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Concetto Norma Giuridica e Legge: Caratteristiche e Conflitti, Sintesi del corso di Istituzioni di Diritto Privato

Il concetto di norma giuridica e legge, le loro differenze essenziali e i loro caratteri essenziali. Viene inoltre discusso il controllo di legittimità costituzionale delle leggi, la disciplina di fonti del diritto, il diritto internazionale privato e i conflitti di leggi. Il documento illustra anche il ruolo della costituzione italiana e della corte costituzionale nel controllo delle leggi.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 18/02/2019

alice-sulli-galotti
alice-sulli-galotti 🇮🇹

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 NOZIONI PRELIMINARI
 Capitolo 1 - L’ordinamento giuridico 1. L’ordinamento giuridico. 
 Ogni società non può vivere senza un complesso di regole che disciplini i rapporti tra le persone che compongono l’aggregazione e senza apparati che si incarichino di farle osservare. Questa osservazione si può anche applicare allo Stato moderno che necessità di un complesso di regole che regolino i rapporti tra i cittadini e gli uffici. 
 L’uomo per sua natura ricerca aiuto e collaborazione dai suoi simili: la collaborazione tra gli uomini rende realizzabili risultati che sarebbero irraggiungibili per il singolo ed accelera il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi favorendo la divisione del lavoro e facendo si che ciascuno si dedichi ad un attività conforme alle proprie attitudini. 
 Non ogni forma di collaborazione però da luogo ad una collettività: è riservata ai soli agglomerati di persone che costituiscono un gruppo organizzato al quale occorrono tre condizioni:
 1) il coordinamento dei rapporti individuali deve essere disciplinato da regole di condotta, facendo in modo che il comportamento del singolo venga governato per facilitare la collaborazione nel gruppo e il perseguimento degli obiettivi 
 2) le regole non possono essere applicate in via transitoria ma stabilite da appositi organi che devono seguire precise regole di struttura o di competenza o organizzative 3) che sia le regole di condotta che quelle di struttura vengano effettivamente osservate, questo perché il principio di effettività (il principio che prevede la concreta esecuzione di quanto stabilito dal diritto sostanziale) non implica che sempre e tutte le regole vengano eseguite costantemente e con la medesima applicazione. Il principio di effettività segna il limite oltre il quale può ancora dirsi che un dato ordinamento disciplina un gruppo: nel caso in cui un organizzazione non è più in grado di funzionare e di far rispettare le norme (es. rivoluzione), si conclude che la collettività si è sciolta e che presiede un nuovo sistema di regole. 
 
 L’ordinamento giuridico è il sistema di regole, modelli e schemi attraverso i quali viene organizzata la collettività e regolato lo svolgimento della vita sociale. La finalità di questo fenomeno giuridico è quello di ordinare la realtà sociale , cioè di fare in modo che si svolga in conformità ad un dato ordine. Naturalmente, qualsiasi ordinamento è il risultato di una continua evoluzione dei comportamenti dei membri della collettività, delle loro lotte e alleanze, delle ideologie permanenti, ecc. È inoltre ovvio che l’ordine è suscettibile a diverse valutazioni a seconda di chi forma il giudizio e di conseguenza conserva, riforma o addirittura rivoluziona il cosiddetto “ordine costituito”. 
 L’ordinamento di una collettività costituisce il suo diritto in senso oggettivo, quindi il sistema di regole che organizzano la vita sociale, diverso dal diritto soggettivo (cioè del singolo) che intende una situazione giuridica appartenente ad un determinato individuo (es. il diritto di proprietà di un soggetto su un certo bene. 
 
 2. L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici. 
 Gli uomini danno vita a collettività di vario tipo, quella più importante è la società politica rivolta alla soddisfazione non dei vari bisogni dei consociati ma di quello più importante condizionandone il conseguimento e che consiste nell’assicurare i presupposti necessari affinché le varie attività promosse dai bisogni stessi possano svolgersi in modo ordinato e pacifico. A tal fine l’organizzazione della comunità politica mira a:
 - impedire le aggressioni tra gli stessi componenti del gruppo prevedendole o scoraggiandole mediante la minaccia di sanzioni 
 - potenziare la difesa dell’intera collettività contro i pericoli esterni, attraverso il coordinamento dei rapporti 
 - promuovere lo sviluppo ed il benessere della comunità dei consociati 
 Ovviamente la società politica non svolge solo questo ruolo ma assume una struttura particolarmente articolata che le consente di dedicarsi alla realizzazione di altri scopi. 
 In epoca moderna si è verificato un fenomeno di espansione dei compiti pubblici: la rivoluzione industriale aumentando l’accesso ai beni di consumo e diminuendone il prezzo ha contribuito a provocare una rapida elevazione del livello culturale di massa, portando ad una forte pressione nel garantire a tutti il pieno sviluppo della persona. Questo stesso sviluppo delle dimensioni spinge il potere pubblico ad interventi frequenti per proteggere ed incentivare o per regolare e frenare il fenomeno industriale e l’iniziativa economica che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, of 1 19 alla libertà, alla dignità umana. 
 Naturalmente le società politiche hanno assunto forme diversissime nella storia: oggi però è centrale la nozione di Stato che si identifica con una certa comunità di individui, stanziata in un certo territorio sul quale si dispiega la sovranità dello Stato ed organizzata, in base ad un certo sistema di regole, cioè un ordinamento giuridico. 
 Un ordinamento giuridico si dice originario quando superiorem non recognoscit, quindi quando la sua organizzazione non è soggetta ad un controllo di validità da parte di un’altra organizzazione, come per i singoli Stati, la Chiesa Cattolica, la Comunità europea, le organizzazioni internazionali.
 Nel problema della pluralità degli ordinamenti va valutata la soggezione di ciascun individuo alle regole di uno o più ordinamenti, che è frutto di una adesione spontanea del singolo, necessaria ed inclinabile (come un cittadino straniero che si trova in Italia o viceversa).
 
 3. Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea. 
 Nella teoria dell’ordinamento giuridico partecipa anche l’Italia alla comunità internazionale per avere una più intensa collaborazione fra gli Stati per il mantenimento della pace e della diffusione dello sviluppo economico, atti presi a causa della seconda guerra mondiale e all’entrata in vigore della Costituzione). L’articolo 10 della Costituzione enuncia il principio per cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Il diritto internazionale, come insieme di regole che disciplinano i rapporti fra gli Stati (che si proclamano sovrani) è un diritto che ha fonte consuetudinaria e trae origine dalla prassi delle relazioni tra gli Stati o pattizia, che nasce da appositi accordi di carattere bilaterale o plurilaterale che ciascuno Stato stringe con altri e che si impegna a rispettare. I trattati internazionali vincolano lo Stato solo se ratificati (attraverso l’autorizzazione con apposita legge). Ovviamente, le norme del diritto internazionale consuetudinario fanno parte dell’ordinamento giuridico dello Stato. 
 L’articolo 11 della Costituzione stabilisce che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Questo principio rende ammissibile la sottoposizione dello Stato alle regole di un’organizzazione sovranazionale, le cui norme sono imposte la volontà degli organi dello Stato stesso, con una limitazione delle “sovranità” dello Stato. 
 La norma costituzionale era pensata in vista della partecipazione dell’Italia all’ONU, Dalla stipulazione del Trattato di Roma del 1957 che ha dato vita alla Comunità Economica Europea e ha implicato l’accettazione di limiti alla sovranità dello Stato che si è sottoposto alla volontà della maggioranza degli altri Stati membri. Il processo di integrazione europea è stato lungo e difficoltoso, partendo dai tre iniziali Trattati istitutivi di organismi: Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), nel 1951 - la Comunità Economica Europea (CEE), nel 1957 - la Comunità Europea per l’Energia Atomica (Euratom), nel 1957. 
 Il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, ha istituito l’Unione Europea e ha modificato il Trattato istitutivo della CEE, facendolo diventare “Comunità Europea”, quindi non più solo economica. Ulteriori modificazioni sono state introdotte dal Trattato di Amsterdam (2 ottobre 1997 e entrato in vigore il 1 maggio 1999), il Trattato di Nizza (26 febbraio 2001, entrato in vigore il 1febbraio 2003). 
 
 4. La norma giuridica.
 L’ordinamento di una collettività è costituito da un sistema di regole che disciplinano la vita sociale. Ciascuna di queste regole si chiama “norma” e siccome il sistema di regole da cui si assicura l’ordine di una società rappresenta il “diritto”, in senso oggettivo, ciascuna di tali norme si dice giuridica (in quanto appartenente allo ius —> corpus iuris civilis). 
 La giuridicità di una norma non è la conseguenza di una peculiarità nel suo contenuto, ma dipende dal fatto che vada considerata e dotata di autorità (perché inserita nel sistema giuridico). Non bisogna quindi chiedersi se una certa regola sia o non sia giuridica perché la risposta dipenderà dal fatto che quella regola sia stata o meno, in quell’ordinamento) dotata di autorità, cioè se è suscettibile all’essere vincolata nei confronti di tutti i consociati. Questo succede quando una regola trovi origine in un atto o in un fenomeno normativo, ossia un fenomeno idoneo a porsi come fonte di norme giuridiche. 
 La norma giuridica non va confusa con la norma morale, anche nel caso in cui abbiano un contenuto identico. Infatti, mentre la regola morale è assoluta, quindi trova nel suo contenuto la propria validità e obbliga solo l’individuo che riconoscendone il valore decide di adeguarvisi, rendendola autonoma, quindi funge da imperativo solo in quanto la coscienza del singolo spontaneamente ne accetti il comando, la regola giuridica deriva la propria forza vincolante perché prevista da un atto dotato di autorità nell’ambito dell’organizzazione di una collettività facendo si che anche quando disciplina l’azione del singolo (le cosiddette norme di condotta), si presenta come eteronoma, cioè imposta da altri. 
 I fatti produttivi di norme giuridiche si chiamano fonti. La norma è espressione della volontà di un organo of 2 19 pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È un indicazione pragmatica rivolta al legislatore ordinario, sollecitato ad assumere misure idonee ad attenuare le differenze di fatto che discriminano le condizioni di vita dei singoli. 
 
 9. L’equità.
 In qualche ipotesi può avvenire che l’applicazione del comando dia luogo a conseguenza che urtano contro il sentimento della giustizia. Si è verificata qualche circostanza non prevista dal legislatore o che non ha potuto o voluto tener conto al momento in cui la norma fu elaborata. L’equità è stata definita la giustizia del caso singolo. L’ordinamento giuridico sacrifica spesso la giustizia del caso singolo all’esigenza della certezza del diritto, perché ritiene pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del giudice e preferisce che i singoli possano prevedere esattaemnte quali saranno le conseguenza dei loro comportamenti (principio della certezza del diritto). Questo presuppone (1) comprensibilità delle leggi, (2) stabilità della giurisprudenza, (3) retroattività delle norme. Inoltre, la legge stabilisce che il giudice deve eseguire le norme del diritto e può far ricorso all’equità soltanto nel caso in cui la stessa “legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità”, il che avviene nelle cause di minor valore, di competenza del Giudice di Pace, cioè quando le parti attribuiscono concordemente al giudice di potere di decidere secondo equità. In tutte le altre ipotesi la norma deve essere rigorosamente applicata che si esprime con “summus ius, summa iniura”. Anche nell’ipotesi eccezionale in cui è ammesso il risultato all’equità, il giudice non può far prelevare le sue concezioni personali (c.d. equità cerebrina), ma deve ispirarsi a quelle accolte dall’ordinamento vigente e ricercare come si sarebbe comportato il legislatore se avesse potuto prevedere il caso. Dall’equità come criterio decisorio (caso singolo), va distinta l’equità integrativa, che si riferisce ai casi in cui la legge prevede che il giudice provveda ad integrare o determinare “secondo equità” gli elementi di una fattispecie. 
 Capitolo 2 - Il diritto privato e le sue fonti 
 10. Diritto pubblico e diritto privato. 
 Una distinzione tradizionale un tempo considerata fondamentale è quella tra diritto pubblico e diritto privato. Il diritto pubblico disciplina l’organizzazione dello Stato e degli altri enti pubblici, regola la loro azione, interna e di fronte ai privati, ed impone a questi ultimi il comportamento cui sono tenuti per rispettare la vita associata e il reperimento dei mezzi finanziari necessari per il perseguimento delle finalità pubbliche (si articola nelle varie branche del diritto costituzionale, amministrativo, penale, tributario, ecc.). Il diritto privato disciplina le relazioni interindividuali, sia dei singoli che degli enti privati, lasciando alla iniziativa personale anche l’attuazione delle singole norme. Il diritto privato è parte dell’ordinamento (ius positum), cioè del complesso di norme dettate avendo presenti gli interessi ti tutta la società, ma si tratta di disposizioni in base alle quali il singolo, non si viene a trovare in situazioni di soggezione di fronte ad un potere pubblico, bensì opera su un piano di eguaglianza con gli altri individui.
 La linea di demarcazione tra diritto pubblico e privato è variabile: lo Stato può avocare a sé la realizzazione di funzioni un tempo lasciate ai privati (come la scuola), può sanzionare penalmente comportamenti un tempo considerati di mero interesse privato (dettando norme innovative per la protezione dei lavoratori o dell’ambiente), può rinunciare ad organizzare in forma pubblica determinati tipi di attività, restituendoli all’iniziatica privata (come nel caso della privatizzazione di distributori di energia). La contrapposizione è inoltre incerta: enti pubblici possono svolgere attività di diritto privato in concorrenza con aziende private, soggetti privati possono essere concessionari di servizi pubblici (ferrovie). Molto spesso un medesimo fatto è disciplinato sia da norme di diritto privato che da norme di diritto pubblico (l’investimento di un pedone fa scattare sia la sanzione civile per il risarcimento del danno che la sanzione penale per lesioni colpose). 
 
 11. Distinzione tra norme cogenti e norme derogabili. 
 Non tutte le norme di diritto privato sono sempre obbligatoriamente osservate dai singoli, si possono infatti distinguere in: 
 - derogabili o dispositive: le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati.
 - inderogabili o cogenti: quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli.
 - suppletive: destinate a trovare applicazione solo quando i soggetti privati non abbiamo provveduto a disciplinare un determinato aspetto della fattispecie, in relazione al quale sussiste dunque una lacuna, cui la legge sopperisce intervenendo a disciplinare ciò che i privati hanno lasciato privo di regolamentazione. (art. 1193, comma 1 - attribuisce in prima istanza al debitore, che abbia più debiti nei confronti del creditore, of 5 19 la facoltà di dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare. Qualora non lo facesse interviene in seconda istanza la legge con il comma 2 che dispone a quale debito il pagamento deve essere imputato). 
 Anche se le norme di diritto pubblico sono quasi sempre cogenti e quelle di diritto privato dispositive, non bisogna credere che la distinzione in esame coincida con quella tra norme di diritto pubblico e norme di diritto privato. Anche l’osservanza delle norme privatistiche inderogabili richiede in caso di violazione l’iniziativa del singolo, non essendo compito degli organi pubblici far rispettare norme di diritto privato. 
 Con la norma dispositiva il legislatore, ai fini della certezza del diritto, pone un criterio di disciplina nel caso in cui la volontà dei singoli non si è manifestata, quindi enuncia una regola corrispondente ad un modello abituale di regolamentazione di quel tipo di operazione economica, che però le parti possono esprimendo una manifestazione di volontà, rendere inoperante (art. 1815 “salvo diversa volontà dalle parti). Il carattere cogente risulta spesso direttamente dalla sua formulazione (art.147 “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole), oppure dalla previsione della nullità dell’atto compiuto senza l’osservanza della norma (art.1350 impone a pena di nullità che gli atti di trasferimento della proprietà di beni immobili siano fatti per iscritto), o in contrasto con specifici limiti alla libertà dei privati di regolare i loro rapporti (art. 1229 è nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave). 
 
 12. Fonti delle norme giuridiche. 
 Per fonti legali di produzione delle norme giuridiche si intendono si intendono gli atti e i fatti che producono o sono idonei a produrre diritto. Dalle fonti di produzione si distinguono le fonti di cognizione, i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui prendere conoscenza del testo di un atto normativo (Gazzetta Ufficiale). Alle fonti di produzione delle singole norme giuridiche si possono contrapporre le fonti di un intero ordinamento: le vicende storico-politiche che ne hanno determinato la nascita con quelle determinate caratteristiche. Le fonti si possono distinguere in materiali (atti o fatti produttivi di norme generali ed astratte, a prescindere dalla concreta fattispecie produttiva: l’accento cade sul risultato) e formali (atti o fatti idonei a produrre diritto, a prescindere dal concreto contenuto della singola fattispecie: l’accento cade sull’atto). 
 Rispetto a ciascuna fonte, quando si tratti di un atto si può individuare:
 a) L’Autorità investita del potere di emanarlo (Parlamento, Governo)
 b) Il procedimento formativo dell’atto (procedimento di emanazione di una legge costituzionale, ovvero ordinaria statale, ovvero regionale)
 c) Il documento normativo (la legge considerata nel suo testo o nella sua lettera)
 d) I precetti ricavabili dal documento (significato ricavabile dall’interpretazione del testo)
 
 È chiaro che ogni ordinamento deve stabilire (ante omnia) le norme sulla produzione giuridica, cioè a quali Autorità, a quali organi e con quali procedura venga affidato il potere di emanare le nrome e con quali valori gerarchici. È indispensabile regolare il rapporto gerarchico nel caso in cui un ordinamento contempli una pluralità di fonti, bisogna precisare nel caso due o più fonti stabiliscano regole contrastanti, quale debba prevalere. 
 Gerarchia delle fonti: esprime una regola sulla produzione giuridica, che identificala norma applicabile in caso di contrasto tra norme provenienti da fonti diverse. 
 L’ art1 delle “preleggi” anteposte al codice civile del 1942, ordinava le fonti ponendo al primo posto la legge, al secondo i regolamenti, al terzo le norme corporative, e all’ultimo gli usi. Con la caduta del fascismo le norme corporative hanno perduto efficacia. Nel dopoguerra si sono aggiunte fonti del diritto a partire dalla Costituzione nel 1948 che ricostruisce la gerarchie delle fonti interne: 
 1) principi definiti supremi da cui discendono i diritti inviolabili (art.2 Cost.), cosicché queste norme appaiono insuscettibili di modifica 
 2) disposizioni della Carta costituzionale e delle leggi di rango costituzionale 
 3) le leggi statali ordinarie e le altre fondi di cui l’art. 1 delle preleggi 
 Vengono poi inserite le leggi regionali e le norme di matrice comunitaria. 
 
 13. a) La Costituzione e le leggi di rango costituzionale. 
 La Costituzione ha la funzione di fondamentale norma sulla produzione giuridica e stabilisce, regolando il procedimento di formazione delle leggi, la disciplina degli atti normativi. La Costituzione italiana pone regole e principi che si atteggiano a limiti sostanziali all’attività del legislatore. I principi supremi enunciati dalla Costituzione costituiscono limiti allo stesso potere del legislatore costituzionale, perché non suscettibili di revisione (un divieto espresso di revisione è previsto solo per la forma repubblicana dello Stato). Le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali devono essere approvate con un apposita procedura (art.138 Cost.)
 La Costituzione italiana è rigida in quanto una legge ordinaria dello Stato non può né modificare la of 6 19 Costituzione o altra legge di rango costituzionale, né contenere disposizioni in contrasto con norme costituzionali. A presidio di questa rigidità è stato istituito un apposito organo, la Corte Costituzionale, cui è affidato il compito di controllare se disposizioni di una legge ordinaria siano in conflitto con norme costituzionali. Il controllo di legittimità costituzionale delle leggi è previsto nella forma del controllo incidentale: se un giudice, chiamato a decidere una specifica controversia, ritiene di dover applicare ai fini della decisione una determinata norma di legge, e quella norma gli appare di sospetta incostituzionalità, deve rimettere gli atti del processo alla Corte Costituzionale. 
 È previsto un giudizio di costituzionalità in via principale, che può essere permesso dal Governo, contro le leggi regionali che eccedano la competenza legislativa delle Regioni o una Regione contro le leggi dello Stato o di un’altra Regione che ledano la sua sfera di competenza. Non è consentito a singoli privati rivolgersi direttamente alla Corte Costituzionale per denunciare l’illegittimità di una legge. Se la corte ritiene illegittima la norma sottoposta al suo esame, dichiara con sentenza l’incostituzionalità, che cessano di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art.136 Cost.). 14. b)Le leggi dello Stato e le leggi regionali. Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con una particolare procedura disciplinata dalla Carta Costituzionale. La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma non avente valore di legge e non può essere modificata o abrogata se non da una legge successiva. La legge ordinaria può essere abrogata con referendum popolare (art. 75 Cost.) Ci sono materie che non possono essere regolate se non mediante leggi (c.d riserva di legge) e quindi non possono essere disciplinate da fonti normative di rango inferiore. 
 Alle leggi statali sono equiparati sia i decreti legislativi delegati che i decreti legge di urgenza. Si tratta di provvedimenti aventi forza di legge emanati dal Governo e può avvenire o in virtù di una legge di delega del parlamento (art. 76 Cost. rispetto dei limiti della delega perché se no il decreto diventa incostituzionale per il c.d. eccesso di delega) o in presenza di casi straordinari di necessità e urgenza dove però il decreto deve essere convertito in legge dal Parlamento entro sessanta giorni altrimenti perde efficacia. 
 L’art. 117 della Carta costituzionale approvata nel 1948 conferiva alle regioni un potere legislativo nell’ambito di un insieme determinato di materie e ponendo il diritto di fonte regionale in posizione sottordinata rispetto a quello dello Stato. La L. cost. 18 ottobre 2001, ha modificato l’intero Titolo V Cost., soprattutto per quanto interessa in questo caso, il nuovo testo dell’art.117 che regola i rapporti tra leggi dello Stato e leggi regionali anzitutto definendo le rispettive competenze: lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in un insieme di materie enumerate dall’art. 117, esistono poi “materie di legislazione concorrente” tra Stato e regione dove la potestà legislativa spetta alle Regioni, compete però alla legislazione dello Stato la determinazione dei “principi fondamentali”, infine è attribuita alle Regioni potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Quindi oggi il criterio fondamentale non è più quello della gerarchia, ma quello della competenza, in quanto sono stabiliti distinti ambiti in operatività. Il principio di gerarchia torna ad operare nelle materie di legislazione concorrente, poiché in tal caso allo Stato spetta la funzione di stabilire i principi fondamentali ai quali le legge regionale si deve attenere. 
 
 15. c) I regolamenti.
 Subordinate alle leggi vi sono altre “fonti” del diritto: l’art. 1 delle preleggi menziona i regolamenti, le norme corporative (non esistono più dopo lo scioglimento del sistema fascista) e gli usi. I regolamenti sono fonti secondarie del diritto e possono essere emanate dal Governo, dai ministri e da altre autorità amministrative, anche non statali, come il c.d. autorità indipendenti. Essi hanno contenuto normativo, in quanto pongono norme generali ed astratte (ma prevengono dall’autorità amministrativa non dal potere legislativo). I regolamenti, per esempio, disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici uffici, o anche degli organi costituzionali, ovvero regolano specifiche materie in forza di una delega o autorizzazione contenuta in una legge , che può fare rinvio, a successivi regolamenti (i regolamenti della Consob assumono rilievo in disciplina dei mercati finanziari che completano la disciplina legislativa). 
 
 16. d) Le fonti comunitarie. 
 Le fonti normative di matrice comunitaria (entrambe nell’art. 249 del Trattato CE) si distinguono in: 
 a) Regolamenti: contengono norme applicabili dai giudici dei singoli Stati membri come se fossero leggi dello Stato; la Corte Costituzionale ha dichiarato che, nel caso di contrasto tra un regolamento e una legge interna, il giudice italiano deve “disapplicare” la norma interna e applicare la norma regolamentare (anche se la norma interna è posteriore a quella regolamentare rendendola in posizione gerarchica superiore alla legge ordinaria dello Stato). 
 of 7 19 Capitolo 3 - L’efficacia temporale delle leggi 
 19. Entrata in vigore della legge. Per l’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi si richiede, oltre all’approvazione da parte delle Camere: 
 a) la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica (art.73 Cost)
 b) la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (art.73 ult. comma Cost.)
 c) Il decorso di un periodo di tempo detto vacatio legis, che va dalla pubblicazione all’entrata in vigore della legge, che di regola è di 15 giorni salvo che la legge stessa stabilisca un termine diverso. 
 Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi in realtà non ne abbia conoscenza. Vale il principio tradizionale per cui ignorantia iuris non excusat, cosicché nessuno può invocare a propria scusa, per evitare una sanzione, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge. La Corte Costituzionale ha stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile. 
 
 20. Abrogazione della legge.
 Una disposizione di legge viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi l’efficacia (anche se una disposizione abrogata può continuare ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione, e può essere previsto da un apposito regime transitorio). Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione nuova a pari valore gerarchico, così una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore (art.15 disp.prel.cod.civ.). 
 L’abrogazione può essere:
 - espressa, quando la legge a posteriore dichiara esplicitamente abrogata una legge anteriore, o suoi singoli articoli. 
 - tacita, se manca, nella legge successiva, una tale dichiarazione formale, ma le disposizioni a posteriori o (1) sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti, cioè se le disposizioni successive e quelle precedenti hanno una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione o (2) costituiscono una regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina. 
 La deroga si ha quando una nuova norma pone, solo in specifici casi, una disciplina diversa da quella prevista dalla norma precedente, che continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi. 
 Un’altra figura di abrogazione espressa può essere espressa tramite referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza aventi diritto e la proposta consegua la maggioranza dei voti espressi (art.75 Cost.).
 Anche la dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire, ex nunc (la legge benché abrogata può essere applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionalità annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata. Restano salvi soltanto i rapporti definiti con sentenza passata in giudicato (art. 136 Cost.). L’abrogazione di una norma che aveva abrogato una norma precedente non fa rivivere quest’ultima salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria. 
 
 21. Irretroattività della legge. 
 La fattispecie descritta in astratto dalla norma, determina la conseguenza giuridica ivi prevista quando si verificano in concreto i fatti astrattamente previsti da quella norma. È logico, quindi, che la norma si applichi alla fattispecie in essa descritta (in astratto) che si verifica (in concreto) successivamente all’entrata in vigore della norma stessa. L’art. 11 comma 1 delle preleggi stabilisce che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Si dice quindi retroattiva una norma la quale attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore. La irretroattività di una legge deve considerarsi principio di civiltà giuridica, in quanto posta a presidio della certezza del diritto e a garanzia dei consociati la quale condotta non può essere valutata in base a regole introdotte ex post facto. Nel nostro ordinamento soltanto la norma incriminatrice penale non può essere retroattiva: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. Ogni altra norma può essere anche retroattiva, ma in linea di principio, non lo è, a meno che il legislatore non la qualifichi tale con formulazione non equivoca. 
 Efficacia retroattiva hanno poi, le c.d. legge interpretative, cioè le leggi emanate per chiarire il significato di norme antecedenti e che quindi si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime, quand’anche anteriori all’emanazione della legge interpretativa. Se la norma ha efficacia retroattiva, essa si applica anche alla of 10 19 risoluzione delle controversie che siano ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore. Vengono invece salva diversa disposizione legislativa, rispettati gli effetti delle sentenza già passate in giudicato. 22. Successioni delle leggi. 
 In alcuni casi interviene il legislatore a regolare il passaggio tra la legge vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano disposizioni transitorie. Ad esempio il cod. del 1942 non consentiva il riconoscimento dei figli adulterini da parte del genitore adultero, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha abrogato questo divieto ammettendo il riconoscimento del figlio naturale e la L.19/05/1975 n.151 ha stabilito che le disposizioni della legge si applicano anche ai figli nati o concepiti prima della sua entrata in vigore. Può avvenire o che il legislatore non abbia affatto provveduto o che pur avendo provveduto non abbia previsto alcuni casi. Ed allora sorgono dedicate questioni che vengono designato come questioni di diritto transitorio. Due teorie sono state sostenute a questo proposito: 
 - la legge nuova non può colpire i diritti quesiti che cioè sono già entrati nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito)
 - la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stessi siano pendenti degli effetti (teoria del fatto compiuto)
 La prima teoria viene criticata sotto il profilo che non sempre è agevole la distinzione che essa introduce tra diritto quesito e la semplice aspettativa dell’acquisto di un diritto. 
 La teoria del fatto compiuto è maggiormente seguita. Ad esempio dovrebbe ritenersi estinto un diritto una volta decorso il termine fissato per la sua prescrizione estintiva, anche se una nuova norma, entrata in vigore successivamente al momento in cui la prescrizione di quel diritto è già maturata, disponesse un nuovo termine prescrizionale più lungo del precedente. Occorre sempre risalire alla volontà del legislatore e domandarsi se, egli intenda con la nuova norma attribuire efficacia immediata al regolamento disposto ad estenderlo, ai fatti compiuti sotto il vigore di quella preesistente ( ma i cui effetti non si siano esauriti), oppure limitarne l’applicazione alle sole vicende materiali verificatesi sotto l’impero della nuova disciplina. Si parla invece di ultrattività quando una disposizione di legge, derogando al principio tempus regit actum, stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore. 
 Capitolo 4 - L’applicazione e l’interpretazione della legge 
 23. L’applicazione della legge. 
 Per applicazione della legge s’intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono il diritto dello Stato. Naturalmente è compito dello Stato, attraverso i suoi vari organi, curare l’applicazione delle norme di diritto pubblico. Viceversa, l’applicazione delle norme di diritto privato non è imposta in modo autoritario, con iniziativa ex officio (procedura di azioni amministrativa o tribunale), proprio perché regola l’agire dei privati nei rapporti tra loro, e dunque dipende dall’iniziativa dei singoli. 
 Laddove la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua lesione da parte di un altro soggetto, renda indispensabile il ricorso all’Autorità giurisdizione, è il giudice ad applicare ad applicare la legge, pronunciando i provvedimenti (sentenza, decreto, ordinanza) previsti dal diritto processuale al fine di dare tutela al diritto sostanziale della parte istante 
 
 24. L’interpretazione della legge. 
 Interpretare, si legge in Cicerone, significa trarre un significato da segni oscuri (obscura explanare interpretando). Interpretare un testo, in particolare uno normativo non vuol dire solo accertare (conoscere) quanto il testo in sé esprimerebbe, bensì attribuire un senso, decidere (scegliere) che cosa si ritiene che il testo effettivamente possa significare e come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua applicazione. L’attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel mero esame dei dati testuali. In primo luogo non tutti i vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: pertanto il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto va ricavato da elementi extra-testuali. E difatti lo stesso legislatore dopo aver prescritto di attribuire alle parole il loro significato proprio impone di tener conto altresì della intenzione del legislatore. In secondo luogo le leggi, nel disciplinare rapporti sociali, si riferiscono in generale a classi di rapporti: spetterà all’interprete, di fronte a singoli casi concreti, decidere se considerarli inclusi nella disciplina dettata alla singola norma ed a tal fine l’interprete dovrà impiegare particolari tecniche di estensione o di integrazione delle disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-legislativi. In terzo luogo le formulazioni delle leggi, nella loro prima e più spontanea portata, sono spesso in conflitto fra loro: conflitti che si superano ricorrendo a criteri di gerarchia tra le fonti, a criteri cronologici, a criteri di specialità. In quarto luogo di fronte a ciascun caso singolo difficilmente può of 11 19 applicare un’unica norma, ma occorre utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni, opportunamente ritagliate e ricomposte per adattarle al caso: operazione complessa che si avvale di nozioni sistematiche a carattere dottrinario ed extra-testuali. 
 In definitiva nell’interpretazione della legge rientra non soltanto l’attività interpretativa in senso stretto, ma pure varie altre operazioni, quali la ricerca e l’individuazione della norma da applicare al caso, l’integrazione della legge e perfino l’analisi dei comportamenti e delle situazioni da regolare. L’attribuzione, da parte dell’interprete, a un documento legislativo del senso più immediato e intuitivo viene detta interpretazione dichiarativa. Il canone metodologico in claris non fit interpretatio prescrive di attenersi, ovunque sia possibile, se la lettera della legge non è oscura, ad un interpretazione dichiarativa. Quando invece il processo interpretativo attribuisce ad una disposizione un significato diverso da quello che apparirebbe, a prima vista esserle proprio (attribuisce alla legge una portata diversa da quella che il suo tenore letterale potrebbe suggerire), si parla di interpretazione correttiva, nelle due forme della interpretazione estensiva e della interpretazione restrittiva (che può giungere fino al limite della interpretazione abrogante): espressioni tutte che implicitamente si ispirano alla credenza che il discorso legislativo abbia un significato proprio, che precede ed è indipendente dall’attività dell’interprete, occultando il fatto che il documento è muto senza l’interprete (il suo significato è il risultato non il presupposto dell’attività). Talvolta all’uso si contrappone all’interpretazione della legge, la integrazione della legge, per distinguere tra l’attribuzione di significato ad un determinato documento normativo e l’individuazione di una nuova norma, che il documento normativo non consentirebbe ad una sua prima ed immediata lettura, ma che si ritiene possa egualmente esserne ricavata con un più accurato esame (integrazione della legge rientra nell’interpretazione).
 Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si suole distinguere tra interpretazione giudiziale, interpretazione dottrinale e interpretazione autentica. L’attività interpretativa si traduce in provvedimenti dotati di efficacia vincolante quando sia compiuta dai giudici dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale (c.d. interpretazione giudiziale). Si deve chiarire che l’interpretazione della disposizione, attraverso cui il giudice giunge alla decisione del caso sottoposto al suo esame, svolge il suo ruolo autoritativo nei confronti delle sole parti del giudizio, che sono lo sole destinatarie del provvedimento del giudice. Una sentenza è però idonea ad assumere anche valore di precedenete nei confronti di altri casi simili, in quanto l’interpretazione di una disposizione normativa sottesa alla sentenza e le argomentazioni logico-giuridiche che ne costituiscono la motivazione possono essere assunte a modello da parte di altri giudici a fini della soluzione di casi analoghi. 
 In termini tecnici con l’espressione giurisprudenza si definisce l’orientamento applicativo espresso dalla costante, o tendenzialmente stabile, prassi dei giudici. 
 Il valore di un precedente, nel nostro ordinamento, è però limitato alla persuasività logica ed argomentativa del criterio di decisione espresso dalla sentenza, poiché nessuna norma attribuisce ai precedenti giurisprudenziali forza vincolante ai fini della risoluzione dei successivi casi analoghi. Tuttavia l’interpretazione giudiziale ha di fatto sempre avuto una notevole autorità a causa della tendenza degli orientamenti della giurisprudenza a consolidarsi. Inoltre di recente l’art.360-bis cod.proc.civ. ha rafforzato il valore del precedente giurisprudenziale, dichiarando l’inammissibilità del ricorso della Corte di cassazione quando il provvedimento che si vuole impugnare abbia deciso in modo conforme al pregresso orientamento della Corte stessa in argomento. 
 Su un altro piano si impone l’interpretazione dottrinale, che è costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche i quali si preoccupano di raccogliere il materiale utile alla interpretazione delle varie disposizioni, di illustrarne il possibile significati, di sottolineare le implicazioni e le conseguenze delle varie soluzioni interpretative. 
 Non costituisce vera attività interpretativa la c.d. interpretazione autentica cioè quella che proviene dallo stesso legislatore, che emana apposite disposizioni per chiarire il significato di altre preesistenti. Questa ha perciò efficacia retroattiva: chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente, troncando i dubbi che erano sorti sulla sua interpretazione. È importante distinguerla per quella novativa che ha efficacia solo per i fatti compiuti successivamente alla sua entrata in vigore (ex nunc). È interpretativa la norma con cui il legislatore tronca il contrasto sorto circa il significato di una norma precedente. Non è necessario che la portata interpretativa di una norma sia dichiarata esplicitamente dal legislatore. 25. Le regole dell’interpretazione. L’art.12, comma 1, disp.prel.cod.civ. espressamente impone di valutare non soltanto il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (c.d interpretazione letterale), ma anche la intenzione del legislatore. Poiché nelle società moderne nessuna persona fisica costituisce in realtà, il legislatore, si ritiene che la disposizione autorizzi il ricorso ad ogni elemento utile, anche extratestuale. Vengono in of 12 19 di capacità di agire, deve applicarsi quest’ultima legge. 
 Gli enti (società, associazione, fondazioni) sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione (art. 25, comma 1). Tuttavia si applica la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti. 
 Per quanto riguarda il matrimonio si distingue tra:
 - la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio, che sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio (art. 27). 
 - la forma del matrimonio (art. 28), per la quale vale la legge del luogo di celebrazione, ma può applicarsi anche la legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o la legge dello Stato di comune residenza in quel momento.
 - i rapporti personali tra coniugi, cui si applica la legge nazionale se hanno egualmente cittadinanza ovvero se hanno diversa cittadinanza o più cittadinanze comuni, la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata (art. 29). 
 - la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio (divorzio), cui si applica la legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio: in mancanza si applica la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale risulta localizzata (art.31, comma 1), se la legge straniera applicabile non preveda la separazione o il divorzio, questi sono regolati dalla legge italiana (art.31, comma 2). 
 - i giudizi di nullità per i quali si può sempre adire il giudice italiano se uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia (art. 32). 
 Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita (art. 33,comma 1). Le condizioni per il riconoscimento di un figlio naturale sono regolate dalla legge nazionale del figlio al momento della nascita o, se più favorevole, dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento, nel momento in cui questo avviene (art. 35, comma 1). I rapporti personali e patrimoniali tra genitori e figli sono regolati dalla legge nazionale del figlio (art. 36). 
 L’adozione è regolata dal diritto nazionale dell’adottato o degli adottanti se comune o, in mancanza, del diritto dello Stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti, ovvero da quello dello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, al momento dell’adozione (art. 38, comma 1). 
 La successione mortis causa è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte (art.46, comma 1). La forma del testamento deve rispettare o la legge dello Stato nel quale il testatore ha disposto e la legge dello Stato di cui il testatore, al momento del testamento o della morte, era cittadino o la legge dello Stato in cui aveva il domicilio o la residenza (art. 48). 
 Per i beni immobili (diritti reali e possesso) si applica la lex rei sitae (art. 51, comma 1). Per i beni immateriali si applica la legge dello Stato di utilizzazione (art. 54). 
 Per le obbligazioni contrattuali l’art. 57 della L. n. 218/1995 fa rinvio alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali del 19 giugno 1980. La convenzione fonda un diritto internazionale privato uniforme, così che tutti gli Stati utilizzeranno identici criteri per individuare la legge regolatrice di un rapporto contrattuale con elementi di estraneità. Successivamente è entrato in vigore il Regolamento n. 593/2008/CE, del 17 giugno 2008, un regolamento di applicazione universale (art. 2), ossia la legge che lo stesso individua come applicabile si applica anche se non sia la legge di uno Stato membro della CE. La nuova disciplina conferma le scelte operate dalla Convenzione, attribuendo prioritaria valenza alla scelta delle parti in ordine alla legge applicabile al contratto tra loro stipulato (art.3). Si applica la legge richiamata da apposita clausola contrattuale (c.d lex voluntaris) ovvero in difetto di una scelta espressa, la legge dello Stato con il quale il contratto presenta il collegamento più stretto. 
 Per quanto riguarda le obbligazioni avente forma non contrattuale si deve fare riferimento al Regolamento n. 864/2007/CE dell’11 luglio 2007; un regolamento di applicazione universale. I criteri principali stabiliti sono: le obbligazioni derivanti da un fatto illecito sono regolate dalla legge del paese nel quale il danno si è verificato, le obbligazioni nascenti da arricchimento senza causa, quelle relative alla restituzione di un pagamento ricevuto indebitamente (ripetizione dell’indebito) o derivanti da gestione di affari altrui sono disciplinate, se l’obbligazione si ricolleghi ad un preesistente relazione tra le parti, dalla legge che disciplina quel rapporto, altrimenti dalla legge della residenza comune delle parti o da quella del luogo in cui è avvenuto il fatto. 
 
 30. Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. 
 In precedenza l’abrogato art. 30 delle preleggi, proprio per evitare il rischio di una serie successiva di rinvii da un ordinamento all’altro, stabiliva che, quando si doveva applicare una legge straniera, non si tenesse conto del rinvio da essa fatto ad altra legge. Viceversa ora l’art.13, comma 1, delle L. n.218 stabilisce che si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero alla legge di un altro Stato:
 a) se il diritto di tale Stato accetta il rinvio of 15 19 b) se si tratta di rinvio alla legge italiana Il rinvio alle norme di un altro ordinamento, quale fonte regolatrice di un rapporto sottoposto ad un Giudice italiano, pone l’ulteriore, e particolarmente delicato, problema della compatibilità delle disposizioni sostanziali di un ordinamento estraneo, reso applicabile per effetto della norma di conflitto, con i principi fondamentali del nostro ordinamento. 
 L’art.31 delle preleggi disponeva che in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume. Questa norma è stata abrogata dall’art.73 della L. n. 218/1995. 
 L’art.16, comma 1, ribadisce che la legge straniera non può essere applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico, è una formulazione notevolmente semplificata e soprattutto attenta ai risultati concreti cui potrebbe condurre la loro applicazione nel caso di specie. Il secondo comma del medesimo art. 16 aggiunge che nel caso operi il ricordato limite della contrarietà all’ordine pubblico si deve tentare ugualmente di applicare la legge previsti per la medesima ipotesi normativa. Solo ove manchi tale possibilità si applica la legge italiana. 
 31. La conoscenza della legge straniera. 
 La disciplina delle preleggi non prevedeva regole specifiche sulle modalità di accertamento della legge straniera; la giurisprudenza pertanto tendeva a ritenere che fosse onere della parte, che pretendeva di far valere un qualche diritto fondato su norme dell’ordinamento straniero richiamato, provare al giudice l’esistenza delle norme invocate a proprio favore. 
 La nuova disciplina (art. 14) stabilisce invece che spetti al giudice accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate ed eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui comunque non risulti possibile accertare le disposizioni della legge straniera richiamata, il giudice deciderà in base alla legge italiana. 32. La condizione dello straniero. 
 Bisogna distinguere tra i c.d. cittadini comunitari e quelli c.d. extracomunitari: per i primi si applica l’art. 17 del Trattato istitutivo della Comunità europea, così come modificato dal Titolo II del Trattato di Maastricht, che ha introdotto la Cittadinanza dell’Unione, che costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e che è attribuita a chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Ai cittadini comunitari non solo va riconosciuto, senza possibilità di discriminazioni, pieno diritto di circolazione e soggiorno in tutti gli Stati membri e il godimento degli stessi diretti civili attribuiti al cittadino nazionale, ma spettano perfino alcuni limitati diritti politici, quali il voto nelle elezioni comunali (art. 19). 
 La relativa disciplina è stata inserita nel Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286, successivamente ripetutamente modificato con la L. 6 agosto 2008, n. 133 e poi con la L. 15 luglio 2009, n. 94. 
 Ai cittadini extracomunitari è comunque applicabile sia il diritto d’asilo, previsto in genere dall’art. 10, comma 3, Cost. per qualsiasi straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, sia l’inammissibilità della estradizione per reati politici. Inoltre allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. All’extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia è altresì assicurato il godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, a meno che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente. 
 Occorre segnalare che la politica legislativa comunitaria si indirizza a fare dell’Europa uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. 
 Attiene invece ai rapporti di diritto privato la c.d. condizione di reciprocità, ossia la previsione per cui un determinato diritto può essere riconosciuto in capo allo straniero a condizione che nella medesima fattispecie ad un italiano, nel Paese di cui quello straniero è cittadino, quel diritto sarebbe parimenti sconosciuto. Il principio di reciprocità, frutto di un modo di intendere i rapporti tra gli Stati ormai palesemente superato, è però sopravvissuto sia alla Costituzione sia alla riforma del diritto internazionale privato, ne è risultato fortemente ridimensionato, proprio in ragione del fatto che la Costituzione, le convenzioni internazionali, le norme comunitarie riconoscono in modo assoluto la tutela dei diritti della persona. 
 A propria volta il T.U. n. 286/1998 ha eroso l’ambito di applicazione del criterio di reciprocità, poiché, come sopra ricordato, ha riconosciuto il godimento dei diritti civili a tutti, ma al tempo stesso fa salva l’ipotesi in cui il T.U medesimo o le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità. A tutti i lavoratori of 16 19 stranieri è garantita parità di trattamento e piena eguaglianza di diritto rispetto ai lavoratori italiani (art. 2, comma 3, T.U. n. 286/1998) L’ATTIVITÀ GIURIDICA E LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI Capitolo 6 - Le situazioni giuridiche soggettive 33. Il rapporto giuridico. Il rapporto giuridico è la relazione tra due soggetti regolata dall’ordinamento giuridico. I soggetti protagonisti del rapporto giuridico sono: 
 - Soggetto attivo è colui al quale l’ordinamento giuridico attribuisce un potere (o diritto soggettivo), come quello di pretendere un pagamento - Soggetto passivo è colui a carico del quale sussiste un dovere, come il pagamento 
 Quando si vuole alludere alle persone tra le quali intercorre un rapporto giuridico (per esempio per effetto di un contratto), si usa l’espressione parti. Contrapposto al concetto di parte è quello di terzo, che è appunto colui il quale sia estraneo ad un determinato rapporto giuridico, intercorrente tra altri soggetti. 
 Regola generale è che il rapporto giuridico, in linea di principio e salvo esplicite eccezioni, non produce effetti né a favore né a danno del terzo (res inter alios acta tertio neque prodest, neque nocet). Il rapporto giuridico non è che una figura di una categoria più ampia: la situazione giuridica. Quando la fattispecie si è realizzata, un mutamento si è prodotto nel mondo dei fenomeni giuridici: allo stato di cose preesistente si è sostituito, secondo la valutazione compiuta dall’ordinamento giuridico, uno stato diverso, una situazione giuridica nuova. Questa situazione può consistere o in un rapporto giuridico o nella qualificazione di persone (capacità, incapacità, qualità di coniuge, ecc.) o di cose (demanialità cioè insieme di tutti i beni inalienabili che appartengono a uno Stato, ecc.). 34. Situazioni soggettive attive (diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status). La norma è un precetto: per esempio il divieto di arrecare danni ad altri (diritto oggettivo, norma agendi). 
 Se qualcuno mi arreca danni, l’ordinamento mi dà la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni (diritto soggettivo, ius est facultas agendi). L’ordinamento tutela il mio interesse lasciandomi libero: posso chiedere o non chiedere il risarcimento secondo una mia personale valutazione di opportunità. 
 Il diritto soggettivo è il potere di agire (agere licere) per il soddisfacimento di un proprio interesse individuale, protetto dall’ordinamento giuridico. L’aspetto della tutela è essenziale nel qualificare una situazione di interesse personale come contenuto di un diritto del soggetto. Esistono molteplici interessi individuali irrilevanti per l’ordinamento giuridico, ossia ai quali l’ordinamento non concede alcuna protezione, viceversa esiste un diritto soggettivo in quanto tuteli, mediante la propria autorità e l’attivazione degli strumenti di coercizione di cui è dotato, la soddisfazione dell’interesse del singolo. 
 In alcuni casi il potere di agire per l’ottenimento di un certo risultato pratico non è attribuito al singolo nel suo proprio interesse, bensì per realizzare un interesse altrui. Il fenomeno è frequente nel diritto pubblico, in cui l’ordinamento giuridico attribuisce poteri agli organi pubblici nell’interesse della collettività e non delle singole persone fisiche investite dell’ufficio. Ci sono diversi esempi anche nel diritto privato, come per esempio ai genitori è attribuito un complesso di poteri concessi nell’interesse dei figli. Queste figure di poteri che al tempo stesso sono doveri si chiamano potestà o uffici. Un esempio di ufficio è il tutore di una persona incapace. Mentre l’esercizio del diritto soggettivo è libero, l’esercizio della potestà deve sempre ispirarsi al fine della cura dell’interesse altrui. 
 Le facoltà (o diritti facoltativi) sono manifestazioni del diritto soggettivo che non hanno carattere autonomo, ma sono in esso comprese. Dalla mancanza di autonomia delle facoltà deriva che esse si estinguono soltanto se viene meno il diritto del quale sono espressione: ciò che si traduce con la formula latina in facultativis non datur praescriptio cioè la prescrizione estintiva delle sole facoltà, ancorché il titolare de diritto non le abbia esercitate per lungo tempo. 
 Può avvenire che l’acquisto di un diritto derivi dal concorso di elementi successivi. Se di questi alcuni si siano verificati ed altri no si ha la figura dell’aspettativa. Per esempio nell’ipotesi di un eredità lasciata a taluno subordinatamene alla condizione che consegua la laurea quindi non avrà il diritto di eredità fino alla sua laurea, nel frattempo si troverà in una situazione di attesa che viene tutelata dall’ordinamento. 
 L’aspettativa è perciò un interesse individuale tutelato in via provvisoria e strumentale ossia quale mezzo al fine di assicurare la possibilità del sorgere di un diritto. 
 La figura del diritto soggettivo che si viene realizzando attraverso stadi successivi viene considerata, oltre dal lato del soggetto anche sotto il punto di vista oggettivo della fattispecie. Si parla di fattispecie a formazione progressiva per dire che il risultato si realizza per gradi e l’aspettativa attribuita al singolo costituisce un effetto preliminari o anticipato della fattispecie. 
 A volte alcuni diritti e alcuni doveri si ricollegano alla qualità di una persona, la quale deriva dalla sua of 17 19
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