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Diritto medievale programma frequentanti prof. Rondini, Appunti di Storia Del Diritto Medievale E Moderno

1. pluralismo normativo 2. Dall'età tardo-antica ai Comuni 3. I Glossatori. Il diritto canonico 4. Consilia, Grandi tribunali, Scuola Culta 5. Il Giusnaturalismo. Le Ordonnances francesi 6. L'Illuminismo giuridico 7. Rivoluzione francese, Droit Intermediaire, Code Civil 8. L'ABGB austriaco

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 29/04/2022

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Scarica Diritto medievale programma frequentanti prof. Rondini e più Appunti in PDF di Storia Del Diritto Medievale E Moderno solo su Docsity! IL PLURALISMO NORMATIVO: LE 4 FONTI DEL DIRITTO Oggi con il termine “diritto” si indica il complesso di leggi emanate dallo Stato: il diritto è visto cioè come l’espressione della volontà dello Stato, e allo stesso tempo, come uno strumento di cui lo Stato si serve per controllare la nostra vita e la società, per regolare i rapporti tra privati oppure i rapporti tra i cittadini e le istituzioni pubbliche. Questo modo di concepire il diritto, cioè l’identificazione del diritto con la legge statale, un fenomeno recente. È una visione che si è imposta a partire dalla fine del Settecento, quando la Rivoluzione Francese del 1789 ha posto fine all’Antico Regime e dato inizio all’età della Codificazione del diritto. L’Antico Regime era quel modello di organizzazione sociale, politica, economica e giuridica anteriore al 1789 e caratterizzato dalla presenza di tanti ceti (nobili, clero, commercianti, artigiani, contadini, ecc.). Sul piano del diritto in vigore, l’Antico Regime era contraddistinto dal cosiddetto pluralismo normativo, poiché vi erano molteplici fonti di produzione del diritto e delle regole giuridiche: non c’era solo la legge dello Stato, perché accanto ad essa trovavano applicazione anche le consuetudini, le pronunce giurisprudenziali (cioè le sentenze dei tribunali) e le opinioni della Dottrina (cioè le opinioni dei giuristi, della scienza giuridica). Nel corso dei secoli il diritto, si è evoluto come un’entità viva e in perenne metamorfosi, Ancora oggi, si classificano le fonti del diritto secondo uno schema che deriva dal passato: la legislazione; la dottrina; le consuetudini; le sentenze dei giudici (o giurisprudenza). ® La legislazione statale : è l’espressione della volontà di chi esercita il potere politico (ad esempio, il popolo attraverso i suoi rappresentanti che siedono in Parlamento), e come tale la legge statale è una fonte di regole di condotta imposte ai soggetti che vivono in un dato ordinamento giuridico. ® La dottrina : cioè la “scienza giuridica”, indica l’insieme delle opinioni espresse dai giuristi, cioè di chi per formazione e per professione svolge la funzione di individuare e interpretare le norme giuridiche, allo scopo di renderne esplicito il contenuto, di renderle coerenti e applicabili ai casi della vita, ma anche di prospettare altre regole, nuove e diverse, che meglio potrebbero rispondere a valori o a interessi ritenuti degni di tutela. ® Le consuetudini : la consuetudine non è altro che una regola di comportamento seguite dai membri di una comunità che vive in un certo luogo, che può essere giuridica, perché ci impone un comportamento che se non rispettiamo, fa scattare la sanzione. Non nasce “dall’alto”, non c’è un sovrano che ci impone il comportamento, ma nasce dal “basso”, quando certi comportamenti, condotte o modi di agire sono posti in essere giorno per giorno e sempre allo stesso modo dalla società. (abitudini radicate nel tempo) ® La giurisprudenza : intesa come l’insieme di sentenze dei giudici, Oggi non sono fonti i diritto, ma sono delle decisioni autorevoli che in futuro altri giudici seguiranno. Si tratta di un “meccanismo dei precedenti”, i cosiddetti precedenti giurisprudenziali, costituiti dalle decisioni assunte dai giudici nel corso del tempo. (es. pretori ai tempi dei romani) A seconda delle epoche storiche, ci sono stati momenti in cui queste 4 fonti hanno avuto ruoli diversi, per esempio momenti in cui la dottrina era più importante delle consuetudini, o momenti in cui la giurisprudenza era più importante di altro. Recap ®Il diritto ha quindi subito una dimensione “pluralistica”, per il fatto che per tutto il periodo del Medioevo e per buona parte della seguente Età Moderna, non è esistito solo lo Stato come produttore di diritto (che si trattasse di Imperi, Regni, Comuni, Signorie) ma anche una pluralità di organizzazioni non statuali come le organizzazioni cetuali (quelle della nobiltà, del clero, del popolo) o quelle professionali ed economiche (si pensi alle corporazioni delle arti e dei mestieri) che erano in grado di produrre a loro volta diritto sotto forma di consuetudini, opinioni dottrinali (scienza giuridica), decisioni dei giudici (giurisprudenza). L’ETA’ TARDO-ANTICA (284dc– 700dc) Intorno al terzo e quarto secolo, a partire dal regno dell’imperatore Diocleziano (284-305), l’Impero romano assume sempre più i tratti di una forma di governo di stampo assolutistico e totalitario. La concentrazione di potere è nelle mani dell’imperatore (potere esecutivo: l’apparato burocratico dipende da lui; ha il controllo del potere finanziario; comanda l’esercito, dichiara la guerra e conclude la pace; interviene negli affari religiosi). In questa struttura politica, in cui l’imperatore è al vertice della gerarchia del potere, le fonti del diritto si possono ricondurre in due categorie rappresentate dal binomio leges e iura. Le LEGES sono le costituzioni imperiali, cioè le leggi emanate direttamente dall’imperatore, l’espressione diretta della sua volontà. Le costituzioni (le leggi imperiali) si possono distinguere in editti e rescritti. ® Gli EDITTI, edicta, sono costituzioni di valore “generale”, cioè che ha valore di legge generale, che vale ovunque e per chiunque nello spazio, indipendentemente dai sudditi o non. ® I RESCRITTI, invece, sono le risposte date dall’imperatore a domande e a problemi sollevati da funzionari imperiali, giudici oppure da privati cittadini: i funzionari, i giudici o i cittadini scrivono all’imperatore per sapere da lui come risolvere specifici problemi di carattere giuridico, sorti in un determinato luogo e in una determinata circostanza. Sono quindi costituzioni imperiali, che nascono come “risposte” date dall’imperatore (non personalmente, ma attraverso la cancelleria imperiale) per risolvere problemi “specifici” e concreti (non generali). Tuttavia, può capitare che alcuni di questi rescritti dal valore “speciale” finiscano con il passare del tempo per assumere un valore “generale” simile a quello degli editti: alcuni rescritti, infatti, cominciano a essere applicati dai funzionari o dai giudici che li hanno richiesti per risolvere un certo caso, anche a tutti gli altri casi simili che si presentano in seguito (sono soluzioni valide per risolvere tutti i casi analoghi che potrebbero presentarsi altrove). Ecco allora che con il tempo alcuni rescritti finiscono per avere un’applicazione e un valore simile a quello degli editti. Il giudice di Milano, deve risolvere lo stesso caso che si è presentato al giudice di Parigi, quindi utilizza il rescritto di Parigi speciale: quindi un rescritto che doveva essere applicato solo a Parigi, inizia ad essere applicato anche altrove. Il rescritto, da speciale, diventa generale: nasce come legge che risolve un singolo caso, ma contenti delle soluzioni che forniva, iniziò ad essere adottato da altri posti, diventando una sorta di legge generale (editto). Gli IURA sono, invece, dei principi giuridici elaborati dalla giurisprudenza, cioè dai giudici e dai giuristi, e quindi non dal legislatore, per risolvere delle controversie, delle liti fra cittadini. Per fare un esempio, se la legge imperiale non prevede una soluzione per un certo tipo di controversia sulla natura o la durata di un contratto, ecco che la soluzione può essere creata dal giudice o da un giurista; o ancora, se ci sono 2 leggi che sembrano dire una l’esatto opposto dell’altro, ecco che interviene un giudice o un giurista per prospettare la soluzione destinata a sciogliere questo contrasto fra norme. In sostanza, gli iura sono principi giuridici che si possono estrapolare dalle sentenze dei giudici (come dagli editti dei Pretori romani) oppure dalle opere dei grandi giuristi romani (come Cicerone, Gaio, Papiniano, Ulpiano, Paolo, Modestino) o Leges, sono ius novum, diritto nuovo, perché è stato prodotto dalla nascita dell’impero. Prodotte dallo stato romano, con la nascita dell’impero o Iura, sono ius vetus, diritto antico, che deriva dall’epoca repubblicana. I giuristi possono creare nuovo diritto? No. Il nuovo diritto lo produce l’imperatore. CARATTERE ESCLUSIVO: usate solo le fonti combinate nella combinazione giustinianea. Tutto ciò che è stato scartato è irrilevante. La vigenza della compilazione giustinianea fu estesa all’Italia nel 554 con una costituzione imperiale chiamata Prammatica Sanzione, quando le armate di Giustiniano riconquistarono l’Italia sconfiggendo il popolo barbarico degli Ostrogoti, che si era stanziato in Italia circa un secolo prima provocando la fine dell’impero d’Occidente. IL CRISTIANESIMO E LA CHIESA CATTOLICA (ed il suo diritto nell’età tado-antica) L’altra grande protagonista dell’Età tardo antica fu la Chiesa cattolica, che ebbe una grande influenza nel campo della giustizia e della legislazione, in virtù del suo sistema di valori etico-morali e per le tecniche di ragionamento e di analisi da applicare nell’applicazione dei testi normativi che disciplinavano la vita dei religiosi e i loro rapporti con i laici. Il cristianesimo (religione che segue la religione di Cristo) come nuova religione è stata per secoli perseguita dai romani, perché quando per i cristiani si riconosceva un unico Dio, i romani riconoscevano come Dio (in terra) l’imperatore, che dovevano venerare. La religione cattolica diventò un culto lecito, tollerato e ammesso dallo Stato, con l’editto di Milano del 313 emesso dall’imperatore Costantino. Il culmine dell’ascesa del Cristianesimo ci fu però quando la religione cattolica fu proclamata esclusiva da Teodosio I nel 380, con l’editto di Tessalonica: tutti i popoli sottoposti all’impero dovevano seguire la religione professata dai vescovi di Roma e di Alessandria. La religione diventa come uno strumento di governo : instrumentum regni. La religione Cristiana diventa lecita e non più perseguitata, dopo diventa del religione esclusiva, tutti gli altri culti diventano perseguitati. Cosa è successo a livello giuridico dopo che il cristianesimo è diventata religione esclusiva? Succede che la chiesa cattolica (romana) che inizia a organizzarsi intorno al papa, inizia a creare il suo diritto. Perché i vescovi di Roma, vedendo che l’impero funziona con il diritto romano, decisero di creare un loro proprio diritto. Per quanto riguarda le fonti del diritto canonico, all’inizio il diritto della Chiesa trovò la propria fonte primaria innanzitutto nelle Sacre Scritture, nella Bibbia e nei testi dei Padri della Chiesa (Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Tommaso, ecc.) 1. La BIBBIA, al di là delle dei racconti delle parabole, in essa ci sono un sacco di regole giuridiche, del resto basta aprire la genesi, che fanno i primi due uomini Adamo ed Eva? rubano la mela, poi Caino e Abele, cosa fanno i figli? uno uccide l’altro, poi Sodoma e Gomorra con una serie di peccati, che vengono puniti con avvertimenti divini. 2. I TESTI DEI PADRI DELLA CHIESA, i primi grandi vescovi della chiesa cattolica, che erano anche giuristi avendo studiato il diritto, scrissero testi con regole che riguardano la punizione dei peccati (la disciplina della chiesa cattolica) In seguito però, il diritto canonico si sviluppò anche attraverso fonti nuove 3. come la LEGISLAZIONE CONCILIARE, cioè le decisioni emesse dai Concili (le grandi assemblee dei vescovi). Le norme conciliari, dette “cànoni”, erano le decisioni assunte da concili che potevano essere provinciali, se riguardavano solo i vescovi di una provincia, plenari, se coinvolgevano i vescovi di più province, ecumenici se erano generali. 4. Infine ultima fonte del diritto, i DECRETALI PONTIFICIE, emesse dal pontefice, dal papa. Il vescovo di Roma diventa l’autorità suprema della chiesa cattolica, un soggetto a cui mandare richiesta d’aiuto, chiedendo. Erano delle lettere con cui il vescovo di Roma (papa), rispondeva a specifici quesiti giuridici sollevati da varie autorità (in primo luogo da altri vescovi) oppure da privati cittadini, sia in merito a questioni specificatamente ecclesiastiche, sia in merito a questioni non religiose (cioè temporali.) Es. il vescovo di Milano scrive al vescovo di Roma, “abbiamo un problema chiedo il tuo aiuto”, il papa manda una lettera di risposta. La risposta si chiama decretale. Regola quel caso concreto e anche gli altri casi identici che si presenteranno in futuro. (Simile al caso dei rescritti) Con il passare del tempo le soluzioni proposte dal Papa per risolvere una singola controversia o un singolo problema iniziarono a imporsi come regole generali, da osservarsi sempre e comunque, in ogni tempo e luogo, da parte di chiunque. Ill papa, capo della chiesa cattolica, non solo partecipa alla creazione del diritto con le sue decretali, ma diventa anche una sorta di organo giurisdizionale. (similitudine tra imperatore-impero) LE INVASIONI BARBARICHE (V-VI SECOLO) e il MEDIOEVO 1 Dall’Impero romano ai regni barbarici del Medioevo Per convenzione siamo soliti distinguere il Medioevo Alto e Basso: - l’Alto Medioevo è racchiuso tra il 476 d.C. (caduta dell’Impero romano d’Occidente) e l’XI secolo (cioè l’anno Mille); - il Basso Medioevo è invece racchiuso fra l’XI e il XV secolo (1492, scoperta dell’America) Molto tempo prima della caduta della parte occidentale dell’Impero, prima del 476 d.C, erano già iniziate le invasioni barbariche all’interno dei confini dell’Impero romano. Però, fu soprattutto fra la fine dell’età Tardo-Antica e l’inizio del Basso Medioevo che molti popoli barbarici riuscirono a varcare i confini dell’impero e a stanziarsi stabilmente nelle province dell’Europa occidentale, formando dei veri e propri Regni autonomi. Fu questo il caso, ad esempio dei: - Visigoti, che si stabilirono tra la Francia meridionale e la Spagna (418-711) - Ostrogoti che si insediarono in Italia nel 493 d.C - Franchi che occuparono la parte centrale e settentrionale della Francia - Longobardi che giunsero nell’Italia settentrionale e centrale a partire dal 569 d.C. Sul piano prettamente giuridico, cioè del diritto vigente, va segnalato che il diritto utilizzato in questi Regni barbarici si basava: è in un primo momento su delle consuetudini, cioè su delle regole giuridiche tramandate oralmente dai barbari. Si trattava di norme non scritte che i barbari seguivano, rispettavano e applicavano per tradizione, considerandole pienamente vincolanti. è In un secondo momento, dopo essere entrati a contatto con i Romani e con il loro diritto scritto, anche i barbari iniziarono però a emanare dei complessi normativi di leggi scritte, perché si erano resi contro della superiorità del diritto scritto romano e che era opportuno mettere per iscritto anche le loro consuetudini, così che fossero meglio conosciute e rispettate da tutti. Il problema a lungo dibattuto è se a tali nuove disposizioni normative emanate dai barbari debba essere riconosciuto il carattere di personalità o di territorialità del diritto. La personalità del diritto comporta la contemporanea vigenza di più legislazioni all’interno dello stesso ordinamento giuridico, ossia di tanti complessi normativi quanti sono i popoli insediati in un territorio: ciascun popolo vive, quindi, secondo il diritto della propria natio di appartenenza. v Il principio di personalità del diritto prevede, dunque, la conservazione di diritti separati per le diverse etnie presenti in un Regno. v Il principio della territorialità del diritto significa il contrario: tutti i diversi popoli, le diverse etnie, che vivono in uno stesso territorio applicano lo stesso tipo di diritto. Se per lungo tempo si è sostenuto che il diritto dei barbari fosse riconducibile al principio di personalità del diritto, la tesi oggi prevalente ritiene corretto parlare di personalità del diritto solo dopo l’ottavo secolo e in relazione al diritto vigente nel Regno dei Franchi (nel cui ambito vivevano anche numerosi altri popoli come i Burgundi, i Sassoni, gli Alamanni, i Bavari) oppure, nella prima fase di vita del Regno dei Longobardi. IL DIRITTO LONGOBARDO Nel 569 d.c. i Longobardi abbandonarono le regioni dell’attuale Ungheria per scendere in Italia sotto la guida del loro capo Alboino. (I longobardi invadono l’Italia; Solo qualche decennio prima, i bizantini avevano riconquistato tutta l’Italia portandosi dietro la compilazione giustinianea). Agli ordini di questo capo, che chiamavano “dux”(duca) vi erano intere comitive familiari, cioè grossi gruppi di persone (clan) che erano legate tra loro da vincoli di parentela: tali gruppi familiari erano chiamati “fare”. Un intero popolo si diede alla conquista della penisola: dopo la conquista del nord Italia e la fissazione della capitale a Pavia, si spostarono verso sud e formarono il Ducato di Spoleto e il Ducato di Benevento. Sotto il controllo dell’Impero Romano d’Oriente rimasero solo Ravenna, le Marche, la laguna veneta, la Liguria, le città e i territori di Roma e Napoli, la Puglia, la Calabria e le isole. I longobardi sono un esempio di popolo barbarico che vive sulla base di un diritto consuetudinario (tramandato oralmente) e usano il principio della personalità del diritto (es. siamo longobardi e usiamo il diritto longobardo). Dal punto di vista giuridico i Longobardi osservavano consuetudini di ceppo germanico, quindi norme giuridiche molto diverse da quelle romane. E fu proprio per mantenere l’unità del suo popolo e per conservare le tradizioni giuridiche longobarde, che il re Ròtari decise nel 643 d.c. di mettere per iscritto le principali consuetudini (le cawarfide) in un unico testo, un EDITTO, inaugurando così la serie di editti emanati dai sovrani longobardi. Vuole portare certezza e semplificare il diritto longobardo: la gente comune vuole regole chiare e semplici. dalla madre) costituiva il suo patrimonio. Rappresentava una sorta di anticipazione ereditaria: ricevendo il faderfio, rinunciava al diritto di pretendere parte dell’eredità del padre in caso di morte. Lo sposo donava, invece, alla moglie la morghengab (o morghengabe), ossia il “dono del mattino”, (mattino dopo le nozze), versato dopo la prima notte di nozze, come compenso per l’accertata verginità. In origine di modesta entità la morgengabe crebbe via via di consistenza, finché si fissò la misura massima in un quarto del patrimonio del marito, detta perciò la quarta. il marito dona alla moglie dei beni mobili o immobili se quest’ultima è arrivata vergine al matrimonio. LE SUCCESSIONI; I longobardi non conoscevano l’istituto giuridico del testamento. Erano arretrati rispetto ai romani: i romani chiamavano il defunto de cuius, e se quest’ultimo fosse morto senza testamento, si apriva la successione legittima. I Longobardi non conoscevano, il testamento, cioè l’atto mortis causa unilaterale con il quale si nomina un erede, ossia un successore a titolo universale. I longobardi conoscono solo la successione legittima, non esiste la successione testamentaria. L’editto di Ròtari contemplava la sola successione legittima, ossia prevedeva che in caso di morte di una persona, i suoi beni fossero distribuiti a tutti i suoi eredi secondo un preciso ordine successorio stabilito per legge. Non c’era quindi la possibilità di fare testamento e non si poteva modificare l’ordine successorio previsto ex lege. Com’era l’ordine legittimo secondo Rótari? Venivano preferiti rispetto alle figlie e a tutti gli altri eventuali eredi legittimi, i figli maschi legittimi, cioè i figli nati all’interno del matrimonio. (I longobardi, essendo barbari, ma cristiani, consideravano importante il matrimonio, per loro era un sacramento. I non legittimi non partecipavano). Venivano escluse dalla successione legittima, le figlie maritate, qualora esse avessero ricevuto il faderfio. Le figlie non sposate erano, invece, ammesse alla successione legittima al padre, solo in assenza di figli maschi (es. morti in guerra), ma comunque sempre in concorso con altri parenti maschi (es. cugini lontani). Secondo l’Editto di Ròtari solo il longobardo che fosse stato del tutto privo di figli avrebbe potuto scegliere a chi lasciare i suoi beni. Per i longobardi, il soggetto in vita non poteva fare testamento per il momento successivo alla sua morte, ma poteva diseredare i figli (es. se mio figlio maschio scappa dalla guerra, viene diseredato e non erediterà nulla). IL DIRITTO PENALE (reati) Come tutti i popoli barbarici, era consuetudine per i Longobardi, fare ricorso alla faida, cioè alla vendetta privata: essi rispondevano alle offese e lesioni subite reagendo direttamente, vendicandosi personalmente dell’offesa o del torto subito, senza ricorrere alla mediazione di un tribunale Legge del taglione-occhio per occhio, dente per dente. L’offesa creava, uno stato di inimicizia tra le famiglie coinvolte, che poteva condurre allo scontro violento e alla vendetta privata, oppure a una negoziazione al termine della quale il danneggiato o la sua famiglia accettavano una somma di denaro a soddisfazione dell’offesa ricevuta (composizione pecuniaria). I famigliari del morto possono vendicarsi-catena di vendette (azioni e reazioni): es. subisco un’aggressione e mi rompo un braccio. Uccido l’autore dell’aggressione e il figlio del tizio che ho ucciso mi uccide, io ho un figlio allora quest’ultimo si vendica verso quest’ultimo. Ma la faida è una vendetta pericolosa, quindi nell’Editto, Ròtari non interviene in questo campo del diritto penale giungendo al punto di abolire la faida, ma cerca di regolamentarne l’impiego, valutando con attenzione i casi in cui permetterla o vietarla. Nel 643, Rótari stabilisce che la faida è vietata nel caso di lesioni personali; in particolare sui reati che implicano la violenza, cioè l’omicidio. Quindi, senza fare ricorso alla faida, si punisce il colpevole (il reo), con la raggiunta di un accordo di tipo economico: la composizione pecuniaria. La composizione pecuniaria è il versamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, per il danno provocato dal reato. Il principio adottato da Ròtari, infatti, è che il corpo di ogni persona abbia un proprio e preciso valore economico, e che tale valore sia quantificabile in termini patrimoniali. Es. un tot per un braccio rotto, un tot per un dente, un tot per il braccio della donna che vale meno del braccio dell’uomo). Per tutte queste diverse violenze arrecate alla vittima era previsto l’obbligo a carico del colpevole di versare una specifica somma di denaro diversa da caso a caso. In caso di omicidio volontario, si pagava il guidrigildo, una sorta di valutazione socio-economica dell’individuo, che aumentava o diminuiva a seconda della condizione sociale dell’individuo e al suo ruolo all’interno dell’ordinamento dello Stato (re, familiari del re, nobili, ufficiali dell’esercito, soldati, semplici cittadini). La donna godeva di un guidrigildo altissimo in quanto assicurava la continuità della stirpe e la sua morte era considerata un depauperamento per la società intera. Se uccido un uomo vale più dell’uccisione di un anziano o una donna (perché non vanno in guerra). Uccido un abile guerriero pago una somma alta; uccido un aristocratico, allora una somma più elevata, una donna giovane (potrebbe fare tanti figli) pago un valore maggiore, se invece è una donna vecchia (non potrà procreare) allora il valore sarà basso. In alcuni casi particolari, la faida può essere ancora ammessa: La pena di morte (cui era connessa la confisca dei beni) era prevista, solo per determinati reati politici o per gravi reati contro la famiglia (come nel caso del servo che avesse ucciso il padrone o della moglie che avesse ucciso il marito). Es. La moglie ha ucciso un marito, i parenti del marito non potrebbero vendicarsi, ma questa è un’eccezione. In questo caso i parenti del marito la possono uccidere. A seconda dei casi, si potevano usare anche altre pene: a) pene corporali: taglio della mano, bastonate, fustigazione, marchio a fuoco, ecc. b) Privazione della libertà: il carcere era previsto per il furto; c) La riduzione in schiavitù: usata in caso d’insolvenza (per chi non pagava il guidrigildo per l’omicidio, o per chi non poteva pagare una composizione pecuniaria nei casi di furto, di adulterio, o di lesioni personali). d) La confisca generale dei beni del condannato: diventò, insieme al pagamento del guidrigildo, la sanzione prevista per i casi di omicidio durante il regno di Liutprando, che la introdusse per tutti i casi di omicidio esclusi quelli commessi per legittima difesa. I beni confiscati andavano in parte ai parenti e in parte al re. IL PROCESSO PENALE (particolare) La disciplina del processo presso i Longobardi era identica nelle cause civili e penali: non c’erano quindi regole diverse di procedura civile e penale. Il processo iniziava sempre e solo su iniziativa della vittima o dei suoi familiari, che dovevano rivolgere un’accusa formale a carico di qualcuno, il quale era accusato di aver commesso un illecito penale (omicidio, lesione, furto, ecc.) oppure civile (mancato adempimento di un accordo, come ad esempio la consegna di una mucca dopo aver ricevuto la somma pattuita per l’acquisto della stessa). Il processo non poteva mai iniziare d’ufficio, cioè per iniziativa dei giudici che avessero ricevuto una segnalazione relativa all’avvenuta commissione di un illecito da parte delle autorità di polizia o in forma anonima (es. polizia o terzo che assiste ad un reato e va a denunciarlo). Oggi, l’iniziativa è in entrambi i modi. Il processo longobardo poi non mirava all’accertamento della verità di un fatto da compiersi con l’ausilio dei mezzi di prova usati dai Romani come la confessione, le testimonianze, i documenti, gli indizi: il giudice doveva solo controllare che i litiganti che fossero ricorsi a lui si affrontassero evitando la faida (la vendetta personale). Nel processo penale abbiamo 2 soggetti coinvolti: l’accusatore (la vittima) e l’accusato (il reo). Nel processo civile invece, ci sono il cosiddetto attore, e il convenuto, colui che viene convenuto in giudizio. Come fanno i longobardi a dimostrare di avere ragione? Di aver subito un reato? L’accusatore deve dimostrare di averlo subito e dimostrare chi è il suo aggressore, chi è il reo (il presunto colpevole). Per decidere in giudizio, chi avesse torto e chi ragione, cioè se le accuse fossero fondate o meno, i Longobardi potevano ricorrere a due strumenti alternativi fra loro: il giuramento e il duello In entrambi i casi si ricorreva al cosiddetto “giudizio di Dio”, poiché si ricorreva a delle procedure che implicavano l’intervento divino, volto a indicare se l’accusato fosse effettivamente colpevole di ciò di cui veniva accusato. (con il suo aiuto si arriva a stabilire chi ha ragione e chi ha torto) Il GIURAMENTO era considerato il mezzo ordinario di decisione di una lite. Si trattava di un giuramento collettivo, fatto dall’accusato insieme ad un numero variabile di soggetti detti congiuratori, che giuravano sul Vangelo. (congiuratori-che giurano insieme a qualcuno). Es. per le cause di valore superiore ai 20 soldi 5 congiuratori erano scelti dall’accusato (più l’accusato=6) e 6 erano scelti dall’accusatore. Se 50 giurano da una parte e 20 dall’altra, sulla base di questi numeri ha ragione la maggioranza. Ci sono casi in cui si presentano 15 da una parte e 15 dall’altra, ma c’è sempre un numero dispari, perché l’accusatore ha diritto ad un certo numero di congiuratori e l’accusato ad un altro determinato numero di congiuratori. L’accusato giurava di essere innocente. A questo punto i suoi “congiuratori” non giuravano sulla verità dei fatti (de veritate) poiché potevano non aver assistito a nulla o non sapere nulla, ma giuravano sull’affidabilità e sull’onestà dell’accusato come persona, sulla credibilità (credulitate), cioè giurano solennemente sul vangelo, che l’accusatore è una persona degna di fede e degna di essere creduta. Lo spergiuro delle parti (sia dell’accusato che dei congiuratori) era considerato come un grave peccato commesso davanti a Dio, ed era inoltre severamente punito con la perdita del bene conteso e con il pagamento di metà del guidrigildo dello spergiurante a favore dell’avversario. Se si scopre che i congiuratori o uno solo di essi avesse giurato il falso, quindi citano qualcuno di aver commesso un reato che non ha commesso, succede che il processo viene annullato, e l’accusatore che aveva vinto il processo, perde la lite, e i committenti di spergiuro devono pagare il guidrigildo. Il risultato di queste prove segnava automaticamente la fine della causa, comportando o una condanna o un’assoluzione. Generalmente il sovrano lega a sé alcuni sudditi, i più potenti o pericolosi, come i grandi proprietari terrieri (I latifondisti, i ricchi, che potrebbero tramare col nemico), o membri funzionari del suo Stato (i conti delle contee). Il vassallaggio comportava dunque doveri di fedeltà speciali, sia positivi che negativi: ® tra gli obblighi negativi vi erano quelli di non intraprendere nulla di pericoloso per la vita e l’incolumità del signore, di non tradirlo, di astenersi dall’alleanza con il nemico; ® tra gli obblighi positivi erano quello di prestargli aiuto sia di natura militare sia in campo giuridico, assistendolo e coadiuvandolo nell’amministrazione della giustizia. Il vincolo che univa il signore al suo vassallo, oltre ad avere natura personale, era PERPETUO: dura per tutta la vita, poteva terminare con la morte di una delle due parti o si poteva spezzare solo per gravi ragioni di inimicizia (reato di FELLONIA; quando non si mantiene il giuramento di fedeltà). Era un rapporto BILATERALE con scambio di prestazioni: una parte promette un qualcosa all’altra, il vassallo doveva fedeltà al sovrano e il sovrano era tenuto a dargli consigli, protezione militare e tutela giudiziaria. Solo in alcuni casi il vassallo poteva legittimamente sottrarsi al rapporto con il signore: per esempio, quando il signore avesse a richiesto servizi illegittimi; avesse congiurato contro la vita del vassallo; si fosse lanciato contro di lui con la spada sguainata; avesse commesso adulterio con la moglie. Con il tempo il rapporto vassallatico mutò natura fino a consentire ad uno stesso soggetto vassallo di stringere vincoli vassallatici di fedeltà con più signori, cioè di giurare fedeltà a più signori contemporaneamente. Si cercò di individuare dei precisi criteri in base ai quali risolvere il problema di conflitto tra i due sovrani, per stabilire a chi il vassallo, dovesse dare la precedenza. La questione fu risolta in alcuni paesi (Francia, Inghilterra e Italia) con il cosiddetto omaggio ligio, in cui un soggetto stringeva con uno tra i suoi signori un rapporto privilegiato e prioritario su tutti gli altri. Il processo di vassallaggio sfuggì a Carlo Magno, tale che, non fu impedito ai vassalli di creare un legame con dei vassalli di secondo o terzo livello. Alcuni di questi vassalli (grandi proprietari terrieri o conti), potevano creare il vassallaggio con i soggetti che stavano sotto di loro (vassalli dei vassalli, chiamati valvassori), e a loro volta, i vassalli dei vassalli potevano creare rapporti con soggetti sotto di loro (valvassini). Re-vassallo; Vassallo-valvassore; Valvassore-valvassino. Una sorta di piramide in cui si scende di livello. Sistema che creerà problemi per secoli. IL BENEFICIO (nasce dopo il vassallaggio) Per rafforzare il vincolo di fedeltà, il rapporto personale tra sovrano e vassallo, il sovrano (sempre Carlo Magno), decide di concedere al vassallo il BENEFICIO. Che cos’è? È una concessione in “GODIMENTO” di un bene, normalmente mobile (un terreno). Il beneficio era inteso come una sorta di remunerazione del vassallo per la funzione pubblica esercitata o per il servizio armato professionale reso. Es. sei così bravo nell’aiutarmi, che io ti do un terreno per compensarti. Occorreva anche qui compiere un atto particolare: la cerimonia dell’investitura. Per quanto riguarda il vassallo titolare del beneficio su una terra, egli non diventa proprietario del terreno, ma rimane proprietario il sovrano (il concedente).Quello che si concede è il diritto di godimento. Il beneficio NON è un usufrutto! La concessione in godimento della terra determinava in capo al vassallo solo la possibilità di possedere e utilizzare la terra per un certo periodo di tempo e sempre con il rischio che il signore potesse decidere prima o poi di volerne tornare in possesso. Il signore che aveva concesso il beneficio restava il vero proprietario della terra, perché conservava il diritto di “disporre”* del bene; il vassallo che riceveva la terra in beneficio aveva solo il diritto di “godere” del bene. Il signore conservava quello che i giuristi medievali chiamarono il “dominio diretto” sulla cosa (cioè il diritto di “disporre” del bene); il vassallo era il temporaneo titolare del “dominio utile”, cioè del diritto di godere del bene e di sfruttarlo per ricavarne un’utilità. *con il diritto di disporre, il sovrano poteva dividere il terreno in quante parti voleva (una da tenere, una da vendere, una da donare…) Cosa succede con la morte di uno dei due soggetti? Alla morte del vassallo il diritto di beneficio tornava al concedente, e non ai suoi successori; invece alla morte del signore concedente, il vassallo doveva restituire la terra agli eredi del defunto; Il beneficio ha una natura ALEATORIA, cioè una concessione sottoposta ad un rischio: il rischio che il concedente potesse revocare liberamente il beneficio in qualsiasi momento o addirittura cederlo a terzi, anche se non è stato commesso nessun reato di fellonia. Se io sovrano, concedo il godimento di una terra al vassallo, e poi questo mi tradisce (fellonia), allora il legame viene meno, e viene meno anche il diritto di godimento. Fu solo a partire dall’11 secolo, che il feudo assunse un carattere “PATRIMONIALE”. La patrimonializzazione del feudo si ebbe nel 1037 (200 anni dopo circa), con l’Edictum de beneficiis (l’editto sui benefici), emanato dall’Imperatore Corrado II il Salico a Milano, che rendeva tutti i feudi, piccoli e grandi, ereditari. In questo editto l’imperatore emana una serie di concessioni: 1. Alla morte del vassallo il beneficio poteva essere trasmesso automaticamente in via ereditaria ai suoi figli o ai figli dei figli, senza che le terre oggetto del beneficio dovessero più ritornare nella disponibilità del signore concedente. Ereditarietà del beneficio. 2. Il beneficio si poteva, non solo trasmettere in via ereditaria, ma si poteva vendere. Poteva alienare/donare/trasferire il diritto di godimento, a sua scelta. Es. può venderlo ad un altro vassallo o a non vassalli (titolari di godimento che non sono vassalli) Es. vassallo titolare del beneficio, prende il terreno dove ha godimento, e lo divide in 2, su una parte conserva il beneficio, mentre sull’altra vende il diritto di godimento. Quindi il sovrano che aveva un vassallo, si ritrova un vassallo che ha beneficio su un lato di terreno, ma anche un altro soggetto (che può non essere vassallo) da un altro 3. Si stabiliva, anche, che nessun vassallo potesse perdere il beneficio se non per propria colpa (causa non imputabile al vassallo), cioè per effetto di comportamenti lesivi verso il sovrano o verso il suo patrimonio (fellonia): l’esistenza di tale colpa, non poteva essere semplicemente affermata dal signore, ma doveva essere accertata in un giudizio condotto dai “pari” del vassallo (cioè da altri vassalli indipendenti dal signore che aveva concesso il beneficio al vassallo accusato di avere commesso una qualche colpa) oppure da parte dell’imperatore o dei suoi missi (in ogni caso da soggetti diversi dal concedente), che dovevano dimostrare se il vassallo accusato abbia commesso la fellonia o meno. N.B ® 2 tipi di proprietà: 1) la proprietà allodiale, cioè la vecchia proprietà romana chiamata ALLODIO che presenta un terreno e un soggetto (più sicura). Con carlo nasce il secondo tipo di proprietà, la proprietà feudale, che presenta un terreno e due soggetti (uno dispone l’altro gode). I PLACITI (l’assemblea e il provvedimento preso) Alla fine dell’XI secolo, l’Italia fa parte del Sacro Romano Impero e la giustizia è amministrata allo stesso tempo da funzionari regi, dai feudatari nelle loro corti feudali presso i castelli, in alcune città anche dai vescovi. In questo periodo cominciano a diffondersi i PLACITI, cioè delle assemblee giudiziarie tenute periodicamente dai pubblici funzionari (conti, feudatari…) incaricati di applicare il diritto e rendere giustizia. Questa assemblea ha quindi, lo scopo di risolvere le liti, che siano per causa di diritto civile o penale, ma in prevalenza civile Con placito si indica anche la decisione presa da questa assemblea. (2 significati). In questi placiti si usano vari tipi di diritti, ma maggiormente si usa il diritto romano, perchè molto più evoluto tecnicamente rispetto agli altri diritti dei popoli barbarici, soprattutto per il sistema dei mezzi di prova poiché si dà sempre più rilevanza alla prova testimoniale e alla prova scritta. Ma più in generale la conoscenza del diritto romano si rivela fondamentale: - nella soluzione delle cause più importanti (di solito controversie immobiliari) - per sollevare eccezioni processuali o replicare ad esse (prescrizione, res indicata). Ad esempio, contro chi rivendica di essere il vero proprietario di un terreno ormai posseduto da anni da un’altra persona, quest’ultima sostiene di aver nel frattempo acquisito la proprietà del terreno stesso per effetto della sopraggiunta usucapione del diritto di proprietà su quel bene - per decidere su altre questioni processuali (prove, appello, contumacia-quando il convenuto non si presenta). Non solo il diritto romano è sopravvissuto nei secoli, ma viene anche utilizzato (a volte utilizzato bene e a volte male). Verso la fine dell’anno mille PLACITO DI MARTURI (1076) Un uso molto preciso del diritto romano è fatto nel placito di Màrturi, una località toscana vicino a Siena (l’attuale Poggibonsi). Controversia immobiliare: due parti in contrapposizione, il monastero di San Michele (l’attore, colui che cita in giudizio) e il cittadino Sigizo (il convenuto che deve rispondere alla chiamata in giudizio). Sigizo, cittadino di Firenze, coltiva un terreno a Màrturi, quindi è in possesso di quel terreno e lo sta sfruttando. Il monastero di San Michele cita un giudizio Sigizo, accusandolo di essere venuto in possesso del suo terreno illecitamente. (in modo illecito perché il vero proprietario dovrebbe essere il monastero, il diritto di disporre del bene spetta a quest’ultimo) I monaci sostengono che per anni hanno tentato invano di portare in giudizio Sigizo per accusarlo di essere il possessore illegittimo di alcune terre che tanto tempo prima erano state donate al monastero. Ogni tentativo di citarlo in giudizio è stato inutile, perché nessun giudice ha mai voluto dare seguito alle richieste del monastero (non si sa il perché, probabilmente Sigizo era un feudatario potente, un vassallo di Beatrice di Canossa). Successivamente però, i monaci riescono finalmente ad ottenere udienza dal giudice Nordilo, un missus della contessa Beatrice di Canossa. Per mettere in atto l’azione di rivendica della proprietà, è necessario dover dimostrare di essere il vero proprietario, ma in che modo? Con le prove: in quest’occasione, per riavere il possesso delle terre possedute da Sigizo, il monastero è in grado di produrre in giudizio la prova documentale da cui risulta il proprio diritto di proprietà, vale a dire un atto di donazione con cui in passato la terra in questione era stata donata al monastero. Nel 1167 alcune città lombarde decisero di dar vita a una alleanza militare: la societas Lombardiae (la Lega Lombarda). Federico Barbarossa fu sconfitto a Legnano nel 1176, e a questo punto la Lega Lombarda e l’Imperatore arrivarono al compromesso della pace di Costanza del 1183. I Comuni ottennero il riconoscimento del valore delle consuetudini locali fino ad allora applicate, come anche la possibilità di continuare a esercitare la giurisdizione civile e criminale (cioè il fatto di avere tribunali e giudici propri), nonché il diritto di eleggere i propri consoli. Il conseguimento della piena autonomia politica non assicurò ordine e pace duratura alle città. Anche se alla base dell’organizzazione dei Comuni vi era un impegno giurato volto al mantenimento della pace, ciò non impedì che si formassero tra le più importanti famiglie delle inimicizie, perché ognuna di esse cercava di prendere il controllo della realtà. Inoltre, la lotta fra Chiesa e Impero comportò la necessità di fare una precisa scelta di campo: le città dovettero decidere se allearsi con il Papa o con l’Impero, e al loro interno guelfi (filo-papali) e ghibellini (filo-imperiali) continuarono a scontrarsi anche dopo che l’alternativa tra Papato e Impero era ormai da tempo conclusa. La violenza della lotta fu tale da scuotere molti Comuni fino alle loro stesse fondamenta. Si spiega, così, come tra la fine dell’11 sec e l’inizio del Duecento, nei Comuni italiani si decise di nominare al vertice dell’amministrazione pubblica una nuova figura: il podestà, cioè un magistrato originario di un’altra città in grado di offrire garanzie di imparzialità superiori a quelle dei consoli cittadini. Nacque così il COMUNE PODESTARILE. Il podestà veniva eletto per uno o due anni e al termine della sua carica veniva trattenuto in città, per essere sottoposto al cosiddetto “sindacato giudiziario”: i cittadini potevano giudicare l’amministrazione del podestà; veniva allora nominata un’apposita magistratura elettiva (i “sindacatori”), che in merito ai reclami dei cittadini, giudicava gli atti compiuti dal podestà scaduto dalla carica. Continuavano a sussistere contrasti all’interno delle città, infatti, in molti Comuni le famiglie di origine nobiliare strinsero fra loro dei legami di reciproca assistenza, dando vita ad associazioni di natura militare: le Società delle armi, ed anche i ceti mercantili e artigianali si organizzarono in Corporazioni di arti o di mestieri, tra le quali si distinguono quelle potentissime dei mercanti, degli artigiani, dei giudici e avvocati, ecc.. Tutte le corporazioni avevano uno specifico ordinamento interno, articolato in una magistratura di vertice (consoli, priori, rettori, capitani, anziani, podestà…) e in un consiglio, che emanava regolamenti relativi all’esercizio della professione (e in seguito raccolti in appositi Statuti). Tutte associazioni che avevano un peso e che volevano influenzare la città. Alla fine, però, in quasi tutti i Comuni italiani dopo anni di lotte di potere si passò alla fase politica delle Signorie, dove famiglie molto potenti e dotate di uomini armati e di grandi mezzi finanziari, riuscirono a occupare e conservare tutti i posti di potere all’interno del Comune. In alcune città dell’Italia padana il regime signorile si impose già nella seconda metà del Duecento (ad esempio a Verona con i della Scala, a Ferrara con gli Estensi, a Milano con i Visconti, a Firenze con i Medici). All’interno di ogni città, una famiglia prende il controllo della città stessa. Signoria= il signore; forma di governo. Lorenzo de medici, es. signore di Firenze, non è un re o imperatore, è un sovrano, un Signore italiano. Le signorie sono Stati. Anche in queste signorie c’è il diritto, gli statuti = forma di governo. I GLOSSATORI (XII SEC-XIII SEC) Alle origini della Scuola dei Glossatori nata a Bologna c’è la figura di Irnerio, un giurista vissuto all’inizio del XII secolo. Irnerio, inizialmente, inizia di sua volontà a casa propria ad insenare il diritto, dato che lo conosceva bene: conosceva il diritto romano giustinianeo, il diritto del sacro romano impero (il diritto franco), ma anche il diritto longobardo, e il diritto del comune di bologna(lo statuto). Fu il primo ad aver insegnato nella sua città, fu la prima luce (primus illuminator) della scienza giuridica. Secondo i racconti di Odofredo (uno degli esponenti di spicco di tale Scuola vissuto nella prima metà del Duecento), Irnerio fu la ‘lucerna iuris’, cioè colui che diede nuova luce agli studi giuridici, perché rischiarava con le sue analisi e spiegazioni (chiamate glosse) il testo delle antiche leggi romane (la compilazione giustinianea), che nel corso dei secoli erano progressivamente divenute sempre più oscure e di difficile comprensione, perché erano passati molti secoli dalla loro promulgazione. Perché era importante la figura di irnerio? Ha fatto 2 cose importanti: 1. ha studiato la compilazione giustinianea di sua spontanea volontà, scrivendo le glosse 2. insegnava il diritto romano giustinianeo ad un gruppo di allievi. Irnerio apprese le sue conoscenze sul diritto dai monasteri Il diritto romano giustinianeo, pur essendo molto vecchio (passati 6 sec), è molto usato perché era tecnicamente, qualitamente, ma anche quantitamente, superiore agli altri diritti: ecco perché Irnerio si focalizza su questo. Il giurista che utilizza questo diritto è più avvantaggiato (es. monastero san Michele) La scuola dei glossatori, non era una scuola destinata alla formazione non solo di giudici, ma più in generale di una più ampia classe di giuristi, cioè di esperti conoscitori del diritto (giudici, notai, avvocati, professori, funzionari pubblici). Ebbe così origine a Bologna la prima scuola di diritto dedicata al diritto romano. In seguito, tanti altri maestri avrebbero aperto una propria scuola nella stessa città emiliana e in altre città italiane. In queste scuole i professori leggevano sempre e soltanto i libri legales, come venivano ormai chiamati i testi giustinianei, mentre il complesso della compilazione giustinianea era indicato con il termine di Corpus Iuris Civilis (cioè il corpo del diritto civile). Gli “studenti” erano pochi, ma tanti, ovvero i pochi che sanno leggere e scrivere, e con genitori ricchi, che gli permettevano di viaggiare e studiare. Sono spinti dal desiderio di essere come Irnerio, potenti giuristi e ricchi. Nasce una vera e propria scuola, ma non solo come edificio, ma come una corrente di pensiero caratterizzata dalla presenza di una generazione di giuristi. Il nome Glossatori deriva dallo strumento originariamente utilizzato da questi giuristi per interpretare il testo giustinianeo (LA GLOSSA), vale a dire l’annotazione interpretativa apposta al testo dal doctor (dal docente) durante la lectio del testo (cioè la lettura del testo fatta durante la lezione). ® Glossa grammaticale, diretta a chiarire il significato di una specifica parola, di un certo termine giuridico oppure di un’intera frase. Le glosse grammaticali erano solitamente interlineari, scritte tra una riga e l’altra del testo e molto brevi. ® Glossa interpretativa, nel caso in cui si sarebbe trattato di uno svolgimento teorico più ampio, in relazione ad un determinato passo della compilazione giustinianea con altre norme, in cui si dicevano cose simili o diverse, indicando cosi i “passi”, cioè i punti paralleli o discordanti. Le glosse interpretative erano solitamente marginali perché più lunghe, corpose, e quindi poste a lato del testo, sul margine della pagina. ® In altre glosse ancora ci si interrogava sull’applicabilità delle norme alle fattispecie concrete, specie se non identiche a quelle contemplate dal legislatore romano e quindi non previste né regolate (anche queste erano glosse marginali e interpretative) A destra il testo di Giustiniano e all’interno le glosse interlineari. Glosse marginali, sul margine una annotazione scritta, un commento (glossa interpretativa). Il libro usato dal maestro a lezione presentava, dunque, al centro il testo giustinianeo scritto su due colonne, mentre le note/glosse erano riportate ai margini oppure nell’interlinea del testo. Ogni giurista della scuola, crea le sue glosse La glossa REDACTA è redatta originalmente dall’insegnante (da Irnerio), la glossa REPORTATA, invece è l’annotazione dello studente. Ratio legis: i principi giuridici enunciati dal testo. IRNERIO E I SUOI DISCEPOLI: MARTINO, BULGARO, UGO E IACOPO; Irnerio ebbe quattro allievi ai quali tramandò il suo sapere: Bulgaro, Martino, Ugo e Jacopo. I due più importanti furono Bulgaro e Martino, i quali furono i capostipiti di due distinti indirizzi dottrinali in cui si divise la Scuola dei Glossatori. Due indirizzi di interpretazione della compilazione giustinianea: 1. Bulgaro era più propenso ad applicare alla lettera il diritto romano, cioè a seguire il significato letterale delle leggi romane. (lettera x lettera) Di Bulgaro era celebre il carattere onesto e coerente. 2. Martino era più incline a interpretare il testo del diritto romano in modo estensivo e creativo, così da venire incontro alle esigenze della prassi e dei singoli individui del Medioevo, allontanandosi dalla mera lettera della legge romana per tenere conto delle nuove necessità degli uomini medioevali che ovviamente non potevano essere state prese in considerazione secoli prima dagli antichi legislatori romani. Martino mirava, quindi, a fornire nuove interpretazioni delle antiche norme romane sulla base di considerazioni razionali, etiche e ispirate da motivi di equità. L’INTERPRETAZIONE LETTERALE è la soluzione più semplice e più ovvia, per chi inizia a glossare il diritto, cerca di usarlo così com’è, interpretando il meno possibile non allontanandosi dall’origine. Però questa interpretazione ha degli svantaggi e vantaggi, il vantaggio è che si rimane fedeli al testo (il giurista applica la legge così com’è), ma gli svantaggi consistono nel fatto che: ® non è così facile dare un interpretazione letterale se i glossatori non conoscono il “background” della norma. ® il caso che bisogna risolvere potrebbe non rientrare nel caso descritto dalla compilazione giustinianea, non risolvendo il caso che abbiamo davanti. ® la soluzione è conforme alla legge, ma l’opinione pubblica è contraria. Es. Costantino punisce il furto con il taglio della mano, i glossatori si trovano il caso di un povero con 10 figli, che ruba del pane per darli da mangiare: in questo caso la soluzione è giusta perché si interpreta alla lettera, ma non è equa, perché il padre ha rubato per dare da mangiare ai figli. Allora, Martino, allievo di Irnerio, dice che preferisce un tipo di interpretazione diverso, un’ interpretazione equitativa che punti ad arrivare ad una soluzione sia giusta che equa. Quindi, la pena del taglio si applica solo ai furti più gravi, il padre era giustificato dal fatto di dover sfamare i figli. L’interpretazione letterale è troppo rigida. L’indirizzo che prevale successivamente è quello di Martino, perché si consente al diritto di evolvere e di continuare ad essere applicato nella realtà. Ogni giurista però potrebbe interpretare la stessa norma in modo diverso. Come facciamo a sapere quando arriviamo ad una soluzione equa? IL CONCETTO DI AEQUITAS: I glossatori erano uomini religiosi, di fede, che guardavano la realtà in cui vivono, e sostenevano di essere in una realtà creata da Dio, quindi, che doveva funzionare secondo certe regole volute da Dio stesso. Dio ha deciso che fosse equo che gli animali carnivori mangiassero gli erbivori, che gli erbivori mangiassero le piante, e così via. Gli uomini guardando le regole naturali, si sono dati delle regole sociali, regole comportamentali, giuridiche. Il diritto scritto era “positivo”, creato su ispirazione divina per essere applicato “positivamente” e concretamente nella realtà quotidiana. Equità divina -> manifestazione di Dio e della sua volontà. diversi; oppure, si poteva dire che una era la regola generale e l’altra l’eccezione(legge speciale); o ancora si poteva sostenere che una era la regola più vecchia e l’altra quella più recente, che abrogava o derogava quella più vecchia; ecc. Es. ci sono diversi punti, altri passi, in cui si parla di adulterio, dove la soluzione è identica (passi paralleli) o passi contrari, dove lo stesso caso potrebbe essere regolato in modo diverso, qui nasce un problema. Il marito viene condannato o no? I giuristi medievali erano anche convinti che il Corpus Iuris Civilis non contenesse regole e massime giuridiche contrastanti fra loro. Di conseguenza, l’eventuale contraddizione rilevata da un giurista era da considerarsi solo “apparente” e tale da poter essere eliminata con il ragionamento logico e giuridico. I contrasti sono solo apparenti. Siamo noi esseri umani, giuristi, che vediamo un contrasto dove in realtà non c’è. Esempi di distinzione, in cui si inventano delle tecniche per eliminare il contrasto: Es. 1- La compilazione dice che il marito non è punibile, poi c’è l’opinione di Cicerone che dice che deve essere punito. Come si risolve il contrasto? Distinguiamo il significato delle parole usate da Giustiniano da una parte e da cicerone dall’altra, perché potremmo scoprire che in realtà il caso non è identico, ci sono delle piccole differenze che giustificano l’esistenza di due soluzioni diverse. Es.2- E’ lo stesso identico caso risolto in due modi diversi, allora la tecnica deve farsi più sottile, per esempio la regola di Costantino è arrivata dopo, mentre la regola di Cicerone è diritto vecchio. Il diritto nuovo ABROGA, cioè elimina il diritto precedente. Si segue il diritto nuovo. Es.3- la tecnica del nuovo che elimina il vecchio porta a molte controversie, quindi si passa ad un altro esempio di distinzione: le due regole arrivano da due epoche e contesti diversi. È cambiata la sensibilità sociale. Il contrasto si risolve dicendo che una è l’eccezione (legge speciale da usare solo in determinati casi) e l’altra è la legge generale. 4. A questo punto, grazie a questa complessa analisi del caso concreto e delle norme che lo riguardavano, si enunciavano dei principi giuridici generali chiamati notabilia o brocarda (per esempio, nota bene che un solo teste-un testimone-equivale a nessun teste; unus teste nullus teste; deposizione di almeno 2 testimoni, se abbiamo un solo testimone è zero). Enucleazione/enunciazione di principi generali. Si parte dal caso pratico e si arriva alla teoria, enunciazione della regola generale. Notabilia (n.b; nota bene), se non usano notabilia c’è il brocardo, cioè una massima (frase) che esprime la sintesi di un concetto o un principio giuridico tratto dall’analisi di un caso specifico. 5. Infine, si poteva giungere a una fase più complessa, che consisteva nel porre e risolvere le cosiddette quaestiones, cioè delle domande (quaestio) rivolte dal maestro agli allievi (vuole vedere se hanno appreso ciò che ha spiegato) e che riguardavano 2 tipi di problemi specifici: ®la QUAESTIO LEGITIMA, cioè come coordinare dei contrasti fra norme diverse della compilazione giustinianea. Un problema che si risolveva con la tecnica della distinzione (regola/eccezione, diritto vecchio/diritto nuovo, norma applicabile ovunque o solo in un luogo, ecc.) ® la QUAESTIO EX FACTO EMERGENS, cioè cosa fare se un certo caso non è contemplato dalle norme giustinianee, Es. il caso di adulterio, che potrebbe essere simile, ma diverso perché con è contemplato nella compilazione giustinianea. Un problema che si risolveva ricorrendo alle argomentazioni dialettiche/ragionamenti dialettici. Ad esempio con il ragionamento a simili, cioè per analogia (si prende la regola che disciplina un certo caso e se ne estende l’applicazione a tutti i casi simili non regolati da nessuna norma); oppure con quello dal più al meno (a maiori ad minus: “ciò che è proibito al soggetto più degno, a maggior ragione è proibito al meno degno”: se un minore non può rescindere un contratto da lui giurato, a maggior ragione non lo può fare un adulto); dal meno al più (a minori ad maius: “se è proibito qualcosa al soggetto meno degno, a maggior ragione è proibito qualcosa al soggetto più degno”: il divieto di portare cani in un parco senza museruola si estende a maggior ragione alle tigri); a contrario sensu, usato per bloccare l’applicazione di una norma a casi in essa non espressamente previsti oppure per applicare al caso contrario a quello regolato da tale norma una disciplina opposta a quella prevista da tale norma; dal genere alla specie; ecc. Es. pensiamo ad un minorenne che ha stipulato un contratto, e che ha giurato solennemente che darà esecuzione a quel contratto senza chiedere la rescissione. Il minorenne che ha giurato fede non può uscire da questo contratto. È un soggetto degno di protezione, gli impediamo di chiedere la rottura del contratto. Il minorenne va assistito, deve capire che non può violare il giuramento. Se un maggiorenne invece viola il giuramento e chiede la rescissione? La stessa regola che applichiamo al soggetto degno di maggiore protezione (minorenne) la applichiamo al soggetto di minore protezione (il maggiorenne). Il giurista si ritrovava così a porre la quaestio, ossia si interrogava su un determinato problema, discutendo, prospettando tesi e antitesi, valutando gli argomenti pro e contro di ciascuna ipotetica soluzione e infine prospettava una solutio (soluzione). IL DIRITTO CANONICO E LA FORMAZIONE DEL CORPUS IURIS CANONICI Il decretum di Graziano (1140); concordia discordantium cànonum, Un ruolo simile ad Irnerio fu assunto nel campo del diritto canonico, da un monaco di nome Graziano. Fino alla prima metà del XII secolo, il diritto della Chiesa era stato oggetto di diversi interventi di sistemazione, diretti a coordinare fra di loro le diverse fonti del diritto canonico risalenti ad epoche diverse (Sacre Scritture, testi dei Padri della Chiesa, cànoni conciliarii, decretali pontificie) e che potevano regolare in modo diverso e contrastante gli stessi problemi. Nessuna di queste grandi collezioni giuridiche di diritto canonico si era affermata come un testo di riferimento unitario per tutta la Cristianità: ciò accadde per la prima volta solo con il Decreto di Graziano. A Bologna, intorno alla metà del 1140, un monaco di nome Graziano dice che nel corso degli anni le fonti di diritto erano aumentate di tanto, cioè sono secoli che si sta producendo tanto diritto, tanti canoni. Stava succedendo come co n la compilazione giustinianea, era piena di fonti di tipo diverso e creare in epoche diverse, in diversi contesti. (ripetizioni contraddizioni, lacune…) Cosa fa Graziano? Il metodo adottato da Graziano, cioè selezionare e analizzare alcune delle fonti del diritto canonico (NON TUTTE quelle che componevano l’enorme massa di testi canonistici), era quello della “CONCORDANZA”: ci si doveva porre davanti alle diverse fonti del diritto canonico con l’intento di estrarne una disciplina armonica e unitaria, eliminando tutte le contraddizioni eventualmente esistenti fra le diverse fonti, poiché tali contra ddizioni dovevano considerarsi come contrasti (“antinomìe”) meramente “apparenti” e che si potevano eliminare con il metodo del ragionamento del diversi sed non adversi. Graziano era quindi un privato cittadino, che di sua spontanea iniziativa, da solo, per semplificare il diritto canonico vigente nel medioevo, selezionò le fonti del diritto canonico: prese dei passi dalla bibbia, alcune decretali, alcuni canoni, alcuni passi dei testi dei padri, mettendoli in un’unica opera chiamata CONCORDIA DISCORDANTIUM CÀNONUM (la concordia dei canoni discordanti). Secondo Graziano, per superare i contrasti tra norme canonistiche e per cercare di stabilire una concordanza fra fonti “apparentemente” in contrasto fra loro, si trattava di concepire il diritto canonico come un complesso di fonti del diritto create direttamente da Dio e dunque come uno sistema perfetto e privo di contraddizioni. Naturalmente i contrasti esistevano, ma il canonista doveva considerarli “apparenti” e non dubitare della perfezione e della verità dei testi creati da Dio. Di conseguenza, Graziano affermava che passi del diritto apparentemente “contrari” (adversi) erano da considerarsi semplicemente “diversi”: diversi, sed non adversi. Si dovevano allora operare delle distinzioni, la tecnica della SOLUZIONE DEI CONTRARI: Ø tenendo conto del fatto che alcuni testi erano formulati “secondo rigore” e dovevano essere applicati in modo rigoroso e preciso, mentre altri testi erano formulati “secondo moderazione” e andavano applicati in modo meno rigoroso e con più misericordia. Ø Oppure, si poteva dire che alcuni testi esprimevano una semplice ammonizione a fare o non fare qualcosa, mentre altri testi esprimevano un vero e proprio precetto. Ø Ancora, alcuni testi esprimevano una proibizione e irrogavano una sanzione, mentre altri indicavano come ottenere la remissione del peccato. Ø Alcuni testi poi potevano enunciare delle regole inderogabili e altri testi regole derogabili, come se si trattasse di regola generale ed eccezione. Ø Infine, era possibile ragionare sul significato delle singole parole usate nei due testi apparentemente contrastanti e distinguere il significato che una stessa parola poteva assumere in diversi contesti, applicando quindi una norma canonica in un caso e l’altra norma nell’altro caso. (es. una e piuttosto che una o, il senso della legge cambia). Cosa si fa in presenza di lacune? Graziano come detto in precedenza, afferma che il diritto è creato da Dio, quindi non possiamo pensare che queste lacune del diritto esistano. Siamo noi essere imperfetti che vediamo le lacune. (le lacune sono quelle ipotesi nuove, non contemplate nel passato). Se troviamo una lacuna, si usa la tecnica di ragionamento simile a quella dei glossatori: casi simili, casi contrari ecc Graziano, però, non si limitò solo a raccogliere i testi per formarne una ordinata collezione, ma li corredò anche di proprie annotazioni, cioè dei suoi commenti personali, che prendono il nome di DICTA (paragonabili alle glosse dei Glossatori). Fu proprio questo apporto interpretativo personale che consentì a Graziano di cercare e conseguire meglio la concordanza tra testi tra loro “apparentemente” discordanti, come recitava il titolo originario dell’opera, Concordia discordantium cànonum, passata però alla storia con il nome di DECRETUM.. L’opera risale ad un periodo compreso tra il 1139 e il 1142, e si compone quindi di due elementi diversi: 1) Le AUTORITÀ (auctoritas), cioè le fonti del diritto canonico: i testi biblici, i testi dei padri della Chiesa, i cànoni emanati dai concilii, le decretali pontificie. 2) I DICTA di Graziano, dei brevi commenti, annotazioni personali, volti al superamento delle contraddizioni delle norme, con l’uso del metodo dialettico del diversi sed non adversi. A imitazione di Irnerio, anche Graziano fonda una scuola a Bologna per leggere e spiegare il nuovo testo a dei discepoli: si formò la scuola canonistica bolognese di decretisti, cioè di canonisti studiosi del Decretum. Le decretali pontificie; Dopo la realizzazione del Decreto di Graziano. il secondo grande fenomeno furono le decretali pontificie emanate a più riprese nel XII e nel XIII secolo dai Papi. Le decretali erano lettere in cui il pontefice decideva direttamente la controversia a lui sottoposta, oppure redigeva istruzioni per la sua soluzione, incaricando poi i vescovi o i giudici delegati di applicare alla fattispecie concreta i principi giuridici da lui indicati. Ma le decretali potevano anche essere più semplicemente le risposte a questioni puramente teoriche di diritto rivolte da vescovi o giudici ecclesiastici a prescindere dall’esistenza effettiva di una controversia. Le decretali nascevano, quindi, come Es. Io voglio vincere, quindi ti chiedo un parere che mi faccia vincere il processo. Può essere chiesto prima o dopo che sia iniziato. Consilia più innovativi e creativi, poiché i giuristi consulenti dovevano favorire i loro committenti, dunque si sfruttava tutta l’elasticità, la flessibilità del diritto comune. Attraverso questi consilia fanno evolvere il diritto. In entrambi casi il consiglio era dato dal giurista dietro lauto compenso (tanti soldi) e non sempre, a differenza del consilium sapientis iudiciale, per scopi processuali. Un aspetto importante da tenere presente è che la redazione del consilium diventava la sede ideale per svolgere una discussione inerente al diritto romano contenuto negli antichi libri legales, ma anche la normativa locale di ius proprium, e per tentare di coniugare armonicamente le diverse fonti del diritto, cioè diritto romano, diritto canonico, diritto statutario, consuetudini e mondo dei fatti. Era un momento di raccordo fra fonti diverse del diritto che passava attraverso la soluzione di controversie concrete. Un consulente famoso guadagnava moltissimo e la sua fama cresceva in base al numero di consilia richiestigli, dell’importanza delle materie su cui si era pronunciato e del rilievo sociale dei vari committenti. Si comprende così perché tutti i giuristi, civilisti e canonisti, maggiori e minori, siano stati autori di consilia: tutti si impegnavano nella loro redazione, perché i consilia conferivano loro prestigio e ricchezza. Consiliatori -> producono consilia, manipolano ed evolvono il diritto, creano nuovo diritto, adattano le fonti del diritto che usano alla realtà. Giuristi della giurisprudenza consulente. I GRANDI TRIBUNALI Nel 1500 (il XVI secolo) il Sacro Romano Impero è ormai un’entità politica che ingloba al suo interno solo le regioni dell’Europa centrale, da cui si sono definitivamente staccati nuovi organismi istituzionali (come le Signorie italiane o il Regno di Francia), e da cui sono del tutto indipendenti gli Stati già nati in precedenza al di fuori dei confini dell’Impero stesso (come i Regni di Spagna o di Inghilterra). Ovunque in Europa si vanno strutturando monarchie pienamente emancipate dall’Impero, destinate a conseguire dopo l’avvenuta unificazione territoriale anche l’unificazione interna del potere. Si assiste al trionfo degli Stati principeschi e nazionali. Strumento privilegiato per il raggiungimento di tale unificazione politico-istituzionale diviene l’esercizio da parte del sovrano del potere legislativo: re e principi riconoscono nella propria volontà il fondamento legittimante della legge, con ripercussioni notevoli sul quadro sistematico delle fonti giuridiche. La legislazione statale agisce da questo momento in poi sempre più come un vero e proprio “diritto comune” nei confronti dei vari diritti particolari vigenti all’interno dello Stato e si pone, rispetto ad essi, come fonte principale e suprema. E’ un ribaltamento di ruoli e di funzioni: il tradizionale ius commune romano assume la veste di diritto sussidiario, subordinato alla superiore normativa sovrana, cui spetta ora la qualifica di vero diritto comune. Allo stesso tempo all’interno di ogni Stato, il diritto romano, accompagnato dall’attività interpretativa, diventa diritto dello Stato solo in virtù di un’accettazione espressa o tacita da parte del sovrano: in questo modo, attraverso questa sorta di legittimazione da parte del sovrano, il diritto romano si “particolarizza o regionalizza”, diviene cioè una sorta di diritto comune particolare, un po’ sempre più diverso da Stato a Stato . La nascita degli Stati nazionali determinò non solo questa sorta di “statualizzazione” del diritto comune, ma avviò pure un iter di semplificazione dell’apparato giudiziario dello Stato con la creazione di corti centrali, i cosiddetti GRANDI O SUPREMI TRIBUNALI, nuovi organi di giustizia per l’amministrazione di un nuovo diritto, che vengono costituiti negli anni intorno al Cinquecento. Erano supremi organi centrali dal potere giudiziario. La nascita dei Grandi Tribunali ebbe come conseguenza la perdita di importanza dei consilia: in tutti i tribunali i giudici dovevano essere esperti conoscitori del diritto che dovevano giudicare in nome del sovrano: erano, quindi, uomini reclutati fra i migliori specialisti del diritto. Non ci si deve più basare sul consilium sapientis, perché il giudice dovrà emettere la sentenza sulla SUA conoscenza. I giuristi erano quindi i migliori dello Stato e scelti dal re. Restano in carica per parecchi anni, a lungo. Ma perché? Perché i giudici quando entrano in carica e gli viene sottoposta una lite, il giudice cambia l’orientamento (se una soluzione è equa manteniamola, ma se successivamente non appare così, si cambia l’orientamento). Se mettiamo giudici stabili, si forma un orientamento giudiziale piuttosto stabile nel tempo. Perché è importante? Così tutti noi sapremmo in anticipo come si pronuncerebbe il tribunale: si assicura certezza del diritto (ai cittadini non piace l’incertezza; il sovrano garantisce certezza coi grandi tribunali formati da giudici che rimarranno in carica a lungo). La giurisprudenza dei Grandi Tribunali prese il sopravvento sia sulle opere dottrinali dei doctores universitari sia sulla letteratura consiliare, e questo in nome dell’obiettività delle pronunce giudiziarie e della ricerca disinteressata della verità legale in esse contenute. Quando si parla di Grandi o Supremi Tribunali si fa riferimento ad una folla di organi che, a seconda del singolo territorio, si chiamavano Parlamenti, Senati, Rote, Gran Consigli e che esercitavano funzioni variegate e differenziate. Queste Corti centrali fungevano da tribunali d’appello e avevano una competenza esclusiva, nel senso che alcune cause di particolare rilevanza (le cosiddette “cause regie” e demaniali) venivano decise soltanto dal tribunale centrale. I tribunali locali non potranno occuparsi di quelle questioni. Esempio, i tentativi di rovesciare il sovrano, di fare una rivoluzione, uccisione di un ministro...gravissimi reati politici non li facciamo giudicare dai tribunali locali, ma da quello centrale. Prendiamo il caso della contraffazione della monete: qualcuno emette conia oro che non è al 100% d'oro, quindi un falso-truffa. Alcuni stati definiscono grave reato in quanto possa danneggiare l'economia statale, quindi si stabilisce che è un reato di competenza esclusiva del tribunale centrale. Le DECISIONI di questi Grandi Tribunali erano “superiori”, più autorevoli, di quelle emesse dalle corti inferiori: 1. per la centralità delle corti che le emettevano (la competenza esclusiva o di appello così come il potere di avocazione delle cause consentivano a tali corti di orientare la pratica del diritto); L'avocazione-avocare-potere di “avocare” una causa: la causa è già iniziata in un tribunale locale, ma la corte centrale interviene e blocca lo svolgimento del processo, ordinandone lo svolgimento in centro. Generalmente per cause che non riescono a continuare da sole. 2. per la loro autorevolezza (dovuta alla loro posizione centrale, ma anche al prestigio che scaturiva dall’efficienza dei meccanismi processuali e dalla personalità dei membri del collegio, scelti dai sovrani tra quanti si erano messi in luce nelle aule universitarie o di giustizia) 3. per l’uso fatto solo dai Grandi Tribunali del cosiddetto arbitrium, cioè di un potere discrezionale nell’interpretare e nell’applicare il diritto. Tale discrezionalità era impiegata per sfuggire ai rigori dello stretto diritto, cioè per non limitarsi a interpretare il diritto in senso meramente letterale ma per introdurre una valutazione del caso oggetto di giudizio ispirata a criteri equitativi. Più in generale l’arbitrium era il potere esercitato per trovare il diritto da applicare al caso particolare: l’ordinamento era vivo proprio perché attraverso l’interpretazione era possibile adeguarlo, grazie al ricorso all’equità, e anche produrre diritto nuovo. potere di giudicare secondo il loro arbitrio: secundum arbitrium. Per noi oggi ha un significato negativo, ma i sovrani del 1500 dicono, che il sovrano essendo assoluto può decidere quello che vuole, quindi opera e giudica secondo la sua personale volontà, secondo il suo arbitrio, che non ha nessun limite. Giudicare secondo arbitrio-giudicare secondo equità. Alcuni hanno abusato di questo potere. Es. promessi sposi, lo zio abusando del potere fa allontanare Cristoforo. Composizione -> Corti supreme centrali, composte da magistrati, cioè professionisti esperti del diritto reclutati fra i migliori giuristi Competenze -> fungono da tribunali d’appello; in certe cause hanno competenza esclusiva (cause di particolare rilevanza o valore); potere di avocazione; possono giudicare secondo arbitrio, cioè secondo equità. Sono organi supremi dello Stato + formati da magistrati di professione + con vaste competenze ↔ diminuisce l’importanza dei consilia e aumenta l’importanza della giurisprudenza giudicante. ESEMPI DI GRANDI TRIBUNALI 1. LA ROTA FIORENTINA La Rota fiorentina, creata nel 1502, fu il primo Grande Tribunale dell’età moderna cui fu imposto fin da subito l’obbligo di motivare le sentenze. Era formata da giudici dotti, professionisti del diritto che restavano in carica per tre anni, in modo da dare stabilità alla giustizia. Perché le motivazioni erano importanti? 1. Le motivazioni dei giudici dovevano essere rese esplicite per ragioni di trasparenza e a vantaggio delle parti, che così avrebbero potuto proporre appello. La motivazione della sentenza svolgeva, però, anche una rilevantissima funzione extra processuale: costituiva un utile precedente per la soluzione di successivi casi analoghi. 2. Per rendere edotti tutti i cittadini delle ragioni per cui i giudici avevano deliberato in un certo modo: si mirava così ad eliminare le accuse di parzialità mosse alla giustizia, che si sosteneva fosse spesso contaminata da interessi politici. 3. Era anche uno strumento di controllo da parte delle autorità politiche, cioè dei Medici che governavano la città, sul modo in cui i giudici applicavano le leggi e amministravano la giustizia. Quindi il sovrano ordinava alla Rota Fiorentina di conservare tutte le sentenze in libri di pergamena La richiesta di motivare la sentenza era un fatto senza precedenti, fu un’ “invenzione” propria del diritto fiorentino. Con la Rota fiorentina si decide di conservare le decisioni in libri di pergamena, al fine di costituire un arsenale permanente di motivazioni capace di mettere un punto fermo sui conflitti dottrinali. Scrivere la motivazione di una sentenza equivaleva, infatti, a mostrare quale opinio si preferisse tra le tante su quella determinata questione giuridica. La legge istitutiva della Rota non faceva esplicito riferimento alla vincolatività del precedente: le sentenze pronunciate rappresentavano un punto di riferimento per i giudici di livello inferiore, cioè una sorta di linee- guida e quindi dei criteri di certezza nella produzione giurisprudenza. 2. LA ROTA ROMANA Una posizione di primo piano va riconosciuta alla giurisprudenza della Rota Romana, essa funzionava: - sia come massimo organo giudiziario all’interno dello Stato pontificio (per tutte le materie del diritto civile, penale, commerciale, ecc.) - sia come supremo tribunale in tutti i paesi cattolici nelle materie disciplinate dal diritto canonico. I suoi giudici erano tutti ecclesiastici, avevano un ottimo livello di preparazione ed erano rappresentativi dei diversi paesi cattolici. Lo svolgimento del processo davanti alla Sacra Rota, prevedeva che le parti della causa si rivolgessero a un giudice, detto PONENS , che doveva ascoltare le richieste delle parti e decidere se iniziare il processo. In caso affermativo il ponens istruiva la causa, cioè iniziava le indagini e cercava le prove di quanto affermato dalle parti, per poi concludere il tutto con una relazione che veniva da lui esposta oralmente davanti al collegio giudicante composto da altri giudici detti AUDITORES. (Auditores-uditori perché ascoltando la relazione) A questo punto, gli auditores congedavano il giudice istruttore ponens e si riunivano senza di lui, nella cosiddetta camera di consiglio, per prendere una decisione. La DECISIO ROTALE non era la sentenza definitiva, ma il documento in cui venivano esposte le conclusioni motivate dei giudici: tale atto veniva comunicato alla parti prima della pronuncia della sentenza definitiva, affinché i litiganti scegliessero se accoglierla o respingerla. Per gli umanisti la compilazione giustinianea doveva essere vista e studiata come una testimonianza e un documento del passato. Inoltre, in quanto testimonianza del tempo antico, la compilazione giustinianea andava studiata in primo luogo per ciò che essa aveva rappresentato nel passato, e secondariamente per l’utilità che i contenuti di un antico diritto potevano avere ancora nel presente. Non si disconosceva il fatto che la compilazione giustinianea fosse una preziosa miniera di soluzioni giuridiche ragionevoli (rationes). I glossatori sostenevano che la compilazione fosse priva di contraddizioni, che il testo fosse totalmente chiaro, in sostanza partivano dall'idea che fosse un testo perfetto privo di imperfezioni (imperfezioni apparenti risolte con la distinctio o solutio). Andrea Alciato contraddiceva i glossatori, dicendo che la compilazione fosse imperfetta, con lacune, contraddizioni, e che fosse stata creata da un essere umano e non da Dio. Il corpus juris civilis non è ordine e armonia, le sue norme contengono contraddizioni. Gli umanisti erano dotati di una raffinata conoscenza culturale, fatta di approfondite conoscenze storiche e filologiche, così da riuscire ad analizzare la compilazione di Giustiniano, smontata, esaminata e ricomposta. Andrea sosteneva che i glossatori avessero fatto gravi errori dovuti al fatto che a loro fossero mancate le conoscenze storiche, e la conoscenza del latino; bisognava ricorrere a studi storici e filologici (filo-logia: ricostruzione storica). Inoltre, a spingere la scienza giuridica verso un rinnovamento umanistico vi fu anche la reazione al progressivo distacco dal testo giustinianeo: l’enucleazione sempre più libera di interpretazioni creative, ad opera dei giuristi aveva finito con il determinare il graduale abbandono della lettera della legge (e di una conseguente interpretazione meramente dichiarativa). Ciò rappresentava un utile procedimento per l’elaborazione di un diritto sempre nuovo e attuale, costantemente tenuto al livello del presente e al passo con i tempi; ma al contempo si facilitava l’arbitrio dei giuristi nella libera e disinvolta creazione del diritto. La scuola culta del diritto; Il fondatore di un indirizzo umanistico giuridico fu il milanese Andrea Alciato (1492-1550). Alciato si formò in Italia e scrisse numerosi Consilia, anche se criticò la giurisprudenza consulente, perché sosteneva che il giurista, con i consilia, manipolava il diritto per interesse dei suoi clienti, per l’abuso dell’interpretazione e per l’ignoranza di molti giuristi. . Andrea Alciato accusava Giustiniano di aver manipolato e sottratto il diritto romano. Ciò comportò altresì un suo “diverso” approccio allo studio del processo formativo della compilazione giustinianea, valutata come un prodotto del mondo antico con drastiche conseguenze sulla sua autorità di diritto positivo vigente. Allo stesso tempo Alciato cercò di restituire importanza al materiale normativo redatto in greco, pressoché ignorato dai giuristi medievali (che non parlavano il greco), e a quelle fonti giuridiche romane che non erano state prese in considerazione dai giuristi di Giustiniano. Tuttavia, la reazione da parte della maggioranza dei giuristi a questo nuovo modo di studiare il diritto fu all’inizio negativa: si rischiava di mettere pericolosamente in discussione il patrimonio dogmatico e interpretativo accumulato nel corso di secoli di studi e interpretazioni del diritto romano, minando la certezza e la stabilità del diritto. C’era da temere che in nome della purezza linguistica e della correttezza filologica si facesse una rivoluzione foriera più di danni che di vantaggi: sotto i colpi della mannaia dell’Umanesimo rischiava di cadere tutto l’edificio giuridico creato nei secoli da Glossatori. Erano soprattutto i giudici e gli avvocati, lontani dall’arte filologica e dalla mera erudizione, a percepire i rischi, tale che non aderirono. Molti temevano che il ricorso alla filologia potesse implicare un regresso per la scienza giuridica, comportando l’appiattimento sull’analisi del testo letterale come ai tempi di Irnerio e abbandonando l’inventiva e le ingegnose costruzioni fatte dai suoi allievi per mantenere vivo e vigente l’antico diritto romano. Un intero patrimonio di conoscenze rischiava di sprofondare nel nulla. Gaio è stato uno dei giuristi romani pre-giustinianei a dire che prima di insegnare agli studenti il diritto caso per caso, bisognava insegnare il diritto partendo dalla teoria giuridica (persona giuridica, fisica; le res mobili e immobili, i diritti sulle cose proprietà, godimento ecc; le azioni, i modi con cui le persone creano una connessione con le cose). Il diritto va studiato secondo la tripartizione di persone, cose e azioni. Alciato, e la scuola culta recuperano il modello di Gaio: prima i principi astratti e dopo gli esempi pratici. FRANCOIS HOTMAN (1524-1590: antitribonianus,1567) Hotman, non limitò l’attacco ai Glossatori, ma lo estese fino a al cuore del sistema, cioè fino a Giustiniano e a Triboniano, colpevoli di aver alterato e distrutto il patrimonio giuridico della romanità classica, con le loro interpolazioni, realizzando una compilazione piena di errori e manchevolezze. Non è casuale che Hotman intitoli ANTITRIBONIANUS la sua principale opera scritta nel 1567. L’intento dell’autore non era quindi solo quello di dimostrare la “corruzione” dei testi giustinianei attuata dall’interpretatio dei giuristi medievali, ma di indicare anche i vizi contenuti nei libri raccolti da Triboniano. Hotman, però, non si limitò a condurre una critica distruttiva, ma anche una critica costruttiva, proprio perché egli considerava il diritto giustinianeo ormai inadeguato e inattuale per la società francese del suo tempo, egli riteneva che i sovrani francesi dovessero convocare una nuova commissione di giuristi e di uomini di Stato, quali avrebbero dovuto “estrarre” dal diritto romano cioè che in esso vi fosse di ancora vivo e applicabile nel presente. Compilazione giustinianea+ quello che c’era prima+ gli istituti ancora vivi e applicabili. Dopo questa operazione di selezione, si doveva utilizzare il materiale rimasto, unito: 1. alle consuetudini francesi; le commissioni migliori 2. alla legislazione regia (leggi emanate dai sovrani francesi; le migliori scelte 3. ai principi della filosofia 4. ai principi della “legge mosaica” (diritto canonico; regole giuridiche validi e utilizzabili dal diritto francese, Es. norme sulla poligamia, adulterio, peccati che sono reati per lo Stato)) Tutto ciò, raccolto in UNO O DUE volumi di leggi semplici e chiare, scritte in lingua francese. (Devono essere poche. chiare e in francese non in latino) IL GIUSNATURALISMO (XVII-XVIII sec) È un movimento di pensiero che parla del diritto(IUS) e di natura (NATURALISMO): esistenza di tanti diritti soggettivi naturali e di un sistema del Diritto Naturale (complesso di norme non scritte, considerate universali e necessarie, preesistenti al diritto positivo degli Stati) Il giusnaturalismo è un movimento culturale, filosofico, giuridico, teologico, che si sviluppa a partire dal 1600 in tutta Europa, durando secoli. Il fondatore è l’olandese Ugo Grozio. Un conto sono i diritti naturali soggettivi dell’individuo, un conto è il sistema del diritto Naturale. I giusnaturalisti del 1600, sostengono che ogni individuo, sin dalla nascita, è titolare di un insieme di diritti soggettivi. Non ha importanza dove l’individuo nasca e viva, o la religione che pratica, o l’epoca in cui uno nasce: l’individuo dalla nascita è titolare di questi diritti. Nel 1600 vi era una scarsa tutela dei diritti soggettivi*, i giusnaturalisti iniziarono ad insistere su questo punto sostenendo che ci siano dei limiti ai poteri dello Stato . Ogni Stato doveva rispettare questi diritti. C’era ancora la schiavitù nel 1600* -mondo dove domina la violenza. I giusnaturalisti (pochi che sanno leggere e scrivere) si iniziano a porre le basi per la tutela individuale dei soggetti. Gli inglesi fecero 2 rivoluzioni per difendere i diritti soggettivi naturali dell’individuo. Uno dei più grandi giusnaturalisti è John Locke. Quali sono i diritti naturali soggettivi dell’individuo? I diritti “irrinunciabili” che abbiamo dal momento della nascita, che l’individuo non può rinunciare di avere. 1. Quasi tutti i giusnaturalisti, dicono che il classico diritto soggettivo naturale a cui non si può rinunciare è il diritto alla VITA. Lo Stato non poteva privare del diritto alla vita. Il diritto naturale alla vita era presente, ma c’erano delle eccezioni, dei casi particolari, in cui lo Stato poteva privare della vita: quando si commetteva un grave reato, l’individuo era punito con la pena di morte. C’erano dei casi eccezionali: casi di gravi reati, di cui l’intera collettività capisce che è corretto essere privati del diritto alla vita. Bisognava punire i reati, assicurare l’ordine e la pace pubblica, quindi i singoli cittadini, in alcuni casi consentivano di rinunciare al diritto alla vita. 2. I giusnaturalisti si divisero, e alcuni dissero che un altro esempio di diritto soggettivo naturale era il diritto alla LIBERTÀ PERSONALE. Lo stato non poteva provare gli individui della propria libera personale, ma c’erano anche in questo ambito dei casi eccezionali, per cui lo Stato poteva provare della libertà. Ogni individuo nasceva con la libertà personale, ma se si commetteva un reato, limitando la libertà personale di altri (es. rapimento, riscatto, o la rottura di un braccio di una persona), in tal caso lo Stato può limitare la libertà personale del reo. (Esempio carcere). 3. C’erano altri giusnaturalisti che sostenevano che la PROPRIETÀ PRIVATA sia un diritto naturale soggettivo. Tutti avevano il diritto di diventare proprietari di qualche bene, ma nella realtà del 1600, i proprietari di beni immobili più importanti (privati cittadini, ricchi, grandi proprietari terrieri) erano pochissimi rispetto al numero della popolazione. Diritto alla proprietà astrattamente naturale, ma concretamente esercitato da pochi. Tra i diritti individuali, il fatto di essere proprietari di un bene era fondamentale. Per essere libero il cittadino, dovev essere anche un proprietario terriero. Se non siamo proprietari di un bene mobile non saremo mai veramente liberi, ma sempre alle dipendenze di qualcun altro. Alcuni giusnaturalisti pensavano che fosse necessario eliminare l’antica proprietà feudale e allodiale, creando grandi proprietà collettive. Un punto fondamentale era l’idea che esistesse un sistema del diritto naturale. Esisteva UN diritto, un insieme di regole giuridiche definite naturali, regole giuridiche che dovrebbero valere sempre e comunque, in ogni luogo ed epoca temporale (regola del non uccidere, sancita in tutti testi sacri di tutte le religioni, o regola del non rubare; regole fondamentali). Da secoli gli uomini avevano interessi meritevoli di tutela, quindi esistevano regole del diritto naturale. A seconda dello Stato, dell’epoca, della religione, e dei vari fattori, potevano esserci altre regole giuridiche diverse da quelle del diritto naturale. Ogni Stato ha creato il suo diritto specifico. Il diritto locale che ogni Stato crea è il cosiddetto sistema di diritto POSITIVO, il diritto che in modo concreto è applicato in un certo luogo. Diritto positivo- norme giuridiche in vigore in uno stato; diritto naturale- norme della natura dell’uomo universale Ci sarà quindi un sistema di diritto naturale, ma anche un sistema di diritto positivo, che cambia da Stato a Stato. Entrambi i sistemi contengono regole giuridiche, che prescrivono di fare o non fare qualcosa, che contengono sanzioni. IL PENSIERO DI UGO GROZIO Ugo Grozio, fondatore e iniziatore del pensiero giusnaturalistico moderno e della Scuola del diritto naturale, visse tra la fine del 1500 e l’inizio 1600 (scrisse gran parte delle sue opere nei primi decenni del 1600). Fu il fondatore del diritto internazionale, perché era un olandese che praticava una religione minoritaria, perseguitato dai suoi compatriotti. Era un giurista che scrisse diversi trattati dove parlò di diritto di guerra e di pace. Ma scrisse anche altri trattati riguardanti la libertà commerciale, di navigazione sui mari. Grozio elabora una teoria, la teoria del CONTRATTO SOCIALE. Nella preistoria non esisteva lo Stato come la intendiamo nel 1600 (Stato olandese, monarchia francese, sacro romano impero…), ma dice che nella lontana preistoria gli uomini erano pochissimi, vivevano in piccoli villaggi, generalmente in ambiti famigliari, e che secondo lui, vivevano uno stato di natura (in una condizione di vita naturale, s minuscola perché non c’era un re, un organo legislativo). Erano pochi individui, ma che avevano a disposizione risorse naturali immense, e grazie a questo fatto vivevano in modo pacifico , condividendo tutto insieme, non c’era bisogno di rubare agli altri. 1. HONESTUM, le regole dell’onestà: comprendono le azioni buone, così definibili perché poste in essere in conformità alle regole della saggezza e della virtù, regole seguendo le quali ogni individuo è in grado di giungere alla pace interiore (livello di pace massimo). Tali regole possono essere esemplificate dalla massima secondo cui “ciascuno deve essere internamente come vorrebbe che gli altri fossero internamente”. 2. DECORUM, le regole del decoro: riguarda i rapporti di reciproca benevolenza e correttezza verso gli altri, un bene di livello inferiore rispetto alla pace interiore, ma pur sempre importante, perché assicura l’armonia nei rapporti fra individui, in modo che ci sia reciproca bontà, pietà, amore, affetto, e amicizia. Queste regole si possono esemplificare nella massima secondo cui “ciascuno deve fare agli altri quello che vorrebbe gli altri facessero per lui”. 3. IUSTUM, le regole del giusto: sono regole previste dallo Stato. Assicurano il bene considerato “minimo” rispetto alla pace interiore degli uomini (honestum) e alla reciproca benevolenza (decorum): si tratta del bene della “pace esterna”, della non-conflittualità, della non-belligeranza fra uomini o fra gli Stati. Le regole dello iustum da seguire si possono esemplificare con la massima secondo “ciascuno non deve fare agli altri ciò che non desidera gli altri facciano a lui”, altrimenti si incorrerà in una sanzione. Thomasius fa questa tripartizione perché vuole trovare una spiegazione filosofica alla laicizzazione del diritto. Tutte le regole religiose e della morale, sono tutte nell’honestum e nel decorum. Le regole dello iustum le seguiamo perché sono imposte dallo Stato, e seguendo esse, si ottiene la pace. Il diritto riguarda le sole azioni “esterne” dell’uomo, quindi Thomasius arriva a concludere che le regole dell’honestum e del decorum non debbano rientrare nel diritto. Dunque, le regole dell’“onesto” e del “decoro” non sono che una sorta di consigli rivolti all’uomo da seguire nelle sue azioni: non possono essere fatte oggetto di obbligo giuridico, non ricomprendono regole coercitive, che prevedono sanzioni in caso di loro inosservanza; al contrario delle regole dello iustum, poiché le regole del “giusto” devono essere recepite dal diritto. La netta separazione tra morale e diritto si compie con questo pensiero di Thomasius. Questa tripartizione, a seconda che gli uomini seguano queste regole, otterranno anche un certo tipo di male”: se guardiamo alle cose negative prodotte, la graduatoria si rovescia, al primo posto verranno le regole giuridiche dello iustum, perché evitano il “male maggiore” che è la guerra; in posizione intermedia troviamo le regole del decorum, che evitano un “male intermedio” come la mancanza di reciproca benevolenza; mentre sul gradino più basso si collocano le norme dell’honestum, che tendono ad escludere un “male minimo” quale è la conflittualità interiore dell’uomo. Lo Stato deve garantire la pace esterna, così da evitare il male massimo. Ecco che, lo Stato dovrà produrre SOLO le regole dello iustum. Solo le azioni “esterne” sono oggetto di attenzione da parte del diritto e sono le uniche coercibili, che prevedono cioè l’irrogazione di sanzioni a carico dei loro trasgressori: di conseguenza, tutto ciò che riguarda la coscienza dell’individuo (ossia la morale e la religione) deve essere sottratto da interventi esterni di qualunque tipo. Si spiega così la sua battaglia a favore della laicizzazione del diritto e della depenalizzazione di condotte come la magia o l’eresia, che sono solo peccati Thomasius vuole la laicizzazione, la depenalizzazione di alcune condotte, ma ci arriva con questo ragionamento, che Hobbes non fa. LA FRANCIA: L’ESPERIENZA LEGISLATIVA DI UNO STATO ASSOLUTO LE ORDONNANCES DI COLBERT E LUIGI XIV La Francia era da sempre uno Stato monarchico assoluto, in cui, dal cinquecento si cercò riformare l’ordinamento giuridico medievale, dove operavano le 4 fonti di produzione del diritto in un mix di legislazione regia, consuetudini locali, diritto romano-comune, interpretazione dei giudici: per i re francesi era necessario esaltare il ruolo della legge statale, espressione della volontà del monarca assoluto, e arrivare così alla nascita di un diritto “nazionale” francese. Nel Seicento, c’è un sistema di pluralità delle fonti del diritto. In vista di ciò, Luigi XIV, il Re Sole, cercò di realizzare un ambizioso progetto di semplificazione del diritto francese. Il diritto positivo vigente in Francia era un sistema giuridico poco efficiente, che non consentiva ai sovrani di governare bene in modo autoritario il paese, e allo stesso tempo era un sistema giuridico non piaciuto dai cittadini, perché non si ottiene giustizia. Questa riforma del diritto, con produzione di fonti del diritto, è una RIFORMA del diritto positivo vigente in Francia, che non vuole eliminare tutto ciò che esiste e sostituirlo radicalmente con qualcosa di completamente nuovo, ma vuole, come ai tempi di Giustiniano, riformare l’esistente (contiene nuovo diritto, ma contiene anche regole del passato, già esistenti). Nuovo diritto, appoggiato su basi del passato. L’idea era di puntare sulle ORDONNANCES, che dovevano avere una applicazione universale (non del mondo intero, ma legislazione nuova che ha applicazione all’interno di tutta la Francia e a chiunque). Tra il 1667 e il 1671 Luigi XIV, affiancato dal ministro Jean Baptiste Colbert, emanò 4 ordonnances (ordinanze): l 1. l’Ordonnance civile 2. l’Ordonnance criminelle (criminale; diritto penale sostanziale e processo penale) 3. l’Ordonnance du commerce (commercio) 4. l’Ordonnance de la marine. (della marina) Due delle quattro ordinanze riguardano la procedura, rispettivamente civile e penale, una il commercio, l’altra la marina. Il grande assente è il diritto privato Queste ordinanze, contenevano una clausola abrogativa, piccola clausola, che diceva: la regola che sta al di fuori dell’ordinanza che riguarda lo stesso caso, ma che lo risolve in modo diverso, quindi che presenta un contrasto, automaticamente viene abrogata. Se c’è un contrasto, prevale l’ordinanza. Nel tempo vi erano vecchie leggi che si applicavano solo a determinati soggetti (solo ai comuni cittadini, ecclesiastici, ecc), ma questa situazione creò incertezza del diritto, difatti bisognava rimediare, così le nuove ordonnances si dovevano applicare allo stesso modo a TUTTI, senza distinzione sociale, religiosa, di ricchezza, genere sessuale, ecc… un’ applicazione universale e volontà di UNIFICARE il paese, attraverso la legge sovrana. Le regole contenute nelle ordinanze venivano applicate dai giudici alla lettera. Ma in casi di lacuna, norma poco chiara o contrasti, il giudice doveva chiedere al sovrano l’interpretazione autentica. Anche il tribunale francese doveva applicare il diritto alla lettera o chiedere l’interpretazione al sovrano. Il grande tribunale francese-> parlamento francese Ma è possibile, che al di fuori delle ordinanze, ci sono altre regole che possono essere NON contrastanti, in tal caso, rimangono in vigore. In caso di lacune, prima di chiedere l’interpretazione autentica, il giurista poteva applicare un’altra norma al di fuori dell’ordinanza. (non contrastante). L’ORDONNANCE CRIMINELLE; il sistema processuale penale INQUISITORIO. Come si disciplina il processo penale? La parte più complessa. (come stabiliamo quale pena applicare? come stabiliamo chi è il colpevole?). L’ordonnance criminelle fu il testo di riferimento per la regolamentazione del processo penale fino alla Rivoluzione francese. Il processo penale delineato da Luigi XIV ricalcava il modello processuale “inquisitorio” utilizzato per secoli in Francia, come nel resto dell’Europa (tranne Inghilterra, sistema common low), ed era caratterizzato da alcuni aspetti, come la segretezza, la forma scritta, assenza di un dibattimento fra accusa e difesa. Ci sono 3 modelli diversi per amministrare il processo penale; 1. modello inquisitorio 2. modello accusatorio (modello attuale) 3. modelli misti/ibridi (in parte inquisitori e in parte accusatori) Con l’espressione “inquisitorio”, si indica un modello di processo penale in cui: 1. la richiesta di iniziare il processo può essere presentata dalla vittima del reato o dai suoi familiari (che possono presentare una “QUERELA” come parte lesa dal reato), ma anche da un testimone che abbia assistito ai fatti criminosi (presentando una “DENUNCIA” di reato). Inoltre, i giudici possono decidere di procedere ex officio (D’UFFICIO) ogni volta che abbiano avuto la notizia di un reato (denuncia anonima, notizie riferite dalla polizia, ecc.). 2. il protagonista di questo modello inquisitorio è il “giudice istruttore”: è lui a svolgere “l’inquisizione”, cioè iniziare le indagini e a cercare le prove, qualsiasi tipo di prove, sia quelle contro l’imputato sia quelle a suo favore, perché all’accusato non è consentito di nominare un difensore di sua fiducia, cioè un avvocato che lo difenda. Inoltre, il giudice istruttore assumeva il ruolo di investigatore, di accusatore e di organo giudicante che emette la sentenza, ma non essendo imparziale al 100% era un problema di influenza per la sentenza. Il giudice istruttore fa tutto allo stesso tempo: svolge le indagini, cerca ogni prova, decide se l’imputato è colpevole o innocente. 3. Un ulteriore aspetto, era la segretezza. Per le parti delle indagini, il giudice svolgeva le sue indagini con massima segretezza: nel corso delle indagini il sospettato non sa quali siano le accuse mosse a suo carico, né conosce le prove di cui dispone il giudice. (chi ha presentato la querela, la denuncia, le prove suo favore o sfavore…). Solo nel momento in cui il giudice cita in giudizio l’indagato, gli viene svelato tutto. Fino a che non citiamo in giudizio l’indagato, non gli viene detto nulla. Essendo in segreto, il pubblico NON poteva partecipare al processo. 4. Un’ultima peculiarità (negativa) era la possibilità di utilizzare la tortura, utilizzata per ottenere un mezzo di prova: la confessione, la “regina” delle prove. L’ordonnances, dice che sarebbe meglio limitare l’utilizzo della violenza, ricorrendo quando possibile alle prove testimoniali. La possibilità della tortura era quindi un’eccezione, si poteva torturare: Ø Solo quando il giudice non sia riuscito a trovare prove sufficienti Ø Solo in presenza di indizi collegati al reato, che rendono sospetto il presunto colpevole di essere il colpevole Ø Solo in caso di reati gravi, come l’omicidio (non un semplice furto). La tortura si doveva maneggiare con cautela, perché nei casi in cui il soggetto torturato resistevano fisicamente e non confessavano (abituati alla sofferenza). Ma la tortura porta ad una confessione vera, o ad una confessione per far cessare la tortura? I giuristi del 1600, dicevano che se il giudice istruttore ha torturato e ottenuto una confessione, questa confessione va poi confermata (dopo quale ora deve essere ratificata), in caso di non conferma il giudice poteva ri-torturare, per un massimo di 3 volte. Molti di questi soggetti tendevano a ratificare ogni confessione sapendo della loro possibilità di ritortura. La tortura si applica, non solo all’indagato che non vuole ammettere la colpevolezza, ma poteva essere utilizzata anche contro i testimoni sempre e solo nei casi di eccezione elencati sopra) La legge richiede che le confessioni sotto tortura siano confermate in aula entro 24 ore dopo la cessazione della tortura: in assenza di tale conferma o in caso di ritrattazione, non si può condannare l’imputato sulla base di una sua confessione ottenuta con tortura. Nell’ipotesi poi di una sentenza di condanna, le pene irrogabili erano di vario tipo: si andava dalla pena di morte per decapitazione (riservata ai nobili) o impiccagione (per i non nobili, perché considerata maggiormente infamante), alla galera (ossia la condanna a remare sulle navi, le galee), al bando dallo Stato, al marchio a fuoco, all’esposizione alla berlina, alla prigione e alle pene pecuniarie. La pena di morte poteva essere ‘semplice’ o ‘aggravata’, qualora fosse stata eseguita con il ricorso a strazi inflitti al corpo del reo, come ad esempio lo strascinamento per le vie della città del corpo del condannato legato a un cavallo, o l’amputazione di vari organi, o il taglio di lembi di pelle mediante tenaglie roventi. storicamente esistente e vigente in una determinata società, per regolare le relazioni fra singoli individui oppure fra Stato e individui. L’affermazione che le leggi si fondano sulla “natura delle cose” significa, dunque, che occorre studiare la natura e i principi di governo, le caratteristiche fisiche del paese, concernenti il clima e la conformazione del territorio, i modi di vita degli abitanti, la loro religione e così via. Il complesso di questi dati e delle loro relazioni costituisce lo “spirito delle leggi”. A seconda del luogo in cui ci troviamo, e a seconda della dimensione temporale (epoca), le leggi variano, perché esistono tanti sistemi di diritto positivo, che variano da luogo a luogo, perché in ogni luogo ci sono esigenze diverse. Per Montesquieu, l’idea che sia esistito un unico diritto naturale valido per l’intera umanità è irrilevante. Questa è un’idea nuova, un’idea che va contro il Giusnaturalismo, che aveva elaborato l’idea di un diritto naturale unico per tutti i tempi e tutti i luoghi: qui invece si abbraccia in pieno l’idea di un diritto “relativo”, variabile nel tempo e nello spazio. La teoria delle forme di governo; La principale tra tali variabili che determinano il diritto positivo in ciascuna organizzazione statale è la forma di governo in essa vigente. Per Montesquieu tutti i governi storicamente esistiti e teoricamente possibili si possono ricondurre e possono essere classificati in tre forme fondamentali, distinti sulla base di alcuni aspetti, chi detiene il potere, che natura rivestono le leggi positive, quali diritti sono garantiti agli associati è il dispotismo: il potere è esercitato da una sola persona, cioè il dèspota; mancano leggi fisse, il che equivale a dire che non ci sono leggi vere e proprie, ma solo disposizioni che il dèspota fa e cambia a proprio arbitrio; ai sudditi non è garantito alcun diritto e alcuna libertà (in qualsiasi momento il dèspota può privare dei cittadini diritti e libertà). Nel dispotismo non c’è lo Stato di diritto, il dèspota può fare e disfare le leggi a suo piacimento e non rispettarle. Non vale neanche il principio di legalità, in qualsiasi momento può imporre l’applicazione retroattiva per leggi penali nuove. è La monarchia: il potere è esercitato sì da una sola persona , il sovrano, ma attraverso leggi fisse: ciò significa che i comandi emanati con la legge possono essere modificati o abrogati solo da una legge successiva. C’erano 2 forme di monarchia: la monarchia assoluta (la più diffusa) e la monarchia inglese di tipo liberale o costituzionale (gli inglesi avevano la loro costituzione, intesa come insieme di leggi e consuetudini, di gerarchia superiore alle leggi ordinarie). Ai sudditi erano garantite le libertà e diritti civili (diritto alla proprietà, diritto al movimento, di manifestare mentre quelle politiche (eleggere dei rappresentanti e farsi eleggere) sono garantite solo in alcune monarchie (come quella “costituzionale” inglese) e non in altre (come quella “assoluta” francese). La monarchia si fonda sul sentimento dell’onore e della fedeltà verso il sovrano e lo Stato, , proprie delle classi aristocratiche e militari, e la presenza di queste classi sociali (nobili, militari, borghesi, ecclesiastici…), i cosiddetti “corpi intermedi”, è necessaria anche se partecipando limitatamente al governo, agiscono comunque da freno al potere monarchico, che si trova così ad essere limitato evitando di tramutarsi in dispotismo. Le leggi che più si addicono alla monarchia devono quindi mantenere le distinzioni di rango e di censo (cioè di ricchezza). Per Montesquieu il modello monarchico presenta vantaggi, primo fra tutti un sostanziale immobilismo e conservatorismo, ed è preferibile alla forma repubblicana perché tutti gli affari del governo sono affidati ad una sola persona e vi è perciò maggior prontezza e rapidità nella loro esecuzione. è La repubblica: i cittadini, o almeno una parte di essi, partecipano attivamente all’amministrazione della cosa pubblica e godono pertanto di diritti politici. Anche le repubbliche erano di 2 tipologie : potevano essere democratiche o aristocratiche/oligarchiche, a seconda che tutti i cittadini o solo gli appartenenti ad una classe dominante godano ed esercitino tali diritti. 2 forme di repubblica: la forma democratica, in cui tutti i cittadini partecipano, oppure forma oligarchica o aristocratica, repubblica in cui a governare è un élite, una classe (es. solo nobili è repubblica aristocratica, se sono gli oligarchi abbiamo l’oligarchia). Su cosa si basa la forma di governo repubblicana? La repubblica funzionava finché i cittadini vivevano secondo sentimento di virtù e moderazione ( inteso come moderazione nel godimento della possibilità di partecipare alla gestione del potere). Nelle repubbliche, siano esse oligarchiche e democratiche, le leggi sono fisse e garantiscono l’eguaglianza sociale. Nelle repubbliche c’è lo Stato di diritto, vale il principio di legalità e tutti godono di diritti civili, mentre i diritti politici non tutti potevano goderne (es. rep demo- donne o uomini di un certo rango; rep olig- solo oligarchici). La libertà politica; teoria della separazione dei poteri. La grande maggioranza di forme di governo erano monarchiche. C’erano poche forme di governo despotico e poche forme di repubblica. (repubblica oligarchica veneziana; i cantoni svizzeri). Ma perché le repubbliche funzionano poco? La repubblica era una forma di governo che riusciva a funzionare in piccoli territori geografici e abitati da pochi abitanti. Se infatti, i grandi Stati adottassero la repubblica funzionerebbero poco, difatti si adottava la forma monarchica. Ma è meglio la monarchia assoluta o la monarchia costituzionale o liberale? Montesquieu, afferma che la monarchia inglese era più efficiente, perché in essa si aveva libertà politica. Cos’è la libertà politica? Per “libertà politica”, Montesquieu, non intende la libertà di fare tutto ciò che si vuole, ma intende la libertà di fare tutto quello che le leggi permettono, ossia tutto ciò che le leggi non vietano, e di farlo senza paura. La libertà di cui parla Montesquieu è quindi la libertà di poter godere della propria vita e della proprietà, senza paura di essere turbati in seguito dello Stato. Ma affinché tale libertà politica si realizzi era necessaria un’organizzazione che impedisca gli abusi di potere, in cui ogni potere sia limitato da un altro potere, una struttura costituzionale che Montesquieu riteneva già esistente e che si trovava in Inghilterra. (costituzione in cui il “potere arresta il potere”). Era quindi necessario individuare quali e quanti siano i poteri, e per Montesquieu sono tre: il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Affinché sia possibile la coesistenza armonica tra la libertà del cittadino e l’autorità dello Stato è indispensabile che i tre poteri siano esercitati da organi separati. Montesquieu sosteneva quindi la divisione dei poteri, che è alla base del pensiero costituzionalista moderno. La divisione dei poteri non solo rappresentava una semplice forma di divisione di compiti tra organi diversi, ma era l’individuazione di competenze esclusive ben chiare e delimitate, il cui esercizio da parte di questi soggetti diversi rappresentava una garanzia per la libertà dei cittadini. (Questa ideologia di Montesquieu fornirà ai rivoluzionari una potente arma ideologica contro i programmi assolutistici di accentramento del potere e sarà largamente accolta non solo nel periodo rivoluzionario ma anche negli ordinamenti contemporanei costituzionali). Il POTERE LEGISLATIVO. Titolare del potere legislativo è il popolo o quella parte di esso che gode di diritti politici. Il parlamento inglese era formato da 2 camere: la camera dei comuni (rappresentanti del popolo, eletti col sistema censitario) e camera dei Lordes (rappresentanti dell’aristocrazia, scelti dagli aristocratici o dal re), 2 camere distinte e non bicamerali perfette. se i rappresentanti di tutti i ceti si riunissero in una camera unica, quelli meno numerosi, cioè l’aristocrazia e il clero, si troverebbero costantemente in minoranza nelle votazioni e vedrebbero lesi i loro interessi venendo sempre posti in secondo piano, ed in tal caso questa minoranza poteva essere indotta a porre in essere rivoluzioni o violenze. Il compito del potere legislativo doveva essere non solo quello di fare le leggi, ma anche di controllare la loro esecuzione, senza giudicare la persona di chi esegue. IL POTERE ESECUTIVO Il potere esecutivo era il potere di governare il paese (es se fare la guerra, la pace, come organizzare il sistema sanitario, ecc…). Era esercitato dal sovrano, attraverso i suoi ministri: il governo, scelto e nominato dal re. Doveva essere esercitato da un gruppo ristretto di persone (il re e i suoi ministri), perché l’azione esecutiva doveva essere rapida, e non come il potere legislativo. Rapidità-quanto più grandi sono i collegi di governo, tanto più lenta diventa la sua azione. IL POTERE GIUDIZIARIO Il potere giudiziario non doveva essere esercitato da professionisti del diritto, cioè da magistrati di professione, né tanto meno da un organo giudiziale permanente; esso deve essere affidato a un organo composto da 12 persone tratte dal popolo, o meglio da persone appartenenti alla stessa classe sociale della persona sottoposta al giudizio, per il principio che ciascuno ha diritto di essere giudicato da un suo pari. Tale organo avrebbe poi il compito di giudicare solo in un processo, per poi sciogliersi una volta emesso il verdetto. In tal modo il potere giudiziario diventerebbe ‘invisibile e nullo’: ogni individuo sarebbe chiamato a temere non i singoli magistrati ma i tribunali nel loro complesso. Dunque, la funzione di “giudice” deve avere i caratteri di temporaneità e di non professionalità: così da garantire imparzialità e libertà all’individuo. Peraltro, se a rivestire il ruolo e la funzioni di giudici erano semplici cittadini estratti a sorte tra il popolo, le norme positive dovevano essere semplici, chiare e inequivocabili, così che chiunque fosse stato chiamato a giudicare sarebbe stato in grado di comprenderle ed applicarle. Ci doveva essere certezza del diritto. Per poter essere selezionati come giurati bisognava avere un certo censo. (non tutti, perché per esempio gli analfabeti non avrebbero potuto svolgere questo incarico non sapendo né leggere né scrivere). Quindi, teoricamente tutti i cittadini potevano farne parte, ma concretamente no, solo alcuni esponenti del popolo. Ne consegue una rigida sottomissione del giudice alla legge, di cui deve fornire solo un’interpretazione letterale. (Ogni interpretazione che non fosse stata letterale genererebbe arbitrio da parte del giudice). La definizione di Montesquieu di un giudice era che fosse la “bocca della legge”. CESARE BECCARIA: Dei delitti e delle pene 1764; Cesare Beccaria scrisse un’opera intitolata Dei delitti e delle pene, un’opera fondamentale perché ha cambiato le sorti del diritto penale; Le idee sviluppate da Beccaria all’interno dell’opera sono: ® l’idea di una laicizzazione del diritto penale, separazione tra reato e peccato; ® la ricerca dello scopo e della funzione del diritto di punire (della pena; prevenzione e/o repressione); ® l’interrogativo sull’utilità della pena di morte; ® la tutela dei diritti dell’imputato, da reputarsi innocente fino a prova contraria; ® l’interrogativo su quale dovrebbe essere il ruolo del magistrato nel processo, e se sia quindi ammissibile e fino a che punto l’interpretazione della legge; ® l’opportunità di ricorrere alla tortura. Perché lo stato era legittimato a produrre diritto penale? Nell’uscire dallo stato di natura, gli uomini diedero origine allo Stato moderno attraverso la stipula del contratto sociale, con cui gli uomini rinunciarono ad una quantità minima dei loro diritti naturali (non quasi tutti come dice Hobbes, ma quella parte necessaria per far nascere lo Stato). Lo Stato quindi, trovò la legittimazione di produrre diritto penale, quindi il diritto di punire chi commette reati, attraverso il contratto sociale. (idea ripresa dal giusnaturalismo) Per Beccaria, nel contratto sociale, gli uomini non hanno rinunciato al diritto alla vita, ecco perché lo Stato non ci può condannare a morte. L’illuminista milanese sosteneva la LAICIZZAZIONE del diritto penale, cioè la separazione tra morale/peccato e diritto: solo la legge posta dallo Stato può stabilire quali siano i comportamenti vietati e le relative pene. È un reato solo quella condotta che trasgredisce un divieto prescritto dal legislatore, il quale ha anche il compito di determinarne la relativa pena. La LEGGE che indicava quali condotte siano un reato e come debbano essere punite (con quali pene) doveva essere chiara e precisa, pubblicata in un testo scritto e conoscibile a tutti, ed infine uguale per tutti. Beccaria propone di creare un corpo di leggi stabile e sistematico, ossia un codice fisso di leggi perché serviva un sistema di leggi penali, chiaro, semplice, preciso e facilmente leggibile da chiunque, così che il cittadino in caso volesse commettere una determinata azione, avrebbe saputo che fosse è All’art. 16 si enuncia che la Costituzione da emanarsi in futuro, dovrà garantire i diritti attraverso la separazione dei poteri. Si avverte qui l’influenza del pensiero di Montesquieu, secondo il quale i tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) non devono essere concentrati in un solo organo ma fare capo a più organi diversi, perché possano così bilanciarsi e controllarsi reciprocamente. La Francia diventa una monarchia, non più assoluta, ma che troverà applicazione con la separazione dei poteri. potere esecutivo (il re coi suoi ministri) e i tribunali che amministreranno la giustizia con il potere giudiziario e il potere legislativo la Nazione Come fa il popolo ad esercitare il potere legislativo? Come in Inghilterra, c’era la presenza di un organo legislativo di tipo rappresentativo, l’assemblea nazionale costituente. Questi organi rappresentativi producevano il diritto. Come si scelgono i rappresentanti della nazione? Chi sono? Venivano eletti come in Inghilterra. Non tutta la nazione effettivamente e concretamente esercitava il potere legislativo (incoerenza col fatto che la sovranità doveva essere esercitata da tutto il popolo), ma solo chi aveva una certa ricchezza, un certo censo (i ricchi). Concetto di popolo ristretto ®solo i ricchi uomini sono effettivamente in grado di gestire il potere legislativo. Partendo da questa dichiarazione, i rivoluzionari costruiranno il nuovo edificio giuridico della rivoluzione francese: tutti i provvedimenti legislativi emanati dal 1789 e fino al 1799, producono un insieme di leggi che formano il cosiddetto diritto intermedio. IL DROIT INTERMEDIAIRE (l’età del diritto intermedio 1789-1799) A partire dal 1789, la Francia aveva bisogno di un diritto nuovo, raccolto in un codice civile, che regolasse in modo efficiente e completo, tutte le norme di diritto civile, escludendo l’intervento di fonti esterne al codice stesso. Ma questa attività richiedeva procedimenti lunghi, a causa della grandezza della materia, di conseguenza, nel periodo tra il 1789 e il 1799 (avvento al potere di Napoleone), il cosiddetto periodo intermedio, i francesi rivoluzionari presero in considerazione le singole branche del diritto privato e produssero tante singole leggi che riguardavano tanti singoli aspetti del diritto civile. In materia di DIRITTO FAMILIARE; I registri di stato civile che dovevano indicare la nascita, la morte, il matrimonio e gli altri dati civili dell’individuo, dovevano essere tenuti dai Comuni, e non più dai parroci. Il matrimonio doveva essere definito come un contratto civile da celebrarsi davanti a dei pubblici ufficiali come il sindaco o un suo delegato, e non più davanti a un ministro di culto, perché il matrimonio religioso non avrebbe prodotto effetti per lo Stato, con la conseguenza che i due sposi non sarebbero risultati marito e moglie, mentre i loro figli sarebbero stati illegittimi. Era necessario, quindi, sposarsi civilmente, così che il vincolo coniugale esistesse e fosse riconosciuto dallo Stato. Il diritto rivoluzionario è un diritto laico, separazione tra diritto dello Stato e la religione. Il matrimonio religioso non scompariva, ma non produceva effetti, rimaneva solo una questione religiosa. Il matrimonio, essendo un contratto, come tutti i contratti poteva essere sciolto. Fino al 1789 era un vincolo indissolubile, veniva meno solo in caso di morte di uno dei due, e per rimediare, si usava la separazione di letto e di mensa, che consentiva ai coniugi di vivere separatamente senza sciogliere il vincolo. Lo strumento introdotto dai rivoluzionari per sc iogliere il vincolo matrimoniale fu il divorzio, Il divorzio era di due tipi: è Divorzio per “mutuo consenso”® c’era il consenso dei due coniugi, la reciproca incompatibilità di umore e di carattere. è Divorzio “non consensuale” per 7 cause® 1. Demenza (quando ci si sposa con un* apparentemente sano di mente, ma concretamente infermo); 2. condanna a pena afflittiva o infamante (uno dei due viene condannato da una pena afflittiva, es. ergastolo, o pena infamante, ergastolo con lavori forzati; entrambe pene dure previste per reati più gravi); 3. crimini, sevizie, ingiurie gravi contro l’altro coniuge (crimine arrecato all’altro; gravi violenze fisiche contro l’altro; offese verbali contro l’altro); 4. notoria sregolatezza di costumi (es. marito sempre ubriaco); 5. abbandono del domicilio (uno dei coniugi andava va a vivere da un’altra parte); 6. assenza e mancanza di notizie per almeno 5 anni (uno dei due sparisce e non da notizie); 7. emigrazione politica (un coniuge esce dalla Francia e va all’estero, diventando nemico della rivoluzione) Fra queste cause di divorzio mancava l’adulterio (tradimento di un coniuge), che oggi è considerata LA causa, ma i giudici sostenevano che con l’atto di adulterio veniva rotto il vincolo matrimoniale, quindi la si fece rientrare in una delle altre cause, ad esempio, la notoria sregolatezza di costumi oppure le ingiurie gravi. Fu poi abolita la disciplina della patria potestà sui figli, che nell’antico regime era perpetuo, anche per i maggiorenni (21 per le femmine e 25 per i maschi). Fino all’antico regime, il pater familias poteva fare ricorso alla forza, ma per i rivoluzionari non era ammissibile, difatti la patria potestà, doveva essere solo il potere di mantenere, istruire ed educare i figli. In caso di ribellione dei figli, il padre poteva solo denunciare alle autorità, senza utilizzare la violenza fisica. Nell’antico regime le donne sposate erano sottoposte alla potestà maritale, il potere dell’uomo di famiglia sulla moglie. Non venne abolito questo potere di potestà. La potestà maritale era una sorta di “autorizzazione maritale”, la donna sposata non poteva compiere validi atti giuridici da sola, perché non aveva la piena capacità di agire, mentre le donne non sposate erano autonome (differenze col mundio). Libertà politiche, ma non a tutti. In materia di DIRITTO SUCCESSORIO; fino all’antico regime, la successione ereditaria poteva essere sia testamentaria che legittima, ma con l’arrivo de rivoluzionari si eliminò la possibilità di diseredare i figli e pure quella fare testamento, era ammessa solo la successione legittima, cioè quella in cui era la legge a indicare gli eredi legittimi e le porzioni di beni che potevano ereditare (la cosiddetta “quota di legittima”). Era ammessa solo la successione legittima, perché il padre di famiglia usava il testamento come un’arma nei confronti dei membri della sua famiglia (poteva decidere di lasciare i soldi a chiunque, poteva diseredarli lasciandoli senza eredità). Con la successione legittima sia i figli maschi e femmine legittimi sia i figli illegittimi, erano posti sullo stesso piano, senza distinzioni come nell’antico regime. In materia di PROPRIETA’; I rivoluzionari cercarono di creare un nuovo ceto di piccoli proprietari terrieri, abolendo la proprietà feudale e stabilendo un’unica proprietà che consisteva nella presenza di un unico individuo che gode e dispone del bene, la proprietà allodiale romana. I veri proprietari dei beni feudali dovevano essere coloro che li utilizzavano direttamente (i cosiddetti utilisti del diritto feudale) e non più i signori e grandi proprietari terrieri dell’aristocrazia. Anche molti beni degli enti ecclesiastici furono confiscati e ridistribuiti fra il popolo. Un’altra riforma importante fu realizzata con il Decreto sull’ordinamento giudiziario del 1970, che istituì il TRIBUNALE DI CASSAZIONE, che aveva il compito di controllare che i giudici applicassero correttamente il diritto nel dirigere i processi e nell’emettere le loro sentenze. La Cassazione non era un terzo grado di giudizio in cui si riesaminavano le accuse, ma era solo un terzo grado di controllo, dove si discuteva, si riesaminava il diritto e non il fatto. La Cassazione operava d’ufficio ogni volta che vi fosse stato il sospetto che fosse stato commesso: a) un errore in procedendo, cioè nell’applicare le norme processuali che regolavano lo svolgimento delle diverse fasi del giudizio b) un errore in iudicando, cioè nell’emettere la sentenza La Corte, una volta trovato l’errore, dichiarava il provvedimento “cassato”, cioè si annullava la sentenza emessa in precedenza, con efficacia retroattiva, e rinviava la decisione ad un giudice di pari grado, ma diverso da quello che aveva emanato il provvedimento. Il decreto prevedeva l’introduzione di un altro istituto, quello delle réferé législatif (REFERAGGIO LEGISLATIVO), che serviva a vietare che il giudice svolgesse un’interpretazione della legge diversa da quella letterale. Questo istituto prevedeva che il giudice: in caso di dubbi, quindi davanti ad una legge poco chiara e incerta, in caso di lacuna del diritto, ed in caso in cui si fosse trovato a risolvere una controversia*che era già stata oggetto di due diverse sentenze entrambe cassate in passato era obbligato a fare ricorso al legislatore, quindi chiedere l’interpretazione autentica della Nazione (che ha il potere legislativo). *Il Tribunale di Cassazione, cassa e rinvia una sentenza, il nuovo tribunale emette una nuova sentenza, ma che di nuovo viene annullata dalla cassazione. In questo modo si hanno 2 sentenze cassate, quindi per evitare di continuare allo stesso modo, il decreto dice che quando si siano già state annullate 2 volte le sentenze, deve intervenire il legislatore. Il réferé fu però criticato, perché alcuni pensavano che violasse 2 principi fondamentali della dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini, il principio della separazione dei poteri (imponendo al potere giudiziario di arrestarsi e di attendere il responso del potere legislativo) sia il principio di irretroattività della norma (perché la soluzione del legislatore avrebbe avuto efficacia retroattiva, risolvendo un caso sorto prima dell’emanazione della nuova legge). IL CODICE CIVILE NAPOLEONICO Con il colpo di Stato del 18 agosto 1804 Napoleone Bonaparte si proclamò Imperatore della Francia. I sostenitori del colpo di Stato videro in lui uno strumento per porre fine alla Rivoluzione. Bonaparte diventò un dittatore, cinico e despota senza scrupoli. La trasformazione della Francia da Repubblica ad uno Stato monarchico segnò un e drastico ridimensionamento degli ideali rivoluzionari, ma non comportò il totale abbandono delle conquiste giuridiche del 1789, ormai penetrate nella nazione. Tuttavia, quei valori andavano riletti e reinterpretati alla luce del nuovo clima monarchico, che mirava sì a riconoscere all’indi viduo ampi spazi di libertà, ma entro limiti di conservazione del potere politico e dell’ordine pubblico Per quanto riguarda il diritto, e in particolare il diritto privato, già qualche anno prima, nel 1800, una commissione di giuristi era stata incaricata di redigere un progetto di codice civile. La commissione era formata da 4 magistrati: François Tronchet, Jeanne Etienne Marie Portalis, Bigot de Préameneu, e Jacques Maleville (erano tutti professionisti della giustizia durante l’Antico Regime e tutti avevano aderito alla Rivoluzione del 1789; in quanto rivoluzionari moderati, ritenevano essenziale il ripristino della sicurezza e dell’ordine). Il principale autore del Code civil fu PORTALIS, perché a lui si deve la volontà di conciliare le conquiste civili, sociali e giuridiche della Rivoluzione con il diritto dell’età pre-rivoluzionaria (pensiero settecentesco di matrice giusnaturalistica e illuministica). Portalis condanna allo stesso modo i difensori dell’ancien régime iniquo e i fautori della rivoluzione, violenta e improduttiva, respinge le posizioni estremistiche e radicali dei rivoluzionari e afferma che quegli stessi principi possono essere realizzati in modo saggio e moderato. Egli sostiene la necessità di conciliare la Tradizione e Rivoluzione opportuno conservare tutto ciò che non è necessario distruggere, a differenza dei rivoluzionari della prima ora, si è reso conto che non era necessario distruggere totalmente il passato. (usiamo parte del passato per costruire il nuovo edificio). La rivoluzione non deve essere estrema. Il Progetto del nuovo codice civile fu presentato con un DISCORSO PRELIMINARE elaborato da Portalis, da cui emergono i caratteri principali del codice e l’ideologia di creare un dialogo tra vecchio e nuovo. Portalis descrive la situazione del diritto nella Francia prerivoluzionaria come un incredibile caos, un ammasso di leggi, contraddittorie e confuse, una situazione che portò i rivoluzionari a creare una nuova legislazione uniforme e generale. Questa fu una delle più grandi conquiste della Rivoluzione: l’aver creduto e l’aver indicato quale unico cammino percorribile la via dell’uniformità e della certezza del diritto. Il nuovo diritto però non poteva basarsi solo sulle teorie dei filosofi, ma doveva tener conto dell’esperienza del passato, per questo, la commissione ha voluto fondere fra loro il diritto romano, il diritto consuetudinario francese e quello rivoluzionario, sfruttando anche i principi del Giusnaturalismo e dell’Illuminismo. Il motto di Portalis è proprio quello di recuperare la tradizione e inserirla dentro il “nuovo” che i bisogni della società propongono. Portalis intendeva dare alla Francia un codice civile che si basi sui seguenti obiettivi: 1. uniformare la legislazione civile in modo che valga ovunque e per tutti allo stesso modo; 2. creare un sistema semplificato del diritto privato, in grado di rispondere alle esigenze di una società complessa come quella francese; 3. consentire ai giudici di interpretare il diritto contenuto nel codice, perché secondo Portalis, la legge non poteva prevedere tutti i casi che si potevano verificare nella realtà e perché il codice, considerato diritto vigente in un dato luogo e momento, doveva costantemente evolvere e adeguarsi alle necessità dei cittadini (per questo era necessario poter interpretare le disposizioni di legge e intervenire sulle lacune del diritto o nei casi di norme poco chiare, anche facendo ricorso a fonti del diritto “esterne” al codice stesso. (Diritto naturale) Il nuovo codice, denominato CODICE CIVILE dei francesi, entrò in vigore il 21 marzo del 1804. Il Codice era composto da 2281 articoli, si articolava in un Titolo Preliminare (in cui troviamo le disposizioni generali sulla legge, sorta di premessa) seguito da 3 Libri: 1. Il Libro Primo sulle persone (conteneva la disciplina dello stato civile, del matrimonio, del divorzio, della paternità, dell’adozione, della patria potestà e della tutela);
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