Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La concorrenza sleale: profilo merceologico e territoriale, Slide di Diritto Industriale

La disciplina della concorrenza sleale, applicabile solo quando esistono determinati presupposti soggettivi riguardanti il rapporto tra soggetto attivo e passivo, nonché la qualità professionale di entrambi. Del concetto di rapporto di concorrenza, che si riferisce a una relazione tra soggetti che offrono beni o servizi idonei a soddisfare gli stessi bisogni o bisogni simili, e dell'importanza della dislocazione territoriale in determinati settori. Viene inoltre analizzata la qualifica dell'imprenditore e i limiti merceologici e territoriali della tutela.

Tipologia: Slide

2011/2012

Caricato il 09/05/2012

nicolas123
nicolas123 🇮🇹

4.1

(18)

24 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La concorrenza sleale: profilo merceologico e territoriale e più Slide in PDF di Diritto Industriale solo su Docsity! CAPITOLO II. I SOGGETTI. I presupposti soggettivi. Il rapporto di concorrenza: profilo merceologico. La disciplina della concorrenza sleale si applica solo quando ricorrano dei presupposti soggettivi che concernono sia il rapporto in cui devono trovarsi il soggetto attivo (cioè l'autore dell'atto di concorrenza) ed il soggetto passivo (colui che quell'atto subisce), sia la qualità professionale di entrambi questi soggetti. In merito al primo argomento, la disciplina della concorrenza sleale, può applicarsi quando tra i due soggetti intercorra un “rapporto di concorrenza”, con cui intendiamo una relazione tra due soggetti che offrano sul mercato beni o servizi idonei a soddisfare, anche in via succedanea, gli stessi bisogni o bisogni simili. Che in un'ottica imprenditoriale, equivarrebbe a dire: vi è un rapporto di concorrenza quando gli atti di concorrenza dell'uno sono volti a stornare la clientela dell'altro. In secondo luogo tale disciplina, si applica (per alcune fattispecie) anche per quei rapporti in cui il rapporto di concorrenza non è attuale, ma meramente potenziale, ovvero probabile concretamente in un futuro non troppo lontano. In ultima analisi, si deve tuttavia aggiungere che si ammette la sussistenza di un rapporto di concorrenza anche sulla base di una mera appartenenza dei beni alla medesima categoria merceologica ed in mancanza di ogni attuale o potenziale rischio di storno della clientela: reprimendo in questo modo sopratutto comportamenti di agganciamento parassitario che pur non si innestano su di un effettivo rapporto di concorrenza. Profilo territoriale. Quanto al profilo territoriale, esso assume rilievo in merito alle dimensione dell'impresa. Se si parla di piccole imprese, che svolgono la propria attività in posti dislocati diversamente, potremmo dire che in linea generale esse non sono in concorrenza; ma quando esse hanno grandi dimensioni il discorso si complica. Perchè il presupposto che vede nella diffusione dei prodotti su tutto il territorio nazionale un elemento di concorrenza, si arricchisce dell'elemento della “notorietà”. Con questo intendiamo, che non si parla di concorrenza solo quando una grande azienda, per esempio la Barilla vende su tutto il territorio nazionale (quindi entra in contrasto con altri pastifici), ma quando anche un esercizio più piccolo, come per esempio la Pellicceria Annabella (che vende solo a Pavia) data la sua notorietà entra in contrasto con altri pelliccerie del territorio nazionale. Anche in questo caso, il problema dell'estensione territoriale, è valutata sia attualmente ma anche in riferimento ad un probabile futuro concreto non troppo lontano. Infine vi sono settori specifici in cui la dislocazione territoriale, può assumere un'importanza essenziale anche per imprese di dimensioni rilevanti: si pensi ad esempio ad ogni impresa che abbia operato un proprio bacino territoriale di utenza, vale a dire alle imprese che offrano direttamente prodotti o servizi al consumatore finale. Infine, un cenno va fatto a quelle imprese (che non potranno ritenersi in concorrenza) che operano per esempio in regime di concessione amministrativa ed il cui ambito territoriale di attività è delimitato dalla concessione stessa, come le imprese di trasporto a cui sia affidato il servizio di certe linee. La concorrenza fra imprese operanti a livelli diversi. Per spiegare meglio, la concorrenza fra imprese operanti a livelli diversi, facciamo l'esempio di un produttore ed un commerciante (distributore) dello stesso bene che sono in rapporto tra di loro: essi all'apparenza non sembrerebbero in concorrenza, in quanto il primo si rivolge ad un mercato costituito da grossisti e rivenditori, mentre il secondo si rivolge ai consumatori. La giurisprudenza, ha però riconosciuto la sussistenza del rapporto di concorrenza, in quanto l'attività delle due imprese, incide sulla medesima categoria di consumatori, sicchè gli atti commessi dall'una possono distrarre la clientela che si sarebbe rivolta verso i prodotti dell'altra, così operandone uno sviamento. Inoltre la Corte di Cassazione, ha osservato che il commerciante agisce in sostanza nell'interesse di un altro produttore, in diretta concorrenza con quello colpito dall'atto sleale, e riconducendo perciò la fattispecie al rapporto di concorrenza fra i due produttori, nell'interesse di uno dei quali il commerciante agisce. In realtà si tende ad esorbitare il concetto di concorrenza, applicando, la tutela qui considerata ogni qualvolta l'attività di un soggetto possa determinare lo storno, anche indiretto, della clientela di un altro. La qualifica dell'imprenditore. Numerosi dati testuali, fanno ritenere che sia il soggetto attivo, sia quello passivo dell'atto di concorrenza sleale debbano, per l'applicabilità della disciplina in esame, essere imprenditori. Con questo intendiamo, che i due soggetti non devono per forza presentare tutti i requisiti previsti dall'art. 2082 c.c., ma devono però svolgere “una attività economica organizzata al fine di produzione o della scambio di beni o di servizi”, così da poter includere in tale tutela, anche altre attività (come quelle professionali ma occasionali, quelle che soggette a licenze si svolgano senza licenza, ecc...) ma escluse quelle dei liberi professionisti che detengono una loro tutela, sulle pratiche commerciali sleali. Come poi abbiamo visto in precedenza, l'attività imprenditoriale non è riferita solo nel qui ed ora, ma anche al futuro, ovvero la disciplina si estende anche a chi sta organizzando un'impresa che ancora non ha iniziato la propria attività. Infine, ai nostri fini, la qualifica di imprenditore può ritenersi sussistente, per una società di liquidazione, solo quando sussistano elementi aziendali coordinati, e si possa ragionevolmente ipotizzare una ripresa dell'attività. In modo analogo, la qualifica imprenditoriale può sussistere solo in caso di autorizzazione all'esercizio provvisorio o ove appaia probabile una chiusura del fallimento senza dissoluzione del nucleo aziendale. Atti di terzi imputabili al concorrente. Quando diciamo che la disciplina della sleale concorrenza si applica appunto solo agli atti dell'imprenditore- concorrente, ci si riferisce a quelli svolti dall'imprenditore, ma anche a quelli posti in essere dai suoi dipendenti (tra cui gli organi dell'ente quando si tratta di un'impresa societaria) e collaboratori o ausiliari autonomi. Molto interessante è quest'ultima ipotesi: infatti in che modo gli atti dei terzi possono ritenersi imputabili all'impresa stessa? In questo caso sarà necessario che l'atto del terzo sia stato posto in essere, se non per specifico incarico dell'imprenditore (nel quale non vi sono dubbi sulla imputabilità di tale atto all'impresa) quanto meno nel suo interesse, e cioè consapevolmente. La formula prevista dalla giurisprudenza, prevede la presenza di un fattore che è sufficiente a qualificare un atto come di sleale concorrenza: basta che l'atto sia stato posto in essere nell'interesse dell'impresa stessa da parte di chiunque si trovi con la medesima in relazione tale da qualificare quel comportamento come rivolto a procurarle vantaggio, ai danni di altro imprenditore. La responsabilità del terzo. In merito all'ipotesi di concorrenza sleale posto dal terzo, ci dobbiamo chiedere se egli sia responsabile o meno. Si ritiene che nel qual caso si tratto di dipendente, responsabile sarà l'impresa, a meno che il dipendente “non sia rivestito di mansioni che gli consentono di assumere discrezionalmente iniziative nel campo in cui gli atti di concorrenza sleale sono stati commessi”. In modo analogo in caso di concorrenza sleale commesso dall'amministratore di una società nell'esercizio di un'attività gestoria, risponderà solo la società, a meno che l'atto non sia a lui esclusivamente riconducibile. Negli altri casi, il terzo sarà responsabile con a titolo di concorrenza sleale, in solido con l'imprenditore. La legittimazione delle associazioni professionali. Il codice civile, prevede un ipotesi particolare, ovvero la concessione agli enti ed alle associazioni professionali di agire in nome proprio, presentando l'azione di repressione della concorrenza sleale quando, gli atti di concorrenza sleale, pregiudicano gli interessi di una categoria professionale (art. 2601 c.c.). La norma vuole garantire a quest'ultimi, la possibilità di agire quando atti di concorrenza sleale, danneggiano gli interessi di una determinata categoria, come ad esempio gli atti di denigrazione di un tipo di prodotto. L'art. 2598 n°1 c.c., dice che chi compie atti di sleale concorrenza, usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi e i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione (concorrenza sleale confusoria) con i prodotti e con l'attività di un concorrente. Produrre confusione, significa ingenerare nei destinatari del messaggio in cui l'atto confusorio si traduce un falso convincimento circa i prodotti e/o l'attività con i quali vengono a contatto, vale a dire il convincimento che si tratti di prodotti e/o dell'attività di un certo imprenditore mentre in realtà devono ricondursi a un imprenditore diverso. Fattispecie confusorie e segni distintivi. I segni distintivi (parole, figure, suoni, dell'imprenditore, ecc..., insomma tutto ciò che può essere immaginato e riferibile all'attività imprenditoriale, escluso la forma tre-dimensionale del prodotto ed il suo confezionamento. Che vengono in riferimento quando si tratta di imitazione servile) dunque, sono tutelati contro l'imitazione confusoria; è ciò, considerato il rapporto fra tutela e diritto tipico dell'ambito privatistico, può anche esprimersi dicendo che l'imprenditore ha un diritto (potremmo definire assoluto) sui propri segni distintivi. La capacità distintiva. Perché si determini una possibilità di confusione è anzitutto necessario che il segno imitato sia dotato di capacità distintiva, vale a dire sia in concreto idoneo a distinguere i prodotti o l'attività di un determinato imprenditore da quelli analoghi di un altro. Ciò si verifica quando il segno venga percepito dallo specifico pubblico cui i prodotti o servizi contrassegnati sono destinati, appunto come segno distintivo, cioè come segno che denota l'origine del prodotto o servizio da un determinato imprenditore. In particolare, la capacità distintiva può mancare in due ipotesi: • Quando il segno consista in un elemento che il pubblico di riferimento sia portato a considerare come strutturale del prodotto (per esempio il colore); • Quando il segno consista in una denominazione generica o un'indicazione descrittiva del prodotto contrassegnato (per esempio la figura di un vitello per contraddistinguere carne in scatola). Essendo corrispondente alla percezione che il pubblico ha del segno, il presupposto della capacità distintiva è suscettibile di variazione nel tempo in corrispondenza con la variazione di questa percezione (un segno che non aveva capacità distintiva, può acquisirla nel tempo e così acquisire tutela, o viceversa). La capacità distintiva. In relazione alla capacità distintiva, possiamo parlare di segni “deboli” e “forti”. Un esempio di segno forte potrebbe essere costituito dalla parola “pane” adottata per contraddistinguere biciclette, ovvero altro segno denominativo o figurativo che non indichi in alcun modo natura e funzione del prodotto contrassegnato. Un esempio di segno debole, è quello della parola “ghiaccio-menta” per delle caramelle di mente. I due tipi di segni, contraddistinguono anche due tipi di tutele: per i segni forte avremo una tutela più forte che copre anche somiglianze evocatrici, per i segni deboli la tutela sarà limitata all'ambito dei segni identici o che presentino con esso differenze sostanzialmente irrilevanti. Anche qui, molto importante rimane la dimensione temporale, infatti un segno che all'origine era carente di capacità distintiva, può con il tempo cambiare e diventare forte, o viceversa. Quindi concludendo, per la tutela di un segno distintivo, bisognerà fare riferimento alla sua capacità distintiva, al momento in cui si verifica la supposta violazione di esso, e non al momento della proposizione della domanda giudiziale con la quale si invochi la tutela medesima. Uso e notorietà “qualificata” del segno. L'acquisto dei diritti sui segni distintivi, diversi dal marchio registrato, si acquistano con l'uso (un uso sporadico o occasionale non avrà effetto) e quando vi sia la presenza di una notorietà non semplice ma “qualificata”: una notorietà cui faccia seguito la percezione della natura distintiva del segno da parte del pubblico (consumatori).
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved