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RIASSUNTO "MANUALE DI DIRITTO PENALE: PARTE GENERALE, GROSSO, PELISSERO, PETRINI e PISA”, Sintesi del corso di Diritto Penale

riassunto completamente sostitutivo del testo “MANUALE DI DIRITTO PENALE: PARTE GENERALE - GROSSO, PELISSERO, PETRINI e PISA”

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 18/12/2021

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Scarica RIASSUNTO "MANUALE DI DIRITTO PENALE: PARTE GENERALE, GROSSO, PELISSERO, PETRINI e PISA” e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! Manuale di diritto penale Parte generale MANUALE DI DIRITTO PENALE Parte generale Capitolo I DIRITTO PENALE, REATO, PENA 1. Il diritto penale e egli altri settori dell'ordinamento giuridico. Il diritto penale disciplina i fatti che sono reato e le relative sanzioni. Si distingue dal diritto civile e da quello amministrativo, ma anch'essi prevedono illeciti. Il reato è punito con sanzioni consistenti in pene e misure di sicurezza. L'accertamento della sua commissione e l'inflazione della sanzione sono affidati ai giudici penali imparziali ed indipendenti. L'illecito civile è sanzionato con sanzioni di risarcimento del danno e delle restituzioni. L' illecito amministrativo viene punito con sanzioni amministrative applicate dalla stessa P.A. Per quanti riguarda la tipologia, il reato si distingue dall'illecito civile in quanto è caratterizzato dalla specifica tipizzazione di ciascun illecito. L'illecito civile si presenta come mero illecito di lesione, caratterizzato dall'atipicità e dalla generalizzazione della sua formulazione. Meno marcate sono le differenze tra l'illecito penale e l'amministrativo. Il diritto amministrativo presenta molti illeciti, ognuno punito con sanzioni che consistono in pagamenti, prescrizioni, divieti, obblighi di prestazioni, simili nel loro contenuto a quelli previsti in sede penale sotto il profilo di alcune pene principali o pene accessorie. Dato che anche queste incidono sulla libertà e sul patrimonio, il legislatore con la Ig. n. 689/1981 ha assicurato delle garanzie ricavate dalle norme previste in materia penale. Ciò ha attenuato le differenze di trattamento previste per i due tipi di illeciti. 2.La funzione del diritto penale: la tutela dei beni giuridici. La funzione del diritto penale è la tutela degli interessi umani. Si tratta di una concezione utilitaristica che ha caratterizzato per anni lo scopo del diritto penale. Elaborata tra 700 e 800 è stata arricchita dalla convinzione secondo cui il diritto penale dovrebbe comunque essere interpretato come extrema ratio di protezione giuridica. 3. La nozione di reato: criteri formali e sostanziali di definizione. Dal punto di vista formale il reato è un fatto vietato dalla legge penale la cui commissione comporta l'applicazione di una sanzione penale. Questa definizione è formale, perché non fa riferimento alla natura dei fatti assunti ad oggetto della disciplina penale, ma al modo con il quale l'ordinamento reagisce alla loro realizzazione. Poiché le pene nel codice sono elencate in una prospettiva formale non è difficile distinguere i reati dagli illeciti degl'altri settori. 4. La sanzione penale: criteri di identificazione e le funzioni della pena. Il codice vigente prevede 2 specie di sanzioni penali: le pene e le misure di sicurezza, le prime destinate ad assicurare la prevenzione generale, le seconde per recuperare gli autori di Manuale di diritto penale Parte generale reato, socialmente pericolosi attraverso la rimozione delle cause della loro pericolosità. Questo è il c.d. sistema del doppio binario. Entrambe le sanzioni sono contenute nella parte generale del codice penale, bisogna precisare che entrambe vengono applicate dal giudice penale nel quadro del processo che ha le caratteristiche garantiste del processo penale. Le pene, individuate dal legislatore fra un minimo ed un massimo in base alla gravità del reato, vengono determinate in concreto dal giudice in sede di giudizio; le misure di sicurezza, indeterminate nella durata in quanto sono destinate a protrarsi fino a quando perduri la pericolosità sociale del soggetto, vengono inflitte dal giudice di cognizione, ma la loro esecuzione viene seguita dal giudice diverso al quale competete ogni valutazione in ordine alla cessazione dei presupposti della loro applicazione. Per quanto riguarda la funzione della pena, in dottrina ci sono diverse interpretazioni: pena intesa come retribuzione morale, come retribuzione giuridica, come emenda, come intimidazione... In coerenza con la funzione del diritto penale, si è affermato che la funzione essenziale della pena deve essere individuata nelle prevenzione generale. La costituzione ha stabilito che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art.27 comma 3 Cost.). Così la funzione rieducativa è entrata anche in materia di pena. Tale principio costituzionale è di fondamentale importanza, ha determinato profondi mutamenti portando alla modifica della disciplina della pena detentiva. Nonostante tale principio, non viene comunque assegnata alla pena la funzione specificatamente rieducativa. L'avere assegnato anche alle pene una funzione rieducativa dovrebbe convincere a superare la dicotomia fra pene e misure di sicurezza, con l'abrogazione di queste ultime e l'uso di pene specifiche per favorire la rieducazione. Capitolo II EVOLUZIONE STORICA DEL DIRITTO PENALE 1.Illuminismo e diritto penale. Il diritto penale moderno nasce con l'illuminismo, nella seconda del 700. In questo periodo sono stata enunciate molte regole che sono diventate principi cardine di oggi, nelle legislazioni di oggi. & Manuale di diritto penale Parte generale È questo l'indirizzo, detto tecnico-giuridico, il solo possibile in una scienza giuridica e di carattere penale. Compito del giurista deve essere quello d'interpretare le leggi e costituire dogmaticamente gli istituti. In questi concetti è sintetizzata la nuova impostazione metodologica, la scienza giuridica e politica criminale diventano mondi separati: la prima si deve occupare solo della realtà normativa, la seconda è esclusiva dei politici e sociologi. Si realizza così una distinzione tra studio del diritto e approfondimento della politica criminale. 5. La politica criminale durante il fascismo Il ministro Alfredo Rocco (fratello del penalista Arturo Rocco) e la commissione che ha redatto il nuovo codice penale (1925-30) hanno cercato di mettere in luce i tratti di continuità e di discontinuità della nuova legislazione rispetto alla codificazione liberale del 1889. Per la riforma del codice era necessario integrare e completare le norme del codice del 1889. La riforma consiste nell'applicazione di più provvidi principi di politica legislativa penale, in nuovi istituti, perfezionamenti tecnici. Secondo il guardasigilli il codice fascista sarebbe stata caratterizzato da dei punti di continuità con quello precedente. Comunque il dibattito su tale codice ha visto affermarsi, nel dopoguerra, posizioni diverse. C'è stato chi ha sostenuto che esso sarebbe stato segnato dal nuovo concetto di stato e dei rapporti fra le autorità. C'è stato chi ha affermato invece che il codice non appare interamente permeato dall'ideologia del regime. A parte tutto, un dato è incontrovertibile che, se pure nel codice Rocco vengono riprodotti istituti e principi fondamentali di garanzie proprie del pensiero liberale e se pure buona parte della struttura della parte speciale riflette la precedente sistemazione dei reati, numerose sono state le rotture rispetto alle regole garantistiche dei sistemi liberali. Per quanto riguarda i principi della parte generale è evidente l'inversione della tendenza nei confronti del principio di colpevolezza, attraverso la previsione di numerose ipotesi di responsabilità oggettiva. In materia di forme di manifestazione del reato, le formulazioni garantistiche del tentativo e del concorso di persone nel reato hanno ceduto il passo a norme che si prestano all'applicazione molto più discrezionali. La nuova impostazione ha svalutato il concetto di bene giuridico, caposaldo dell'impostazione giuridico-liberale. Significativa è stata la nuova configurazione delle pene. È stata ripristinata la pena di morte, ampliato l'utilizzo dell'ergastolo e tutte le altre sanzioni sono state inasprite. Il profilo di novità è stato l'affiancamento delle misure di sicurezza alle pene: indeterminate, che si applicano a chi ha commesso un reato e finalizzate alla difesa sociale ed al recupero sociale. In tal modo parte del bagaglio culturale della scuola positiva è entrato nel codice. Così abbiamo da un lato le pene inasprite e dall'altro le misure di sicurezza alle pene, in tal modo si è venuto a creare una nuova opzione denominata sistema di doppio binario. 6. La caduta del fascismo e i tentativi di riforma. Caduto il fascismo, sarebbe stato opportuno trovare una soluzione al codice Rocco, infatti nel gennaio del 1945 il guardasigilli Tupini insediò una Commissione di riforma del codice penale. La commissione non arrivò ad alcun risultato. La riforma fu ostacolata ad alcuni dei componenti delle commissione, i quali ritenevano che il codice poteva essere mantenuto trattandosi di un codice tecnicamente impeccabile. & Manuale di diritto penale Parte generale Eletta nel 1946 l'assemblea costituente, si pensò che, sarebbe stato opportuno procrastinare le riforme dei codici, per poterli adeguare ai nuovi principi sui quali sarebbe stato fondato lo stato. Approvata la costituzione nel 1948, per diversi anni si sono susseguiti eventi che bloccarono ogni processo di riforma del sistema penale; fino a che, negli anni 60, il mutamento della situazione politica interna favorì una faticosa opera di riforme settoriali. 7. L'impatto dei principi costituzionali sul sistema penale. L'influenza della costituzione sul sistema penale è su due piani. Da un lato su quello delle norme che prevedono principi di garanzia ed enunciando regole in materia di responsabilità e di sanzioni penali, dall'altro su quello dell'enunciazione dei diritti di libertà, pensiero, sociali..., alla luce dei quali molte norme del codice Rocco sono risultate illegittime e progressivamente annullate o modificate dalla Corte Costituzionale. Visto ciò, vediamo quali sono state le principali tendenze affermatasi, nella dottrina giuridica, all'inizio degli anni 70. Prima tendenza, mutò il modo di vedere il ruolo del giurista. AI metodo tecnico-giuridico, dominante, si affiancò la concezione di alcuni giuristi di doversi riappropriare del ruolo di politici del diritto. Ciò sfociò in una analisi critica dei contenuti della legislazione vigente e consenti di affiancare la prospettiva della politica criminale a quella della dogmatica giuridica e dell'esegesi. Sul piano pratico, una schiera di giovani magistrati ha iniziato un opera di adeguamento interpretativo della legge penale ordinaria ai dettami costituzionali. Seconda tendenza, nella costruzione della teoria del reato e nel dibattito di politica criminale si sono affermate nuove linee di tendenza. Da un lato si è tornati a concepire la funzione di diritto penale sul terreno della tutela degli interessi ed a rivalutare il concetto di bene giuridico sia come criterio dogmatico di classificazione dei reati, sia come strumento di politica criminale. Dall'altro lato si sono assunti i valori costituzionali come punto di riferimento per la costituzione di un nuovo sistema di reati. Un cenno merita il tema del sistema sanzionatorio. La costituzione, stabilendo che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ha posto le premesse per la trasformazione della disciplina della sanzione penale. Su questo terreno si è sviluppata un intensa azione dottrinale, alla quale ha fatto riscontro una attività di riforma legislativa che ha finito per rendere incerta la previsione della pena che sarebbe stata irrogata, co danni sul terreno della sanzione penale e sulla sua efficacia preventivo generale del sistema penale. 8. L'evoluzione del diritto penale in epoca repubblicana: l'efficacia del diritto vivente, riforme effettuate e riforme mancate. Dal dopoguerra ad oggi la riforma del codice penale non è mai stata realizzata. Il testo originario del 1930 ha subito abrogazioni e modificazioni di norme ed istituti, tali e tante da renderlo in larga misura irriconoscibile e rispettoso dei principi costituzionali. Già prima del 1945 il legislatore era intervenuto per modificare alcuni tratti del codice Rocco. Dopo il 1948, il primo intervento riformatore importante si ebbe con la legge 4/marzo/1958 n.127 che ha modificato la disciplina della responsabilità penale per i reati commessi col mezzo della stampa, eliminando la responsabilità oggettiva prevista nel codice Rocco. Con la legge n. 191 del 24/3/1962 e la n.1634 del 25/11/1962 sono stati modificati gl' istituti della sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale in una prospettiva di maggior apertura verso la funzione preventivo-speciale. & Manuale di diritto penale Parte generale Con due leggi, una degl'anni 60 e l'altra anni 70, e poi con la legge n.689/1981 e la legge-delega n. 205/1999 il legislatore ha affrontato il tera delle depenalizzazione dei reati bagatellari. Secondo la dottrina, tali leggi sono lontane dall'aver raggiunto l'obiettivo di uno sfoltimento significativo dei reati che appesantiscono il sistema penale. Il primo intervento di riforma della parte generale, di una certa importanza si è avuto con il d.l. n. 99 del 11/04/74 convertito nella legge n.220 del 1974. Esso ha esteso la possibilità del giudizio di comparazione a tutte le circostanzi aggravanti e attenuanti, ha introdotto il cumulo giuridico delle pene nel concorso formale del reato, ha ampliato i limiti della sospensione condizionale della pena. Sempre negl' anni 70, intervento importante si è avuto con la riforma dell'ordinamento penitenziario (I.n.354/1974). Tre sono stati gli obiettivi fondamentali di questa legge: rendere l'esecuzione penitenziaria coerente con la funzione rieducativa della pena, assicurare i diritti dei condannati, prevedere sanzioni alternative. Ulteriore intervento importante in materia di sanzioni penali è stato compiuto con la |.n689/1981, che ha previsto sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Tale scelta dal punto di vista politico-criminale è stata felice, in quanto tali pene erano in netto contrasto con la funzione rieducativa prevista per la pena. Di rielevo è stata l'introduzione della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (d.lgs. n. 231/2000) con cui si è adeguata la legislazione italiana con quelle di altre paesi. Meno felici sono stati la nuova disciplina della difesa legittima e alcuni interventi che mirano a favorire posizioni processuali di soggetti singoli o ristrette categorie di persone. Fra di essi va ricordata la c.d. legge Cirelli (I.n.251/2005), che ha ridotto i tempi della prescrizione senza assicurare una più veloce celebrazione dei processi, determinando un'esplosione dei processi prescritti. Numerosi sono stati gl'interventi di riforma della parte speciale. L'insieme di queste riforme ha mutato il volto della legislazione del 1930. È mancata tuttavia una riforma organica del codice. I tentativi sono stati inrealtà numerosi, ma nessuno è andato a buon fine. 9. Quali prospettive per la riforma organica del codice penale? Vedi libro p.38-39 & Manuale di diritto penale Parte generale La Corte cost. ha dichiarato illegittimo, per violazione art.3 cost., l'art. 688 c.2, c.p., nella parte in cui puniva il fatti di chi, già condannato per delitto non colposo contro la vita o aperto al pubblico in stato di ubriachezza manifesta: la Consulta ha ravvisato violazione del principio di uguaglianza, in quanto la norma rendeva punibile una condotta che non assumeva alcun disvalore sul piano penale. 4. Limiti di incriminazione Sulla costituzione è possibile fondare diversi limiti che il legislatore incontra nell'esercizio della sua potestà d'incriminazione. Costituiscono limiti i principi di determinatezza, materialità, offensività, proporzionalità, sussidiarietà, efficacia della tutela penale e principio di colpevolezza. I principi costituzionali che limitano le scelte di politica criminale possono essere dimostrativi o argomentativi: i primi consentono alla Corte Cost. di dichiarare l'illegittimità della norma che sia in contrasto con gli stessi; i secondi hanno un contenuto più flessibile, perché sono indirizzi di politica criminale che si rivolgono al legislatore e non consentono una declaratoria di illegittimità. 4.1. Il principio di determinatezza La riserva di legge costituisce una garanzia solo formale del principio di legalità, in quanto il legislatore, potrebbe attribuire rilevanza penale ad un qualsiasi fatto. Invece, nella misura in cui si valorizza la ratio di garanzia sottostante al principio di legalità è necessario che la legge descriva in modo sufficientemente preciso le norme penali (principio si determinatezza o precisione). Il principio in questione costituisce un limite generale alla politica criminale, in quanto tra i vari sotto-principi del principio di legalità è quello che si rivolge al legislatore, imponendo limiti nella formulazione delle norme penali. Esprime un limite debole, perché costituisce solo un limite strutturale. Tuttavia c'è un ulteriore profilo della determinatezza che funge da limite di contenuto delle norme penali, in quanto la corte costituzionale impone al legislatore non solo di descrivere fatti chiari e precisi, ma anche di prevedere come reato fatti che corrispondono a situazioni riscontrabili nella realtà, essendo inibita l'incriminazione di situazioni e comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili. 4.2. Il principio di materialità Il principio di materialità impone al legislatore di incriminare solo comportamenti umani esteriori percepibili. Tale principio trova fondamento nell'art. 25 c.2 Cost., secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima dl fatto commesso”. Il riferimento al fatto commesso esprime la necessità di una condotta esteriormente percepibile. È incompatibile con il principio di materialità il c.d. diritto penale della volontà, esso incentra il disvalore della fattispecie sull'elemento soggettivo dell'autore, più che sulla condotta dello stesso tenuta: giustifica una forte anticipazione dell'inizio dell'attività punibile, sin dalla semplice ideazione di commettere un reato, indipendentemente dall'avvio di una condotta diretta a perseguire il programma criminoso; propone di equiparare la pena per il delitto tentato a quella del delitto consumato, in quanto in entrambi è identica la volontà di trasgredire la norma penale. Sono incompatibili con questo principi: Manuale di diritto penale Parte generale a) Il diritto penale dell'atteggiamento interiore che pone al centro della relazione penale l'atteggiamento spirituale del soggetto rispetto ai beni giuridici. b) Il diritto penale della pericolosità, nel quale si punisce non l'autore di un fatto, ma l'autore pericoloso, nel quale si punisce non l'autore del fatto, ma l'autore pericoloso il cui comportamento rivela solo come sintomo del rischio di commissione dei reati, attribuendo rilevanza penale a stati di marginalità sociale (oziosi, vagabondi, mendicanti). 4.3. Il principio di offensività Il rispetto del principio di materialità non basta a giustificare l'intervento penale, perché è necessario che la pena sia rivolta nei confronti di fatti offensivi dei beni giuridici. Il c.d. principio di necessaria offensività è accolto dalla giurisprudenza della Corte Cost. che ne ha evidenziato la duplice dimensione. Per evidenziare questi due profili possiamo distinguere tra offensività in astratto, che si rivolge al legislatore, e offensività in concreto, che si rivolge al giudice. Tale distinzione consente di chiarire che aspetta a tale principio in astratto la funzione di limite... Il principio di offensività in astratto gode di copertura costituzionale attraverso un interpretazione sistematica dell'art. 25 c.2 e 27 c.3 Cost: se la pena intervenisse per sanzionare fatti che non offendono alcun bene giuridico, la sua funzione sarebbe ridotta o alla pura retribuzione della volontà di disobbedire o alla prevenzione di meri stati sintomatici di pericolosità, in contrasto con la distinzione tra pene e misure di sicurezza; il riferimento al fatto, va inteso come fatto offensivo. Anche la Corte cost. ha riconosciuto al principio di offensività in astratto il valore di limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario, riconoscendo alla stessa corte il compito di accertarne il rispetto da parte delle norme penali. Se guardiamo le sentenze della corte, che hanno richiamato l'offensività in astratto, noteremo che solo in un caso tale principio è stato direttamente richiamato per fondare la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale. Negli altri casi, il richiamo al principio d'offensività è stato più sfumato, in quanto è refluito nel principio di ragionevolezza. Tale preferenza è dovuta alla consolidata recezione di questo principio nella giurisprudenza costituzionale e nella capacità dello stesso di flessibilità di contenuto. Il riconoscimento del principio di offensività in astratto produce effetti positivi in termini di limitazione della tutela penale. Anzitutto, esclude la legittimità del diritto penale d'autore, nel quale rilevano i fatti offensivi, ma le condizioni e le qualità personali dell'autore del fatto. Tale principio consente di escludere la rilevanza penale di condotte che possono essere oggetto di disapprovazione morale, ma che non offendono interessi altrui. Il principio di offensività fonda la distinzione tra diritto penale e morale, in quanto i precetti dell'uno non possono essere fondati sui precetti dell'altro. Abbiamo visto che il principio ha una duplice faccia, una in astratto volta al legislatore e poi al giudice e l'altra in concreto volta all'interprete ed in particolare al giudice: appurato che la norma sia posta a tutela di un bene giuridico, spetta all'interprete applicare la norma penale &« Manuale di diritto penale Parte generale solo in relazione a fatti che siano in concreto offensivi del bene giuridico tutelato. Così, in presenza di un furto di un bene privo di valore patrimoniale, il giudice deve concludere per la non punibilità del fatto, in quanto così il giudice non può infliggere pene per fatti che in concreto non presentano contenuto offensivo. Ora, preme evidenziare che talvolta la corte costituzionale salva una norma, indiziata di non rispettare il principio di offensività in astratto, sostenendo che sussiste il bene giuridico tutelato, ma spetta al giudice accertare in concreto se vi sia stata lesione dello stesso: in tal modo il principio di offensività in concreto serve alla Corte come via di fuga per evitare una declaratoria di illegittimità costituzionale per la violazione del principio. La funzione selettiva del principio di offensività in astratto è condizionata dall'individuazione del bene giuridico tutelato dalla singola norma incriminatrice. A questo riguardo sono emersi i beni strumentali, la cui tutela è finalizzata a garantire beni finali ulteriori che rimangono sullo sfondo della tutela. 4.4.1 principi di proporzionalità, sussidiarietà ed efficacia della tutela penale. Nel giudizio di meritevolezza della reazione penale va considerata la proporzionalità rispetto al tipo di bene offeso e alle modalità di aggressione: così la lesione di un bene più importante giustifica una sanzione più elevata ed il ricorso a particolari modalità aggressive possono condizionare la diversità della risposta penale. Il principio dii proporzionalità trova fondamento nell'interpretazione sistematica di alcune norme della Cost.: art.13 nel proclamare il carattere inviolabile della libertà personale; art. 27 c.3 funzione rieducativa della pena. Inoltre, costituisce espressione del generale principio di uguaglianza espresso art. 3 della Cost. Ma quando un bene può essere considerato meritevole di tutela penale? La teoria dei beni giuridici costituzionali di Bricola era finalizzata a garantire una base normativa al giudizio della meritevolezza, perché solo i beni con copertura, diretta o indiretta, nella costituzione possono essere assunti ad oggetto della tutela. I limiti a cui tale teoria va incontro non fanno venir meno l'importanza dell'appoggio delle norme costituzionali a fondare in positivo le esigenze di criminalizzazione. Inoltre possono essere considerati meritevoli di tutela penale quegl'interessi che godono di riconoscimento nel contesto sociale: in ciò sta l'intuizione della teoria liberale secondo cui i beni no sono costituiti artificialmente dal legislatore, ma sono realtà pre-normative delle quali il legislatore prende atto. Questa indicazione ha due importanti conseguenze. La prima consiste nella necessità di considerare i beni giuridici alla luce dei rapporti sociali. Sotto questo profilo svolge un ruolo importante il consenso sociale alla incriminazione di una condotta. Ciò conferisce al legislatore un delicato ruolo di filtro, gli spetta il compito di razionalizzare le istanze punitive e non rincorrere i bisogni emotivi. A tal fine i principi costituzionali svolgono una funzione limite alle istanze repressive. Seconda conseguenza del carattere pre-normativo dei beni giuridici sta nella delegittimazione del diritto penale promozionale: il legislatore non può inculcare, tramite la sanzione penale, il rispetto dei valori nei quali la comunità non crede. A giustificare il ricorso alla sanzione penale non basta la meritevolezza di pena, perché il sacrificio imposto alla libertà personale dalla sanzione penale richiede che sussista un effettivo bisogno della pena: è necessario che risultino inefficaci gli altri strumenti di tutela Manuale di diritto penale Parte generale PARTE SECONDA La legge penale Capitolo IV RISERVA DI LEGGE 1. Il principio di legalità e i suoi sotto principi. Nel passaggio dall'ancien regime alle costituzioni ed altre codificazioni penali liberali, nasce e si consolida il principio di legalità, in virtù dei quali i precetti penali devono provenire non più dall'arbitrio di un sovrano, ma solo da una legge emanata da un parlamento democraticamente eletto; legge che deve essere previa al fatto commesso, chiara e precisa. Da un lato l'esigenza di sottrarre all'arbitrio del potere assoluto la produzione normativa trova origine nel contratto sociale: i cittadini mettono a disposizione dello stato anche la loro libertà personale al fine di garantire la pace sociale. Dall'altro canto, il principio di legalità costituisce una conseguenza imprescindibile della divisione dei poteri. Durante l'ancien regime il sovrano esercitava sia la produzione normativa penale che il conseguente potere giudiziario. Con il pensiero illuminista le 2 funzioni si impongono come distinte fra di loro, ne deriva che solo il Parlamento può riservare a sé ogni atto in materia legislativa penale. Sorto in ambito politico ed istituzionale, il principio acquista una sua autonomia in campo penalistico, alla luce del suo significato di garanzia: l'esigenza di limitare la potestà punitiva dello stato trova uno sblocco sicuro nell'idea che i precetti penali siano frutto dell'attività normativa dell'organo elettivo (primo corollario del principio di legalità: Riserva di legge). La legge penale deve essere sempre previa ai fatti commessi, ciò garantisce i cittadini dalla discriminazione ex post di condotte che erano lecite al momento del fatto (secondo corollario: Irretroattività della legge penale). Ancora, la certezza del diritto oltre ad imporre l'irretroattività delle norme penali, pretende che i precetti penali siano chiari, tassativi, precisi, cioè comprensibili da tutti i consociati (terzo corollario: principio di determinatezza). Il quarto corollario è il c.d. principio di tassatività che impone al giudice di limitare l'ambito di operatività della norma penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti. Ratio di garanzia e di certezza si intrecciano, pertanto nell'attribuire un ruolo assolutamente centrale, in qualsiasi sistema penale libero e democratico, al principio di legalità, ed ai suoi 3 sotto principi: riserva di legge, irretroattività della legge penale, determinatezza dei precetti penali. 2. La riserva di legge: il problema delle fonti del diritto penale. Il primo corollario del principio di legalità attiene alla riserva di legge: la materia penale è di esclusiva prerogativa legislativa, con la conseguenza che nessuna fonte subordinata può emanare leggi penali. Solo una legge tutela i consociati da possibili arbitri del potere politico offrendo le indispensabili garanzie d'imparzialità e di legittimazione (ratio di garanzia). Manuale di diritto penale Parte generale Inoltre, la legge prevede delle forme di pubblicazione (gazzetta ufficiale) che ne garantiscono la conoscibilità da parte di tutti coloro che sono obbligati a rispettare le norme penali (ratio di certezza). In alcuni esperienze di regimi autoritari del secolo scorso, si è sviluppata una diversa idea di legalità, c.d. sostanziale, secondo la quale è reato non solo il fatto previsto come tale dalla legge, ma anche ciò che contro il sano sentimento del popolo. Ovviamente questo tipo di legalità non garantisce i cittadini da abusi ed arbitri di potere. Oggi, oltre all'art.25 c.2 e 3 Cost., il disposto di cui art. 101, c.2 Cost. esclude qualsiasi deriva in senso sostanzialistico, imponendo quale limite della potestà punitiva dello stato in materia penale sia sotto il profilo dei fatti vietati che delle relative sanzioni. A livello costituzionale il principio è contenuto nell'art.25 Cost. 2 c., per quanto riguarda le misure di sicurezza al 3. Questo modello di legalità, c.d. formale, impone al giudice di considerare reato solo ciò che è previsto come tale dalla legge. Il problema diviene quello d'individuare il significato del termine legge, ai sensi delle citate disposizioni costituzionali e ordinarie. Possono essere fonti del diritto penale le leggi costituzionali; le leggi ordinarie; i decreti governativi in tempo di guerra, art 78 Cost. Maggiori problemi ci sono per i decreti legge e legislativi. La conversione in legge del decreto legge, entro 60 giorni dalla sua emanazione, garantirebbe un adeguato controllo su di tali atti. Per quanto riguarda i decreti legislativi si osserva che, il potere normativo esercitato dal governo deve rispettare i criteri ed i principi direttivi della legge delega. In entrambi i casi, sarebbe garantito un adeguato controllo del Parlamento, per i primi ex post, per gli altri ex ante. Altri autori hanno fatto notare che, nel caso del decreto legge, il governo potrebbe abrogare un'ipotesi di reato che, nel caso del decreto legge, il governo potrebbe abrogare un'ipotesi di reato che non sarebbe punibile, neppure nel caso di decadenza del decreto stesso per mancanza di conversione in legge da parte del parlamento. In realtà, nella prassi il ricorso ai decreti legge e legislativi è strettamente diffuso. 3. Diritto penale e leggi regionali Il termine legge ricomprende anche le leggi regionali? Questi provvedimenti sono frutto di un organo elettivo che rappresenta solo una parte dei cittadini. Esse, non possono che avere vigenza nel territorio regionale. In passato, la dottrina ha escluso che le leggi regionali potessero introdurre nuove fattispecie incriminatrici, sulla base di principi costituzionali. Inoltre, l'art. 120 Cost. impedisce alle regioni di emanare provvedimenti che ostacolino la libera circolazione delle persone e delle cose tra le regioni stesse. Dal canto suo, la giurisprudenza costituzionale, con la sent. N. 487/1989, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge della regione Sicilia, che dettava un più agevole regime in materia di estinzione del reato, riguardo ad alcune contravvenzioni urbanistiche. In tale pronuncia la Corte ha ribadito che “la criminalizzazione comporta una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell'intera società: tale scelta non può essere fatta dai consigli regionali, perché non hanno una visione generale dei bisogni ed esigenze dell'intera comunità. & Manuale di diritto penale Parte generale Oggi, il problema pare risolto dal momento che l'art.117 Cost., prevede che l'ordinamento penale sia materia di esclusiva competenza statale. Un liitato ambito riservato alle competenze regionali, in materia penale, è quello di intervenire sugli elementi normativi della fattispecie penale e di incidere sull'ambito delle cause di giustificazione che non sono norme penali in senso stretto, ma di rilevanza intra ordinamentale. L'ultima questione, riguarda la possibilità, per una legge dello stato, di munire di tutela penale una legge regionale. La soluzione al riguardo varia a seconda che la legge regionale preceda o segua la legge statale che attribuisce rilevanza penale. Nel primo caso, non si pongono particolari problemi: la norma statale munisce di sanzione penale la legge regionale, già esistente. Se invece, la legge regionale non è stata ancora emanata, il rinvio da parte del Parlamento avverrebbe al buoi e la definizione complessiva del precetto penale sarebbe totalmente rimessa alla discrezionalità del consiglio, in spregio agli art. 25 c. 2 e 117 Cost. 4.La consuetudine Per consuetudine si intende un modo consueto ed abituale di operare, che ingenera la convinzione della sua corrispondenza ad una norma giuridica. In ambito civile, alla consuetudine viene attribuita una significativa rilevanza. I problemi sono invece ben più complessi in materia penale, con riferimento al principio di riserva di legge. Esistono in materia penale, 4 forme di consuetudine, che pongono differenti questioni di legittimità. Innanzitutto, è assolutamente vietato alcun spazio per la c.d. consuetudine incriminatrice, dal momento che l'introduzione di un nuovo precetto penale è riservata alla legge e non può derivare dall'idea di un certo comportamento. La medesima conclusione vale per la consuetudine abrogatrice: quando una norma penale resta del tutto disapplicata, ciò non significa che essa sia stata implicitamente abrogata. La terza ipotesi riguarda la funzione integratrice, in virtù della quale la consuetudine potrebbe attribuire rilievo a determinate situazioni, sulla base degli usi e del convincimento del loro valore giuridico. L'esclusione della consuetudine integratrice non deve essere confusa con la rilevanza del diritto penale deve dare al sentire sociale in materia di elementi normativi di carattere extra giuridico. Si pensi ai termini "osceno" o “pubblica decenza", rilevanti ai sensi dei delitti di atti osceni in luogo pubblico (art 527 e 529 c.p.) e di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.): si tratta di concetti che variano a seconda dei periodi e delle epoche sporiche. Ma non si tratta di attribuire una rilevanza alla consuetudine, come elemento che integra la fattispecie incriminatrice ab externo, bensì di interpretare i concetti necessariamente elastici in modo adeguato alla percezione che ne ha il cittadino equilibrato ed adulto, in un dato momento storico. Occorre ricordare come, in alcuni casi, sia la legge penale a far riferimento alla consuetudine, in tal casi il giudice, nel verificare la corrispondenza tra fattispecie incriminatrice astratta e fatto concreto, dovrà tenere conto degli usi, ma il principio di legalità resta salvo. È il caso della circostanza aggravante del furto (art.625 n. 7 c.p.) che prevede un aumento di pena Manuale di diritto penale Parte generale alla scelta politico-criminale dei singoli Parlamenti dei paesi membri se optare per misure sanzionatorie civili, penali o amministrative. Con il passare degli anni l'imposizione di nuovi strumenti di tutela da parte dell'UE si è fatta sempre più pressante sino ad imporre il ricorso alla sanzione penale, indicando addirittura i limiti editali minimi o massimi a cui ci si doveva attenere. Attualmente rimane vero che l'UE non può introdurre nuove fattispecie incriminatrici, ed è sempre necessario il recepimento delle indicazioni contenute nelle direttive europee da parte dei parlamenti statali. Ma la tutela mediata degli interessi comunitari e la lotta ai crimini transnazionali rendono più incisivo il ruolo dell'UE nell'individuazione dei fatti vietati e sanzionati penalmente. Non si può non parlare del ruolo svolto dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, la quale ha affermato e radicato il principio di preminenza del diritto comunitari, in base al quale, ogni volta che vi è contrasto tra norme interne ed europee, queste ultime devono prevalere. Quanto agli strumenti con cui gli stati recepiscono le direttive si sono individuati tre diversi modelli. Il primo, unificazione, cioè l'individuazione di un unico strumento penale vigente in tutti gli ordinamenti, strumento ben difficile da attuare. Infatti, il tentativo di giungere ad una costituzione europea è andato male. Il secondo, assimilazione, con cui l'UE impone ai paesi membri di estendere la tutela penale già presente nei loro ordinamenti interni a specifici interessi dell'Unione stessa. Terzo, armonizzazione, con cui gli stati sono chiamati ad introdurre nuove fattispecie incriminatrici, modellate sulle basi delle indicazioni e previsioni contenute nelle direttive. Il primo modello (unificazione) rischia di produrre disparità di trattamento tra i vari stati membri, dal momento che le fattispecie penali poste a tutela degli interessi comunitari non sono il frutto dell'adeguamento ad un paradigma comune, ma solo ricalcate su ipotesi delittuose già esistenti nei diversi codici penali. Ciò spiega il frequente utilizzo del metodo dell'armonizzazione, che ha comunque un difetto: se un paese non attua gli accordi, nel suo ordinamento si verifica una carenza di tutela degli interessi comuni. A questo proposito ci si domanda come mai ce la tendenza ad attuare gli accordi? Per quale motivo? La risposta sta nel fatto che, l'UE può esercitare nei confronti degli stati che non hanno ottemperato le previsioni di una direttiva, un potere di infrazione, che può portare al pagamento di somme di denaro, a titolo di sanzione. Resta, vero che l'UE è priva di un autonomo e diretto potere d'introdurre nuove fattispecie incriminatrici, se non passando attraverso i parlamenti nazionali. Ma, nella sostanza, il cuore delle scelte politico-criminali, cioè l'individuazione dei fatti da vietare e delle sanzioni, in molte materie è diventato appannaggio quasi esclusivo degli organi dell'UE. Resta a chiarire quale possa essere l'incidenza del diritto comunitario sul piano penale, ogni volta che una norma interna si trova in contrasto con una norma comunitaria. In tal caso il giudice italiano, ai sensi art.11 e 117 Cost., deve tener conto della disciplina europea, in virtù del principio di preminenza del diritto europea. In particolare, se si tratta di un contrasto dell'ordinamento interno con una norma di un trattato, di un regolamento o di una direttiva specifica e dettagliata, il giudice penale è tenuto a disapplicare la normativa interna: si pensi al caso di una fattispecie incriminatrice che punisce un fatto considerato lecito da una norma europea. La disapplicazione della norma penale interna produce che se vi è stata sentenza anche definitiva di condanna, ne cessano immediatamente l'esecuzione e gli effetti. Manuale di diritto penale Parte generale Se il contrasto è solo parziale, il giudice dovrà disapplicare solo quella parte della norma interna in contrasto con la disciplina sovranazionale. Occorre ricordare che il giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale sulle norme interne che violino principi contenuti in una direttiva dell'unione europea vale anche nei confronti delle norme di favore. Infine, anche a livello interpretativo, la presenza del diritto comunitario impone al giudice di scegliere, tra le diverse interpretazioni quella più conforme ai principi comunitari. 6.3. Convenzione europea dei diritti dell'uomo e diritto penale. Tra le norme di diritto pattizio di maggior importanza in ambito penale, la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ha un ruolo centrale. Anche rispetto alla CEDU occorre dire che non vi possono essere fattispecie penali introdotte direttamente nel nostro ordinamento da atti sovrannazionali, dal momento che art.25 Cost. prevede che solo una legge del parlamento possa disporre in questo senso. Peraltro, in base art.117 Cost., la potestà legislativa dello stato è esercitata nel rispetto non solo della costituzione, ma anche dai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e da obblighi internazionali. Quindi, nell'esercizio del potere legislativo, il Parlamento non potrà emanare norme penali in contrasto con una previsione CEDU, se ciò dovesse accadere la norma dovrebbe essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. & Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO V SUCCESSIONI DI LEGGI PENALI NEL TEMPO 1. Il principio di irretroattività Il secondo corollario del principio di legalità è il divieto di retroattività della legge penale. È evidente la ratio di garanzia del principio; dall'altro canto, l'irretroattività della legge penale svolge anche una fondamentale funzione di certezza, dal momento che i cittadini devono essere messi in grado di sapere in anticipo, con chiarezza quali sono le possibili conseguenze penali dei loro comportamenti, per poter orientare con consapevolezza il proprio agire. Nell'attuale ordinamento giuridico vi sono ben 4 norme da prendere in considerazione: art 11 delle disposizioni sulle leggi in generale prevede, in termine generali, che la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Anche art.2 c. 1 del c.p. del 1930 afferma che nessuno piò essere punito per un fatto che, secondo la legge del momento in cui fu commesso, non costituiva reato. Peraltro, se ci dovessimo fermare a queste due norme, il parlamento potrebbe derogare in qualsiasi momento tale principio. Tale esito è precluso dall'art.25 c.2 Cost., il quale impone che la legge alla stregua della quale si punisce un certo fatto di reato debba essere entrata in vigore prima del fatto commesso. Infine, la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, l'art.7 prevede il principio di irretroattività. 2. Il principio di retroattività della legge penale più favorevole. (art.2 c.p.) L'art.25 c.2 Cost. impone il divieto d'irretroattività di nuova fattispecie incriminatrice, mentre l'art.2 c.p., nei commi successivi al primo, introduce una disciplina della successione delle leggi penali nel tempo improntata al canone della retroattività delle disposizioni penali più favorevoli al reo. Occorre, domandarsi se la regola dell'applicazione retroattiva più favorevole al reo abbia copertura costituzionale. L'art.25 c.2 Cost., non offre spunti di rilievo a riguardo. Ma la nostra giurisprudenza costituzionale ha individuato nel principio di uguaglianza (art.3 Cost.), sotto lo specifico profilo della ragionevolezza, un possibile recepimento del canone in questione. Se il legislatore interviene ad abrogare una fattispecie incriminatrice, di modifica, in senso favorevole al reo una norma penale non sarebbe ragionevole continuare ad applicare le precedenti e più severe norme a chi viene giudicato oggi, anche se ha commesso il fatto sotto il vigore della legge precedente. Pertanto, anche la retroattività della legge penale più favorevole è imposta dalla Cost., ma non senza limite: il legislatore potrebbe introdurre una deroga al principio, ma solo se l'eccezione è giustificata da una qualche ragionevolezza, quale, per es. la necessità di bilanciare tra 2 interessi contrapposti, entrambi meritevoli di considerazione. Nel dettaglio, la disciplina in materia di successione di leggi penali nel tempo, di cui art.2 c.p., appare complessa. Una prima ipotesi è quella dell'abolitio criminis, che si verifica quando una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice. A riguardo, art.2 c.2 c.p. prevede che non possono essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice, ed anzi, se già vi è stata & Manuale di diritto penale Parte generale cittadini. Pertanto, anche se il decreto legge non viene convertito il soggetto non potrà essere punito, sulla base della legittima aspettativa di tenere un comportamento lecito. 5. Successione di leggi penali e norme integrative extrapenali. Qualora si verifichi una modifica normativa che non riguarda direttamente la fattispecie incriminatrice, ma un elemento normativo della fattispecie legale, si applica il principio della retroattività della lex mition? Si pensi al reato di ingiustificata inosservanza dell'ordine del questore di allontanarsi dal territorio dello stato, commesso da un cittadino rumeno. Con l'adesione della romania all'UE, il fatto resta punibile o il nuovo status ha effetti retroattivi, rendendo non punibile il reo? Prima ipotesi, la disciplina art. 2 c. 2 e 4 c.p. dovrebbe applicarsi anche in questo caso, con il conseguente venir meno della punibilità del colpevole. Seconda ipotesi, in realtà muovendo dall'idea che il disvalore del fatto permane, anche dopo dell'avvenuto, mutato quadro normativo di riferimento, la giurisprudenza di legittimità ritiene che la retroattività della fattispecie incriminatrice, e non anche per eventuali modifiche della situazione di fatto che, pur facendo da presupposto alla norma penale, non la integrano. La corte ha ritenuto che l'adesione della Romania all'UE non ha determinato la non punibilità del reato, in quanto il trattato di adesione e la relativa legge di ratifica si sono limitati a cambiare la situazione di fatto, facendo perdere ai rumeni lo status di straniero, senza che tale circostanza sia stata in grado di operare retroattivamente. 6. Gli effetti delle sentenze di illegittimità costituzionale. La Corte costituzionale, con le sue sentenze, può influire sul sistema. In virtù del principio di riserva di legge, non è mai consentito, alla Corte, estendere l'incriminazione oltre i limiti previsti dalla fattispecie, né innasprirne il regime sanzionatorio. Pertanto, quando l'incriminazione di un certo fatto risulti irragionevole, la Corte non può estendere la punibilità ai fatti non previsti, ma deve dichiarare l'illegittimità della norma che senza ragione limita la punibilità. Ciò è avvenuto con la contravvenzione che puniva la bestemmia (art 724 c.p.) contro i simboli e le persone della religione dello stato (cattolica). Chiarito che la norma escludeva le offese verso le altre religioni, la Corte ha dichiarato la sua illegittimità nell'inciso in questione. Ora, quali problemi si pongono in tema di successioni di leggi penali nel tempo? Muovendo dal tenore letterale dell'art. 136 Cost., secondo cui: quando la corte dichiara l'illegittimità di una norma essa cessa di avere efficacia dal giorno successivo delle pubblicazione della decisione. Nei primi anni, dopo l'entrata in vigore della costituzione si riteneva che la declaratorio di illegittimità di una fattispecie incriminatrice avesse efficacia ex nunc, con la conseguenza che, per i fati commessi durante la vigenza, si sarebbe dovuto applicare il regime previsto dall'art.2 c.p. Tale soluzione era poco applicabile; se la declaratoria di illegittimità costituzionale valesse ex nunc, gli effetti maturati sotto la vigenza della norma stessa non ne sarebbero stati toccati e per tanto la questione di legittimità sarebbe irrilevante per il giudizio in corso. Per ovviare a questo problema la |. n. 87/1953 ha previsto che: le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in & Manuale di diritto penale Parte generale applicazione della norma incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali. Quindi, la situazione è identica a quella prevista per i decreti legge, non convertiti:la declaratoria di illegittimità opera ex tunc ma, ai sensi dell'art.25 c.2 Cost., se la norma stessa era più favorevole al reo di una precedente, i continuerà ad applicare il regime più favorevole. 6.1.La questione della ammissibilità del sindacato sulle leggi penali di favore. La corte costituzionale non può estendere l'ambito di operatività di una fattispecie incriminatrice, ciò non significa che sia sempre precluso il sindacato di legittimità sulle leggi penali di favore, in modo particolare quando esse creino delle zone franche. AI riguardo, la giurisprudenza della Corte cost., inizialmente, ha escluso che si potesse sindacare la legittimità di una norma penale di favore, per mancanza di rilevanza della questione: il nuovo, severo regime derivante dalla declaratoria di illegittimità non si sarebbe potuto applicare retroattivamente a chi avesse tenuto una condotta nel vigore della norma più favorevole. Quindi, tale orientamento è stato superato, in riferimento alle situazioni nelle quali la norma di favore non delimita l'ambito di applicazione di una fattispecie incriminatrice, ma sottrae una categoria di soggetti o condotte dall'applicazione della norma stessa. Attualmente, il sindacato di costituzionalità sulle norme di favore è ammesso, solo quando si tratta di riparare a quello che è stato definito come odioso privilegio. 7. Successione di leggi penali nel tempo e crimini internazionali: cenni. Si definiscono come crimini internazionali i crimini di guerra, il genocidio, i crimini contro l'umanità e contro la pace. Essi sono stati oggetto di processi che hanno dato origine ad una sorta di diritto penale internazionale, che prescinde dalla normativa vigente di ogni singolo stato. & Manuale di diritto penale Parte generale Capitolo VI PRINCIPIO DI DETERMINATEZZA 1. Ratio di garanzia del principio di precisione delle norme penali. Il principio di legalità impone che la tecnica di redazione delle fattispecie incriminatrici individui, con precisione, tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrici e delle norme penali. Una legge penale costruita in termini generici può non individuare con certezza i fatti vietati, finendo col vanificare del tutto la garanzia sottesa al principio di legalità. Non basta che le norme penale siano previste da una legge, ma occorre che sia possibile, per i cittadini, individuarne tutti gli elementi costitutivi. Solo norme chiare e precise rendono efficace il sistema penale sotto il profilo della funzione general preventiva. Tale esigenza è manifestata art.1 c.p. quando si prevede che nessuno possa essere puniti, se non per un fatto espressamente previsto dalla legge come reato. Sempre per quanto concerne i destinatari, l'individuazione dei limiti del penalmente rilevante costituisce un presupposto indefettabile del principio di colpevolezza, dal momento che solo in presenza di un precetto chiaro e privo di ambiguità nell'individuare i fatti vietati sarà possibile rimuovere un rimprovero a colui che l'abbia violato. Il principio di determinatezza deve garantire ai destinatari da possibili abusi del potere giudiziario. I destinatari sono il Parlamento, che deve costituire fattispecie incriminatrici chiare e precise, il giudice, che deve interpretare entro dei limiti rigorosi, i cittadini, che devono essere messi in grado di conoscere i limiti dei fatti penalmente sanzionabili. 2. Criteri di tecnica legislativa Il principio di tassatività impone al legislatore di utilizzare tecniche legislative che chiariscano al massimo i gradi dell'illecito penale. Al riguardo si distingue tra normazione casistica e sintetica. La normazione casistica tende ad elencare tutti i possibili aspetti della realtà empirica che rientrano nella fattispecie incriminatrice. Per es. il delitto di associazione di stampo mafioso descrive tutte le modalità della condotta e le finalità perseguite dal sodalizio criminoso, per poter essere definito come mafioso. Peraltro questa tecnica legislativa finisce per appesantire moltissimo la norma penale, e, se consente di rispettare il principio di frammentarietà rischia di lasciare impunite condotte che non sono state inserite dal legislatore tra gli elementi costitutivi della fattispecie. Pare più opportuno il ricorso alla normazione sintetica che è in grado di definire i limiti alla rilevanza penale dei comportamenti dei cittadini, alla stregua di 2 criteri: da un lato vi deve essere oggetto giuridico ben definito, cioè il bene tutelato deve essere afferrato con chiarezza; i termini che il legislatore utilizza devono poter essere oggetto di una verifica empirica, che consenta di individuare il contenuto in termini concreti, reali, scientifici e non sulla base di mere valutazioni discrezionali operate dal giudice. Quando ricorre alla tecnica della normazione sintetica, il legislatore ricorre ad elementi di carattere descrittivo o normativo. Questi ultimi possono essere elementi normativi giuridici o extra giuridici, cioè basati su definizioni normativo -sociali. Gli elementi descrittivi possono essere concetti numerici, quantitativi o concetti descrittivi tratti dall'esperienza. & Manuale di diritto penale Parte generale Per analogia si intende l'integrazione dell'ordinamento giuridico attraverso l'applicazione, ad un caso non regolato dalla legge, dalla disciplina prevista per casi simili. Legittima negli altri ambiti dell'ordinamento giuridico l'analogia è vietata nel diritto penale. La nostra dottrina individua un quarto corollario del principio di legalità, il c.d. principio di tassatività che impone al giudice di limitare l'ambito di operatività della norma penale ai soli fatti in essa tassativamente descritti. Il problema fondamentale attiene al confine tra analogia ed interpretazione estensiva del diritto penale, che sarebbe consentita nella misura in cui sia rispettato il limite del significato letterale della norma. & Manuale di diritto penale Parte generale Capitolo VII LIMITI SPAZIALI ALLA EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE 1. Il diritto penale nazionale ed il rapporto con gli altri regolamenti: i criteri. Con quali limiti spaziali si applica la legge penale italiana? La risposta impone di analizzare alcune norme del codice, che disciplinano l'obbligatorietà della legge penale (art. 3 c.p.), il concetto di territorio dello stato (art.4 c.p.) e il delitto commesso nel territorio dello stato (art. 6 c.p.), la nozione di delitto politico (art.8), la rilevanza penale dei fatti commessi interamente all'estero (artt. 7,9,10 c.p.), l'estradizione attiva e passiva (art. 13) e la rilevanza delle sentenze penali straniere (art. 11 e 12). Bisogna chiarire, prima di entrare nel dettaglio, che i criteri alla stregua dei quali valutare l'obbligatorietà della legge penale sono 4. Secondo il principio di universalità, è punito alla stregua del diritto penale italiano qualsiasi delitto anche all'estero. Il principio di territorialità, limita l'applicazione della nostra legge ai soli fatti commessi nel territorio dello stato. Il principio di personalità passiva prevede l'applicazione della legge penale dello Stato cui appartiene il titolare del bene offeso dal reato. Infine, alla stregua del principio di personalità attiva, si applica la legge penale dello Stato di appartenenza del reo. Nessun sistema giuridico applica uno di questi criteri nella sua versione più pura; ogni ordinamento disciplina l'efficacia della legge penale nello spazio attraverso la combinazione di tutti e quattro i criteri indicati. In termini di estrema sintesi, si può affermare che il nostro ordinamento ha previsto, art.6 c. 1 c.p., il principio di territorialità, ma ha introdotto tante e rilevanti deroghe che la legge penale si applica ai fatti commessi all'estero, da registrare una significativa tendenza verso il principio di universalità, temperato da alcuni limiti, derivanti dalla parziale applicazione degli altri 2 criteri, di personalità attiva e passiva. 2. Il principio di territorialità Ai sensi dell'art. 3, c.1 c.p., "la legge penale obbliga tutti coloro che si trovano nel territorio dello stato”, con le uniche eccezioni previste dal diritto pubblico o internazionale. Conseguenza di questa obbligatorietà della legge penale è che tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato sono tenuti ad osservarla, e che “chiunque commette un reato nel territorio dello stato è punito secondo la legge italiana“ come recita art.6 c.1 c.p. Il primo fondamentale criterio di riferimento per l'applicazione della legge penale nello spazio è il principio di territorialità, con riferimento ai soggetti ed hai fatti. Il codice del 1930 detta alcuni criteri di collegamento tra fatto di reato e ordinamento italiano estremamente estesi: ai sensi art. 6, c.2 c.p., infatti, “il reato si considera commesso nel territorio dello stato, quando l'azione o l'omissione, che lo costituisce, è avvenuta nello stesso in tutto o in parte.” Si tratta di un criterio molto esteso: il reato è punito ai sensi della legge italiana anche se solo la condotta è stata tenuta in Italia e l'evento si è verificato all'estero; o anche se la condotta è stata tenuta interamente all'estero, qualora l'evento si verifichi nel nostro territorio. & Manuale di diritto penale Parte generale Questo ampio criterio detto sineddoche viene estremizzato, dal momento che si considera come commesso interamente nel territorio dello stato un fatto del quale sono una parte si è qui tenuta, ancora più estremizzato dal momento che si applicherà la nostra legge penale anche ad un fatto avvenuto quasi completamente all'estero, purché un frammento minimo della condotta si sia tenuto in italia. 2.1.La nozione di territorio dello Stato Il territorio dello Stato non va inteso solo come il suolo entro i confini d'Italia, ma identifica (ai sensi art. 4 c.2 c.p.) ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello stato, come il mare costiero e lo spazio aereo nazionale. Inoltre, le navi e gli aeromobili italiani sono da considerarsi come territorio dello stato ovunque si trovino, a meno che siano soggetti ad una legge territoriale straniera. 3.Efficacia della legge penale rispetto ai fatti commessi all'estero. 3.1.Fatti puniti incondizionatamente Il principio di territorialità deve essere integrato con altre disposizioni del codice, che danno conto di quella tendenziale universalità della legge penale italiana. L'art.7 c.p. prevede che una cospicua serie di delitti siano puniti anche se commessi interamente all'estero. Occorre precisare che questi reati sono puniti ai sensi della legge penale italiana incondizionatamente, cioè indipendentemente da qualsiasi condizione di procedibilità. Per alcuni di questi fatti, la ratio che giustifica l'applicazione della legge penale italiana è data dal principio di personalità passiva: si tratta di delitti che offendono direttamente un interesse dello stato italiano. In tal senso, vengono in rilievo, art.7. c.p., le seguenti fattispecie criminose: * 1 delitti contro la personalità dello stato italiano * 2. delitti di contraffazione del sigillo e di uso * 3. delitti di falsità delle monete e 4 delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello stato. Inoltre, l'ultimo comma art. 7 contiene una sorta di norma di chiusura, in virtù della quale la punibilità del cittadino o straniero è estesa a tutti i reati, commessi fuori dal territorio dello stato, per i quali l'applicabilità della legge penale sia prevista da particolari disposizioni di legge o da convenzioni internazionali. 3.2.Delitti politici. Altra categoria di delitti, puniti dalla legge italiana, anche se commessi all'estero è quella dei delitti politici. L'art. 8 c.1 c.p. prevede, che il cittadino o straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli dell'art.7 c.1 è punito secondo la legge italiana. & Manuale di diritto penale Parte generale In particolare, ai sensi art. 10 d.lIgs.161/2010, una sentenza penale di condanna emessa da un Paese membro dell'UE viene eseguita in Italia alle seguenti condizioni: che la persona condannata abbia la cittadinanza italiana; la residenza, la dimora o domicilio nel territorio dello stato, o debba essere espulsa verso l'Italia a motivo di un ordine d'espulsione o di allontanamento inserito nella sentenza di condanna o di una decisione giudiziaria o amministrativa. Inoltre, il fatto per il quale vi è stata condanna deve essere previsto come reato anche della legge italiana. La durata e la natura della pena o della misura di sicurezza applicate nello stato di emissione devono essere compatibili con la legislazione italiana. 4.3. Estradizione L'esigenza della collaborazione tra Stati nella lotta alla criminalità ha trovato realizzazione attraverso l'istituto dell'estradizione, cioè la consegna da uno Stato ad un altro, di un soggetto che deve essere giudicato o punito per i suoi crimini. L'estradizione è un istituto del diritto internazionale e viene regolato da alcune norme del codice di procedura penale; il c.p. ne disciplina alcuni aspetti (art.13c.p.). Rilevato, è stato il ruolo della Corte cost. nell'individuare i limiti dell'estradizione, muovendo dal divieto di estradare il cittadino per reati politici. L'estradizione sia attiva che passiva, sia del cittadino che dello straniero è sottoposta ad una seria di principi e vincoli. Innanzitutto, il fatto deve essere preveduto come reato dalla legge italiana e da quella straniera (requisito della doppia incriminazione art.13 c.2 c.p.). Tale requisito impone che il fatto, oltre che tipico, sia anche antigiuridico e colpevole, mentre non rileva la presenza, in uno dei 2 ordinamenti, di condizioni di procedibilità o di cause estintive. Un 2° requisito attiene al c.d. principio di specialità: la concessione dell'estradizione è subordinata alla condizione che, per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l'estradizione è stat concessa, “l'estradato non venga sottoposto a restrizione della libertà in esecuzione di una pena o misura di sicurezza né assoggettato ad altra misura restrittiva né consegnato ad un altro Stato" (art.699 c.1 c.p.p.), tranne che “avendone avuta la possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato al quale è stato consegnato trascorsi 45 99. dalla sua definitiva liberazione ovvero, avendo lasciato, vi abbia fatto volontariamente ritorno". Medesima garanzia vale anche per chi venga estradato in Italia da un paese straniero. In virtù del principio di sussidiarietà, l'estradizione non può essere concessa se, per lo stesso fatto, nei confronti del soggetto è in corso un procedimento penale, mentre il divieto del ne bis in idem impedisce l'estradizione se è stata pronunciata sentenza irrevocabile dello stato. Infine, vengono considerati i limiti relativi al tipo di reato commesso, gli art. 10 e 26 Cost. impediscono l'estradizione per reati politici sia dello straniero che del cittadino. Nella prospettiva costituzionale la qualificazione del termine politico del fatto criminoso diviene, elemento di garanzia che impedendo l'estradizione dell'accusato lo tutela da possibili persecuzioni da parte del potere costitutivo degli stati contro gli oppositori. Da ciò si evince che la nostra dottrina tende a dare, del delitto politico, una definizione solo oggettiva in virtù della quale impediscono l'estradizione solo i fatti di reato commessi per opporsi a regimi che impediscono l'esercizio dei diritti politici. & Manuale di diritto penale Parte generale AI contrario, chi abbia commesso un crimine mosso da motivazione politica, se agisce contro la libertà e i diritti non beneficerà del divieto di estradizione. In sostanza, la costituzione intende evitare che un oppositore del regime dittatoriale possa essere estradato in quel paese e colpito in virtù della sua militanza politica a favore della libertà e democrazia. Peraltro si è imposta la necessità di consentire l'estradizione anche in presenza di reati che possono essere considerati politici. In tal senso, si è consentito l'estradizione per i colpevoli del delitto di genocidio, si sono esclusi dal novero dei delitti politici i reati in materia di illecita cattura di aeromobili; gli atti illegali compiuti contro la sicurezza dell'aviazione civile; i reati gravi che comportano un attentato alla vita, integrità fisica o libertà delle persone che godono di protezione internazionale; i reati che comportano il ricorso a bombe, granate, razzi, plichi o pacchi esplosivi. Un ulteriore vincolo è posto dall'art. 698 c.p.p. che dopo aver ribadito che non può essere estradato chi abbia commesso reati politici, vieta la concessione dell'estradizione quando l'imputato o condannato corre il rischio di essere sottoposto ad atti di persecuzione i di discriminazione per motivi di razza religione, sesso...; a pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti; ed atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona. Rilevante è il divieto di concedere l'estradizione per un reato che è punito con la pena di morte. In tal caso, l'estradizione può essere dato solo se lo stato straniero da assicurazioni, ritenute sufficienti sia dall'autorità giudiziaria sia dal Ministro di grazia e giustizia, che tale pena non sarà inflitta 0, se già inflitta, non sarà eseguita. 4.4. Mandato di arresto europeo Attualmente, tra gli stati europei, l'estradizione è stata sostituita dal mandato di arresto europeo, provvedimento emesso dall'autorità giudiziaria del paese, che impegna tutti gli altri stati a darvi esecuzione, per l'arresto di un ricercato o per l'esecuzione di una pena. L'emissione e l'esecuzione di tale mandato sono di esclusiva competenza giurisdizionale e prescindono da qualsiasi intervento dell'autorità governativa. Inoltre, non è previsto il sistema della doppia incriminazione. Il mandato d'arresto non può essere emesso per reati politici, tranne che per i fatti di genocidio e terrorismo. & Manuale di diritto penale Parte generale PARTE TERZA IL REATO CAPITOLO IX STRUTTURA GENERALE DEL REATO 1.La teoria sulla struttura del reato. Fu merito della scuola classica avere avviato in modo significativo lo studio del diritto penale attraverso l'analisi del reato quale ente giuridico astratto: si affermò che il reato era composto da 2 elementi, una forza fisica, corrispondente all'elemento oggettivo, l'altro forza psichica, corrispondente all'elemento soggettivo. Ciò aveva portato al fatto che, il modello analitico nello studio del reato aveva portato ad un eccesso di concettualismo dogmatico, che non serviva a nulla. La critica al modello analitico è arrivata da alcuni autori tedeschi che proposero di affrontare l'analisi del reato secondo un modello sintetico. Confermata l'arbitrarietà del modello induttivo il fatto che lo stesso si sia affiancato a due momenti di crisi del diritto penale tedesco durante il nazionalsocialismo: l'ingresso dell'analogia in materia penale ed il diritto penale d'autore. Dunque, l'unico approccio possibile allo studio del reato non può che essere di tipo analitico e sul punto la dottrina ha elaborato diversi modelli di teoria generale finalizzati ad incasellare entro categorie generali gli elementi costitutivi della fattispecie. Le 2 principali correnti dottrinali optano per la bipartizione o tripartizione del reato. Secondo la concezione bipartita, il reato si compone di 2 elementi: il fatto oggettivo e l'elemento soggettivo. Nel fatto oggettivo sono compresi tutti gli elementi oggettivi richiesti dalla singola fattispecie incriminatrice (c.d. elementi positivi del fatto): ad es., nel delitto di omicidio la causazione della morte dell'uomo; nel furto la sottrazione e impossessamento della cosa altrui. La presenza di tali elementi non è sufficiente ad integrare gli estremi del reato, perché possono sussistere particolari situazioni in presenza delle quali il fatto è autorizzato o imposto dall'ordinamento giuridico. Si tratta delle c.d. cause di giustificazione che possono autorizzare o imporre (legittima difesa, adempimento di un dovere) un fatto che, in loro assenza, costituirebbe reato. Secondo la teoria bipartita le scriminanti costituiscono elementi oggettivi negativi del fatto che devono mancare affinché il reato esista. AI fatto, si affianca l'elemento soggettivo in quanto la responsabilità penale non può essere fondata solo sulla base di elementi di natura oggettiva. Secondo i suoi sostenitori tale teoria corrisponde la disciplina degli art. 47 e 59 ult.c. c.p. l'art.47 prevede che l'errore sul fatto esclude la punibilità, ma se si tratta di errore determinato da colpa, residua una responsabilità colposa, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo. L'art. 59 ult. c. c.p. disciplina l'errore sull'esistenza della causa di giustificazione: qui il soggetto erroneamente si presenta in una situazione che darebbe luogo all'applicazione di una causa di giustificazione. Secondo la teoria tripartita, gli elementi costitutivi del reato vanno ricondotti alle 3 categorie del fatto tipico, dell'antigiuridicità e della colpevolezza: la prima include gli elementi oggettivi del reato; nella seconda ci sono le cause di giustificazione e nella terza si Manuale di diritto penale Parte generale ed extrafunzionali, a seconda che la non punibilità riguardi solo i reati commessi nell'esercizio delle funzioni legate all'ufficio o investa anche gli atti realizzati al di fuori dell'esercizio delle funzioni. Un'altra importante distinzione è tra immunità sostanziali e processuali: le prime sono cause personali di non punibilità, le seconde interessano il processo e consistono in ostacoli al promovimento dell'azione penale o al compimento di specifici atti processuali. Le immunità spezzano il legame tra reato e punibilità, sollevando la questione della loro compatibilità con il principio di uguaglianza: l'eccezione alla obbligatorietà della legge penale, richiede una copertura costituzionale che consenta di giustificare l'esenzione della pene o degli ostacoli processuali. Le immunità si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni di determinati organi, tramite la protezione del titolare della carica, derogando al regime giurisdizionale comune e quindi al principio di uguaglianza. 2.1. Immunità di diritto pubblico interno Tra le immunità di diritto pubblico interno si segnalano quelle previste dalla costituzione o da leggi Cost., queste non hanno problemi di copertura costituzionale. Ai sensi art.90 Cost., il Presidente della repubblica non risponde per gli atti commessi nell'esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione; in tal caso è messo in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti ed è giudicato dalla corte costituzionale in composizione integrata. Tale immunità è strumentale all'espletamento degli altissimi compiti che la costituzione gli affida, nella veste di capo dello stato. Spetta anche al presidente del senato, quando esercita la funzione di supplenza per le funzioni del presidente della repubblica. Si tratta di una immunità solo funzionale che non copre gli atti commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni presidenziali, commessi prima o durante dell'assunzione della carica. I parlamentari godono di un'immunità sostanziale e una processuale finalizzata a consentire l'esercizio di funzioni parlamentari al di fuori di condizionamenti esterni. L'immunità sostanziale interessa le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni parlamentari: si tratta di un'immunità funzionale che non copre tutti gli atti commessi nell'esercizio delle funzioni, ma solo le opinioni espresse e i voti dati. Questa immunità interessa in particolare i reati di ingiuria, diffamazione e i reati di opinione. L'art.68 della Cost. richiede un nesso di funzionale delle opinioni espresse con l'esercizio delle funzioni parlamentari, espresse anche al di fuori del parlamento, purché permanga il nesso funzionale. I commi 2 e 3 dell'art. 68 Cost. prevedono una immunità di tipo processuale che non impedisce né le indagini, né il processo penale verso i parlamentari, ma non consente l'addizioni di specifici atti procedurali senza autorizzazione della camera a cui il parlamentare appartiene: perquisizione personale, domiciliare; arresto, detenzione, intercettazioni di qualsiasi tipo... queste limitazioni sul piano processuale interessano anche gli atti commessi al di fuori dell'esercizio delle finzioni parlamentari. I consiglieri regionali godono di immunità sostanziale analoga a quella dei parlamentari. Ai membri del consiglio superiore della magistratura non rispondono per le opinioni date e i voti espressi nell'esercizio delle loro funzioni, questa immunità è data da una legge ordinaria, ma la corte costituzionale ha riconosciuto la copertura costituzionale, in quanto l'immunità è Manuale di diritto penale Parte generale rigorosamente circoscritta alle sole manifestazioni di pensiero funzionali all'esercizio dei poteri-doveri spettanti ai componenti del CSM. La legge n.124/2008 c.d. lodo Alfano (che segue il lodo Schifani dichiarato illegittimo) aveva previsto la sospensione del processo penale verso le più alte cariche dello stato (presidente della repubblica, del senato, della camera, del ministro dei consigli) dalla data dell'assunzione della carica. La sospensione si applicava anche ai fatti antecedenti, quindi norma processuale con effetto molto ampio, anche se la legge prevedeva la possibilità di rinunciare alla sospensione. La corte costituzionale né dichiarò l'illegittimità costituzionale per violazione degli art.3 e 138 Cost., in quanto essendo stata introdotto con una legge ordinaria, mancava di copertura costituzionale idonea a giustificare la disparità di trattamento. 2.2. Immunità di diritto internazionale Le immunità di diritto internazionale si fondano su convenzioni internazionali, alle quali è stata data attuazione con lg. Ordinaria. Godono di immunità assoluta, sostanziale e processuale, funzionale ed extrafunzionale, i capi dello Stato estero quando si trovano in terreno di pace nel territorio dello stato italiano; incluso anche il Pontefice. Godono di immunità, anche gli atti commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni, gli appartamenti al corpo diplomatico, mentre i consoli e gli impiegati consolari hanno un immunità funzionale e per gli atti commessi al di fuori dell'esercizio delle loro funzioni non possono essere assoggettati a custodia cautelare in carcere, a meno che non si tratti di delitto punito con la reclusione non inferiore nel max. a 5 anni. I parlamentari europei non sono punibili per le opinioni espresse e i voti nell'esercizio delle loro funzioni. I militari di uno stato estero presenti nel territorio italiano sono assoggettati alla legge dello stato di appartenenza per i reati commessi in servizio. 3. Gli enti collettivi quali soggetti attivi del reato. Tradizionalmente solo le persone fisiche sono destinatarie della legge penale, per le persone giuridiche sono previste solo sanzioni civili o amministrative. Nel nostro sistema penale sono stati adottati argomenti contrari alla responsabilità penale delle persone giuridiche fondati su norme di legge ordinaria e costituzionale. Un argomento è desunto dall'art. 197 c.p. che prevede l'obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento di multe e ammende: “gli enti forniti di personalità giuridica, qualora sia pronunciata condanna per un reato contro chi ne abbia la rappresentanza o l'amministrazione e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, sono obbligati al pagamento di una somma pari all'ammontare della multa o ammenda inflitta". Si tratta di un caso di responsabilità dell'ente perché si tratta del pagamento di una somma di ammontare pari a quello della sanzione pecuniaria inflitta alla persona fisica. Contro la responsabilità penale delle persone giuridiche è stato invocato anche l'art.27 c.1 Cost. il principio della responsabilità penale personale, che imporrebbe di chiamare a rispondere del reato solo la persona fisica che lo ha realizzato e non l'ente, che è soggetto diverso e sul quale non possono essere fatti ricadere le sanzioni per un fatto commesso da altri. L'argomento potrebbe essere superato attraverso il principio di immedesimazione & Manuale di diritto penale Parte generale organica tra persona fisica ed ente, principio secondo il quale i fatti commessi dalla persona fisica sono direttamente imputabili all'ente. Peraltro, l'art.27 c.1 Cost. ha ricevuto una interpretazioni impregnante che impone una responsabilità per fatto proprio colpevole. Per superare i limiti dell'art.27 si è proposto di prevedere a carico delle persone giuridiche non pene, ma misure di sicurezza che prescindono dalla colpevolezza del destinatario della misura e presuppongono solo la pericolosità sociale. In senso contrario alla resp. Penale delle persone giuridiche stata addotta anche la funzione rieducativa della pena, alla quale debbono tendere le pene: solo le persone fisiche sono rieducabili, non quelle giuridiche che possono cambiare il proprio organigramma interno. La dottrina ha messo in discussione la tradizionale refrattarietà ad ammettere una responsabilità penale dell'ente. È stato rilevato che alcune tipologie di reato non sono il risultato della decisione di una o più persone fisiche, alle quali il reato è imputabile oggettivamente e soggettivamente, ma hanno la loro genesi nella complessività dell'ente collettivo all'interno del quale il reato viene commesso: le dinamiche interne finiscono per avere un ruolo determinante nella commissione del fatto. Vi sono reati che vengono commessi all'interno dell'ente e sono espressione di politiche di impresa. Ora, se in relazione a reati che trovano la propria origine in più ampie strategie di impresa fosse chiamata a rispondere solo la persona fisica autrice del reato, la risposta sanzionatoria sarebbe del tutto sproporzionata: non terrebbe conto del contesto societario in cui il reato è stato commesso si tradurrebbe nella violazione dell'art.27 Cost., perché la persona fisica risponderebbe di un fatto che non gli può essere del tutto rimproverato. Anche sul piano dell'efficacia del sistema sanzionatorio, si è rilevato che solo responsabilizzando l'ente si garantirebbe una risposta penale proporzionale ed efficace. Parte della dottrina ritiene che non vi siano preclusioni a riferire la funzione rieducativa della pena alle persone giuridiche, sia nell'accezione negativa sia in quella positiva: è possibile concepire sanzioni in chiave di naturalizzazione della pericolosità dell'ente o in chiave “rieducativa"”, attraverso interventi strutturali sull'ente. A rendere più complesso il rapporto tra responsabilità della persona fisica e giuridica contribuisce la dipendenza delle conseguenze penali a carico della persona fisica da decisioni che solo l'ente può prendere: si pensi all'obbligazione facoltativa (art. 162-bis c.p.) concessa solo se l'autore del reato elimina le conseguenze dannose o pericolose del fatto, che in genere possono essere rimosse solo per intervento della persona giuridica. A livello di normativa sovrannazionale UE ed il consiglio d'Europa avevano sollecitato la corresponsabilizzazione dell'ente in relazione ai reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio. 3.1. La responsabilità amministrativa degli enti dipende da reato (d.lgs. 231/2001) Con il d.lgs. n. 231/2001, in attuazione della |. n. 300/2000, il legislatore ha introdotto nel nostro sistema la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e associazioni anche senza personalità giuridica. È un articolato complesso normativo che prevede disposizioni sostanziali e processuali che disciplinano le responsabilità degli enti in dipendenza alla commissione di un reato. La disciplina si applica agli enti forniti di personalità giuridica, società, associazioni. Sono previste delle garanzie che riprendono la disciplina penale del principio di legalità con i suoi sottoprincipi: riserva di legge, principio di determinatezza e tassatività, irretroattività... Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO XI CONDOTTA ED EVENTO 1.La condotta nell'ambito degli elementi costitutivi del fatto di reato Nella struttura del reato gli elementi oggettivi essenziali della fattispecie integrano il fatto tipico, che costituisce il 1° elemento oggettivo di accertamento da parte del giudice. In esso rientrano gli elementi oggettivi costitutivi del reato, ossia quelli che devono sussistere affinché il fatto integri gli elementi della fattispecie incriminatrice. È composto da: presupposti della condotta; qualifiche soggettive del soggetto attivo e passivo, oggetto materiale della condotta, evento e se questo è presente rapporto di casualità tra l'evento e la condotta dell'autore. 2. Condotta e suitas. Il 1° elemento del fatto tipico è costituito dalla condotta umana che può essere attiva, quando si estrinseca in un movimento muscolare; passiva, quando è omissiva e consiste in un non facere. Nel primo caso il precetto è costituito da una norma divieto, nel secondo caso da una norma comando. La condotta costituisce un requisito indefettibile del reato. La dottrina a cercato una nozione unitaria di azione in grado di contenere tutte le possibili forme di condotta del reato, tale tentativo è fallito in quanto le condotte sono molto diverse tra loro. Piuttosto che elaborare una nozione in positivo di azione in grado di includere tutte le possibili tipologie d'azione, è più utile partire da un dato normativo. L'art. 42 c.1 c.p. prevede che “nessuno può essere punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato, se non commesso con coscienza e volontà" Coscienza e volontà vanno riferite esclusivamente all'azione od ammissione e non all'intero fatto di reato. In alcuni casi coscienza e volontà dell'azione o omissione corrispondono ad un dato psicologico effettivo; vi sono, però, condotte che si collocano al di sotto della zona lucida della coscienza: non sono sorrette da coscienza e volontà effettive, ma sarebbe irragionevole considerarle sempre penalmente rilevanti. AI di sotto della zona lucida della coscienza alcune condotte possono essere controllate da una maggiore attenzione del volere: es. caio in una giornata torrida estiva lascia il figlio in macchina, il bambino muore nel sonno. In tal caso cosa una attenzione maggiore si avrebbe potuto evitare tale condotta. In tal caso si è in presenza di una condotta e volontà potenziali. È ciò che accade negli atti abituali e in quelli automatici. Ci possono essere atti per i quali non è possibile ravvisare alcuna coscienza e volontà perché, il soggetto non avrebbe mai potuuto impedire l'azione o l'omissione: atti istintivi e quelli riflessi. Se sussiste coscienza e volontà nell'azione o nella commissione si può dire che la condotta è propria del soggetto, gli appartiene (questo spiega perché questo requisito soggettivo sia anche chiamato suitas). L'elemento della coscienza e volontà non sussiste in tre casi; a) In presenza di una forza maggiore b) In caso di costringimento fisico c) Nel caso vi è stato di incoscienza indipendente dalla volontà. & Manuale di diritto penale Parte generale Questi 3 casi evidenziano come in assenza di coscienza e volontà la condotta non possa essere considerata propria del soggetto . questo elemento soggettivo è così connesso all'azione o all'omissione che, mancando coscienza e volontà, viene meno la stessa condotta penalmente rilevante: viene a mancare un elemento oggettivo del reato (la condotta). Ne consegue che il soggetto va assolto con la più ampia formula "perché il fatto non sussiste”. 3. I presupposti della condotta I presupposti della condotta possono essere naturalistici e giuridici. Questi costituiscono elementi costitutivi del fatto di reato. 4. La nozione di evento Il codice penale utilizza il termine evento, senza darne una definizione. La nozione di evento naturalistico si identifica con le modificazioni del mondo esterno cagionate dalla condotta e considerate dalla legge come elemento costitutivo di fattispecie. In questa accezione l'evento è temporaneamente e logicamente staccato dalla condotta. A questa nozione si contrappone quella di evento giuridico, consistente nell'offesa dell'interesse tutelati dalla norma incriminatrice. A differenza dell'altra accezione l'evento giuridico non è separabile dalla condotta, perché lo stesso fatto di reato visto sotto il profilo dell'offesa al bene giuridico; ne consegue che tale evento è presente in tutti i reati. Spetta all'interprete valutare caso per caso quale accezione utilizzare. 5. Distinzione dei reati in relazione alla condotta. Possono essere distinte diverse tipologie di reato in relazione alle loro particolari modalità di condotta. a) Reati di azione e di omissione. Nei reati di azione è presente una condotta attiva che si estrinseca in un movimento muscolare realizzato attraverso uno o più atti. Nei reati di omissione il legislatore incrimina il non agire del soggetto quando una norma lo impone. b) Reati di pura condotta e di evento Nei reati di pura condotta la fattispecie si esaurisce in una condotta attiva o omissiva. Nei reati di evento quelle fattispecie in cui è presente come elemento costitutivo un evento naturalistico. c) Reati a condotta vincolata e a forma libera Sono reati a condotta vincolata i casi in cui la legge richiede specifiche modalità di condotta. Ad es. nel delitto di estorsione è necessaria la violenza o la minaccia. Sono reati a condotta libera i reati nei quali la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta che cagiona l'evento: nell'omicidio attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta causativa. Nei reati a condotta vincolata la tipicità della condotta è delimitata dalla scelta del legislatore in sede di descrizione della fattispecie; nei reati a forma libera il criterio di tipizzazione della condotta è costituito dal nesso di casualità: è tipica & d Manuale di diritto penale Parte generale qualsiasi condotta che sia condizione dell'evento (per ciò definiti anche reati causali puri o casualmente orientati). Reati istantanei, permanenti e abituali Nei reati istantanei la condotta si realizza in un solo istante: questi reati si consumano in uno specifico momento. Ad es. il furto si consuma quando il bene esce dalla disponibilità di chi su di esso vanta un maggior potere. Nei reati permanenti si richiede la protrazione nel tempo di una condotta, alla quale si accompagna il permanere dell'offesa al bene giuridico. È il caso del sequestro di persona. In tali reati sono presenti due momenti, il momento iniziale di permanenza (perfezione del reato) si realizza quando la protrazione della condotta per un certo lasso di tempo consolida l'offesa al bene giuridico tutelato. La permanenza cessa quando l'autore della condotta liberamente interrompe l'azione 0 quando cmq circostanze esterne le fanno cessare: si parla di momento finale della permanenza (consumazione). La particolare struttura del reato permanente lo rende compatibile con i beni giuridici comprimibili: beni che la condotta non li pregiudica in modo definitivo. Nei reati abituali il fatto è descritto in modo da richiedere la reiterazione di una pluralità di azioni che vengono considerate come una sola condotta. Può essere proprio o improprio. & Manuale di diritto penale Parte generale 3.2. L'obbligo giuridico di impedire l'evento Nella struttura del reato omissivo improprio svolge una funzione essenziale l'obbligo giuridico di impedire l'evento, perché solo per i titolari di tale dovere l'omissione è equiparata alla condotta attiva. I reati omissivi impropri sono reati propri, in quanto presuppongono una particolare qualifica personale definita dalla titolarità dell'obbligo giuridico di impedire l'evento che deve preesistere alla situazione di pericolo per il bene. L'individuazione dell'obbligo giuridico di impedire l'evento non è risolta dall'art. 40 cpv. c.p. che si limita a richiede un obbligo giuridico: è in tal modo esclusa la rilevanza di obblighi di natura morale o sociale. La norma presenta un contenuto indeterminato, colmato dagli interpreti attraverso soluzioni con contenuti molto diversi. Per individuare tale obbligo di impedire l'evento sono state proposte varie teorie. 3.2.1. La teoria formale La teoria formale dell'obbligo giuridico di impedire l'evento si fonda sulle fonti formali dell'obbligo: la legge: il contratto; la precedente attività pericolosa. A causa del richiamo a queste 3 fonti, si è parlato di teoria del trifoglio. Parte della dottrina ha aggiunto ad esse anche la consuetudine e la negotiorum gestio. Questa impostazioni ha incontrato dei rilievi critici. Se l'individuazione dell'obbligo giuridico di impedire l'evento deve essere fondata su fonti formali, allora manca una fonte formale che imponga di attivarsi in presenza di una precedente attività pericolosa. Il richiamo a qualunque fonte legale rischia una eccessiva dilatazione della resp. penale, perché con l'art.40 c.p. qualsiasi obbligo extrapenale si traduce in obbligo penale. Così, vengono frustrate le esigenze proprie del diritto penale. Infine, anche la fonte del contratto conduce a soluzioni inappaganti, perché basterebbe l'invalidità dello stesso ad escludere l'obbligo giuridico di impedire l'evento. La teoria formale si presenta per certi versi troppo ampia, per altri troppo rigida. 3.2.2. La teoria funzionale La teoria funzionale o sostanziale individua i soggetti obbligati ad impedire l'evento attraverso le c.d. posizioni di garanzia. Vi sono casi in cui i titolare del bene non è in grado di tutelarlo, l'ordinamento individua un garante, tutelando il bene. La posizione di garanzia è connotata da tre requisiti. È necessario che il garante sia titolare di obblighi impeditivi, perché esso risponde del mancato impedimento dell'evento. Non è sufficiente a fondare la responsabilità la presenza di meri obblighi di sorveglianza non accompagnati da poteri impeditivi di natura tale da consentire al garante di evitare il verificarsi dell'evento. Bisogna precisare che, non si richiede che il soggetto disponga dei poteri per impedire direttamente l'evento, è sufficiente che abbia poteri sollecitatori, volti a far intervenire chi dispone del potere per evitare l'evento. È necessario che la titolarità di tali poteri sia accompagnata dalla capacità di esercitarli. Tale titolarità deve essere precostituita, la posizione di garanzia non si costituisce al verificarsi della situazione di pericolo, ma precedentemente. Manuale di diritto penale Parte generale E infine necessario che la posizione di garanzia abbia carattere specifico, ossia che il garante sia tale in relazione a specifici beni, non sono accettate posizioni di garanzia generale, perché ciò è contrario al principio di determinatezza e perché il garante sarebbe gravato da un obbligo troppo ampio per impedire il verificarsi dell'evento lesivo. 3.2.3. La teoria mista Entrambe le teorie esaminate colgono elementi importanti della struttura del reato omissivo improprio: la teoria formale evidenza la necessità di una base normativa dell'obbligo giuridico di impedire l'evento; la teoria funzionale coglie l'aspetto della precostituzione del garante. La teoria mista accoglie i principi elaborati dalla teoria funzionale, ma richiede una base legale delle posizioni di garanzia. Spetta alla legge individuare le posizioni di garanzia, ma è necessario che queste ultime presentino i caratteri della precostituzione e della specificità. È compito dell'interprete differenziare gli obblighi di impedimento, che fondano le posizioni di garanzia, dai meri obblighi di sorveglianza che non consentono alla clausola di equivalenza dell'art.40 cvp. c.p. di operare. 4. Tipologia delle posizioni di garanzia. Le posizioni di garanzia vengono distinte in protezione e posizione di controllo. La posizione di protezione impone di preservare il bene protetto dai rischi che possono ledere l'integrità: il garante ha sotto la sua protezione un bene che deve salvaguardare da possibili offese. È il caso dei genitori nei confronti dei figli minori oppure, il medico rispetto alla salute del paziente che ha in cura... Si ritiene che anche tra i coniugi sussista una reciproca posizione di garanzia, a condizione che i soggetti siano legati da vincolo matrimoniale avente effetti civili. Più discussa è la sussistenza di una posizione di protezione in relazione alle coppie di fatto: a nostro avviso, l'assenza di una norma che riconosce tale unione non consente di fondare una responsabilità omissiva, salvo che tale responsabilità non nasca da situazioni di affidamenti di fatto. Le posizioni di controllo impongono di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possono minacciare i beni terzi: in questo caso il garante ha sotto la propria responsabilità il controllo di una fonte di pericolo e diventa garante dei beni che possono essere offesi da essa (es. proprietario di un animale o di un edificio che minaccia la rovina). A queste due categorie di posizioni di garanzia, parte della dottrina ne aggiunta un'altra che ha ad oggetto il mancato impedimento di reati commessi da terzi. Si tratta dell'applicazioni dell'art. 40 cpv c.p. in ambito concorsuale. Rinviando all'analisi del concorso di persone i problemi inerenti alla partecipazione mediante condotta omissiva, tali posizioni di garanzia possono essere ricondotte a due categorie tradizionali. Alcune sono assimilabili a posizioni di protezione: es. guardia del corpo, la posizione dei genitori per i reati commessi a danno dei figli minori o incapaci. Altre volte l'obbligo giuridico di impedire una condotta illecita altrui assume i tratti di una posizione di controllo: es. persona a cui è affidato un minore, la quale non impedisce che il minore di commettere un reato; la cassazione ha visto in capo a tale persona una posizione di & Manuale di diritto penale Parte generale garanzia in ordine al corretto comportamento del minore, quando si possa prevedere il fatto e si possa intervenire affinché non avvenga. Le posizioni di garanzia possono essere originarie, lo sono quando il garante è individuato da una norma di legge, es. genitori, coniugi, amministratori di società. Le posizioni di garanzia possono essere derivate, quando possono essere trasferite. La fonte di tale trasferimento può essere la legge, il contratto e deve avvenire a determinate condizioni. È necessario che oltre a trasferire la posizione di garanzia, vi sia la concreta presa in carico del bene da parte del garante derivato. Complessa può risultare l'individuazione dei limiti della responsabilità penale nel caso di pluralità di posizioni di garanzia succedutesi le une alle altre, come nel caso della cessione di una azienda con conseguente successione dei datori di lavoro. La giurisprudenza esclude che il 1° garante si liberi dell'eventuale responsabilità, solo per il fatto che gli sia subentrato un 2° garante, in quanto in questo caso alla garanzia del primo si aggiunge quella del secondo qualora non sia intervenuto sulle situazioni di rischio realizzate dal precedente garante. Il primo garante è liberato dalla posizione di garanzia se chi lo ha succeduto nell'amministrazione dell'impresa abbia eliminato le situazioni di pericolo. Un secondo requisito per il trasferimento delle posizioni è quello della volontà del titolare del bene o del garante originario di trasferirla. La cassazione ha dato rilevanza ex art. 40 cpv. c.p. anche all'assunzione volontaria di una posizione di garanzia. Controversa è la possibilità di fondare le posizioni di garanzia su situazioni di mero fatto, è possibile riconoscere la sussistenza di una posizione di garanzia fondate sulla convivenza in due casi. 1° caso è quello in cui è la legge a riconoscere rilevanza alla assunzione di fatto di poteri inerenti agli obblighi di tutela. 2° caso, più controverso, è quello in cui il rapporto di fatto tra i soggetti abbia determinato il concreto affidamento del bene da parte del suo titolare ad altro soggetto che ne abbia assunto la tutela: anche in tal caso sussistono i presupposti per l'assunzione di una posizione di garanzia. Si consideri il caso di una coppia di fatto, nella quale un componente non intervenga per impedire la lesione dell'incolumità fisica della compagna/o che si trovi in gravi condizioni di salute. In tal caso, sarebbe il concreto affidamento del bene ad altro soggetto che ne assume la tutela, a rendere quest'ultimo garante per la sua salvaguardia. 5. Problemi aperti nella individuazione delle posizioni di garanzia I problemi dell'individuazione della responsabilità penale per reato omissivo improprio stanno nell'inadeguatezza della disciplina dell'art.40 c.p.; l'indeterminatezza di questa norma non è colmata dal diritto vivente. Manuale di diritto penale Parte generale casualità tra condotta ed effetto atipico che la stessa ha prodotto. Innanzitutto, manca un qualsiasi appiglio normativo a fondamento di questa teoria, perché l'inidoneità non connota né un azione, né un'omissione, né le cause preesistenti. Le esigenze di limitare la resp. penale possono essere meglio soddisfatte sul terreno dell'elemento soggettivo, che deve essere sempre accertato con giudizio ex ante, al momento della condotta. 4. Teoria della casualità umana. L'altra teoria correttiva della casualità condizionalistica è stata elaborata da Francesco Antolosei. Secondo lui, la casualità delle condotte dell'uomo presenta proprie specificità, in quanto l'uomo ha una sfera di signoria che gli consente di dominare una serie di circostanze nelle quali si inserisce la sua condotta: i fattori che rientrano in questa sfera di signoria possono essere considerati causati dall'uomo, perché dominabili dallo stesso; i fattori che fuoriescono da questa sfera non possono essere imputati al soggetto, perché si tratta di fattori eccezionali, imprevedibili. Secondo l'autore, la sussistenza del rapporto di casualità richiede 2 elementi uno positivo ed uno negativo: è necessario che la condotta costituisca condicio sine qua non dell'evento mediante giudizio controfattuale, è però necessario che non sia intervenuto un fatto eccezionale il quale interrompe il nesso. Es: caio, ferito da tizio con intenzione omicida, viene portato in ospedale per essere curato e lì muoia a seguito di incendio sviluppatosi in ospedale: in tal caso la condotta di tizio, che è condizione dell'evento morte, non è legata da un rapporto di casualità giuridica perché è intervenuto un fattore eccezionale che ha interrotto il nesso casuale. Questa soluzione è accolta in giurisprudenza che esclude il nesso causale tra condotta ed evento quando interviene un fattore eccezionale che rompe il legame eziologico. 5. Teoria dell'imputazione oggettiva dell'evento. Un altro orientamento dottrinale introduce il criterio dell'aumento del rischio in funzione di restrizione dell'imputazione penale rispetto ad una condotta di cui sia stato accertato il valore condizionalistico (teoria della imputazione oggettiva dell'evento). Anche questa teoria si configura come correttivo della teoria condizionalistica. Affinché un evento possa essere imputato ad una condotta sono necessari 3 requisiti: a) condotta condizione dell'evento b) la condotta deve aver creato un pericolo riprovato dall'ordinamento (es: nipote invita lo zio a viaggiare in aereo, sperando che nel viaggio esso perisca e ciò avviene, non vi è responsabilità del nipote in quanto tale evento rientra nei normali rischi, diversamente sarebbe stato se il nipote fosse stato a conoscenza di una avaria dell'aereo o della preparazione di un attentato). c) l'evento deve essere la realizzazione del rischio non consentito. La teoria dell'imputazione oggettiva sposta sul piano oggettivo la soluzione del problema di imputazioni, che la dottrina risolve sul piano soggettivo. Ai fini dell'affermazione della resp. penale non basta accertare il nesso di casualità, ma è necessaria anche la presenza di una componente psichica, in termini di dolo o colpa. Manuale di diritto penale Parte generale 6. La sussunzione sotto le leggi scientifiche. Torniamo alla teoria condizionalistica. Il procedimento di eliminazione mentale, di cui la stessa si avvale, funziona nella misura in cui si conosca la legge di copertura che spiega che ad un certo fattore ne segue un altro: se tizio spara al cuore a caio, la casualità della condotta di tizio rispetto all'evento morte non può essere spiegata in termine di mera successione temporale tra eventi. Per tornare all'esempio dello sparo, la casualità della condotta di tizio può essere desunta attraverso il procedimento di eliminazione mentale che funziona solo perché si conoscono gli effetti letali che provoca un proiettile che colpisce il cuore. L'esempio fatto è semplice, ma l'accertamento diventa più difficile si complica in presenza di eventi di natura multifattoriale (es. sviluppo di tumori che possono essere causati in fattori professionali dipendenti dalle condizioni di lavoro). È quindi necessario che il rapporto di casualità sia spiegato facendo riferimento a leggi scientifiche (c.d. sussunzione sotto le leggi scientifiche di copertura). Il giudice deve passare da un modello di individuazione ad un metodo generalizzante nella spiegazione del nesso si casualità; deve partire dal caso concreto, ridescrivendolo (c.d. descrizione dell'evento), estraendo alcune connotazioni della vicenda concreta e dando rilevanza alle sue modalità tipiche e ripetibili ai sensi della legge scientifica secondo la quale a fattori generali del tipo A, analogo al fattore che in concreto si è verificato (a), segue un evento generale di tipo B, analogo a quello che si è verificato in concreto (b). Il giudice non crea le leggi scientifiche per spiegare il rapporto tra gli eventi, ma usa le leggi scientifiche, in modo da garantire il massimo della certezza nell'accertamento del nesso di casualità. A volte, le leggi sono universali, altre volte sono statistiche, perché consentono di affermare che ad A segue B solo in una certa percentuale di casi. Limitare l'accertamento del nesso attraverso le sole leggi universali significherebbe frustare le stesse esigenze del diritto penale. Quindi il giudice può avvalersi anche delle leggi statistiche che sono tanto più attendibili quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma empirica attraverso metodi controllabili. Oltre alla leggi scientifiche, il giudice può ricorrere alla generalizzate regole di esperienza, massime che stabiliscono una connessione tra avvenimento secondo attendibili risultati di generalizzazione. Il giudice deve accertare l'esistenza di c.d. assunzioni tacite, principi che si assumono per dimostrati o di alcuni passaggi casuali che la scienza non riesce a dimostrare. Ultima notazione: agli effetti del nesso di casualità il giudice deve considerare sempre lo stato delle conoscenze presenti al momento del giudizio, perché si tratta di accertare un elemento di natura oggettiva ed il giudizio di casualità è sempre ex post. Un ragionamento diverso, deve essere fatto dal giudice quando, accertato il nesso casuale, si chiede se l'autore abbia agito con colpa: qui la prevedibilità ed evitabilità dell'evento sono accertate con giudizio ex ante, facendo riferimento alle conoscenze scientifiche disponibili al momento della condotta. La necessità di mantenere fermo il principio condizionalistico, integrato con il criterio di sussunzione sotto le leggi scientifiche, garantisce il rispetto dei principi costituzionali di legalità e di personalità della resp. penale. In particolare, svolge un funzione tipizzante, in quanto delimita l'ambito delle condotte parzialmente rilevanti. Manuale di diritto penale Parte generale 7. La casualità omissiva e l'approdo della giurisprudenza alle Sezioni unite (sentenza Franzese) @ I problemi sollevati dal rapporto di casualità si amplificano in presenza di una condotta omissiva. Si consideri il caso di una malattia che produce la morte per effetto degli agenti patogeni che aggrediscono le funzioni vitali dell'organismo: la morte è causata da fattori naturali il cui decorso non è condizionato dalla condotta omissiva del medico, che non ha eseguito le terapie che avrebbero salvato la vita del malato. Si spiega così il disposto dell'art.40 cpv. c.p., secondo il quale “non impedire un evento che si aveva l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo". Si sostiene che la casualità omissiva ha natura ipotetico-normativa. Ha natura normativa, perché è la legge a considerare equivalente alla condotta attiva quella passiva. Ha natura ipotetica, in quanto l'accertamento del nesso di casualità in presenza di una condotta omissiva richiede un ragionamento doppiamente ipotetico: è necessario individuare quale azione doverosa il titolare della posizione di garanzia avrebbe dovuto tenere e poi chiedersi se l'evento sarebbe venuto meno. Deve essere riconosciuta natura commissiva alla condotta che ha introdotto nel decorso casuale un nuovo fattore di rischio. Il fatto che la casualità omissiva abbia carattere ipotetico e che il primo termine della relazione casuale sia costituito da un nihil facere, ha condotto la giurisprudenza ad accontentarsi di un minor rigore nell'accertamento della casualità omissiva: sarebbero sufficienti “serie e apprezzabili probabilità di successo” che l'azione doverosa omessa avrebbe impedito la verificazione dell'evento, accontentandosi anche di percentuali inferiori al 50%; in altri termini è sufficienti che la condotta omissiva abbia aumentato il rischio di verificazione dell'evento. Questo orientamento trasforma un illecito di evento in illecito di condotta rischiosa, perché il disvalore del reato non è incentrato sulla causazione dell'evento, ma sul disvalore della condotta. Parte della dottrina, per superare l'allentamento nell'accertamento della causalità omissiva, ha insistito sulla necessità di un identico grado di certezza tra casualità attiva e casualità omissiva: ha obiettato che anche in presenza di una condotta attiva si ricorre ad un ragionamento di tipo ipotetico attraverso il procedimento di eliminazione mentale, che è un giudizio contro-fattuale, ma non per questo il grado di certezza sulla sussistenza del nesso risulta affievolito; anche nell'accertamento della casualità attiva si deve ricorrere a leggi scientifiche di copertura e la maggior parte di queste ha carattere probabilistico. Nel settembre del 2000 si è assistito ad un importante mutamento di orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in 3 sentenze (sentenze Battisti riguardanti la resp. medica), ha richiesto che l'accertamento della casualità omissiva abbia lo stesso grado di quella attiva e che le leggi di copertura usate possiedano un coefficiente vicino al 100%. Tali pronunce hanno avuto l'effetto di restringere la resp. penale, soprattutto nella parte in cui hanno imposto il ricorso a leggi scientifiche con una probabilità confinante con la certezza. Il contrasto giurisprudenziale tra sentenze favorevoli all'allentamento dell'accertamento della casualità omissiva e il nuovo orientamento che si esprimeva in termini antitetici è stato composto da una fondamentale sentenza pronunciata dalla Cassazione a Sezioni unite (c.d. sentenza Franzese) che, partendo da un caso di responsabilità medica per condotta omissiva, ha fatto il punto sulla casualità attiva ed omissiva e sul grado di certezza delle leggi scientifiche utilizzabili, risolvendo il quesito di diritto se la sussistenza del nesso di casualità “debba essere ricondotta all'accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso Manuale di diritto penale Parte generale Il tratto differenziale tra le 2 impostazioni teoriche sta nel diverso ruolo riconosciuto al principio di offensività nel rapporto con il fatto tipico: secondo la concezione realistica l'offensività costituisce un elemento del reato che si aggiunge agli elementi del fatto tipico; secondo la teoria della tipicità apparente, l'offensività diventa criterio di interpretazione del fatto di reato. Tuttavia, entrambi gli orientamenti sostengono la necessità di garantire il rispetto del principio di offensività in concreto: il reato, per essere punibile, richiede sempre che ne si accerti la necessaria offensività. 2. Il principio di offensività in giurisprudenza. La Corte cost. fa operare l'offensività sia sul terreno della previsione normativa, sia sull'applicazione giudiziale: alle lesione in astratto, intesa quale limite alla discrezionalità del legislatore nell'individuazioni d'interessi meritevoli di essere tutelati mediante lo strumento penale, fa riscontro il compito del giudice di accertare in concreto, se il comportamento lede l'interesse tutelato dalla norma. Omette di prendere posizione sull'interpretazione art.49 cpv. c.p. proposta della concezione realistica del reato, anche se sottolinea l'importanza del contributo dottrinale alla riflessione sul principio di offensività. La Corte, insiste sulla necessità di garantire in concreto la necessaria offensività del reato, escludendo la mancanza di offensività in concreto integri un potenziale vizio di costituzionalità della norma penale. Un problema di legittimità costituzionale si può porre solo in relazione ad un diverso profilo dell'offensività in astratto, del quale ci siamo già occupati (cap III S 4.3), ossia quando si prevedono norme incriminatrici che non tutelano beni meritevoli di protezione, presentano il vizio della manifestata irragionevolezza. È importante sottolineare l'importanza che la Corte cost. riconosce alla stretta connessione tra offensività in astratto ed in concreto, quale strumento di controllo penale. Così il principio di offensività opera su due piani, quello della previsione normativa e quello dell'applicazione giurisprudenziale. 3. Il principio di irrilevanza penale del fatto Il principio di offensività consente di escludere la rilevanza penale del fatto nei casi in cui sia del tutto assente l'offesa all'interesse protetto. Può accadere che in concreto il fatto offensivo del bene giuridico tutelato, sebbene l'offesa non sia così grave. Si tratta dei c.d. reati bagatellari in concreto o impropri: qui la scarsa significatività sta nel tipo di bene offeso. L'offesa del bene giuridico non costituisce un elemento rigido che c'è o non c'è; l'offesa è un'entità graduale, tanto che si parla di gradualità del reato. Ci si chiede se l'offesa anche se poco significativa, giustifica l'intervento penale. A riguardo la giurisprudenza ha cercato di forzare il dettato dell'49 cvp. C.p. al fine di farvi rientrare anche i fatti dotati di esigua offensività. In tale direzione, si è avuto l'intervento di limitare l'intervento penale a fronte di fatti scarsamente rilevanti in ragione dell'irrilevanza dell'offesa arrecata al fatto, si è mosso il legislatore nell'ambito di due settori specifici in relazione ai reati commessi dai minori ed ai reati attribuiti alla competenza penale del giudice di pace. & Manuale di diritto penale Parte generale L'art. 27 d.p.r. n. 448/1988, che disciplina il processo penale minorile, prevede che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento. L'art. 3 d.lgs. 274/2000 prevede, in relazione ai reati attribuiti al giudice di pace, l'esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto. 4. I reati di pericolo. L'offesa al bene giuridico è assicurata dalla lesione che dalla messa in pericolo del bene giuridico tutelato. È possibile distinguere tra a) reati di danno in cui il bene giuridico è pregiudicato nella sua consistenza; b) reati di pericolo in cui è presente solo una probabile lesione del bene giuridico tutelato. Appartiene alla categoria dei reati di pericolo anche il delitto tentato, che costituisce fattispecie autonoma rispetto al delitto consumato. La distinzione tra i reati è agevole in presenza di beni tangibili, mentre è meno netta in presenza di fattispecie poste a tutela dei beni giuridici dotati di un maggior grado d'astrazione. Lo sviluppo dei reati di pericolo è l'effetto diretto delle scelte di politica criminale indotte alla proliferazione delle fonti di pericolo per i beni giuridici, per fronteggiare le quali il modello tradizionale del reato d'evento risulta inadeguato. Il legislatore ricorre allora alle tecniche di anticipazione della tutela penale, tra le quali assumono un ruolo centrale i reati di pericolo. I reati di pericolo vengono distinti in due categorie reati di pericolo in concreto e reati di pericolo in astratto o presunto, in ragione della tecnica di tipizzazione del fatto. 4.1. Reati di pericolo concreto Nei reati di pericolo concreto il pericolo è un elemento costitutivo espresso di fattispecie: nella strage (art.422 c.p.), sono necessari atti diretti a porre in pericolo l'incolumità pubblica. Spetta al giudice accertare in concreto la presenza di questo elemento. Sebbene la dottrina abbia a lungo discusso sulla nozione di pericolo, prevale l'identificazione di pericolo con un giudizio di relazione tra una certa situazione ed un evento futuro dannoso da prevenire: non basta qualificare il pericolo di giudizio in termini di mera possibilità di verificazione dell'evento futuro, ma si richiede un a consistente probabilità che l'evento si realizzi. Nell'accertamento del pericolo concreto è fondamentale distinguere il momento, la base ed il metro di giudizio. Il momento del giudizio indica il tempo nel quale deve essere compiuta la valutazione di probabilità dell'evento. Non si può procedere con una valutazione ex post. La valutazione va sempre fatta ex ante, secondo il giudizio di prognosi postuma: il giudice deve mentalmente porsi al momento della situazione da qualificare in termini di pericolo e chiedersi se apparisse probabile la verificazione dell'evento. La base del giudizio indica gli elementi della situazione concreta dei quali il giudice deve tener conto per esprimere la prognosi: secondo il giudizio a base parziale si tiene conto delle condizioni del fatto conoscibili da una persona che si trova nelle stesse condizioni; il giudizio a base totale prende in considerazione la totalità delle circostanze del caso presenti al momento del giudizio. & Manuale di diritto penale Parte generale Infine, il metro del giudizio indica i parametri che il giudice deve usare nell'accertamento del pericolo: si tratta delle stesse leggi scientifiche di copertura e di esperienza che si usano nell'accertamento del nesso di casualità. 4.2. Reati di pericolo astratto. Nei reati di pericolo astratto il pericolo non compare come elemento costitutivo di fattispecie, si limita a costituire la ratio della norma. Il giudice si deve limitare ad accertare che il fatto concreto sia conforme alla fattispecie astratta, senza accertare se lo stesso abbia messo in pericolo il bene tutelato. Es. nella contravvenzione alla guida in stato di ebrezza è punito chi guida con un tasso alcolemico superiore a quello consentito: il superamento della soglia integra la fattispecie di reato, anche se non è stata messa in pericolo l'incolumità fisica di altri utenti della strada, perché il soggetto era in grado di guidare. A differenza dei reati di pericolo concreto, questi sono più precisi, la situazione pericolosa viene ben descritta; ci possono essere problematiche in relazione al rispetto del principio di offensività, laddove il fatto concreto non costituisca alcun pericolo per il bene tutelato. La dottrina prevalente ha rilevato l'importanza dei reati di pericolo astratto proprio nella prospettiva della tutela dei beni giuridici: rispetto ad alcuni beni ed alle loro modalità di aggressione, sarebbe impensabile di realizzare la tutela attraverso reati di pericolo concreto, mentre è più efficace usare questi, che hanno il vantaggio di una maggior determinatezza. In particolare l'uso dei reati di pericolo astratto si usa come tecnica di tutela adeguata ad assicurare l'intervento penale in alcuni settori: a. Vengono in considerazione le c.d. attività seriali, nelle quali il bene giuridico è offendibile solo attraverso una pluralità di condotte: es. la salubrità delle acque può essere compromessa dal disastro ecologico causato da un industria chimica, che per un guasto immette sostanze nocive in quantità massicce nel fiume; più facilmente la qualità delle acque sarà compromessa dalla pluralità delle immissioni di minori quantità di sostanze inquinanti presenti nei rifiuti prodotti nel tempo da una o più industrie. b. I reati di pericolo astratto costituiscono uno strumento di tutela utilizzato in caso di violazione di regole a contenuto precauzionale. c. Il pericolo astratto connota anche che la fattispecie che sanzionano l'esercizio di attività in assenza della prescritta autorizzazione: si pensi al reato edilizio di costruzione di opere senza il permesso. d. I reati di pericolo astratto possono essere utilizzati in quei settori dove esiste incertezza scientifica in ordine alla nocività di certe sostanze o situazioni. La Corte costituzionale ha avvallato la legittimità del ricorso ai reati di pericolo astratto che non sono tout court da considerare incompatibili con le garanzie costituzionali: spetta al legislatore “l'individuazione sia delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo sia della soglia di pericolosità alla quale far riferimento, purché l'una e l'altra determinazione non siano irrazionali o arbitrarie." È quindi compito del legislatore prevedere fattispecie di pericolo astratto in cui siano descritti fatti che appaiono pericolosi. Un reato di pericolo astratto richiede un corretta tipizzazione del pericolo. A tal fine può essere utile il ricorso a termini semanticamente pregnanti, capaci di esprimere situazioni in concreto pericolose, ad es. il delitto di incendio, incrimina chiunque cagiona un incendio, è un reato astratto, il termine incendio indica una situazione di pericolo per l'incolumità pubblica. Manuale di diritto penale Parte generale In relazione ai principi generali va sottolineato che le cause di giustificazione devono rispettare il principio di riserva di legge. Quindi, nè la legge regionale né gl'atti dell'esecutivo possono costituire ex novo una causa di giustificazione o modificare le scriminanti. Ciò non esclude che fonti non statali possono influenzare l'ambito di applicazione di quelle cause di giustificazione a struttura aperta. Sempre in conformità ai principi generali va risolto il problema dell'estensione analogica delle cause di giustificazione. In linea teorica, è ammissibile un'estensione in via analogica di una causa di giustificazione; il problema è ridimensionato dalla difficoltà di riscontrare i presupposti dell'analogia. È raro individuare uno spazio che consenta un allargamento dell'applicazione delle scriminanti in quanto l'individuazione di una serie di requisiti da parte del legislatore preclude la possibilità di cogliere una lacuna. Un profilo importante di disciplina è costituito dalle disposizioni in tema di errore. L'art. 59 c.4 c.p. afferma che "Se l'agente ritiene che per errore esistano circostanze di esclusione della pena, queste devono essere valutate a suo favore. Se si tratta di errore da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come colposo". L'errore a cui si riferisce la norma è il c.d. errore di fatto, una non corretta percezione realtà esterna che genera la convinzione in chi agisce di trovarsi in una situazione che consentirebbe di giustificare il comportamento. L'art.59 c.4 c.p. non riguarda l'errore di diritto che può consistere nell'erronea credenza sull'esistenza di una causa di giustificazione o di un errore sui limiti normativi di una causa di giustificazione prevista; questa forma di errore è disciplinata dall'art.5 c.p. La simmetria riscontrabile tra errore sugli elementi costitutivi di un reato e la supposizione erronea di una causa di giustificazione fa emergere il problema della rilevanza di un errore su una norma extrapenale che influisca sull'ambito applicativo di una causa di giustificazione. Ad es. si pensi ad una erronea interpretazione di norme riguardanti il trasferimento del diritto di proprietà di una cosa o i limiti di tutela della stessa da cui derivi una relazione contro un'offesa ritenuta ingiusta alla luce di tale errore: la legittima difesa non è di per se applicabile per carenza dell'ingiustizia dell'offesa, ma occorre chiedersi se l'errore possa essere riconosciuto. La risposta non può che essere positiva, anche se secondo alcuni la soluzione va trovata nell'art.47 c. 3 c.p., secondo altri in una sua estensione analogica e secondo altri nell'art. 59 c. 4 estensivamente interpretato. Bisogna precisare che i presenza di scriminanti in bianco l'errore sulla norma che delinea il diritto o il dovere non è errore sulla legga extrapenale in quanto in essa costituisce il nucleo essenziale della causa di giustificazione e pertanto tale errore si risolve in un errore sui requisiti della scriminante; quindi esso non rientra nell'art.59 c.4, ma nell'ambito dell'art.5 c.p. 4. Consenso dell'avente diritto. L'art. 50 c.p. dispone che “non è punibile chi lede o pone in pericolo il diritto con il consenso di chi può validamente disporne". A lungo la dottrina si è soffermata sulla natura giuridica del consenso, chiedendosi se fosse inquadrabile nella categoria del negozio giuridico. Il consenso dell'avente diritto costituisce, in ambito penale, una manifestazione di volontà con il quale il titolare del diritto rinuncia alla tutale del proprio diritto. Si è soliti individuare la ratio alla base di questa causa di giustificazione nell'interesse mancante, in quanto il consenso alla lesione farebbe venir meno l'interesse pubblico alla punizione del fatto di reato. In realtà anche questa causa di giustificazione può essere & Manuale di diritto penale Parte generale spiegata con il principio del bilanciamento degli interessi in conflitto, la tutela penale del bene, da un lato, e la libertà di autodeterminazione del suo titolare. In ambito penale il consenso non sempre costituisce una causa di giustificazione. In alcuni casi il consenso interviene come elemento del fatto tipico, che esclude in radice l'offesa all'interesse protetto. Il consenso ha natura giuridica di causa di giustificazione, quando interviene in una relazione di un fatto tipico offensivo del bene giuridico, giustificandone la lesione. Secondo la logica propria del bilanciamento di interessi che sta alla base di scriminanti, qui prevale l'interesse del singolo alla libertà di disporre sull'interesse dell'ordinamento alla salvaguardia dello stesso bene. Potremmo allora concludere affermando che alla natura giuridica del consenso come causa di esclusione del fatto tipico o come causa di giustificazione dipende dal significato cha assume la libertà di autodeterminazione del titolare del bene. L'art. 50 c.p. indica in modo sintetico i requisiti della scriminante limitandosi a richiedere che il soggetto possa disporre validamente del diritto. Sono quindi necessari 2 elementi: a) deve trattarsi di diritti disponibili, b) devono esserci le condizioni per la valida rinuncia de diritto. Il legislatore non indica quali siano i beni disponibili. La dottrina indica un criterio generale: sono disponibili quei beni che sono rimessi all'esclusivo interesse del singolo, che può disporne. Sono considerati beni indisponibili l'ordine pubblico, la P.A., l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, la famiglia. Sono beni disponibili gli interessi patrimoniali, salvo chela volontà di disporne entri in conflitto con un prevalente interesse pubblico. Altri beni sono disponibili, ma è discusso il limite della loro disponibilità. Così l'integrità fisica è disponibile nei limiti fissati dall'art.5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionano una diminuzione permanente dell'integrità fisica o contrari all'ordine pubblico o al buon costume. Quanto al bene vita tradizionalmente se ne desume l'indisponibilità dagli art. 579 e 580 c.p., in particolare il 579 nella misura in cui incrimina chi cagiona morte di una persona con il consenso di questa, pur sanzionando il fatto con una pena meno grave di quella prevista per l'omicidio doloso (art. 575 c.p.). Conferma del fatto che il consenso non può assumere valore di scriminante in tal caso. Nell'art. 50 c.p. non sono indicate le condizioni di validità del consenso, innanzitutto il consenso non deve essere viziato da violenza o errore, e può essere sottoposto a condizioni. In presenza di una lesione protratta nel tempo, il consenso dell'avente diritto espresso nel momento iniziale della condotta, deve essere presente per tutta la durata della stessa. È necessario che il soggetto abbia la capacità di consentire alla lesione del bene: in alcuni casi tale capacità è definita da limiti di età fissati dal legislatore. Dove la legge non dispone nulla è necessario che il giudice accerti se il soggetto aveva la capacità di comprendere il significato del proprio atto di disposizione, tenendo conto del grado di maturità del soggetto e del tipo di bene coinvolto. In caso di soggetti incapaci di intendere e volere, il consenso può essere presentato dal legale rappresentante, tranne che per i beni personalissimi. Non sono richiesti particolari forme di manifestazione del consenso, che può essere espresso o tacito. Il consenso tacito non va confusa con il consenso putativo e con il consenso presunto. Si ha consenso putativo, quando il consenso non è stato dato, ma chi lede il bene ritiene che il consenso sia stato prestato. & Manuale di diritto penale Parte generale Il consenso è presunto, quando chi lede il bene sa che il consenso non è stato dato, ma presume che lo avrebbe ottenuto, qualora lo avesse chiesto al titolare del bene. Tale situazione non è regolata dal codice. Discussa è l'efficacia scriminante del consenso nei rati colposi. La posizione assunta dalla giurisprudenza contraria alla rilevanza del consenso è falsata dal presupposto di ritenere necessario che al consenso del titolare del bene corrisponda la volontà dell'autore del fatto di lederlo. In via generale non vi sono preclusione ad estendere l'art. c.p. ai reati colposi, a condizione che sussistano tutti i requisiti necessari per l'applicazione di tale scriminante. In particolare deve trattarsi di beni disponibili, se il fatto cagiona danni ad un bene indisponibile l'art. 50 c.p. non sarà applicabile. Un ruolo importante è rivestito dal consenso del paziente agli interventi medici. Qui il consenso non opera come scriminante, in quanto l'attività medico-chirurgica si giustifica o come scriminante tacita o come esercizio di facoltà legittima: il consenso deve essere informato, la necessità di tale consenso è prevista dalla Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e della biomedicina del 1997, in cui art. 5 prevede che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato”. La funzione imprescindibile del consenso informato ha come risvolto anche il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure, anche nei casi in cui la terapia avrebbe la possibilità di salvare il paziente, come ribadito dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Ebbene, nella misura in cui il soggetto esprime la propria libertà di autodeterminazione non possono essergli imposti trattamenti sanitari, anche se il rifiuto lo espone a gravi rischi. Gli effetti del riconoscimento di tale libertà del paziente hanno 2 importanti effetti: da un lato il bene vita è diventato un bene parzialmente disponibile, ma esclusivamente nei limiti del legittimo esercizio della libertà di rifiutare le cure: il principio di indisponibilità del bene vita deve essere riletto alla luce dei prevalenti principi costituzionali: non si tratta di legittimare l'eutanasia, ma di trovare un bilanciamento con la libertà individuale di autodeterminazione, che si configura anche nel diritto di rifiuto delle cure. Dall'atro lato, cessa la posizione di garanzia del medico, la cui condotta omissiva non rileva penalmente ai sensi art. 40cpv c.p. Caso Welby ed Englaro. Più complesso è l'inquadramento del comportamento del medico che, per il rispetto della volontà del malato di rifiutare le cure, intervenga con una condotta attiva. Questa situazione emerse nel caso Welby. Il paziente, affetto da sclerosi laterale amiotrofica, chiese che fosse distaccato il respiratore, che lo teneva in vita, essendo impossibilita a farlo a causa della malattia che aveva paralizzato gli arti. Il medico, anestetizzando il paziente, diede attuazione alla sua volontà e staccò il respiratore con il conseguente decesso del paziente. L'avvio del procedimento penale a carico del medico per omicidio del consenziente si è concluso con un decreto di archiviazione: il giudice delle indagini preliminari, riconosciuta la presenza di una condotta attiva riconducibile art. 579 c.p., ha applicato la scriminante dell'adempimento di un dovere, essendo dovere del medico dare attuazione alla volontà del malato. Il diritto di rifiutare le cure è stato riconosciuto anche a soggetti che si trovano nell'impossibilità di esprimere una volontà attuale: nella vicenda Englaro, da 17 anni in stato vegetativo permanente, il Tribunale di Milano e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto il dovere dei medici di interrompere l'alimentazione artificiale per dare attuazione alla volontà che la ragazza aveva espresso quando si trovava in stato di capacità di intendere e di volere. A differenza del precedente caso, il problema stava nel fatto che in tale vicenda: manca il consenso scritto sulla volontà di Eluana di non sottoporsi Manuale di diritto penale Parte generale Se l'aggredito ha provocato l'aggressore, la reazione al pericolo non può considerarsi “necessitata". Infine la reazione deve essere proporzionata. Il rapporto di proporzione deve essere instaurato tra il bene aggredito e quello pregiudicato dalla reazione: se l'aggressore minaccia la vita dell'aggredito, quest'ultimo può uccidere l'aggressore: non si può difendere un bene patrimoniale cagionando la morte dell'autore dell'aggressione. Occorre comunque valutare la situazione nella sua evoluzione dinamica: se l'aggressore minaccia il rapinato con un arma il pene in pericolo non è solo patrimoniale, ma anche l'incolumità della vittima; la relazione nei confronti di 2 ladri che si arrendono dovrà essere più moderata, rispetto a 2 ladri che abbozzano una risposta fisicamente aggressiva. 7.1. La legittima difesa domiciliare. La l.n. 59 del 2006 introduce 2 nuovi commi all'art. 52 c.p. l'intento dichiarato era quello di mettere al riparo dall'incriminazione chi si fosse difeso contro un'aggressione all'interno della propria abitazione. In realtà il campo di applicazione della legittima difesa allargata è più ampio in quanto il c.2 dell'art. 52 fa riferimento ai casi previsti art. 614 c.1 e 2, quindi a tutti quei fatti posti in essere a fini difensivi, non solo nell'abitazione ma in qualsiasi luogo di privata dimora; comunque il c.3 amplia tale ambito ricomprendendo ogni altro luogo dove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale. L'ampliamento di operatività della scriminante viene realizzato attraverso una sorta di presunzione della presenza del requisito della proporzione. Vengono, pertanto, stabiliti alcuni presupposti: 1 chi agisce in difesa di se stesso o di altri deve essere legittimamente presente nel domicilio e se fa uso d'arma deve essere legittimo detentore della stessa. 2 la difesa deve essere finalizzata a difendere la propria o altrui incolumità o beni propri o altrui. 8. Lo stato di necessità Pur essendo riconosciuto in molti ordinamenti, lo stato di necessità è meno accettato e valutato con più rigore dalla dottrina, che a volte lo ha disconosciuto come causa di giustificazione. La profonda differenza tra la legittima difesa e lo stato di necessità, è il fatto che nella legittima difesa si reagisce contro l'autore del pericolo, mentre nello stato di necessità si coinvolge un terzo innocente, per ciò si hanno requisiti restrittivi imposti dal legislatore e confluiti nell'art. 54 c.p. Secondo tale art. "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, non evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Mantenendo in parallelo i requisiti della legittima difesa si evidenziano coincidenze e differenze. Come la legittima difesa l'autore del fatto commette un reato per sottrarsi ad un pericolo, che può derivare da fattori naturali o comportamenti umani. In tal caso il reato non si dirige nei confronti dell'autore della situazione pericolosa, ma è realizzato a danno di un soggetto estraneo all'aggressione. Manuale di diritto penale Parte generale Sotto il profili dell'attualità vi è coincidenza con quanto previsto art. 52 c.p.: la valutazione dovrà essere ancora più rigorosa nello stato di necessità. La tendenza a restringere l'ambito di applicazione dello stato di necessità trova conferma nella limitazione dei beni tutelabili: mentre. la legittima difesa può essere invocata per proteggere qualsiasi diritto, nello stato di necessità il pericolo deve riguardare i beni inerenti la persona (grave pericolo di vita, incolumità fisica, libertà personale). In teoria può essere tutelato anche l'onore o il diritto al domicilio, anche se non è agevole individuare situazioni in cui può ravvisarsi uno stato di necessità a loro tutela. Il requisito della proporzione coincide con quanto previsto per la legittima difesa. Si sostiene che l'accertamento deve essere rigoroso nell'ambito dell'art. 54 c.p. Quindi non è ammissibile sacrificare la vita di un terzo innocente per evitare un pregiudizio per la propria incolumità fisica o una limitazione della libertà personale. Un limite evidente all'operatività dello stato di necessità è individuabile nella causazione volontaria del pericolo, a cui si pretende di sottrarsi a danno di terzi. Mentre nella legittima difesa il requisito nell'inevitabilità non compare, nell'art. 54 c.p. il riferimento è chiaro: se vi sono più alternative per sfuggire al pericolo, non si deve coinvolgere un terzo anche a costo di subire un pregiudizio. Su questa base non vi è dubbio che la possibilità della fuga, preclude l'operatività dell'art. 54 c.p. mentre nella legittima difesa essa non può essere imposta se pericola in sé. Lo stato di necessità non può essere invocato da chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. Determinate categorie di soggetti non possono farsi scudo dall'art. 54 c.p. TI limite vale in relazione ai pericoli che specificamente devono essere affrontati: un vigile del fuoco non può sottrarsi a spese di terzi dal pericolo derivante da un incendio, ma in caso di naufragio di crociera è da considerarsi un normale passeggiero. Mentre un fatto commesso per legittima difesa non solo non è punibile, ma neppure da luogo a nessuna conseguenza sul piano civilistico, un comportamento scriminato dello stato di necessità obbliga a corrispondere un equo indennizzo secondo quanto stabilito art. 2045 c.c. 9. L'uso legittimo delle armi. Il c.p. dedica una norma specifica all'uso dei mezzi di coazione da parte dei pubblici ufficiali. L'art.53 c.p. delinea una scriminante propria: i soggetti non qualificati possono fruirne solo alle condizioni previste dal comma 2. Gli strumenti utilizzabili sono le armi in dotazione e i mezzi di coazione fisica legittimamente utilizzati dai predetti soggetti in base alla disciplina dei corpi di appartenenza. L'uso di tali strumenti è legittimo in presenza di questi requisiti: a. Il fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio. b. La necessità di respingere una violenza o vincer la resistenza all'autorità per adempiere alla funzione o per impedire la consumazione di reati. 10. Le scriminanti non codificate L'esistenza di cause di giustificazione ulteriori rispetto a quelle previste dal legislatore viene oggi negata dalla dottrina. L'es. più rilevante è costituito dall'attività medico chirurgica. & Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO XVI PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA 1.Il consolidamento del principio di colpevolezza per il fatto. Accertato che un fatto storico corrisponde ad una fattispecie incriminatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, occorre compiere un terzo passaggio, cioè verificare se quel fatto è soggettivamente riconducibile e rimproverabile all'agente. La riconducibilità soggettiva e la rimproverabilità del fatto al suo autore sono imposti dal principio di colpevolezza. Affermatosi nell'illuminismo, esso impedisce di punire un soggetto per un fatto altrui. Attualmente, tale principio non impedisce solo la responsabilità penale per fatto altrui, ma impone di punire solo quando il soggetto abbia agito con dolo o colpa. In tale prospettiva, appaiono contrastare con il principio di colpevolezza tutte quelle forme di responsabilità c.d. oggettiva, che si accontentano della mera derivazione causale del fatto dell'agente, prescindendo da qualsiasi indagine sulla violazione, o quanto meno sulla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice. Il ruolo preminente del principio di colpevolezza in materia penale si è chiarito, proprio nella prospettiva di ritenere legittimo il ricorso alla sanzione penale solo in presenza di un concreto rimprovero al soggetto agente, tanto che in alcuni progetti di riforma del c.p. si è proposto di introdurre a fianco del principio di legalità, un'affermazione sul ruolo fondamentale del principio di colpevolezza. Perciò vanno respinte tutte quelle tendenze a declinare il giudizio di colpevolezza non solo sul fatto storico, ma sulla personalità dell'autore, intesa sia come colpa per il carattere, che per la condotta della vita. A quest'ultimo proposito, è vero che anche il vigente c.p. punisce determinate situazioni nelle quali pare venire preliminarmente in rilievo una certa abitudine al delitto e impone al giudice di aumentare la pena prevista per il recidivo, ma tali aumenti non possono mettere in secondo piano il nesso imprescindibile tra colpevolezza e fatto commesso. In epoca meno recente era diffusa una concezione c.d. psicologica della colpevolezza, intesa come relazione tra fatto ed autore. Secondo tale impostazione, la colpevolezza costituiva il genus, all'interno del quale trovava spazio le due species dell'elemento soggettivo, che ne costituivano la declinazione concreta: il rapporto tra fatto autore poteva manifestarsi nella forma del dolo o della colpa. Lo scopo di tale ricostruzione può essere colto considerando la matrice ottocentesca, liberale, garantista, finalizzata ad escludere rilevanza ai motivi a delinquere del reo ed alla personalità dell'autore. Essa costituisce un momento importante in quel progressivo affermarsi di un'idea della colpevolezza del fatto. Tuttavia, la teoria sopracitata è stata oggetto di critiche, innanzitutto per la difficoltà di ricondurre la c.d. colpa incosciente (negligenza) ad un paradigma psicologico comune con il dolo o la colpa con previsione. Inoltre, il passaggio ai sistemi penali contemporanei, fondati sui principi di legalità e materialità, l'esigenza di escludere i motivi a delinquere del reo è venuta meno. Si è progressivamente imposta una diversa idea di colpevolezza, c.d. normativa, quale mero giudizio di rimproverabilità per il fatto. Tale concezione consente di graduare la colpevolezza & Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO XVII DOLO 1. L'elemento soggettivo nei delitti e nelle contravvenzioni. Il dolo costituisce la più grave forma di imputazione soggettiva, compiere un fatto volontariamente rende più pesante la responsabilità rispetto a chi abbia agito per negligenza o scarsa attenzione ad una regola cautelare, tanto è vero che la più comune delle difese è non l'ho fatto apposta, nella speranza di diminuire la propria responsabilità da dolosa a colposa. Nel sistema penale, il dolo costituisce la forma ordinaria di responsabilità colpevole per i delitti. Solo eccezionalmente questa categoria di reati è punita a titolo di colpa o di preterintenzione, questa è la regola dettata art. 42 c. 2 c.p. In particolare, delitti colposi sono previsti in materia di tutela dell'integrità fisica e della vita e nel titolo dei delitti contro l'incolumità pubblica (delitti di incendio, disastro) che costituiscono un'anticipazione della tutela all'incolumità individuale. Molto rari sono i delitti colposi in altre materie, ed assolutamente escludi in ambiti quali la tutela del patrimonio. Puniti a titolo di preterintenzione sono i 2 delitti di omicidio preterintenzionale (art.584 c.p.) ed interruzione volontaria della gravidanza (art.18 c.2 l.n. 194/1978). Questa regola: criterio di imputazione soggettiva è il dolo; l'imputazione colposa o preterintenzionale deve essere espressamente prevista dalla legge, vale per i delitti. Per le contravvenzioni l'art. 42 c. 4 c.p., prevede che ciascuno risponda della propria condotta cosciente e volontaria, sia dolosa che colposa. Ciò non significa che il giudice non debba accertare la presenza del dolo o della colpa, ma che è indifferente se il fatto è stato commesso con dolo o colpa. Tale indifferenza non deve essere fraintesa, essa attiene all'integrazione della fattispecie incriminatrice sotto il profilo soggettivo, ma non copre le eventuali diverse regole di disciplina dettate per i fatti dolosi o colposi: se un provvedimento di indulto esclude le contravvenzioni dolose, il giudice, accertato che il fatto sia colposo, applicherà l'indulto. Questa conclusione è posta dall'ultimo comma art. 43 c.p.. La distinzione potrà essere rilevante, non solo ai fini dell'integrazione della fattispecie incriminatrice, ma della misura della pena. Infine, non si deve dimenticare che alcune contravvenzioni sono costituite in modo tale da essere compatibili con la sola imputazione dolosa (art. 2621 c.c. comunicazione di false comunicazioni ai soci) o colposa (art.676 c.p. che punisce la rovina di un edificio, che crolla per colpa per vizio di progettazione o costruzione). 2. Struttura ed oggetto del dolo. Il codice penale ha definito diversi tipi di imputazione soggettiva - dolo, colpa, preterintenzione-. In particolare secondo l'art. 43 c. 1 c.p. il delitto "è doloso quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione o dell'omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall' agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione". Questa definizione crea molti problemi, perché è in parte fuorviante ed incompleta. Il riferimento all'intenzione potrebbe far ritenere che rientri nell'imputazione dolosa la sola ipotesi nella quale l'agente agisce proprio con il fine di realizzare l'evento descritto dalla fattispecie incriminatrice;in tal senso risponderebbe di omicidio doloso solo il killer di Manuale di diritto penale Parte generale un'organizzazione criminale che uccide, su commissione, l'esponente di rilievo della cosca rivale, ma non il rapinatore, che in seguito al colpo fuggendo, spari tra la folla uccidendo un passante. In questo secondo caso, l'agente non conosce la vittima, non ha nulla contro di lei, non spara per uccidere quella persona specifica, ciò non fa venir meno la necessità di riportare anche questo fatto sotto la rubrica dell'omicidio doloso (c.d. dolo diretto o eventuale v. s4). Inoltre, la definizione codicistica pare incompleta sotto il profilo dell'oggetto del dolo stesso; se il dolo si caratterizza per le sue funzioni (rappresentativa e volitiva): cosa deve essere rappresentato e voluto, perché si possa parlare di delitto doloso? L'art. 43 c.1 c.p. contiene un riferimento unicamente all'evento dal quale la legge fa discendere l'esistenza del reato, cioè il c.d. evento naturalistico (vedi cap. XI s.4). ma vi sono delitti di mera condotta, che prescindono, nella descrizione della fattispecie incriminatrice operata dal legislatore, dalla realizzazione di un evento naturalistico. Ebbene, se dovessimo prendere alla lettera la def. Dell'art. 43 c.1 c.p., dovremmo ritenere incompatibile l'imputazione dolosa con i delitti senza evento. si esce da questa apparente aporia ritenendo che l'oggetto del dolo non vada ricercato solo in tale norma. In quanto essa non esaurisce l'oggetto del dolo, che si ricava da altre due norme: artt. 47 e 59 c.p. Entrambe queste norme sono dettate in materia di errore, prevedendo che l'erronea rappresentazione di uno degli elementi della fattispecie incriminatrice (art.47) o di una causa di giustificazione (art. 59) escludono la punibilità dell'agente, proprio per mancanza di dolo. L'errore, quale erronea rappresentazione del fatto, è contrario speculare della corretta rappresentazione richiesta per l'imputazione dolosa. Pertanto, gli artt. 43, 47 e 59 c.p. consentono di ricomprendere nell'oggetto del dolo di un determinato delitto tutti gli elementi che ne definiscono la fattispecie. Il che equivale a dire che l'oggetto del dolo è costituito dal fatto tipico, conforme ad una fattispecie astratta di delitto. Occorre chiarire che vi è una ipotesi di errore che non esclude il dolo: si tratta dell'errore sull'identità della persona offesa (art. 60 c.p.), quindi se tizio crede di sparare a caio, amante della moglie ma, scambia un passante per la vittima designata e lo uccide, tizio risponde di delitto doloso. Oggetto di rappresentazione devono essere sia gli elementi descrittivi che normativi del fatto tipico. Quindi le qualifiche naturalistiche, sia quelle giuridiche che richiedono la c.d. conoscenza della sfera laica: integra il requisito della rappresentazione di questo elemento non certo la piena conoscenza delle norme giuridiche che regolano il diritto di proprietà, ma la percezione di cosa appartiene ad un altro e non a me. Tutti gli elementi del fatto devono essere oggetto di rappresentazione: i presupposti della condotta, la condotta, l'evento naturalistico, le qualifiche soggettive del reo. Rispetto a quest'ultimo elemento, occorre precisare che, prendendo ad esempio il delitto di peculato, che presuppone la qualifica di pubblico ufficiale, non è necessario che l'agente sappia di rivestire, al momento che compie il fatto, la qualifica propria, ma che si rappresenti di assumere un ruolo ed una funzione che lo portano a gestire denaro pubblico, del quale indebitamente si impropria. Per quanto riguarda il rapporto di casualità, va chiarito che la rappresentazione della derivazione causale dell'evento stesso della propria condotta non viene meno, per un decorso causale anomalo. Se, tizio istiga caio perché uccida sua moglie, dietro compenso, e gli fornisce una pistola, l'elemento del dolo non verrà meno se la donna verrà uccisa con un coltello. Ciò che conta è che il soggetto potesse rappresentarsi il decorso causale nei suoi tratti essenziali. & Manuale di diritto penale Parte generale Nelle condotte omissive proprie l'agente deve rappresentarsi la situazione tipica descritta dalla norma; il termine e la possibilità di agire. Esso deve poter individuare, nella vicenda concreta, quale sia la condotta imposta dalla legge e rendersi conto che sia concretamente praticabile. Nei reati omissivi impropri sono oggetto di rappresentazione la possibilità di agire; la posizione di garanzia rivestita rispetto al bene, nonché l'azione impeditiva dell'evento. Con riferimento alla volontà, si contendono il campo 2 opinioni. La prima, datata, detta teoria della rappresentazione, oggetto di volizione potrebbe essere solo la condotta. Oggi tende a prevalere la seconda opinione, detta teoria della volontà, secondo la quale le conseguenze dei comportamenti umani, dalle quali si accerta il rischio di verificazione, sono accettate dalla volontà umana e quindi volute. Tale impostazione, fa rientrare nell'oggetto della volizione tutti gli elementi del fatto tipico con esclusione dei presupposti della condotta e delle qualifiche personali che non possono essere mai oggetto di volizione, ma solo di conoscenza cioè di rappresentazione. Se è vero che tutti gli elementi del fatto devono essere oggetto di volizione, non si può dimenticare che il momento nel quale valutare la presenza del dolo è proprio la condotta. Si dice che il dolo deve essere concomitante alla condotta. Non rileva pertanto, il dolo antecedente esempio, tizio vuole uccidere la fidanzata e la sta conducendo, in auto, sul luogo del delitto, prima di arrivare a causa della velocità si verifica un incidente, in cui la ragazza perde la vita, per le ferite riportate: omicidio colposo e non doloso. Non rileva il dolo susseguente, ad esempio: Se caio porta a casa un ombrello simile al suo, prelevato dal portaombrelli del ristorante in cui ha cenato, e giunto a casa si accorge dell'errore, si tiene l'oggetto altrui: nessun reato, perché manca il dolo al momento dell'impossessamento. Infine non rileva il c.d. dolus generalis, cioè quella situazione in cui l'agente si rappresenta e vuole l'evento naturalistico, ma in termini astratti e generici, senza che l'atteggiamento psicologico sia rivolto a tutti gli elementi concreti del fatto storico. Se sempronio ferisce a bastonate la vittima e poi, credendola morta, le dà fuoco, ma la perizia accerta che il soggetto è morto per soffocamento da fumo e fiamme: sempronio non risponderà per omicidio doloso, perché manca il dolo al momento nel quale si cagiona la morte, ma tentato omicidio e omicidio colposo. Con riferimento alla condotta attiva, occorre distinguere tra reati a forma libera e vincolata. Nel primo caso il momento volitivo del dolo deve investire l'ultimo atto, tra quelli cha causano la morte nell'omicidio. Nei reati a forma vincolata occorre che l'agente voglia proprio la particolare modalità del fatto descritta dalla fattispecie incriminatrice. Nei reati omissivi la volontà dell'agente attiene alla decisione di non compiere l'azione doverosa, cioè di non adempiere all'obbligo giuridico di agire. 3. La conoscenza dell'offesa come elemento del dolo. L'oggetto del dolo si esaurisce nella rappresentazione e nella volizione degli elementi del fatto tipico o deve essere arricchito anche dalla c.d. coscienza dell'offesa all'interesse tutelato? Prima occorre chiarire che il disposto dell'art. 5 c.p., in materia di ignoranza della legge penale, impediva di attribuire qualsiasi peso alla conoscenza dell' illeicità penale quale elemento costitutivo del dolo. Manuale di diritto penale Parte generale Questa rappresentazione in termini di non certezza, ma di mera probabilità, può riguardare anche un elemento diverso dall'elemento naturalistico. Per esempio nei reati omissivi propri, può essere imputata a titolo di dolo eventuale una rappresentazione di una situazione tipica. Nel dolo eventuale né la volontà né la rappresentazione raggiungono un pieno compimento. In particolare, la difficoltà sta nel colorare in termini volontari questa forma di dolo, dal momento che una volontà effettiva non è riscontrabile nell'atteggiamento dell'agente. La difficoltà di definirne con certezza i confini è resa acuta dalla circostanza che il dolo eventuale confina con la c.d. colpa cosciente o con previsione. In entrambe le ipotesi, il profilo rappresentato è identico: il soggetto rappresenta come possibile il verificarsi di un reato. Ma mentre nella colpa cosciente si tratta di una rappresentazione a contenuto negativo (il reo esclude che l'evento si verificherà), nel dolo eventuale la rappresentazione ha contenuto positivo: il soggetto agisce ugualmente, per conseguire il suo obiettivo. L'esperto guidatore che guida in modo spericolato, per non far aspettare il figlio fuori dalla scuola, ben si rappresenta come possibile un incidente, ma esclude che ciò si verifichi facendo affidamento sulla sua esperienza; il rapinatore che per fuggire agli inseguimenti, getta la propria auto tra la folla di un mercato, facendosi strada, agisce anche a costo di cagionare un incidente mortale (dolo eventuale). Pertanto, a fronte di un elemento comune occorre chiarire con minor approssimazione possibile quale sia l'elemento differenziale tra dolo e colpa, elemento che nei delitti puniti anche a titolo di colpa porterà a modificare il titolo di reato, mentre per i delitti puniti solo a titolo di dolo, porterà all'irrilevanza penale del fatto commesso. Il problema è quello di individuare quale tratto, oltre alla rappresentazione dell'evento, possa integrare quel minimum di volontarietà, indispensabile per non snaturare la natura dolosa di questa tipologia di imputazione soggettiva. AI riguardo, è da escludere una prima impostazione, secondo la quale la rappresentazione della mera possibilità del verificarsi dell'evento è sufficiente a dar conto della natura dolosa dell'atteggiamento psicologico del reo. O la rappresentazione avviene in termini di certezza, o la mera previsione della possibilità non potrà mai surrogare la mancanza di volizione. Neppure la c.d. teoria del consenso può essere accertata. Secondo questa impostazione, sarebbe sufficiente che, oltre a rappresentare l'evento come possibile, l'agente si ponesse in un atteggiamento di interiore accettazione della sua verificazione. Tuttavia, un mero atteggiamento interiore non basta a fondare l'imputazione a titolo di dolo. Per cercare di mantenere questa delicata ipotesi di imputazione soggettiva nella responsabilità dolosa occorre provare, in concreto, che l'agente ha accettato il rischio della verificazione dell'evento. Sembra più corretto richiedere non solo l'accettazione del rischio, ma l'accettazione della verificazione dell'evento, che è qualcosa di più intenso e rilevante. Ma quali sono gli elementi che possono consentire di arrivare alla prova dell'accettazione della realizzazione dell'evento? Di recente la giurisprudenza, nell'imputare s titolo di dolo eventuale l'omicidio conseguente ad incidenti stradali causati da guida in stato di ebrezza, con violazioni delle regole di prudenza e diligenza, ha individuato alcuni elementi significativi: una soglia di rappresentazione del possibile verificarsi dell'evento molto elevata; l'assenza di qualsiasi elemento che potesse rendere verosimile la speranza che l'evento non si sarebbe verificato; l'assenza di sensibilità dell'agente per il bene della vita o dell'integrità fisica delle potenziali vittime. Manuale di diritto penale Parte generale La corte di assise d'appello di Torino, in una sentenza ha ritenuto di condannare per omicidio doloso, a titolo di dolo eventuale, un datore di lavoro, per la morte di 7 operai a seguito dell'incendio di una linea produttiva (vicenda Thyssenkrupp), con la seguente motivazione: se la consapevolezza è molto elevata, se il rischio perdura nel tempo, se la scelta fatta è frutto di una decisione che volontariamente sacrifica il bene da tutelare ad altri interessi, se la situazione concreta è tale da non dare appigli per ritenere che l'evento non si verificherà, allora si può ritenere provata anche l'accettazione della verifica dell'evento, il quale non si era intenzionati a cagionare, e si sperava che non si sarebbe verificato, ma che la volontà colpevole non solo lambisce, ma copre per intero. 5.L'intensità del dolo. Ai sensi art.133 c.p. l'intensità del dolo è uno degli elementi del quale il giudice deve tenere conto, per graduare la pena tra il minimo ed il massimo previsti a livello edittale. Deve essere possibile una sorta di graduazione del dolo, in termini di maggiore o minore gravità. Costituiscono elementi di maggiore intensità un elevato grado di certezza della rappresentazione del fatto e la coscienza dell'offesa dell'interesse tutelato. Daranno conto di minore gravità: il dubbio su alcuni elementi costitutivi del fatto, la mancanza di consapevolezza di offendere un interesse tutelato. Sotto il profilo volitivo, oltre alla distinzione tra dolo intenzionale, diretto o eventuale, acquista rilevanza la distinzione tra dolo d'impeto e di proposito.Nel dolo d'impeto, il soggetto agisce in un momento assai prossimo a quello nel quale ha deciso: esempio, l'omicidio di un automobilista all'esito di un litigio per un parcheggio. Nel dolo di proposito tra determinazione ed esecuzione trascorre un certo lasso di tempo, che dà conto di un maggior consolidamento del proposito criminoso e quindi di una maggiore intensità del dolo. 6.Problemi di accertamento del dolo. Come ogni altro elemento del fatto tipico, anche il dolo deve essere provato con un grado di certezza che superi ogni dubbio. La prova del dolo è rivestita da una particolare delicatezza. AI di fuori, di confessioni del reo, non esiste nessuna macchina della verità in grado di valutare i reali processi interiori, la prova dell'elemento psicologico potrà essere data solo ricorrendo a delle massime d'esperienza. L'inevitabile ricorso alle massime di esperienza pone 2 ordine di problemi. Primo, occorre chiarire che ogni massima può essere smentita da una massima diversa, più adeguata ed aderente al caso. Secondo, se un ragazzino, in auto, investa all'uscita dalla discoteca un suo coetaneo, all'esito di una notte passata a ballare, siamo in presenza di un fatto colposo, in quanto va esclusa la volontà della morte. Ma se si scoprisse che la vittima è il nuovo fidanzato della precedente compagna dell'investitore, il quale lo aveva minacciato di morte, allora potrebbe aversi un elemento per scandagliare l'ipotesi di dolo. Inoltre, proprio per evitare inaccettabili presunzioni di dolo, nell'uso delle massime il giudice deve sempre collegare la regola probatoria usata al caso concreto. Non basta dare spazio ad elementi di allarme che potrebbero dar conto della consapevolezza dell'agente. Non sarebbe corretto, soprattutto quando si discute della responsabilità dolosa omissiva impropria di chi deve impedire il compimento di reati altrui, richiamare genericamente formule del tipo non potevi non sapere, anzi occorre che il giudice dia sempre conto dell'effettiva consapevolezza del reo. Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO XVIII COLPA 1. Sviluppo della responsabilità colposa e limiti della disciplina codicistica. La seconda forma di responsabilità colpevole è costituita dalla colpa, cioè dalla causazione di un fatto vietato dalla legge penale per violazioni di regole cautelari, codificate o meno. Per questa sua natura, l'illecito colposo assume gravità decisamente minore, rispetto a quello doloso. Dalla metà del secolo scordo si è assistito al progressivo e vertiginoso aumento dei delitti colposi, in prevalenza con riferimento alla tutela vita, integrità fisica e salute dei cittadini. Tale incremento trova la sua principale ragion d'essere nello sviluppo di attività pericolose, lecite e consentite, ma che costituiscono il terreno nel quale si annidano i rischi della commissione di fatti colposi. Si pensi alla circolazione stradale, alla produzione industriale, alla tutela della salute nei luoghi di lavoro: tutti ambiti dove il potenziale danno alla vita o alla salute dei cittadini costituisce un fattore imprescindibile. Pertanto lo studio del delitto colposo ha acquisito maggior dignità e si è imposta l'idea della sua autonomia, rispetto al delitto doloso. La regola generale dettata per i delitti art. 42 c.p. prevede che la punibilità a titolo di colpa necessiti di una previsione normativa, in assenza della quale il fatto potrà essere punito solo se doloso. In tal senso, le fattispecie colpose sono molto meno numerose rispetto alle ipotesi dolose, ma rivestono grande importanza, in quanto la maggior parte dei processi, con riferimento alla vita, alla salute..., giudicano fatti colposi. L'art. 43 definisce come colposo “il delitto quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia o per inosservanza della legge". Questa definizione è insufficiente a descrivere il contenuto reale dell'imputazione colposa. Pertanto deve essere integrata da quelle norme che, in materia di errore di fatto (art.43), o in materia di cause di giustificazione (artt. 55 e 59) consentono di affermare che la definizione di colpa deve abbracciare tutti gli elementi costitutivi del fatto tipico. 2. Gli elementi strutturali della colpa. Dalla def. Dell'art.43 è possibile individuare 3 elementi costitutivi della colpa: 1. L'elemento negativo della mancanza di volontà del fatto. 2. L'elemento oggettivo positivo dell'inosservanza di regole cautelari 3. L'evitabilità dell'evento, cioè il nesso di derivazione tra colpa ed evento. Infine si ha un ulteriore elemento, ricavato in via interpretativa da parte della dottrina ed è c.d: 4. doppia misura della colpa, della sua misura soggettiva, cioè dall'elemento della esigibilità del rispetto delle regole cautelari del caso concreto. 3. Mancanza di volontà del fatto. Questo primo elemento richiesto art. 43, consente di distinguere il dolo dalla colpa. La mancanza di volontà non va limitata al momento dell'evento del delitto, ma può coinvolgere qualsiasi altro elemento del fatto tipico ai sensi art. 59 c.p., il soggetto che crede per errore & Manuale di diritto penale Parte generale condotta dell'agente, ma al superamento del c.d. rischio consentito, cioè di quella soglia di rischio inesorabilmente connesso all'attività stessa. In questo senso il giudice dovrà accertare non tanto se nel compiere quella complessa e difficile operazione, il sanitario si è rappresentato che il paziente potesse morire, ma se egli ha rispettato tutte le regole di buona pratica medica affinché non si contenga il rischio nei margini consentiti. 5. Evitabilità dell'evento. Nel delitto colposo, occorre sempre accertare la c.d. casualità della colpa, cioè quel collegamento tra violazione del dovere di diligenza ed evento, che deve essere accertato secondo le cadenze della teoria condizionalistica. Con riferimento alle ipotesi di colpa specifica, si pone un problema rilevante: la violazione della regola cautelare scritta è da sola sufficiente a determinare la responsabilità colposa per qualsiasi tipo di evento, anche indipendentemente dalla finalità della regola? Si pensi ad un esempio che compare nella motivazione della sentenza di legittimità relativa al caso del Petrolchimico di Porto Marghera, ad un datore di lavoro che non fornisca ai suoi dipendenti i caschi protettivi. Se uno viene punto in capo da un insetto velenoso e subisce una lesione, il datore dovrà rispondere, a titolo di colpa specifica, per la sola inosservanza dell'obbligo di fornire i mezzi di protezione? In questo caso è evidente che la regola cautelare violata mira a tutelare la salute dei dipendenti, ma dal fatto che sia colpiti intesta da oggetti che cadono dall'alto, non per prevenire le punture degli insetti. Quindi, il giudice non deve limitarsi ad accertare la violazione della regola, per ritenere fondata la colpa, ma deve accertare se l'evento in concreto rientra tra quelli tutelati dalla norma. 6. Esigibilità del comportamento rispettoso delle regole di diligenza. L'ultimo elemento strutturale della colpa attiene alla sua dimensione più soggettiva e consiste nella possibilità di esigere che l'agente rispetti le regole cautelari che avrebbero evitato il realizzarsi dell'evento. Questa è la situazione più comune e frequente, ma può avvenire che la doverosa concretizzazione e personalizzazione del giudizio di colpevolezza porti a ritenere che la pur accertata violazione di una regola, secondo il riferimento dell'agente modello, nel caso concreto non sia rimproverabile. In tal senso, possono venire in rilievo solo deficit di natura fisica o psichica o di socializzazione che rendano non esigibile il rispetto della regola della diligenza. 7.Il grado della colpa. Anche la colpa può essere graduata, l'art. 133 c.1 n.3 c.p., tra gli indici di gravità del fatto, rilevanti nell'esercizio del poter discrezionale del giudice per scegliere la pena in concreto tra il minimo ed il massimo, oltre all'intensità del dolo, indica il grado della colpa. Il giudice dovrà tenere conto della distanza tra la condotta che sarebbe stata imposta dalle regole ed il concreto comportamento posto in essere, tale valutazione è di carattere oggettivo. Poi si dovrà prendere in considerazione la misura soggettiva della colpa con riferimento alle cause personali che possono aver influito sul deficit di diligenza. Manuale di diritto penale Parte generale Infine la stessa maggior o minor evitabilità dell'evento può essere indice di valutazione del grado della colpa, inteso come difformità della condotta tenuta rispetto alle regole cautelari. Con il grado della colpa non deve essere fraintesa la circostanza aggravante comune in virtù della quale la pena è aumentata, quando il soggetto abbia agito con la previsione dell'evento. 8. Colpa e caso fortuito. Ai sensi art. 45 c.p. non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito, cioè un accadimento eccezionale ed imprevedibile, che interferisce con la condotta dell'agente. Ad esempio: si pensi ad un colpo di sonno di un automobilista che per evitare incidenti si accosta sul ciglio della strada, ostacolando un altro utente della strada che per evitarlo sbanda e muore. In dottrina si discute sulla collocazione dogmatica del caso fortuito: causa da sola sufficiente a produrre l'evento o causa di esclusione della colpevolezza, in quanto l'evento non sarebbe prevedibile ed evitabile, neppure alla stregua dell'agente modello? La seconda tesi c.d. soggettiva pare preferibile, sia perché art. 45, utilizzando la forma “chi ha commesso il fatto" sembrerebbe descrivere una situazione nella quale vi è un rapporto causale tra condotta ed evento, ma soprattutto perché l'eventuale rilevanza dei fattori eccezionali sulla causalità è già espresso dall'art. 41 c.p.. Pertanto pare opportuno ritenere che il caso fortuito rilevi sotto il profilo della colpevolezza e non della tipicità (causa sufficiente a produrre l'evento). Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO XIX DISCIPLINA DELL'ERRORE 1.Le diverse tipologie di errore penalmente rilevante. La tematica dell'errore e dell'ignoranza consiste in una falsata percezione della realtà o della normativa vigente. In primo luogo, viene in rilievo l'errore sul fatto, cioè su uno degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa. L'errore di fatto può essere di fatto o di diritto, si pensi al delitto di furto, che punisce chi si appropria di una cosa mobile altrui. L'agente può credere, per errore che la cosa sia sua, perché portata via dal guardaroba di un ristorante un cappotto identico al suo, che appartiene ad un altro commensale (errore di fatto, ossia erronea percezione della realtà); oppure perché interpreta in modo non corretto la disciplina giuridica dettata dal codice civile in materia di diritto di proprietà. In entrambi i casi l'errore verte su uno dei requisiti della fattispecie incriminatrice (cosa altrui), anche se la causa dell'errore, nel 1 caso è un errore di percezione, nel 2 caso errore di interpretazione. Diverso dall'errore sul fatto è l'errore sul diritto: uno straniero di cultura islamica crede che sia doveroso e legittimo, percuotere e chiudere in casa la figlia maggiorenne, perché si rifiuta di indossare il burka, mentre nel nostro ordinamento una cosa del genere è punita a titolo di lesioni dolose e sequestro di persona. 2.Errore i fatto sul fatto. Il caso di colui che si appropria di una cosa altrui molto simile alla sua, credendola propria è disciplinato dall'art. 47 c.1 c.p. in virtù del quale “l'errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell'agente”. La ragione di tale esclusione è evidente: l'errore consiste in una falsa rappresentazione della realtà, che incide sul processo di formazione della volontà e quindi esclude il dolo. La regole dettata dall'art. 47 c.p. deve essere intesa nel senso che l'errore sul fatto esclude la punibilità a titolo di dolo. Ne deriva che, in presenza di un errore di fatto, dopo aver escluso la punibilità a titolo di dolo, il giudice dovrà compiere una duplice valutazione. Prima, dovrà chiedersi se l'errore è dovuto a colpa; se la risposta è positiva si dovrà verificare se il delitto è punito anche a titolo di colpa. In tal caso (del cacciatore che uccide un bambino dietro un cespuglio scambiandolo per un cinghiale) l'omicidio è punito anche a titolo di colpa, l'errore non produrrà l'esito di non punire l'agente, ma la degradazione della sua responsabilità a titolo di omicidio colposo. Diverso è il caso del furto, per il quale non è prevista la punibilità a titolo di colpa. In questo caso l'agente non sarà punito. 3. Errore sul fatto dovuto ad errore su legge extra penale. L'errore sul fatto può essere frutto di una cattiva interpretazione di una norma di legge extra penale. Ai sensi art. 47 c. 3 c.p., questo tipo di errore esclude la punibilità. Legge diversa da quella penale non è solo quella civile o amministrativa, mala legge diversa dalle fattispecie incriminatrici. Quindi, l'errore sulla natura delittuosa di un fatto del quale un pubblico ufficiale venga a conoscenza nell'esercizio o causa delle sue funzioni esclude la punibilità del delitto di omessa denuncia. (art. 361 ). Manuale di diritto penale Parte generale incriminato di un determinato reato, qualora a seguito di tale comportamento venga sporta denunzia all'autorità giudiziaria da un altro soggetto tenuto a farlo. 6. Reato putativo. Ai sensi dell'art. 49 c. 1 c.p., non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso lo costituisca. Si tratta di una situazione che descrive un errore del soggetto, ma speculare ed inverso a quello degli artt. 5 e 47 c. 1 e 3: il soggetto non ritiene, per errore che manchi un elemento del fatto tipico, al contrario l'erronea rappresentazione attiene alla presunta, putativa commissione del reato. Anche nel reato putativo, l'errore può essere sul fatto: tizio crede di sottrarre una cosa altrui, che in realtà gli appartiene, oppure di diritto: tizio ritiene di non aver ancora acquisito il possesso di un immobile preso in locazione e pensa che occupandolo, integrerà gli estremi del delitto di usurpazione di edifici. Inoltre, vi può essere reato putativo per errore sulla legge penale: tizio bestemmiando pensa di commettere il delitto di bestemmia, che è stato depenalizzato con la l.n. 507/99. La norma è ispirata all'idea di ribadire il principio oggettivo cui si informa il nostro ordinamento penale, in virtù del quale non è possibile punire un soggetto che non viola nessuna fattispecie penale. 7. Ignoranza o errore sulla legge penale. La conoscenza dell'illiceità del fatto penale non deve essere oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell'agente medesimo. Vediamo la disciplina che detta, il nostro ordinamento, nei confronti di un soggetto che ignora l'esistenza di una legge penale, cade in errore sui limiti o sulla corretta interpretazione. L'originaria formulazione dell'art. 5 c.p. prevedeva una assoluta ed invincibile presunzione di conoscenza della legge penale, in virtù della quale “nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale“. Il principio valeva anche per l'errore sulla legge penale e non solo per l'ignoranza. La ragione di tanta severità è da ricercare nell'assoluta prevalenza dell'esigenza di prevenzione e difesa sociale sul rispetto del principio di colpevolezza, per cui anche se un soggetto non avesse assolutamente potuto conoscere il precetto, senza che ciò gli potesse essere rimproverato, non avrebbe comunque potuto invocare a propria scusa l'inevitabilità dell'errore o dell'ignoranza, e sarebbe stato punibile. Con l'entrata in vigore della Costituzione, ed il conseguente affermarsi del principio di colpevolezza, si è manifestata l'esigenza di contemplare il principio ignorantia legis non excusat con la necessità di non punire tutti i soggetti nei confronti dei quali non è possibile muovere alcun rimprovero. Inizialmente, l'esigenza si è posta con riferimento a tutte le ipotesi di reato che costituiscono una mera violazione di una disposizione amministrativa (c.d. reati di pura creazione legislativa) in materia fiscale, tributaria, edilizia... Si capisce la ragione per la quale, proprio con riferimento alla contravvenzione si sia sviluppato, sin dagli anni ‘60 un primo orientamento giurisprudenziale finalizzato a dare rilievo all'impossibilità di conoscere il precetto penale. Si parla di buona fede nelle contravvenzioni, cioè quell'atteggiamento psicologico in virtù del quale il soggetto agente ha violato la norma penale, con la verosimile e non rimproverabile consapevolezza di agire in maniera lecita. Si Manuale di diritto penale Parte generale tratta di un orientamento che, oltre alla non conoscenza della norma richiede un altro elemento, positivo, che giustifichi l'errore sulla legge penale, quale, ad es., una atto della P.A. La ricerca di un punto di equilibrio coerente con il nuovo assetto ordinamentale è stata oggetto di vari interventi da parte della Corte Cost. Con la prima pronuncia, la Corte aveva stabilito che: “l'esigenza che ogni norma sia applicabile a tutti coloro che ne sono i destinatari, costituisce principio fondamentale di ogni ordinamento giuridico, e nell'ordinamento italiano in particolare per l'applicabilità della legge penale, il legislatore prescinde dall'informazione del destinatario sull'esistenza e sul tenore della norma... quindi non è fondato in riferimento agli art. 2 e 25 Cost. la questione di legittimità Cost. dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non prevede la possibilità di dare prova dell'ignoranza...” Tredici anni dopo, con la sentenza n. 364/1988, la Corte afferma la rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza, muovendo da una lettura dell'art. 27 Cost. (la responsabilità penale è personale) che alla luce della finalità rieducativa della pena intende il predicato personale non solo come “per fatto proprio”, ma anche “colpevole”. Ciò non significa che si possa punire solo quando è stata provata la concreta conoscenza del precetto penale bensì che è sufficiente, per fondare un giudizio di rimproverabilità dell'agente, che egli avesse la possibilità di conoscere la legge penale. Se tale conoscibilità è impedita, allora l'ignoranza o l'errore sulla legge, rivestono quel carattere inevitabile che esclude la colpevolezza del soggetto e non consente di punirlo. Se, l'agente ignora la norma penale, ma avrebbe potuto conoscerla allora l'ignoranza stessa è colpevole, ed egli deve essere punito (c.d. ignoranza evitabile). A tale soluzione di compromesso la Corte perviene attraverso il richiamo dell'art. 2 della Cost. che impone ai cittadini un dovere di solidarietà sociale nel quale rientra anche l'obbligo di informarsi, riguardo la liceità penale dei propri comportamenti. Inoltre la corte richiama congiuntamente gli artt. 25 e 73 Cost., che individuano un dovere, da parte dello stato, di informare adeguatamente e correttamente tutti i cittadini sui precetti penali. La conclusione è che l'art.5 c.p., disconoscendo ogni collegamento tra l'obbligo penalmente sanzionato e la sua riconoscibilità ed equiparandolo all'ignoranza evitabile delle legge penale l'ignoranza non colpevole, e, pertanto, inevitabile, viola lo spirito della Costituzione ed i suoi essenziali valori. Quindi l'art.5 c.p. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile. Il nuovo testo dell'art. 5 risulta così formulato:” l'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile”. Il problema più delicato attiene ai criteri di valutazione dell'inevitabilità, o meno, dell'ignoranza della norma penale. La Corte individua alcuni criteri c.d. oggettivi puri, che rendono impossibile la conoscenza della norma penale per tutti i consociati: l'assoluta oscurità del testo legislativo nonché una sorta di marasma interpretativo da parte degli organi giudiziari. Inoltre, possono venire in rilevo anche i c.d. criteri misti, quali assicurazione erronee di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare; precedenti, varie assoluzioni dell'agente per il fatto stesso. Quindi, criteri soggettivi puri, che prendono in considerazione solo le caratteristiche dell'agente, non possono essere presi in considerazione, a meno che non si tratti di reati di pura creazione legislativa, ed il soggetto abbia un'assoluta carenza di socializzazione. Manuale di diritto penale Parte generale CAPITOLO XX IPOTESI DI RESPONSABILITA' ANOMALA f.La responsabilità oggettiva del codice Rocco e gli effetti della evoluzione della giurisprudenza costituzionale. Il codice penale, nel delineare l'elemento soggettivo del reato, prevede una ulteriore forma di responsabilità: la legge determina i casi nei quali l'evento è posto a carico dell'agente come conseguenza della sua azione od omissione. È opinione comune che tale disposizione, art. 42 c.3 c.p., facesse riferimento ai casi di responsabilità oggettiva: responsabilità in assenza di dolo o colpa, fondata sul semplice nesso causale tra condotta ed evento. Infatti, nell'ottica del legislatore del 1930, i casi di responsabilità oggettiva erano diversi: responsabilità del direttore nell'ambito della stampa periodica, aberratio, evento preterintenzionale, delitti aggravanti dall'evento, la responsabilità del concorrente per evento diverso da quello voluto. Il punto in comune di tali forme di responsabilità è costituito dalla presenza di una volontà criminosa di partenza con uno sviluppo successivo casualmente collegato al reato voluto. Con l'avvento della Costituzione si fa strada l'idea che in campo penale la responsabilità oggettiva crea problemi di legittimità costituzionale. La norma da cui muove tale idea è art. 27 c.1 Cost., in cui si afferma che la "la responsabilità penale è personale”. Questa norma ha un primo significato: non è ammessa nessuna forma di responsabilità per fatto altrui. Accanto a ciò abbiamo un secondo significato: responsabilità personale non vuol dire solo rispondere del fatto proprio, ma implica che l'intervento della sanzione penale è giustificato solo nei confronti del fatto vi è "colpevolezza" (rimproverabilità sulla base di un coefficiente psicologico). Mentre, la dottrina è unanime nel raccogliere questo ampio significato, la Corte costituzionale si attesta sull'interpretazione più limitata del principio: essa vieta forme di responsabilità pe fatto altrui, ma non esclude la responsabilità oggettiva. La vera svolta nella giurisprudenza della Corte costituzionale si ha con la sentenza del 1988 la numero 364. Il problema sollevato concerne l'art. 5 c.p. sull'inescusabilità assoluta dell'ignoranza della legge penale: la corte perviene ad una declaratoria di parziale di illegittimità della norma, ma soprattutto riconosce che la responsabilità oggettiva è incostituzionale quando investe elementi significativi della fattispecie. Vediamo i passaggi principali della sentenza: va precisato che la colpevolezza costituzionalmente richiesta non costituisce elemento tale da poter essere condizionato, scambiato, sostituito con altri o eliminato. Per precisare meglio l'indispensobilità della colpevolezza quale attuazione delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana, ma anche lo stesso sistema, con il fine di attuare la funzione di garanzia data dal principio di legalità, si ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su congrui elementi subbiettivi. La strutturale ambiguità della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d'intervento contro la criminalità organizzata e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare cosa gli è lecito fare e cosa gli è vietato. Il principio di colpevolezza è indispensabile anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione. Il principio di colpevolezza costituisce il secondo aspetto del principio di legalità, vigente in ogni stato di diritto. Manuale di diritto penale Parte generale 4. Reato aberrante. 4.1. Aberratio delicti. Il c.p. dedica una specifica disciplina ad un'altra forma di errore. Che si verifica durante l'esecuzione del reato, denominata errore inabilità. Una prima ipotesi consiste nell'errore che comporta la realizzazione di un evento diverso da quello voluto, disciplinato dall'art. 83 c.p., definito aberratio delicti. La causa dell'errore non va ricercata in un difetto di percezione della realtà, ad esempio: tizio vuole colpire con un corpo contundente una vetrina, per rubarne il contenuto, ma cagiona una lesione per un errore di mira. Il reato diverso può sostituirsi a quello voluto o aggiungersi ad esso. Dovendo trattarsi di reato non voluto per poter individuare l'aberratio delicti occorre escludere il dolo eventuale nei confronti del diverso evento. Se davvero, l'evento diverso non è investito dal dolo, l'art. 83 stabilisce che il soggetto agente risponde a titolo di colpa, sempre che il fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo. Nell'ottica del legislatore del 1930 l'aberratio delicti rappresentava un classico esempio di responsabilità oggettiva. L'inquadramento di essa nell'ambito delle ipotesi di responsabilità oggettiva, fondata sul nesso di casualità, suscita le solite obiezioni, soprattutto per il contrasto con l'art.27 c.1, che sancisce il principio di personalità della responsabilità penale. Per tale ragione l'art. 83 c.p. è stato reinterpretato in modo da renderlo compatibile con la nuova disciplina costituzionale. Quindi, non è una forma di responsabilità oggettiva disciplinata con le pene dei reati colposi; il fatto è punibile solo se in concreto sussiste la colpa. Questa interpretazione finse per neutralizzare la portata concreta dell'art. 83 c.p.: se c'è colpa ed il fatto è previsto come reato colposo la responsabilità discende dall'applicazione dei principi generali. D'altra parte questa interpretazione abrogatrice dell'art. 83 c.p. è un percorso obbligatorio se si vuole evitare di formare una declaratoria di illegittimità da parte della corte per contrasto con l'art. 27 Cost. significativa a proposito la sentenza della corte di Cassazione che ha convalidato tale direzione. (Sentenza p.397-400). In conclusione si può affermare che in via interpretativa l'aberratio delicti è stata recuperata nel quadro dell'applicazione dei principi generali in materia di elemento oggettivo, superando la prospettiva originaria del legislatore del 1930. Il c.2 nulla aggiunge alle precedenti conclusioni. La formula usata evidenzia che si è di fronte ad un contrasto formale di reati, uno di natura dolosa ed uno colposo. 4.2. Aberratio ictus. La seconda forma di reato aberrante è individuata nell'art. 82 c.p. e definita aberratio ictus. Si descrive così la situazione in cui l'autore di un reato realizza il fatto che realmente intendeva compiere, ma per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, colpisce una vittima diversa da quella voluta. Rispetto all'aberratio delicti vi è una profonda differenza: il reato realizzato è quello che il reo voleva commettere, ma la vittima ha un'identità diversa. Manuale di diritto penale Parte generale Si tratta di una situazione analoga a quella costituita dal c.d. error in persona nel quale la divergenza tra vittima reale e designata discende da un difetto di rappresentazione, nell'aberratio ictus la divergenza deriva da un errore nell'esecuzione del reato. Il c. 1 art. 82 c.p. precisa che il reo risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere ma fa salve, per quanto riguarda le aggravanti e le attenuanti le disposizioni dell'art. 60 c.p. Il significato effettivo di questa norma è controverso. L'autore dell'aberratio ictus sarebbe chiamato a rispondere con le pene dei delitti dolosi per un fatto che doloso non è: l'art. 82 avrebbe la funzione di sanzionare con le pene dei reati dolosi fatti che sarebbero realizzati solo per colpa o in presenza di un mero rapporto di casualità materiale. Per attutire la durezza di questa disciplina si propone di subordinare l'operatività dell'art.82 c.1, all'individuazione di un coefficiente colposo per evitare problemi di illegittimità per contrasta con art. 27 Cost. si tratterebbe di responsabilità anomala: il reato sarebbe sostanzialmente colposo, ma verrebbe punito con le pene del delitto doloso. Tale linea non è convincente. In primis l'identità di una vittima di un reato non è un elemento costitutivo e non rientra nell'oggetto del dolo. L'irrilevanza dell'identità della vittima è dimostrata dalla pacifica disciplina del c.d. error in persona: se un soggetto che vuole uccide re A uccide B, perché lo ha scambiato per A, non si dubita per la sua responsabilità per omicidio doloso. Non si capisce per quale motivo si dovrebbe ritenere che, in assenza art. 82, il soggetto che volendo uccidere A uccide B dovrebbe sfuggire alle pene del delitto doloso. Secondo l'interpretazione più corretta il c.1 dell'art. 82 c.p. non ha una funzione incriminatrice estensiva, ma esprime una valutazione conforme ai principi generali. La sua funzione effettiva è quella di estendere alle ipotesi di aberratio ictus la disciplina delle circostanze previste dall'art.60 c.p. per le situazioni di errore di persona. 4.3. Aberratio causae. Non ha rilevanza la terza forma di aberratio, riguardante il rapporto di casualità e definita aberratio causae. Essa fa riferimento ad una particolare divergenza tra voluto e realizzato che emerge nella fase esecutiva. Si ritiene che questa forma di errore non incide sull'elemento soggettivo e quindi la responsabilità sia doloso, essendo irrilevante che la causa dell'evento sia diversa da quella programmata. 5. La responsabilità per i reati commessi a mezzo stampa. Il c.p. fa salva la possibilità d'incriminazioni per concorso doloso con l'autore dello scritto, in tutti i casi in cui il direttore responsabile era chiamato a rispondere con le pene del reato commesso e da lui non impedito. Si era di fronte ad un caso di responsabilità oggettiva, mitigata dalla diminuzione (fino ad 1/3) della pena inflitta. L'art. 57 sopravvive perfino ad uno dei primi interventi della corte costituzionale che accenna ad un'interpretazione in chiave di responsabilità colposa, nonostante il tenore letterale dell'art. 57 c.p.22., nel 1958 tale articolo viene rescritto assumendo la forma attuale, con un riferimento alla colpa del direttore. In tal modo l'art.57 esce dal catalogo delle norme individuatrici di casi di responsabilità oggettiva e diviene compatibile con il principio di colpevolezza. & Manuale di diritto penale Parte generale 5.1. L'inapplicabilità dell'art. 57 c.p. ai periodici on line. L'art. 57 nell'individuare la responsabilità del direttore di un periodico, fa riferimento alla stampa. Per interpretare l'ambito di operatività della disciplina appena esaminata occorre fare ricorso alla legge n-47/1948, disposizioni sulla stampa, che rappresenta ancora oggi il punto di riferimento fondamentale in materia. L'art. 1 di tale legge contiene la definizione di stampa. A tale norma è inevitabile appellarsi per risolvere il problema della responsabilità del direttore di un periodico on line per reati commessi attraverso quest'ultimo. La diffusione di periodici telematici è fenomeno recente, ma non così nuovo da giustificare l'inerzia del legislatore, ciò ha indotto parte della giurisprudenza ad avventurarsi lungo la strada di un'interpretazione creativa, volta ad applicare ai reati commessi su periodici on line la disciplina dell'art.57 c.p. Alla luce di tale normativa si è sostenuto che fosse intervenuta una totale equiparazione tra direttore del periodico on line e su carta. Alla fine si può dire che, al direttore di un periodico on line non è estendibile la disciplina stabilita dall'art.57 c.p. in quanto limitato alla stampa. 5.2. I reati commessi col mezzo radiotelevisivo. La lentezza del legislatore nell'adeguare la disciplina dei reati commessi attraverso i mezzi di comunicazione di massa all'evoluzione tecnologica è evidenziata anche in materia di responsabilità per i reati commessi con mezzo radiotelevisivo. L'esistenza del problema era palese a fronte della diffusione di notizie attraverso telegiornali e radiogiornali, governati da direttori responsabili. Un primo tentativo di aggiramento dell'inerzia del legislatore venne attuato sollecitando la Corte Costituzionale ad intervenire, per sanare la disparità di trattamento tra direttore di un giornale e di un telegiornale, con una sentenza che ampliasse l'ambito di applicazione dell'art. 57 c.p. tale tentativo è naufragato. Il successivo interpello della Corte avviene al fine di ottenere una equiparazione al ribasso della responsabilità in ambito di processi riguardanti direttori di giornali. In tal caso, la corte è costretta ad entrare nel merito ed effettua un faticoso salvataggio dell'art. 57 c.p. attraverso una non molto persuasiva declaratoria di maggior pericolosità dei giornali rispetto alle trasmissioni via etere. Dopo alcuni anni il legislatore decide di intervenire con la legge n.223/1990, il cui art. 30 sembra dimostrare una presa di coscienza del problema; il c.1 responsabilizza il concessionario e costituisce nel c.3 un modello di responsabilità analogo a quello previsto dell'art. 57. Infatti si stabilisce che fuori dai casi di concorso i soggetti di cui al c. 1 che per colpa omettano di esercitare sul contenuto delle trasmissioni il controllo necessario ad impedire la commissione dei reati di cui ai c. 1 e 2 sono puniti, se nelle trasmissioni è commesso un reato, con la pena stabilita per tale reato diminuita in misura non eccedente ad un terzo. L'equiparazione si rivela limitatissima, in quanto l'art. 30 c. 3, è applicabile solo ai reati di cui ai commi 1 e 2 della stessa norma, e cioè alle trasmissioni che abbiano carattere di oscenità, punite dall'art. 528 c.p. solo per questi reati può scattare la responsabilità per colpa del direttore responsabile. Per tutti gli altri reati valgono i principi generali e quindi la responsabilità è solo per dolo. Successivamente sono stati oggetto di discussione disegni di legge volti ad ampliare l'ambito dell'art. 57 c.p. ai reati commessi col mezzo radiotelevisivo o via internet, ma il loro iter non è mai giunto a conclusione, fino ad oggi.
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