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diritto processuale civile, Dispense di Diritto Processuale Civile

processo di esecuzione e procedimenti speciali

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 21/12/2020

SilviaM22.-
SilviaM22.- 🇮🇹

4.7

(13)

10 documenti

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Scarica diritto processuale civile e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! Diritto Processuale civile Libro 3 Verde DIRITTO PROCESSUALE CIVILE II – PARTE PRIMA La disciplina del codice del 1865 non teneva distinte l’esecuzione e la cognizione e spesso la prima era gravata da forme tipiche del processo di cognizione come l’atto di citazione per formulare istanze. Con la disciplina del ’42 si sono scissi questi 2 momenti e si è avuto quindi una maggiore semplificazione. Il processo di esecuzione è volto alla soddisfazione del creditore. Si affianca al processo di cognizione, rivolto all’accertamento del diritto all’ottenimento di una sentenza di condanna o alla costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico. Alla base di un processo esecutivo deve esserci necessariamente un titolo esecutivo che funge da documento di legittimazione del creditore procedente. Anche il processo di esecuzione ha carattere giurisdizionale posto che esso impinge nella sfera di libertà dei cittadini, essendo per sua natura l’esecuzione coattiva, e la nostra Costituzione ammette che la libertà possa esser limitata solo previo provvedimento motivato dal giudice, alla pari di quello di cognizione ma comunque devono essere tenuti distinti come processi. I principi posti alla base del processo civile sono: Principio della domanda. Se il creditore, ad esempio, ha un titolo esecutivo per ottenere la consegna di un mobile o il rilascio di un immobile, non avrebbe senso che si citi il debitore dinanzi al giudice che dia le disposizioni necessarie. Qui cè da procedere ad operazioni materiali (la consegna, il rilascio) che sono svolte dall’ufficiale giudiziario. È sembrato pertanto sufficiente stabilire che il creditore possa rivolgersi direttamente all’ufficiale giudiziario, esibendogli il titolo esecutivo e chiedendo di procedere alla consegna o rilascio. Ma qual è la domanda esecutiva? l’avente diritto deve notificare al debitore un atto contente l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante nel titolo esecutivo e l’avvertimento che, in mancanza di esecuzione spontanea, si procederà agli atti esecutivi (coattivamente). È il precetto, di cui si parla nell’art 480c.p.c. il precetto è la domanda esecutiva, dato che in esso si determina la pretesa a procedere coattivamente. Secondo il 1° comma il precetto deve contenere l’avvertimento che si procederà ad esecuzione forzata. Di fatto poi la legge individua l’atto iniziale dell’esecuzione solo quando inizia il processo di espropriazione. Possiamo riassumere quindi che la fase iniziale del processo esecutivo si articola in un subprocedimento che ha inizio con un atto preliminare (si procederà) che preannuncia l’esecuzione forzata. Il processo esecutivo è retto dal p. della domanda nel senso che non si può mai procedere d’ufficio. Principio del contraddittorio deve essere sempre rispettato. Ce lo ricorda l’art. 24 cost. che vuole che la difesa sia assicurata in ogni fase e grado del processo. Il contraddittorio va inteso nel senso di collaborazione tra parti e giudice per far in modo che si proceda non solo nel modo giuridicamente corretto ma anche secondo le scelte più opportune. Il legislatore si preoccupa dell’aspetto sostanziale non formale del contraddittorio, perché vuole che tutte le parti compreso il debitore, siano sentite affinchè contribuiscono a fornire al giudice elementi rilevanti. Il principio fa parte dell’esecuzione in forma specifica: l’art 610 c.p.c. prevede infatti che, se nel corso dell’esecuzione per consegno/rilascio sorgono difficoltà ciascuna parte può chiedere al giudice di adottare provvedimenti provvisori. Un processo giurisdizionale si conclude con un provvedimento finale tendenzialmente stabile. La differenza tra il provvedimento che conclude un processo di cognizione e quello di esecuzione: il primo ha per oggetto un accertamento cui è correlata una statuizione; il secondo si risolve in un attività materiale: il pagamento del creditore, la consegna del bene mobile, il rilascio di un immobile. È evidente che nel processo esecutivo i provvedimenti del giudice hanno una funzione strumentale rispetto al risultato pratico che si deve ottenere. Ciò è espresso nell art. 487 secondo il quale di regola i provvedimenti del giudice dell’esecuzione hanno la forma dell’ordinanza revocabile e modificabile finché non abbia avuto esecuzione. L’UFFICIO ESCUTIVO: IL GIUDICE, IL CANCELLIERE E L’UFFICIALE GIUDIZIARIO QUALI ORGANI DELL’ESECUZIONE. Come il giudice istruttore nel processo di cognizione, così il giudice dell’esecuzione sta al centro del processo esecutivo, per dirigere, coordinare, stimolare le attività degli interessati che vi partecipano (art 484). Di tale giudice c’è bisogno per es nel processo di esecuzione forzata. Ma non c’è né bisogno nell’esecuzione per consegna o rilascio perché qui si tratta di porre in essere attività materiali che meglio sono svolte da organi ausiliari. L’intervento del giudice è solo eventuale per risolvere difficoltà. Tale organo ausiliare è prima di tutto l’ufficiale giudiziario. Al cancelliere invece spetta di controllare la perfezione formale della sentenza o del provvedimento. In capo all’ufficiale giudiziario grava il compito di alcuni accertamenti preliminari come l’esistenza dei presupposti dell’atto richiesto, l’esistenza di un valido titolo esecutivo, l’avvenuta previa notifica del titolo e del precetto… Il cancelliere ha funziona residuale, a lui compete la spedizione del titolo in forma esecutiva, la formazione del fascicolo dell’esecuzione, la tenuta degli atti e documenti, obbligo di custodia. INCOMPETENZA PER L’ESECUZIONE La disciplina della competenza, nel processo di cognizione, riguarda l’ufficio impersonato dal giudice che ha per presupposto un processo che inizia con atto di parte, così che le disposizioni sono costruite in funzione dell’obiettivo di consentirne il trasferimento dal giudice incompetente al quello competente,salvando gli effetti sostanziali e processuali degli atti che le parti hanno compiuto dinanzi al primo giudice (art. 50). Nel processo esecutivo le cose non stanno allo stesso modo. La parte di regola si rivolge dapprima all’ufficiale giudiziario, egli potrebbe rifiutare di compiere l’atto esecutivo. In tal caso la parte potrà far reclamo al capo d’ufficio cui è addetto l’ufficiale giudiziario. Il problema si riproporrà in un momento successivo, quando, compiuto il primo atto esecutivo, la questione di competenza si tradurrà in un vizio dell’atto. Questo vizio non potrà esser fatto valere con i rimedi del processo di cognizione, bensì con un incidente di cognizione proposto all’interno del processo esecutivo, ossia con l’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 cpc). Se il giudice dell’opposizione ravvisasse l’incompetenza, l’unico provvedimento che può emettere è l’annullamento dell’atto. Di conseguenza, alla parte non resta altro che iniziare il processo daccapo dinanzi a diverso ufficio giudiziario, senza alcuna possibilità di trasferire l’atto viziato, non applicandosi così l’art 50. La competenza per l’esecuzione oggi spetta al tribunale. Di conseguenza si pone un problema di competenza per territorio. L’esecuzione forzata su beni mobili e immobili si fa dinanzi l’ufficio giudiziario nel luogo in cui si trovano i beni; l’esecuzione sui crediti spetta all’ufficio del luogo in cui risiede il terzo debitore e quella degli obblighi di fare o non fare nel luogo in cui l’obbligo deve esser adempiuto. Si tratta di una competenza territoriale inderogabile, ossia non modificabile su accordo delle parti. CAPITOLO 2 IL TITOLO ESECUTIVO E IL PRECETTO In base all’art 474 l’esecuzione forzata ha luogo in virtù di un titolo esecuto per un diritto certo, liquido ed esigibile. Il 2° comma del medesimo art. afferma che costituisce titolo esecutivo: Le sentenze, i provvedimenti e altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro, le cambiali, nonché altri titoli di credito e atti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia. non avrà luogo o in alternativa, essa può opporsi al precetto per ragioni di forma o merito. L’opposizione introduce un giudizio di cognizione che sospende il termine di efficacia del precetto, il quale riprenderà a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza di appello che rigetta l’opposizione. Nel processo di espropriazione forzata, il debitore ha un’ultima occasione per evitare l’inizio del processo: si tratta dell’istituto previsto dall’art 494 cpc “pagamento nelle mani dell’ufficiale giudiziario”. Il legislatore considerando il processo di esecuzione come extrema ratio, tende a favorire l’adempimento spontaneo del debitore sia pure sotto la minaccia di atti esecutivi. Secondo l’art 494 il debitore può evitare il pignoramento e quindi l’inizio del processo versando nelle mani dell’ u.g. la somma per cui si procede e l’importo delle spese, con incarico di consegnarli al creditore. Il 2° comma aggiunge che all’atto del versamento si può fare riserva di ripetere la somma già versata. L’uff. giud. Redige processo verbale del versamento e lo deposita in cancelleria insieme con la prova del versamento al creditore della somma consegnatagli dal debitore. Il cancelliere provvede alla registrazione. L’ufficiale è autorizzato per legge a ricevere denaro, benchè il pagamento avviene per evitare il processo esecutivo, siamo tuttavia in presenza di attività esecutiva ciò è tanto vero che il processo verbale deve esser depositato in cancelleria e di esso si prende nota nel ruolo generale delle esecuzioni. Il pagamento immediato non viola la par condicio creditorium, qui viene fuori dalle tasche del debitore denaro che altrimenti i creditori non avrebbero mai visto e del resto anche dopo il pagamento conservano la loro garanzia. La garanzia impone che il debitore possa liberarsi dall’esecuzione solo con istanza liquidativa volta alla soddisfazione di TUTTI i creditori, muniti o meno di titolo esecutivo. Si tratta della conversione del pignoramento in danaro. Diverso è il caso quando l’uff.giud. trova denaro da pignorare che non viene spontaneamente offerto dal debitore. Qui si avrà un pignoramento del danaro sul quale si aprirà un normale concorso dei creditori. Ed è evidente che in questo caso, il debitore è indotto a preferire il pignoramento e non il pagamento poiché può proporre opposizione prima che il denaro giunga nelle mani del creditore. CAPITOLO 3 IL PIGNORAMENTO Normalmente il procedimento inizia con domanda del sogg legittimato, mentre il processo di espropriazione inizia con il pignoramento, ossia con un atto dell’ufficio esecutivo. La spiegazione sta nel fatto che quest’ultimo è attività riservata allo stato. Di conseguenza deve esser il prodotto di attività di un autorità. Nel tempo si pose il problema della destinazione dei beni espropriati. Fu collegato questo elemento all’atto con il quale la pubblica autorità impone sui beni il vincolo di destinazione. Questo atto fu individuato nell’ingiunzione con cui il pubblico ufficiale impone all’esecutato di astenersi dal compiere un qualsiasi atto diretto a sottrarre i beni e i frutti espropriati (pignoramento). È da aggiungere che l’ingiunzione è l’atto con cui si chiude l’iter attraverso il quale si giunge al pignoramento. Questo iter si caratterizza per 3 momenti: L’iniziativa del creditore L’individuazione del bene L’imposizione del vincolo di destinazione L’iniziativa spetta alla parte e l’imposizione del vincolo spetta allo stato. È da precisare che l’esecutato di regola non collabora, dall’ altra parte non sempre il creditore ha conoscenza dei beni da aggredire. Per cui si ritiene che sia sufficiente la possibilità di visura dei pubblici registri, sul presupposto che la vera espropriazione sia quella che ha ad oggetto diritti immobiliari. Ma non è cosi. Oggi la vera ricchezza sono i beni mobili (gioielli,quadri) che hanno maggior valore degli immobili. Il legislatore ha individuato 3 tipi di beni assoggettabili all’espropriazione: i mobili, i crediti e gli immobili. Per questi ultimi l’individuazione dei beni spetta all’interessato che deve far capo ai registri e scegliere quali espropriare, evitando gli eccessi. Di conseguenza il creditore redige un atto in cui individua il bene da destinare all’espropriazione, cosi che l’ufficio esecutivo, nel portarlo a conoscenza del debitore, gli ingiunge di astenersi dal compiere atti di disposizione sui beni che vincola. Quanto ai crediti, solo il creditore può sapere se l’esecutando vanti crediti verso terzi e spetta a lui indicare quindi il credito. Anche questa volta l’ufficio esecutivo ingiungerà al debitore di astenersi ma ciò non sarà sufficiente perché il terzo deve esser informato della vicenda e deve esser avvertito di non pagare. Nell’espropriazione mobiliare, invece, si affida interamente all’ufficio esecutivo la ricerca della cose da pignorare nella casa o negli altri luoghi appartenenti al debitore. L’IMPIGNORABILITà Si possono pignorare solo i beni che possono esser trasformati in denaro, trasferendoli a terzi. Se ciò non è possibili, un espropriazione sarebbe inutile. Prima regola: i beni inalienabili sono impignorabili. L’art 822 cc elenca i beni che per loro natura sono inalienabili o che non possono esser sottratti alla loro destinazione, tra questi le cose sacre o destinate al culto. Essa può anche dipendere dal rapporto tra il bene e il debitore. In questo caso l’inalienabilità è relativa, in quanto è in funzione delle esigenze del debitore che il legislatore tutela tali circostanze. Invece l’impignorabilità collegata al modo di essere del bene è assoluta (perché il giudice non potrebbe mai trasformare il bene in denaro) e può esser rilevata anche d’ufficio. L’impignorabilità dipendente dal rapporto tra debitore e bene, dovrebbe esser rilevata solo su istanza dell’interessato, è lui che deve far opposizione. Il legislatore ritiene ingiusta l’esecuzione con cui si aggrediscono beni non pignorabili. Di qui la scelta che si proponga opposizione di merito assicurando all’esecutato il vantaggio di non esser costretto a proporre opposizione nel termine breve di 20gg. Sono assolutamente impignorabili i beni legati a ragioni umanitarie come: l’anello nuziale, i vestiti, la biancheria, i letti, i commestibili, gli stipendi, i salari, gli attrezzi da lavoro. Il legislatore considera la funzione delle cose e procede ad una valutazione tra il vantaggio che dall’espropriazione ricaverebbe il creditore e lo svantaggio per il debitore tutte le volte in cui la privazione della cose renderebbe difficile a quest’ultimo l’esercizio di un’attività produttiva. L’INDIVIDUAZIONE DEI BENI DA PIGNORARE Di regola il creditore controlla i pubblici registri immobiliari e se rinviene diritti immobiliari intestati al debitore redige l’atto in base al quale l’ufficiale giudiziario procederà a pignoramento. Quando il creditore non rinviene immobili deve affidarsi ad una ricerca dei beni che non può compiere da solo. Si rivolge allora all’ufficiale giudiziario al quale mostrerà titolo esecutivo e precetto, e chiederà oralmente di pignorare i beni mobili del debitore. L’ufficiale giudiziario ha una sola possibilità: quella di recarsi a casa del debitore per ricercare i beni da pignorare. Per il pignoramento mobiliare, l’art 513 cpc abilita l’ufficiale giudiziario a recarsi nella casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenti. La casa del debitore è la casa di cui egli sia proprietario. È il luogo nel quale egli vive abitualmente. Con l’espressione “luoghi a lui appartenenti” il codice allude a una relazione di fatto, quale ad es il debitore ha con i luoghi in cui svolge la sua professione o attività. Individuate le cose l’ufficiale procede all’ingiunzione per imprimere sul bene il vincolo di destinazione. L’ufficiale giudiziario oggi è divenuto l’unico responsabile della scelta. Deve preferire le cose di più facile e pronta liquidazione e in ogni caso il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito (art. 517) nel 1° del medesimo art. troviamo una limitazione: l’ufficiale deve vincolare le cose nel limite di un presumibile valore di realizzo pari all’importo del credito precettato, aumentato della metà. Se il debitore vuole evitare il pignoramento di cose particolari, l’ufficiale giudiziario deve accettare in loro sostituzione una somma di denaro pari all’importo del credito e delle spese, aumentato di due decimi. L’ufficiale infine documenta le sue attività in un verbale nel quale descrive i beni pignorati, determinandone approssimativamente il valore. Se il debitore è presente, riceve l’ingiunzione altrimenti essa è rivolta alle persone di famiglia, in mancanza anche di tali sogg l’ufficiale lascia un avviso sulla porta dell’immobile. Il codice descrive le regole di custodia dei beni pignorati. Il denaro, i preziosi e i titoli di credito sono custoditi dal cancelliere (art. 520); le altre cose sono portate in un pubblico deposito o affidate a un custode il quale le può conservare nell’immobile o trasportarle altrove. Il custode è tenuto alla conservazione dei beni secondo la diligenza del buon padre di famiglia, non può utilizzarli senza autorizzazione del giudice dell’esecuzione. La violazione dei doveri è penalmente sanzionata. LE RECENTI MODIFICHE Il legislatore ha riscritto l’art 492 (pignoramento). Se i beni sono insufficienti o di non facile liquidazione, l’ufficiale giudiziario INVITA il debitore a indicare altri beni utilmente pignorabili. La valutazione circa la sufficienza va fatta in relazione alla somma precettata aumentata fino alla metà. Il debitore è tenuto a rendere la dichiarazione. L’omessa dichiarazione è penalmente sanzionata. Qualora il debitore indichi ulteriori beni mobili, gli stessi sono immediatamente attratti nel pignoramento in corso, tramite la loro descrizione nel verbale che l’ufficiale va redigendo. Se i beni si trovano altrove, l’ufficiale accederà sul posto in un momento successivo per poter dare le disposizioni in ordine alla custodia. Potrebbe avvenire che i beni indicati dal debitore siano in possesso di un terzo. In questo caso la dichiarazione del debitore produce un effetto preliminare che evidenzia la funzione cautelare del pignoramento. Da tale momento il debitore è custode ed è anche penalmente responsabile del fatto che il terzo non può più pagare o restituire a lui il bene. Il pignoramento vero e proprio seguirà in un secondo momento. Poiché il pignoramento deve esser eseguito nel termine max di 90 gg dalla notifica del precetto, è da chiedersi se negli ultimi 2casi sia sufficiente ad impedire la decadenza il primo pginoramento o se i pignoramenti successivi devono essere compiuti entro i 90gg, così che, ove tale termine sia trascorso, bisogna ripetere il precetto. A favore della prima soluzione pare possibile richiamare l’ordine secondo cui una volta iniziata tempestivamente l’esecuzione, l’inefficiacia del precetto è scongiurata una volta per tutte. L’art 492 prende in considerazione l’ipotesi in cui vi siano altri creditore cosi che i beni pignorati siano divenuti insufficienti a soddisfare tutti. In questo caso è da ritenere che il pignoramento si è già perfezionato in quanto, prima dell’inizio dell’espropriazione non è possibile un intervento. L’art 499 co 4, afferma che il creditore procedente, sopravvenuti gli altri, può chiedere all’ufficiale di recarsi dal debitore per compiere le attività, all’esito delle quali il creditore potrà notificare agli altri l’invito ad ESTENDERE IL PIGNORAMENTO se muniti di titolo esecutivo, o ad anticipare le spese con la conseguenza che ove i debitore è che egli possa fare offerte all’incanto. Al terzo competono tutti i diritti e facoltà che spettano al debitore (pagamento nelle mani dell’uff giudiziario, opposizioni ecc). PLURALITà DI PIGNORAMENTI Possono aversi diverse ipotesi di pluralità di pignoramenti. Il primo caso si verifica solo nell’espropriazione mobiliare: l’ufficiale giudiziario che trova un pignoramento già iniziato da altro u.g. continua le operazioni con lui. Essi redigono un unico verbale (cd unione di pignoramenti). La seconda ipotesi può aversi per qualsiasi tipo di espropriazione: più creditori possono con un unico pignoramento colpire i medesimi beni (cd pignoramento su istanza di più creditori). Si tratta di ipotesi rare. Di maggiore interesse è l’art 493 cpc “il bene sul quale è stato compiuto il pignoramento può essere pignorato successivamente su istanza di uno o + creditori. Ogni pignoramento ha effetto indipendente anche se unito agli altri in un unico processo. Il legislatore ammette che si possa pignorare un bene già pignorato e fissa i seguenti principi: Chi pignora successivamente deve notificare il proprio titolo esecutivo e precetto Il pignoramento successivo è riunito a quello precedente in unico processo Anche quando avviene tale riunione esso ha effetto indipendete. L’art 493 comma 2 va coordinato con le disposizioni che stabiliscono cosa accade quando la pluralità di pignoramenti è convogliata in un unico processo. Di ciò si occupano una serie di disposizione con riferimento all’espropriazione mobiliare, presso terzi e immobiliare. Nell’espropriazione mobiliare, l’u.g. qualora venga a conoscenza che i beni sono già stati pignorati, ne da atto nel verbale che deposita in cancelleria perché sia inserito nel fascio del primo pignoramento. Analoga disposizione è prevista per l’espr presso terzi. Nell’espr immobiliare l’obbligo di riscontrare l’esistenza di precedenti pignoramenti spetta la conservatore dei registri immobiliari. Le tre disposizioni stabiliscono poi quali sono gli efffetti della riunione. La legge stabilisce che il creditore successivamente pignorante una volta che il suo atto sia confluito nel primo processo, si trova nella posizione dell’interveniente; ossia che ha diritto di partecipare alla distribuzione. Art 540bis “integrazione del pignoramento”: si tratta di un vero e proprio pignoramento successivo, infatti può darsi che le cose pignorate rimangano invendute. Il giudice dovrebbe qui dichiarare l’estinzione del processo. Il legislatore apre un ulteriore speranza. Se il creditore glielo chiede egli ordinerà all’u.g. di riprendere senza indugio le operazioni di ricerca dei beni che se fruttose porteranno a nuovi pignoramenti. Quest’ultimo sarà inserito nel processo esecutivo già pendente e il giudice potrà disporre la vendita delle cose senza una nuova istanza. DIRITTO PROCESSUALE CIVILE ( G. VERDE) PROCESSO DI ESECUZIONE PROCEDIMENTI SPECIALI CAPITOLO 1: IL PROCEDIMENTO MONITORIO O PER DECRETO INGIUNTIVO Il procedimento di ingiunzione è il procedimento speciale sommario con il quale il titolare di un credito liquido, certo ed esigibile, fondato su prova scritta, può ottenere, mediante presentazione di un ricorso al giudice competente, un provvedimento (decreto ingiuntivo) con il quale ingiunge al debitore di adempiere l’obbligazione (di pagamento o di consegna) entro quaranta giorni dalla notifica, avvertendolo che entro il medesimo termine può proporre opposizione (trasformando così il procedimento da sommario in ordinario) e che, in mancanza di opposizione, si procederà ad esecuzione forzata. 1. Il procedimento monitorio in generale L’istituto del procedimento di ingiunzione è disciplinato dagli art. 633 e ss. del c.p.c., ed è inserito nel Libro IV del Codice, relativo ai Procedimenti Speciali, Capo I, rubricato ''Dei procedimenti sommari''. Il procedimento di ingiunzione trova infatti la principale fonte di caratterizzazione nella circostanza che il giudizio che viene così ad instaurarsi ha natura sommaria. La struttura del procedimento porta il giudicante a giungere ad una pronuncia che si basa su una percezione dei fatti rilevanti ai fini del decidere ben lontana dal principio della cognizione piena e, anzi, estremamente limitata rispetto alle possibilità di introdurre elementi probatori rispetto ad un procedimento ordinario. Tale caratteristica della sommarietà del giudizio si riconnette al fatto che l’istituto del procedimento di ingiunzione è strutturato in modo tale per cui il giudicante esercita la propria funzione avendo quale unico interlocutore il ricorrente: il giudicante emanerà infatti il decreto solo dopo una cognizione dei fatti, la quale cognizione avviene esclusivamente attraverso le allegazioni probatorie del ricorrente; allegazioni probatorie che, peraltro, sono ispirate ad un principio di semplificazione tale per cui, da un lato possono essere introdotte soltanto “prove scritte” (ed anzi la “prova scritta” del credito è un presupposto di ammissibilità del procedimento) e, dall’altro lato, risulta suscettibile di costituire elemento probatorio anche ciò che in un giudizio ordinario non avrebbe tale valenza giuridica. Il decreto ingiuntivo, ossia il provvedimento conclusivo della fase monitoria, è dunque un provvedimento emanato in assenza di alcun contraddittorio fra le parti. Questi brevissimi cenni iniziali hanno la funzione di dettare alcuni elementi iniziali, al fine di evidenziare come l’istituto del procedimento di ingiunzione, come disciplinato dal legislatore italiano, si colloca in una posizione intermedia fra due possibili estremi teorici: quello del procedimento monitorio puro, e quello del procedimento monitorio documentale. Nel primo modello, ossia il procedimento monitorio puro, il ricorrente si limita ad affermare la sussistenza dei fatti in forza dei quali deriva la sua pretesa, senza allegare alcun elemento probatorio a supporto delle proprie argomentazioni. Il giudicante, in tale modello teorico, emana dunque senza alcuna previa instaurazione di contraddittorio un provvedimento. Provvedimento che, stante l’assoluta mancanza di un qualsivoglia controllo del giudice in ordine alla veridicità delle affermazioni del ricorrente, sarà in radice privo della possibilità di essere anche soltanto provvisoriamente esecutivo prima che sia decorso un termine entro cui l’ingiunto possa contestare la decisione così assunta. Non sarà cioè possibile per il creditore ottenere un’esecuzione coattiva prima dello spirare del termine di opposizione. Inoltre, il procedimento che potrà venire ad instaurarsi una volta che il debitore abbia contestato la decisione assunta non potrà distinguersi in alcun modo da un ordinario processo di primo grado, instaurato con atto introduttivo da parte del soggetto che si crede leso nei propri diritto dal comportamento di un terzo. In sostanza, nel modello del procedimento monitorio puro viene emanato un provvedimento il quale risulta essere sospensivamente condizionato alla mancata proposizione di una opposizione del debitore: se il soggetto ritenuto debitore propone opposizione, il provvedimento inizialmente emanato risulta totalmente privo di efficacia. Invece, il giudizio che si instaura a seguito dell’opposizione dell’ingiunto, nel sistema italiano, ha caratteristiche e peculiarità che tendono a distinguerlo da un ordinario giudizio a cognizione piena. Nel secondo modello, al contrario, il ricorrente è chiamato a fornire piena prova documentale delle proprie affermazioni, per cui il provvedimento emanato dal giudice è conseguente ad una cognizione che esso ha effettuato sulla base di documenti che costituiscono piena prova delle affermazioni esposte dal ricorrente. Conseguenza di ciò è che il provvedimento emesso dal giudice, diversamente rispetto al modello del procedimento monitorio puro, è risolutivamente condizionato alla proposizione di una eventuale opposizione e, dunque, può avere fin da subito efficacia esecutiva, e il giudizio che viene ad instaurarsi a seguito dell’opposizione risulta assimilabile ad una impugnazione. A fronte di tali due modelli teorici, il legislatore italiano ha adottato una forma intermedia di procedimento di ingiunzione, poiché se pur il ricorrente deve fornire “prova scritta” del proprio diritto (e dunque non può dirsi un procedimento monitorio puro), assumono natura di “prova scritta” anche elementi documentali che nell’ambito di un giudizio a cognizione piena non sarebbero in grado di dimostrare la fondatezza della pretesa del ricorrente. Allo stesso tempo, il provvedimento emanato dal ricorrente – sulla base di documentazione latamente atta a fornire prova documentale del credito – è suscettibile di esecuzione provvisoria e, qualora non sia impugnato dall’ingiunto, risulta suscettibile di acquisire valore di giudicato fra le parti. Parallelamente a tali considerazioni, vi è poi da dire che il legislatore ha accomunato in un unico procedimento ipotesi che si avvicinano al modello del procedimento di ingiunzione documentale (se pur con attenuazioni in ordine alla prova documentale di cui è onerato il creditore), con ipotesi che invece si avvicinano al modello del procedimento monitorio puro, come nel caso di richieste di professionisti corredate unicamente dalla parcella per le prestazioni rese. 2 La struttura e lo svolgimento del procedimento Come visto nel paragrafo iniziale, il legislatore italiano ha disciplinato un unitario procedimento per ingiunzione, il quale è principalmente caratterizzato dalla sommarietà del procedimento. Al riguardo, conviene ricordare come con l’espressione “giudizio sommario” si indicano tradizionalmente due distinte ipotesi. Una prima ipotesi riguarda quelle tipologie di giudizio in cui il giudicante emette una propria decisione sulla base di una cognizione soltanto parziale dei fatti rilevanti: il giudicante decide – emanando un provvedimento diverso dalla sentenza, la quale consegue soltanto ad procedimento in cui vi sia stata la piena instaurazione del contraddittorio fra le parti in causa – sulla base delle allegazioni fornite da una soltanto delle parti. In tale ipotesi la sommarietà del procedimento è dunque legata al fatto che il giudizio viene formulato a seguito di una istruttoria parziale, e non esaustiva. Una seconda ipotesi riguarda invece i procedimenti in cui il giudicante decide solo a seguito di una cognizione dei fatti rilevanti che avviene su impulso di entrambe le parti, e tuttavia la cognizione risulta comunque sommaria in quanto l’istruttoria viene condotta secondo regole diverse (e meno rigide e garantiste) rispetto a quelle previste per un giudizio ordinario. In sostanza, in queste ipotesi la sommarietà riguarda la “superficialità” con cui il giudice può operare nella valutazione delle prove e nell’instaurazione del contraddittorio. Per meglio chiarire la questione, deve ricordarsi che l’art. 2909 c.c. “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. E sulla base di tale asciutta definizione di “cosa giudicata”, si sviluppa l’ampio – e controverso – tema dell’esatta individuazione di ciò che non può essere rimesso in discussione in un futuro giudizio fra le medesime parti in quanto, appunto, reso oggetto di giudicato. In tema di procedimento di ingiunzione, invece, il legislatore ha espressamente trattato soltanto il tema della esecutività del decreto, esplicitando che quanto statuito in sede di giudizio monitorio non può essere contestato se non con un mezzo di impugnazione straordinario (come avviene anche avverso sentenze passate in giudicato). Quello che dunque il legislatore ha cercato di tutelare attraverso l’inoppugnabilità del decreto non opposto risulta, in modo immediato, la stabilità del contenuto decisorio del decreto stesso. Così posta la questione può dunque emergere come il reale problema riguarda l’ampiezza della stabilità del decreto non opposto: riguarda cioè il tema dell’esatta sovrapposizione dei limiti oggettivi del giudicato propri di una sentenza sulla fattispecie del decreto non opposto. In sostanza, il già controverso tema dell’estensione di ciò che è coperto da giudicato risulta ancor più complicato in tema di decreto ingiuntivo, soprattutto perché l’atteggiamento serbato dalla giurisprudenza pressoché pacifica in tema di giudicato è quello di accedere ad una nozione dell’istituto tale per cui ogni antecedente logico-giuridico necessario per giungere alla pronuncia è ritenuto, appunto, coperto da giudicato. Rileva, cioè, che la giurisprudenza ritiene definitivamente accertato ogni passaggio logico-giuridico antecedente alla decisione, e quindi non più contestabile in sede giudiziale non soltanto l’oggetto della domanda proposta, ma anche ogni altra questione che sia indispensabile per giungere alla decisione. Ora, tale ricostruzione dell’istituto del giudicato è avversata da parte della dottrina. Pertanto, proprio in tema di procedimento di ingiunzione – laddove il legislatore non affronta espressamente il tema del giudicato e il provvedimento conclusivo è reso, come detto, solo sulla base di un procedimento sommario – è sembrato arduo acconsentire ad un’applicazione dell’istituto del giudicato nei termini estremamente estensivi intesi dalla giurisprudenza. Di contro, la giurisprudenza è tradizionalmente orientata nel senso di ritenere che il decreto ingiuntivo non opposto sia suscettibile di costituire cosa giudicata nei medesimi termini in cui tale effetto si produce all’esito di una sentenza definitiva, con la conseguenza – poiché ogni antecedente logico necessario della pronuncia è coperto dal giudicato - che il giudicato copre sia l’esistenza del credito, sia l’inesistenza di ogni fatto impeditivo, modificativo o estintivo del credito. Ciò tuttavia con l’ovvia precisazione che fatti successivi all’emanazione del decreto (quali, ad esempio, l’adempimento dell’obbligazione dedotta in giudizio) sono comunque estranei al giudicato formatosi sulla base delle allegazioni prodotte in sede di instaurazione del procedimento. Oltre a tali elementi, il giudicato si estende anche al rapporto giuridico in forza del quale si è maturato il credito azionato. In altri termini, non potrà essere successivamente contestato né l’esistenza né la validità del tutolo giuridico in forza del quale il creditore ha ottenuto l’emanazione del decreto ingiuntivo. 5 Requisiti di ammissibilità: il diritto azionato L’art. 633 c.p.c. apre il Libro IV “Dei procedimenti speciali” fornendo, in primo luogo, la descrizione delle fattispecie al ricorrere delle quali è possibile utilizzare il procedimento monitorio, indicando in modo esplicito le fattispecie al ricorrere delle quali risulta esperibile tale mezzo di tutela. La disposizione detta infatti una serie di elementi che riguardano la natura del diritto suscettibile di essere azionato in tale forma, l’oggetto di tale diritto e gli elementi di cui deve essere caratterizzato. Come di seguito si vedrà, a tali elementi espressamente indicati dal legislatore ne debbono essere aggiunti altri che dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto connaturati all’istituto. Infatti, il legislatore si è limitato ha disporre, in primo luogo, la natura del diritto azionato, nel senso che il procedimento per ingiunzione è esperibile esclusivamente per la tutela di diritti di credito. In secondo luogo, il legislatore ha disposto che tale diritto di credito deve avere uno specifico oggetto, consistente nel diritto alla corresponsione di una somma di denaro, alla consegna di un determinato bene mobile o alla consegna di una quantità determinata di beni fungibili. In terzo luogo, il legislatore ha disposto che tale diritto di credito, se riferito ad una somma di denaro, dovrà essere caratterizzato dal requisito della liquidità. Come si vedrà nel successivo paragrafo, le ulteriori specificazioni dettate dal legislatore riguardano l’aspetto probatorio del procedimento: riguardano cioè gli elementi di prova che il creditore ricorrente deve essere in grado di fornire al fine di ottenere tutela nelle forme del giudizio monitorio. Invece, vi sono ulteriori elementi che devono qualificare la pretesa azionata; elementi che, per quanto non espressamente indicati dal legislatore, risultano pacificamente applicati dalla giurisprudenza. In particolare, il riferimento è al requisito della esigibilità del credito e alla necessità che il creditore (per essere tale) non debba avere necessità di una previa pronuncia avente effetto costitutivo. Come già anticipato, il procedimento monitorio è esperibile esclusivamente al fine di ottenere soddisfazione di un diritto di credito. Dispone infatti l’art. 633 c.p.c. che il giudice pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: ''Su domanda di chi è creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una cosa.” Conseguenza di ciò, per converso, è che tale istituto non può essere utilizzato al fine di ottenere tutela di una posizione giuridica qualificabile come diritto reale (o di una situazione di possesso). Com’è noto, la distinzione fra diritti di credito e diritti reali si fonda sulla più generale distinzione fra diritti assoluti (ai quali afferiscono i diritti reali) e diritti relativi (ai quali afferiscono i diritti di credito); distinzione, quest’ultima, la quale trova il principale punto di partenza nelle modalità attraverso cui il titolare della posizione giuridica può esercitare la propria pretesa. In altri termini, detta distinzione, tradizionalmente, si fonda sulla circostanza che la soddisfazione dei diritti assoluti può avvenire anche solamente attraverso il rispetto da parte di tutti i consociati del generale dovere di astensione dal ledere i diritti altrui, mentre per la soddisfazione dei diritti relativi occorre la “collaborazione” dei terzi. I diritti assoluti sono cioè tali in quanto il titolare di essi non abbisogna di alcuna collaborazione di terzi per godere della propria posizione giuridica, mentre la soddisfazione di un diritto relativo, o meglio l’esistenza stessa di un tale diritto, presuppone, appunto, una relazione fra più soggetti di diritto (tipicamente un rapporto di credito-debito). I diritti assoluti, fra i quali spiccano i diritti reali, fondandosi principalmente sulla relazione fra soggetto e bene giuridico (su quale il soggetto esplica le proprie pretese) non presuppongo il compimento di nessun atto da parte di terzi affinché il titolare del diritto possa godere del proprio status e, in conseguenza di ciò, tale tipologia di diritti risulta esplicare i propri effetti verso la generalità degli altri soggetti (ha cioè valore erga omnes). I diritti relativi si fondano invece sul rapporto intercorrente fra due soggetti, il primo titolare (creditore) di una posizione attiva e il secondo (debitore) obbligato al compimento di una determinata attività. Conseguenza di ciò è che il diritto relativo può essere esercitato soltanto coinvolgendo nell’esercizio del medesimo il soggetto tenuto al compimento dell’attività richiesta e, dunque, la pretesa del titolare del diritto non è efficace verso la generalità dei consociati, ma soltanto verso colui che risulta obbligato all’adempimento della specifica obbligazione in cui si concreta il diritto stesso. A fronte di tale netta ripartizione delle due categorie, è però da sottolineare come il titolare di un diritto assoluto, non essendo tutelato sotto il limitato profilo di una specifica sua pretesa, può veder “frammentarsi” la propria posizione giuridica in un insieme, in un fascio di specifiche pretese tutte quante ricollegate allo status di titolare, ad esempio, di un diritto reale. Inoltre, la sussistenza di un legame fra soggetto e bene può altresì essere il presupposto (sia di fatto che di diritto) in forza del quale sorgono negozi giuridici aventi ad oggetto diritti relativi (ad es. il proprietario di un bene che cede in comodato tale bene a un terzo). Ebbene, riportando tale ordine di considerazioni sul tema dell’esperibilità del procedimento per ingiunzione ne deriva una considerazione di ordine pragmatico. Se infatti è vero che soltanto il titolare di un diritto di credito può esperire tale mezzo processuale, deve considerarsi che anche il titolare di un diritto reale potrebbe risultare altresì titolare di un autonomo diritto di credito che sia ricollegato al proprio status di titolare di diritto reale. In sostanza, anche il titolare di un diritto reale è legittimato ad azionare la propria pretesa nelle forme del ricorso per ingiunzione se tale pretesa – attualmente ricollegata allo status di titolare di diritto reale – sia un’estrinsecazione di un autonomo titolo giuridico qualificabile come diritto di credito. Dunque, se la pretesa del titolare del diritto reale connesso al bene è qualificata come esercizio di un diritto di credito, tale mezzo risulterà ammissibile; mentre non sarà ammissibile quando la pretesa azionata consiste nell’esercizio di una pretesa connessa esclusivamente allo status di titolare di diritto reale. Cercando di esporre la questione in modo esemplificativo, si evidenzia come sia inammissibile lo strumento del procedimento ingiuntivo qualora il proprietario spogliato del bene lo utilizzi per rientrare nella disponibilità del bene medesimo, in quanto, in tale ipotesi, il proprietario agisce esclusivamente quale titolare del diritto reale e la sua pretesa alla restituzione del bene non è un autonomo diritto di credito, quanto invece una pretesa al rispetto del proprio status connessa alla necessità di porre rimedio alla violazione del generale dovere di astenersi dal ledere la posizione di titolare di un diritto reale. Né si potrà utilizzare il procedimento monitorio per ottenere una pronuncia con cui si costituisca la proprietà del bene in capo al ricorrente. Ciò, secondo la corrente opinione – e come si vedrà di seguito -, anche in considerazione del fatto che l’accertamento della proprietà del bene presupporrebbe un’indagine istruttoria incompatibile con la struttura del procedimento monitorio. Invece, risulta ammissibile agire in giudizio per richiedere la restituzione di una cosa mobile oggetto di un contratto di compravendita con patto di riservato dominio qualora il compratore non adempia alla propria obbligazione: in questo caso, sebbene il ricorrente sia proprietario del bene (e quindi titolare di un diritto reale) la pretesa restitutoria che viene azionata si fonda sull’obbligazione nascente dal contratto e il proprietario del bene – oltre ad essere titolare del diritto reale – agisce per la tutela del proprio diritto di credito. In sostanza, il presupposto per agire in giudizio tramite procedimento monitorio consiste nel fatto che il ricorrente – al di là della posizione di proprietario (o di titolare di altro diritto reale) - faccia valere un titolo che fondi un ulteriore diritto di credito (ulteriore, cioè, rispetto al diritto reale al quale consegue il generale dovere di ciascun altro soggetto di astenersi dal ledere il diritto di proprietà). Si pensi, ad esempio, all’ipotesi del comodato e all’obbligo restitutorio che grava sul comodatario al termine del contratto: il A fronte di una tale distinzione, in forza della quale la categorie dei beni mobili risulta residuale rispetto all’elencazione dei beni immobili fornita dal legislatore, si pone la necessità di comprendere con esattezza il confine fra le due categorie soprattutto laddove la distinzione viene a trovare fondamento nel fatto che un dato oggetto sia ancorato al suolo. Giova infine ricordare, come già evidenziato, che il procedimento per ingiunzione non è ammissibile qualora il ricorrente eserciti un’azione restitutoria, fondata esclusivamente sul proprio status proprietario (o di titolare di altro diritto reale): questione che potrà venir in rilievo soprattutto qualora la pretesa sia rivolta ad ottenere la consegna di un bene. 7. Esigibilità del credito Il legislatore, nel dettare i criteri di ammissibilità del ricorso per ingiunzione, tace su un rilevante punto della questione, ossia sul tema della necessaria esigibilità del credito azionato. Al riguardo, deve però subito dirsi che per pacifica giurisprudenza e unanime dottrina, pur nel silenzio del legislatore, si ritiene che il credito debba essere esigibile a pena di inammissibilità del ricorso; occorre cioè che il creditore possa pretendere l’adempimento da parte del debitore alla data del deposito del ricorso. L’argomentazione giuridica in forza della quale si ritiene pacificamente applicabile tale principio risiede nella constatazione che l’unica fattispecie contemplata dall’ordinamento, relativa alla possibilità di ottenere la condanna all’adempimento di obblighi futuri, è quella relativa al pagamento di canoni di locazione di cui agli artt. 658 e 664 c.p.c. in tema di procedimento per convalida di sfratto; in ogni altro caso, invece, la domanda azionata in giudizio deve riguardare un credito già esigibile. Si ritiene dunque naturalmente connesso all’esercizio del diritto il presupposto che essa sia esigibile al momento della proposizione dell’azione. In tema di esigibilità, sembra tuttavia opportuno ricordare come un credito che in un dato momento temporale sia non esigibile, possa immediatamente divenirlo in forza dell’esercizio, da parte del creditore, della facoltà di cui all’art. 1186 c.c. Tale disposizione disciplina la decadenza dal termine, prevedendo che: “Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse”. Dunque, se il credito è sottoposto ad un termine di adempimento, il debitore decade dal beneficio posto a suo favore al ricorrere delle predette circostanze. Di conseguenza, se il creditore fornisce prova dello stato di insolvenza del debitore, può esigere immediatamente la prestazione anche se il credito non era inizialmente esigibile. Infatti, esercitandosi la predetta facoltà, il credito diviene esigibile ed il creditore potrà agire in giudizio (anche attraverso il procedimento monitorio). In tale caso, evidentemente, nell’ambito del procedimento monitorio il creditore dovrà fornire prova scritta anche della circostanza in forza della quale si è maturata la decadenza dal termine di adempimento. In giurisprudenza si ritiene infatti che per l’applicazione della decadenza dal termine di cui all’art. 1186 c.c. il creditore non abbisogni di una previa pronuncia giurisdizionale avente natura costitutiva (la quale, come visto, sarebbe preclusiva all’ammissibilità del procedimento monitorio), essendo infatti sufficiente, per la produzione degli effetti giuridici, una dichiarazione unilaterale del creditore medesimo, la quale costituisce atto recettizio: In sostanza, in giurisprudenza si afferma che la decadenza del debitore dal beneficio del termine, ai sensi dell'art. 1186 C.C., non consegue automaticamente alla sua sopravvenuta insolvenza, occorrendo invece, perché la decadenza si verifichi, che il detto creditore richieda l'immediato adempimento. E tale richiesta integra un atto unilaterale recettizio, che determina l'effetto della decadenza dal momento in cui perviene a conoscenza del debitore. Conseguenza di ciò è che, dunque, il diritto del creditore di avvalersi della decadenza del debitore dal beneficio del termine e di esigere immediatamente la prestazione può essere dedotto con la domanda o il ricorso per ingiunzione di pagamento del debito non ancora scaduto. Al riguardo si deve inoltre ricordare che, per aversi uno stato di insolvenza che consenta la decadenza dal termine, occorre vi sia uno squilibrio nelle capacità economiche del debitore tale da far temere che esso non possa, ancorché solo temporaneamente, far fronte alle proprie obbligazioni. 8. Requisiti di ammissibilità: la prova scritta L’art. 633 c.p.c. detta le condizioni di ammissibilità del decreto ingiuntivo, individuando, in primo luogo, la tipologia di diritti azionabili con il procedimento di ingiunzione e, in secondo luogo, gli elementi probatori che debbono sussistere affinché il ricorso possa essere accolto. Prevede infatti l’art. 633 c.p.c. che: “Su domanda di chi è creditore di una somma liquida di danaro o di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una cosa mobile determinata, il giudice competente pronuncia ingiunzione di pagamento o di consegna: 1) se del diritto fatto valere si dà prova scritta; 2) se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo; 3) se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notai a norma della loro legge professionale, oppure ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata.” Il legislatore ha quindi distinto tre ipotesi in forza delle quali è possibile agire nelle forme del procedimento ingiuntivo: una prima ipotesi, di ordine generale, relativa al creditore che abbia a disposizione una “prova scritta” del proprio diritto, indicata al numero 1) dell’art. 633 c.p.c.; due ulteriori ipotesi, di ordine particolare, relative ai crediti per prestazioni giudiziali e stragiudiziali e per prestazioni rese da notai o da altri liberi professionisti, indicate ai numeri 2) e 3) dell’art. 633 c.p.c. La distinzione fra tali due categorie trova poi una corrispondenza nel diverso regime probatorio a cui sono sottoposte le due fattispecie. Infatti, qualora il creditore agisca in forza del numero 1) dell’art. 633 c.p.c., ossia qualora esso agisca nella sua qualità di creditore capace di fornire “prova scritta” del proprio credito, per definire quali siano gli elementi probatori necessari avrà rilievo il successivo art. 634 c.p.c. che prevede quanto segue: “I. Sono prove scritte idonee a norma del numero 1 dell'articolo precedente le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal codice civile. II. Per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile, purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l'osservanza delle norme stabilite per tali scritture.” Per le ipotesi dei numeri 2) e 3) dell’art. 633 c.p.c. ha invece rilievo il successivo art. 636 c.p.c., il quale così dispone: “I. Nei casi previsti nei numeri 2 e 3 dell'articolo 633, la domanda deve essere accompagnata dalla parcella delle spese e prestazioni, munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente associazione professionale. Il parere non occorre se l'ammontare delle spese e delle prestazioni è determinato in base a tariffe obbligatorie.” Come visto nei paragrafi iniziali, la struttura del giudizio monitorio introdotto dal legislatore risulta ambigua, in quanto, oltre ad essere stata adottata una forma intermedia fra i due modelli teorici del giudizio monitorio puro e del giudizio monitorio documentale, sono state accorpate nell’ambito di un unico istituto – e di un unico procedimento – fattispecie fra loro assai eterogenee. Infatti, come emerge dalle disposizioni appena sopra richiamate, l’ipotesi di cui al combinato disposto dell’art. 633 numero 1) c.p.c. e dell’art. 634 c.p.c. tende ad avvicinare l’istituto disciplinato dal legislatore al modello del procedimento monitorio documentale (sebbene con una forte semplificazione in merito agli elementi probatori che il creditore deve produrre nella fase priva di contraddittorio); di contro, le ipotesi di cui al combinato disposto dell’art. 633 nn. 2) e 3) c.p.c. e dell’art. 636 co. 1 c.p.c. risultano assai vicine ad un modello di giudizio monitorio puro, in cui alla mera affermazione dell’esistenza del credito non si aggiunge alcuna allegazione probatoria se non quella inerente alla correttezza dell’applicazione della tariffa vigente. Prima di procedere oltre nell’esame della tematica – stante la centralità della nozione di “prova scritta” nell’economia delle considerazioni che seguono - sembra opportuno ricordare alcuni elementi di ordine generale relativi all’utilizzo della locuzione “prova” nell’ambito dell’ordinamento vigente. Pare utile ricordare, cioè, come il tema della “prova” sfoci in una pluralità di distinzioni e categorie, alcune delle quali risulteranno necessarie nell’esposizione che segue. Al riguardo, conviene evidenziare, in primo luogo, come con la locuzione “prova” siano indicati più fenomeni fra loro concettualmente ben distinti. Talvolta, con l’uso della locuzione “prova” si intende il processo probatorio, ossia lo strumento attraverso il quale si deduce l’esistenza di un fatto: in tal senso, la prova è il mezzo attraverso il quale si forma il convincimento dell’esistenza di un fatto, comprendendo, ad un tempo, l’insieme di tutte le previsioni normative che disciplinano le modalità attraverso cui il giudice può acquisire conoscenza di un fatto. Talvolta, invece, con “prova” si intende la fonte da cui viene dedotta l’esistenza del fatto: in tal senso la prova è il fatto (o l’atto) a partire dal quale si instaura il meccanismo logico-giuridico per giungere a ritenere sussistente il fatto di cui si intende dimostrare l’esistenza. Talvolta, infine, con “prova” si intende l’esito finale del meccanismo logico che si avvia da una “fonte di prova”. Sono soprattutto i primi due significati a venire in rilievo. Infatti, è il significato di “mezzo di prova” o di “strumento di prova” che occorre riferire in via principale alla locuzione “prova” utilizzata dall’ordinamento; mentre il significato di “fonte di prova” – per quanto non sia il significato “ortodosso” o, se si vuole, primario, da assegnare alla locuzione “prova” – avrà molta attinenza nell’esame del requisito della “prova scritta”. Viene generalmente poi introdotta la distinzione fra prova precostituita e prova costituenda (qui intendendo la locuzione “prova” nel senso di “mezzo di prova”, ossia come strumento processuale attraverso cui il giudice può maturare il proprio convincimento) La prova precostituita è tale per cui, fin da un momento antecedente all’introduzione della causa, la “fonte della prova” esiste già: è l’ipotesi della prova documentale e, più in generale, della produzione in giudizio di documenti precostituiti1. La giurisprudenza, come visto in precedenza, ha esteso l’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 642 c.p.c., interpretando tale disposizione nel senso che ogni atto che conduce ad una certezza in ordine al diritto azionato, analoga a quella di cui ai titoli elencati espressamente, comporta la concessione della provvisoria esecutività del decreto. Su tale presupposto è dunque da ritenere che, ogni qual volta il creditore ponga a fondamento della propria pretesa un titolo di origine giudiziale, sarà applicabile la disposizione in esame. Conviene inoltre ricordare che alcune disposizioni di carattere particolare impongono la concessione della provvisoria esecutività del decreto in specifiche fattispecie. Al riguardo, si ricorda, innanzitutto, l’art. 664 c.p.c., il quale prevede l’obbligatoria concessione della provvisoria esecutività in ipotesi di decreto emesso per il pagamento di canoni di locazione scaduti. Prevede infatti la disposizione che: “I. Nel caso previsto nell'articolo 658, il giudice adito pronuncia separato decreto d'ingiunzione per l'ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino all'esecuzione dello sfratto, e per le spese relative all'intimazione. II. Il decreto è esteso in calce ad una copia dell'atto di intimazione presentata dall'istante, da conservarsi in cancelleria. III. Il decreto è immediatamente esecutivo, ma contro di esso può essere proposta opposizione a norma del capo precedente. L'opposizione non toglie efficacia all'avvenuta risoluzione del contratto.” Come visto anche in precedenza, il già richiamato art. 63 disp. att. c.c. prevede, in tema di crediti condominali, che il decreto emesso sulla base della ripartizione delle spese approvate in assemblea debba essere provvisoriamente esecutivo: “I. Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l’amministratore può ottenere decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione.” Altra fattispecie peculiare è quella relativa ai crediti dei subfornitori. Il D.Lgs. n. 192/1998 - dopo aver chiarito la definizione di subfornitore rilevante per l’applicazione dell’intera disposizione3 - all’art. 3, co. 4, prevede che: “In ogni caso la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituirà titolo per l'ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva ai sensi degli articoli 633 e seguenti del codice di procedura civile.” E’ infine da ricordare come anche in tema di crediti vantati da soggetti pubblici – ed in particolare per i crediti vantati da enti previdenziali – il legislatore abbia disposto l’obbligatoria concessione della provvisoria esecutività del decreto. Prevede infatti il comma 13 dell’art. 1 del D.L. 688/1985 che: “Il decreto ingiuntivo richiesto, ai sensi degli articoli 633 e seguenti del codice di procedura civile, dagli enti previdenziali per il recupero dei contributi, dei premi e dei relativi oneri accessori, dovuti per le forme obbligatorie di previdenza e di assistenza, è provvisoriamente esecutivo ai sensi dell'art. 642, primo comma, del codice di procedura civile.” Tale disposizione risulta peraltro assai favorevole per la pubblica amministrazione, in quanto giunge ad affiancarsi all’altrettanto favorevole previsione di cui all’art. 635 c.p.c., in forza della quale l’onere probatorio per i crediti dello Stato può essere adempiuto anche soltanto con la produzione di atti di parte del creditore. Ulteriori ipotesi di decreto provvisoriamente esecutivo sono poi da rinvenire nelle previsioni di cui all’art. 614 c.p.c., - in materia di liquidazione delle spese per l’esecuzione di obblighi di fare o non fare – nonché all’art. 53 disp. att. c.p.c., in materia di liquidazione di compensi di custodi e ausiliari del giudici. Come detto in precedenza, il comma 2 dell’art. 642 c.p.c. disciplina invece le ipotesi in cui il giudice concede discrezionalmente la provvisoria esecutività del decreto. Mentre il comma 1 della disposizione, come visto, prevede che al ricorrere di alcune fattispecie il decreto richiesto sarà immediatamente esecutivo in via obbligatoria, per cui qualora il ricorrente richieda la provvisoria esecutività del decreto il giudice non potrà che disporla, il secondo comma disciplina quelle ipotesi in cui, a fronte della richiesta del creditore, il giudice è libero di apporre o meno la clausola di immediata e provvisoria esecutività. Si tratta, dunque, di un potere discrezionale che l’ordinamento attribuisce al giudicante, e l’estensione di tale discrezionalità è talmente ampia da prevedere l’ipotesi che il giudice possa disporre una cauzione a carico del creditore, a tutela dell’interesse del debitore che, a seguito del pagamento, ottenga invece ragione nel giudizio di opposizione. La disposizione citata, infatti, così prevede: “L’esecuzione provvisoria può essere concessa anche se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, ovvero se il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore, comprovante il diritto fatto valere; il giudice può imporre al ricorrente una cauzione.” Ora, deve preliminarmente essere sottolineato come la disposizione – nella sua attuale stesura, frutto di una non risalente modifica normativa operata con L. n. 263/2005, art. 1, comma a, lett. s) – preveda due distinti elementi in forza dei quali il giudice può discrezionalmente disporre la provvisoria esecutività del decreto; due elementi che, oltre ad essere ben distinti, si pongono su due piani completamente diversi. Un primo elemento – che è quello previsto fin dalla stesura originaria della disposizione codicistica – è relativo al pregiudizio che il creditore potrebbe subire per l’ipotesi in cui non sia concessa la provvisoria esecutività. Un secondo elemento – che è stato introdotto con la citata novella legislativa – è relativo alla documentazione che il ricorrente allega al proprio ricorso a fondamento della pretesa. Il primo elemento riguarda dunque l’aspetto, per così dire, soggettivo del rapporto di credito debito- dedotto in giudizio. Infatti, il pericolo di un pregiudizio grave, connesso alla tempistica con cui il creditore vedrà adempiuta l’obbligazione, è astrattamente rinvenibile nelle condizioni personali in cui potrebbe versare il creditore stesso o il debitore. Vi potrebbe cioè essere un rischio laddove il creditore, a causa del ritardo, non riesca a soddisfare primarie esigenze personali o – se trattasi di persona giuridica – non riesca a far fronte alle proprie obbligazioni con rischio di insolvenza. Dall’altro lato, e cioè prendendo in esame la situazione del debitore, potrebbe invece essere rinvenuto un pericolo di pregiudizio grave laddove si reputi che il patrimonio del debitore possa successivamente risultare incapiente. In sostanza, la concessione della provvisoria esecutività del decreto, se disposta sulla base dell’esistenza di un pericolo di grave pregiudizio, sembra assumere valenza cautelare e, pertanto, il giudice potrà rifarsi ai tradizionali criteri in forza dei quali viene disposta una misura cautelare. Semmai (come meglio si vedrà nei prossimi paragrafi) è da rilevare come, una volta concessa, la provvisoria esecutività possa essere soltanto sospesa e tale sospensione possa avvenire soltanto nell’ambito di un rigido procedimento: da ciò consegue la considerazione di ordine pragmatico secondo cui, una volta concessa la provvisoria esecutività, stante la difficoltà di rimuovere tale efficacia esecutiva del titolo e stanti le rilevanti ripercussioni che ciò può produrre nell’ambito della sfera giuridica del debitore, la posizione del soggetto intimato (che è tale sulla base di una cognizione solamente sommaria e parziale del giudice) parrebbe degna di particolare attenzione, attraverso un’interpretazione assai rigorosa della disposizione. Sembra cioè che soltanto al ricorrere di elementi atti a dimostrare l’effettiva sussistenza di un pericolo di grave pregiudizio (ed accedendo ad un criterio valutativo per cui la gravità del pregiudizio debba essere considerata tale soltanto laddove sia posta in pericolo la soddisfazione di un’esigenza primaria del creditore), potrà essere mantenuto un equilibrio fra le contrapposte esigenze di garantire sia la legittima pretesa del creditore che quella del supposto debitore. Quanto appena detto si collega poi all’istituto della cauzione che, come visto, il giudice può imporre al creditore. E’ infatti evidente che proprio laddove il ritardo nell’adempimento (soprattutto in ipotesi di obbligazioni pecuniarie) costituisca pericolo di grave pregiudizio del creditore potrebbero sussistere perplessità nel credere che detto creditore, qualora sia accolta l’opposizione del debitore, sia in grado di restituire quanto conseguito in forza della concessione della provvisoria esecutività. Potrebbe cioè sembrare “naturale” che l’esistenza di un pericolo di pregiudizio, se riferito alle condizioni soggettive del creditore e non del debitore, sia connessa ad una futura difficoltà del medesimo creditore di adempiere all’eventuale obbligazione restitutoria. In altri termini, proprio il creditore che ha necessità di ottenere immediatamente l’adempimento dell’obbligazione è il soggetto che fornisce minori garanzie in ordine alla propria solvibilità in ipotesi di revoca del decreto ingiuntivo e conseguente azione restitutoria esperita dal debitore vittorioso in sede di opposizione. Per porre rimedio a tale difficoltà (di ordine pratico ancor prima che giuridico) di conciliare due contrapposte esigenze, il legislatore ha demandato al potere discrezionale del giudice la scelta dell’imporre al creditore la prestazione di una cauzione. Di più: oltre alla piena discrezionalità in ordine alla decisione di imporre o meno una cauzione, il giudice determina liberamente anche la misura della stessa. Tutto ciò, come è evidente, con il rischio di rendere disagevole il ricorso alla tutela giudiziaria nelle forme del decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo proprio per soddisfare i bisogni dei soggetti che, in ipotesi potrebbero averne maggiore bisogno: ossia il creditore non possidente. Quanto poi alle modalità concrete con cui la cauzione dovrà essere prestata, stante il silenzio del legislatore, sembra debbano applicarsi le disposizioni di ordine generale dettate in tema di cauzione di cui agli art. 119 c.p.c. e 86 disp. att. c.p.c le quali, anch’esse, demandano alla piena discrezionalità del giudice l’esatta definizione delle attività concrete da compiere; nello specifico: art. 119 c.p.c. “Il giudice, nel provvedimento col quale impone una cauzione, deve indicare l'oggetto di essa, il modo di prestarla, e il termine entro il quale la prestazione deve avvenire”; art. 86, comma 1, disp att. c.p.c. “Salvo che sia diversamente disposto dal giudice a norma dell'articolo 119 del codice, la cauzione deve essere prestata in danaro o in titoli del debito pubblico nei modi stabiliti per i depositi giudiziari.” Come detto in precedenza, a seguito della novella legislativa, l’art. 642 co. 2 prevede adesso un’ulteriore ipotesi in cui il giudice, discrezionalmente, può disporre la concessione della provvisoria esecutività del decreto (anche in questo caso potendo discrezionalmente subordinare l’esecutività del decreto alla prestazione di una cauzione). Si tratta della fattispecie in cui il creditore produca documentazione sottoscritta dal debitore. Ora, è subito da sottolineare come il legislatore, facendo riferimento a “documentazione sottoscritta” sembri alludere alla produzione in giudizio di scritture private: essendo peraltro l’atto pubblico già ricompreso nell’elencazione di cui al comma 1 ed a cui consegue l’obbligatoria concessione della provvisoria esecutività. Tuttavia, sebbene si tratti di scritture private, il legislatore non ha introdotto alcuna distinzione fra scrittura riconosciuta e scrittura non riconosciuta. In sostanza, la documentazione che può fondare la concessione della provvisoria esecutività consiste, indistintamente, sia nella produzione di scritture private riconosciute (o autenticate), sia nella produzione di scritture private non riconosciute. A fronte di tale omologazione di due ipotesi assai distinte4 deve dunque essere assegnato al giudice il compito di selezionare le ipotesi in cui potrà essere disposta la provvisoria esecutività. Sarà dunque – inevitabilmente – il giudice a valutare caso per caso se la documentazione prodotta dal ricorrente sia suscettibile di fornire un grado di attendibilità compatibile con le gravi ripercussioni che si producono nella sfera del debitore a seguito della concessione della provvisoria esecutività, anche in questo caso potendo mitigare i rischi per il debitore imponendo la prestazione di una cauzione. Particolare attenzione deve essere posta all’aspetto dell’effettività della cauzione. Una diversa ricostruzione, invece, individua nel giudizio conseguente alla proposizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo una fase prosecutoria del medesimo procedimento già incardinatosi con il deposito del ricorso per ingiunzione. A rafforzare tale convincimento viene tradizionalmente esposto come il giudizio conseguente alla proposizione dell’opposizione sia un giudizio di primo grado, regolato dalle disposizioni inerenti il primo grado di giudizio e, soprattutto, sottoposto a tutti i mezzi di impugnazione generalmente utilizzabili per reagire ad una pronuncia di primo grado. Non manca poi una terza, e mediana, ricostruzione, che assegna al giudizio conseguente alla proposizione dell’opposizione una natura ibrida, sul presupposto che l’oggetto di un tale giudizio riguardi, da un lato, la verifica delle condizioni di ammissibilità per l’emanazione del decreto ingiuntivo e, dall’altro lato, la fondatezza della pretesa sostanziale azionata dal creditore nelle forme del procedimento di ingiunzione. Ad ogni modo, discende dall'approccio comunemente seguito in giurisprudenza a tale tematica che l'oggetto del giudizio di opposizione non e' affatto limitato al controllo di validità o merito del decreto ingiuntivo opposto ma involge anche, se non soprattutto, il merito, cioè la fondatezza della pretesa azionata dal creditore fin dal ricorso. In altri termini, l'opposizione devolve al giudice il completo esame del rapporto giuridico controverso, cosicché non avrebbe alcun senso giuridico un'opposizione che intendesse limitarsi al vaglio di legittimità dell'emanazione del monitorio. E’ in tale ottica che vengono dunque ad essere declinati i principi fondamentali del procedimento giurisdizionale; in particolare, un aspetto assai rilevante, direttamente connesso a quello dell’individuazione della natura unitaria o meno dell’intero procedimento, riguarda l’aspetto probatorio. Come visto nei precedenti paragrafi, è condizione di ammissibilità del ricorso per ingiunzione che il creditore sia in grado di fornire una prova della propria pretesa secondo regole che, da un lato, escludo la possibilità di utilizzare la prova testimoniale ma, dall’altro lato, consentono di introdurre elementi probatori i quali, ancorché soddisfacenti il requisito della “prova scritta”, non assumono valore di prova documentale. Di conseguenza, nell’ambito del giudizio conseguente alla proposizione dell’opposizione, il creditore opposto (che riveste il ruolo formale di convenuto), soprattutto qualora non abbia già prodotto documentazione idonea a costituire prova piena nella fase di opposizione, dovrà dimostrare la fondatezza della propria pretesa anche introducendo ulteriori elementi di prova. Da parte sua, il convenuto opposto sarà libero di produrre ulteriori mezzi istruttori senza rimanere in alcun modo vincolato alla produzione documentale già effettuata in sede di ricorso per ingiunzione (documentazione, questa, certamente già propria del procedimento ma che risulta ben suscettibile di integrazione). CAPITOLO 2: IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI LICENZA O DI SFRATTO l procedimento per convalida della licenza o di sfratto si pone come lo strumento per ottenere rapidamente un provvede un provvedimento esecutivo di condanna al rilascio di un immobile emanato dopo la valida instaurazione del contraddittorio sulla base del comportamento dell'intimato. si tratta perciò di un'ipotesi tipica di tutela sommaria. Articoli 657 658 e 159 del codice procedura civile individuano i soggetti che possono utilizzare questo speciale procedimento e le condizioni di ammissibilità legittimati attivamente sono al locatore e il concedente legittimati passivamente sono il conduttore l'affittuario coltivatore diretto il mezzadro e il colono. Dei soggetti possiamo risalire al tipo di rapporto tutelato e le situazioni tutelate non possono essere che quelle previste per legge. Te la si può fare il corso in tre diverse situazioni: 1) previsione della scadenza del contratto 2Nel corso del contratto quando il conduttore si sia reso inadempiente in ordine alle proprie obbligazioni. Nella prima ipotesi la richiesta è denominata licenza in quanto il locatore o il Cedente chiede al giudice di fornirgli anticipatamente un titolo esecutivo che potrà azionare soltanto dopo la scadenza del contratto. nel secondo caso Gli chiede al conduttore di riconsegnarle l'immobile quando l'obbligazione di riconsegna è già sorta e mancando rilascio spontaneo chiede che il giudice voglia condannare il conduttore al rilascio. Nel terzo caso la condanna è preceduta da una situazione in ordine alla risoluzione del contratto di locazione. Le tre diverse situazioni danno vita a tre procedimenti nel primo caso il locatore chiede al conduttore di lasciargli l'immobile intimandogli la licenza per finita locazione nel secondo caso poiché il conduttore Non ha rilasciato l'immobile che già aveva avrebbe dovuto consegnare il locatore gli intima direttamente lo sfratto nel terzo caso il locatore intima lo sfratto come nell'ipotesi precedente in più nello stesso atto può chiedere poi chiedere l'ingiunzione di pagamento per i canoni già scaduti. Cinza è un atto che a doppia valenza sotto il profilo sostanziale esprime la richiesta di rilascio dell'immobile e quindi vale come disdetta ossia come un atto di volontà con cui si esclude una proroga tacita del contratto sotto il profilo processuale invece costituisce il presupposto del provvedimento giudiziale di convalida evidente che elemento essenziale della disdetta è il termine di scadenza del contratto di conseguenza una licenza che non indichi il e priva di effetto. Può avvenire che avendo la parte sostenuto la convalida della licenza il conduttore non paghi i canoni se ritiene possibile intimare anche lo sfratto per morosità giacché i presupposti delle due forme di tutela sono diversi e diversi nessuno anche gli effetti e ciò ha indotto la giurisprudenza ad affermare che tra i due procedimenti non vi sia litispendenza. L'articolo 660 indica il contenuto forma dell'intimazione mentre il giudice competente è il tribunale del luogo in cui si trova la cosa locata articolo 661 del codice di procedura civile si tratta di competenza inderogabile così che le competenza qualora l'intimato non compaia o non sollevi eccezione può essere rilevata d'ufficio. I provvedimenti I provvedimenti sono strettamente collegati ai comportamenti delle parti A) Se il locatore non comparisce all'udienza fissata nell'atto di citazione gli effetti dell'intimazione cessano articolo 662 c.p.c. B se l'intimato non comparisce il giudice non ritenga di dover ordinare la rinnovazione della citazione o comparendo non si oppone il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione la posizione su di essa della formula esecutiva articolo 663 primo comma con la precisazione che nel caso di mancata sparizione la formula esecutiva a effetto dopo 30 giorni dalla data della posizione laddove in ipotesi di mancata opposizione non è previsto alcun termine. C) Caso di sfratto per morosità infine il giudice pronuncia separato decreto di ingiunzione per l'ammontare dei debiti scaduti e da scadere fino all'esecuzione dello sfratto e per le spese relative all'ingiunzione il decreto immediatamente esecutivo ma contro di esso può essere proposta l'opposizione l'opposizione non toglie efficacia alla avvenuta risoluzione del contratto articolo 664 D) può aversi caso che l'intimato comparisce proponga posizioni se queste ultime non sono fondate su prova scritta il giudice su istanza del locatore pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio con riserva delle eccezioni del convenuto. Finanza è immediatamente esecutiva ma può essere subordinata alla prestazione di una cauzione articolo 665 c.p.c. Piccolo 666 poi in relazione allo sfratto per morosità disciplina il caso frequente in cui il convenuto neghi la morosità contestando l'ammontare della somma spesa. Il giudice in questa ipotesi può ordinare all'intimato di pagare la somma non contestata concedendogli un termine ulteriore non superiore a 20 giorni cosicché se l'intimato non ottempera e gli convalida lo sfratto e concede decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni. I rimedi Rimedi sono posti dall'articolo 667 che recita pronunciati i provvedimenti previsti dagli articoli 665 e 166 il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell'articolo 426 mentre l'articolo 668 c.p.c. recita se l'intimazione di licenza o di thor è stata convalidata in assenza dell'intimato 663 questi può farvi opposizione 665 provando di non averne avuto tempestiva conoscenza per irregolarità della notifica o per caso fortuito o forza maggiore 660. se sono decorsi 10 giorni dall'esecuzione 608 l'opposizione non è più ammessa e la cauzione prestata a norma dell'articolo 663Secondo comma è liberata l'opposizione si propone davanti al tribunale nelle forme prescritte per l'opposizione al decreto ingiuntivo in quanto applicabili 645 l'opposizione non sospende il processo esecutivo ma il giudice con ordinanza non impugnabile può disporne la sospensione per gravi motivi imponendo quando lo ritiene opportuno una cauzione all'opponente. CAPITOLO 3: IL PROCESSO CAUTELARE Il procedimento cautelare è un procedimento speciale disciplinato dagli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile, che persegue il fine di cristallizzare una determinata situazione o un certo stato di fatto, che deve essere conservato ai fini di un'effettiva tutela giurisdizionale dei diritti, nell'attesa che si concluda il procedimento ordinario di cognizione nel quale questi ultimi sono giudicati. La domanda volta a ottenere un provvedimento cautelare si propone con ricorso, sia quando è proposta ante causam, sia quando è proposta nel corso del processo a cognizione piena. Il ricorso deve contenere, oltre i requisiti ex art. 125 c.p.c., anche l'indicazione dei mezzi di prova attestanti la sussistenza dei presupposti del fumus boni iuris e del pericolum in mora, il tipo di provvedimento richiesto e gli elementi soggettivi ed oggettivi della domanda di merito. Se la domanda è proposta ante causam, il ricorso deve contenere anche la prospettazione della causa di merito, per identificare il nesso di strumentalità Capo III: DEI PROCEDIMENTI CAUTELARI Sezione I: DEI PROCEDIMENTI CAUTELARI IN GENERALE Art. 669-novies. Inefficacia del provvedimento cautelare Se il procedimento di merito non e' iniziato nel termine perentorio di cui all'articolo 669-octies, ovvero se successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia. In entrambi i casi, il giudice che ha emesso il provvedimento, su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non c'e' contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento e' divenuto inefficace e da' le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. In caso di contestazione l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare decide con sentenza provvisoriamente esecutiva, salva la possibilita' di emanare in corso di causa i provvedimenti di cui all'articolo 669-decies. Il provvedimento cautelare perde altresi' efficacia se non e' stata versata la cauzione di cui all'articolo 669- undecies, ovvero se con sentenza, anche non passata in giudicato, e' dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso. In tal caso i provvedimenti di cui al comma precedente sono pronunciati nella stessa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito di ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento. Se la causa di merito e' devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato italiano o estero, il provvedimento cautelare, oltre che nei casi previsti nel primo e nel terzo comma, perde altresi' efficacia: 1) se la parte che l'aveva richiesto non presenta domanda di esecutorieta' in Italia della sentenza straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti a pena di decadenza dalla legge o dalle convenzioni internazionali; 2) se sono pronunciati sentenza straniera, anche non passata in giudicato, o lodo arbitrale che dichiarino inesistente il diritto per il quale il provvedimento era stato concesso. Per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento cautelare e per le disposizioni di ripristino si applica il secondo comma del presente articolo. Art. 669-decies. Revoca e modifica Salvo che sia stato proposto reclamo ai sensi dell'articolo 669-terdecies, nel corso dell'istruzione il giudice istruttore della causa di merito puo', su istanza di parte, modificare o revocare con ordinanza il provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente alla causa, se si verficano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si e' acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso, l'istante deve fornire la prova del momento in cui ne e' venuto a conoscenza. Quando il giudizio di merito non sia iniziato o sia stato dichiarato estinto, la revoca e la modifica dell'ordinanza di accoglimento, esaurita l'eventuale fase del reclamo proposto ai sensi dell'articolo 669- terdecies, possono essere richieste al giudice che ha provveduto sull'istanza cautelare se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si e' acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tale caso l'istante deve fornire la prova del momento in cui ne e' venuto a conoscenza. Se la causa di merito e' devoluta alla giurisdizione di un giudice straniero o ad arbitrato, ovvero se l'azione civile e' stata esercitata o trasferita nel processo penale, i provvedimenti previsti dal presente articolo devono essere richiesti al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare. Art. 669-undecies. Cauzione Con il provvedimento di accoglimento o di conferma ovvero con il provvedimento di modifica il giudice puo' imporre all'istante, valutata ogni circostanza, una cauzione per l'eventuale risarcimento dei danni. Art. 669-duodecies. Attuazione Salvo quanto disposto dagli articoli 677 e seguenti in ordine ai sequestri, l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle forme degli articoli 491 e seguenti in quanto compatibili, mentre l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalita' di attuazione e, ove sorgano difficolta' o contestazioni, da' con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti. Ogni altra questione va proposta nel giudizio di merito. Art. 669-terdecies. Reclamo contro i provvedimenti cautelari Contro l'ordinanza con la quale è stato concesso o negato il provvedimento cautelare è ammesso reclamo nel termine perentorio di quindici giorni dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore. Il reclamo contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone al collegio, del quale non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato. Quando il provvedimento cautelare è stato emesso dalla corte d'appello, il reclamo si propone ad altra sezione della stessa corte o, in mancanza, alla corte d'appello più vicina. Il procedimento è disciplinato dagli articoli 737 e 738. Le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti, nel rispetto del principio del contraddittorio, nel relativo procedimento. Il tribunale può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti. Non è consentita la rimessione al primo giudice. Il collegio, convocate le parti, pronuncia, non oltre venti giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la quale conferma, modifica o revoca [669-decies] il provvedimento cautelare. Il reclamo non sospende l'esecuzione del provvedimento; tuttavia il presidente del tribunale o della corte investiti del reclamo, quando per motivi sopravvenuti il provvedimento arrechi grave danno, può disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione dell'esecuzione o subordinarla alla prestazione di congrua cauzione. Art. 669-quaterdecies. Ambito di applicazione Le disposizioni della presente sezione si applicano ai provvedimenti previsti nelle sezioni II, III e V di questo capo, nonche', in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalle leggi speciali. L'articolo 669-septies si applica altresi' ai provvedimenti di istruzione preventiva previsti dalla sezione IV di questo capo. Sezione V: DEI PROVVEDIMENTI D'URGENZA Art. 700. Condizioni per la concessione Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, puo' chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, piu' idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. Scopo del procedimento cautelare civile è quello di giungere a un provvedimento del giudice che sia in grado, rapidamente, di tutelare le ragioni della parte ricorrente. La decisione del giudice assume il nome di ordinanza cautelare. Possiamo, dunque, dire che le ordinanze cautelari rappresentano l’esito di ogni procedimento cautelare. Come anticipato nell’introduzione, con l’ordinanza cautelare si cercano di anticipare gli effetti della futura sentenza, fermo restando comunque la possibilità che quest’ultima accerti che la situazione giuridica tutelata inizialmente con la misura cautelare, in realtà, era infondata. Caratteristica principale di ogni ordinanza cautelare è, dunque, la sua temporaneità: la misura cautelare applicata è destinata a venir meno entro un determinato lasso di tempo. La legge [1] dice che l’ordinanza di accoglimento della domanda cautelare, se emanata prima dell’inizio della causa vera e propria, produce i suoi effetti per sessanta giorni, entro i quali la parte interessata deve dare l’avvio al processo di merito. In mancanza, la misura cautelare decade, cioè perde i suoi effetti. Il ricorso per la procedura cautelare Secondo la legge [2], il procedimento cautelare civile prende avvio dal ricorso che la parte interessata propone al tribunale territorialmente competente (il giudice di pace non lo è mai). Poiché, come detto nel precedente paragrafo, la domanda cautelare risulta connessa con il successivo giudizio di merito (tant’è vero che la durata di un’ordinanza cautelare è di sessanta giorni se non si dà avvio al processo di merito), nel ricorso è necessario indicare anche gli elementi essenziali alla individuazione della domanda per il merito, in ragione della quale si individua il giudice competente. Al contrario, se c’è già un giudizio pendente tra le parti, la domanda cautelare va proposta al giudice che sta già trattando la causa. Ricorso cautelare: come si fa? Il ricorso per il procedimento cautelare non è differente da un normale ricorso che si fa al giudice quando si devono far valere le proprie ragioni. Nel ricorso cautelare andranno, pertanto, indicati: l’ufficio giudiziario competente; le generalità delle parti; il tipo di provvedimento richiesto; i fatti costitutivi del diritto fatto valere; le conclusioni, la procura conferita al difensore nei casi in cui la parte non possa stare in giudizio personalmente. Fin qui, tutto normale. Il ricorso cautelare, però, deve contenere altre due indicazioni specifiche, le quali sono proprie di questo particolare procedimento: sto parlando del periculum in mora e degli elementi probatori che sono alla base del fumus boni iuris. Cosa vuol dire? Analizziamo separatamente questi due aspetti. Il periculum in mora nel processo cautelare Come detto più volte, il processo cautelare civile è una particolare procedura che serve alla parte interessata per ottenere più velocemente un provvedimento che tuteli i propri diritti. Facciamo un esempio concreto. violento e clandestino; l'azione di manutenzione di cui all'art. 1170 c.c., nella duplice tipologia finalizzata ad eliminare la presenza di molestie e turbative (art. 1170, 1° comma, c.c.) e a recuperare il possesso in caso di spoglio non violento o clandestino (c.d. "spoglio semplice") (art. 1170, commi 2 e 3, c.c.). L'azione di reintegrazione Ai sensi dell'art. 1168, c. 1°, c.c., "chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso, può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo". L'azione di reintegrazione o di spoglio è pertanto esperibile soltanto nel caso in cui si sia stati privati del possesso. L'azione ha infatti "funzione recuperatoria" essendo diretta al ripristino della preesistente situazione di fatto, con la conseguenza che non può essere proposta e dà luogo a risarcimento del danno nell'ipotesi di distruzione totale della cosa (Cass. n. 3731/1985). Lo spoglio Ai fini della configurabilità dell'azione, lo spoglio deve essere attuato con violenza o clandestinità. Quanto al requisito della violenza, la giurisprudenza consolidata sostiene che non occorra che lo spoglio sia avvenuto con la violenza fisica, le armi o le minacce, ma è sufficiente che sia avvenuto contro (o senza) la volontà effettiva, anche solo presunta, del possessore (Cass. n. 1131/1993; Cass. n. 1101/1981; n. 5932/1978). Quanto, invece, al requisito della clandestinità, si considera clandestino lo spoglio commesso all'insaputa del possessore o del detentore, che ne venga a conoscenza in un momento successivo (Cass. n. 372/1982; n. 1036/1995), purchè l'inconsapevolezza non sia stata determinata dalla negligenza dello spogliato o di persone che lo rappresentino (Cass. n. 12740/2006; n. 5215/2014). Oltre ad implicare la sottrazione o la privazione del possesso (Cass. n. 6415/1984), lo spoglio implica la restrizione o riduzione delle facoltà inerenti al potere della vittima (Cass. n. 1386/1978) o una turbativa tale da rendere più disagevole il godimento della res (Cass. n. 198/1976), ovvero un mutamento di destinazione economica della cosa (Cass. n. 2736/1982). Per la configurabilità dello spoglio non è necessario che la privazione del possesso abbia carattere permanente o irreversibile, purchè sia attuale e duratura, ovvero che non si riveli quale impedimento di natura provvisoria o transitoria, ma destinato a permanere per una durata apprezzabile di tempo (Cass. n. 3837/1978; n. 500/1976). Oltre all'elemento oggettivo, tradizionalmente ai fini dell'esperibilità dei rimedi possessori è richiesto l'elemento soggettivo dello spoglio: vale a dire l'animus spogliandi o turbandi, consistente nella consapevolezza di sostituirsi nella detenzione o nel godimento del bene contro la volontà dello spogliato (Cass. n. 8417/1994; n. 5013/1990; n. 1800/1984), insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore o il detentore contro la loro stessa volontà espressa o tacita (Cass. n. 3633/1981; n. 4447/1982; n. 1933/1984). In presenza di un ragionevole convincimento circa un "consenso" anche implicito alla privazione del possesso, può escludersi la ricorrenza dello spoglio (Cass. n. 2957/2005). La legittimazione attiva In merito alla legittimazione attiva, è subito da precisare che, a differenza di quanto previsto per l'azione di manutenzione, l'azione di spoglio compete sia al possessore che al detentore, purché non si tratti di detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità, nell'interesse proprio: a tal proposito, di recente la Suprema Corte ha ribadito la legittimazione in tal senso del conduttore (o locatario), nella veste di detentore qualificato (Cass. n. 18486/2014; n. 6221/2002); del convivente more uxorio (Cass. n. 7/2014; Cass. 7214/2013; n. 19423/2014) e dell'erede (Cass. n. 8075/2003). La legittimazione passiva Legittimato passivo è sia l'esecutore materiale che quello morale dello spoglio: affinché un soggetto possa considerarsi autore morale dello spoglio, ancorché non sia il mandante o colui che l'ha autorizzato (Cass. n. 11916/2000), è necessario, ai fini della legittimazione passiva, che egli sia stato consapevole di trarre un vantaggio dalla situazione posta in essere dall'autore materiale (Cass. n. 1222/1997). L'azione di reintegrazione deve essere esercitata entro un anno dallo spoglio. Il termine annuale di decadenza non decorre dal giorno dell'effettiva scoperta del fatto lesivo, ma da quello in cui lo stesso avrebbe potuto essere scoperto con l'ordinaria diligenza (Cass. n. 1044/1989); per il computo dovrà farsi riferimento al primo atto effettivamente lesivo, quando i successivi siano stati posti in essere con le medesime modalità (Cass. n. 4939/1992). L'azione di manutenzione Ai sensi dell'art. 1170, c. 1°, c.c. "chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili può, entro l'anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo". L'azione di manutenzione presenta presupposti diversi rispetto a quella di reintegrazione. Il possessore (e non anche il detentore, salvo che risulti intervenuta l'interversio possessionis ex art 1141 c.c., Cass. n. 2298/1981) di un bene immobile, di un diritto reale su un immobile o di un'universalità di mobili (e non di un bene mobile: altra nota differenziale rispetto all'azione di spoglio) è legittimato ad esperirla allorché subisca un disturbo "d'intensità apprezzabile", al fine di ottenere una pronuncia giurisprudenziale che ordini al molestatore di cessare subito l'attività denunciata. Un presupposto del tutto peculiare dell'azione in commento, inoltre, è che il possesso dell'attore deve essere "continuo, ininterrotto e pacifico" e perdurare da almeno un anno, così come è di un anno, peraltro, il termine di decadenza stabilito per l'esercizio di tale strumento processuale. Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o clandestino, l'azione può nondimeno esercitarsi, decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità è cessata. Ex art. 1170, c. 3°, c.c. l'azione di manutenzione è altresì esperibile con finalità recuperatorie in caso di spoglio non violento o clandestino. La molestia Ai fini della configurabilità dell'azione, occorre che vi sia una "molestia" in atto al momento della proposizione della domanda (Cass. n. 2279/1970), la quale si sostanzia, a differenza dello spoglio, non in una privazione del godimento del bene, ma in una turbativa dell'esercizio del possesso, purchè le circostanze univoche e concorrenti escludano la volontà del possessore di far valere la propria posizione (Cass. n. 3291/1996). L'azione è esperibile sia nelle ipotesi di molestia di fatto che di diritto: le prime consistono in qualsiasi limitazione o turbativa della sfera del possesso altrui (Cass. n. 185/1965); le seconde in atti che modifichino o tendano a modificare il possesso o lo stato del possesso (Cass. n. 2968/1971). La giurisprudenza ha affermato, inoltre, che la molestia possessoria può realizzarsi, anche senza tradursi in attività materiali, attraverso manifestazioni di volontà che devono, tuttavia, esprimere la ferma intenzione del dichiarante di tradurre in atto il suo proposito, mettendo in pericolo l'altrui possesso (Cass. n. 20800/2011; n. 1409/1999; n. 25441/2013). L'azione di manutenzione non richiede che l'opera dalla quale nasce la turbativa del possesso sia completata, essendo al riguardo sufficiente l'obiettiva percezione della lesione del possesso da essa causata. La riduzione in pristino La riduzione in pristino, infine, cui l'azione è diretta, può consistere non solo nella mera riproduzione della situazione dei luoghi alterata o modificata, ma anche in un quid novi, laddove il rifacimento puro e semplice non sia idoneo a realizzare il ripristino stesso (Cass. n. 8627/1987). CAPITOLO 4: I PROCEDIMENTI IN CAMERA DI CONSIGLIO Capo VI: DISPOSIZIONI COMUNI AI PROCEDIMENTI IN CAMERA DI CONSIGLIO Art. 737. Forma della domanda e del provvedimento I provvedimenti, che debbono essere pronunciati in camera di consiglio, si chiedono con ricorso al giudice competente e hanno forma di decreto motivato, salvo che la legge disponga altrimenti. Art. 738. Procedimento Il presidente nomina tra i componenti del collegio un relatore, che riferisce in camera di consiglio. Se deve essere sentito il pubblico ministero, gli atti sono a lui previamente comunicati ed egli stende le sue conclusioni in calce al provvedimento del presidente. Il giudice puo' assumere informazioni. Art. 739. Reclami delle parti Contro i decreti del giudice tutelare si puo' proporre reclamo con ricorso al tribunale, che pronuncia in camera di consiglio. Contro i decreti pronunciati dal tribunale in camera di consiglio in primo grado si puo' proporre reclamo con ricorso alla Corte d'appello, che pronuncia anch'essa in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto se e' dato in confronto di una sola parte, o dalla notificazione se e' dato in confronto di piu' parti. Salvo che la legge disponga altrimenti, non e' ammesso reclamo contro i decreti della Corte d'appello e contro quelli del tribunale pronunciati in sede di reclamo. [NB: La Corte Costituzionale, con sentenza 156/86, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 739 e 741 c.p.c., nella parte in cui, disciplinando il reclamo avverso i decreti del giudice delegato di cui sub a), fanno decorrere il termine per il reclamo dal deposito del decreto in cancelleria, anziché dalla comunicazione eseguita con il rispetto delle vigenti disposizioni procedurali.] Con la norma di chiusura espressa dall'art. 808-quater c.p.c., il legislatore ha previsto che nel dubbio, la convenzione di arbitrato debba essere interpretata nel senso di estendere la competenza arbitrale a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convezione si riferisce. Arbitrato rituale e arbitrato irrituale In relazione all'efficacia del lodo, si distingue tra arbitrato rituale ed irrituale. Nel primo caso, disciplinato dall'art. 824-bis c.p.c., dalla data della sua ultima sottoscrizione da parte degli arbitri, gli effetti del lodo sono equiparati a quelli della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria. Il lodo rituale, quindi, fa stato tra le parti ex art. 2909 c.c. e determina le preclusioni di cui all'art. 324 c.p.c.; in altre parole, è idoneo sia al giudicato formale che a quello sostanziale. Nel secondo caso, invece, il lodo ha efficacia negoziale. L'art. 808-ter c.p.c. prevede, infatti, che le parti, con apposita pattuizione scritta, possano stabilire che in deroga a quanto disposto dall'art. 824-bis c.p.c. la controversia venga definita con determinazione contrattuale. Di conseguenza, il lodo irrituale non può acquistare esecutorietà, né essere impugnato per nullità avanti la Corte d'Appello, rimanendo l'unica impugnazione possibile quella di annullabilità di cui all'art. 808-ter c. 2 per i motivi ivi tassativamente elencati, omologhi ai motivi di impugnazione del lodo rituale ex art. 829 nn. 1, 2, 3 , 4 e 9 c.p.c. A seconda del criterio di giudizio impiegato dagli arbitri per la risoluzione della controversia, viene in rilievo la distinzione tra arbitrato di diritto e di equità. Invero, a mente dell'art. 822 c.p.c., gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che gli stessi pronuncino secondo equità. La previsione di una decisione secondo equità, da un lato, permette la ricerca di una giustizia più aderente al caso concreto basata sull'applicazione di regole metagiuridiche ancorché nel rispetto dei principi generali e delle norme fondamentali dell'ordinamento; dall'altro, evidentemente, non è compatibile con l'impugnazione per nullità del lodo per violazione delle regole di diritto sostanziale e, in generale, per ogni error in iudicando. Con riferimento all'aspetto organizzativo e pratico, si parla di arbitrato ad hoc e amministrato. L'arbitrato ah hoc, disciplinato dall'art. 816-bis c.p.c., si svolge secondo i criteri individuati dalle parti nella convenzione di arbitrato e le regole determinate dagli arbitri, nei limiti della legge. L'arbitrato amministrato di cui all'art. 832 c.p.c. si svolge secondo regolamenti precostituiti di istituzioni arbitrali e sotto la supervisione delle stesse. Le parti, in particolare, possono semplicemente richiamare il regolamento di una determinata istituzione arbitrale (cd. arbitrato regolamentato), oppure svolgere l'intero arbitrato usufruendo dei servizi dell'istituzione arbitrale che monitora l'andamento del procedimento apprestando altresì il supporto logistico per l'espletamento della procedura. Gli arbitri Gli arbitri cui viene deferita la decisione della controversia devono essere sempre in numero dispari secondo quando precisato dall'art. 809 c.p.c. Può trattarsi, quindi, di un solo arbitro o di un collegio composto da soggetti muniti della capacità legale di agire; se le parti non ne hanno indicato il numero nella convenzione di arbitrato e non si accordano in merito, gli arbitri sono tre. Se le parti hanno indicato un numero pari di arbitri, in assenza di pattuizione contraria, provvede all'ulteriore nomina il Presidente del Tribunale. Il Presidente del Tribunale provvede anche nel caso in cui le parti nulla abbiano disposto sulla nomina degli arbitri, come nel caso in cui la nomina sia stata demandata all'autorità giudiziaria o ad un terzo che non vi ha adempiuto. Nomina e sostituzione Nel caso in cui la nomina degli arbitri competa alle parti, la parte interessata ad introdurre il giudizio ha l'onere di notificare alla controparte i nominativi dei soggetti prescelti, invitandola, a norma dell'art. 810 c.p.c., a procedere alla designazione dei propri arbitri e a comunicare la propria scelta entro i venti giorni successivi. La notifica dell'atto di nomina è idonea ad interrompere la prescrizione ed impedire la decadenza dal termine per la proposizione dell'arbitrato. L'omessa comunicazione della parte notificata autorizza chi ha fatto l'invito a richiedere la nomina al Presidente del Tribunale. In seguito alla nomina, l'accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro deve essere manifestata per iscritto ex art. 813 c.p.c. Se gli arbitri nominati vengono a mancare, si applica la disposizione di cui all'art. 811 c.p.c. e la sostituzione viene operata conformemente a quanto stabilito nella convenzione di arbitrato. Se la convenzione nulla dispone a riguardo, o la parte o il terzo cui spetta nominare il sostituto non vi provvede, si procede con il ricorso al Presidente del Tribunale a norma dell'art. 810 c.p.c. La sostituzione dell'arbitro fa decorrere un nuovo termine per l'emissione del lodo e interviene anche in seguito alla decadenza dell'arbitro nei casi di omesso o ritardato compimento di un atto relativo alle sue funzioni ex art. 813-bis c.p.c. Responsabilità dell'arbitro L'arbitro, in ogni caso, è responsabile personalmente per i danni cagionati alle parti nelle ipotesi di cui all'art. 813-ter c.p.c., ovvero quando "1) con dolo o colpa grave ha omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto, ovvero ha rinunciato all'incarico senza giustificato motivo; 2) con dolo o colpa grave ha omesso o impedito la pronuncia del lodo entro il termine fissato a norma degli articoli 820 o 826. Fuori dai precedenti casi, gli arbitri rispondono esclusivamente per dolo o colpa grave entro i limiti previsti dall'articolo 2 commi 2 e 3, della legge 13 aprile 1988, n. 117". In pendenza del procedimento di arbitrato, l'azione di responsabilità è possibile solo nei confronti dell'arbitro decaduto o dimessosi senza giustificato motivo; dopo la pronuncia del lodo, è necessario che sia prima stata accolta l'impugnazione con sentenza passata in giudicato affinché l'interessato possa agire contro l'arbitro facendo valere i motivi posti alla base dell'annullamento della pronuncia stessa. In caso di responsabilità dell'arbitro, questi perde il diritto al compenso di cui all'art. 814 c.p.c. Ricusazione dell'arbitro L'eventuale richiesta di ricusazione dell'arbitro per i motivi di cui all'art. 815 c.p.c. deve essere proposta con ricorso al Presidente del Tribunale entro dieci giorni dalla notificazione della nomina dell'arbitro o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione (assenza delle qualifiche espressamente convenute dalle parti; interesse personale diretto o derivato nella causa; rapporto di coniugo, parentela, frequenza abituale, pendenza di giudizio o grave inimicizia con le parti, loro legali rappresentanti o difensori; rapporto di lavoro, consulenza, prestazione d'opera o altri rapporti di natura patrimoniale o associativa con le parti, società controllata o controllante; rapporto di tutela o curatela con una delle parti; attività di consulenza, assistenza, difesa in fasi precedenti della vicenda o assunzione dell'ufficio di testimone). Il procedimento di arbitrato La scelta della sede dell'arbitrato è rimessa alle parti, in mancanza di determinazione delle stesse vi provvedono gli arbitri. In via residuale, l'art. 816 c.p.c. stabilisce, secondo il principio di territorialità, che la sede dell'arbitrato si intende stabilita nel luogo in cui è stata stipulata la convenzione di arbitrato e, nel caso in cui la stipula sia avvenuta all'estero, la sede è a Roma. Il procedimento di arbitrato si svolge secondo le regole determinate dalle parti nella convenzione arbitrale; in assenza di regole procedimentali ex parte, gli arbitri hanno facoltà di regolare lo svolgimento della procedura nel modo che ritengono più opportuno, nel rispetto del principio del contraddittorio fissato dall'art. 816-bis c.p.c., con la concessione alle parti di ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa. La difesa tecnica nel corso del procedimento è facoltativa; salvo espressa limitazione, la procura conferita al difensore si intende generale e a quest'ultimo vanno notificati il lodo e l'eventuale impugnazione. La fase istruttoria La fase istruttoria è ispirata al principio di collegialità, con la possibilità di delega di cui all'art. 816-ter c.p.c., che disciplina, altresì, le modalità di assunzione dei mezzi di prova. La concessione di provvedimenti cautelari è generalmente competenza esclusiva del giudice ordinario cosicché, ai sensi dell'art. 818 c.p.c., gli arbitri non possono apprestare tutela cautelare salva diversa disposizione di legge. In caso di questioni pregiudiziali penali, civili o costituzionali, il procedimento arbitrale viene sospeso con ordinanza motivata e, in caso di mancato deposito dell'istanza di prosecuzione entro il termine indicato dagli arbitri o, in difetto, entro un anno dalla cessazione della causa di sospensione, ne segue l'estinzione. La pronuncia del lodo La pronuncia del lodo deve intervenire a norma dell'art. 820 c.p.c. nel termine indicato dalle parti o nel termine legale di duecentoquaranta giorni dall'accettazione della nomina da parte degli arbitri, salva possibilità di proroga. L'eventuale ritardo nella pronuncia deve essere fatto valere con specifica eccezione nelle modalità indicate dall'art. 821 c.p.c. Il lodo, in particolare, deve essere redatto per iscritto e contenere: nominativo degli arbitri, indicazione della sede di arbitrato, delle parti, della convenzione di arbitrato e delle conclusioni delle parti, esposizione sommaria dei motivi, dispositivo, data e sottoscrizione. In assenza del contenuto minimo (motivi, dispositivo, sottoscrizione) il lodo è nullo ai sensi dell'art. 829 c.p.c., mentre la carenza degli altri requisiti può essere sanata mediante la procedura di correzione di errore materiale di cui all'art. 826 c.p.c. Il lodo rituale va depositato unitamente alla convenzione di arbitrato nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede dell'arbitrato per la dichiarazione di esecutività. A mente dell'art. 825 c.p.c., il lodo reso esecutivo è soggetto a trascrizione o annotazione, in tutti i casi in cui vi sarebbe soggetta la sentenza di medesimo contenuto. LEGGI DA ART. 806 A 840 !!!! Modelli per l'arbitrato Di seguito una serie di fac-simile da utilizzare per la procedura di arbitrato: Atto di compromesso arbitrale Clausola per arbitrato rituale Istanza per la esecutorietà del lodo Nomina dell'arbitro La clausola compromissoria (guida e formula)
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