità europea e TUE. Vi sarebbe anche il trattato di Nizza che però non ha rilievo politico ed è un fallimento. Nel frattempo, viene meno il trattato istitutivo della CECA (2002) ...Oggi, invece il quadro è più semplice: ● TUE ● TFUE ● trattato Euratom ● Carta dei diritti fondamentali Il trattato istitutivo della Comunità europea è stato assorbito nel Tfue che è di fatto la sua versione 2.0 ● Il terzo criterio: questo criterio viene definito come il criterio del rispetto dell’acquis (pronuncia francese achi’), in francese acquis significa insieme delle decisioni assunte in precedenza: lo stato che entra oggi deve rispettare tutto il diritto dell'organizzazione che è stato adottato fino ad oggi; quindi, si chiede allo stato di adeguare il proprio ordinamento anche rispetto agli obblighi precedenti. Per quanto concerne i criteri procedurali, a riguardo serve una decisione dell'Assemblea generale delle NU, a maggioranza qualificata, previa raccomandazione del CdS, raccomandazione che per essere adottata deve vedere l’assenza di veto dei 5 stati permanenti. La procedura non è affatto semplice e consente l’esercizio del diritto di veto: si tratta di una procedura assai complessa. La decisione è presa dagli organi politici dell’organizzazione e in particolare degli organi che rappresentano gli stati. Procedura di adesione del Consiglio d’Europa. Vediamo come si aderisce al Consiglio d’Europa (diverso dal Consiglio Europeo e dal Consiglio dell'Unione europea). Art. 4 Statuto consiglio d’Europa: “Ogni Stato europeo, che sia considerato capace e volonteroso di conformarsi alle disposizioni dell’articolo 3, può essere invitato dal Comitato dei Ministri a divenire Membro del Consiglio d’Europa. Ogni Stato, in tal modo invitato, acquista la qualità di Membro, tosto che in suo nome sia stato depositato presso il Segretario Generale uno strumento d’adesione al presente Statuto.” Anche qui iniziamo a fare una distinzione tra: ● Criteri sostanziali: più precisamente vi sono tre criteri, bisogna essere uno stato, europeo e rispettoso delle disposizioni dell'Art. 3 del suddetto statuto o Stato: solo gli stati possono aderire all'organizzazione o Europeo: questo criterio è lasco e la definizione è vaga come quella trovata nelle Nazioni unite, ma questo non è un caso: si vuole garantire infatti maggiore discrezionalità in relazione all'ingresso di un nuovo stato nel Consiglio di Europa. o Rispetto acquis: è necessario che lo stato rispetti le disposizioni di cui Art. 3 dello statuto. ● Criteri procedurali: Per poter aderire bisogna essere invitati dal Comitato dei ministri: formato dai ministri degli esteri degli stati membri. Quindi la decisione è assunta dagli stati parte dell’organizzazione, è inoltre previsto che inviato l'invito, si risponda mediante un atto di adesione depositato presso il segretario generale dell'organizzazione. Notiamo come la logica nel Consiglio di Europa è simile a quella che troviamo nelle NU: abbiamo in ambedue le organizzazioni un criterio lasco, abbiamo il riferimento al rispetto dell'acquis ed è infine prevista una procedura di adesione particolarmente complessa. Procedura di adesione all’Unione Europea. In tema di adesione all’unione europea entra in gioco l’Art. 49 TUE che regola la procedura di adesione: “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all'articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell'Unione. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono informati di tale domanda. Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all'unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo.” Qui abbiamo 4 criteri sostanziali: ▪ Stato ▪ Europeo ▪ Rispetto dei valori UE (democrazia, eguaglianza, rispetto dello stato di diritto ecc.) ▪ Il riferimento ai criteri di ammissibilità del Consiglio europeo. A riguardo parliamo di criteri essenziali che tutti i paesi candidati devono soddisfare per diventare Stati membri dell'UE. Il Consiglio europeo è l'istituzione politica di vertice dell'UE dove risiedono i capi di stato o di governi degli stati membri, che definisce le politiche UE e che può adottare decisioni politiche che riguardano l'adesione di stati nell'UE e che, mediante il riferimento ex art. 49, diventano criteri giuridicamente vincolanti. Qui si fa riferimento in particolare a una riunione del consiglio europeo che venne tenuta a Copenaghen e fu dedicata all’ingresso di Danimarca, Austria, Svezia e Norvegia, riunione dove il consiglio europeo individuò ulteriori criteri complementari a quelli individuati dal trattato: ▪ Un criterio che riguarda la stabilità istituzionale del paese membro tale da garantire la democrazia. ▪ Un criterio che riguarda la dimensione economica: lo stato deve garantire un’economia di mercato capace di tollerare le pressioni concorrenziali degli altri stati membri. ▪ Infine, abbiamo una precisazione del criterio dell'acquis: acquis comprensivo dei valori e di tutto il diritto UE. Siamo di fronte di fronte a una griglia di criteri articolata. Parliamo principalmente del primo criterio: cioè, cosa si intende per Stato. La nozione accolta dall’UE è la medesima nozione che rinveniamo nel diritto internazionale e quindi ci si muove in continuità con la dimensione internazionale. Per cui, abbiamo uno stato quando vi è un ente territoriale con un territorio definito nel quale esiste una comunità di individui e dotato di un governo in grado di esercitare un potere sovrano indipendente ed efficace su quella comunità territoriale. Alla luce di queste considerazioni, Il Kosovo è uno stato? L'UE ha concluso con il Kosovo un accordo di stabilizzazione e associazione, questo fa capire una cosa importante, cioè che secondo l’UE il Kosovo è dotato di personalità internazionale, altrimenti non avrebbe concluso con il Kosovo un accordo. Ma in realtà l'UE non intende prendere una posizione esplicita sulla circostanza che il Kosovo abbia assunto o meno lo status di stato sovrano ma anzi è il contrario: non si vuole pregiudicare quanto statuito in merito dal CDS con la risoluzione 12/44 emessa all’indomani del raid della NATO sulla Serbia. Allo stesso tempo non si vuole neanche pregiudicare quanto detto dalla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni unite nel parere emesso nel 2012 dopo la dichiarazione di indipendenza dell’assemblea parlamentare kosovara, parere dove la Corte si pronuncia sulla legalità, sul piano del diritto internazionale, della suddetta dichiarazione di indipendenza. In questo parere la corte conclude dicendo che la dichiarazione è legittima, in quanto non ha effetto costitutivo di statualità, statualità che infatti sorge, come ricordato dalla corte di giustizia, laddove vi siano i 3 elementi di cui parlavamo prima. Dunque, la Corte risponde che la dichiarazione è legittima ma omette di pronunciarsi sul Kosovo e sul suo essere o meno stato. L’UE adotta il medesimo approccio.Pertanto, ancora oggi non si può rispondere alla domanda: possiamo dire senz'altro che il Kosovo è dotato di personalità internazionale e si ritiene che in futuro il Kosovo possa divenire uno stato e quindi aspirare all'adesione UE, ora come ora non si prende posizione sul tema rispettando il diritto internazionale. Questo dimostra che la nozione di stato in UE è uguale a quella adottata dal diritto internazionale. Cosa succede se uno stato membro UE smette di rispettare uno o più criteri di adesione (in particolare del criterio istituzionale, economico ecc.)? Per ora in maniera decisamente sintetica limitiamoci a dire che la Corte di giustizia UE afferma in una sentenza, la Sentenza Repubblika, il c.d. principio di non regresso, cioè la Corte ha detto che gli stati una volta divenuti stati membri UE hanno l’obbligo di mantenere e garantire la non regressione della tutela dei principi e dei valori fondamentali ai fini dell’adesione in Ue. Possiamo anche aggiungere che esistono meccanismi sanzionatori ma si è evidenziato nella prassi il dilemma di Copenaghen: cioè, si rileva il fatto che l'UE sembra essere inefficace a imporre a stati membri UE i criteri di adesione mentre lo fa più efficacemente nei confronti di uno stato non ancora membro UE. Si può espellere uno stato membro? No, perché i trattati non lo prevedono, si parla anzi di never ending union. Passiamo ai criteri procedurali: Qui abbiamo un elemento interessante: la procedura è divisa in 2 fasi, la prima è una fase tutta interna all'assetto istituzionale UE: Prima fase, istituzionale: 1) Il paese interessato all’adesione deve candidarsi e la candidatura è preceduta da una fase di negoziato e spesso da accordi di tipo pattizio (accordi di associazione e stabilizzazione) tra stato e UE volti ad avviare un processo di graduale integrazione del Paese nell'ordinamento UE e rendere più fluido il percorso di adesione. Capiamo dunque che il momento zero non è realmente il momento della candidatura. 2) La candidatura viene notificata al Consiglio e al Parlamento europeo, e i Parlamenti nazionali degli stati membri. 3) Il Consiglio attribuisce lo status di paese candidato con decisione unanime, previo parere della commissione sul rispetto dei criteri e previa approvazione del parlamento europeo. Secondo elemento importante: la decisione viene presa con oneri procedurali elevatissimi: unanimità in Consiglio e parere vincolante del parlamento europeo, il che vuol dire che il parlamento europeo e i rappresentanti degli stati membri in consiglio hanno un potere di veto, ed è per questo che oggi la Turchia non è ancora uno stato membro UE. Per lo stesso motivo è velleitaria l'impresa indipendentista Catalana perché la Catalogna non entrerà mai nell'UE in quanto incontrerebbe ovviamente il veto della Spagna. Non è facile superare questo scoglio ed è normale che sia così: perché l'ingresso di un nuovo stato membro anzitutto modifica l'organizzazione dell'UE ma anche perché nel processo di integrazione UE il rapporto tra singolo stato membro e UE non è solo bilaterale ma è anche trasversale in quanto tocca tutti gli stati membri UE. Ha senso anche che la decisione venga presa dagli stati (il consiglio è infatti composto dagli stati) Seconda fase, intergovernativa La fase successiva, (dopo la decisione del consiglio di attribuire lo status di candidato) è completamente intergovernativa: si devono negoziare le condizioni per l'ingresso, queste condizioni verranno negoziate e prenderanno corpo in un trattato di adesione. Il paese diviene stato membro UE a partire dalla data di entrata in vigore del suddetto trattato di adesione, trattato che è concluso tra quello stato e tutti gli stati membri UE. Il trattato di adesione entra in vigore solo se ratificato da tutte le parti contraenti (cioè, tutti gli stati membri UE), parti che potrebbero di fatto porre un veto. (non vi è alcun limite a questo veto) Possiamo porci due domande alla luce di quanto detto prima: 1) Vi sono differenze di status tra stati fondatori UE e no? Sul piano giuridico la risposta è no, l’UE persegue il principio dell'eguaglianza tra stati e applica un paradigma internazionale. Tuttavia, facendo un ragionamento di carattere sostanziale è chiaro che la posizione (soprattutto se assunta collettivamente) dei 6 paesi fondatori è molto rilevante, in quanto parliamo di paesi che hanno iniziato e diffuso la tradizione sovranazionale; quindi, è chiaro che una posizione unanime di questi 6 paesi ha un peso politico non indifferente, però appunto parliamo solo di peso politico. alla conformità dei criteri stabiliti per l'adesione. Questo perché aderire all'UE significa aderire ad una organizzazione e influenzare gli altri stati della suddetta organizzazione. Il consiglio europeo ha concesso lo status di paese candidato all’adesione UE alla Moldavia, non anche alla Georgia. Di questo parere a noi interessa il punto 14: i progressi di ciascun paese vero l’adesione all’UE dipenderanno dai meriti nel soddisfare i criteri di Copenaghen tenendo conto della capacità dell’Unione di assorbire nuovi membri. Quindi non c'è un obbligo di risultato per il paese candidato: il candidato non necessariamente entra nell'UE. Alla luce di quanto detto possiamo affermare che oggi non è possibile ipotizzare/pervenire ad un’adesione istantanea nell'UE e vi è un altro motivo a sostegno di questa conclusione: consentire a un paese sotto attacco armato e in parte sotto occupazione di entrare nell'UE renderebbe difficile l'applicazione del diritto UE nei territori eventualmente occupati in seguito all'attacco armato. Ora dobbiamo fare una considerazione, il fatto che l’Ucraina, insieme alla Moldavia, sia divenuta un paese candidato non è irrilevante sul piano giuridico perché consente di attivare un canale di finanziamento che è finalizzato a sostenere il paese che ha avviato il processo di adesione nell'adeguamento del suo ordinamento all'acquis dell'UE. Condizionalità di adesione e risoluzione conflitti tra paesi membri e paesi candidati. Misuriamo la capacità del processo di adesione di determinare non solo l’avvicinamento del paese a un ordinamento giuridico sovranazionale ma anche la sua capacità di attenuare o eliminare possibili fonti di controversie sussistenti tra questo paese e paesi già membri UE. Per capire tale capacità possiamo analizzare una controversia territoriale tra Slovenia e Croazia, controversia che risale agli anni della dissoluzione della repubblica federativa-socialista di Jugoslavia, dissoluzione che portò alla nascita di nuovi stati indipendenti, tra cui Slovenia e Croazia. Questi 2 paesi non sono riusciti, durante il processo di dissoluzione, a definire in modo chiaro una parte dei confini comuni (la parte della baia del Pirano e le acque adiacenti), per cui parliamo di una controversia che risale ad una fase precedente rispetto all'adesione all’UE della Slovenia e della Croazia, ma che continua anche dopo l’adesione della Slovenia all’UE fino a quando questi 2 paesi decidono di cercare una soluzione comune, concludendo tra di loro un accordo bilaterale di arbitrato (2009) per la risoluzione della controversia affidata a un collegio arbitrale (questo è un sistema classico di risoluzione di controversie tra stati) che deciderà la controversia in modo vincolante applicando il diritto scelto dalle parti coinvolte nella lite. L’accordo di arbitrato contiene al suo interno dei riferimenti alla prospettiva della Croazia di aderire all’UE, è dunque evidente che l’accordo è stato concluso per risolvere una controversia e per garantire una adesione più fluida della Croazia all’UE, perché questo? per garantire una applicazione efficiente e conforme del diritto UE, applicazione che altrimenti sarebbe difficoltosa in uno stato (Croazia) la cui dimensione territoriale è controversa. Dopo la nomina del tribunale arbitrale, la Croazia scopre che ci è stato uno scambio di comunicazioni tra il giudice del tribunale arbitrale designato dalla Slovenia e l'agente della Slovenia incaricato di rappresentare la Slovenia di fronte al tribunale. Succede allora che la Croazia teme che il tribunale non sia imparziale e decide di chiedere la nuova nomina dei componenti del tribunale arbitrale ma addirittura invoca una disposizione della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (art. 60) e sostiene che questo scambio di comunicazioni costituisce da parte della Slovenia una violazione di un elemento essenziale dell’accordo e dunque si chiede di estinguere l'accordo. Di fronte a tutto ciò il tribunale adotta una prima decisione nel 2016 (nel frattempo la Croazia è diventata stato membro UE) che riguarda le suddette richieste che vengono respinte: il tribunale viene rivisto nella sua composizione e per questo motivo non è più possibile invocare l'art 60 della convenzione di Vienna, quindi il tribunale va avanti. A quel punto però la Croazia non partecipa più all'udienza e il tribunale va comunque avanti e arriva nel 2017 ad adottare la decisione finale (in teoria vincolante per le parti, dico in teoria perché la Croazia non la rispetta) che contiene la delimitazione dei confini. Cosa succede dopo? più recentemente la Slovenia decide di fare una mossa inaspettata, cioè, decide di portare la Croazia di fronte alla corte di giustizia UE nell’ambito di una procedura di infrazione (procedura volta a verificare eventuali infrazioni del diritto UE da parte degli stati membri e che normalmente è avviata dalla Commissione; difficilmente viene avviata da uno stato membro UE.) La Slovenia ritiene che la Croazia abbia violato l’accordo di arbitrato, ed è una violazione significativa perché ha ricadute sull’ordinamento giuridico dell’UE in quanto influisce sulla efficiente e chiara applicazione del diritto dell’UE. Dunque, secondo la Slovenia tale violazione è un vulnus all’applicazione del diritto UE e come tale rende necessaria una condanna alla Croazia a conformarsi alla decisione resa dal tribunale arbitrale. Vediamo come risponde la Corte di giustizia. La corte si è pronunciata nel Gennaio 2020 in grande sezione (la Corte si pronuncia in grande sezione, che è un collegio molto ampio, quando la questione trattata è interessante e complessa) e nella sentenza la corte ha affermato di spogliarsi della giurisdizione (cosa che difficilmente accade) perché la supposta infrazione non riguarda il diritto UE ma il diritto internazionale (cioè, un accordo concluso tra 2 stati) e il diritto internazionale NON è parte dell'ordinamento giuridico dell’UE. La Corte dice anche che la delimitazione del territorio è una prerogativa sovrana degli stati: quindi in tale ambito il diritto UE non può entrare. Vi è un elemento di chiusura: la Corte afferma di essere incompetente a statuire sul ricorso però aggiunge che ciò non significa che la partecipazione all’ordinamento UE sia irrilevante ai fini della risoluzione della controversia: cosa vuol dire questo? Vuol dire che secondo la Corte, Croazia e Slovenia devono impegnarsi a risolvere la controversia, ma la risoluzione deve avvenire non mediante una procedura di infrazione ma sulla base del c.d. principio di leale collaborazione. Ci sono delle perplessità su quanto detto dalla corte. Prima perplessità: la corte dice di essere incompetente in quanto non si tratta di diritto UE e ciò crea perplessità perché la corte in passato si è pronunciata anche al di fuori dell’ambito del diritto UE e in particolar modo si è pronunciata su accordi internazionali collegati al diritto e all’ordinamento UE, ed è evidente che in questo caso l’accordo di arbitrato concluso tra Croazia e Slovenia sia strettamente legato all'ordinamento dell’UE. Allora potrebbe essere sensato dire che la corte abbia preferito non pronunciarsi per evitare di pronunciarsi su una questione (delimitazione del territorio) che è una prerogativa sovrana degli stati, ma in realtà neanche questa soluzione è convincente, perché più volte la Corte ha ritenuto di potersi pronunciare sui modi di acquisto o perdita della cittadinanza nazionale che è anch'essa una prerogativa sovrana degli stati. Ma non è tutto, si pensi anche alle pronunce della corte relative ai sistemi giudiziari degli stati (si pensi alle sentenze contro la Polonia). L’altra perplessità è questa: se la corte dice che non può pronunciarsi in quanto non si parla di diritto UE diventa difficile capire perché la corte ritenga possibile invocare il diritto UE (principio leale collaborazione) per risolvere una questione che non è di competenza del diritto UE. Concludiamo evidenziando come la Corte preferisce una soluzione non soddisfacente, preferisce non pronunciarsi, è un’occasione persa per affermare l'efficacia della condizionalità del processo di integrazione UE. Dunque, possiamo affermare che la prospettiva dell'adesione non è particolarmente efficace nel risolvere controversie tra stati membri e stati candidati (si pensi anche a Cipro e Turchia). Natura ed elementi costitutivi ordinamento UE. Parliamo degli elementi costituivi dell'ordinamento giuridico dell'Unione e lo facciamo parlando della natura dell’ordinamento giuridico dell'UE. Proviamo a rispondere a questa domanda: quale è la natura dell'ordinamento giuridico UE? È un argomento particolarmente importante perché da questo argomento desumeremo la prospettiva con la quale guardare il fenomeno di integrazione UE. Iniziamo a dare una risposta alla domanda cercando la risposta guardando all'interno dell'ordinamento UE: guardiamo una sentenza fondamentale della Corte di giustizia UE (Van Gend e loss) che ha dato una prima risposta al tema della natura dell’ordinamento UE. È una sentenza ormai risalente, adottata nel 1963, ed è una sentenza costituiva di questo ordinamento, soprattutto con riguardo ai rapporti tra questo ordinamento e il diritto degli stati membri guardiamo la sentenza che si pronuncia sul trattato istitutivo della Comunità economico europea: “Lo scopo del trattato Cee, cioè l’istaurazione di un mercato comune il cui funzionamento incide direttamente sui soggetti della comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli stati contraenti. Ciò è confermato dal preambolo del trattato il quale, oltre a menzionare i governi, fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, dalla instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti degli stati membri sia dei loro cittadini. Va poi rilevato che i cittadini degli stati membri della Comunità collaborano, attraverso il Parlamento Europeo che i cittadini degli Stati membri della comunità collaborano, attraverso il Parlamento europeo e il comitato economico sociale, alle attività della comunità stessa. Oltracciò la funzione attribuita alla corte di giustizia dall’articolo 177, funzione il cui scopo e di garantire l’uniforme interpretazione del trattato da parte dei giudici nazionali, costituisce la riprova del fatto che gli stati hanno riconosciuto al diritto comunitario un’autorità tale da poter essere fatto valere dai loro cittadini davanti a detti giudici. In considerazione di tutte queste circostanze si deve concludere che la comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a del quale gli stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli stati membri ma anche i loro cittadini.” La risposta che la Corte dà alla domanda che ci siamo posti è che questo ordinamento costituisce un ordinamento di nuovo genere nel campo del diritto internazionale. Questa è un’espressione ambigua perché più che di nuovo genere bisogna parlare di nuova specie, ma il senso dell'espressione usata dalla Corte è che siamo ancora nel contesto del diritto internazionale è dunque parliamo di un ordinamento di diritto internazionale che però pur essendo di diritto internazionale, è un ordinamento peculiare. La Corte di giustizia prova a individuare le peculiarità che fanno di questo ordinamento, un ordinamento nuovo e diverso rispetto a quelli precedentemente istituiti nel contesto dell’ordinamento giuridico internazionale. Guardiamo dunque quali sono queste caratteristiche peculiari: anzitutto gli individui nell’UE diventano attori che partecipano, tramite il Parlamento europeo, all’esercizio dei poteri sovrani trasferiti alla comunità; ma è anche vero però che gli individui sono titolari diretti di situazioni soggettive giuridiche rilevanti che derivano dall’ordinamento, quindi sono soggetti a pieno titolo di questo ordinamento al pari degli stati membri e questo elemento ne implica un ulteriore: si rompe lo schema tipico della conclusione di accordi internazionali tra stati che crea un sinallagma solo fra i contraenti, cioè un rapporto di reciprocità solo interstatuale. Questo meccanismo si rompe perché subentra come soggetto dell’ordinamento anche l’individuo, gli organi e le istituzioni della comunità europea. Questi elementi portano la Corte di giustizia nel 1963 ad affermare che si tratta di un ordinamento giuridico peculiare. Questa pronuncia in realtà, nell'affermare le peculiarità dell’ordinamento giuridico delle comunità europee rispetto all’ordinamento internazionale, vuole in realtà regolamentare i rapporti tra diritto comunitario e diritti nazionali, cioè, guarda a come interagisce il diritto UE con i diritti degli stati membri. Sostanzialmente la Corte con la sua pronuncia evidenzia che siccome il diritto UE è diverso dal diritto classico di origine internazionale, la sua interazione con i diritti nazionali sarà diversa dall’interazione che il diritto internazionale ha con i diritti nazionali. Infatti, nel 1964 arriva un’altra sentenza fondamentale: Costa contro Enel nella la corte di giustizia afferma il principio del primato del diritto delle comunità europee sul diritto nazionale facendo leva sugli elementi peculiari affermati nella sentenza. Van gend e loss. La Corte si muove in questo modo, ragiona sempre in prospettiva e quindi prima afferma che il diritto UE ha un rapporto peculiare con il diritto degli stati membri e poi ne afferma il primato. Questa è la prima risposta alla domanda concernente la natura dell’ordinamento UE. Proviamo ora a dare una risposta uscendo dai confini dell’ordinamento UE guardando il fenomeno dal punto di vista del diritto internazionale: Partiamo dall’Art. 5 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati è una convenzione di codificazione adottata nel contesto delle NU, che di fatto ha codificato il diritto internazionale relativo alla conclusione, interpretazione, applicazione e validità dei trattati internazionali. È un trattato che regolamenta i trattati. La maggior parte delle sue norme ha una valenza consuetudinaria sicché si considerano oggi norme di diritto internazionale generale che vincolano anche soggetti dell’ordinamento internazionale che non sono parti contraenti della convenzione, come l'UE che si ritiene che sia vincolata al rispetto delle norme di questa convenzione. Tra le norme Analizziamo ora art. 352 Tfue Art. 352 TFUE (norma molto usata all’inizio del processo di integrazione UE, ora scarsamente utilizzata perché trattato dopo trattato è stato meglio regolamentato il mandato dell’UE): “Se un'azione dell'Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate.” Questo articolo altro non è che la codificazione della teoria dei poteri impliciti, ma bisogna anche considerare anzitutto che l’Art 352 Tfue dà concretezza a ciò che è stato detto dalla Corte internazionale di giustizia nel parere nel 1996. La seconda cosa che mi dice è che sembrerebbe che il diritto UE sia allineato a questa ricostruzione, che è una ricostruzione che si fonda sull’Art.5 della convenzione di Vienna. Altro esempio proveniente da un’altra Corte internazionale: Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Tribunale che viene istituto dal CdS delle NU ai sensi del capitolo 7 della Carta delle nazioni unite (quindi nell'ambito del sistema di sicurezza collettiva) al fine di reprimere e condannare gli autori di crimini internazionali compiuti nel conflitto balcanico. Perché parliamo di questa cosa? Perché succede che in questa vicenda gli avvocati di Tadic, nel corso del procedimento avviato nei suoi confronti di fronte al tribunale penale internazionale per la ex jugoslavia, pongono una questione rilevante: si chiedono se il CdS sia effettivamente legittimato a istituire tale tribunale e se quindi ciò rientrerebbe nell’ambito delle sue prerogative, perché quando si parla nella carte delle nazioni unite, di misure non implicanti l’uso della forza si fa, secondo gli avvocati di Tadic, riferimento a sanzioni economiche, non di certo alla costituzione di un tribunale penale. Gli avvocati pongono dunque un’eccezione di legittimità del tribunale di fronte al tribunale stesso il quale, difronte a tutto ciò, per rispondere agli avvocati, guarda la Carta delle nazioni unite e afferma la sua legittimità. Interessante è il ragionamento del tribunale che parte dall’Art. 39 della Carta delle nazioni unite: articolo che lascia al CDS un margine di discrezionalità molto ampio sia rispetto alla qualificazione di un evento come minaccia alla pace, minaccia alla sicurezza internazionale ecc. ma anche rispetto alle misure implicanti e non implicanti l’uso della forza che possono essere legittimamente adottate dal CDS. Il Tribunale, tuttavia, aggiunge che il CdS pure avendo una grande discrezionalità, non sia dotato di un potere illimitato, il CDS non è legibus solutus. Ora, a noi interessa il fatto che il tribunale in questa vicenda qualifica la Carta delle nazioni unite (che è un trattato) come il quadro costituzionale dell’ente Nazioni Unite e del suo ordinamento giuridico, ordinamento giuridico che impone delle limitazioni al CdS. Dunque, torna il ragionamento che la Corte internazionale di giustizia (nel parere 1996) faceva in relazione alla natura ibrida dei trattati istitutivi delle organizzazioni internazionali ma qui si fa un passo in più in quanto si afferma la natura costituzionale del trattato istitutivo dell’organizzazione. Questo passaggio aggiunge qualcosa in più, connotando la realizzazione di un ordinamento giuridico come funzione costituzionale che è attribuita al trattato che costituisce l’organizzazione. Se torniamo nel 1963 e osserviamo la sentenza Van gend e loss alla luce delle suddette prese di posizione, forse è possibile spiegare la specialità e l’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’UE proprio alla luce dell’art. 5 della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Ora torniamo nell’ordinamento giuridico dell’UE e guardiamo una presa di posizione recente del 2008, da parte dell'avvocato generale Maduro nel caso Kadì, caso che riguarda l’applicazione da parte dell’UE di sanzioni elaborate nell’ambito delle Nazioni Unite dal CsS per contrastare Al-Qaida e organizzazioni terroristiche ad esse collegate. ***L’avvocato generale è una figura istituzionale (membro della corte) chiamata a pronunciare le sue conclusioni sulla controversia specifica prima che il collegio giudicante emetta la sentenza, con l’obiettivo di proporre al collegio giudicante una soluzione del caso nell’interesse del rispetto del diritto dell’UE, cioè opera come amicus curiae proponendo una soluzione che non è giuridicamente vincolante: il collegio potrà dunque discostarsi dalle conclusioni dell’avvocato generale. *** Cosa fa Maduro? Maduro rilegge Van gend en loss nel 2008, 45 anni dopo la sentenza e ragiona sul rapporto tra diritto UE e diritto delle NU. Quello che fa è un’operazione intelligente e furba: in particolare, dice che, per definire i rapporti tra diritto internazionale e diritto Ue, è necessario guardare la sentenza Van Gend en Loss, ma nel farlo lui ci propone una versione nuova tenente conto i 45 anni decorsi. Maduro non riporta fedelmente quanto detto da Ven Gend e Loss e afferma che il trattato ha creato un ordinamento giuridico interno, in particolar modo Maduro qualifica l’ordinamento giuridico dell’UE come un “municipal legal order aving a transnational dimension”, questo ci permette di dire che questo ordinamento è distinto e separato dal diritto internazionale: qui si realizza una affermazione di identità molto più forte di quella di Van Gend e loss. Tra Van Gend en Loss e Maduro vi sono, appunto, 45 anni di distanza ma anche una giurisprudenza che, a partire da questo momento, sarà sempre più vocata ad affermare l’autonomia del diritto UE rispetto al diritto internazionale. Questo concetto verrà più volte ribadito, si pensi alla sentenza “Achmea” che riguarda la conclusione di accordi bilaterali per la protezione di investimenti. Qui la Corte di giustizia dice che l’autonomia del diritto UE si giustifica sulla base delle caratteristiche peculiari dell’Unione e del diritto dell’Unione relative in particolare alla sua struttura costituzionale nonché alla natura stessa di tale diritto. Achmea sta semplicemente dicendo che l’autonomia del diritto dell’Unione si basa sulle caratteristiche specifiche di questo diritto, cioè, sta dicendo che tale autonomia si basa sulle regole dell’organizzazione, come di fatto fa lo stesso Art. 5 della Convenzione di Vienna. La conclusione è che il diritto UE è quindi un diritto ibrido: Da un lato continua a guardare al diritto internazionale in quanto i trattati sono trattati internazionali e si aderisce all’unione in base al diritto internazionale ecc. Dall’altro lato va rilevato che tale diritto sia dotato di una forte specificità e di una autonomia, rigorosamente relativa, giustificata alla luce dei suoi elementi essenziali. Siamo dunque ancora nell’ambito del diritto internazionale. Soggetti ordinamento giuridico UE Consideriamo ora i soggetti dell’ordinamento giuridico UE e ovviamente partiamo dagli Stati membri perché, se da una parte è vero che gli stati membri non sono gli unici soggetti dell’ordinamento, è altrettanto vero che gli stati membri hanno una posizione primaria per cui è importante partire da qui. Vediamo la concezione di membership e di doveri e diritti di membership che emergono dal diritto UE (in particolar modo dal diritto primario) cioè, valutiamo e misuriamo cosa significa essere uno stato membro UE nel 2022. Per fare questo analizziamo in termini evolutivi l’Art. 4 TUE che è una sorta di carta dei diritti e doveri di membership cioè, è una norma che codifica i principi che regolano l’interazione tra stati membri e Unione europea. Leggiamo la norma in termini evolutivi, iniziamo a leggerla prima in modo statico, guardando la sua costruzione e il significato immediato dei principi che andremo ad individuare, per poi passare a una lettura dinamico-evolutiva che ci permette di capire come questo rapporto di membership sia in realtà un rapporto che a sua volta si evolve. Premessa: quando parliamo di stati membri parliamo di stati secondo l’accezione di diritto internazionale, il concetto di stato è un concetto che il diritto UE riprende dal diritto internazionale con tutte le conseguenze del caso, vediamone una: il diritto UE nel richiamare la nozione di stato rilevante sul piano del diritto internazionale si rifà anche ai meccanismi di attribuzione delle condotte e delle responsabilità che il diritto internazionale prevede per gli stati, cioè la possibilità di imputare una condotta che rappresenta una violazione di norma ad uno stato, e sotto questo punto di vista nel diritto internazionale viene in aiuto un lavoro di codificazione sviluppato in seno alla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni unite nel 2001: un progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli stati. Il diritto UE si rifà a queste norme quando deve imputare una condotta qualificabile come violazione del diritto UE ad uno stato. Da ricordare che la condotta degli organi di uno stato è imputata allo stesso stato. Da questo punto di vista, dunque, abbiamo un’altra perfetta corrispondenza con le logiche del diritto internazionale. Lettura statica, Art. 4 Tue: Finita la premessa è il momento di analizzare l’Art. 4 tue: guardiamo il paragrafo 1: “In conformità dell'articolo 5, qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.” Questo è il principio di attribuzione delle competenze che è un principio cardine del diritto delle organizzazioni internazionali: tutte le organizzazioni internazionali si basano sull’assunto di avere un mandato loro conferito dagli enti che le hanno create, mandato entro il quale devono limitare la propria azione. Quindi abbiamo un primo principio di riferimento del rapporto tra stati membri e Unione Europea: il principio di attribuzione che è perfettamente corrispondente al principio di specialità che regola l’allocazione di competenze tra stati e organizzazioni internazionali di cui detti stati fanno parte. È doveroso fare una considerazione: nel momento in cui questa norma viene introdotta nel diritto UE assume anche il “colore” di questo diritto e in effetti l’art. 4 paragrafo 1 ci presenta una versione del principio di attribuzione delle competenze peculiare: abbiamo una versione in negativo del principio perché, nell’art.4 paragrafo 1 non si dice che “l’UE agisce nell’ambito delle competenze che le sono attribuite” che è ciò che invece viene asserito nella versione classica del principio di attribuzione delle competenze, qui si dice infatti che le “competenze che non sono attribuite all’unione restano agli stati membri”. È una versione particolare del principio di attribuzione delle competenze. Facciamo un passo in più, l’Art. 5 Tue paragrafo 1: “La delimitazione delle competenze dell'Unione si fonda sul principio di attribuzione”. Questa è una versione standard e generale del principio di attribuzione delle competenze: a noi interessa il secondo paragrafo. Guardiamo allora il paragrafo 2 dell’art 5 TUE: “In virtù del principio di attribuzione, l'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti.” Questa è una versione classica e canonica del principio di attribuzione delle competenze. Continuando a leggere il paragrafo 2: “Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri.” Qui abbiamo una versione negativa e positiva del principio di attribuzione delle competenze, tra l’altro la versione negativa è identica a quella che troviamo nell’Art.4 TUE. Aggiungiamo un altro elemento Art. 3 Tue, articolo molto importante che è dedicato agli obiettivi che si prefigge l’Unione. Guardiamo l’ultimo paragrafo: “L'Unione persegue i suoi obiettivi con i mezzi appropriati, in ragione delle competenze che le sono attribuite nei trattati.” Alla luce degli articoli esaminati noi possiamo affermare che abbiamo nell’ambito dei primi 5 articoli del Tue, fatta eccezione per il primo e il secondo articolo, gli artt.: ● Art. 3 §6 ● Art. 4 §1 ● Art. 5 §1,2 I quali ribadiscono il principio di attribuzione delle competenze tant’è che si potrebbe pensare che tale principio sia un po’ un’ossessione. Per cui ci chiediamo perché ciò avviene? ● La prospettiva della Corte di giustizia che vuole invece ribadire il primato del diritto UE per preservarne l’autonomia e affermare che devono esservi dei limiti all’invocazione delle identità nazionali altrimenti si arriverebbe ad un unilateralismo spinto che può portare alla disgregazione del processo di integrazione. La clausola della identità nazionale pone dei problemi evidenti perché conferisce agli stati un grimaldello che potrebbero utilizzare per scardinare talune norme del diritto UE. La norma esaminata afferma che la sicurezza nazionale resta di competenza esclusiva di ciascuno stato membro e ancora una volta la matrice è qui intergovernativa, è un’affermazione ulteriore del principio di attribuzione delle competenze e se io mi limitassi a una lettura statica della norma dovrei concludere che vi sono degli ambiti (come appunto quello della sicurezza nazionale) in cui l’UE non può intervenire, ma è davvero così? (lo vedremo più avanti). Ultimo principio richiamato dall’Art.4 §3 Tue è il principio di leale cooperazione: “In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati.” Questa è la definizione che ci consegna il TUE, questa è una definizione che evoca altri principi: ad esempio il principio di buona fede nell’esecuzione dei trattati, pacta sunt sevanda, ma non è l'unico. Subito dopo l’Art.4 §3 afferma: “Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione.” “Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione.” Queste 2 norme declinano il principio di leale cooperazione individuando degli obblighi positivi e negativi. Quindi nella prima frase viene definito il principio in quella successiva vengono individuati gli obblighi che conseguono all’affermazione del principio stesso. La peculiarità di questo paragrafo sta nel fatto che nella prima parte afferma che “l’Unione e gli stati si rispettano e si assistono reciprocamente”, per cui si intende che il principio si applica sia all’Unione che agli stati; nei paragrafi successivi, invece, si declina il solo principio riguardo agli stati senza fare riferimento a obblighi di leale cooperazione che l’UE deve nei confronti degli stati. Il motivo per cui ciò avviene, risponde ad una: Ragione storica: questa norma è un risultato della stratificazione dei trattati, in realtà le ultime 2 frasi sono da sempre presenti nel diritto UE e in particolare erano presenti nell’art 5 del trattato istitutivo della comunità economico europea. La prima frase, così come la leggiamo oggi, è il risultato di una modifica introdotta a Lisbona, prima di Lisbona si faceva riferimento solo alla leale cooperazione degli stati rispetto all’Unione ma con Lisbona si introduce il concetto di reciprocità, ma in realtà Lisbona codifica una giurisprudenza della Corte di giustizia che aveva già affermato la reciprocità del principio. Ragione logico-sostanziale: qual è il potere esecutivo dell’UE? Non è la Commissione ma sono gli stati membri, stati che dunque devono dare applicazione al diritto UE; quindi, ha perfettamente senso che siano gli stati i soggetti primariamente destinatari degli obblighi di leale cooperazione, perché spetta anzitutto a loro garantire il raggiungimento degli obiettivi contenuti nei trattati. Ancora una volta questa è una visione che ci viene consegnata dal diritto delle organizzazioni internazionali. Lettura dinamica, Art. 4 Tue: Attraverso una lettura dinamica dell’Art.4 TUE si evidenzia come, i principi di cui all’art.4 TUE, in realtà acquistino all’interno di questo ordinamento delle peculiarità di dinamismo che consentono all’ordinamento di progredire e hanno consentito all’ordinamento di preservarsi in contesti di crisi. La lettura dinamica dobbiamo effettuarla ribaltando l’ordine seguito nella lettura statica: partiamo dunque dalla leale cooperazione perché questo principio è in realtà quello che colora tutti gli altri attribuendo dinamismo e flessibilità a tutto l'impianto. Il principio di leale cooperazione vuole che stati membri UE e l’Unione congiuntamente si assistano al fine di perseguire gli obiettivi dell’ordinamento. A tal fine si insiste sugli obblighi che cadono sugli stati membri nel senso che questi devono adottare tutte le misure necessarie per garantire l’efficacia del diritto UE e astenersi da quelle condotte che potrebbero inficiare il perseguimento degli obiettivi. Vediamo come questo principio all’interno di una situazione emergenziale (in particolar modo la pandemia) ha operato al fine di riscrivere il riparto di competenze tra gli stati membri e l’Unione; quindi, ha riletto in una chiave più dinamica il principio di attribuzione delle competenze. Per capire come ciò sia avvenuto guardiamo 2 esempi: 1) Esempio 1: Comunicazione (non giuridicamente vincolante) adottata dalla Commissione europea nel marzo 2020 durante il lockdown con la quale la Commissione decide di assumere una iniziativa che riguarda i blocchi posti in essere dagli stati membri per l’ingresso nell’UE nel loro territorio da parte di soggetti provenienti da stati terzi. Bisogna tenere presente che gli stati mantengono le prerogative pertinenti il controllo delle frontiere, comprese quelle interne; in particolar modo ciò vale quando si tratta di preservare la salute pubblica, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico, per cui è normale che uno stato, in un contesto come quello pandemico, abbia deciso di introdurre unilateralmente delle limitazioni stringenti nei viaggi verso il suo territorio da parte di soggetti di stati terzi. Tuttavia, secondo la Commissione l’agire unilaterale degli stati membri può rappresentare un problema, infatti in questa comunicazione la Commissione si occupa del tema. Nonostante la comunicazione sia di per sé uno strumento non giuridicamente vincolante, finisce con il delineare un meccanismo di cooperazione che finisce con l’imporre degli obblighi sugli stati membri. Nella comunicazione ci si interroga sugli effetti che le misure unilaterali, adottate dagli stati membri per preservare la salute pubblica, possano avere su alcuni pilastri della cooperazione posta in essere nell'UE, a partire dalla dimensione Schengen. La Commissione in particolar modo nella sua comunicazione afferma che occorre unmeccanismo di cooperazione concertata non solo perché un singolo stato non può solo con il suo operato impedire che il virus si propaghi ma soprattutto perché la sommatoria degli agire unilaterali dei diversi stati membri ha ricadute sul funzionamento di alcuni elementi fondanti dell’ordinamento giuridico dell’UE: si pensi al mercato unico e lo spazio Schengen, che sono 2 dimensioni che rappresentano altresì 2 obiettivi che l’Unione persegue. Dunque, la condotta unilaterale degli stati può mettere in pericolo la realizzazione di tali obiettivi e dunque gli stati alla luce del principio di leale cooperazione dovrebbero astenersi da tale condotta e sviluppare congiuntamente alla Commissione europea una piattaforma di coordinamento. È in questo passaggio che il documento si trasforma, non è più un mero documento che definisce una posizione di policy della Commissione e diviene un documento che ricorda agli stati gli obblighi di leale cooperazione che hanno assunto e che ridefinisce l’allocazione di competenze. Ora bisogna fare una precisazione, se ci fermiamo a una lettura meramente statica dell’art.4 TUE non c’è dubbio che gli stati possano adottare le suddette misure restrittive, il problema è che, quando la loro condotta, teoricamente legittima, è in grado di produrre un nocumento alla realizzazione di obiettivi dell’Unione, questa legittimità ad agire non c’è più o, meglio, c’è ancora ma lo stato dovrà tener conto dell’esigenza di preservare gli obiettivi dell’Unione. Quindi l'obbligo di coordinamento che deriva da questo strumento in realtà deriva direttamente dal principio di leale cooperazione; quindi, in realtà la fonte che dà forza giuridica all’obbligo di coordinamento è appunto il principio di leale cooperazione che ridefinisce l’allocazione di competenze. 2) Esempio 2: siamo sempre nel contesto pandemico, più in particolare a maggio 2020 quando alcuni stati stanno uscendo dal lockdown e stanno adottando decisioni per eliminare o attenuare le limitazioni introdotte per far fronte al coronavirus. Viene emesso un altro documento definito congiuntamente da 2 istituzioni dell’UE: Commissione europea e Consiglio Europeo. In questo documento, tenuto conto delle misure adottate dagli stati per restringere la circolazione, ci si interroga sulle misure che devono essere adottate al fine di garantire un ritorno alla normalità che sia sostenibile sul piano dell’UE e si individuano dei principi che devono guidare l'azione di tutti gli stati. Analizzando il documento è evidente che ritorna l’idea dell’interesse comune e dell’approccio comune nel depotenziare le misure restrittive adottate per far fronte al covid 19. Nel documento ritorna l’idea che era già emersa nel documento analizzato prima, cioè si dice che le misure unilaterali degli stati non solo non sono particolarmente efficaci per gestire la situazione pandemica ma la sommatoria di tutte le misure unilaterali è in grado di produrre conseguenze molto gravi su alcuni degli elementi comuni del processo di integrazione, a partire dalla dimensione del mercato interno della libera circolazione delle persone, delle merci e dei servizi. Da qui ancora una volta l’esigenza, che deriva dal principio di leale cooperazione, di adottare unmeccanismo comune. I principi individuati sono 4: ● Si dice che le misure che vengono adottate devono essere adottate tenuto conto dei riscontri oggettivo-scientifici ● L’azione deve essere coordinata tra gli stati membri e si spiega in che senso deve essere coordinata: cioè, l’obbligo di coordinamento si traduce in un obbligo di comunicazione e condivisione tramite una notifica anticipata delle misure che un singolo stato intenderebbe adottare, tale comunicazione deve essere rivolta agli altri stati membri e alla Commissione, e lo stato dovrà poi tenere conto delle opinioni manifestate dagli altri stati membri e dalla Commissione. Questo principio può sembrare irrilevante perché, se effettuiamo una lettura meramente statica dell’attribuzione delle competenze in materia di salute notiamo che NON esiste il suddetto obbligo di comunicazione e che tutt’al più in materia di salute l’Unione deve limitarsi ad un’azione di mero supporto, tale da non imporre di per sé degli obblighi di coordinamento agli stati. Ma con questo principio viene consentito un intervento creativo che impone agli stati obblighi e che quindi esprime una competenza dell’Unione che si fonda sulla leale cooperazione. ● Rispetto reciproco tra gli stati ● Solidarietà reciproca tra gli stati Questo è il meccanismo adottato dal documento: attraverso la tutela degli elementi fondanti dell’ordinamento si ridefiniscono le competenze e il veicolo è il principio di leale cooperazione. Uscendo dal contesto pandemico, vediamo altri 2 esempi che aiutano a valutare l’impatto che il principio di leale cooperazione può avere su talune prerogative sovrane degli stati membri, in particolare su quella della sicurezza nazionale che l’Art.4 §2 Tue definisce una competenza esclusiva degli stati membri, sicché ne dovremmo derivare che l’UE non possa in quell’ambito adottare alcun tipo di atto e imporre alcun tipo di obbligo. Guardiamo gli esempi: 1) Regolamento che è stato adottato nel 2019 e che introduce un meccanismo di screening per gli investimenti diretti esteri che sono realizzati dagli stati membri. Questo regolamento introduce un meccanismo che consenta di verificare attraverso una condivisione fra gli stati membri e la Commissione europea se le operazioni che si configurano come investimenti diretti esteri in un determinato stato dell’Unione possono rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale di altri stati. In questo caso scatta un meccanismo di allert che prevede una concertazione: si prevede che lo stato destinatario dell’investimento comunichi alla Commissione e agli altri stati le caratteristiche dell’investimento in modo che la Commissione e gli altri stati possano valutarne l’impatto e laddove uno o più stati membri evidenzino dei rischi per la sicurezza nazionale, a questo punto possono con la Commissione elaborare una posizione che deve essere considerata dal paese di destinazione La questione non è irrilevante perché in alcuni documenti che qualificano la signora c’è la particella nobiliare mentre in altri no e questo crea problemi quando si circola nel mercato unico all’interno dell’UE, quindi il tema è che la signora ritiene che la decisione adottata dalle autorità Austriache di non registrare il suo cognome nella formula originaria costituisca una violazione del diritto UE oltre che un ostacolo alla possibilità della signora di poter esercitare le libertà connesse al diritto UE. Nasce un contenzioso e si va di fronte alla autorità giurisdizionale austriaca la quale afferma, dunque, che le autorità austriache non abbiano violato alcuna norma del diritto UE in quanto hanno correttamente applicato una legge dotata di rango costituzionale funzionale a garantire l’eguaglianza formale dei cittadini austriaci. La signora la pensa in modo opposto e riesce a convincere il giudice interno ad avvalersi del rinvio pregiudiziale al fine di ottenere, prima di adottare la decisione finale sul caso un intervento interpretativo della corte di giustizia in merito alla compatibilità della normativa austriaca è compatibile con il diritto UE. Secondo la Corte il diritto UE non osta alla possibilità dello stato austriaco di adottare una norma siffatta che è ritenuta espressione di una identità nazionale dello stato: inoltre, la Corte nella sua sentenza elabora un test che deve essere utilizzato al fine di chiarire se un’identità nazionale può essere legittimamente invocata dallo stato membro. Il test è su 2 punti: Anzitutto la Corte cerca di individuare la ratio della identità nazionale che viene invocata dallo stato, e in questo caso viene in aiuto lo stato stesso che spiega alla corte di giustizia qual è la ratio: ossia garantire l’eguaglianza formale dei cittadini austriaci davanti alla legge. Dopo di che occorre verificare se questa esigenza, che è espressione di una identità nazionale, sia compatibile non con una qualsiasi norma del diritto UE, ma con gli elementi di struttura del diritto UE. In questo caso è facile dire che c’è compatibilità perché tra gli elementi di struttura dell’ordinamento UE vi è lo stesso principio; quindi, per la corte è facile dire che questo elemento può essere valorizzato in quanto è valorizzato anche nel diritto UE. Dunque, quando c’è compatibilità con elementi di struttura dell’ordinamento UE gli stati sono legittimati a invocare le identità nazionali, però quando non c’è questa compatibilità non possono farlo. Tutto questo mi consente di trovare un bilanciamento tra ruolo degli stati e ruolo della corte di giustizia, bilanciamento reso possibile da un dialogo e il bilanciamento sta nel fatto che gli stati possono invocare un’identità nazionale: tuttavia occorre verificare che quell’elemento di struttura dell’ordinamento nazionale non entri in conflitto e non crei nocumento con/a un elemento di struttura dell’ordinamento UE. Per concludere chiediamoci questo: cosa fa la Corte di giustizia esattamente in questa sentenza? sta applicando dei controlimiti alla teoria dei controlimiti. Questa capacità dell’Art. 4 Tue di manifestare capacità di adattamento funziona fin tanto che funzionano 2 premesse su cui poggia il principio di leale cooperazione. Le premesse sono: 1) La prima ce la ricorda l’art 4 §3 Tue che afferma che la leale cooperazione èmutua 2) Il principio di leale cooperazione è finalizzato al raggiungimento degli obiettivi dell’Unione, è finalizzato a costruire l’integrazione giuridica, ma l’integrazione giuridica la posso creare solo se vi è mutua fiducia tra gli stati e la mutua fiducia a sua volta poggia sulla premessa che gli stati rispettino i medesimi valori fondamentali: se viene meno questa premessa viene meno la mutua fiducia e viene meno il presupposto che permette al principio di leale cooperazione di operare correttamente. Dobbiamo capire se è possibile costruire obblighi di leale cooperazione in capo alle istituzioni e dobbiamo interrogarci sulla capacità del sistema di garantire il rispetto dei valori fondamentali. Bi-direzionalità e rispetto, da parte degli stati, dei medesimi valori. Abbiamo parlato dell’Art.4 Tue alla luce del principio di leale cooperazione, principio che per funzionare correttamente richiede due presupposti i quali, se entrano in crisi, il principio di leale cooperazione faticherà a svolgere la funzione di cui parlato poc’anzi: ● Bi-direzionalità ● Rispetto da parte gli stati dei medesimi valori. Bi-direzionalità: qui la prassi aiuta molto poco. La Corte di giustizia sembra allineata a quella che è l’impostazione dell’Art. 4 §3 il quale è evocato ai fini della determinazione degli obblighi degli stati membri, il che è bizzarro se pensiamo che è proprio la corte di giustizia UE la prima istituzione UE ad affermare la bi-direzionalità del principio di leale cooperazione. La Corte ha parlato in più sentenze di mutuo rispetto senza però poi declinare più di tanto questo mutuo rispetto in termini di obblighi per le istituzioni UE semmai è avvenuto il contrario: la Corte ha sempre più delineato gli obblighi che ricadono sugli stati membri. Possiamo notare questa attitudine della Corte, in merito ad un esempio relativo ad una sentenza del 2010 in una procedura di infrazione che ha visto contrapposte la Commissione europea e la Svezia. ***La procedura di infrazione è una procedura di tipo giurisdizionale che consente alla corte di giustizia UE di accertare il rispetto di obblighi sovranazionali da parte degli stati membri. Di regola la procedura è avviata dalla Commissione europea che opera nell’interesse generale, ma è possibile che anche i singoli stati possano avviare la suddetta procedura. *** Ci muoviamo nel contesto di un regime convenzionale specifico quello relativo alla Convenzione di Stoccolma su inquinanti organici persistenti: è una convenzione stipulata a livello internazionale il cui obiettivo è individuare una lista di sostanze che hanno una capacità di inquinamento che perdura nel tempo e che in virtù di ciò devono essere proibite, cioè non devono essere messe in commercio negli stati che hanno aderito alla convenzione. La convenzione opera secondo un sistema della lista: il segretariato della convenzione è il depositario di una lista “nera”, questa lista può essere sottoposta a modifiche le quali normalmente, sono nel senso di aggiungere delle sostanze alla lista. Ogni parte può proporre di aggiungere nuove sostanze, viene poi assunta una decisione a livello convenzionale e se questa decisione è positiva la sostanza proposta viene scritta nella lista nera e sarà sottoposta al regime restrittivo che deriva dalla convenzione. Dal lato UE tutti gli stati membri sono parti della convenzione così come l’UE stessa è parte della convenzione: dal lato UE la convenzione di Stoccolma rappresenta un accordo misto. Questi sono accordi internazionale del quale sono parti tanto gli stati membri UE quanto l’Unione e si adottano quando la materia che viene regolamentata ricade in parte nel mandato dell’UE e in parte resta di competenza degli stati membri, verificandosi quella che è una sovrapposizione di competenze assurgendo l’intervento dell’UE e stati. In particolare, l’Unione interviene per quanto concerne le disposizioni dell’accordo che insistono sulle sue competenze, gli stati invece per le parti dell’accordo che insistono sulle loro competenze. La Svezia, che ha una sensibilità ambientale elevata, vorrebbe iscrivere nella lista nera una nuova sostanza e, a motivo della particolare architettura istituzionale dell’accordo, pone la questione a livello sovranazionale: chiedere al consiglio dell’UE di assumere una posizione comune sull’iscrizione della sostanza in questa lista da proporre al segretariato della convenzione. Quindi viene chiesto che sia il consiglio, tanto per l’Unione tanto per gli stati membri, a proporre al segretariato della convenzione che venga iscritta questa nuova sostanza. Il problema è che nel consiglio non si riesce, per motivazioni di disaccordo politico, a pervenire ad una sintesi, cioè il consiglio non è in grado di adottare una posizione comune, allora succede che dopo aver provato questo percorso unitario la Svezia decide di muoversi unilateralmente e propone al segretariato l’iscrizione della sostanza. A questo punto si inserisce la reazione della Commissione europea che ritiene che la condotta della Svezia configuri una violazione del diritto UE e in particolare una violazione del principio di leale cooperazione perché con la sua condotta la Svezia avrebbe messo in pericolo l'unità della rappresentazione internazionale dell’UE e tale unità è un obiettivo che si prefigge l’organizzazione. Quindi secondo la Commissione, la Svezia avrebbe posto in essere una condotta che mette in pericolo un obiettivo dell’UE il che è proibito dal principio di leale cooperazione. Gli agenti svedesi (gli agenti sono i rappresentanti dello stato nel procedimento di fronte alla corte di giustizia) di fronte alla Corte di giustizia dicono che non vi fosse violazione del principio di leale cooperazione facendo leva sul fatto che lo stato prima di agire unilateralmente aveva provato a ottenere una posizione comune presso il consiglio dell’UE. La Svezia inoltre, afferma che, non consentire allo Stato di agire unilateralmente costituisca una violazione del principio di leale cooperazione ma la violazione non sta nel fatto che il Consiglio non abbia raggiunto una posizione comune in quanto essa comunque una decisione politica, quanto più nel fatto che la Commissione porti uno stato (Svezia) dinanzi la Corte di giustizia censurando la sua condotta sostenendo che gli Stati membri, che sono parte di una convenzione, non possano agire unilateralmente fino a quando l’UE non abbia raggiunto una posizione comune, posizione che però potrebbe arrivare dopo anni o non arrivare mai. Quindi di fatto si sta dicendo che tu stato membro UE sei parte della convezione ma non può esercitare i tuoi diritti di parte contraente perché quei diritti rischiano di entrare in conflitto con una posizione comune che di fatto non c'è e che potrebbe essere adottata dal consiglio. Occorre quindi un bilanciamento perché da un lato abbiamo l’esigenza di tutelare la rappresentanza unitaria dell’UE sul piano internazionale, dall’altro lato però vi è la necessità di garantire agli stati in quanto stati di poter avere uno spazio di società sul piano internazionale che è formalizzato dalla loro partecipazione a un accordo internazionale e poi c’è un elemento in più, cioè la condotta di questo stato, la Svezia, è perfettamente conforme agli obiettivi dell’UE: il perseguimento del più alto livello di tutela ambientale in tutte le politiche dell’Unione è un obiettivo dell’Unione Europea. Questa è la posizione della Svezia. La cosa sorprendente è che la Corte di giustizia ha completamente ignorato questo argomento e ha valorizzato l’argomento della Commissione, condannando dunque la Svezia per violazione del principio di leale cooperazione. L’atteggiamento della corte che deriva da questa sentenza non è un atteggiamento isolato ma è parte di un trend in cui la Corte di giustizia valorizza solo gli obblighi di leale cooperazione degli stati e ciò porta a una situazione di sbilanciamento che alla lunga potrebbe portare a qualche crepa nell’integrazione giuridica. È rischioso continuare questo trend perché vi è il rischio che gli stati inizino a porre delle questioni. Questa cosa è tanto vera che negli ultimi tempi si assiste a un fenomeno interessante: negli ultimi tempi le pronunce della Corte di giustizia che menzionano il principio di leale cooperazione sono sempre meno, questo principio è molto presente nella giurisprudenza della corte di giustizia però negli ultimi anni è sempre meno presente. Perché la corte nelle sue sentenze cerca sempre di più di individuare una soluzione alternativa che porti al medesimo risultato senza menzionare il principio di leale cooperazione? Perché teme che gli stati contro-argomentino alla luce della bi-direzionalità mettendo in discussione gli obblighi che la Corte fa derivare dal principio. Quindi per evitare questo rischio la Corte individua un’altra argomentazione giuridica che le consente di pervenire al medesimo risultato. Appurato che la giurisprudenza non ci aiuta, possiamo provare ad individuare degli elementi che valorizzati diano conto della bi-direzionalità della leale cooperazione? La risposta è forse positiva e ci viene fornita dall’Art. 4 Tue il quale contiene dei riferimenti che valorizzano delle peculiarità degli stati: prerogative sovrane e le identità nazionali. Alla luce di questo articolo vi è necessità di prendere in considerazione queste peculiarità operando un bilanciamento corretto, bilanciamento che al momento è difficile da raggiungere in quanto attualmente vi è una tendenza tale da favorire la dimensione sovranazionale e sfavorire quella nazionale. Il tema è però non neutralizzare eccessivamente elementi che per gli stati rappresentano fattori di particolare importanza. Facciamo un esempio per chiudere su questo punto, parliamo di una situazione in cui è stata invocata una violazione del principio di leale cooperazione da parte dell'Unione nei confronti degli stati: e il veto in seno alla istituzione politica che decide, che in questo caso è il Consiglio europeo. Il consiglio europeo PUO’ constatare ma non è obbligato. La terza fase: “Qualora sia stata effettuata una siffatta constatazione, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione del presente trattato, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell'agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche.” Questa è la fase delle sanzioni, sanzioni che sono connesse ai diritti di partecipazione: è data al Consiglio la possibilità di sospendere alcuni diritti di partecipazione dello stato trasgressore, a partire dai diritti che questo stato esercita nel contribuire al decision making o law making in seno al Consiglio: cioè, il diritto di voto. Qui la maggioranza è qualificata ma ordinaria e rimane il tema della discrezionalità: la decisione è una decisione politica non scrutinabile. Siamo di fronte a una procedura graduale che prevede una serie di salvaguardie nei confronti degli stati e che è in mano agli stati, cioè l’Art. 7 prefigura un controllo tra pari e quando si tratta di compiere un controllo tra pari le cautele aumentano nel prendere delle decisioni volte a censurare una determinata condotta in quanto si teme che in futuro la medesima sorte, la medesima sanzione, potrebbe toccare a un altro stato; quindi c’è un po’ di cautela ed è la stessa cautela per la quale nel procedimento di infrazione ordinario sono rari i casi in cui gli stati portano altri stati di fronte alla Corte di giustizia, perché si teme che poi gli stessi stati saranno sottoposti al medesimo trattamento. Quindi è una procedura che è in mano agli stati ed è ovvio che sia così perché l’art. 7 tue è stato scritto proprio dagli stati. L’Art. 7 Tue è stato attivato fino ad oggi in 2 fasi molto recenti che riguardano Polonia e Ungheria, stati nei cui confronti è stato attivato l’Art.7 §1 e dunque il Consiglio ancora oggi non ha preso una decisione e la procedura è ancora pendente. Quindi l’art 7 ad oggi non ha mai portato ad una decisione e la ragione di questo mancato funzionamento risiede nel fatto che nel settembre 2012 l’allora presidente della Commissione europea Barroso tenne il discorso sullo stato dell'Unione. Il 2012 è un anno in cui si iniziano a vedere i problemi dell’Ungheria e dalla riforma costituzionale che aveva adottato un anno prima strumentale alla trasformazione della stessa in una democrazia illiberale. Nel dare conto di questi primi segnali preoccupanti, Barroso dice che l’UE deve reagire ma per fare ciò deve uscire dall’alternativa secca che ha oggi: tra l’esercizio di un soft power di carattere politico e l’impiego della soluzione nucleare (queste sono le parole testuali) rappresentato dall’art. 7 Tue. Il presidente della commissione europea nel 2012 qualifica l’art.7 Tue come un’opzione nucleare. Il punto è che questo strumento, che per le cautele che lo circondano è completamente diverso da uno strumento di distruzione di massa, essendo stato descritto in questo modo è stato destinato all'inutilità perché si teme che possa portare a conflitti tra stati capaci di distruggere il tessuto dell’integrazione normativa che ha dato vita al processo di integrazione dell’Unione. È evidente che bisogna cercare altre strade. Altri meccanismi di reazione di fronte a stati membri trasgressori Considerando il fatto che l’Art.7 Tue non è una misura efficace per reagire alle violazioni degli stati membri concernenti i valori fondamentali UE, occorre guardare quali sono le alternative messe in campo dall’UE. La prima alternativa dal punto di vista cronologico è un approccio messo in piedi dalla Commissione europea e dalla Corte di giustizia per fare fronte alle prime violazioni, in particolare dello stato di diritto, da parte dell’Ungheria. L’Ungheria nel 2011 cambia la Costituzione, la nuova costituzione risente di un approccio ideologico fortemente ispirato dal ritorno al sovranismo nazionale-giuridico. Questo cambio di Costituzione dà avvio a una serie di riforme che, grazie alla maggioranza di Fidesz (si legge fidesh) in Parlamento, determina delle modifiche di tipo sistematico dell'ordinamento, con particolare riguardo all’ordinamento giudiziario. Una di queste misure, che scatena la reazione dell’UE, consiste in una riforma introdotta volta ad abbassare l’età per il pensionamento di magistrati e notai a 62 anni. Ora, di per sé questa è una misura neutra e generale, ma se guardiamo le sue ricadute è evidente quale sia l’intendimento del legislatore, l’intendimento è quello di sostituire una generazione di magistrati che è quella più lontana dalla nuova situazione politica e quindi più indipendente e imparziale, con una nuova generazione di magistrati più vicina alle nuove istanze politiche. Quindi quella che è apparentemente una misura neutra è in realtà una misura che attenta all’autonomia della magistratura e dunque potrebbe qualificarsi come una violazione sistematica dello stato di diritto, laddove il concetto di stato di diritto è un concetto che ingloba in sé anche la necessità di una separazione dei poteri e quindi l’indipendenza della magistratura. La decisione assunta dalla Commissione europea non è quella di attivare l’Art. 7 Tue (anche perché sarebbe paradossale una simile mossa da parte della Commissione di Barroso che ha definito come arma atomica tale articolo) ma decide di avviare una procedura di infrazione ordinaria, procedura che consiste nel porre una questione di carattere giurisdizionale di fronte alla Corte di giustizia affinché questa valuti il comportamento dello stato. Però il tema è che alla corte di giustizia non si può porre una questione relativa alla violazione dell’Art.2 Tue perché per quello esiste un procedimento ad hoc che è l’Art. 7 tue che è lex specialis rispetto alla procedura di infrazione ordinaria, ma non solo: esiste anche il dubbio che l’Art. 2 possa considerarsi produttivo in quanto tale di obblighi giuridici per gli stati. L’art. 7 tue è lex specialis rispetto alla procedura ordinaria di infrazione sicché non si può attivare la seconda in sostituzione della prima e allora la Commissione, attivando la procedura di infrazione ordinaria, individua una violazione diversa: non la violazione della rule of law di cui Art. 2 tue ma la violazione di una norma contenuta in una direttiva: la direttiva 2000/78 che è una direttiva importante in quanto ribadisce il principio di non discriminazione con riguardo alle condizioni di lavoro e in particolare qui si fa riferimento alla non discriminazione sulla base dell’età. Qual è il ragionamento della Commissione? L’Ungheria ha adottato una legge che prevede l’abbassamento della età pensionabile solo per notai e magistrati, questi ultimi sono dipendenti pubblici. Il punto è che SOLO per magistrati e notai si è proceduto ad un abbassamento dell’età pensionabile. La conseguenza è che per tutti gli altri impiegati pubblici permane l’età limite precedente. Quindi la Commissione afferma che si è introdotta una differenziazione ad hoc che riguarda 2 categorie specifiche, detto in altri termini si è discriminato sulla base della età magistrati e notai rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici. Sulla base di questa argomentazione la Commissione europea porta l’Ungheria di fronte alla corte di giustizia e il medesimo ragionamento è fatto dalla stessa Corte al fine di condannare l’Ungheria per violazione della direttiva 2000/78. In questi primi anni di riforme ungheresi (tra cui riforma banca centrale nazionale, riforma autorità garante per i dati), la reazione UE che viene individuata consiste nell’avviare procedure di infrazione ordinarie che traducano in termini tecnici le violazioni di valori fondamentali che stanno a monte di queste riforme. Il problema di questo approccio sta tutto qui: sta nel fatto che si sta riqualificando una violazione di valori fondamentali come violazione tecnica di una norma neutra di diritto UE; ma violare valori fondamentali è diverso da violare il contenuto di una direttiva sicché questo tipo approccio, non cogliendo la gravità della condotta degli stati, rischia di non riuscire a dare vita a una reazione parimenti significativa, con la conseguenza che gli stati interessati possono non avvertire l’esigenza di mutare il proprio comportamento. Vi è poi un altro problema di questo approccio: la procedura di infrazione ordinaria sotto intende l’infrazione, cioè ci deve essere una violazione affinché si possa avviare la procedura di fronte alla Corte; mentre la lex specialis di cui Art. 7 è attivabile anche laddove vi sia un rischio grave e evidente di violazione. Il problema è dunque che attivando la procedura di infrazione ordinaria non è possibile prevenire la condotta ma è possibile solo agire ex-post e questo è decisamente un limite. Questa è la ragione per cui le istituzioni politiche ricercano altre soluzioni... ...Un altro strumento... individuato dalla Commissione nel 2014 consiste nella ideazione di un quadro sullo stato di diritto UE. Il presupposto dell’azione della Commissione sta nella importanza che viene data dalla Commissione europea alla necessità del rispetto da parte degli stati membri dello stato di diritto. Il ragionamento fatto muove dalla constatazione che il concetto di stato di diritto racchiude in sé una serie di principi: principio di legalità, principio della certezza del diritto, principio del divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, il principio di indipendenza e imparzialità del giudice, il controllo giurisdizionale effettivo anche per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali, l’uguaglianza di fronte alla legge. L’idea è che siamo di fronte ad un valore che in realtà è un super valore perché al suo interno consente di rappresentare anche gli altri valori su cui si fonda l’UE, la separazione dei poteri che è espressione dello stato di diritto è anche connessa strutturalmente al concetto di democrazia, la tutela dei diritti fondamentali è connessa all’esistenza di un sistema giurisdizionale che è in grado di garantire un controllo giurisdizionale pieno ed effettivo di detti valori, l’uguaglianza degli individui davanti alla legge è pure espressione del principio-valore stato di diritto. La Commissione ritiene che tutelando lo stato di diritto come super valore si possano di conseguenza tutelare anche gli altri valori fondamentali di cui Art. 2 Tue. Queste sono le premesse che muovono la Commissione europea nell’adottare una comunicazione (che è un atto non vincolante giuridicamente) con il quale si introduce questo meccanismo. In cosa consiste il nuovo quadro sullo stato di diritto UE? Questo quadro consiste nell’introdurre un meccanismo strutturato di dialogo tra la Commissione europea e il paese membro nel quale si ritiene sussista un rischio di violazione significativa dello stato di diritto. Laddove la Commissione abbia questa convinzione, che può derivare da diverse fonti ( la Commissione può essere attenzionata da parte di individui che si rivolgono alla Commissione evidenziando le situazioni di un determinato stato che possono qualificarsi come violazioni presunte dello stato di diritto, ma può essere anche attenzionata dai rapporti periodici che sono predisposti dalla Agenzia europea per i diritti fondamentali), la Commissione può decidere di adottare nei confronti dello stato interessato un parere sullo stato di diritto. Il parere è un atto unilaterale (non giuridicamente vincolante) con il quale la Commissione si limita a fornire la propria valutazione sul rispetto dello stato di diritto di un paese dato. Ovviamente laddove vi siano timori questi timori sono manifestati in modo tale da inviare un messaggio allo stato e quindi in modo tale da determinare una reazione in quello stato. In seguito al parere possono verificarsi 2 scenari: 1) Lo stato decide di adeguarsi e cessa dai comportamenti controversi e si conforma al parere 2) Lo stato può ritenere di non doversi adeguare. In caso di persistenza nella trasgressione da parte dello stato ci può essere un altro passaggio, più forte, consistente nell’adozione da parte della Commissione di una raccomandazione sullo stato di diritto. La raccomandazione è un atto non giuridicamente vincolante, il cui contenuto è però più assertivo: innanzitutto la raccomandazione ha un destinatario specifico che è lo stato (questo non avviene nel parere), stato cui si raccomanda di tenere un comportamento che deve consistere da un lato nella cessazione delle condotte che violano lo stato di diritto e dall’altro lato nell’assunzione di condotte che la Commissione individua inmodo concreto per risolvere il problema. Nel fare ciò si pone un termine allo stato. Si tratta quindi di un atto decisamente più forte del parere. Decorso il termine possono verificarsi 2 scenari: 1) Lo stato si adegua 2) Lo stato non si adegua E a questo punto (se lo stato non si adegua) l’idea è che si possa avviare la procedura di cui Art.7 Tue: o la misura di early warning o il meccanismo che porta all’applicazione di sanzioni. È alla fine di tutto che noi capiamo qual è il senso di questa misura: noi abbiamo parlato di un dialogo strutturato tra stati (in una Cosa dice la Corte di giustizia nelle sentenze portoghesi? dice che l’Art 19 in questa seconda parte, che ci parla degli obblighi imposti agli stati membri, dà concreta attuazione del valore dello stato di diritto menzionato nell’art. 2 Tue. A primo impatto questa sentenza potrebbe apparire poco utile ma in realtà per apprezzare in pieno la giurisprudenza della Corte di giustizia bisogna vedere il disegno complessivo che emerge nel corso del tempo: c’è infatti un passaggio successivo che ci chiarisce qual è la portata dirompente di questa sentenza. Alla luce di quanto affermato dalla Corte nella suddetta sentenza, la Commissione europea potrà avviare procedure di infrazione contro la Polonia per le riforme sul sistema giudiziario per violazione dell’Art. 2 letto in combinazione con l’Art. 19 Tue e così succederà: la Polonia verrà condannata dalla Corte di giustizia per violazione congiunta degli artt. 2 e 19 Tue. Questo passaggio segna un cambio di approccio nell’utilizzo del procedimento di infrazione ordinario perché prima di quel momento si guardava l’infrazione come un’infrazione tecnica e questo portava a una svalutazione dell’infrazione compiuta dallo stato. Nel momento in cui io invece creo una connessione strutturale tra Art. 19 e 2 Tue io potrò condannare uno stato per violazione di stato di diritto, cioè la procedura di infrazione è in grado di catturare la dimensione sistematica e valoriale della violazione e ciò permette alla Corte di giustizia di compiere un sindacato sull’organizzazione del sistema giudiziario della Polonia, sindacato che tra l’altro è particolarmente approfondito. Il segno di questo cambiamento è evidente in un caso in cui la Commissione apre nel 2019 una procedura di infrazione contro la Polonia per una riforma simile a quella del 2011 avvenuta in Ungheria (abbassamento età pensionabile magistrati), procedura dove si parla di una violazione Art. 2 letto in congiunzione all’Art. 19 Tue. Viene dunque data alla Corte di giustizia una costruzione giuridica che le permette di valutare il rispetto dei valori fondamentali da parte degli stati membri: viene introdotto un meccanismo alternativo all’Art. 7 Tue. In questi procedimenti che riguardano la Polonia vengono fatte due obiezioni: I. In primo luogo, viene affermato che l’UE non ha competenza a sindacare le organizzazioni del sistema giudiziario di uno stato membro a questo argomento la Corte risponde affermando che, pur trattandosi di una materia che costituisce una prerogativa sovrana ciò non significa che vi sia una riserva generale al diritto UE. II. In secondo luogo, viene affermato che c’è una violazione dell’Art. 7, cioè la Commissione sta bypassando l’art. 7 introducendo un altro meccanismo rispetto a questa seconda critica la Corte risponde dicendo che questo è un meccanismo complementare che NON impedisce di attivare l’Art.7. Questo strumento è sicuramente più efficace in quanto, anzitutto la sentenza della Corte di Giustizia è vincolante ma anche perché permette di pervenire a situazioni in cui la Corte può comminare sanzioni economiche. Tuttavia, anche questo strumento presenta 2 limiti: 1) Per attivare tale strumento è necessario che vi sia una infrazione; cioè, questo strumento può essere utilizzato solo quando lo stato ha già posto in essere una condotta che viola lo stato di diritto. 2) Questo meccanismo funziona a condizione che io possa ancorare l’Art. 2 a un’altra disposizione (meglio se di diritto primario) che concretizza gli obblighi che ricadono in capo agli stati membri dalla necessità di rispettare i valori fondamentali. Questa non è una cosa da poco. L’altro limite, quindi, sta nel fatto che in alcuni casi è molto complicato individuare delle disposizioni che concretizzino il rispetto dei valori fondamentali e quindi può diventare molto complicato intraprendere questo percorso. Può essere utile vedere un ulteriore passaggio giurisprudenziale: guardiamo un passaggio che troviamo nel caso Repubblica. Parliamo di un caso che riguarda Malta, anche qui si tratta della tutela dei valori fondamentali da parte degli stati membri, qui la Commissione compie un passaggio interessante: afferma l’esistenza di un principio di non regresso nel rispetto dei valori fondamentali di cui Art. 2 e nel fare questo la Corte dice 2 cose. La prima cosa è ribadire che l’Art. 2 è collegato all’Art. 49 Tue, La seconda cosa è che, in virtù del collegamento funzionale tra gli Artt. 2 e 49, il rispetto dei valori fondamentali è condizione necessaria per il godimento dei diritti di membership, diritti di membership che trovano la loro definizione nell’Art. 49 che delinea anche gli obblighi che gli stati sono chiamati a rispettare. La Corte non lo dice espressamente ma sembra dire che è sufficiente l’art. 49 Tue a dare cogenza ai valori di cui all’Art. 2 e cioè sembra quasi che la Corte stia dicendo che la Commissione europea potrebbe non cercare la norma X o Y che dà forma al valore X o Y ma semplicemente avviare delle procedure di infrazione per la violazione dell’Art. 2 congiuntamente all’Art. 49 Tue. Bisogna tenere presente che la Corte NON lo ha detto espressamente. Questa sentenza (Repubblica) potrebbe in futuro potenzialmente permettere alla Commissione di avviare una procedura di infrazione in grado di portare a una sospensione di diritti dello stato trasgressore, anche al di fuori dei meccanismi dell’Art. 7 Tue. Facciamo un passo in più guardando un ulteriore sviluppo: questo sviluppo viene da lontano, da una proposta elaborata nel 2018 dalla Commissione per la tutela del bilancio dell’UE in caso di carenza generalizzata da parte degli stati membri rispetto allo stato di diritto. L’idea, che veniva da una iniziativa politica italiana, era quella di introdurre un sistema di condizionalità tale per cui laddove gli stati membri avessero posto in essere delle violazioni dei valori fondamentali (in particolare dello stato di diritto) fosse possibile intervenire bloccando delle elargizioni finanziarie nei confronti di questi stati. Questa proposta rimane nel cassetto per un po’ di tempo perché non si riesce a trovare nel Consiglio un accordo per procedere alla sua trasformazione in atto normativo. Nel 2020 però le cose cambiano: nel luglio si tiene una riunione lunghissima (dal 17 al 21 Luglio, è la riunione più lunga della storia del Consiglio, il che fa capire l’importanza della questione trattata) del Consiglio europeo in cui si discute del Next generation EU, cioè si definisce lo schema dello strumento più importante per l’UE per cercare di uscire dalla situazione di crisi determinata dal Covid. In questo Consiglio, tra le altre cose, si torna ad accendere un faro sulla questione della tutela dei diritti e valori fondamentali: il Consiglio afferma che la tutela degli interessi finanziari dell’UE deve andare di pari passo con la tutela dei valori fondamentali dell’Unione e in particolare dello stato di diritto e quindi torna l’idea di introdurre un meccanismo di condizionalità soprattutto per garantire la corretta implementazione da parte degli stati di Next generation EU. Non tutti gli stati sono favorevoli a questa prospettiva, ce ne sono 2 in particolare che vedono questa prospettiva in modo negativo: Polonia e Ungheria, tant’è che i primi ministri di questi 2 stati tengono un vertice nell’autunno del 2020 dove stringono un’alleanza in base alla quale laddove si proceda con l’introduzione di un meccanismo di condizionalità finanziario basato sul rispetto dello stato di diritto essi porranno il veto sull’adozione del quadro pluriennale finanziario dell’UE. Il quadro pluriennale è un atto che viene adottato all’unanimità dal Consiglio, che definisce la politica budgetaria dell’UE per i successivi 7 anni. L’UE ogni anno adotta un proprio bilancio ma il bilancio annuale si inserisce in una prospettiva strategica settennale che è definita dal quadro pluriennale finanziario e il quadro pluriennale finanziario alloca le diverse quantità di denaro sulle differenti politiche dell’Unione. Alla luce di quanto detto è chiaro che porre il veto sul quadro pluriennale finanziario significa bloccare lo sviluppo delle politiche UE, e nel caso concreto significava impedire l’attuazione di Next Generation EU; quindi, parliamo di una minaccia piuttosto insidiosa. A questa azione seguono una serie di negoziati che sono condotti prevalentemente dalla allora presidenza dell’Unione che in quel periodo (secondo semestre 2020) era tedesca e in particolare sarà la Merkel a condurre i negoziati. I negoziati hanno successo perché si riesce ad arrivare a un compromesso. Nel Dicembre 2020 si giunge a un compromesso, viene adottato il quadro pluriennale finanziario, viene adottato Next generation EU e viene adottato un regolamento che introduce un meccanismo di condizionalità quanto al rispetto dello stato di diritto in relazione alla tutela del bilancio dell’Unione e dei suoi interessi finanziari. Consideriamo alcuni aspetti del regolamento: il regolamento è il 2020/2092 ed è un regolamento che sostanzialmente, ha un ambito di applicazione puntuale e introduce un regime di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione, cioè il meccanismo di condizionalità che viene introdotto nonostante sia definito generale non ha una generale applicazione ma si applica esclusivamente con riguardo alla tutela del bilancio dell’Unione e dei suoi interessi finanziari: cioè si può attivare questo meccanismo solo laddove vi sia una violazione della rule of law da parte di uno stato membro che può incidere sulla tutela del bilancio o degli interessi finanziari dell’Unione. Ovviamente vi sono ipotesi di tutela della rule of law che rimangono esclusi da questo ambito di applicazione e ovviamente si parla solo di rule of law che è sì un concetto ampio ma tra i valori che comprende ne viene individuato solo 1 che è oggetto di specifica tutela. Come funziona questo regolamento? La Commissione europea monitora la condotta degli stati e può, laddove rivenga una situazione problematica, proporre al Consiglio l’adozione di sanzioni, è il Consiglio dunque che decide e le sanzioni, che sono oggetto di un monitoraggio perché non possono non essere proporzionate, consistono in meccanismi di sospensione dei finanziamenti. Questi meccanismi possono essere differenziati: vi può essere un’ipotesi in cui si sospende la firma di un grant agreement o ci può essere la possibilità di sospendere una rata di finanziamento che è dovuta a uno stato ecc. Dunque, le modalità concrete possono essere diversificate. Il concetto è che si colpisce lo stato con riferimento a forme di finanziamento di cui dovrebbe essere beneficiario che vengono sospese fino a quando la situazione problematica non viene meno. Ci troviamo dunque di fronte a un meccanismo piuttosto semplice. Il regolamento ha una definizione di stato di diritto e delle disposizioni che cercano di delineare quali possono essere le condotte degli stati che ne determinino l'attivazione: si parla ad esempio di minaccia all’indipendenza della magistratura o di mancata esecuzione di sentenze ecc. All’Art.4 del regolamento 2020/2092 vi è un tentativo di delineare quali sono le situazioni più puntuali che devono essere monitorate al fine di poter verificare se vi è stata una violazione dello stato di diritto. Ultimo elemento da considerare, il regolamento ha una base giuridica, cioè, è stato adottato sulla base di una disposizione di un trattato che è l’Art. 322 Tfue riguardante il bilancio dell’Unione. La base giuridica è importante perché è la disposizione, normalmente contenuta nei trattati, che autorizza il legislatore sovranazionale ad adottare strumenti giuridici vincolanti in un determinato ambito, ed è importante perché nell'autorizzare il legislatore pone anche dei vincoli quanto a ciò che il legislatore può fare (esempio: quando si dice che l’UE ha competenza in ambito ambientale noi non intendiamo dire che l’UE possa fare ciò che vuole nell’ambito ambientale, in quanto l’UE NON ha competenza piena, cioè l’UE può agire tenuto conto di quanto stabilito dalle basi giuridiche che si applicano in ambito ambientale e che definiscono i margini di azione concreta delle istituzioni). Guardiamo cosa dice l'Art. 322 Tfue su cui si basa il regolamento 2020/2092 (in particolare la lettera a) 1.“Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione della Corte dei conti, adottano mediante regolamenti: a. le regole finanziarie che stabiliscono in particolare le modalità relative alla formazione e all'esecuzione del bilancio, al rendiconto e alla verifica dei conti; b. le regole che organizzano il controllo della responsabilità degli agenti finanziari, in particolare degli ordinatori e dei contabili. 2. Il Consiglio, deliberando su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo e della Corte dei conti, fissa le modalità e la procedura secondo le quali le entrate di bilancio previste dal regime delle risorse proprie dell'Unione sono messe a disposizione della Commissione e determina le misure da applicare per far fronte eventualmente alle esigenze di tesoreria.” Questa è la base giuridica del regolamento. Perché abbiamo evidenziato questa dimensione e il tema relativo al tentativo da parte del regolamento di meglio precisare quali sono le situazioni che possono portare all’applicazione di una sanzione? Perché questi sono i 2 punti deboli del regolamento: c. consentire alle istituzioni dell'UE di consentire un sindacato invasivo sulle prerogative sovrane dello stato. Soffermiamoci sull'art. 1 che è l’articolo che istituisce l'UE, alla luce di ciò si può intuire che la reazione polacca è una bomba in termini giuridici: è una presa di posizione durissima in quanto si prefigura l’illegittimità costituzionale dell'UE, tanto è vero che c’è chi ha parlato di una sentenza che di fatto rappresenta un avvio di un recesso della Polonia dall'UE. È davvero così? siamo davvero di fronte a un recesso implicito e quindi non attivato attraverso l'Art. 50 Tue? In realtà potremmo escludere di trovarci di fronte a un recesso implicito perché l'autorità legittimata ad effettuare il recesso, sia pure implicito, verosimilmente non può coincidere con la Corte costituzionale polacca perché la Corte costituzionale non ha potere di indirizzo sul piano delle politiche estere del paese che competono di regola al governo. È difficile pensare che la Corte costituzionale possa assumere una decisione così importante sul piano politico. Ciò che possiamo affermare con certezza è che di fronte a questa presa di posizione polacca la reazione della Commissione è stata dura: è stato affermato che il diritto UE prevale sul diritto nazionale degli stati membri comprese le norme costituzionali e vi è stato un dibattito nella plenaria del Parlamento europeo dove il primo ministro polacco ha affermato che la Polonia non ha alcuna intenzione di uscire dall’UE. Quindi sicuramente possiamo affermare che dalla sentenza della Corte costituzionale polacca ne sia derivato un conflitto tra Ue e Polonia, ma allo stesso tempo questa sentenza non può essere qualificata come una forma di recesso dall’UE, neanche implicito. RECESSO: il recesso pre-Lisbona L’Art. 50 Tue è stato introdotto nel diritto primario dal trattato di Lisbona, a dire il vero già il trattato che adotta una costituzione per l’Europa aveva inserito questa clausola, il che può apparire paradossale perché con tale trattato si cerca di creare un processo costituzionale irreversibile ma allo stesso tempo si inserisce una clausola che consenta unilateralmente agli stati di uscire dalla UE. C’è una ragione di fondo della scelta di inserire una clausola per il recesso: durante i negoziati si era ragionato molto sull’esigenza di introdurre una clausola di salvaguardia finale per la tutela dei valori fondamentali dell’UE e in particolare si era ragionato di inserire una clausola per l’espulsione degli stati membri dall’UE. Non si è raggiunto un accordo e si è deciso di inserire una disposizione che consentiva su base volontaria agli stati di uscire unilateralmente dall’UE; l’idea è che la clausola di recesso dovesse essere utilizzata primariamente dagli stati in una situazione in cui non sentissero di dover più condividere con gli altri stati membri il medesimo impianto valoriale e non è un caso che ci si sia interrogato di ciò nel 2004 che è l’anno del grande allargamento: in qualche modo questa clausola è stata pensata per i nuovi arrivati e consentendo loro, laddove si fossero resi conto del disallineamento rispetto all’impianto valoriale dell’Unione, di potere uscire. Una volta che inserisco una norma in un trattato con una certa intenzione so che quella norma avrà vita propria e potrà essere usata per contesti diversi da quelli che mi sono prefigurato, e in effetti il paese che è uscito mediante l’Art. 50 non è un paese che presenta un disallineamento valoriale rispetto ai valori dell’Unione europea: parliamo ovviamente del Regno Unito. Ma prima di tutto questo, cioè prima che nell’ambito dei negoziati sul trattato costituzione si ragionasse su una clausola e prima che questa clausola fosse inserita nel trattato di Lisbona, uno stato membro avrebbe potuto recedere unilateralmente posto che i trattati nulla dicono in merito al recesso? Posto che le regole dell’organizzazione nulla dicono io dovrei tornare al diritto dei trattati e in particolar modo devo guardare l’Art. 56 della Convenzione di Vienna, articolo che riguarda l’ipotesi di denuncia o recesso da un trattato che non contiene disposizioni sulla denuncia o recesso. L’art. 56 prevede una regola generale cui appone 2 eccezioni: la regola generale è che, se il trattato tace questo silenzio va inteso come divieto di uscire unilateralmente, salvo che sussistano 2 ipotesi alternative e NON cumulative: a. Si può desumere che le parti contraenti intendevano comunque ammettere la denuncia o il recesso; quindi, è un criterio soggettivo che guarda l'intenzione delle parti (i criteri soggettivi sono ormai molto rari nel diritto dei trattati moderni, attualmente si prediligono i criteri oggettivi) b. Non guardo più l’intento delle parti ma la natura e l’oggetto del trattato e se questi mi consentono di desumere l’ipotesi di recesso o denuncia allora questa può essere consentita. Se proviamo ad applicare queste 2 situazioni ai trattati pre-Lisbona giungiamo a questa conclusione: difficile dire che l’ipotesi b sia soddisfatta perché l’Art.1 Tue parla di una unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa ed è chiaro che se guardo l’oggetto e il titolo del trattato faccio fatica a dire che una sempre più stretta unione ammetta il recesso unilaterale. Se invece guardiamo la volontà delle parti è più facile argomentare la sussistenza del diritto di recesso perché abbiamo elementi di prassi, ce ne sono 2: ● Uno è rappresentato da un referendum degli anni 80 del Regno Unito per recedere dall’UE che ci dà conto della piena ammissione da parte del regno unito dell’ipotesi di lasciare l’Unione prima di Lisbona; ● L’altro caso è un caso di recesso sui generis, recesso di un territorio sottoposto alla giurisdizione di uno stato membro (Danimarca), cioè la Groenlandia. Groenlandia che tramite una decisione unilaterale è stata svincolata dall’applicazione del diritto UE cui era sottoposta in origine. È ovvio che la Groenlandia non è uno stato e che questa è un’ipotesi meno pulita, ma allo stesso tempo ci dà conto del fatto che gli stati possono decidere unilateralmente di modificare l’estensione dei termini di giurisdizione dell’applicazione del diritto UE fino al caso estremo di recesso. Ovviamente quella che ho illustrato ora è la versione degli stati perché, se io guardo i pochi casi in cui le istituzioni UE si sono occupate pre-Lisbona del recesso mi rendo conto che la loro versione è diversa in quanto le istituzioni hanno sempre ragionato in ottica di irreversibilità dell’integrazione. Possiamo dunque dire che già prima di Lisbona era possibile recedere attraverso un ritorno al diritto internazionale e al diritto dei trattati. Segue: recesso oggi Oggi non abbiamo problemi a riconoscere l’ipotesi di recesso in quanto esiste l’Art 50 Tue che rappresenta la exit close. Art. 50 Tue: “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine” C’è poi un altro paragrafo, cioè il paragrafo 5 che dispone che uno stato che è uscito dall’UE può decidere di rientrare nell’Unione ma a tal fine deve riattivare la procedura di cui all’Art.49 Tue, e deve farlo perché in seguito al recesso è divenuto uno stato terzo e quindi rientra nella ipotesi canonica disciplinata dall’art.49. Sicuramente si può suppore che in un caso simile la procedura di adesione sia più veloce perché vi è una storia pregressa di incorporazione dell’acquis dell’ordinamento dell’UE. La lettura della norma ci consegna un meccanismo che apparentemente non è così complicato: uno stato che intende recedere notifica l’intenzione di recedere al Consiglio europeo e da questo momento scatta un conto alla rovescia di 2 anni, questi 2 anni servono per negoziare e concludere l’accordo di recesso per avere un recesso ordinato dall’UE. L’accordo di recesso contiene le condizioni del divorzio. Dopo di che, quando l’accordo di recesso entra in vigore lo stato non è più uno stato membro. Può succedere che l’accordo di recesso non venga negoziato entro il termine di 2 anni, magari serve un tempo supplementare o più tempi supplementari (come nel caso della Brexit) e in questo caso vi è una clausola di salvaguardia: il Consiglio europeo e lo stato interessato possono mettersi d’accordo al fine posticipare la scadenza del suddetto conto alla rovescia. Il 29 marzo 2019 era la data della scadenza dei 2 anni per il Regno Unito che aveva effettuato la notificazione del recesso nel Marzo 2017 ma il Regno Unito non è uscito nel Marzo 2019 dall’UE in quanto è successo che per 3 volte il Consiglio europeo di intesa con il regno unito ha deciso all’unanimità di effettuare una proroga del conto alla rovescia. Segue: i limiti al diritto di recesso Quindi all’apparenza il meccanismo di recesso è semplice ma in realtà all’atto pratico si pongono problemi che in origine non sembravano così evidenti, vediamo quali sono questi problemi: La prima questione riguarda i limiti di carattere procedurale dettati dalla procedura che deve essere seguita per recedere, l’idea a monte della procedura è di dar vita a un recesso ordinato per evitare ricadute negative per lo stato che lascia ma anche per gli stati che rimangono, il recesso rappresenta una crisi costituzionale nell’ordinamento che va guidata. Ma i limiti procedurali sono previsti per un altro motivo: il recesso ordinato serve anche per tutelare le situazioni soggettive degli individui a partire dai cittadini dello stato che sta recedendo che stanno passando dall’essere cittadini europei a essere cittadini di stati terzi. L’elemento procedurale globale dell’Art. 50 risponde a queste esigenze ma il tema è anche che queste procedure possono essere ridotte all’osso perché di fatto l'unico requisito fondamentale è che lo stato notifichi, dopo di che, se l’accordo di recesso non c’è si esce comunque dall’UE, però l’idea è che ove possibile bisogna evitare questo scenario che non è uno scenario di recesso ordinato, si parla infatti della c.d. HARD EXIT, attraverso questo meccanismo. Sul fatto che la decisione dello stato debba essere assunta in conformità delle norme costituzionali vanno fatte due precisazioni: ● Nel §1 dell’Art. 50 vi è una valorizzazione sul piano sovranazionale della normativa interna di uno stato che diviene un elemento della procedura sovranazionale e ciò è molto raro che accada nel diritto UE perché da questo punto di vista il diritto UE segue le medesime logiche del diritto dei trattati. Il diritto dei trattati contiene una norma, l’Art. 27 Convenzione di Vienna che afferma che lo stato non possa invocare il proprio diritto interno per giustificare un inadempimento di obblighi assunti sul piano internazionale. Quindi di regola il diritto interno di uno stato è irrilevante per il diritto internazionale e la stessa cosa vale per il diritto UE ma ci sono situazioni in cui il diritto interno acquisisce rilievo: si pensi alle identità nazionali ad esempio. Qui l’esigenza sta nella necessità di garantire che la decisione che si va ad assumere venga assunta nel pieno rispetto del principio democratico e questo spiega perché il Regno Unito ci ha messo tempo dal referendum alla notifica perché, dopo il referendum nel Regno Unito si è aperta una questione su come gestire la procedura che doveva portare all’adozione della decisione sul recesso. Il tema nel Regno Unito è come si adottano decisioni di questo tipo e inizialmente il governo aveva una posizione chiara: è una prerogativa regia e ciò implica che sia il governo ad assumere unilateralmente questa decisione senza coinvolgere il parlamento. Il Parlamento non era soddisfatto di ciò e nasce uno scontro politico che viene risolto sul piano giurisdizionale grazie a una cittadina britannica, la Miller, la quale sviluppa un procedimento di fronte alla corte suprema del Regno Unito, la quale chiarisce che in questo caso la decisione deve essere assunta con l’approvazione del Parlamento. ● L’altro limite che si desume dall’Art. 50 §1 è che l’alternativa è secca: o si sta dentro l’UE o si esce dall’UE; quindi, non è possibile avere delle decisioni unilaterali che consentano allo stato di staccarsi solo da taluni ambiti di cooperazione coperti dal diritto UE. Esempio: l’Italia vuole lasciare l’area euro? Deve lasciare l’UE (a meno che tutti gli stati non decidano di consentire all’Italia di uscire dall’euro). Al riguardo non vi sono altri limiti, e ciò lo desumiamo da una sentenza della Corte di giustizia datata dicembre 2018: si tratta di una sentenza fondamentale perché ricostruisce gli elementi di potestà sovrana degli stati membri nell’ordinamento. Questa sentenza è una sentenza che la Corte di Giustizia pronuncia ● Il terzo è relativo ai confini tra Irlanda del nord e Irlanda. Disposizioni comuni (Prima parte dell’accordo) ● 1^ principio Applicazione uniforme dell’accordo di recesso: gli stessi effetti che le disposizioni dell’accordo producono negli stati membri UE si devono produrre nel Regno Unito e ciò evoca una esigenza del diritto UE: l’esigenza di essere applicato in modo uniforme; si dice nelle disposizioni altresì che i giudici del Regno Unito devono interpretare con coerenza la giurisprudenza della Corte di giustizia, in particolare quella relativa a norme del diritto UE rilevanti ai fini dell’applicazione dell’accordo. Notiamo come la giurisprudenza della Corte di giustizia continua ad essere rilevante; ● 2^ principio Primato: le norme dell’accordo di recesso prevalgono sul diritto interno e ciò, tanto sulle norme degli stati membri UE quanto per le autorità del regno unito che sono tenute a disapplicare le norme interne incompatibili. ● 3^ principio Efficacia diretta: cioè, l’idoneità delle norme in questione di poter essere invocate dai singoli di fronte ai giudici; il fatto che permane almeno temporaneamente e temporalmente un collegamento tra l’accordo e la normativa dell’Unione anche successiva al recesso ma sviluppata entro il periodo transitorio. Da questi principi, che governano il funzionamento dell’accordo, notiamo come ci stiano dicendo che l’accordo segue ancora una logica fortemente influenzata dal diritto UE. Vediamo la suddetta forza dei legami con un’altra testimonianza: in particolare l’articolo 5 dell’accordo il cui titolo è Buonafede: “L'Unione e il Regno Unito, nel pieno rispetto reciproco e in totale buona fede, si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dal presente accordo. Essi adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'adempimento degli obblighi derivanti dal presente accordo e si astengono da qualsiasi misura che possa mettere in pericolo la realizzazione dei suoi obiettivi. Il presente articolo non pregiudica l'applicazione del diritto dell'Unione a norma del presente accordo, in particolare il principio di leale cooperazione.” Abbiamo una clausola che si chiama buonafede e che guarda al diritto internazionale ma che è ancora modellata sulla buonafede rafforzata dell’ordinamento giuridico UE e cioè sul principio di leale cooperazione. Questa norma fotografa la situazione del Regno Unito come parte dell’accordo di recesso, l’accordo di recesso fotografa un processo in cui uno stato da stato membro sta tornando ad essere uno stato sovrano, la destinazione è chiara ed è retta dal diritto internazionale: i rapporti di questo stato che sarà terzo nei confronti dell’UE e nei confronti degli stati membri UE saranno retti dal diritto internazionale ma è chiaro il punto di partenza: il diritto UE qui siamo a metà strada, la trasformazione completa si compirà una volta adottato l’accordo sulle relazioni future ma qui invece siamo ancora a metà strada ed è quindi inevitabile che vi siano elementi che guardano ancora al diritto UE e che si combinano con elementi che guardano al diritto internazionale. Quello che sembra potersi dire che in questa fase intermedia il diritto UE abbia ancora un ruolo prevalente. I diritti dei cittadini (Seconda parte dell’accordo) La seconda parte dell’accordo di recesso concluso tra Regno Unito e UE riguarda un tema fondamentale: i diritti dei cittadini, sia dei cittadini degli stati membri risedenti nel Regno Unito, sia dei cittadini britannici risedenti in stati membri UE. È un tema importante perché riguarda la possibilità o meno di mantenere dei diritti che derivano dallo status di cittadino dell’UE anche dopo la Brexit, tuttavia è un tema che politicamente non è stato complicato da risolvere nel senso che le parti sin da subito hanno ritenuto entrambe che i diritti acquisiti non potessero essere messi in discussione, sicché la soluzione individuata è molto semplice, cioè tutti coloro che abbiano esercitato diritti connessi alla cittadinanza dell’UE prima del 31 dicembre 2020 possono continuare a farlo anche dopo. Esempio: se un cittadino italiano si è trasferito in Regno Unito prima del Dicembre 2020 esercitando un diritto connesso alla cittadinanza dell’UE (diritto alla libera circolazione, diritto di soggiorno) e quindi da ciò, usufruendo del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, questo cittadino potrà continuare a godere del medesimo trattamento anche dopo il 31 Dicembre 2020 in una situazione in cui il Regno Unito non è più un paese membro UE. Lo stesso vale per i cittadini del Regno Unito che si siano trasferiti in altri paesi dell’Unione: questi soggetti laddove abbiano esercitato i diritti di cittadinanza prima del 31 dicembre 2020 potranno continuare a farlo alle stesse condizioni anche dopo il 31 Dicembre 2020. Ovviamente tutti gli altri soggetti no, per tutti gli altri soggetti il Regno Unito può introdurre limitazioni all’ingresso richiedendo delle formalità (il visto) e la stessa cosa può essere richiesta dai paesi membri dell’UE. Vi è poi una Terza parte molto lunga che definisce per le singole politiche dell’Unione le condizioni per il recesso; quindi, abbiamo una disciplina puntuale che è declinata sulle diverse politiche esercitate dall’UE: si tratta di disposizioni di dettaglio e gran parte del contenuto di questo accordo si declina in norme di dettaglio che riguardano meccanismi di distacco con riferimento alle singole politiche dell’UE. Le transizioni (Quarta parte dell’accordo) La quarta parte è quella sulle transizioni: partiamo da una premessa il 31 Dicembre 2020 non è la data in cui è entrato in vigore l’accordo di recesso, accordo che è entrato in vigore alla mezzanotte del 31 Gennaio del 2020 e quindi in teoria il Regno Unito è divenuto un paese terzo a partire dal primo Febbraio 2020. Si è deciso di introdurre unmeccanismo di transitorietà dal 31 gennaio al 31 dicembre del 2020 in base al quale in quella finestra temporale, il Regno Unito pur essendo un paese terzo ha assunto l’impegno di continuare ad applicare il diritto UE come se fosse un paese membro dell’UE. Si tratta di un meccanismo transitorio opposto a quello previsto per i paesi che aderiscono all’UE, in quest’ultimo caso gli accordi di adesione contengono meccanismi transitori che post-pongono una piena applicazione del diritto UE nei confronti di uno stato che è già diventato un paese membro UE, mentre con il suddetto meccanismo di transitorietà (valido da gennaio a dicembre 2020) l’idea è di garantire che il processo si compia con ordine senza che vi siano ricadute negative tanto su chi resta e tanto su chi lascia, e in questo caso l’idea è quella di garantire a uno stato non più membro dell’UE di poter continuare ad applicare il diritto UE come se fosse ancora parte dell’Unione e al contempo di garantire agli stati che rimarranno membri dell’Unione che almeno in quel periodo (Gennaio-Dicembre 2020) quello stato (UK) è obbligato a fare ciò, è obbligato nel senso che si potrebbe avviare una procedura di infrazione contro quello stato laddove questo violi, durante il periodo transitorio, norme di diritto UE. E questo in effetti è avvenuto: la Commissione europea ha deciso di avviare delle procedure di infrazione nei confronti del Regno Unito per il fatto che avesse deciso di non indicare un nominativo per la composizione di quella che sarebbe divenuta la Commissione Von Der Leyen. Il Regno Unito decide di non fare ciò nel 2019 perché sta uscendo dall’Unione Europea e questa decisione viene considerata una violazione degli obblighi derivanti dai trattati e la Commissione decide di avviare una procedura di infrazione nei confronti di uno stato che nel frattempo è divenuto un paese terzo. La logica è quella di mantenere le cose come stanno per un tempo necessario per definire tutte le questioni affinché poi lo stato possa interagire in modo stabile e ordinato con l’UE in quanto stato terzo, l’idea è anche quella di sfruttare questa finestra temporale in cui lo stato continua ad applicare il diritto UE per negoziare quello che sarà l’accordo sulle relazioni future che dovrebbe entrare in vigore terminato questo periodo di transizione. La fattura (Quinta parte dell’accordo) Saltiamo momentaneamente la parte quinta che è quella che riguarda la fattura, cioè il quantum che il Regno Unito è tenuto a saldare in forza della partecipazione alle politiche dell’UE, parliamo di diversi milioni di euro ed è anche una parte complessa perché si definisce un meccanismo di conteggio volto ad individuare in modo certo la suddetta somma. Il governo e l’assetto istituzionale dell’accordo (Sesta parte dell’accordo) Guardiamo ora la parte sesta che riguarda il governo e l’assetto istituzionale dell’accordo e in particolare si occupa di individuare i meccanismi di risoluzione delle controversie che possono sorgere tra le parti rispetto all’interpretazione e l’applicazione dell’accordo di recesso. Cosa succede ad esempio se in materia di fattura il Regno Unito ritiene di dovere versare la somma X all’UE mentre l’UE ritiene che la somma non sia pari ad X ma sia pari ad Y e quindi si determina una diversità di vedute che produce una controversia tra le 2 parti. La parte sesta dell’accordo introduce un meccanismo di risoluzione delle controversie che al 75% risponde ad una logica internazionalistica, mentre per il 25% residuale questo meccanismo guarda al diritto UE che rimane ancora una volta un riferimento significativo per la cooperazione instaurata nell’accordo di recesso. Qualora sorga una controversia tra le parti anzitutto si avvia un confronto negoziale all’interno del comitato misto che è un organo, dove siedono rappresentanti delle parti, chiamato a monitorare l’implementazione dell’accordo. Le parti internamente al comitato misto cercano di negoziare una sintesi vincolante che consenta di risolvere la controversia. Se ciò avviene questa sintesi si produrrà in un accordo tra le parti al fine di dirimere la controversia e questo è un percorso che si muove interamente nel solco del diritto internazionale. Laddove l’accordo non sia possibile il meccanismo di risoluzione delle controversie che è incorporato nell’accordo di recesso prevede che ciascuna parte indipendentemente dall’altra possa avviare una risoluzione della controversia tramite l’istituzione di un tribunale arbitrale: si prevede un meccanismo di arbitrato che conferisce a un tribunale il compito di adottare con decisione vincolante una soluzione per la controversia medesima. Anche qui ci muoviamo nel solco del diritto internazionale (ipotesi vista nel caso Slovenia vs Croazia). Nell’accordo di recesso è inserita una clausola arbitrale volta a regolamentare le controversie che potrebbero sorgere in futuro e quindi ci si muove a titolo preventivo. In questa ipotesi ci si muove ancora una volta nel solco del diritto internazionale ma qui interviene il 25% di diritto UE che introduce una prospettiva diversa. In particolare, una volta avviata la clausola arbitrale, il tribunale arbitrale si trova a dover risolvere una controversia che impone di prendere in considerazione e interpretare il diritto Ue, in quanto la sua applicazione/interpretazione è strumentale. Per cui si prevede che il Tribunale debba sospendere il procedimento e rimettere la questione alla corte di giustizia, attendere che la corte di giustizia si pronunci e dunque riprendere il procedimento applicando nello stesso quanto stabilito dalla corte di giustizia UE: è un meccanismo di pregiudizialità sui generis che segna un primato o una riserva di giurisdizione che viene riconosciuta a favore della corte di giustizia. Riserva di giurisdizione che si giustifica col fatto che la corte di giustizia ha il monopolio circa l’interpretazione del diritto UE sicché il giudice nazionale non può sostituirsi ad essa. La logica è riconoscere che il diritto UE possa esercitare un ruolo importante nella controversia tanto che in alcuni casi la Corte di giustizia deve essere sentita e la sua pronuncia sarà vincolante per il tribunale arbitrale, cosa che può apparire ironica se consideriamo che una delle linee rosse tracciate dal governo di Sua Maestà durante il negoziato che ha portato all’accordo di recesso era “mai più corte di giustizia” perché la corte era stata considerata come una dei responsabili primari dell’erosione di sovranità che il Regno Unito con il referendum aveva voluto riaffermare. La cosa interessante da introdurre è che questa soluzione codifica un elemento di prassi che si era già verificato in passato riguardante lo stesso Regno Unito in una controversia aveva sviluppato con l’Irlanda: la c.d. controversia Mox. Mox è il nome di uno stabilimento situato nelle coste inglesi di fronte al Mare di Irlanda ed è uno stabilimento che ricicla il plutonio per cui capiamo che compie un’attività molto impattante sul piano ambientale e questo preoccupava l’Irlanda che temeva che alcune scorie radioattive potessero riversarsi sul mare di Irlanda determinando un danno irreversibile all’ambiente marino. A finanziari), cessavano di applicarsi nei confronti del Regno Unito dopo 2 anni dalla notifica dell’intenzione di recedere. ● Posizione UE (diversa): esiste l’Art 70 Convenzione di Vienna che dice che, se i trattati non dicono nulla di particolare allora è chiaro che la loro cessazione tra le parti fa venire meno qualsiasi obbligo futuro relativo all’applicazione dei trattati ma gli obblighi pregressi continuano a vincolare i soggetti che avevano contratto gli obblighi. Queste 2 letture ovviamente non sono compatibili tra loro, sicché se fosse sorta una controversia come si sarebbe risolta? L’UE avrebbe potuto adottare delle contromisure nei confronti del Regno Unito configurando il comportamento del Regno unito un illecito internazionale. Ciò è possibile ma non garantirebbe all’UE il pagamento della fattura. Un’altra possibile strada percorribile è quella di adire la Corte internazionale di giustizia, è possibile andare davanti alla corte se le parti hanno riconosciuto la sua giurisdizione e ciò può avvenire in tanti modi: ● mediante un accordo successivo, ● mediante un accordo precedente ● ci può essere una dichiarazione unilaterale di accettazione della corte internazionale di giustizia. ma materialmente sono gli stati ad andare di fronte alla corte di giustizia, non l’UE: potremmo allora verificare se esistono accordi che hanno concluso sia il Regno Unito che alcuni stati membri UE che riconoscono la giurisdizione della corte internazionale di giustizia per la risoluzione di controversie, e un accordo del genere esiste: Convenzione europea per la risoluzione pacifica delle controversie, ratificata da Regno Unito e Germania e questa convenzione contiene un articolo: l’Art. 1 che regola la risoluzione giurisdizionale delle controversie. In base a questo articolo, le parti contraenti hanno l’obbligo di sottoporre alla Corte internazionale di giustizia qualsiasi controversia tra loro che riguardi l’interpretazione di un trattato. Qui abbiamo una controversia che può sorgere tra Germania e Regno Unito sull’interpretazione dell’art. 50 tue; quindi, la Germania può portare il Regno Unito di fronte alla CIG agendo per nome e per conto dell’Ue. Qui però siamo fortunati perché vi è una convenzione, ma se non vi fosse un simile strumento sarebbe difficile risolvere controversie e sarebbero necessarie delle contromisure che comunque non permetterebbero minimamente di tutelare la posizione dei cittadini. Breve parentesi protocollo aggiuntivo, Irlanda e Irlanda del Nord Breve informazione sul protocollo aggiuntivo relativo al confine tra Irlanda del nord e Irlanda. La questione è la libera circolazione delle merci e, la soluzione che viene provata è quella dell’applicazione dell’acquis dell’Unione che però è condizionata a una decisione politica democraticamente assunta dalle autorità britanniche che quindi possono in qualsiasi momento decidere di distaccare l’ordinamento dall’acquis dell’Unione relativo alla libera circolazione delle merci che si continua ad applicare pendente una decisione contraria. La soluzione individuata inizialmente voleva che il diritto UE venisse applicato per un tempo indefinito anche dopo la Brexit: questa soluzione non è stata considerata soddisfacente dalla controparte britannica. Accordo sulle relazioni future L’accordo sulle relazioni future è un profilo che è rimasto fin qui sullo sfondo anche nella vicenda Brexit, perché nel caso Brexit la decisione che è stata assunta dall’UE è stata quella di post porre la definizione dei contenuti degli accordi che avrebbero dovuto definire le relazioni future con il Regno unito a un momento successivo alla conclusione dell’accordo di recesso e questa modalità di negoziato si è rivelata un errore politico perché ha determinato una maggior difficoltà nel trovare la sintesi dell’accordo di recesso che non può non guardare a quelle che saranno le relazioni che le parti dovranno intrattenere una volta che il distacco si sarà definitivamente avverato. Le relazioni future sono state oggetto, quanto alla Brexit, di un negoziato che si è sviluppato nel periodo di transizione governato dall’accordo di recesso quindi dal Febbraio 2020 al dicembre 2020, l’accordo è stato concluso ad inizio 2021 e inizialmente il tema che si è posto è stato individuare che tipologia di accordo si sarebbe dovuto concludere con il Regno unito: quanto ai contenuti e quanto alla sua qualificazione rispetto al diritto UE. Sui contenuti una mano l’ha data il diritto internazionale e in particolare nei vincoli che derivano dal sistema dell’Organizzazione mondiale del commercio in capo alle parti degli accordi amministrati dall’organizzazione, parti tra cui figura l’UE oltre che tutti i suoi stati membri. Questo sistema di accordi prevede che i paesi sviluppati (e non c’è dubbio che i paesi membri UE lo siano) quanto alla libera circolazione delle merci, abbiano 2 alternative di cooperazione che erano del tutto limitate potendosi dare vita in alternativa a un’unione doganale o una zona di libero scambio. ● L’UE è , tra le altre cose, un’unione doganale nel senso che si prevede che le merci che originano o muovono da un paese membro possano fare ingresso in altri paesi membri senza alcuna limitazione quanto a tariffe doganali o a tasse, quindi esiste una libera circolazione interna, ma oltre a questa dimensione interna dell’unione doganale abbiamo una sua dimensione esterna che si caratterizza per il fatto che le merci provenienti da paesi terzi che fanno ingresso nel territorio di un qualsiasi paese membro dell’UE sono sottoposte alla medesima tariffa doganale che è comune a tutti gli stati membri (ovviamente la tariffa cambia a seconda della tipologia merceologica ma per quella determinata tipologia merceologica la tariffa doganale per l’ingresso nel territorio di un paese membro di merci provenienti da un paese terzo è uguale per tutti in quanto è fissata a livello sovranazionale dalla Commissione europea ed è peraltro una competenza esclusiva dell’UE). ● Abbiamo invece una zona di libero scambio quando manca una dimensione di cooperazione esterna e residua solo quella interna per cui internamente le merci circolano liberamente, tuttavia merci provenienti da paesi che non fanno parte dell’area di libero scambio sono sottoposte, all’ingresso del territorio di un paese che è parte della zona di libero scambio, a formalità doganali che si differenziano a seconda del paese di ingresso, quindi il paese di ingresso mantiene una propria sovranità decisionale quanto alle formalità doganali relative a merci che provengono da paesi che non fanno parte dell’area di libero scambio. Oltre a questa alternativa secca si è posto il problema di come si sarebbe dovuto costruire l’accordo con il Regno Unito e l’accordo col Regno unito poteva essere costruito sulla base di modelli preesistenti, cioè di accordi che l’UE aveva concluso con altri stati terzi per dare vita, tra le altre cose, o a unioni doganali o a zone di libero scambio. La prima possibilità cui le parti potevano guardare era quella di usare come modello l’accordo istitutivo dello spazio economico europeo, accordo che oggi vede la partecipazione dei paesi membri UE e di un numero limitato di paesi terzi e che delinea una fortissima capacità di incidenza del diritto UE sull’ordinamento dei paesi terzi che fanno parte dell’accordo sullo spazio economico europeo ed è proprio in virtù di ciò che questa possibilità non è stata ritenuta praticabile dal Regno Unito che voleva che l’incidenza del diritto UE cessasse. Allora si poteva pensare agli accordi di nuova generazione nell’ambito della politica commerciale comune dell’UE, UE che ha una competenza esclusiva quanto ai rapporti commerciali con paesi terzi e conclude con tali paesi degli accordi. Sostanzialmente dall’inizio degli anni 2000 gli accordi conclusi dall’UE con paesi terzi si caratterizzano, oltre al fatto di dare vita a unioni doganali o zone di libero scambio, per il fatto di contenere una serie di forme di cooperazione politica molto ambiziose relative a capitoli molto differenti: ambiente, sviluppo sostenibile, tutela dei diritti dei lavoratori ecc. Questa era la possibilità ma il Regno unito non è un paese terzo qualsiasi, non è il Canada col quale l’UE ha concluso un accordo di nuova generazione molto sofisticato: il SITA, è il Canada che deve guardare il Regno Unito, non viceversa. Occorreva dunque un accordo peculiare. Allora ci sono gli accordi di associazione che sono una forma peculiare che l’UE usa per sviluppare forme privilegiate di interazione con paesi che vogliono avviare un percorso di integrazione ma anche con paesi terzi che non lo potranno mai fare perché non sono paesi europei ma che tuttavia vogliono avere relazioni privilegiate molto forti con l’UE. L’accordo di associazione si caratterizza per il fatto di dare vita a un assetto istituzionale particolarmente elaborato. Ma neanche questa soluzione piaceva al Regno unito perché da un lato l’accordo di associazione ricorda molto lo strumento per l’adesione e nel caso del Regno Unito ci si era appena allontanati dall’UE, dall’altro lato perché anche il dare vita a una struttura istituzionalizzata dopo averne lasciata una non era politicamente un passaggio semplice. Tutto ciò riguardava le forme, ma esiste anche il problema dei contenuti e, sotto questo punto di vista, la posizione del Regno unito era chiara: il Regno unito non voleva l’unione doganale e ciò significa gioco forza rimettere la scelta sulla zona di libero scambio. La scelta sul contenuto si è posta, mentre la forma scelta è quella di un accordo sugli scambi e la cooperazione. La cosa interessante è che questo accordo è un accordo di associazione, cioè, concluso dall’UE utilizzando come base giuridica la norma del TFUE che disciplina gli accordi di associazione. Noi questo non lo troviamo nel testo dell’accordo, accordo che ha un nome preciso: “accordo sugli scambi commerciali e sulla cooperazione” e normalmente gli accordi di associazione che l’UE conclude con paesi terzi si chiamano accordo di associazione: cioè, la nomenclatura di accordo di associazione figura nel titolo dell’atto, ma in questo caso NON è così e non la troviamo neanche nel preambolo in cui le parti definiscono il contesto nel quale intendono sviluppare le loro relazioni future. Dunque il linguaggio usato non è quello di un accordo di associazione ma la base giuridica è quella di un accordo di associazione e questa è sicuramente una peculiarità: è un accordo di associazione sui generis perché se noi andiamo a vedere il contenuto ci accorgiamo che lo spirito che regolamenta gli accordi di associazione non c’è: qui le parole chiave sono autonomia e sovranità delle parti e le relazioni tra soggetti che sono autonomi e sovrani sono relazioni che si reggono sulla base del diritto internazionale. Quindi ciò che caratterizza questo accordo è il fatto che si definisce un primato riconosciuto al diritto internazionale, facciamo un esempio guardando questa disposizione del trattato: Art.4 diritto internazionale pubblico: “Le disposizioni del presente accordo o eventuale accordo integrativo sono interpretate in buona fede sulla base della loro accezione abituale nel loro contesto e alla luce dell'oggetto e della finalità del presente accordo secondo le norme di interpretazione consuetudinarie del diritto internazionale pubblico, comprese quelle codificate nella convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, conclusa a Vienna il 23 maggio 1969.” È il diritto internazionale che domina le relazioni e il paragrafo 2 art. 4 toglie ogni dubbio a riguardo: “A fini di chiarezza, né il presente accordo né un eventuale accordo integrativo istituiscono l'obbligo di interpretare le disposizioni ivi contenute secondo il diritto interno dell'una o dell'altra parte.” Ciò significa che il diritto UE, che nell’accodo di recesso abbiamo visto rappresentare lo sfondo di riferimento, svanisce e regredisce a diritto interno di una parte e in quanto tale questo diritto NON può essere fatto valere sul piano delle relazioni con l’altra parte, cioè il diritto UE non può invocare il proprio quadro regolamentare sul piano dei rapporti internazionali, ad esempio, per condizionare l’implementazione e l’attuazione dell’accordo di recesso. Il Diritto UE diventa diritto interno e il diritto interno non può essere invocato da una parte al fine di condizionare le modalità in cui lo strumento internazionale viene interpretato o implementato. Capiamo che è cambiato completamente lo scenario perché il Regno unito era tenuto a guardare il diritto UE, le controversie si risolvevano anche alla luce del diritto UE ma l’accordo sugli scambi commerciali inverte questo trend affermando che si applica il diritto internazionale e facendo così regredire il diritto UE a diritto interno. Di fronte a tutto ciò l’idea è che si sia compiuta la trasformazione, cioè che il Regno Unito sia divenuto un paese terzo al 100% in quanto i residui di diritto UE sono svaniti nel percorso. È davvero così? In realtà no perché l’accordo di recesso non è scomparso ma è ancora vigente, cioè il Regno unito è ancora obbligato a rispettare e ad attuare il contenuto dell’accordo di recesso per cui la posizione del regno unito è divenuta in realtà ancora più complicata perché da un lato vi è l’accordo di cooperazione e scambio tale per cui il Regno Unito considera il diritto UE come diritto interno, dall’altro però quando si tratta di dare esecuzione all’accordo di recesso quel diritto torna ad essere rilevante nella misura in cui costituisce lo sfondo in cui si colloca l'accordo di recesso. Non è facile gestire contemporaneamente queste 2 situazioni e in realtà la situazione del Regno unito è schizofrenica in quanto è una situazione in cui a seconda delle relazioni contrattuali di riferimento il peso del diritto UE cambia ma non possiamo tagliare con la sciabola il quadro dicendo che in un determinato ambito vale solo l’accordo di recesso o solo l’accordo sulle relazioni Maduro va ancora oltre con un altro passaggio, punto 23 conclusioni: l'idea è che in realtà la nozione di cittadinanza dell’UE sia una nozione autonoma in grado di CONDIZIONARE le scelte che gli stati membri possono compiere rispetto all’acquisto e la perdita della cittadinanza. CONDIZIONARE SI’ ma non del tutto perché ciò equivarrebbe a negare la competenza degli stati in materia e inciderebbe sulla sostanza stessa degli stati membri. È quindi un rapporto tra autonomie relative, quella degli stati membri e della cittadinanza europea, che si gioca su un terreno di bilanciamento che nel caso Rottman viene individuato nella necessità che le autorità nazionali rispettino il principio di proporzionalità. Il ragionamento che Maduro compie e che viene ripreso nella sentenza della Corte di Giustizia sul caso Rottman è che gli stati possono ancora esercitare la competenza, anche in materia di revoca, ma nel farlo devono applicare un principio di proporzionalità stretta: il provvedimento deve essere necessario per il fine che si persegue e deve essere proporzionato all’obiettivo medesimo. Ovviamente nel momento in cui affermo che gli stati mantengono questa autonomia ma che devono esercitarla nel rispetto del principio di proporzionalità io sto dicendo che questa condizione è scrutinabile di fronte alla corte di giustizia: lo stato può essere portato di fronte alla Corte mediante una procedura di infrazione per verificare se il provvedimento di revoca di cittadinanza adottato nei confronti di uno o più individui rispetta il parametro della proporzionalità sovranazionale. Riparto di competenze tra UE e Stati membri: tema della cittadinanza Il tema è funzionale per parlare del contenuto della cittadinanza UE. Preliminarmente dobbiamo capire come interagiscono questi 2 livelli, apparentemente la ripartizione è chiara: la cittadinanza dell’UE segue quella nazionale aggiungendosi e non sostituendosi ad essa; quindi, l’idea è che la cittadinanza UE abbia carattere ancillare rispetto alla cittadinanza nazionale. Abbiamo però visto che nella prassi è diverso perché gli stati hanno una competenza di questo tipo ma si tratta di una competenza non libera, si tratta infatti di una competenza che gli stati devono esercitare nel rispetto del diritto UE e abbiamo visto cosa questo significa nel caso Micheletti e Rottman: ● Nel caso Micheletti si intende che la competenza deve essere esercitata in modo tale da garantire al diritto UE e ai diritti di cittadinanza di produrre i loro effetti ● Nel caso Rotmann invece significa valutare alla luce del principio di proporzionalità se la perdita della cittadinanza sia proporzionata al fine perseguito alla luce del fatto che quel soggetto non potrà più godere dei diritti connessi alla cittadinanza europea. Segue: vendita della cittadinanza È un elemento di prassi che si è affacciato tra il 2013 e 2014 quando Malta e Cipro hanno annunciato un programma di investimento finalizzato all’acquisto della cittadinanza. In entrambi i paesi si è predisposto un meccanismo per il quale un cittadino di un paese terzo, senza obbligo di risiedere nei suddetti paesi nel periodo prefissato, possa acquisire la loro cittadinanza e quindi anche la cittadinanza europea attraverso una serie di investimenti: investimenti che normalmente prevedono un investimento in un fondo creato ad hoc per il sostegno sociale dei cittadini ciprioti o maltesi, e a questo investimento si affianca un investimento su fondi ordinari o di carattere immobiliare. Quanto alla cifra prevista per l’acquisto della cittadinanza, nel caso di Cipro la cifra supera il milione di euro mentre nel caso di Malta la cifra si attesta sotto il milione di euro. Ovviamente il valore è parametrato non tanto sulla cittadinanza cipriota o maltese ma il valore è parametrato sulla cittadinanza europea, ossia sul fatto che acquistando la cittadinanza di uno dei suddetti paesi il soggetto acquista lo status di cittadino europeo e dunque può usufruire dei diritti che derivano dalla cittadinanza UE. Ciò che giustifica un esborso così significativo di denaro non sono i diritti classici della cittadinanza UE, non sono quindi i diritti politici come il diritto alla libera circolazione e soggiorno, che sono diritti sì importanti ma considerati di secondo rilievo. L’elemento centrale nell’acquisto della cittadinanza è rappresentato dal fatto che in quanto cittadini UE questi soggetti avranno poi una grossa facilitazione nell’ottenimento dei visti da parte dei paesi terzi per potere soggiornare e circolare nel loro territorio. Quindi l’appetibilità maggiore deriva dal fatto che in quanto cittadini UE avranno una facilitazione nel circolare in paesi che dell’UE non fanno parte. Questa prassi che si è sviluppata ha visto una reazione forte da parte di Parlamento europeo e Commissione europea che si sono opposte allo sviluppo di programmi di investimento di questo tipo facendo leva su ragionamenti che da un lato si agganciano al diritto internazionale e dall’altro al diritto UE. L’argomento di diritto internazionale richiama una sentenza resa dalla Corte internazionale di giustizia, è una sentenza che la corte internazionale ha reso nel caso Nottebohm, un caso che ha visito contrapposti Liechtenstein e Guatemala e riguarda l’esercizio del diritto di protezione diplomatica da parte di un soggetto che aveva la doppia cittadinanza: del Liechtenstein e del Guatemala. La protezione diplomatica riguarda il trattamento dello straniero: in sostanza laddove un cittadino di un paese diverso da quello che lo ospita subisca nel paese ospite delle violazioni quanto alla propria persona o ai propri beni, questa persona ha diritto a rivolgersi al paese di nazionalità al fine di ottenere protezione diplomatica, cioè, ha diritto a rivolgersi al proprio paese per ottenere assistenza. Bisogna tenere presente che non esiste un diritto alla protezione diplomatica ma esiste un diritto a chiedere protezione diplomatica. Non esiste tale diritto perché la scelta finale quanto alla concessione o meno dell’assistenza spetta allo stato il quale potrebbe decidere di non concedere assistenza in quanto ritiene prevalente l’interesse a interagire in modo amichevole con il paese ospite. In questo caso si trattava di stabilire se il signor Nottebohm potesse ottenere protezione diplomatica e in questa pronuncia la CIG afferma che in un caso di doppia cittadinanza il soggetto poteva ottenere protezione diplomatica solo dal paese di cittadinanza con il quale presentava un genuine link: cioè, un collegamento stretto. Collegamento stretto che la corte internazionale di giustizia individuava nel fatto che il soggetto aveva soggiornato lungamente nel territorio di quello stato. Commissione e Parlamento europeo nel prendere in considerazione i programmi di investimento dicono che il fatto che si possa acquisire la cittadinanza maltese o cipriota senza prima aver risieduto in questi paesi e quindi prima di aver creato un genuine link con i suddetti paesi è in violazione del diritto internazionale, in particolare in violazione di quanto stabilito dalla corte internazionale di giustizia nel caso Nottebohm. Questo è il primo argomento delle istituzioni UE. Poi abbiamo degli argomenti che attengono il diritto UE, in sostanza sono 2 le questioni evidenziate dal Parlamento europeo: ● La prima riguarda la violazione del principio di leale cooperazione e cioè il fatto che vi sia una decisione assunta unilateralmente da uno stato membro (quella di creare un meccanismo di investimento) che avrà delle ricadute sugli altri paesi e sulle istituzioni dell’UE perché in questo modo si creano dei nuovi cittadini europei che potranno esigere il rispetto dei loro diritti anche in altri stati membri: quindi si determina un impatto sugli altri stati membri senza tuttavia tenerne conto nella definizione della misura unilaterale e ciò in spregio al principio di leale cooperazione. ● La seconda è una questione più generale che attiene al fatto che la cittadinanza UE non può essere ridotta a una commodity ma è in realtà un elemento strutturale del sistema, è un elemento costituzionale che attiene alla sfera dei diritti fondamentali e che dunque non può essere ridotto a una mera questione economica perché altrimenti ci sarebbe una violazione della dimensione costituzionale connessa alla cittadinanza dell’UE. La reazione delle istituzioni UE si è poi ulteriormente sviluppata al punto che è stata avviata una procedura di infrazione che ancora oggi è pendente di fronte alla Corte di Giustizia. Per il momento possiamo dunque provare a valutare la solidità degli argomenti evidenziati dalle istituzioni UE al fine di mettere in discussione la decisione assunta da Malta e Cipro. Il fenomeno esaminato in realtà è molto più ampio, è vero che il focus è su Cipro e Malta ma è altrettanto vero che ci sono paesi dell’Europa centro orientale che hanno avviato meccanismi simili e ci sono altri paesi dell’UE, tra cui l’Italia, che prevedono meccanismi simili ma con riguardo ai permessi di soggiorno, permessi di soggiorno che in base alla legge italiana rappresentano un elemento strumentale all’acquisto della cittadinanza. Iniziamo a ragionare sugli argomenti portati dalle istituzioni UE partendo dall’argomento relativo al diritto internazionale: questo argomento non sta in piedi per 2 ordini di motivi, Partendo dalla sentenza Nottebohm che viene espressamente richiamata dalle istituzioni UE ma viene richiamata in modo sbagliato in quanto tale sentenza fa riferimento al genuine link al fine di consentire legittimamente l’invocazione della protezione diplomatica, cioè il genuine link è funzionale all’esercizio del diritto di chiedere protezione diplomatica: la corte internazionale di giustizia non ha mai detto che il genuine link è necessario al fine di acquisire legittimamente la cittadinanza di uno stato. Infatti, per il diritto internazionale gli stati sono liberi di determinare le modalità e i requisiti di acquisto e perdita della cittadinanza e infatti sono molti gli stati nel mondo che prevedono meccanismi di ius pecuniae, soprattutto stati che hanno una tassazione molto interessante (si pensi ai c.d. paradisi fiscali e a talune società nel mondo che si occupano esclusivamente di queste operazioni). Quindi il tema dal punto di vista del diritto internazionale è facilmente risolvibile: non ci sono limiti, quindi teoricamente gli stati sono liberi. Ma poniamo l’ipotesi (che non è concreta) che fosse però necessario un genuine link: il fatto che non si preveda un soggiorno non significa escludere completamente che possa esistere un genuine link; infatti, i soggetti interessati devono investire economicamente in quel paese e parte di quell’investimento è finalizzata a sostenere attività di assistenza sociale nei confronti di parte della popolazione di quei paesi che hanno delle necessità. Quindi in realtà c’è un coinvolgimento nella vita economico-sociale di quei paesi e questo ben può essere un genuine link. Quindi l’argomento di diritto internazionale è molto debole. Guardiamo allora le questioni UE, partiamo da quella relativa alla leale cooperazione. La leale cooperazione può avere un ruolo nel limitare la libertà degli stati quanto all’acquisto e perdita della cittadinanza e questo è ricordato anche dall’avvocato generale Maduro nelle proprie conclusioni relative al caso Rottman. Maduro richiama l’importanza che gli stati, nel definire le modalità di acquisto e perdita di cittadinanza nazionale, rispettino il principio di leale cooperazione, cioè tengano conto delle conseguenze che potrebbero prodursi sugli altri stati e Maduro fa un esempio per cercare di chiarire il rilievo che può assumere il principio di leale cooperazione: l’esempio è quello di uno scenario in cui abbiamo uno stato membro che decide unilateralmente di adottare un provvedimento di naturalizzazione di massa per cui con un unico provvedimento quello stato decide che centinaia di migliaia di persone cittadini di paesi terzi acquistino la sua cittadinanza. Si pensi ad esempio al caso in cui l’Italia decida unilateralmente di naturalizzare cittadini italiani tutti i cittadini argentini che abbiano avuto dei parenti cittadini italiani, così facendo avremmo migliaia di cittadini italiani in più e quindi migliaia di cittadini UE in più che possono circolare liberamente e possono chiedere assistenza sociale negli altri paesi membri e hanno diritto di ottenerla senza discriminazione basata sulla nazionalità. Quindi c’è un rilievo che il principio di leale cooperazione può assumere per evitare che ci siano distorsioni che mettano in difficoltà gli altri paesi membri, ma è davvero questo il caso? Maduro fa riferimento ad una ipotesi in cui noi abbiamo un paese membro che naturalizza migliaia di cittadini di stati terzi che poi potrebbero chiedere ad esempio di poter accedere a sistemi di assistenza sociale alle medesime condizioni dei cittadini di quel paese. Ma questo discorso si può applicare al caso maltese e cipriota? Si parla infatti di meccanismi di investimento destinati a poche persone, persone con grosse disponibilità finanziare: si pensa a naturalizzare miliardari. Parliamo di persone CONTENUTO DELLA CITTADINANZA: i diritti A riguardo guardiamo l’Art. 17 Tfue, il quale afferma che i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati, da ciò deriva che i diritti e doveri non possono essere introdotti con atti di diritto derivato. Se analizziamo i trattati ci accorgiamo che non vi è dubbio che questi strumenti riconoscano dei diritti ai cittadini UE, non si può dire altrettanto per i doveri, cioè allo stato attuale la cittadinanza dell’UE non implica doveri in senso stretto e ciò non sorprende se consideriamo che siamo nel contesto di un processo evolutivo in uno scenario nel quale non abbiamo ancora una cittadinanza perfezionata e da qui deriva il fatto che non vi siano doveri che vengano intrinsecamente connessi alla cittadinanza dell’Unione. Ciononostante, è sbagliato dire che il diritto Ue non imponga obblighi agli individui, tipo basti pensare banalmente obblighi in materia di protezione ambientale, ma questi non sono collegati allo statuto di cittadinanza, ma derivano dal law making che si sviluppa in determinati ambiti settoriali dell’Unione e che prescindono dalla qualificazione del destinatario degli obblighi come cittadino dell’UE. Segue: i diritti politici Ci sono dei diritti elettorali: Si pensi al diritto di partecipare alle elezioni europee esercitando il diritto di elettorato attivo e passivo. Questo diritto viene riconosciuto anche ai cittadini dell’UE che abbiano la nazionalità di un paese membro ma che si risiedano al momento delle elezioni in un altro paese membro dell'Unione. Un altro diritto elettorale (meno noto) riguarda le elezioni locali, quindi elezioni comunali o provinciali: si riconosce nell'ipotesi sopra descritta, cioè quella di un cittadino dell’UE che risieda in un altro stato rispetto a quello di nazionalità, il diritto di partecipare alle elezioni locali nel paese di residenza. Questo è un diritto che si declina in senso attivo e passivo. In base a questo diritto io posso essere candidato ma non posso aspirare alle posizioni apicali della governance locale (esempio: un cittadino francese che risieda nel comune di Bologna potrà partecipare alle elezioni amministrative e potrà candidarsi come consigliere comunale ma non può essere eletto sindaco). L’idea qui è evidenziare il ruolo fondamentale che ha l’amministrazione locale nella implementazione del diritto UE, cioè, dobbiamo dire che nella filiera della governance sovranazionale l’ultimo anello prima del cittadino, sul piano politico di implementazione, è il sindaco e quindi si vuole stabilire un collegamento anche di rappresentanza tra i cittadini UE e le amministrazioni locali. Diritto ad una buona amministrazione: cioè, il diritto a che un soggetto riceva dalle istituzioni dell’Unione un trattamento secondum legem. Diritto a potersi rivolgere alle istituzioni Ue in una delle lingue officiale e ottenere una risposta nella medesima lingua. Diritto di accesso ai documenti. Diritto di rivolgersi al mediatore europeo. Il mediatore europeo è un organismo sussidiario del Parlamento europeo che può essere investito dagli individui di richieste relative a casi di cattiva amministrazione posta in essere da altre istituzioni, organi e organismi dell’UE. In conseguenza di ciò il mediatore può svolgere indagini che sfociano nell’adozione di un rapporto finale di carattere non vincolante che va a evidenziare se ci sono state delle carenze da parte delle istituzioni. Questo rapporto non ha una funzione di tutela del diritto della prerogativa del singolo, cioè il singolo non si vedrà in conseguenza dell’azione del mediatore risarcito o compensato ma semplicemente l’attivazione del mediatore si configura come una actio popularis: quindi il singolo pone una questione che però è di interesse generale e la reazione del mediatore europeo è una reazione di carattere a sua volta generale volta a evidenziare una lacuna che deve trovare una soluzione sul piano generale. La tutela individuale dei diritti fa infatti riferimento a un altro canale che è il canale giurisdizionale che è tra l’altro alternativo al canale del mediatore perché laddove vi sia una questione aperta davanti alla Corte di giustizia che riguarda la fattispecie di cui dovrebbe essere investito il mediatore, il mediatore NON può occuparsi della questione. Quindi possiamo affermare che il mediatore svolge un’azione che è più nell’interesse generale: si pensi per esempio alla protezione dei dati che è figlia di un ricorso che era stato presentato al mediatore europeo al fine di evidenziare la violazione dei dati individuali da parte delle istituzioni UE, il mediatore ha con la sua azione messo a fuoco il problema, cioè la mancanza di una normativa sul piano sovranazionale che prevedesse la tutela e il risultato è stato un atto normativo: quindi si è intervenuti sul piano generale introducendo una disciplina sovranazionale per la tutela dei dati. Diritto di petizione al Parlamento: diritto che riguarda la possibilità di rivolgersi al Parlamento europeo e ottenere una risposta. Diritto all’iniziativa dei cittadini: almeno un milione di cittadini dell’UE possono, attraverso la sottoscrizione secondo regole prestabilite dal diritto UE, chiedere alla Commissione europea di proporre una determinata normativa che il legislatore dovrebbe adottare. Quindi è una iniziativa che configura una proposta indiretta in quanto i cittadini propongono alla Commissione di elaborare una proposta di regolamento, direttiva o decisione. Questo strumento ha un impatto sostanzialmente irrilevante perché ci sono state delle iniziative e ce ne sono ancora oggi ma nessuna di queste si è trasformata in un atto normativo vero e proprio o perché la maggior parte di esse riguardava questioni di cui l’UE non può occuparsi e quindi erano mal costruite o perché non hanno superato il filtro svolto dalla Commissione che può esercitare una discrezionalità nel decidere se trasformare una iniziativa dei cittadini in una proposta di regolamento, direttiva o decisione. Sicché questo strumento esiste ma ha un valore meramente simbolico. Diritto alla protezione consolare o diplomatica: se noi ci troviamo in un paese terzo e in tale paese non è presente una rappresentanza diplomatica del nostro stato di appartenenza e abbiamo la necessità di contattare una rappresentanza diplomatica per ottenere tutela o protezione, in questo caso abbiamo il diritto di rivolgerci a una rappresentanza diplomatica di un paese membro UE che è presente e questo stato dovrà riconoscere il medesimo trattamento che riconoscerebbe ai suoi cittadini senza discriminazione sulla base della nazionalità. È un diritto che è stato particolarmente importante in alcuni scenari emergenziali: la prima volta che si evidenziata l’importanza di questo diritto è stato in occasione dello tsunami dell’oceano pacifico quando molti cittadini UE stavano passando le vacanze di natale in quegli stati colpiti e parliamo di stati nei quali alcuni paesi membri UE non hanno rappresentanze e quindi si era creata, per prevedere il rimpatrio dei cittadini UE, una rete costruita attraverso l’applicazione della protezione diplomatica-consolare dell’UE che ha consentito ad altri paesi membri UE di prendersi carico di quelle persone e di trasferirle nei propri paese di residenza. Questo diritto è entrato in gioco anche aMumbai in seguito agli attacchi terroristici, anche in questo caso vi erano cittadini UE che richiedevano protezione per essere rimpatriati o ancora più recentemente il diritto è entrato in gioco nel caso del covid dove il meccanismo è stato attivato per permettere il rimpatrio di molti cittadini UE che si trovavano in paesi terzi. Alcuni di questi diritti, e in particolare il diritto a una buona amministrazione, diritto al mediatore europeo, diritto di accesso ai documenti presentano sempre il medesimo incipit: “ogni cittadino dell’Unione, nonché ogni persona fisica o giuridica che risiede o abbia la sede sociale in uno stato membro” ciò significa che questi diritti non sono diritti esclusivi dei cittadini UE ma sono estesi anche a cittadini di paesi terzi che risiedano legalmente nel territorio dell’Unione. Quindi sono diritti che non fanno parte del nucleo duro dei diritti di cittadinanza europea Diritti di mobilità: libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini Ue Art. 45 Carta dei diritti fondamentali: “Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri” Guardando in modo approssimativo l’Art 45 §1 la conclusione che dovremmo trarre è che ci troviamo di fronte a un diritto assoluto che non può essere sottoposto a alcuna eccezione o condizione ma non è così perché se guardo l’Art 21 Tfue: “Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi.” noto che il suddetto diritto non è assoluto e può essere sottoposto a limitazioni e condizioni. Le limitazioni sono le classiche eccezioni che possono essere invocate dagli stati membri per impedire l’esercizio della libera circolazione e del diritto di soggiorno (uso il termine classiche perché sono previste anche negli ordinamenti nazionali e non sono di stretta derivazione sovranazionale). Stiamo parlando in particolare di 3 ipotesi: motivi di salute pubblica, sicurezza nazionale o ordine pubblico. Ad esempio, si può limitare la circolazione per motivi di salute pubblica e il caso del Covid è un esempio macroscopico sotto questo punto di vista; ma una limitazione potrebbe derivare anche da motivi di sicurezza nazionale o ordine pubblico. Questa terna la ritroviamo anche nei trattati, i quali prevedono ipotesi chiuse e strette che permettono agli stati di potere limitare l’esercizio del diritto di mobilità e residenza. Guardiamo come queste eccezioni possono essere invocate legittimamente dagli stati. Qui il principio chiave che ci permette di capire se uno stato sta agendo nel rispetto del diritto UE è il principio di proporzionalità nella sua doppia accezione di necessità e di stretta proporzionalità. La prima domanda che occorre farsi quando si valuta la legittimità della condotta di uno stato che ha introdotto o invocato un’eccezione per ragioni di ordine pubblico al fine di non consentire l’ingresso nel suo territorio di cittadini dell’UE di altri paesi membri è “era necessaria questa misura?” la seconda domanda, se la prima dà esito positivo, è “la misura invocata dallo stato era proporzionata rispetto al fine perseguito?” perché magari si poteva perseguire quel fine con misure meno invasive. Il principio di proporzionalità si porta dietro altre 2 qualificazioni importanti ai fini della verifica di legittimità: la prima è che la limitazione deve essere temporanea e deve esserlo perché deve essere necessaria e proporzionata alla tutela di un interesse per il tempo strettamente necessario a ciò; quindi, è chiaro che, quando la minaccia alla salute pubblica, ordine pubblico o sicurezza nazionale viene meno la misura va eliminata o attenuata. L'altra qualificazione è che la misura deve essere, per poter essere considerata legittima, assunta su base individuale, cioè, guardando le singole caratteristiche che attualmente l’individuo di cui è questione presenta. Ciò significa che gli stati non possono invocare esigenze, per esempio, di ordine pubblico al fine di impedire a cittadini UE di altri stati membri, ad esempio aventi origini rom, di fare ingresso nel loro territorio perché rappresentano una minaccia per il loro territorio: ciò non è possibile perché la minaccia va parametrata sul singolo e non su una pluralità di soggetti accomunati da una medesima caratteristica (in questo caso l’origine rom). Con queste premesse arriva il test che l’autorità nazionale deve applicare: guardiamo il punto 72 della sentenza: “Nel subordinare il diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi alla circostanza che l’interessato non divenga un onere «eccessivo» per il «sistema» di assistenza sociale dello Stato membro ospitante, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2004/38, come interpretato alla luce del considerando 10 della stessa, implica pertanto che le autorità nazionali competenti dispongono del potere di valutare, tenuto conto di un insieme di fattori e in considerazione del principio di proporzionalità, se la concessione di una prestazione sociale possa rappresentare un onere per l’insieme dei regimi di assistenza sociale di tale Stato membro. La direttiva 2004/38 ammette quindi una certa solidarietà finanziaria dei cittadini dello Stato membro ospitante verso quelli degli altri Stati membri, in particolare se le difficoltà incontrate dal beneficiario del diritto di soggiorno sono temporanee.” La Corte di giustizia dice che al fine di valutare se la persona rappresenta un onere bisogna valutare se la richiesta fatta da quella persona rappresenta un onere eccessivo per l’insieme dei regimi di assistenza di quel paese: cioè, per tutto il sistema di welfare state di quel paese. Questa è chiaramente una probatio diabolica, infatti è quasi impossibile trovare una situazione che rappresenti un’ipotesi come quella configurata dalla Corte. Il sistema è qui interpretato come l’insieme di tutti i regimi di assistenza e quindi la conseguenza è che molto probabilmente la richiesta del singolo non rappresenterà un onere eccessivo e non lo rappresenterà in quanto questa norma è ispirata da una logica di solidarietà finanziaria. La sentenza del caso Brey è del 2013. Caso Dano La sentenza arriva nel 2014. La signora Dano è una cittadina rumena che ha un figlio e decide di raggiungere la sorella che vive in Germania. La signora Dano non ha una occupazione e ha un livello di scolarizzazione basso e fatica a trovare un impiego, ragione per la quale chiede alle autorità dello stato ospitante di ottenere assistenza sociale. Tale assistenza le viene negata per il medesimo motivo per cui era stata negata al signor Brey: mancanza di risorse economiche sufficienti. La signora impugna il provvedimento davanti al giudice nazionale che decide di sospendere il procedimento chiedendo l'intervento della Corte di giustizia, Corte che dovrà nuovamente interpretare l’Art.7 della direttiva. Tra l’altro va notato che il giudice avrebbe potuto evitare la sospensione del processo conformandosi alla giurisprudenza precedente della Corte di giustizia relativa al caso Brey ma così non ha fatto. La corte nel caso Dano ha completamente cambiato il proprio approccio e non abbiamo un ribadimento della giurisprudenza del caso Brey, ciò è evidente guardando alcuni punti della sentenza: punto 78: “Uno Stato membro deve pertanto avere la possibilità, ai sensi di detto articolo 7, di negare la concessione di prestazioni sociali a cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di un altro Stato membro pur non disponendo delle risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno.”. È evidente la differenza rispetto al caso Brey, qui il ragionamento si apre dicendo che gli stati membri hanno il diritto di negare l’esercizio di tali diritti nei confronti di persone che tengono un comportamento non conforme allo spirito del diritto stesso: cioè, persone inattive che esercitano il diritto col solo fine di ottenere una tutela sociale: si pensi alle c.d. forme di parassitismo sociale. Punto 79: “Privare uno Stato membro interessato di tale possibilità comporterebbe infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 106 delle conclusioni, che persone che non abbiano, al momento del loro ingresso nel territorio di un altro Stato membro, le risorse sufficienti per far fronte ai propri bisogni, verrebbero automaticamente a disporne, grazie alla concessione di una prestazione speciale in denaro di carattere non contributivo, il cui obiettivo consiste nel provvedere alla sussistenza del beneficiario.” Qui salta la solidarietà finanziaria, cioè di fatto la Corte dice che, se non venisse data agli stati tale possibilità, la conseguenza sarebbe che alcuni soggetti avrebbero una tutela sociale pur non avendo contribuito tramite lo strumento della leva fiscale a costituire il “paniere” da cui proviene tale assistenza. Alla luce di ciò qual è il test? Punto 80: “Occorre pertanto effettuare un esame concreto della situazione economica di ogni interessato, senza tener conto delle prestazioni sociali richieste, per valutare se questi soddisfi il requisito di disporre di risorse sufficienti per poter beneficiare del diritto di soggiorno ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2004/38.” Cioè, mi disinteresso della richiesta e guardo solo le condizioni economiche in cui versa Tizio o Caio (nel caso concreto la signora Dano) e valuto quelle: salta quindi la probatio diabolica perché non guardo più se la richiesta del singolo rappresenta un onere eccessivo per il welfare state del paese e mi limito a guardare le risorse di cui il singolo dispone. Punto 81: “Nel procedimento principale, secondo gli accertamenti del giudice del rinvio, i ricorrenti non dispongono di risorse sufficienti e non possono pertanto rivendicare il diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante in forza della direttiva 2004/38. Pertanto, come affermato al precedente punto 69, non possono avvalersi del principio di non discriminazione di cui all’articolo 24, paragrafo 1, della direttiva medesima.” La Corte qui entra nel merito della causa davanti al giudice a quo e di fatto risolve la controversia affermando che la signora Dano non ha risorse economiche sufficienti: quindi ha agito ultra vires ma nessuno stato membro si opporrà a questa presa di posizione della Corte di giustizia perché la soluzione della Corte è a favore degli stati. È impressionante il tono che la Corte di giustizia usa nella sentenza, vi è infatti una forte tendenza a stigmatizzare il comportamento tenuto dalla signora Dano e vi è una certa insistenza nel mettere in evidenza il comportamento della signora Dano. Perché questo cambio di paradigma? Siamo nel 2014 che è un anno particolare: finisce il periodo transitorio dei regimi di libera circolazione dei lavoratori degli accordi di associazione di Romania e Bulgaria ed è lo stesso anno in cui Cameron comunica di voler tenere il referendum nel 2014: quindi non è un caso che la sentenza Dano sia stata emanata nel 2014 perché nel frattempo è cambiato il quadro complessivo dell’ordinamento giuridico UE. La Corte di giustizia ha voluto, tenuto conto di un dibattito sul possibile timore di movimenti di massa di cittadini dell’UE da paesi di nuova adesione verso paesi con sistemi di welfare più solidi, contribuire a questo dibattito inviando un messaggio agli stati e in particolar modo agli stati destinatari di tali potenziali flussi e quindi la Corte ha voluto inviare un messaggio di solidarietà nei confronti delle posizioni espresse da taluni stati con l’obiettivo di preservare l'integrazione. Questo sviluppo evidenzia come le situazioni di crisi possano plasmare e modificare il diritto UE anche con riguardo alla cittadinanza UE. E questo ci conferma che la cittadinanza UE attualmente difficilmente può essere considerata statuto fondamentale dell’ordinamento UE. Segue: i cittadini di stati terzi nell’Ue La cittadinanza UE è stata istituita nel 1992 con il trattato di Maastricht. Ci sono però 2 forze contrapposte da bilanciare: Da un lato ci sono delle competenze pressoché esclusive degli stati membri, i quali decidono le regole in base alle quali un soggetto può essere cittadino dell’Unione o meno. Sono loro che decidono le regole in base alle quali si può revocare la cittadinanza dello stato membro; è chiaro però, che queste regole vanno a incidere sullo status di cittadino dell’Unione e che dunque l’iniziativa degli stati, ancorché presa nell’ambito di responsabilità esclusive, deve essere coerente con il diritto UE e guidata dal principio di proporzionalità. Nel contesto di cittadini di stati terzi all’interno dell’UE dobbiamo valutare 3 casistiche: ● La prima: i familiari dei cittadini dell’Unione (Sentenza Zuchen) ● La seconda: i soggiornanti di lungo periodo (Sentenza Kamberaj) ● La terza: i cittadini di stati terzi che beneficiano di un regime particolare in virtù di accordi conclusi tra l'Unione e uno o più stati terzi: si parla di accordi internazionali che contengono disposizioni relative a cittadini di stati terzi all’interno dell’Unione. Prima Casistica: Direttiva 2004/38, e Caso Zuchen Osserviamo la prima casistica partendo inevitabilmente dalla direttiva 2004/38. Iniziamo però col dire che la cittadinanza UE è prevista dal diritto primario dell'Unione e se noi ci basiamo solo sul diritto primario, che è generico, siamo sempre in spalle alla Corte di Giustizia che sarà quasi quotidianamente consultata dai giudici interni per avere delle interpretazioni del diritto UE , il diritto è una scienza inesatta ed è quindi necessaria una interpretazione delle fonti e c’è dunque il rischio di una attuazione disomogenea del diritto UE, quindi occorrono delle specificazioni che ci vengono date dal legislatore e dai suoi atti (atti legislativi). La direttiva 2004/38 è la direttiva relativa al diritto dei cittadini UE e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri. Questa direttiva modifica e abroga altri atti legislativi, infatti fino al 2004 vi era molta confusione in questa materia: la circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari era regolamentata ma con un insieme di atti legislativi che confondevano ed erano poco esaustivi, quindi serviva un atto legislativo omogeneo, chiaro e ricco: viene adottata la direttiva 2004/38 che modifica e abroga altri atti legislativi e che diventa il nucleo fondamentale della libera circolazione dei cittadini UE e dei loro familiari. Gli artt. 12, 18, 40, 44 e 52 sono la base giuridica della direttiva e questi articoli sono il fondamento costituzionale della direttiva e ci permettono di capire quali sono le aree di riferimento: questa direttiva si allaccia in parte alla circolazione delle persone e in parte alle disposizioni sul mercato interno. La direttiva riguarda il diritto dei cittadini UE e dei loro famigliari di soggiornare e circolare liberamente nel territorio degli stati membri: quindi gli elementi essenziali sono i beneficiari, chi sono i beneficiari e quindi chi può invocare i diritti della direttiva? I beneficiari sono i cittadini dell’UE e i loro familiari. Dobbiamo chiederci se il cittadino dell'Unione o il suo familiare può invocare i diritti di questa direttiva contro il proprio stato membro? Sì, potrebbe farlo ma in ipotesi marginali in quanto è necessario che ci sia uno spostamento e questo significa che verosimilmente io cittadino non mi troverò a invocare la direttiva contro il mio stato membro ma la invocherò nei confronti di uno stato membro diverso, cioè quello in cui io voglio andare o quello nel quale voglio risiedere. Questi sono i 2 punti chiave. Dobbiamo ora capire chi sono i familiari dei cittadini UE. La direttiva 2004/38 all'inizio stabilisce qual è l'oggetto e in secondo luogo fornisce le definizioni di riferimento, se non ci fosse una definizione di familiare molto probabilmente tutti gli stati membri potrebbero adottare una propria definizione di familiare con il risultato che alcuni stati membri potrebbero includere nella definizione i fratelli e le sorelle mentre altri stati no; o ancora alcuni stati potrebbero per esempio stabilire dei limiti alla circolazione dei familiari omossessuali mentre altri stati non lo farebbero, quindi è fondamentale che vi siano indicazioni nella direttiva e che vi sia una interpretazione chiara della Corte di Giustizia. Abbiamo capito che la prima parte del problema è ricostruire il concetto di familiare: nella definizione fornita dalla direttiva 2004/38 rientra: ● Il coniuge, il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione una unione registrata (inclusi gli omossessuali e questo ce lo dice la Corte di Giustizia in una sentenza) ● I discendenti diretti di età inferiore ai 21 anni o a carico e quelli del coniuge o del partner. Quindi è considerato familiare il mio discendente diretto se ha meno di 21 anni oppure se ha più di 21 anni ma è a carico mio nonché eventualmente il discendente del coniuge. Se noi leggiamo l’art 2 della direttiva che contiene la definizione di familiare noi non troveremo alcun riferimento ai fratelli o alle sorelle però l'art 3 della direttiva aggiunge che: “Senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell'interessato lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone: Ci si concentra sui soggiornanti di lungo periodo perché il soggiornante di lungo periodo sviluppa un legame molto stretto con lo stato membro ospitante e ciò giustifica un livello di integrazione maggiore rispetto al cittadino di stato terzo che non abbia queste prerogative e quindi la situazione giuridica del soggiornante di lungo periodo deve avvicinarsi a quella del cittadino dell’UE. Qui abbiamo un cittadino di stato terzo che si trova in uno stato membro UE. Questa direttiva fissa diverse condizioni di tipo sostanziale e procedurale. Bisogna anzitutto vedere chi sono i beneficiari. I beneficiari sono i cittadini di stati terzi che abbiano soggiornato regolarmente per almeno 5 anni in uno stato membro. Cosa succede però se io un giorno voglio uscire dallo stato membro che mi sta ospitando? Il computo di questi 5 anni viene sospeso o intaccato e rischio di perdere lo status di soggiornante di lungo periodo? No, perché ci sono criteri abbastanza specifici contenuti nella direttiva, ad esempio ai sensi dell’art.4 della direttiva è possibile prevedere delle assenze anche per 6 mesi continuativi o per 10 mesi in totale. Inoltre, vi è un altro requisito necessario per beneficiare della direttiva: non bastano, come nella direttiva 2004/38, solo le risorse economiche sufficienti ma la direttiva richiede per i soggiornanti di lungo periodo il possesso di risorse economiche sufficienti e stabili e regolari. Quindi vi è un onere probatorio aggiuntivo per il soggiornante di lungo periodo. Ci sono altre disposizioni simili a quelle della direttiva 2004/38, come ad esempio l'art. 11 che riguarda la parità di trattamento. L’art.11 è previsto perché stiamo parlando di una persona, il soggiornante di lungo periodo, che sta sviluppando un legame particolarmente intenso con lo stato ospitante e la sua situazione pian piano si avvicina alla situazione dei cittadini dello stato membro ospitante e dunque DEVE essere garantita la parità di trattamento almeno in relazione ai profili diffusi. L'art. 11 prevede un elenco di ipotesi: “Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: a) l’esercizio di un'attività lavorativa subordinata o autonoma, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all'esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzione; b) l'istruzione e la formazione professionale, compresi gli assegni scolastici e le borse di studio secondo il diritto nazionale; c) il riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli professionali secondo le procedure nazionali applicabili; d) le prestazioni sociali, l'assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale; ecc.” Possono essere previsti limiti alla parità di trattamento nelle suddette ipotesi? La direttiva ci dice di sì ma questi limiti non possono intaccare le prestazioni essenziali. Caso Kamberaj Guardiamo a questo proposito il caso Kamberaj. Si sviluppa in Italia, il signor Kamberaj è un cittadino albanese soggiornante di lungo periodo che beneficia di un soggiorno a tempo indeterminato in Italia. Per 10 anni ha beneficiato di un sussidio per l'alloggio, una prestazione che gli viene riconosciuta in quanto soggiornante di lungo periodo, a un certo punto però cambiano i criteri per l'erogazione di questo sussidio: viene previsto un doppio regime: viene previsto un ammontare di finanziamenti più alto per i cittadini dell'Unione e più basso per i cittadini di stati terzi. Dunque, il signor Kamberaj chiede il sussidio ma il tetto è già stato esaurito, se fosse stato un cittadino dell’Unione invece sarebbe riuscito a ottenere il sussidio. Vi è una violazione della parità di trattamento in questo caso? C’è un rinvio pregiudiziale con il quale viene richiesto da parte del giudice nazionale italiano l'intervento della Corte di Giustizia cui viene richiesto di interpretare l’art.11 della direttiva 2003/109. In questo caso è palese che vi è differenza di trattamento sfavorevole per i cittadini di stati terzi e favorevole per i cittadini dell’UE. Bisogna però capire se il sussidio per l'alloggio rientra nella casistica di cui art. 11 della direttiva 2003/109 e se rientra nei limiti di cui art.11 comma 4. L'approccio della Corte nella sentenza Kamberaj è duro, perché nonostante la Corte lasci la valutazione definitiva al giudice del rinvio, allo stesso tempo fa presente che vi sono limiti da osservare e interpreta queste disposizioni anche alla luce della carta dei diritti fondamentali (in particolare art. 34 paragrafo 3). La Corte legge le disposizioni di riferimento e si chiede se tale sussidio sia incluso nell'art. 11 della direttiva e se la negazione di questo sussidio implichi la violazione dell’art.11 paragrafo 4 della direttiva. La Corte ragionando in questi termini conclude che verosimilmente è così; quindi, è vero che la valutazione definitiva viene rimessa al giudice di rinvio ma quest’ultimo si trova di fronte a una strada stretta da percorrere perché il giudice nazionale dovrà necessariamente effettuare una valutazione condizionata. La Corte conclude che: “l'art. 11 della direttiva 2003/109 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale o regionale la quale per quanto riguarda la concessione di un sussidio per l’alloggio riservi a un cittadino di un paese terzo, beneficiario dello status di soggiornante di lungo periodo, un trattamento diverso da quello riservato ai cittadini nazionali residenti nella medesima provincia o regione nell’ambito della distribuzione dei fondi destinati al sussidio summenzionato.” Alla fine, quindi si pronuncerà il giudice del rinvio che però dovrà tenere conto di indicatori ben precisi. Terza casistica: accordi tra Ue e stati terzi Abbiamo poi un’ultima casistica: ci può essere un terzo regime che riguarda i cittadini di stati terzi, un regime che deriva da accordi conclusi dall'Ue e uno stato terzo; quindi, vi è un accordo internazionale tra l’UE e lo stato terzo. Ce ne sono diversi di questi accordi che intavolano una cooperazione: noi ne guarderemo 2: ● Accordo che crea un’associazione tra la CEE e la Turchia (1963) ● Accordo di partenariato e cooperazione tra le comunità europee e gli stati membri da una parte e la federazione russa dall’altro. Iniziamo dal primo accordo: è un accordo molto sintetico con disposizioni vaghe, guardiamo l’Art. 12 che riguarda i cittadini dello stato terzo che si lega alla Comunità (in questo caso la Turchia): “Le Parti Contraenti convengono d'ispirarsi agli articoli del trattato CEE inerenti alla libera circolazione dei lavoratori, per realizzare gradualmente tra di loro la libera circolazione dei lavoratori.” Guardiamo invece l’Art. 23 del secondo accordo: “Conformemente alle leggi, condizioni e procedure applicabili in ciascuno Stato membro, la Comunità e i suoi Stati membri evitano che i cittadini russi legalmente impiegati sul territorio di uno Stato membro siano oggetto, rispetto ai loro cittadini, di discriminazioni basate sulla nazionalità per quanto riguarda le condizioni di lavoro, di retribuzione o di licenziamento.” Questa disposizione è sicuramente più precisa della disposizione esaminata prima. Questo articolo impone la parità di trattamento tra i cittadini dello stato membro di riferimento da un lato e i cittadini dello stato terzo che ha concluso l’accordo dal quale fuoriesce questo regime di circolazione e di parità di trattamento. Abbiamo visto che c’è uno sviluppo: passiamo da una disposizione che non è direttamente efficace (art.12 accordo con la Turchia) e quindi passiamo da un contesto che richiede un’implementazione, ad un altro accordo, quello con la Federazione Russa, che non richiede e implementazione sicché può essere direttamente invocata la disposizione da parte dei cittadini russi che siano legalmente residenti in un paese membro: quindi abbiamo un individuo che davanti a un giudice nazionale invoca direttamente la disposizione dell’accordo che gli riconosce la parità di trattamento. C’è un terzo tempo che vale la pena menzionare e che caratterizza la fase attuale di negoziazione tra UE e stati terzi di accordi di associazione e accordi che istituiscono zone di libero scambio. Questo terzo tempo è caratterizzato da una situazione nella quale noi possiamo avere disposizioni dal tenore letterale identico a quello di cui art. 23 con la federazione russa (per esempio una disposizione di questo tipo noi l’abbiamo nell’accordo di associazione tra UE e Ucraina), tuttavia queste disposizioni non sono più direttamente invocabili dai singoli davanti ai giudici nazionali perché abbiamo, o nell’accordo o nella decisione di ratifica, una clausola generale che esclude la diretta efficacia: per cui è come se il terzo tempo dell’evoluzione riportasse alla situazione iniziale, cioè di disposizioni che NON sono in grado di per sé di essere direttamente invocate, per cui il cittadino di paese terzo dovrà attendere un’implementazione che deve avvenire o su base sovranazionale o a livello di singoli paesi membri. La disposizione di per sé potrebbe essere già operativa ma viene bloccata la diretta efficacia da una volontà esplicita delle parti contraenti. Perché avviene questo? Perché non si vuole lasciare ai giudici nazionali l’assunzione di decisioni che hanno conseguenze in materia di budget per gli stati membri: siamo in un contesto di ristrettezza economica e gli stati ritengono che non sia opportuno che i singoli possano invocare questi diritti davanti ai giudici e che quest’ultimi possano concedere loro parità di trattamento che potrebbero determinare delle implicazioni di spesa ulteriore per gli stati membri; da qui la necessità di un filtro che viene introdotto attraverso la necessità di implementare su base normativa le disposizioni degli ordinamenti nazionali. Conseguenze della Brexit: lo status dei cittadini britannici alla luce del diritto Ue Parliamo di un caso recente, deciso quest’anno, che riguarda la situazione di individui che erano cittadini dell’Unione fino al febbraio del 2020 e che poi hanno perso questo statuto: parliamo ovviamente dei cittadini britannici. Guardiamo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia in grande camera che riguarda in particolare la questione concernente l'esercizio del diritto di voto alle elezioni locali che è uno dei diritti politici riconosciuti ai cittadini dell’UE. In sostanza abbiamo una situazione in cui una cittadina britannica, di cui conosciamo solo le iniziali EP, residente in Francia da più di 15 anni e iscritta fino al primo Febbraio 2020 nelle liste elettorali del paese di residenza, dal primo Febbraio in poi si trova ad essere cancellata da queste liste elettorali non potendo più partecipare alle elezioni locali che vengono periodicamente organizzate nel paese di residenza: tutto ciò avviene in conseguenza all'entrata in vigore dell'accordo di recesso che prevede il venir meno dei diritti politici connessi alla cittadinanza UE, in quanto sono diritti che sotto intendono una piena partecipazione al processo di integrazione che i cittadini del Regno Unito non sono più in grado di maturare in virtù del fatto che il paese ha deciso di lasciare l’UE. la signora EP ritiene che questa cancellazione dalle liste rappresenti una violazione dei suoi diritti e quindi si apre un contenzioso davanti al giudice nazionale francese il quale ritiene necessario sospendere il processo e rivolgersi alla corte di giustizia. La Corte deve stabilire se la misura adottata dalle autorità nazionali (la cancellazione dalle liste) sia conforme al diritto UE: in particolare alla luce dei diritti riconosciuti ai cittadini dell'Ue nella Carta dei diritti fondamentali e alla luce del principio di proporzionalità, principio che era già venuto in evidenza nel caso Rottman, caso che si chiude con la pronuncia della Corte di giustizia che afferma che spetta all’autorità nazionale verificare se la misura adottata che porta all’apolidia è proporzionale rispetto all’obiettivo perseguito: dunque si pone come limite alla discrezionalità dello stato il principio di proporzionalità. Anche in questo caso viene quindi invocato il principio di proporzionalità come possibile limite alla discrezionalità che lo stato (Francia) può esercitare in materia. La Corte di giustizia in questa pronuncia si limita a richiamare il quadro del recesso dall'Ue che aveva già chiarito nella sentenza Whitman, sentenza Whitman che abbiamo preso in considerazione quando abbiamo ragionato sulla natura del diritto di recesso e in quella occasione la Corte di giustizia in sezione plenaria aveva detto che non era possibile introdurre dei limiti stringenti all'azione che gli stati membri possono mettere in opera nell'esercitare il recesso perché il recesso è il prodotto di un'azione sovrana degli stati, cioè nel momento in cui gli stati attivano la clausola di recesso non stanno più agendo come stati membri ma come stati sovrani e indipendenti e in virtù di ciò non possono essere sottoposti a limiti stringenti (fatto salvo il limite del rispetto delle procedure costituzionali interne). La Corte di giustizia richiama questa circostanza nel caso in questione, cioè ribadisce che il recesso è il frutto di una decisione sovrana degli stati membri e in virtù di ciò le conseguenze del diritto di recesso, Quindi l'equilibrio istituzionale che deve governare l’interazione tra istituzioni è un assetto delineato anzitutto da questi 2 principi: cioè da un lato principio di attribuzione delle competenze, ed è logico che sia così perché l’Unione ha delle competenze date e ciascuna istituzione all’interno dell’Unione ha delle competenze date e NON può agire oltre tali competenze perché agendo oltre andrebbe a rompere l’equilibrio istituzionale e metterebbe in difficoltà la fisiologia istituzionale dell’UE: quindi ogni istituzione ha un mandato specifico ed è un mandato che è specifico perché si inserisce in un contesto più esteso nel quale deve interagire con altre istituzioni e in cui è sottoposto a controllo. Dall’altro lato abbiamo il principio di leale cooperazione, che non ha valenza solo nei rapporti tra stati membri e UE e tra stati membri, ma è un principio che governa anche i rapporti tra le istituzioni dell’Unione e insieme al principio di attribuzione garantisce l’equilibrio istituzionale. Dopo di che vi è un altro elemento di dettaglio che ci viene restituito dal paragrafo 1 del trattato: “l’Unione dispone di un quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli stati membri, garantirne la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue politiche.” Questa è una disposizione che ci dà conto di quella che è l’azione generale che le istituzioni devono compiere e ci restituisce anche 3 punti di attenzione: 2 di questi punti li abbiamo già richiamati: ● Il primo è legato al ruolo dei cittadini e alla necessità che si agisca nell’interesse dei cittadini dell’Unione e ciò rimanda al principio di democrazia rappresentativa che è un principio richiamato all’art. 10 Tue e quindi al fatto che il quadro istituzionale UE deve essere ispirato a una logica di democrazia rappresentativa. ● Il secondo elemento è il riferimento ai valori fondamentali e in particolare allo stato di diritto. ● Il terzo e ultimo punto di attenzione che non è esplicitato ma è desumibile dalla norma ed è quello della unicità del quadro istituzionale dell'UE: la norma ci restituisce un quadro istituzionale che è unico quale che sia l’ambito in cui le istituzioni debbano operare e quale che sia l’ente in cui le istituzioni operano. Le istituzioni di cui parliamo sono istituzioni uniche che operano tanto nell’ambito dell’UE tanto nell’ambito della Comunità europea per le energie atomiche con azioni e funzioni che possono diversificarsi a seconda del mandato conferito: quindi il principio di attribuzione delle competenze non solo è rilevante perché è garante dell’equilibrio istituzionale ma è rilevante perché essendo unico il quadro istituzionale deve essere consentito ad una istituzione data di poter operare secondo logiche che possono diversificarsi a seconda del contesto in cui è chiamata ad esercitare le proprie funzioni. Consiglio Europeo Il Consiglio europeo nel corso del tempo è stato oggetto di un’evoluzione dato che inizialmente il consiglio non era un’istituzione dell’Unione ma era il prodotto di una prassi che si era consolidata dagli anni 70 e che consisteva nell’organizzare periodicamente dei summit tra i capi di stato e di governo dei paesi delle allora comunità europee per affrontare le questioni politiche prioritarie che avrebbero poi dovuto vedere un’azione concertata nel contesto delle comunità europee. L’idea era quella di un forum puramente intergovernativo esterno all’assetto istituzionale delle comunità ma in qualche modo complementare perché le priorità politiche definite nel forum avrebbero poi dovuto trovare concretizzazione nell’azione dell’operato delle istituzioni delle comunità al fine di promuovere e favorire l’integrazione europea tra gli stati membri. In realtà già prima della riforma introdotta dal trattato di Lisbona che ha formalizzato il Consiglio europeo trasformandolo in una istituzione, il Consiglio europeo aveva un’incidenza operativa significativa e quindi non si limitava a dare degli impulsi esterni che poi dovevano essere resi azione concreta nell’ambito delle comunità europee ma anticipava delle decisioni, anche di dettaglio, che avrebbero dovuto essere concretizzate sul piano meramente esecutivo dalle istituzioni delle comunità: quindi introducendo un elemento intergovernativo in un sistema che doveva operare attraverso la logica comunitaria. Per cercare di porre rimedio a questa deriva il Consiglio europeo è stato formalizzato ed oggi è un’istituzione ma in realtà questa soluzione non ha risolto il problema ma lo ha istituzionalizzato perché non vi è dubbio che il Consiglio europeo rimanga un’istanza in gran parte intergovernativa dell’ordinamento in quanto è un’istituzione in cui siedono i capi di stato e di governo dei paesi membri e oggi questo organo intergovernativo è l’organo che dà gli impulsi di azione alle altre istituzioni e nella prassi per molto tempo si è determinata una distorsione per cui nei fatti il Consiglio europeo non si è limitato a dare impulsi politici ma ha addirittura definito quelle che sarebbero poi state le proposte che la Commissione avrebbe dovuto avanzare sul piano dell’azione legislativa trasformando la Commissione in una sorta di Segretariato alle dipendenze del consiglio europeo e dunque formalizzando una dimensione fortemente intergovernativa nel sistema. Come è potuto accadere questo? Da un lato questo è stato reso possibile dal fatto di formalizzare questa istanza intergovernativa in un sistema che agiva attraverso il metodo comunitario, però questa distorsione è stata possibile anche per l'approccio tenuto dalla Commissione europea che ha in qualche modo prestato acquiescenza rispetto al meccanismo in cui fosse il Consiglio europeo di fatto a dettare l’agenda legislativa e politica. Non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di istituzioni ed è chiaro che le istituzioni vivono attraverso gli uomini che le compongono e bene questa alterazione del ruolo della Commissione europea si è realizzata nel corso di una legislatura e di una commissione: la Commissione Barroso, commissione che si avvicinerà alla dimensione governativa-nazionale e si avvicinerà perché Barroso era stato un primo ministro ed era espressione degli interessi nazionali: aveva partecipato a Consigli europei come decisore ed era molto sensibile agli interessi nazionali. Questo approccio poi è continuato anche nella commissione Juncker per lo stesso motivo, cioè per il fatto che anche Juncker era stato primo ministro. Il fatto che la commissione europea non abbia ritenuto, per molto tempo, di dover emanciparsi dalla posizione di subalternità acquisita è frutto anche delle decisioni che sono state assunte nella composizione della Commissione europea e delle decisioni che i componenti della Commissione hanno poi esercitato nel tempo. La commissione attuale, probabilmente complice anche l’emergenza del covid 19, ha dimostrato una maggior autonomia e tutto sommato sta forse uscendo dalla situazione di profonda sub alternità che si era determinata nelle 2 Commissioni precedenti. Abbiamo detto tutto questo per evidenziare che la formalizzazione del Consiglio europeo come istituzione dell’UE è stata un elemento problematico nel garantire un equilibrio istituzionale proprio perché ha portato una quota di dimensione intergovernativa che ha determinato la necessità di dare vita a nuovi equilibri. Fatta questa premessa va evidenziato che il consiglio europeo è oggi un’istituzione composta dai capi di stato o governo dei paesi membri (vi è questa disgiunzione perché bisogna guardare gli ordinamenti dei singoli paesi e vedere qual è la figura che detiene il potere di indirizzo estero dello stato, potere che nella maggior parte dei casi è detenuto dal capo di governo mentre in casi residuali è detenuto dal capo di stato). Non ha dunque una composizione fissa perché i capi di stato e di governo cambiano anche se il ruolo è sempre quello: non abbiamo figure diverse dai capi di stato o di governo che compongono il Consiglio europeo (fatte alcune eccezioni che dopo vedremo). Poteri e funzioni del Consiglio Europeo ● Impulso politico Il Consiglio europeo è l'istituzione che definisce l’agenda politica dell’UE in tutti gli ambiti. ● Ruolo nella nomina di altre istituzioni, organi o cariche dell’UE. ● Riveste un ruolo importante nella procedura di revisione dei trattati e in particolare ha un potere decisionale in una procedura speciale, cioè in quel caso non è più un attore solo politico ma diventa un soggetto detentore di un potere decisionale e questo potere è sottoponibile allo scrutinio di controllo della Corte di Giustizia. ● Ruolo nella procedura di adesione all’UE e nella procedura di recesso. ● Vi sono situazioni in cui il consiglio europeo funge da camera di compensazione tra interessi nazionali contrapposti degli stati membri: sono casi molto rari ma ci sono situazioni in cui il Consiglio può essere investito laddove vi sia un’impasse lato Consiglio e non si riesca ad assumere una decisione a causa di una contrapposizione di interessi nazionali di paesi membri. Composizione: composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri. Abbiamo poi altre figure che non partecipano all’assunzione di decisioni all’interno del Consiglio europeo quali che sia la natura di queste decisioni, e sono ● Il presidente del consiglio europeo che è nominato dai membri del consiglio europeo stesso per un mandato di 2 anni e mezzo rinnovabile. ● Il presidente della commissione europea che partecipa ma non vota. ● L’ARAEPS, cioè l’alto rappresentante dell’azione esterna dell’unione della politica di sicurezza. È possibile che vengano invitati alle riunioni del Consiglio europeo altri soggetti, ad esempio i rappresentanti di governo di paesi terzi con i quali si realizzano dei bilaterali; normalmente partecipano anche i ministri nazionali, il vicepresidente della Commissione europea e il presidente del Parlamento europeo che sono soggetti che possono intervenire ma non hanno un ruolo particolare nell’ambito delle riunioni del Consiglio europeo. Il Consiglio europeo ha sede a Bruxelles. In precedenza, le riunioni si tenevano presso gli stati membri che avevano la presidenza dell’UE, oggi questo non avviene quasi più perché normalmente le riunioni del Consiglio europeo si tengono direttamente a Bruxelles o in modalità telematica. Tipologia atti del Consiglio Europeo Nella maggior parte dei casi sono atti di natura politica quindi non produttivi di effetti giuridici vincolanti. ● Il classico atto del Consiglio europeo sono le conclusioni adottate al termine delle sue riunioni, conclusioni che altro non sono se non un documento in cui si legge che cosa il Consiglio europeo ha concluso/stabilito. I contenuti delle conclusioni sono piuttosto generali perché attengono a decisioni politiche di massima che poi debbono essere dettagliate in atti normativi. ● Il Consiglio europeo può adottare raccomandazioni che sono atti non vincolanti che hanno valore di esortazione nei confronti del destinatario. ● Ci sono inoltre delle delibere che hanno rilievo procedurale. Ci sono casi in cui il consiglio europeo decide e dunque adotta atti vincolanti. Facciamo un esempio di decisione normativa del Consiglio europeo avente effetto vincolante: si pensi all’Art. 7 Tue: “spetta al Consiglio europeo all’unanimità decidere se sussiste una violazione grave e persistente da parte di uno stato membro di un valore di cui all’art.2.” Questa è una decisione che, come tale, è vincolante. È importante sottolineare questo punto perché le decisioni vincolanti sono passibili di controllo di legittimità della Corte di Giustizia e nel caso dell’Art. 7 Tue il controllo che può fare la Corte di Giustizia è limitato e attiene solo il rispetto della procedura, ma quando per esempio il Consiglio europeo interviene per procedere alla revisione dei trattati attraverso una decisione il controllo della Corte di Giustizia è pieno. Commissione Europea-sede a Bruxelles La Commissione europea è un organo di individui, i quali vengono individuati facendo riferimento alle loro competenze tecniche. La Commissione è un’istituzione che in ragione di ciò è vocata al perseguimento dell’interesse generale dell’Unione, cioè non perseguendo gli interessi degli stati membri, questi soggetti in ragione delle loro capacità si ritiene che operino nell’esclusivo interesse generale dell’UE. La Commissione è composta da 27 individui (un commissario per ogni stato membro) opera secondo una logica di collegialità: le decisioni che assume la Commissione non sono decisioni che vanno riportate al singolo commissario proponente ma sono decisioni che vengono assunte dal collegio dei commissari nella sua interezza, così come le responsabilità sono responsabilità che investono l'intero collegio dei commissari. persona dovrà rinunciare a uno dei 2 mandati ma per molto tempo questo è stato possibile. Non è possibile la delega di voto da parte dei parlamentari europei: il voto è sempre personale. I parlamentari europei come i parlamentari nazionali godono di immunità e privilegi che sono visti dal diritto Ue e che sono funzionali a garantire che essi possano esercitare in piena indipendenza il loro mandato. I parlamentari europei godono altresì dell’immunità nazionale negli stati di provenienza. Il tema dell’immunità è un tema sensibile che ha un valore importante per il corretto valore dell’istituzione e che rimanda direttamente al principio valore della democrazia come principio che informa l’assetto istituzionale dell’unione e che costituisce un valore fondamentale su cui l’Unione si fonda, quindi è opportuno aprire una piccola parentesi: guardiamo un caso concreto che è stato portato all’attenzione della Corte di giustizia, parliamo del caso che riguarda il Signore Junqueras che è un cittadino spagnolo che è stato presidente dell’assemblea parlamentare catalana ed è uno dei protagonisti di quella azione che ha portato alla dichiarazione di indipendenza della Catalogna e in ragione di ciò è stato sottoposto a processo penale in Spagna per reati particolarmente gravi (ribellione). Junqueras viene eletto parlamentare europeo e ai fini di consentire agli eletti di incardinarsi formalmente nel proprio ufficio occorre consentire loro di recarsi a Strasburgo in occasione della prima plenaria del Parlamento europeo affinché possano insediarsi formalmente. Nello specifico poi la normativa spagnola prevede che funzionale all’insediamento dei parlamentari europei sia una cerimonia di giuramento in Spagna. Il problema che incontra il signor Junqueras è che lui è sottoposto a una misura di detenzione e non può recarsi a Strasburgo e quindi non può formalmente assumere la carica di parlamentare europeo e questo ovviamente impatta con il funzionamento dell’istituzione e con il suo status. Quindi si crea un contenzioso che finisce alla Corte di Giustizia in seguito a un rinvio pregiudiziale e la Corte è chiamata a stabilire se Junqueras abbia titolo per godere dell’immunità e la Corte riconoscerà l’immunità a Junqueras e nel ragionamento della Corte è funzionale a questo riconoscimento il ribadimento dell’importanza centrale che ha il principio di democrazia nell’ordinamento dell’UE: cioè l’impedire da parte di uno stato membro ad un soggetto eletto di poter prendere formalmente parte ad una assemblea (l’assemblea del Parlamento) confligge con il principio di democrazia che è un principio di base dell’ordinamento giuridico dell’UE. L’elemento particolarmente interessante di questo caso è che l’esigenza di tutelare il principio di democrazia a livello di Unione Europea prevale su una esigenza altrettanto significativa (quella spagnola) di preservare la propria integrità territoriale sottoponendo a procedimenti penali coloro che hanno attentato all’integrità territoriale. Quindi qui abbiamo 2 interessi importanti, interesse della Spagna e interesse dell’UE, che sono in conflitto fra loro e nel bilanciamento effettuato dalla Corte di Giustizia prevale il secondo sul primo e ciò è una riprova del fatto che le prerogative essenziali sovrane degli stati membri incontrano limiti di tutela nel momento in cui si cerca di infrangere la linea rossa dei valori fondamentali su cui si basa l’ordinamento giuridico dell’UE. Composizione: 705 membri: il numero è stabilito da una decisione assunta dal Consiglio europeo. ● Abbiamo il presidente eletto dai membri per un mandato di 2 anni e mezzo e quindi c’è una doppia presidenza nella legislatura che dura 5 anni. ● I membri del Parlamento europeo si organizzano in gruppi parlamentari che rispecchiano la composizione dei partiti europei. ● Organizzazione interna simile a quella che troviamo nei parlamenti nazionali: abbiamo la conferenza dei presidenti dei gruppi, le commissioni di lavoro e la conferenza delle commissioni di lavoro. Abbiamo commissioni permanenti che sono organizzate ratione materiae e il Parlamento ha sempre la possibilità di introdurre delle commissioni ad hoc e in particolare delle commissioni di inchiesta. Funzionamento Vi è un meccanismo di autoregolamentazione del Parlamento in base al quale il parlamento auto-regola il proprio funzionamento nel rispetto e nei limiti dei trattati e in particolare ciò riguarda i lavori, come funzionano le commissioni, come avvengono i voti in senso alla plenaria. Sullamodalità di voto: ● La regola generale che è la maggioranza semplice con un quorum di 1/3 dei presenti. ● Casi in cui è chiamato a rispondere secondo delle regole rafforzate: o Maggioranza assoluta bilancio o Maggioranza di 2/3 + quorum della maggioranza assoluta dei presenti mozione di censura nei confronti della Commissione (che è una sorte di mozione di sfiducia che determina le dimissioni in blocco della commissione e quindi è un atto molto forte). Non abbiamo mai avuto casi in cui il Parlamento europeo sia arrivato a votare una mozione di censura nei confronti di una Commissione, laddove vi era il serio rischio che si arrivasse a ciò la Commissione ha preferito prevenire il rischio dando le dimissioni. Poteri Il potere più importante riguarda le 2 funzioni generali: ● Funzione di bilancio: approva il bilancio ● Funzione legislativa: è di regola un co-legislatore, dico di regola perché vi sono dei casi in cui il Parlamento non decide formalmente l’adozione dell’atto, così come ci sono dei casi in cui il Parlamento di fatto non è coinvolto nel processo decisionale (ad esempio questo avviene nel caso della politica estera di sicurezza comune che rimane un ambito in cui la dimensione intergovernativa è prevalente). Però al di là dei suddetti casi particolari il Parlamento europeo è un co-legislatore nella maggior parte dei casi. Dopo di che: ● Poteri di controllo politico che il Parlamento europeo può esercitare sulle istituzioni, in particolar modo sulla Commissione europea, e qui il controllo è: o ex ante perché il Parlamento partecipa alla sua formazione o ex post la formazione della Commissione perché il Parlamento avrà la possibilità di presentare delle interrogazioni alla Commissione, perché potrà impugnare gli atti della Commissione e perché potrebbe adottare una mozione di censura contro la Commissione. Vi è quindi un vero e proprio rapporto di fiducia tra Commissione e Parlamento. ● Il Parlamento europeo può presentare delle interrogazioni anche nei confronti del Consiglio. ● Il Parlamento riceve delle petizioni dai cittadini dell’UE e da coloro che risiedono nell’UE, petizioni che altro non sono che richieste di chiarimenti che possono essere formulate al Parlamento e a cui il Parlamento deve rispondere per produrre eventualmente effetti sul piano giuridico. ● Il Parlamento elegge il mediatore europeo che è un organo ausiliare che opera al fine garantire la buona amministrazione a livello dell’UE. ● Il Parlamento può suggerire alla Commissione l’adozione di proposte di atti normativi e quindi ha un potere di iniziativa indiretto: non può esso stesso presentare delle proposte di atti normativi ma può chiedere che sia la Commissione a farlo perché la Commissione ha il quasi monopolio nella presentazione delle proposte di atti normativi. Il Parlamento può infine indire delle commissioni di inchiesta che vengono generalmente costituite laddove il Parlamento intenda investigare sull’applicazione del diritto UE da parte degli stati membri. Ad esempio: ● Il Parlamento istituì una commissione a valle dell’emergenza della c. d. mucca pazza: cioè, un controllo in particolare sul rispetto da parte del Regno Unito delle normative veterinarie relative all’importazione di bovini e alla macellazione dei bovini.; ● Più recentemente, invece, istituì una commissione di inchiesta sul fenomeno delle c.d. consegne straordinarie: siamo nel contesto del contrasto al terrorismo internazionale e alcuni paesi (Stati Uniti in primis) hanno sviluppato, probabilmente d'intesa con altri stati, delle azioni sul territorio di altri stati volte alla cattura di sospetti terroristi e al loro trasferimento presso centri di detenzione più o meno segreti (in Italia il caso più famoso di consegna straordinaria è stato quello dell’imam Abu Omar, un imam che si trovava a Milano e che fu prelevato per strada per essere trasferito in Egitto e da lì potenzialmente negli Stati Uniti, per questo caso ci sono stati procedimenti penali a carico dei funzionari dei servizi di intelligence degli stati uniti e dei servizi di sicurezza italiani). Questo programma si è molto sviluppato in Europa, sappiamo che c’erano 2 centri di detenzione segreta in Germania e in Polonia che venivano usati sistematicamente dagli Stati Uniti e il Parlamento europeo istituì una commissione di inchiesta per svolgere un’indagine perché queste operazioni ponevano problemi sul piano del rispetto dei diritti fondamentali. Parlamento Europeo: il potere legislativo Partiamo dalla ipotesi principale che è la procedura legislativa ordinaria in cui il Parlamento europeo è co-legislatore sicché abbiamo un meccanismo di bicameralismo perfetto: l’atto si adotta se sul suo contenuto insiste il consenso di entrambe le istituzioni che svolgono l’azione di legislatore, cioè Parlamento e consiglio dell’Unione. Questa è la procedura che viene oggi utilizzata nella maggior parte dei casi. Poi abbiamo altre 2 procedure le c.d. procedure legislative speciali. In entrambi i casi il Parlamento non è più legislatore e quindi abbiamo un unico legislatore: ● La procedura di consultazione L’intervento del Parlamento è limitato in quanto si limita a fornire un parere che non è vincolante ma è obbligatorio; inoltre, il parere va chiesto necessariamente e quindi se il Consiglio adottasse un atto, che deve essere adottato con procedura di consultazione, senza chiedere il parere del Parlamento, l’atto sarebbe viziato e potrebbe essere dichiarato nullo. Però allo stesso tempo va tenuto conto del fatto che il parere non è vincolante per cui il Consiglio può disattendere le indicazioni che sono fornite dal Parlamento nel suo parere. ● La procedura di adozione è sempre una procedura in cui il legislatore è il Consiglio e la differenza rispetto alla procedura precedente è che il parere non è solo obbligatorio ma anche vincolante: per cui se il Parlamento “dice no” l’atto non può essere adottato. Abbiamo 2 sedi del Parlamento europeo: Bruxelles per quanto riguarda il lavoro quotidiano delle commissioni e Strasburgo per quanto riguarda la plenaria. Consiglio dell’Ue Il consiglio dell’UE è un’istituzione di stati, è composto dai rappresentanti a livello ministeriale degli stati membri: non è composto necessariamente dai ministri (anche se spesso accade che siano i ministri a partecipare alle riunioni del Consiglio) ma è anche possibile che vi partecipino delle cariche politiche a livello ministeriale che hanno il potere di indirizzo (ad esempio i sottosegretari). Tra l’altro negli stati federali o quasi federali è pure possibile che partecipino rappresentanti degli stati federati o, nel caso dell’Italia, delle regioni: il presidente di una regione potrebbe partecipare alle riunioni del Consiglio in quanto ciò è permesso formalmente dalla legge 234/2012 che regolamenta la partecipazione dell’Italia al processo di formazione del diritto UE, tuttavia bisogna tenere conto che laddove per esempio il presidente della regione Emilia Romagna partecipi a una riunione del consiglio, egli non vi partecipa in quanto portatore degli interessi della regione Emilia Romagna ma vi partecipa in quanto rappresentante dello stato italiano. Quindi materialmente il presidente della Regione potrebbe partecipare ma è evidente che questo soggetto non sia la persona maggiormente in grado di rappresentare le istanze collettive di tutte le regioni e dello stato e quindi nonostante l’astratta possibilità della sua partecipazione al Consiglio egli non partecipa MAI alle riunioni. Non esiste una composizione fissa del consiglio dell’UE: noi abbiamo rappresentanti a livello ministeriale che partecipano sulla base delle materie che vengono trattate, cioè abbiamo diverse formazioni del Consiglio dell’UE che sono ispirate a diversi ambiti materiali che vengono toccati (per cui per intenderci abbiamo il consiglio dell’UE giustizia e affari interni cui parteciperanno i rappresentanti a livello ● Il Consiglio ha un ruolo fondamentale nell’adesione/recesso degli stati nell’UE: adesione e recesso sono elementi fondamentali. ● Svolge un ruolo che attiene alla violazione dei valori fondamentali: art. 7 paragrafo 1 e paragrafo 3 La sede del consiglio è prevalentemente Bruxelles, tuttavia alcune formazioni del Consiglio si tengono anche a Lussemburgo. Abbiamo concluso il quadro sulle istituzioni politiche. L’EQUILIBRIO ISTITUZIONALE: lo strano caso dello statement Ue-Turchia Parliamo di caso interessante nell’ottica di valutare quali possano essere le conseguenze sul piano giuridico che si determinano laddove venga meno l'equilibrio istituzionale che è descritto nei trattati. Il caso riguarda i rapporti tra 2 soggetti: Federica Mogherini che è stata alto rappresentante per l’azione esterna e la politica di sicurezza dell’UE e Erdogan presidente della Turchia; quindi, parliamo dei rapporti tra UE e Turchia e in particolar modo, di un documento noto come statement UE-Turchia, adottato il 18 Marzo 2016 nel contesto di una riunione del Consiglio europeo, nella quale si tenne, inoltre, un bilaterale tra UE e Turchia. Siamo nel 2016 in un momento di forte intensità della crisi dei rifugiati, la quale colpisce maggiormente: ● Italia: interessata dalla rotta libica ● Grecia: interessata dalla rotta dei Balcani All'esito di questa riunione si adotta il suddetto documento che vuole introdurre un meccanismo di cooperazione tra UE e Turchia volto a governare il flusso migratorio dei Balcani. Questo statement si basa su 3 passaggi chiave. ● Punto 1: “tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto l’attraversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 Marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia.” Questo è un classico meccanismo di riammissione, cioè i migranti irregolari che entrano nel territorio dell’UE attraverso la Grecia valicando il confine tra Grecia e Turchia, a partire dal 20 marzo 2016 sono oggetto di un provvedimento di espulsione verso la Turchia che è obbligata a riammettere sul suo territorio questi soggetti. Va segnalato che questo meccanismo non è nuovo perché esiste già un accordo di riammissione tra UE e Turchia voltò a regolare questo fenomeno sicché su questo punto non si fa altro che ribadire obblighi già esistenti. ● Punto 2: “per ogni cittadino siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche sulla base del meccanismo di cui al punto.1, un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’UE tenendo conto dei criteri di vulnerabilità delle nazioni unite.” Questo è un meccanismo a uno a uno: cioè, ti restituisco un cittadino siriano che è sottoposto a espulsione sulla base del meccanismo di riammissione e in cambio tu mi dai un cittadino siriano che si trova sul tuo territorio. Si parla di cittadini siriani perché in quel momento il conflitto in Siria era molto accesso e perché la Turchia è stato il paese di destinazione di un flusso importante di cittadini siriani che hanno lasciato il loro paese in conseguenza della guerra civile chiedendo protezione e/o asilo in Turchia dove sono stati creati dei campi per i rifugiati. Qual è il senso di questo meccanismo? La logica è quella di contrastare l’immigrazione irregolare, quindi i migranti irregolari siriani debbono lasciare il territorio dell’UE, tuttavia si mostra solidarietà nei confronti di una popolazione che è sottoposta a un gravissime difficoltà derivanti dalla guerra civile, accogliendo un pari numero di cittadini siriani che si trovino già in territorio turco e che siano entrati probabilmente non regolarmente nel territorio ma nonostante questo avendo richiesto protezione o asilo non possono più essere espulsi e sono “coperti” dal quadro del diritto internazionale. È una forma di compensazione solidaristica ed è sicuramente un meccanismo bizzarro e che pone problemi perché si applica solo ai siriani e quindi potrebbe esserci un problema di discriminazione. Questo meccanismo è però un qualcosa di nuovo. ● Punto 3: L’UE si impegna a un corrispettivo economico a fronte degli impegni assunti dalla Turchia, in particolar modo l’UE si impegna a versare a favore della Turchia una somma, attraverso diverse rate e un monitoraggio periodico, pari a 6 miliardi di euro. L’ultimo elemento di contesto da segnalare è la forma che assume questa dichiarazione: che cos'è la dichiarazione UE-Turchia? Alla luce di quanto affermato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati sembrerebbe un accordo internazionale ma così non può essere perché il Consiglio europeo non può concludere accordi internazionali. Potremmo allora dire che siamo di fronte a una dichiarazione politica, se fosse davvero una dichiarazione politica del consiglio europeo con la Turchia non ci sarebbero problemi ma questo atto difficilmente può essere considerato una dichiarazione politica perché prevede obblighi a carico delle parti. Il punto è questo: se noi consideriamo questo atto come un accordo internazionale allora abbiamo un problema enorme: abbiamo un’istituzione (il Consiglio europeo) che ha agito oltre il suo mandato e ciò provocherebbe una frattura nell’equilibrio istituzionale dell'Unione. Allora l'ultima opzione è che si tratti di un accordo concluso tra gli stati membri e la Turchia ma in realtà neanche così risolviamo i problemi, anzi ho 2 problemi: ● In primo luogo, gli stati non potevano concludere questo accordo perché è vero che la materia migratoria è concorrente ma una volta che l’UE ha esercitato questa competenza gli stati perdono il potere di concludere accordi con quel medesimo paese perché lo “spazio” è stato occupato dall’UE, quindi avrei una violazione delle competenze. ● In secondo luogo vi è un problema di fondo enorme ossia, se io considero questo come un accordo concluso “dagli stati membri” allora devo capire come possono gli stati membri obbligare l’UE a pagare 6 miliardi di euro, l’unica spiegazione sotto questo punto di vista è che ciò sia possibile in quanto gli stati membri in quell’occasione hanno considerato l’Unione Europea come un organo comune di stati agente quindi in nome e per conto degli stati stessi, ma se noi utilizziamo questo percorso argomentativo la conclusione è che l’ordinamento giuridico UE non è più autonomo e che l’UE non è più in grado di esercitare la sua personalità. Questo problema è stato portato all’attenzione della Corte di Giustizia e queste due ipotesi sono state proprio le due questioni sulla quale si è trovata a prendere una decisione la Corte di Giustizia perché, alcuni migranti che erano stati oggetto di procedure di riammissione alla luce della dichiarazione tra UE e Turchia, hanno ritenuto di impugnare la dichiarazione UE-Turchia davanti alla Corte di giustizia lamentando una violazione di diritti fondamentali che sono tutelati dall’ordinamento giuridico dell’UE. Questa dichiarazione presenta elementi che mettono in discussione alcuni diritti fondamentali, ad esempio un elemento ambiguo della dichiarazione è che considera un’unica categoria di migranti che è quella dei migranti irregolari nella quale fa rientrare anche i richiedenti asilo e questo sul piano della tutela dei diritti umani e sul piano del diritto internazionale è molto discutibile perché i richiedenti asilo non possono, in quanto tali, considerarsi migranti irregolari perché sono soggetti che comunque entrino nel territorio di uno stato e vi chiedano poi asilo non possono essere respinti ma debbono essere tutelati almeno per il tempo necessario a processare la domanda di asilo. Quindi questa confusione di situazioni che invece il diritto internazionale distingue molto chiaramente è uno dei tanti elementi ambigui sotto il profilo contenutistico della Dichiarazione. Succede che i soggetti impugnano e dunque si rivolgono in prima istanza al tribunale, il quale si trova a dover valutare la legittimità di questa dichiarazione. Il giudice dell’UE può sindacare solo la legittimità del diritto UE sicché a titolo pregiudiziale bisogna porsi una domanda: è diritto dell’UE questa dichiarazione? Perché se lo è si va avanti, se non lo è il lavoro del tribunale è già finito. È questa la domanda che si pongono i giudici del tribunale e la risposta viene sviluppata muovendo dall’analisi dell’agenda del consiglio europeo che si era tenuto nel marzo 2016, cioè per poter dare una risposta sulla natura dell’atto il tribunale analizza l'agenda dei lavori del consiglio europeo. È un po' inusuale che i giudici si mettano ad interpretare un’agenda come se fosse un documento dotato di rilevanza giuridica. Per capire esattamente come risponde il tribunale è opportuno guardare i punti 70 e 71 dell’ordinanza relativa alla causa t192/2016: ● Punto 70: “Da questo contesto complessivo che ha preceduto la pubblicazione online sul sito Internet del Consiglio del comunicato stampa n. 144/16 contenente la dichiarazione UE-Turchia emerge che, per quanto riguarda la gestione della crisi migratoria, il Consiglio europeo, in quanto istituzione, non ha adottato alcuna decisione di concludere un accordo con il governo turco a nome dell’Unione, né che ha impegnato l’Unione ai sensi dell’articolo 218 TFUE. Di conseguenza, il Consiglio europeo non ha adottato un atto corrispondente all’atto impugnato, così come descritto dal ricorrente e il cui contenuto sarebbe stato esposto nel suddetto comunicato stampa.”. ● Punto 71: “Dall’insieme delle considerazioni che precedono deriva che, a prescindere dalla questione se costituisca, come sostenuto dal Consiglio europeo, dal Consiglio e dalla Commissione, una dichiarazione di natura politica o, al contrario, come sostenuto dal ricorrente, un atto idoneo a produrre effetti giuridici obbligatori, la dichiarazione UE-Turchia, come diffusa per mezzo del comunicato stampa n. 144/16, non può essere considerata come un atto adottato dal Consiglio europeo, né peraltro da un’altra istituzione, da un organo o da un organismo dell’Unione o come prova dell’esistenza di un simile atto e che corrisponderebbe all’atto impugnato.” Al termine di questa analisi quindi il tribunale dice che sostanzialmente non gli interessa capire cos’è l’atto e qual è la sua natura ma semplicemente gli interessa stabilire che sicuramente non è un atto adottato dall’UE e quindi non è diritto dell’UE e dunque si può concludere che il tribunale è incompetente a valutare l’eventuale legittimità di questo atto e quindi il tribunale rinuncia a esercitare la sua giurisdizione. È chiaro quindi che il tribunale opta per una quarta opzione che è intermedia tra l'ipotesi di un atto politico e un atto vincolante ma comunque fa riferimento ad un atto la cui paternità è riconducibile agli stati membri. I ricorrenti impugneranno tale ordinanza di fronte alla Corte di Giustizia ma la Corte di giustizia confermerà le conclusioni del tribunale anch’essa ritenendo di non poter esercitare la propria giurisdizione, sicché la storia si è chiusa ed è definitiva dal punto di vista processuale perché l'atto non è considerato un atto adottato dall’UE. È un approccio molto formale in cui il tribunale compie un’esegesi inedita perché di fatto compie una valutazione degli ordini del giorno. Segue: un altro caso Nel 2020, tra fine febbraio e inizio marzo, abbiamo una piccola crisi migratoria che riguarda sempre l’implementazione della dichiarazione UE-Turchia. Questa crisi migratoria si determina in conseguenza di una decisione del governo di Ankara di sospendere l’applicazione della dichiarazione UE-Turchia e di fatto aprendo le frontiere con Grecia e Bulgaria, frontiere su cui insiste una forte pressione migratoria. È un caso in cui la pressione migratoria viene usata come strumento di pressione politica. Perché la Turchia decide di adottare questa strategia? Perché vuole ottenere un risultato politico legato al coinvolgimento della Turchia nel conflitto interno in Siria, la Turchia è infatti un attore centrale e pochi giorni prima della decisione di sospendere l’implementazione della dichiarazione UE-Turchia, la Turchia subisce una forte perdita sul piano militare e richiede dunque un maggior supporto da parte della Nato. Tuttavia, ci sono però stati membri UE che sono membri della Nato che non approvano questa opzione sicché la Turchia decide di provare a incentivare l’elaborazione di un consenso a livello europeo, finalizzata a supportare tramite assetti Nato l’intervento della Turchia in Siria, e lo fa mediante la dichiarazione UE-Turchia. Vediamo alcune reazioni ufficiali di protagonisti di quella vicenda, vediamo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio europeo, della presidente della Commissione europea e poi vedremo anche la versione turca. Partiamo da una dichiarazione del Presidente del Consiglio europeo del 29 febbraio 2020. Questo è uno statement che Charles Mitchel rende dopo aver avuto una telefonata con il presidente Erdogan. C’è un elemento interessante in questo statement: il linguaggio che viene utilizzato con riguardo allo statement un ● L’UE deve necessariamente rispettare il principio di proporzionalità, cioè ci si deve chiedere anzitutto se l’atto è necessario, perché se l’atto non è necessario anche se esiste una competenza esclusiva l’atto non si può adottare; se invece la risposta è positiva dobbiamo chiederci se l’atto per come è ideato è proporzionato, nelle soluzioni e nell’impatto normativo, al perseguimento del fine a cui mira: anche qui se la risposta è negativa e l'atto è stato adottato, l’atto potrebbe essere dichiarato illegittimo. ● Vi è in realtà un altro elemento da rispettare, tuttavia si tratta di un elemento più blando: il principio di coerenza, cioè il fatto che l’esercizio delle competenze dovrebbe essere coerente per dare un unicum di omogeneità dell’ordinamento. Però in realtà bisogna essere cauti perché mentre abbiamo prassi che riguarda il controllo di legittimità su atti di diritto derivato alla luce del principio di proporzionalità, non abbiamo invece alcuna prassi che riguarda il controllo di legittimità alla luce del principio di coerenza e molti autori ritengono difficile configurare questa esigenza di coerenza come un principio di diritto, si tratterebbe quindi solo di una semplice esigenza che in quanto tale non è in grado di determinare una illegittimità dell’atto adottato. La seconda categoria è costituita dalle competenze concorrenti Le competenze concorrenti sono la gran parte delle competenze dell’UE, esse sono il cuore delle competenze dell'UE. Art. 2.2 Tfue: “Quando i trattati attribuiscono all'Unione una competenza concorrente con quella degli Stati membri in un determinato settore, l'Unione e gli Stati membri possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore.” Se ci fermassimo qua potremmo immaginare una situazione in cui io ho 2 legislatori, uno nazionale e uno sovranazionale, dove ognuno va per la sua strada nello stesso ambito. È però chiaro che il quadro che ne potrebbe uscire è quanto meno ingarbugliato. E in effetti se leggo le parti successive dell’articolo mi rendo conto che non è affatto quella la scena che mi devo immaginare perché gli stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’UE non ha esercitato la propria, cioè in linea di principio stati ed Unione hanno il potere decisionale condiviso ma se l’Unione decide di esercitare in proprio gli stati perdono la possibilità di farlo e questa è una sorta di prelazione che l’UE può esercitare sul potere decisionale degli stati membri. L'art. 2 ci dice infatti che: “Gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l'Unione non ha esercitato la propria.” Cioè, la prelazione non è definitiva ma può essere temporanea e nel momento in cui l’Unione rinuncia gli stati possono esercitare nuovamente le loro competenze. Art. 4.2 Tfue: “L'Unione ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri nei principali seguenti settori: a) mercato interno; b) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato; c) coesione economica, sociale e territoriale; d) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare; e) ambiente; f) protezione dei consumatori; g) trasporti; h) reti transeuropee; i) energia; …..” Ora dobbiamo capire chi decide, Stati Membri o UE? è questo il problema. Dobbiamo capire sulla base di cosa si decide chi decide. Ci viene in soccorso il c.d. principio di sussidiarietà, tale principio vuole che la regola sia che sono gli stati ad agire perché si presuppone che gli stati costituiscano il livello più vicino al destinatario del provvedimento; tuttavia, laddove gli stati non siano in grado di individuare delle soluzioni efficaci allora agisce l'UE e se agisce l’UE allora gli stati perdono temporaneamente il poter di agire. A valle invece è la Corte di Giustizia che ci viene in soccorso e siamo di fronte a un principio giustiziabile, però la Corte non effettua un controllo particolarmente minuzioso, la Corte si limita infatti a valutare se vi sono delle violazioni manifeste del principio di sussidiarietà e non si incammina in percorsi di valutazione aventi carattere tecnico che presuppongono una previa valutazione di impatto tecnico dell’atto, che si è adottato o si immagina di adottare, sul principio di sussidiarietà. In tutte le situazioni in cui la valutazione di legittimità è strettamente correlata a profili e aspetti che implicano delle valutazioni di carattere tecnico la Corte di Giustizia si limita a intervenire laddove vi sia un errore manifesto o un conflitto manifesto, se non è così la Corte non interviene. Nella maggior parte dei casi la Corte non interviene anche se esistono casi in cui la Corte ha annullato atti di diritto derivato vincolanti per violazione del principio di sussidiarietà ma è una circostanza rara perché normalmente la Corte tiene un profilo basso e si limita a casi in cui la violazione del principio di sussidiarietà sia evidente. La terza categoria di competenze che costituiscono la vera novità, cioè le competenze parallele Sono la vera novità e sono intese come delle competenze in cui l’UE sostiene, completa e coordina l’azione degli stati membri in determinati ambiti senza tutta via sostituirsi alla loro competenza in tali settori, ecco perché sono parallele: qui effettivamente il legislatore dell’Unione e il legislatore nazionale possono coesistere agendo contestualmente e lo possono fare perché l’Unione può solo coordinare, sostenere e supportare l’azione degli stati membri; L’Unione invece non può fare una armonizzazione delle disposizioni normative degli stati membri in materia, quindi non può introdurre una normativa uniforme che si sostituisca a quella degli stati membri su quelle materie. Quali sono le materie? Art. 6 TFUE: “L’Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri. I settori di tali azioni, nella loro finalità europea, sono i seguenti: a) tutela e miglioramento della salute umana; b) industria; c) cultura; d) turismo; e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport; f) protezione civile; g) cooperazione amministrativa” Facciamo un esempio per comprendere il concetto: Erasmus. È chiaro che il programma Erasmus è sovranazionale ma il fatto che l’UE ha sviluppato tale programma non vuol dire che gli stati membri abbiano perso il potere di definire i propri sistemi universitari. Quindi l’Erasmus è un collegamento che permette un coordinamento in cui gli esami che vengono sostenuti dagli studenti all’estero vengono riconosciuti nel paese di iscrizione e tutto ciò crea dei ponti tra gli stati in modo da coordinare. È chiaro che il coordinamento comporta un’armonizzazione nel lungo termine però questa armonizzazione non è imposta ma è volontaria. I principi che regolano le competenze parallele sono i medesimi che operano per le competenze concorrenti: sussidiarietà, proporzionalità e coerenza, ma sulla sussidiarietà non dobbiamo fare molti controlli perché se la competenza è parallela è chiaro che sarà una competenza che rispetta la sussidiarietà perché è una competenza che può essere solo esercitata per supportare e coordinare l’azione degli stati membri ed è chiaro che uno stato da solo non può fare tutto questo, per cui la sussidiarietà è rispettata nel caso delle competenze parallele perché queste sono espressione della sussidiarietà che non determina, al contrario della competenza concorrente, un’armonizzazione (se non un’armonizzazione volontaria). Oltre alle competenze, le quali sono codificate dai trattati, rimane una clausola di salvaguardia che è la codificazione della teoria dei poteri impliciti, che consente alle istituzioni dell’UE, ove necessario, di individuare degli strumenti che siano funzionali al perseguimento di obiettivi che l’UE si pone laddove i trattati si limitino a indicare gli obiettivi senza fornire gli strumenti. Quando abbiamo questa situazione di non completa chiarezza nel dato testuale di diritto primario, per cui abbiamo degli obiettivi che sono individuati ma mancano gli strumenti, questa situazione può essere superata attraverso un potere decisionale che spetta al Consiglio che delibera all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento. (quindi si tratta di una procedura rafforzata perché richiede l’unanimità e il parere positivo del Parlamento). Questa clausola oggi non è particolarmente usata, se noi vedessimo l’andamento dell’utilizzo di questa clausola negli anni, vedremmo un costante declino dell’utilizzo, cioè all’origine del processo di integrazione la clausola era molto utilizzata e via via che il processo di integrazione è andato sviluppandosi è degradato l’utilizzo della clausola, ma è logico che sia così: all’inizio le aeree non coperte dal punto di vista delle politiche sviluppate erano molte, per cui la clausola veniva in aiuto delle istituzioni in tutte quelle occasioni in cui si trattava di adottare degli strumenti per il perseguimento di fini ove non erano previsti elementi di dettaglio dai trattati originali; ovviamente col corso del tempo una delle forze motori dell’ordinamento è stata quella dell’ampliamento dei poteri e questo ha portato a un livello di definizione tale che ha reso sempre più poco rilevante il ruolo della clausola (ruolo che tuttavia non è del tutto scomparso). È una clausola che prevede dei limiti che non possono essere valicati, innanzitutto non può essere usata per l’adozione di strumenti di armonizzazione ove ciò sia escluso dai trattati (quindi non può essere usata in ambiti dove è esclusa l’armonizzazione; con il termine armonizzazione si intende la definizione di una normativa sovranazionale unitaria di un determinato fenomeno) e non può essere utilizzata in ambito PESC, contesto PESC che dunque si distingue anche con riguardo alla possibilità di applicare la clausola di salvaguardia. BANCA CENTRALE EUROPEA Parliamo di un caso relativo al ruolo che la BCE ha assunto nel contesto della crisi economico finanziaria. In particolare, prendiamo un caso in cui è stata messa in discussione la ripartizione di competenze tra UE e stati membri al fine di vedere quali sono le fratture che questa messa in discussione può determinare per il sistema nel suo complesso. Partiamo da una premessa di contesto: la BCE è l‘istituzione che ha il compito di gestire la politica monetaria dell’Unione la quale, a sua volta, rientra in un ambito di cooperazione più ampio che poggia su 2 pilastri e che è normalmente identificata con l’espressione unione economico monetaria, in particolare ciò formalizza l’idea risalente a Maastricht in merito all’introduzione, nel pilastro comunitario, di una dimensione molto ben delineata in cui vi fosse una interconnessione funzionale fra le due politiche, quella economica e quellamonetaria. Questo disegno in realtà a Maastricht non fu definitivamente realizzato e per la verità ancora oggi continua ad essere un disegno in parte incompiuto. L’incompiutezza sta nel fatto che queste 2 dimensioni, quella economica e quella monetaria, sono molto sbilanciate fra di loro quanto al ruolo che le istituzioni UE possono esercitare: per quanto concerne la dimensione monetaria l’UE può arrivare ad esprimere una competenza esclusiva e quindi ha “pieni poteri”, bisogna invece rilevare che con riguardo alla dimensione economica il ruolo dell’UE è un ruolo defilato nel senso che promuove il coordinamento delle politiche economiche degli stati membri ma non può imporre una politica economica. Tutto questo ovviamente può creare delle difficoltà di gestione complessiva perché io ho la dimensione monetaria molto forte cui non si accompagna una capacità da parte dell’Unione di definire in modo vincolante e chiaro una politica economica comune: tutto ciò ha portato a dei tentativi di coordinamento che non sempre si sono realizzati perfettamente. Il caso che andiamo adesso ad esaminare riguarda un tentativo fatto di allineamento tra queste 2 dimensioni che rispondono a 2 soggetti diversi (da un lato UE per la politica monetaria, dall’altro stati membri per la
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved