Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE: I PROCESSI CIVILI E L'ESECUZIONE FORZATA - 3 libro, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Procedimento sommario di cognizione Controversie di lavoro e previdenziali Presupposti esecuzione forzata Espropriazione forzata Esecuzione per consegna o rilascio Esecuzione degli obblighi fare o non fare Opposizione del debitore e dei terzi Sospensione e estinzione del processo esecutivo Procedimento per ingiunzione Procedimento per convalida di licenza o sfratto Provvedimenti cautelari e relativo processo Procedimenti possessori

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 11/10/2022

g_1998
g_1998 🇮🇹

4.5

(9)

7 documenti

1 / 99

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica DIRITTO PROCESSUALE CIVILE: I PROCESSI CIVILI E L'ESECUZIONE FORZATA - 3 libro e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 3 LIBRO = I PROCESSI SPECIALI E L’ESECUZIONE FORZATA PARTE PRIMA: I PRINCIPALI PROCESSI SPECIALI A COGNIZIONE PIENA Capitolo 1 : Il procedimento sommario di cognizione 1. Profili generali Una delle innovazioni più significative della riforma del 2009 è stata l’introduzione del procedimento sommario di cognizione, così definito nella rubrica del nuovo art. 702-bis. L’idea del legislatore è stata quella di mettere a disposizione dell’attore, nelle controversie meno complesse, un procedimento più snello rispetto a quello ordinario, ma nel contempo del tutto assimilabile a quest’ultimo dal punto di vista del risultato, poiché non conduce ad un provvedimento ch’è pienamente idoneo, se non impugnato, ad acquisire l’autorità di cosa giudicata. Poi, l’art. 183-bis ha previsto che lo stesso giudice, laddove l’attore abbia avviato la causa col rito ordinario, può ordinare ch’essa prosegua con tale rito speciale. L’ambito di applicazione di questo nuovo rito non è delimitato in ragione di una specifica materia, essendo liberamente utilizzabile per qualunque tipo di domanda, purché si tratti di cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica e dunque con l’esclusione delle cause contemplate dall’art. 50-bis, nonché di quelle attribuite alla competenza del giudice di pace. Più dubbia, invece, è la possibilità di impiegare tale procedimento per cause che siano assoggettate ad un rito a cognizione piena diverso da quello ordinario, quali ad es. le cause di lavoro. Il d. lgs. 150/2011, al fine di realizzare la riduzione e la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ha previsto che la disciplina che ci accingiamo ad esaminare si applichi, seppure con alcuni adattamenti, ad una serie di controversie che in passato erano assoggettate a diversi riti speciali, talora camerali. In queste materie, quindi, la disciplina del rito sommario trova applicazione non per una libera scelta dell’attore, bensì ex lege; sicché è escluso che il giudice possa successivamente optare per la prosecuzione del giudizio col rito ordinario. In seguito a tale riforma il procedimento sommario di cognizione è divenuto, quindi, uno dei tre principali riti a cognizione piena - accanto al rito ordinario e a quello del lavoro. E più recentemente l’art. 8 della l. 24/2017 ne ha reso obbligatorio l’esperimento anche nelle controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria. 2. La fase introduttiva In base all’art. 702-bis, la domanda si propone con ricorso, sottoscritto dal difensore munito di mandato, salvo che la parte sia abilitata a stare in giudizio personalmente, e contenente tutti gli elementi prescritti da nn. 1-6 dell’art. 163, per l’ordinario atto di citazione, nonché l’avvertimento di cui al n. 7 dello stesso articolo. In seguito al deposito del ricorso, il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio e lo presenta senza ritardo al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del procedimento. Tale magistrato fissa con decreto l’udienza di comparazione ed assegna contestualmente il termine per la costituzione del convenuto, che peraltro è indicato dallo stesso art. 702-bis in non oltre 10 gg prima dell’udienza. L’attore, dal canto suo, deve far riferimento, nel ricorso, a tale termine, avvertendo il convenuto che, qualora non si costituisca almeno 10 gg prima, incorrerà nelle decadenze di cui all’art. 702- bis, sostanzialmente identiche a quelle contemplate per il rito ordinario. La notificazione del ricorso e del decreto deve poi avvenire a cura dell’attore, che può provvedervi senza particolari limitazioni temporali, purché rispetti il termine dilatorio di almeno 30 gg prima della data fissata per la costituzione del convenuto (cioè 40 gg prima della data dell’udienza di comparazione), affinché il convenuto possa approntare tempestivamente le proprie difese. Fatto salvo il diverso termine, la disciplina della costituzione del convenuto è del tutto analoga a quella del rito ordinario, in particolare per ciò che concerne il contenuto della comparsa di risposta. Infatti, il convenuto deve in tale comparsa: - Proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicando altresì i mezzi di prova di cui interne avvalersi e i documenti che offre in comunicazione e formulando le sue conclusioni; - A pena di decadenza, proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d’ufficio; - Ancora a pena di decadenza, dichiarare se intende eventualmente chiamare un terzo in garanzia, chiedendo nel contempo al giudice lo spostamento dell’udienza. Le preclusioni iniziali, quindi, riguardano esclusivamente la proposizione di domande riconvenzionali ed eccezioni in senso stretto, nonché la chiamata in causa di terzi; mentre nessuna specifica limitazione temporale è prevista quanto alle altre attività difensive, e soprattutto per le richieste istruttorie e la produzione di documenti. Se poi il convenuto ha dichiarato di voler chiamare in causa un terzo, il giudice, con decreto da comunicarsi alle parti costituite, fissa la data della nuova udienza nonché il termine perentorio entro cui il convenuto deve provvedere alla citazione del terzo; mentre quest’ultimo deve costituirsi, dal canto suo, con le medesime modalità prescritte per la costituzione del convenuto. Combinando tale disciplina con quella ordinaria, si deduce che il terzo è tenuto a costituirsi almeno 10 gg prima della nuova udienza, e che il termine assegnato al convenuto per la notificazione della citazione del terzo deve scadere almeno 40 gg prima di tale udienza, affinché il terzo possa usufruire del medesimo termine di comparizione accordato al convenuto. Quest’ultimo, infine, è tenuto a depositare la citazione notificata entro i 10 gg successivi. 3. I possibili esiti dell’udienza di prima comparizione e il maturare delle preclusioni istruttorie All’udienza di comparazione il giudice deve preliminarmente accertare che sussistano i presupposti specifici cui è subordinata l’utilizzazione del rito in esame; sicché se ritiene che la domanda principale o quella riconvenzionale non rientra tra quelle indicate nell’art. 702-bis, trattandosi di una causa attribuita alla decisione del tribunale in composizione collegiale o assoggettata ad un diverso rito speciale, la dichiara senz’altro inammissibile con ordinanza non impugnabile. Un altro esito possibile è rappresentato dall’immediata definizione del giudizio in mero rito, allorché il giudice reputi fondata una questione processuale litis ingressum impediens, sollevata dal convenuto o rilevata (ove consentito) d’ufficio. Al di fuori di tali ipotesi, poi, il giudice deve verificare se le difese svolte dalle parti non richiedano, eventualmente, un’istruzione non sommaria, e cioè se la causa, in considerazione del numero e dell’entità delle questioni, si presti o no ad essere convenientemente trattata ed istruita col rito semplificato in esame; che implica una maggiore concentrazione del giudizio e dunque una trattazione meno articolata. Qualora siffatta valutazione sia negativa, il giudice, con ordinanza non impugnabile, dispone che il processo prosegua col rito ordinario, fissando l’udienza di trattazione. Si noti, peraltro, che in tal caso il convenuto potrebbe aver usufruito, per costituirsi, di un termine notevolmente più breve di quello ordinario (30 gg, contro i 60); e tuttavia nessuna rimessione in termini è prevista in suo favore. Egli, dunque, nonostante la conversione del rito parrebbe definitivamente assoggettato alle percussioni previste dall’art. 702-ter e già prodottesi con lo spirare del termine per la sua costituzione in giudizio: soluzione che fa sorgere gravi dubbi d’illegittimità costituzionale. Se invece ritiene che la causa si presti ad un’istruzione sommaria, il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzioni rilevanti e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande. In altre parole, dopo aver direttamente ed abbastanza minuziosamente disciplinato la fase introduttiva del processo, il legislatore attribuisce al giudice una considerevole discrezionalità nel decidere come esso debba proseguire. Un problema assai discusso riguarda l’esistenza di preclusioni relative alla richiesta di mezzi di prova e alla produzione di documenti nuovi rispetto a quelli indicati o prodotti dalle parti col ricorso introduttivo o con la comparsa di risposta. In realtà, se ci si limitasse a considerare la sola disciplina specifica del rito in esame, la risposta dovrebbe essere negativa, poiché agli artt. 702-bis e 702-ter non indicano alcun limite temporale per le suddette attività difensive. mezzo di prova elementi comunque utili a consertirgli un più attendibile e veritiero accertamento dei fatti accertati in 1°; la qual soluzione finisce per attribuire comunque al giudice ad quem una notevolissima discrezionalità nell’ammissione della prova nuova. Capitolo 2 : Le controversie di lavoro e previdenziali 8. Introduzione Nell’ambito dei processi a cognizione piena di competenza del tribunale, diversi da quello ordinario, un posto di assoluta preminenza spetta indubbiamente al rito delle controversie individuali di lavoro e previdenziali, per almeno 2 importanti ragioni: 1. Anzitutto perché si tratta dell’unico rito regolamentato in maniera realmente organica ed autonoma rispetto a quello ordinario; 2. In secondo luogo, perché le controversie di lavoro e previdenziali, sommate fra loro, raggiungono un numero di poco inferiore al totale di tutti gli altri processi a cognizione piena che seguono il rito ordinario. Dopo la sua radicale riforma operata nel 1973, il rito del lavoro ha vissuto un periodo di espansione, che l’ha visto progressivamente estendersi dapprima ad alcuni tipi di cause in materia locatizia e a tutte le controversie agrarie, poi all’intera materia della locazione e del comodato di immobili urbani e dell’affitto di aziende e, per alcuni anni, finanche alle cause di risarcimento danni per morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali. Il d. lgs. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di condizione, infine, ne ha ulteriormente esteso l’applicazione ad altre materie che in precedenza erano governate da diversi riti speciali. Tra queste, ad es., le cause di opposizione al verbale di accertamento di violazioni del codice della strada. Non va trascurato, poi, che alcune delle soluzioni sperimentate nel rito del lavoro sono state in parte “esportate” nello stesso processo ordinario: il che fa sì che la distanza fra i 2 modelli risulti oggi assai minore rispetto al 1973. Ciò non toglie però che la disciplina specificamente dettata per il rito del lavoro rimanga per molti aspetti lacunosa e debba essere integrata col ricorso ai principi generali, da ricercare all’interno del rito ordinario: il che ha posto all’interprete, spesso, il problema di stabilire in quale misura le soluzioni offerte siano compatibili con le caratteristiche e le esigenze proprie del rito speciale. 9. Le caratteristiche fondamentali del rito speciale Il rito del lavoro attinge a soluzioni nient’affatto inedite per la stessa giustizia del lavoro. Le principali differenze del processo del lavoro rispetto a quello ordinario possono così riassumersi (sono 6): 1. La competenza, prescindendo dalle controversie attribuite alle sezioni specializzate agrarie, spetta sempre, ratione materiae, al tribunale in composizione monocratica ed è disciplinata, quanto al territorio, da norme inderogabili; 2. Il giudizio inizia con ricorso, anziché con citazione a udienza fissa, e l’instaurazione del contraddittorio fra le parti quindi si realizza in un momento successivo, presupponendo il provvedimento di fissazione dell’udienza da parte del giudice; 3. Il processo dovrebbe essere marcatamente orale ed estremamente concentrato, potendosi addirittura esaurire in teoria nella primissima udienza, o comunque in poche udienze molto ravvicinate fra loro, ed essendo esplicitamente vietate le udienze di mero rinvio; 4. La concentrazione del processo viene perseguita anche tramite un sistema drastico e generalizzato di preclusioni, tendenzialmente ricollegate già agli atti introduttivi delle parti, con modestissime possibilità di nuove allegazioni, richieste istruttorie e produzioni documentali nel corso del processo; 5. A fronte di questa severa limitazione temporale dei poteri processuali delle parti, il giudice gode di ampi poteri istruttorii autonomi, potendo utilizzare d’ufficio quasi tutti i mezzi di prova normalmente riservati alle parti, perfino in alcuni casi in cui essi non sarebbero ammissibili secondo le regole ordinarie; 6. La decisione della causa avviene sempre, senza soluzione di continuità, al termine della discussione orale e viene resa immediatamente nota alle parti tramite la lettura in udienza del dispositivo e della motivazione: in ogni caso, anche in ipotesi diverse, allorché il giudice differisca la stesura della motivazione e si tratti di una condanna favorevole al lavoratore, il solo dispositivo costituirà già titolo idoneo per iniziare il processo di esecuzione forzata. 10. La materia cui si applica: le controversie individuali di lavoro La materia delle cause cui si applica il rito del lavoro è individuata come segue dall’art. 409. 1. Rapporti di lavoro subordinato privato, anche se estranei all’esercizio di un’impresa: viene in rilievo qui la distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, resa meno cruciale dalla circostanza che lo stesso art. 409 assoggetta alla disciplina processuale in esame anche alcuni rapporti di lavoro un pò al confine fra le due categorie, in quanto solo formalmente autonomi. 
 Inoltre, occorre tenere presente che le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti, sono state recentemente assoggettate ad una disciplina speciale (il c.d. rito Fornero), che diverse per parecchi profili da quella che ci accingiamo ad esaminare, al fine di offrire al lavoratore una tutela processuale particolarmente rapida ed efficiente. 2. Controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto, che sono attribuite però alle sezioni specializzate agrarie del tribunale. 3. Rapporti di agenzia o rappresentanza commerciale, nonché <<altri rapporti di collaborazione che si concentrino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato>> : sono questi i rapporti di lavoro c.d. parasubordinato, caratterizzati, pur in mancanza di una vera e propria subordinazione, da una marcata dipendenza economica del prestatore d’opera rispetto al committente, il quale, in tali casi, è solitamente un imprenditore. Per questo profilo, ad es., il rito del lavoro si applica alle controversie riguardanti il rapporto fra le a.s.l. ed i medici c.d. convenzionati, oppure quello fra l’amministratore o il sindaco e la società amministrativa o controllata. 4. Rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici economici, ossia quelli che svolgono istituzionalmente un’attività economica: es. l’Enel. 5. Rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici non economici ed altri rapporti di lavoro pubblico, “sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice”: questo gruppo di controversie si è enormemente ampliato alla fine degli anni ’90, in seguito al trasferimento al giudice ordinario del contenzioso relativo ai rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, fatte salve alcune eccezioni. Sebbene l’art. 409 prende in considerazione le sole controversie individuali di lavoro, altre specifiche disposizioni di legge attribuiscono al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, anche le non molte controversie lato sensu collettive previste dal nostro ordinamento. 11. L’eventuale tentativo preventivo di conciliazione Lo spostamento del contenzioso sul pubblico impiego dal giudice amministrativo a quello ordinario aveva indotto il legislatore, nel 1998, a generalizzare e a rendere obbligatorio, per le cause di lavoro, un tentativo di conciliazione preventivo, nell’intento di creare una sorta di filtro e di arginare così l’inevitabile incremento del carico di lavoro dei tribunali. In tal modo questo tentativo di conciliazione preventivo si sommava a quello che il giudice deve poi espletare in limine litis, ossia tra le attività iniziali che gli sono richieste in occasione delle prima udienza. L’esperienza non troppo felice di tale istituto però ha persuaso il legislatore ad invertire la rotta, per tornare nel 2010 ad un tentativo di conciliazione meramente facoltativo in tutte le cause di lavoro, privato o pubblico. Esaminiamo quindi gli aspetti salienti della disciplina del previo tentativo di conciliazione. - Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’art. 409 può promuovere, anche tramite l’associazione sindacale cui aderisce, un previo tentativo di conciliazione, avvalendosi delle procedure di conciliazione eventualmente previste dalla contrattazione collettiva oppure rivolgendosi alle apposite commissioni di conciliazione costituite presso le direzioni provinciali del lavoro. 
 La relativa richiesta dev’essere consegnata o spedita tanto alla commissione adita quanto alla controparte. Da questa comunicazione discende infatti l’effetto interruttivo della prescrizione e la sospensione, per la durata del tentativo di conciliazione e per i 20 gg successivi alla sua conclusione, di ogni eventuale termine di decadenza. - Se l’altra parte intende accettare la procedura conciliativa, deve depositare presso la commissione, entro i 20 gg successivi al ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. 
 Se tale deposito avviene, la commissione, entro 10 gg, fissa la comparizione delle parti per l’esperimento del tentativo da tenersi entro i successivi 30 gg. In caso contrario, ciascuna delle parti sarà libera di adire l’autorità giudiziaria. - Se la conciliazione sortisce esito almeno in parte positivo, il relativo verbale viene sottoscritto dalle parti e dalla commissione ed acquista efficacia esecutiva tramite un decreto del giudice. 
 Se invece la conciliazione non riesce, la commissione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia che, qualora non sia accettata, deve essere poi riassunta nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Di tale proposta, qualora la sua mancata accettazione non sia sorretta da un’adeguata motivazione, il giudice potrà tener conto in sede di giudizio: ma è ovvio che l’ingiustificato rifiuto della proposta potrà riflettersi solo sulla ripartizione delle spese del giudizio.
 Peraltro, laddove il tentativo sia stato richiesto dalle parti, al successivo ricorso giurisdizionale devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito: da quali il giudice potrebbe dedurre, quindi, eventuali dichiarazioni confessore o altri elementi comunque rilevanti. 12. I criteri di competenza e il regime dell’incompetenza La competenza verticale su tutte le controversie di cui all’art. 409 è attribuita, per materia e indipendentemente dal valore, al tribunale, in funzione di giudice del lavoro e in composizione monocratica. Diverse particolarità devono invece segnalarsi per quel che concerne la competenza per territorio, che viene disciplinata dall’art. 413 in base a criteri autonomi e non modificabili dalle parti, essendo espressamente sancita la nullità di ogni eventuale clausola che vi apporti deroga. 1. In generale la competenza è individuata in base a 3 criteri: 
 1. Il luogo in cui è sorto il rapporto 
 2. Il luogo in cui si trova l’azienda 
 3. Il luogo in cui si trova una dipendenza dell’azienda alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. 
 In realtà, la formulazione di questo articolo, per questa parte, non è limpida: ma l’orientamento prevalente ritiene che tutti questi 3 fori siano tra loro concorrenti e che la scelta competa sempre all’attore. I criteri 2 e 3 inoltre sono utilizzabili anche dopo il trasferimento dell’azienda o la cessazione di quest’ultima o della sua dipendenza, a condizione che la domanda sia proposta entro 6 mesi dal trasferimento o dalla cessazione. 2. Per le cause concernenti i rapporti di cui all’art. 409 n.3, invece, è competente in via esclusiva il giudice del domicilio del lavoratore c.d. para-subordinato. 3. Per le controversie relative a rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, infine, la competenza spetta al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto; senza che tale criterio possa subire deroga per il fatto che sia parte del giudizio un’amministrazione dello Stato. Solo quando i criteri che precedono risultino tutti inapplicabili, è prevista l’applicazione del foro generale di cui all’art. 18 (residenza, domicilio o dimora del convenuto). Da notare poi che l’incompetenza può essere eccepita tanto dal convenuto, esclusivamente nella memoria difensiva che costituisce il suo primo atto difensivo, quanto dal giudice d’ufficio, non oltre l’udienza di discussione. Oggi, peraltro, questo regime non differisce da quello ordinario e deve ritenersi applicabile sia all’incompetenza per territorio, derivante dalla violazione dei criteri prima elencati, sia all’eventuale incompetenza per materia. Diverso invece è il termine perentorio che il giudice, qualora si dichiari incompetente, deve fissare per la riassunzione della causa. specifica barriera preclusiva; ed anche qui si ripropone il problema di individuare, nell’ambito delle eccezioni di merito, la linea di confine fra i fatti estintivi, modificativi o impeditivi che producono effetti solo su eccezione della parte interessata e quelli rilevabili anche d’ufficio. 2. Proporre eventuali domande riconvenzionali: in tal caso anzi a garanzia dell’attore, è previsto un meccanismo simile a quello utilizzato, nel rito ordinario, per la chiamata in causa di terzi da parte del convenuto. Quest’ultimo, infatti, nella stessa memoria difensiva e sempre a pena di decadenza, deve chiedere al giudice lo spostamento della data dell’udienza di discussione, tramite un nuovo decreto che deve essere pronunciato entro 5 gg e deve essere poi notificato all’attore unitamente alla memoria difensiva, entro i successivi 10 gg, a cura dello stesso ufficio. La nuova data dell’udienza inoltre dovrebbe essere fissata in modo tale che l’intervallo di proposizione della domanda riconvenzionale e l’udienza non superi i 50 gg e che, soprattutto, all’attore sia assicurato un termine non minore di 25 gg tra la data in cui gli viene notificato il provvedimento e quella d’udienza. 3. Indicare specificamente i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti, che devono essere depositati insieme alla stessa memoria difensiva: quest’onere risulta gravoso perché sembra implicare un’assoluta completezza delle richieste istruttorie in ogni loro elemento. 4. Dichiarare l’eventuale volontà di chiamare in causa un terzo: l’esistenza di una tale preclusione sembra potersi desumere dalla circostanza che tale chiamata implica normalmente una nuova domanda di accertamento nei confronti del terzo; fermo restando che qui, a differenza del rito ordinario, l’effettiva citazione del terzo non può aver luogo subito, ma solo dopo che il giudice, all’udienza di discussione, l’abbia autorizzata, sicché il problema di chiedere lo spostamento dell’udienza non dovrebbe neppure porsi. Lo stesso art. 416 prevede, infine, che il convenuto debba pure, nella memoria in questione, prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda e proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto. Per quest’aspetto, tuttavia, la disposizione in esame non commina alcuna decadenza: sicché può valere quanto già osservato in relazione all’art. 167: fermo restando che la mancanza di una specifica contestazione dei fatti allegati dall’avversario consentirebbe al giudice di ritenere senz’altro provati i fatti stessi, le mere difese del convenuto o le conseguenze giuridiche ad essere ricollegate, non assoggettate ad una specifica preclusione poiché l’assolvimento dell’onere di contestazione deve sempre apprezzarsi, da parte del giudice, avendo riguardo al complessivo e reciproco comportamento processuale delle parti. 17. Costituzione e difesa personale delle parti Fermo restando che di regola anche nel rito del lavoro vige l’obbligo della rappresentanza tecnica, l’art. 417 consente alla parte, attore o convenuto, di stare in giudizio personalmente allorché il valore della causa non ecceda i 130 € circa, per di più accontentandosi di un’elezione di domicilio nell’ambito del territorio della Repubblica. L’attore che utilizzi tale facoltà anzi ha pure la possibilità di proporre la domanda verbalmente al giudice, che deve allora farla raccogliere in un processo verbale. A tutte le notificazioni occorrenti provvede la stessa cancelleria. Una disciplina particolare poi è prevista dall’art. 417-bis per le cause relative a rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Queste ultime, infatti, limitatamente al giudizio di 1°, sono abilitate a stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti oppure, nel caso di enti locali, conferendo apposito mandato alle strutture dell’amministrazione civile del Ministero dell’interno. Qualora si tratti di amministrazioni statali o di altre pubbliche amministrazioni che godono istituzionalmente della rappresentanza e difesa in giudizio da parte dell’avvocatura dello Stato, quest’ultima deve trasmettere ai competenti uffici dell’amministrazione interessata, entro 7 gg, gli atti introduttivi che le vengono notificati: a meno che, venendo in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, decida di assumere essa stessa, direttamente, la trattazione della causa. 18. L’udienza di discussione: rilievi introduttivi La prima udienza, che corrisponde a quella fissata dal giudice col decreto, è virtualmente anche l’unica giacché potrebbe senz’altro concludersi. In concreto però la definizione del processo alla prima udienza costituisce una possibilità piuttosto remota: sia perché il più delle volte si rendono necessarie delle prove costituende, che non è possibile assumere immediatamente; sia perché le parti e lo stesso giudice preferiscono assai spesso che le questioni più complesse siano trattate per iscritto; sia perché infine il divieto dei meri rinvii è privo di specifiche sanzioni e viene non di rado quindi eluso. Per tali ragioni anche il rito del lavoro si snoda tramite una pluralità di udienze. Ciò premesso si può affermare che il legislatore prevede, nell’ambito della stessa udienza di discussione: - Una prima fase di trattazione della causa che si conclude con i provvedimenti relativi all’ammissione dei mezzi di prova; - Una seconda fase, eventuale, deputata all’assunzione delle prove ammesse; - Una terza ed ultima fase, quella propriamente decisoria, che conduce alla deliberazione della sentenza, di cui viene poi immediatamente letto in udienza il dispositivo. 19. L’attività di trattazione della causa Esaminiamo le diverse attività previste nell’ambito della trattazione della causa, sottolineandone gli elementi in cui essa differisce dalla corrispondente fase del rito ordinario. 1. Interrogatorio libero e tentativo di conciliazione. 
 Le prime incombenze attribuite al giudice sono rappresentate dall’interrogatorio libero delle parti e dal tentativo di conciliazione, che deve condurre lo stesso giudice a formulare una proposta transattiva o conciliativa. Queste attività quindi sono sempre obbligatorie e le parti sono in ogni caso tenute a comparire personalmente, salva la possibilità di farsi rappresentare da un procuratore, generale o speciale, che sia però a conoscenza dei fatti della causa e sia stato investito del potere di conciliare o transigere la controversia. La sanzione, in caso di inadempimento, è rappresentata dalla possibilità che il giudice valuti il relativo comportamento ai fini del giudizio, e cioè tragga argomenti di prova dalla mancata comparizione ingiustificata o dalla circostanza che il produttore mostri di non conoscere i fatti. 
 Analoga sanzione, anzi, è prevista anche per l’ingiustificato rifiuto della proposta transattiva o conciliativa: ma in tal caso è lecito pensare che i riflessi negativi possano riguardare esclusivamente la condanna alle spese, in base ai principi che d’altronde emergono dall’art. 91. 2. Modificazione delle domande ed eccezioni originarie. 
 Come nel rito ordinario, è esclusa la proporzione di domande nuove ed anche la c.d. mutatio libelli, ossia la trasformazione radicale della domanda in taluno dei suoi elementi identificativi: mentre è possibile, in presenza di gravi motivi e previa autorizzazione del giudice, la sola modificazione delle domande e delle conclusioni originariamente formulate ( la c.d. emendatio libelli ). 
 La stessa disciplina dovrebbe applicarsi alle nuove eccezioni. Poiché, tuttavia, le eccezioni precluse sono solo quelle processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio, se ne può dedurre che il legislatore ha inteso riferirsi, anche stavolta, alle sole eccezioni in senso stretto, dovendo invece ammettersi la libera allegazione di nuovi fatti estintivi, modificativi o impeditivi che il giudice potrebbe rilevare d’ufficio. 
 Tornando al divieto di nuove domande poi deve consentirsi all’attore, pur in mancanza di una disposizione ad hoc, di proporre quanto meno nella prima udienza di discussione, ogni domanda riconvenzionale che trovi la propria ragion d’essere nelle domande, eccezioni o difese formulate dal convenuto nella memoria difensiva. 3. Decisione immediata sulle questioni preliminari o pregiudiziali. 
 Qualora, essendo fallito il tentativo di conciliazione, la causa risulti già matura per la decisione nel merito, o siano sorte questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice dovrebbe dare immediato ingresso alla fase decisoria, invitando le parti alla discussione e pronunciando quindi sentenza, eventualmente anche non definitiva. 
 Per questo profilo, quindi, l’art. 420 differisce sensibilmente dall’art. 187, sia perché non menziona le questioni preliminari di merito, sia perché parrebbe lasciare intendere che, ove sorga una questione processuale idonea a definire il giudizio, il giudice debba risolverla immediatamente. L’orientamento prevalso nella giurisprudenza, tuttavia, ha rifiutato questa soluzione interpretativa, ritenendo che anche in questo caso, indipendentemente dalla natura della questione preliminare o pregiudiziale, il giudice possa optare tra la decisione immediata ed anticipata, anche con sentenza non definitiva, ed il differimento della decisione stessa al momento in cui la causa, conclusa l’eventuale istruttoria, sarà matura pure per il merito. 4. Provvedimenti relativi all’ammissione dei mezzi di prova. 
 Sempre nella prima udienza, il giudice dovrebbe già decidere sull’ammissione dei mezzi di prova chiesti dalle parti nei rispettivi atti introduttivi, disponendo addirittura, se possibile, per la loro immediata assunzione. 
 Per le ragioni già spiegate non sono consentite, di regola, nuove richieste istruttorie, a meno che non si tratti di prove che le parti non abbiano potuto proporre prima: nel qual caso il provvedimento di ammissione delle nuove prove deve assegnare all’altra parte un termine perentorio di 5 gg per dedurre, a sua volta, gli ulteriori mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi. 
 In passato per la verità, la giurisprudenza si era mostrata talora incline a forzare i limiti desumibili dagli artt. 414 e 416, sostenendo che la decadenza ivi prevista si sarebbe applicata alle sole prove costituende e non invece ai documenti. 
 L’orientamento più recente invece esclude ogni possibilità di distinzione e ritiene quindi che anche la prova documentale soggiaccia ai limiti temporali ricordati. 
 Il legislatore, poi, mostra di considerare normale che la decisione sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova intervenga già nella prima udienza e sia seguita dall’assunzione immediata dei mezzi ammessi. 
 In caso contrario, il giudice dovrebbe fissare una nuova udienza a non oltre 10 gg dalla prima, eventualmente concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a 5 gg prima di tale nuova udienza per il deposito in cancelleria di note difensive. 20. L’intervento, volontario o coatto, di terzi La disciplina dell’intervento di terzi presenta diverse peculiarità degne di nota. 1. Per quel che concerne l’intervento volontario, esso subisce una drastica limitazione che lo rende poco praticabile, essendo ammesso solo entro il termine di costituzione del convenuto, e quindi fino a 10 gg prima dell’udienza di discussione: a meno che non riguardi un litisconsorte necessario pretermesso, nei cui confronti sarebbe comunque indispensabile integrare il contraddittorio. 
 L’intervento si realizza tramite il deposito in cancelleria di una memoria contenente gli elementi prescritti dagli artt. 414 e 416: a cominciare, ovviamente, dalle domande che il terzo eventualmente propone nei confronti delle parti, con le relative richieste istruttorie e l’indicazione dei documenti prodotti. 
 Inoltre, il giudice è tenuto, in caso d’intervento volontario, a fissare una nuova udienza nel rispetto del termine minimo, disponendo che tale provvedimento, entro 5 gg, sia notificato all’interveniente nonché, unitamente alla memoria di quest’ultimo, alle parti originarie, le quali hanno termine fino a 10 gg prima della nuova udienza per il deposito di una loro memoria, evidentemente contenente le nuove domande, allegazioni e richieste giustificate dall’intervento. 2. Quanto all’intervento coatto, poi, non v’è dubbio che quello iussu iudicis, al pari dell’ordine d’integrazione del contraddittorio, possa disporsi, come nel rito ordinario, in qualunque momento del giudizio di 1°. La chiamata del terzo su istanza di parte, invece, in assenza di una disciplina specifica, si ritiene possa essere chiesta dal convenuto nella sola memoria difensiva di costituzione, e dall’attore entro la prima udienza di discussione: a patto che l’esigenza dell’intervento possa ricondursi alle domande o alle difese del convenuto, in questo secondo caso. 
 La chiamata del terzo, inoltre, dev’essere comunque autorizzata dal giudice, previa verifica della sussistenza dei presupposti indicati, tenuto conto ch’essa implica sempre la fissazione di una nuova udienza e la notifica al chiamato, entro 5 gg, del relativo provvedimento nonché del ricorso introduttivo e della memoria di costituzione del convenuto. Il tutto con modalità e termini analoghi a quelli previsti per l’originaria fissazione dell’udienza e in tempo utile affinché il terzo, la cui costituzione è disciplinata in modo identico a quella del convenuto, possa usufruire del termine minimo previsto dalla legge. 
 Altra peculiarità è data dalla circostanza che a tutte le notificazioni e comunicazioni occorrenti per la chiamata del terzo o del litisconsorte necessario pretermesso provvede la cancelleria. 21. L’assunzione dei mezzi di prova e i poteri istruttori del giudice Resta da aggiungere, infine, che nulla osta ad ammettere anche nel rito del lavoro l’ordinanza di ingiunzione; mentre le peculiarità della fase decisorio di tale processo appaiono incompatibili con la pronuncia dell’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione. 24. La disciplina dell’errore sul rito Il legislatore esclude ogni sanzione di nullità degli atti compiuti in base ad un modello processuale diverso da quello prescritto. Per quel che concerne la disciplina prevista nei rapporti fra rito ordinario e rito speciale del lavoro, gli artt. 426 e 427, applicabili anche quando il vizio venga scoperto per la prima volta in appello, distinguono le 2 ipotesi opposte: 1. Se è stato erroneamente utilizzato il rito ordinario per una delle controversie di cui all’art. 409, il giudice, in qualunque momento se ne accorga, è tenuto anche d’ufficio a fissare con ordinanza l’udienza di discussione, nonché il termine perentorio entro il quale le parti possono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e di documenti in cancelleria: per la verità questa disposizione aveva un significato più pregnante prima delle riforma del 1990, allorché il processo ordinario era immune da preclusioni significative; ma ancor oggi potrebbe avvenire, ad es., che, nel momento in cui l’errore sul rito viene scoperto, non siano ancora maturate, secondo la disciplina ordinaria, le preclusioni istruttorie previste dall’art. 183, ed in tal caso le parti sarebbero per l’appunto tenute ad integrare le proprie richieste di mezzi di prova e la produzione di documenti entro il termine fissato dal giudice. 2. Se invece è stata promossa col rito del lavoro una causa avente ad oggetto un rapporto estraneo a quelli contemplati dall’art. 409, il giudice si limita a disporre che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie, tenuto conto che le cause di lavoro sono tendenzialmente esenti da qualunque imposta o tassa, ed oggi comunque prevedono il pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in misura ridotta, allorché le parti non ne siano totalmente esentate in ragione del reddito. Tutto questo vale, però, a condizione che si tratti esclusivamente di un errore sul rito: non anche quando questo, derivando dall’erronea qualificazione dell’oggetto della causa, abbia inciso pure sulla competenza del giudice adito. Di regola, inoltre, poiché ciò che è stato fatto prima del provvedimento c.d. di conversione del rito deve essere valutato in base alla disciplina propria del rito erroneamente adottato, tale provvedimento non implica affatto la regressione del processo ad una fase anteriore e non incide, comunque, sulla validità degli atti già compiuti fino a quel momento. L’unica eccezione riguarda, nell’ipotesi n.2, le prove acquisite in base alla disciplina del rito speciale, le quali potranno esser utilizzate dal giudice solo entro i limiti di ammissibilità consentiti dalle norme ordinarie. Quanto alle preclusioni già maturate, invece, è da ritenere che esse sempre nell’ipotesi n.2 debbano valutarsi in base alla disciplina del rito ordinario. In senso contrario, parrebbe però oggi, deporre il d. lgs. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, il quale prevede che in caso di errore nella scelta del rito restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento: disposizione in cui taluno ha ravvisato, in dottrina, un’applicazione del principio di coerenza nella difesa della parte, per cui l’attore avendo scelto un rito che gli imponeva di offrire i mezzi di prova già nell’atto introduttivo, non potrebbe poi giovarsi del mutamento del rito per superare la relativa preclusione. A prescindere però dal fatto che la giurisprudenza finora ha escluso che tale disposizione sia espressione di un principio generale, essa ha senso SOLO quando le preclusioni previste dal rito erroneamente scelto trovano corrispondenza in quello adottato in seguito al mutamento e deve essere pertanto così restrittivamente intesa. In altre parole, è lecito ritenere che il legislatore abbia voluto solo ribadire, in tal modo, che il mutamento del rito non fa regredire il processo alla sua fase iniziale. È difficile ammettere, invece, che la scelta dell’attore possa implicare l’estensione alle altre parti delle preclusioni previste dalla disciplina del rito iniziale, pur quando, magari, tali parti avessero immediatamente contestato, già al momento della costituzione, la correttezza di tale rito. 25. La fase decisoria e l’esecutività della sentenza Parecchie sono le peculiarità del rito del lavoro nella fase decisoria della causa e nell’iter di formazione della sentenza. 1. Innanzitutto, la concentrazione di questa fase dovrebbe essere massima, non essendo previsti né una formale precisazione delle conclusioni, né uno scambio di scritti difensivi conclusivi tra le parti. Di regola, invece, tutto si conclude con la discussione orale, alla quale fa seguito, senza soluzione di continuità, la pronuncia della sentenza, che deve essere immediatamente portata a conoscenza delle parti tramite lettura nella stessa udienza tanto del dispositivo quanto, di regola, dell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. 
 Solo quando il giudice lo ritenga necessario, è consentito, su richiesta delle parti, il rinvio ad una nuova udienza e l’assegnazione di un termine non superiore a 10 gg per il deposito di note difensive: fermo restando che a tale nuova udienza si avrà poi la discussione orale e l’immediata decisione. 2. In caso di particolare complessità della controversia, inoltre, il giudice può limitarsi a legger in udienza il dispositivo, fissando contestualmente un termine NON superiore a 60 gg per il deposito della sentenza in cancelleria. 
 In quest’ultima ipotesi, prescindendo dall’immediata lettura del dispositivo, si ritiene imposta a pena di nullità, il successivo procedimento di formazione della sentenza-documento non differisce da quello ordinario se non per il termine: e la sentenza potrà dirsi perfezionata quindi solo col deposito in cancelleria. 
 Il dispositivo letto in udienza, tuttavia, proprio perché viene reso immediatamente pubblico, non ha il valore meramente interno che gli compete nel processo ordinario e si ritiene che non sia in nessun caso modificabile dalla sentenza successivamente depositata in cancelleria, neppure quando il giudice dovesse rendersi conto di aver commesso un errore, pena la nullità della decisione contrastante col dispositivo letto in udienza. 
 A parte qualche dubbio che potrebbe prospettarsi in relazione all’ipotesi in cui, dopo la lettura del dispositivo e prima del deposito, sopraggiunga un mutamento normativo rilevante per la decisione, l’orientamento ora riferito appare condivisibile, tenuto conto che il legislatore non ha previsto alcuna possibilità di ripensamento del giudice. 
 Ciò non toglie, però, che, qualora il giudice, nella sentenza depositata, modificasse indebitamente la decisione anteriormente assunta e resa pubblica in udienza, il vizio si convertirebbe in una nullità della sentenza e quindi dovrebbe essere fatto valere tramite l’impugnazione di quest’ultima. 3. Tale particolarità concernente le modalità della pronuncia si riflette poi sul regime di esecutività della sentenza. 
 In realtà, per l’ipotesi in cui si tratti di una sentenza di condanna favorevole al datore di lavoro, l’art. 431 rinvia agli artt. 282 e 283, sicché, nonostante qualche lieve differenza che potrebbe desumessi, sembra lecito pensare che il legislatore abbia inteso riferirsi, tanto per l’esecutività ope legis della sentenza di 1° quanto per l’eventuale inibitoria, alla disciplina comune. 4. Un diverso regime invece è previsto per le sole sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all’art. 409. 
 In tal caso, ferma restando la provvisoria esecutività di diritto della condanna, il lavoratore ha il vantaggio di poter iniziare immediatamente l’esecuzione forzata, sulla base di una copia del dispositivo letto in udienza, senza dover attendere il deposito della sentenza in cancelleria, che il giudice abbia eventualmente differito a norma dell’art. 429. 
 Nonostante la formulazione letterale dell’art. 431, che prevede tale possibilità in pendenza del termine per il deposito della sentenza, si ritiene che questa efficacia esecutiva del dispositivo permanga anche dopo lo spirare di tale termine, e addirittura quando il deposito della sentenza in cancelleria sia già avvenuto. 
 Anche per queste sentenze è consentito che il soccombente chieda al giudice d’appello l’inibitoria, cioè la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, ma tale sospensione può essere accordata solo quando dall’esecuzione possa derivare alla parte impugnante un gravissimo danno. 
 L’inibitoria, inoltre, può riguardare una parte soltanto della somma per cui è stata pronunciata la condanna, ed anzi non può mai essere totale perché resta comunque autorizzata l’esecuzione provvisoria fino all’importo di 260€ circa. 
 Ovviamente, però, la richiesta di inibitoria presuppone che vi sia un giudice attualmente investito dell’appello e che il datore di lavoro abbia già impugnato. Si spiega quindi perché l’art. 433, per l’ipotesi in cui l’esecuzione forzata sia stata inviata prima della notificazione della sentenza, consenta di proporre appello con riserva dei motivi: in tal caso, infatti, non conoscendo ancora la motivazione, il soccombente non può motivare la propria impugnazione e si limita ad instaurare il processo di 2°. I motivi dell’impugnazione poi dovranno essere presentati, a pena di decadenza, entro il termine ordinario d’appello. 26. Cenni sulla disciplina specifica delle cause di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni Nel passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria le controversie di lavoro alle dipendenze di p.a. hanno conservato una disciplina parzialmente autonoma, per lo più risultante dal d. lgs. 165/2001, che integra quella codicistica fin qui esaminata. Le maggiori peculiarità fino in origine riguardavano il previo tentativo di conciliazione, originariamente obbligatorio, che la l. 183/2010 ha reso meramente facoltativo. Oggi, quindi, le residue particolarità attengono all’ipotesi in cui nel processo sorga una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale sottoscritto dall’ARAN (Agenzia per la rappresenta negoziale delle p.a.), da cui dipenda la decisione della causa. In tal caso, il giudice, con ordinanza non impugnabile nella quale indica la questione da risolvere, deve rinviare l’udienza di discussione di almeno 120 gg e disporre la comunicazione degli atti all’ARAN, affinché questa, convocate le organizzazioni sindacali firmatarie, possa promuovere un accordo circa l’interpretazione autentica del contratto o accordo collettivo oppure circa la modifica della clausola controversa. In assenza di tale accordo, il giudice decide la questione con sentenza non definitiva, che è impugnabile solo col ricorso immediato in cassazione, da proporsi entro 60 gg dalla comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza. La proposizione dell’impugnazione non solo determina la sospensione automatica del processo ma consente anche la sospensione degli altri processi la cui definizione dipenda dalla risoluzione della stessa questione. La decisione della Cassazione, poi, vincola direttamente, in caso di annullamento, il solo giudice che aveva pronunciato la sentenza cassata: ma gli altri giudici dinanzi ai quali venga sollevata la stessa questione, qualora non ritengano di uniformarsi alla soluzione della Cassazione, non possono investire nuovamente l’ARAN, ma dovranno decidere con sentenza. Infine, alla stessa ARAN e alle organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi sono riconosciute la possibilità di intervenire volontariamente nel processo anche oltre il termine indicato, la possibilità di impugnare autonomamente le sentenze pronunciate su una quelle questioni prima menzionate, ed inoltre, anche quando non siano intervenute, la facoltà di presentare memorie sia nel giudizio di merito che in quello di Cassazione. 27. L’appello in generale, la sua fase introduttiva e l’appello incidentale Anche relativamente al giudizio di 2° la distanza fra il rito del lavoro e quello ordinario si è notevolmente ridotta dopo la riforma del secondo, ad opera della l. 353/1990, nonché dopo la soppressione delle preture. Non v’è dubbio che all’appello in questione sia per molti profili applicabile la normativa ordinaria: ovviamente però sempre nei limiti in cui essa non risulti incompatibile con le caratteristiche del rito speciale. Inoltre, è ancor più ovvio che debbano trovare piena applicazione, in questa fase, le disposizioni generali sulle impugnazioni di cui agli artt. 323-338. È pacifico anche che valga per il rito del lavoro il termine di decadenza c.d. lungo semestrale previsto dall’art. 327. L’atto introduttivo, che riveste anche in appello la forma del ricorso e dev’essere depositato nella cancelleria della corte d’appello territorialmente competente, in funzione del giudice del lavoro, deve contenere, oltre alle indicazioni dell’art. 414, e a pena di inammissibilità, l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di 1°, nonché l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, cioè i medesimi elementi (motivi specifici) che l’art. 342 prescrive per il rito ordinario. L’intera fase introduttiva, poi, è disciplinata in modo del tutto analogo a quella del processo di 1°, salvo qualche differenza lieve nei termini. In particolare, fermo restando che l’udienza di Il co. 51° del citato art. 1 prevede che nei confronti dell’ordinanza conclusiva della fase sommaria possa proporsi opposizione allo stesso tribunale che l’ha pronunciata, da promuoversi con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro 30 gg dalla notificazione del provvedimento o dalla sua comunicazione, se anteriore. Il contenuto dell’atto di opposizione è disciplinato dall’art. 414, e dunque è tra l’altro richiesta, a pena di decadenza, l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti offerti in comunicazione: con la precisazione che anche in questa fase non sono ammesse domande diverse da quelle contemplate nello Statuto dei lavoratori, salvo che siano fondate su identici fatti costituivi. Il che lascia intendere, tuttavia, che, seppure con tale limitazione, sono proponibili anche domande affatto nuove rispetto a quelle che erano state formulate nella fase sommaria. Si prescinde, inoltre, dall’identità dei fatti costitutivi per le nuove domande proposte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti, ossia dei terzi chiamati eventualmente in causa. L’orientamento prevalente, pur muovendo dall’idea che l’omessa opposizione attribuisca all’ordinanza una stabilità analoga a quella della sentenza passata in giudicato, esclude che l’opposizione costituisca una vera e propria impugnazione e ritiene, invece, che essa rappresenti la prosecuzione dello stesso giudizio di 1° nelle forme della cognizione ordinaria. Tornando alla fase introduttiva, l’ulteriore sua disciplina è molto simile a quella delle cause di lavoro “ordinarie”, con qualche modesta differenza che ricorda la disciplina del rito sommario di cognizione. Il giudice designato, infatti, deve fissare con decreto l’udienza di discussione non oltre 60 gg dal deposito del ricorso, assegnando alla parte opposta un termine per costituirsi fino a 10 gg prima e l’opponente deve poi provvedere a notificare il ricorso e il decreto all’opposto anche a mezzo di PEC almeno 30 gg prima della data fissata per la sua costituzione. Per quel che riguarda, poi, la costituzione dell’opposto, trovano applicazione le modalità e le preclusioni dell’art. 416, concernenti la proposizione di domande riconvenzionali e di eccezioni non rilevabili d’ufficio: con la precisazione che nella memoria difensiva egli deve anche indicare, a pena di decadenza, l’eventuale intenzione di chiamare in causa un terzo. Nel qual caso, il giudice fissa una nuova udienza entro i successivi 60 gg e ordina che siano notificati al terzo, almeno 40 gg prima di tale nuova udienza, il ricorso, la memoria di costituzione dell’opposto ed il nuovo provvedimento di fissazione dell’udienza: mentre il terzo, dal canto suo, deve costituirsi con le stesse modalità previste per l’opposto almeno 10 gg prima dell’udienza. Si noti, inoltre, che laddove il convenuto opposto proponga una domanda riconvenzionale non fondata su fatti costitutivi identici a quelli sui quali è basata la domanda principale, il giudice deve disporre la separazione della relativa causa. Anche la residua disciplina del procedimento sembra mutuata in parte dal rito “ordinario” del lavoro ed in parte dal rito sommario di cognizione. All’udienza, infatti, è previsto che il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti: tenendo presente, peraltro, che egli dispone anche dei poteri istruttorii officiosi previsti dall’art. 421. A differenza del rito sommario, inoltre, la decisione avviene con sentenza ed è consentito al giudice, ove lo ritenga opportuno, di concedere alle parti termine per il deposito di note difensive fino a 10 gg prima dell’udienza. Per quel che riguarda la fase stricto sensu decisoria, infine, è previsto che la sentenza, completa di motivazione, debba essere depositata in cancelleria entro i 10 gg successivi all’udienza di discussione: il che esclude quindi la decisione immediata con lettura del dispositivo in udienza. 32. … e le relative impugnazioni Contro la sentenza resa nel giudizio di opposizione, che è provvisoriamente esecutiva e qualora abbia accolto la domanda costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, è ammesso reclamo alla corte d’appello, con ricorso da depositare entro il termine di decadenza di 30 gg dalla comunicazione o notificazione, se anteriore, salva comunque l’applicazione del termine “lungo” semestrale. La disciplina del relativo procedimento ricalca fedelmente quella del giudizio di 1°, tanto per la fase introduttiva, che richiama gli stessi termini per la fissazione dell’udienza esaminati prima e per l’instaurazione del contraddittorio, quanto per il prosieguo del procedimento e per la fase decisoria. Le uniche disposizioni specifiche riguardano l’esplicita esclusione di nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostri di non aver potuto proporli in 1° per causa ad essa non imputabile, e la possibilità che la corte, alla prima udienza, sospenda l’efficacia della sentenza impugnata laddove ricorrano gravi motivi. Si ritiene, peraltro, che al di là della definizione adoperata dal legislatore si tratti in sostanza di un appello, la cui scarna disciplina deve essere quindi integrata con quella propria dell’appello del lavoro. La sentenza con cui la corte d’appello definisce il procedimento di reclamo è impugnabile con ricorso per cassazione, da proporsi entro il termine di 60 gg decorrente, anche qui, dalla comunicazione o notificazione del provvedimento se anteriore: salva l’applicazione del termine semestrale laddove fossero mancate sia la comunicazione che la notificazione. Per il resto il giudizio di Cassazione non presenta alcuna peculiarità, ove si prescinda dalla disposizione che prevede la fissazione dell’udienza di discussione non oltre 6 mesi dalla proposizione del ricorso. 33. Cenni sulla disciplina specifica delle cause in materia di previdenza e assistenza obbligatorie Le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie cui fa riferimento l’art. 442, sono quelle derivanti dall’applicazione delle norme riguardanti le assicurazioni sociali, gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali, gli assegni familiari, nonché ogni altra forma di previdenza e assistenza obbligatorie, oppure quelle relative all’inosservanza di obblighi di assistenza e previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi. Nella maggior parte dei casi esse riguardano, quindi, le cause promosse dal lavoratore nei confronti dell’ente previdenziale o assicurativo, per conseguire determinate prestazioni, e quelle fra ente e datore di lavoro, concernenti il pagamento dei contributi o l’omissione di altri adempimento a carico di quest’ultimo, nonché l’applicazione delle sanzioni amministrative che ne possono derivare. Oggi, inoltre, premesso che la strada normale per la riscossione coattiva dei contributi da parte degli enti previdenziali è divenuta il ruolo, l’eventuale opposizione del contribuente, proponibile entro 40 gg dalla notifica della cartella di pagamento, va proposta nei confronti dell’ente impositore, è attribuita alla competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro e, quando l’opposizione è proposta per motivi inerenti il merito della pretesa contributiva, è per l’appunto disciplinata dagli artt. 442 ss. Più dubbia, invece, è la riconduzione a questa categoria delle cause promosse dal lavoratore contro il solo datore di lavoro, per ottenere in caso di sue inadempienze la regolarizzazione del rapporto contributivo o assicurativo e/o il risarcimento dei danni conseguenti, tenuto conto che in questi casi viene dedotta una violazione degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. Le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie sono assoggettate a tutte le disposizioni dettate per le controversie individuali di lavoro, ma con alcune integrazioni e peculiarità: 1. In luogo del tentativo obbligatorio di conciliazione, l’art. 443 prevede, quale condizione di procedibilità della domanda, il previo esaurimento dei procedimenti amministrativi eventualmente prescritti dalle leggi speciali per la composizione della controversia in sede amministrativa, oppure il decorso dei termini fissati per la conclusione dei procedimenti stessi, o ancora, in mancanza di termini, il decorso di 180 gg dalla presentazione del ricorso amministrativo. 
 L’inosservanza di tali norme, e dunque l’improcedibilità della domanda, è però rilevabile, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di discussione. 2. A norma dell’art. 444, la competenza spetta di regola al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione risiede l’attore, o, se l’attore risiede all’estero, quello nella cui circoscrizione l’attore aveva l’ultima residenza, prima di trasferirsi all’estero. 
 Fanno eccezione le controversie in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali degli addetti alla navigazione o alla pesca marittima, per le quali è competente il tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio del porto di iscrizione della nave, e quelle concernenti gli obblighi dei datori di lavoro o l’applicazione delle relative sanzioni civili, attribuite al tribunale del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente. 3. Se la domanda riguarda prestazioni previdenziali o assistenziali che richiedono accertamenti tecnici, il giudice nomina uno o più consulenti tecnici, scelti in appositi albi. Tale disposizione viene di regola intesa nel senso che in questo tipo di cause, e limitatamente al processo di 1°, il ricorso alla consulenza tecnica sia obbligatorio ogniqualvolta si rendano necessari determinati accertamenti di natura tecnica. 4. Gli istituti di patronato e di assistenza sociale legalmente riconosciuti hanno la possibilità, su istanza della parte assistita e in ogni grado del giudizio, di rendere informazioni ed osservazioni, orali o scritte, assimilabili a quelle che possono venire, nelle controversie di lavoro, dalle associazioni sindacali. 5. Fermo restando che la sentenza è comunque esecutiva per legge, l’art. 447 richiama l’art. 431 nel suo complesso, e quindi anche la disposizione che consente al solo lavoratore di iniziare l’eccezione forzata sulla base del solo dispositivo: ma non è chiaro se tale facoltà, nelle controversie ora considerate, debba essere riconosciuta solo al lavoratore che si sia visto riconoscere determinate prestazioni previdenziali o assistenziali oppure, senza distinzione, ad ogni parte vittoriosa. 6. Le ultime peculiarità attengono al regime delle spese: l’art. 152 disp. att., infatti, per un verso esclude, nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali, e al di fuori delle ipotesi di responsabilità aggravata per lite temeraria, la condanna alle spese della parte soccombente il cui reddito imponibile irpef sia inferiore ad un determinato importo; e per altro verso, con una limitazione di dubbia costituzionalità, prevede che le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice nei giudizi per prestazioni previdenziali non possano comunque superare il valore della prestazione dedotta in giudizio, che deve a tal fine risultare, a pena di inammissibilità del ricorso, da un’apposita dichiarazione, inserita nelle conclusioni dell’atto introduttivo. Un regime del tutto peculiare è stato recentemente previsto, poi, per le controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, nelle quali è imposto, quale condizione di procedibilità della domanda, l’obbligatorio e previo esperimento di un accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il legislatore così tenta di evitare l’instaurazione del giudizio di merito, nella speranza che la controversia possa trovare una composizione bonaria in tale fase preliminare, qualora le parti siano disposte ad accettare le conclusioni cui perviene il consulente tecnico. Il ricorso per l’accertamento tecnico preventivo deve essere presentato al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, del luogo di residenza dell’attore e produce l’effetto interruttivo della prescrizione. Una volta terminate le operazioni del consulente, il giudice fissa con decreto il termine perentorio, non superiore a 30 gg, entro il quale le parti devono eventualmente dichiarare, con atto scritto da depositare in cancelleria, l’intenzione di contestare le conclusioni cui è pervenuto il consulente d’ufficio. In assenza di contestazioni, lo stesso giudice omologa con decreto, entro i 30 gg successivi, l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente e provvede anche sulle spese. Il decreto non è impugnabile né modificabile e dev’essere notificato agli enti competenti, i quali, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti, provvedono, entro 120 gg, al pagamento delle relative prestazioni. In caso contrario, la parte che ha tempestivamente dichiarato di contestare le conclusioni del consulente è tenuta, entro il termine perentorio di 30 gg dalla dichiarazione di dissenso, a depositare presso lo stesso ufficio giudiziario il ricorso introduttivo del giudizio di merito, nel quale devono essere specificati, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione. La sentenza che definisce tale giudizio è inappellabile, quindi è soggetto a ricorso per cassazione. PARTE SECONDA : L’ESECUZIONE FORZATA Capitolo 5 : I presupposti dell’esecuzione forzata Questioni delicate si pongono circa l’individuazione del soggetto abilitato a promuovere l’azione esecutiva o ad esserne il destinatario passivo ( creditore e debitore ). In considerazione della natura astratta dell’azione esecutiva, il principio è che deve aversi in primo luogo riguardo a ciò che emerge dal titolo esecutivo. I problemi sorgono allorché il diritto risultante dal titolo abbia subito modificazioni dal lato attivo o passivo, vuoi prima dell’inizio dell’esecuzione e magari nel corso del processo di cognizione, vuoi a processo esecutivo già avviato; dovendosi allora stabilire se ed in quale misura tali modificazioni reagiscano sul processo esecutivo, già in corso o non ancora iniziato: se sia possibile, cioè, che il processo esecutivo sia intrapreso o proseguito da o nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nel titolo, che siano a questi ultimi succeduti nel diritto o nell’obbligo posto a base del titolo stesso. In realtà le sole disposizioni che si riferiscono all’efficacia soggettiva del titolo sono 2: 1. L’art. 475, per cui la spedizione in forma esecutiva può farsi solamente alla parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l’obbligazione, o ai suoi successori, indicando in calce alla copia la persona alla quale essa è rilasciata; 2. E l’art. 477, per cui il titolo esecutivo contro il defunto è senz’altro efficace contro gli eredi. Il raffronto fra queste 2 disposizioni potrebbe allora far pensare che, mentre la titolarità attiva dell’azione esecutiva si estende a tutti i successori della parte (creditrice) indicata nel titolo, quella passiva riguardi esclusivamente gli eredi (ossia i successori universali): il che significherebbe escludere che il titolo sia direttamente efficace contro il successore a titolo particolare del debitore. Se però si considera che il debitore stesso, laddove la successione si realizzi nel corso del processo di cognizione, subisce di regola gli effetti della sentenza pronunciata nei confronti del suo dante causa, ben può comprendersi perché l’opinione dominante interpreti estensivamente l’art. 477, ammettendo che il titolo esecutivo è utilizzabile, a fortiori, pure contro il successore il cui acquisto sia posteriore alla formazione del titolo nei confronti del suo dante causa. È lecito pensare anzi che la legittimazione (attiva o passiva) del successore a titolo particolare concorra con quella della parte originale: tanto più che, se la successione si verifica dal lato passivo, il creditore procedente ben potrebbe ignorarla senza alcuna sua colpa. Non essendo previsto alcun controllo preventivo circa la legittimazione attiva del creditore procedente né circa la legittimazione passiva del soggetto nei cui confronti l’esecuzione viene intrapresa, ed essendo anche difficile immaginare che un tale controllo possa essere demandato al cancelliere, l’effettiva verifica di tale legittimazione resta subordinata all’eventualità che il debitore la contesti tramite un’opposizione all’esecuzione. Passando ad esaminare, poi, la distinta ipotesi in cui il mutamento della titolarità del diritto o dell’obbligo si realizzi nel corso del processo esecutivo, è opportuno sottolineare che i dubbi investono l’applicabilità degli artt. 110 e 111 - riguardanti, rispettivamente, la successione universale e quella a titolo particolare - che, pur essendo collocati tra le disposizioni generali del codice, sembrano in realtà concepiti con esclusivo riferimento al processo di cognizione. 1. Per quel che concerne la successione universale, peraltro, tenuto anche conto del ruolo più modesto che compete al contraddittorio nel processo esecutivo, è pacifico che quest’ultimo debba proseguire indisturbato, pur quando si tratti di successione mortis causa, poiché non trova in esso applicazione l’istituto dell’interruzione: ferma restando la possibilità che il successore (del creditore o del debitore) esercita nel procedimento i poteri processuali che sarebbe spettati al suo dante causa. 
 In base alla soluzione più persuasiva, anzi, deve ritenersi che il successore abbia diritto ad essere sentito nelle stesse ipotesi in cui sarebbe stata necessaria l’audizione della parte originaria. 2. Quanto alla successione a titolo particolare, poi, sebbene l’opinione prevalente escluda una diretta applicazione dell’art. 111, si è soliti ammettere che, se il trasferimento del diritto avviene a processo esecutivo già iniziato, la legittimazione attiva e passiva delle parti originarie, di regola, non ne risenta: mentre le maggiori dispute riguardano i poteri e le prerogative processuali del successore, soprattutto nell’ipotesi in cui la successione si realizzi dal lato del debitore esecutato. 49. Gli atti preliminari all’inizio dell’esecuzione: notificazione del titolo esecutivo e precetto Salvo che la legge disponga altrimenti, l’inizio dell’esecuzione forzata dev’essere preceduto dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e dalla notificazione del precetto che costituisce una sorta di ultimatum del creditore al debitore affinché adempia l’obbligo. Ciò lascia intendere che la notificazione del titolo ed il progetto non appartengono ancora all’esecuzione forzata ma rappresentino atti ad essa preliminari. L’esecuzione, anzi, dev’essere iniziata entro 90 gg dalla notifica del precetto (termine che resta automaticamente sospeso qualora sia proposta opposizione, all’esecuzione o agli atti esecutivi), sicché, altrimenti quest’ultimo diverrebbe inefficace e dovrebbe essere reiterato. Il precetto può essere redatto di seguito al titolo esecutivo e comunque può essere notificato unitamente ad esso, tanto più che per entrambi gli atti la notifica dev’essere indirizzata alla parte personalmente. Quando il titolo è rappresentato da una sentenza, quindi, la sua notifica diretta al difensore del soccombente ed occorrente per far decorrere il termine breve per l’impugnazione, non sarebbe idonea ai fini dell’esecuzione forzata. Il alcuni casi, poi, la notificazione del precetto dev’essere necessariamente successiva a quella del titolo in forma esecutiva, essendo soggetta ad un termine dilatorio. Così, in particolare, quando l’esecuzione sia promossa contro gli eredi della parte indicata nel titolo, la notificazione del precetto, che dev’essere comunque diretta agli eredi medesimi, esige che siano trascorsi almeno 10 gg dalla notificazione del titolo e peraltro può essere eseguita, entro un anno dalla morte, agli eredi collettivamente ed impersonalmente, presso l’ultimo domicilio del defunto; e analogamente, quando l’esecuzione sia diretta contro un’amministrazione dello Stato o un ente pubblico non economico, il creditore deve attendere almeno 120 gg prima di poter notificare il precetto. Entrambe le disposizioni mirano ovviamente a favorire il debitore e ad evitargli, in caso di tempestivo adempimento, le maggiori spese che deriverebbero già dal precetto. Si noti inoltre che per alcuni titoli esecutivi non è neppure prevista l’autonoma notificazione, solitamente rimpiazzata da una trascrizione integrale del titolo stesso all’interno dell’atto di precetto. Passando ad esaminare il contenuto di quest’ultimo, esso consiste, a norma dell’art. 480, nella formale intimazione di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro il termine indicato dal creditore, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata. Il presidente del tribunale competente per l’esecuzione può dispensare dall’osservanza del predetto termine dilatorio ed autorizzare l’esecuzione immediata, con decreto scritto in calce all’originale del precetto e trascritto nella copia da notificare, qualora ricorra pericolo nel ritardo. Elementi essenziali dell’atto di precetto, richiesti a pena di nullità, sono anche l’indicazione delle parti e della data di notificazione del titolo esecutivo, qualora essa sia avvenuta separatamente. Se poi si tratta di titoli per i quali non è prescritta la notificazione ma la trascrizione integrale nello stesso precetto, la corrispondenza di tale trascrizione all’originale dev’essere certificata dall’ufficiale giudiziario prima della notificazione del precetto, dietro esibizione del titolo da parte del creditore istante. Ulteriore elemento richiesto dall’art. 480 è la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice dell’esecuzione: elemento che serve ad agevolare l’esecuzione delle notificazioni e delle comunicazioni dirette al creditore. La sua omissione non incide sulla validità del precetto, ma implica solamente che le eventuali opposizioni al precetto, che per l’appunto si propongono prima dell’inizio dell’esecuzione, spetteranno alla competenza del giudice del luogo in cui il precetto è stato notificato e le notificazioni dirette all’intimante potranno farsi presso la cancelleria di tale giudice. Una recente modifica dell’art. 480, poi, ha previsto che il precetto debba anche contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovra-indebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un piano del consumatore. Il riferimento quindi è alle procedure previste dalla l. 3/2012, che sono riservate ai debitori esclusi dall’ambito di applicazione della legge fallimentare. Tale avvertimento non dovrebbe essere necessario allorché si tratti di imprenditori assoggettabili ad una diversa procedura concorsuale (es. al fallimento), né ha molto senso quando il diritto risultante dal titolo esecutivo non abbia ad oggetto il pagamento di una somma di denaro; e comunque, in assenza di alcuna specifica stazione, l’eventuale sua mancanza parrebbe configurare una mera irregolarità. Il precetto, infine, dev’essere sottoscritto a norma dell’art. 125, ossia, a seconda dei casi, dalla parte personalmente o dal difensore munito di procura, che potrebbe essere per l’appunto conferita in calce o a margine dello stesso precetto. Proprio in quanto atto preliminare all’esecuzione, è pacifico che per il precetto non sia necessaria, ma solo facoltativa, l’intermediazione di un difensore. La notificazione del precetto determina ovviamente l’interruzione della prescrizione del diritto risultante dal titolo, che però non è assimilabile a quella prodotta dalla proposizione di una domanda giudiziale (che implica anche una sospensione del corso della prescrizione) e dunque ha carattere meramente istantaneo. Capitolo 6 : L’espropriazione forzata Sezione 1 : L’espropriazione forzata in generale 50. Funzione e struttura dell’espropriazione L’espropriazione, oltre ad essere la forma più frequente di esecuzione forzata, è anche quella certamente più complessa, giacché, avendo come obiettivo finale quello di dare attuazione ad un credito pecuniario, implica molteplici attività di varia natura, materiale o giuridica, dirette in primo luogo ad individuare i beni del debitore (o eccezionalmente di terzi) da destinare al soddisfacimento del creditore procedente e degli altri creditori che possono prender parte al processo esecutivo, in secondo luogo alla trasformazione in denaro dei beni stessi, quando il creditore o taluno di essi non ne chieda l’assegnazione quale datio in solutum, ed infine, ove occorra, alla ripartizione del ricavato tra i più creditori, qualora esso non sia sufficiente per soddisfare tutti. Il titolo 2 del Libro 3 del codice detta anzitutto una disciplina generale e comune dell’espropriazione nelle varie fasi e nei suoi aspetti essenziali: - Il pignoramento - L’intervento dei creditori - L’assegnazione e la vendita - La distribuzione del ricavato. Tale disciplina dev’essere poi integrata con quella più analitica propria di ciascuna forma di espropriazione, a seconda del tipo di bene del debitore ch’essa aggredisce. Fondamentalmente, dunque, i modelli di tale processo esecutivo sono 3: 1. L’espropriazione mobiliare presso il debitore, che ovviamente riguarda i beni mobili in genere, compresi quelli iscritti in pubblici registri e quelli immateriali; 2. L’espropriazione mobiliare presso terzi, che il più delle volte investe un credito del debitore; 3. E l’espropriazione immobiliare. Altre disposizioni specifiche riguardano, infine, l’espropriazione di beni indivisi e quella contro il terzo proprietario. 51. Il giudice dell’esecuzione e le disposizioni generali concernenti l’espropriazione Giudice competente per l’espropriazione forzata è in ogni caso il tribunale, la cui competenza territoriale si determina: - In linea di principio, con riguardo al luogo in cui si trovano i beni mobili o immobili assoggettati all’esecuzione; - Con riguardo al luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore, se l’espropriazione riguarda autoveicoli, motoveicoli o rimorchi oppure si tratta di espropriazione di crediti nei confronti di un debitore diverso da una pubblica amministrazione; - In relazione al luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del terzo debitore, se l’espropriazione ha per oggetto dei crediti ed è diretta nei confronti di una pubblica amministrazione. Nell’ambito di tale ufficio, poi, la nomina del giudice dell’esecuzione, ossia del magistrato-persona fisica cui spetta la direzione dell’espropriazione, è fatta dal presidente del tribunale su presentazione del fascino d’ufficio a cura del cancelliere entro 2 gg dalla sua formazione. anche del terzo ), il quale, tra l’altro, non avendo ancora ricevuto la notificazione dell’atto di pignoramento, gli effettui successivamente il relativo pagamento o gli restituisca la cosa. - Se infine vengono indicati beni immobili, il creditore procede ai sensi degli artt. 555 ss.: il che lascia intendere che debba provvedere al relativo pignoramento secondo le specifiche modalità previste per l’espropriazione immobiliare. Il medesimo invito può essere rivolto al debitore, su sollecitazione del creditore, quando, in seguito all’intervento di altri creditori, i beni pignorati siano divenuti insufficienti. Quando il debitore sia un imprenditore commerciale, l’ufficiale può inoltre, su istanza del creditore, invitarlo ad indicare il luogo in cui sono conservate le scritture contabili, nominando un commercialista o un avvocato o un notaio per esaminarle al fine dell’individuazione di cose e crediti pignorabili. 54. La ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare L’art. 492-bis, introdotto dal d.l. 132/2014, prevede altresì, al fine di agevolare l’individuazione di beni assoggettabili all’espropriazione, che il presidente del tribunale, su istanza del creditore e dopo averne verificato il diritto a procedere ad esecuzione forzata, possa autorizzare la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare. Di regola, l’istanza dev’essere preceduta dalla notifica del precetto e presuppone che sia scaduto il termine dilatorio di 10 gg concesso al debitore per adempiere, tranne quando suscita pericolo nel ritardo. Intervenuta l’autorizzazione, da parte del presidente o di un giudice da lui delegato, la ricerca viene effettuata dall’ufficiale mediante collegamento telematico diretto ai dati contenuti nelle banche dati delle pubbliche amministrazioni e, in particolare, nell’anagrafe tributaria, compreso l’archivio dei rapporti finanziari, e in quelle degli enti previdenziali, per l’acquisizione di tutte le informazioni rilevanti per l’individuazione di cose e crediti da sottoporre ad esecuzione, comprese quelle relative ai rapporti intrattenuti dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro o committenti. Terminate le operazioni, l’ufficiale redige un unico processo verbale, nel quale indica tutte le banche dati interrogate e le relative risultanze, e poi, se la ricerca ha consentito di individuare beni mobili o crediti del debitore, procede, munito del titolo esecutivo e del precetto, al loro pignoramento. Quando sia stata individuata una pluralità di beni mobili o crediti, è il creditore che indicherà all’ufficiale quali di essi sottoporre ad esecuzione. 55. Gli effetti del pignoramento In relazione alla sua funzione essenziale, consistente nel vincolare un determinato bene alla soddisfazione dei creditori, è agevole comprendere le disposizioni racchiuse negli artt. 2913 ss. c.c., per cui non hanno effetto, in pregiudizio dei creditori, gli atti di alienazione nonché gli altri atti lato sensu dispositivi dei beni sottoposti a pignoramento, che egualmente potrebbero vanificare il soddisfacimento dei creditore. Al debitore non è fatto divieto di disporre giuridicamente dei beni pignorati: sicché un eventuale atto di disposizione sarebbe valido e produttivo di effetti fra le parti, ancorché inopponibile ai creditori ( si parla di inefficacia relativa ), i quali potrebbero proseguire nell’esecuzione come se il bene appartenesse ancora al debitore. La circostanza non è trascurabile, soprattutto se si pensa all’eventualità che il pignoramento sia dichiarato successivamente nullo o inefficace, o che il processo esecutivo si estingua in un momento anteriore alla vendita forzata: in tali ipotesi, infatti, l’atto di disposizione tornerebbe naturalmente a produrre i propri effetti erga omnes. Si noti, inoltre, che della suddetta inefficacia si giovano non solo il creditore pignorante ma anche tutti gli altri interventi: ed è per questa ragione che talora, per descrivere gli effetti del pignoramento, si è parlato di vincolo a porta aperta, contrapposto al vincolo a porta chiusa che invece può discendere dal sequestro conservativo. Passando ora ad esaminare gli atti colpiti dalla predetta inefficacia relativa, v’è da tener presente che accanto alle alienazioni, il successivo art. 2915 prende in considerazione gli atti che importano vincoli di indisponibilità dei beni pignorati: tale disposizione impone d’intendere in modo assai ampio il termine “alienazioni”, includendovi non solo gli atti traslativi del diritto di proprietà ma anche quelli costitutivi di diritti reali limitati o di diritti di godimento meramente personali. Nel valutare le condizioni ed i limiti di tale inefficacia, peraltro, occorre considerare la natura dei beni pignorati e le regole che presiedono alla loro circolazione giuridica. Ciò vale rispetto ai beni mobili non iscritti in pubblici registri, per i quali lo stesso art. 2913 fa salvi gli effetti del possesso in buona fede, che d’altronde determina l’acquisto della proprietà a titolo originario e pertanto, allorché abbia ad oggetto un bene pignorato, è opponibile anche ai creditori che partecipano all’espropriazione. In secondo luogo, poi, vengono in rilievo alcune disposizioni dirette a specificare ed in parte estendere il principio dell’art. 2913, per risolvere i possibili conflitti fra i creditori ed i terzi aventi causa dal debitore esecutato. A tale riguardo l’art. 2914 prevede che siano inefficaci nei confronti dei predetti creditori, ancorché anteriori al pignoramento: - Le alienazioni di beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri la cui trascrizione sia successiva a quella del pignoramento; - Le alienazioni di beni mobili o di universalità di mobili che non abbiano data certa anteriore al pignoramento; - Le cessioni di credito notificate al debitore ceduto o da questi accettate in un momento successivo al pignoramento. A tali disposizioni si è aggiunto, ora, l’art. 2929-bis c.c. (introdotto nel 2015), il quale prevede che, allorquando il creditore sia pregiudicato da un atto a titolo gratuito del debitore, che sia successivo al sorgere del credito ed abbia alienato beni immobili o mobili registrati, oppure abbia costituito su di essi un vincolo di indisponibilità o uno dei diritti reali limitati, l’azione esecutiva prescinde dal previo accoglimento dell’azione revocatoria, a condizione che il pignoramento venga trascritto entro 1 anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole. In altre parole, gli atti a titolo gratuito trascritti entro l’anno anteriore alla trascrizione del pignoramento sono ipso iure inefficaci nei confronti del creditore, che può senz’altro aggredire il bene come se fosse libero da vincoli di indisponibilità e anche nei confronti del terzo acquirente, essendo oltretutto preferito ai creditori personali di quest’ultimo nella distribuzione del ricavato. Il debitore, il terzo assoggettato ad espropriazione ed ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono ovviamente contestare, tramite l’opposizione, non solo i presupposti specifici di applicazione dell’art. 2929-bis ma anche l’eventus danni ( cioè che l’atto abbia effettivamente arrecato pregiudizio alle ragioni del creditore ) e la scientia damni da parte del debitore, che costituiscono condizioni per l’accoglimento dell’azione revocatoria rispetto agli atti di disposizione compiuti a titolo gratuito. In terzo luogo, prescindendo da una specifica disposizione concernente l’estinzione del credito pignorato, l’art. 2916 analogamente prevede che nella distribuzione del ricavato non si tiene conto dei diritti di prelazione derivanti da ipoteche, anche se giudiziali, iscritte dopo la trascrizione del pignoramento, o da privilegi soggetti ad iscrizione in pubblici registri ed iscritti dopo il pignoramento, o infine da privilegi relativi a crediti sorti dopo il pignoramento. 56. La conversione e la riduzione del pignoramento L’art. 495 consente al debitore esecutato di sostituire alle cose o ai crediti pignorati una somma di denaro corrispondente al totale dei crediti dei creditori, maggiorato dei relativi interessi e spese nonché delle spese dell’esecuzione. La relativa richiesta può essere avanzata PRIMA che sia disposta la vendita e dev’essere accompagnata, quale garanzia di serietà dell’istanza e a pena d’inammissibilità, dal deposito in cancelleria di una somma pari ad almeno 1/6 del totale dei predetti crediti, dedotti gli eventuali versamenti già effettuati, di cui dev’essere fornita prova documentale; e diviene comunque improcedibile dopo l’aggiudicazione, anche provvisoria, o l’assegnazione dei beni pignorati. L’importo globale della somma occorrente per la conversione è determinato con ordinanza del giudice dell’esecuzione, previa audizione delle parti in udienza entro 30 gg dal deposito dell’istanza; e con essa, se il pignoramento riguarda beni e sussistono giustificati motivi, può essere anche concessa una rateizzazione mensile del pagamento entro un termine massimo di 48 mesi, con applicazione dei relativi interessi scalari. Se l’istanza di conversione è accolta, il provvedimento dispone che i beni siano liberati dal pignoramento e la somma sia ad essi sostituita; fermo restando che l’effettiva liberazione dal pignoramento presuppone il versamento integrale di tale somma. Se invece il debitore non adempie al versamento o, essendo stato ammesso alla rateizzazione, omette o ritarda di oltre 30 gg di pagare anche una sola delle rate, il giudice, su richiesta del creditore, dispone senza indugio la vendita delle cose pignorate. Altro istituto previsto in favore del debitore è rappresentato dalla riduzione del pignoramento, che il giudice può disporre anche d’ufficio, sentiti il creditore procedente e i creditori intervenuti, quando il valore dei beni pignorati è superiore all’importo totale dei crediti da soddisfare e delle spese. Si consideri, infine, che l’art. 483, pur consentendo al creditore di servirsi cumulativamente dei diversi mezzi di espropriazione forzata previsti dalla legge, prevede che il giudice, su opposizione del debitore e con ordinanza non impugnabile, possa limitare l’espropriazione al mezzo che il creditore sceglie o che lo stesso giudice, in mancanza, determina. 57. L’intervento dei creditori: presupposti Ove si prescinda da un privilegio riconosciutogli sui beni mobili relativamente alle spese sostenute per l’esecuzione, il creditore pignorante non gode di alcuna preferenza rispetto agli altri creditori, i quali possono assoggettare lo stesso bene ad ulteriori successivi pignoramenti o possono intervenire nel processo esecutivo già iniziato da altri: in entrambi i casi, se il pignoramento successivo o l’intervento si realizzano entro un determinato momento, tutti i creditori acquistano il diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata su basi paritarie, tenuto conto esclusivamente delle cause di prelazione che eventualmente assistono i rispettivi crediti sul piano sostanziale. In passato, anzi, il legislatore, preoccupandosi di dare la più ampia attuazione al principio della par condicio creditorum, consentiva l’intervento a tutti i creditori, indipendentemente dal possesso di un titolo esecutivo o dall’esistenza di una causa di prelazione del relativo credito. La riforma del 2005, invece, per snellire l’espropriazione ed evitare le non lievi complicazioni che potevano derivare dall’intervento di creditori c.d. non titolati, ha circoscritto la possibilità d’intervento ad alcune categorie di creditori, e precisamente: - Ai creditori muniti di titolo esecutivi o titolari di un diritto di pegno o di un diritto di prelazione risultante da pubblici registri; - Ai creditori che, anteriormente al pignoramento, avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati; - Ai creditori titolari di un credito risultante dalle scritture contabili obbligatorie previste dall’art. 2214 c.c. La posizione e le prerogative processuali del creditore, peraltro, sono considerevolmente diverse a seconda ch’egli possieda o no un titolo esecutivo. Se l’intervento si fonda su un titolo esecutivo, infatti, il credito si considera già certo e il creditore, che avrebbe ben potuto iniziare autonomamente l’espropriazione, ha poteri d’impulso del procedimento, sicché può ad es. estendere il pignoramento ad altri beni o proporre l’istanza di vendita di beni pignorati egli stesso. Quando il creditore è sprovvisto di titolo esecutivo, invece, per un verso gli è preclusa la possibilità di compiere gli atti d’impulso del procedimento, e per altro verso, quel ch’è più importante, si rende necessario una sorta d’interpello del debitore, diretto a provocare il riconoscimento del credito stesso, l’interveniente è senz’altro ammesso a partecipare alla distribuzione del ricavato per il corrispondente importo; altrimenti egli ha solo diritto ad un accantonamento temporaneo delle somme che gli spetterebbero in sede di riparto, a condizione che ne faccia istanza e dimostri di aver dato inizio, entro i 30 gg successivi, all’azione occorrenti per munirsi del titolo esecutivo. Fermo restando che vi è comunque un termine ultimo per l’intervento di qualunque creditore, la disciplina delle singole forme di espropriazione prevede che si consideri tardivo l’intervento avvenuto dopo una certa fase del procedimento. Il creditore chirografario intervento tardivamente viene posposto, nella distribuzione del ricavato, non solo ai creditori muniti di prelazione ma anche al creditore procedente a tutti gli altri creditori intervenuti tempestivamente: sicché può soddisfarsi solamente sull’eventuale residuo; ed analoga imitazione subisce il creditore che esegua un nuovo pignoramento successivamente al momento poc’anzi indicato. Il creditore munito di un diritto di prelazione, invece, non subisce alcun pregiudizio dalla tardività dell’intervento e dunque conserva integro tale diritto in sede di distribuzione del ricavato. Il legislatore intende riferirsi, per questo aspetto, al principio per cui sono inefficaci rispetto ai creditori gli atti di alienazione dei beni pignorati ed in genere tutti gli atti loro pregiudizievoli posteriori al pignoramento e chiarisce poi che di tale inefficacia si giova anche l’acquirente del bene espropriato, il quale si può dire che acquisti il bene del debitore nella medesima situazione giuridica in cui esso si trovava alla data del pignoramento. Ben può accadere, quindi, che l’acquirente in vendita subisca successivamente l’evizione, totale o parziale, del bene, allorché un terzo ne rivendichi vittoriosamente, nei suoi confronti, la proprietà o un diverso diritto reale. In tale ipotesi egli può ripetere il prezzo pagato per l’acquisto se quest’ultimo non è stato ancora distribuito o può ripetere da ciascun creditore la parte rispettivamente riscossa e dal debitore l’eventuale residuo, conservando altresì il diritto di agire nei confronti del creditore procedente per i danni e le spese. Analoga disciplina è prevista dall’art. 2927 per il creditore assegnatario, il quale, in caso di evizione, può ripetere quanto abbia eventualmente pagato agli altri creditori, ferma restando la possibilità di agire nei confronti del creditore procedente, per i danni e per le spese, e conservando ovviamente integre, altresì, le proprie ragioni di credito nei confronti nel debitore esecutato. Tornando poi all’ipotesi in cui, trattandosi della vendita di una cosa mobile, la posizione dell’acquirente in buona fede eccezionalmente prevale su quella di chi poteva vantare la proprietà o un diverso diritto reale sul bene pignorato, l’art. 2920 consente a quest’ultimo di far valere le proprie ragioni sulla somma ricavata dalla vendita, ma solo fino al momento in cui essa viene distribuita ai creditori; dopo tale momento, invece, egli non può ripetere dai creditori stessi quanto hanno ricevuto, ma può tutt’al più agire, per il risarcimento dei danni e per le spese, nei confronti del creditore procedente, allorché questi sia stato in mala fede, nonché probabilmente nei confronti del debitore stesso per l’ingiustificato arricchimento derivatogli dalla circostanza che un suo debito è stato estinto, per l’appunto, con denaro proveniente dalla vendita di un bene altrui. Per questa stessa fattispecie una disciplina parzialmente diversa è prevista rispetto all’assegnazione. in questo caso, infatti, il proprietario del bene mobile è comunque tenuto a rispettare l’acquisto dell’assegnatario in buona fede MA può, nei 60 gg successivi all’assegnazione, ripetere nei suoi confronti la somma corrispondente all’importo del credito soddisfatto con l’assegnazione; ed analoga facoltà è attribuita ai terzi titolari di altri diritti reali sul bene pignorato. Esaminati in tal modo i possibili conflitti tra il soggetto che abbia acquistato la proprietà del bene nell’ambito dell’espropriazione ed i terzi titolari di diritti reali sul bene medesimo, resta da chiarire quali ripercussioni possono determinare sulla vendita o sull’assegnazione gli eventuali altri vizi del processo esecutivo. La disposizione fondamentale, per quest’aspetto, è contenuta all’art. 2929, per cui la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. La stessa norma precisa, inoltre, che gli altri creditori (diversi da quello procedente) non sono in nessun caso tenuti a restituire quanto abbiano ricevuto in sede di espropriazione. Il legislatore, dunque, si preoccupa di attribuire stabilità alla vendita e all’assegnazione, escludendo ch’esse possano risentire dei vizi formali eventualmente intervenuti, sebbene l’opinione prevalente, argomentando a contrario, interpreti restrittivamente tale norma, ritenendo ch’essa non si applichi ai vizi direttamente incidenti sulla vendita/assegnazione o sugli atti che ne costituiscono l’immediato presupposto, a condizione che i vizi stessi siano stati fatti tempestivamente valere tramite l’unico rimedio possibile, ch’è rappresentato dall’opposizione agli atti esecutivi. Il punto più controverso, tuttavia, attiene alla rilevanza di vizi di altra natura, che riguardino il diritto stesso del creditore di procedere ad esecuzione forzata. Di tali vizi ci si dovrà occupare diffusamente più avanti e si avrà modo di spiegare ch’essi sono deducibili tramite l’opposizione: ci si chiede allora se in presenza di tali vizi sia ammissibile un’azione diretta alla declaratoria di nullità della vendita/assegnazione, quando il debitore, pur avendo proposto un’opposizione, non sia riuscito ad evitare la vendita/assegnazione stessa. L’opinione prevalente è peraltro nel senso che neppure i vizi da ultimo considerati possano essere invocati quali motivi di annullamento della vendita/assegnazione. 61. La distribuzione del ricavato e le possibili controversie ad essa relative Esaurita, tramite la vendita e/o assegnazione, la liquidazione di tutti i beni pignorati, si apre l’ultima fase dell’espropriazione, consistente nella distribuzione della somma ricavata, che è formata dal prezzo o conguaglio delle cose vendute o assegnate, e poi anche dai frutti, rendite o proventi delle stesse, nonché da quanto sia stato eventualmente ottenuto, a titolo di multa o risarcimento, dall’aggiudicatario inadempiente. Questa fase è molto semplice nel caso in cui, non essendo intervenuti altri creditori, vi sia solo la pretesa del creditore procedente, o quando, pur essendovi più creditori, la somma ricavata sia tale da soddisfare integralmente tutti. In tali ipotesi il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, si limita a disporre il pagamento di quanto spetta ai singoli creditori per capitale, interessi e spese; mentre l’eventuale somma residua dev’essere ovviamente consegnata poi al debitore esecutato (o al terzo eccezionalmente assoggettato all’espropriazione). Se invece, essendo intervenuti altri creditori, il ricavato non è sufficiente a pagare tutti, la distribuzione dovrà avvenire sulla base di un apposito piano o progetto di riparto, che nell’espropriazione mobiliare potrebbe essere concordato tra le stesse parti e che, naturalmente, deve tener conto delle rispettive cause di prelazione nonché, quando vi siano più creditori chirografari, dell’entità dei rispettivi crediti, affinché il loro soddisfacimento avvenga in misura proporzionalmente eguale. Un’ulteriore complicazione può aversi, poi, in caso di intervento di creditori sforniti di titolo esecutivo, il cui credito sia stato in tutto o in parte disconosciuto dal debitore: infatti se tali creditori ne fanno istanza e dimostrano di avere tempestivamente proposto l’azione per ottenere il titolo, il piano di riparto deve tener conto anche delle somme loro teoricamente spettanti, che verranno accantonate per il tempo ritenuto necessario dal giudice, fino ad un massimo di 3 anni. Decorso tale termine, il giudice, anche d’ufficio, dispone la comparazione dinanzi a sé del debitore, del creditore procedente e di tutti gli altri, ad eccezione di quelli già integralmente soddisfatti, e procede alla distribuzione della somma accantonata, tenendo conto nel riparto degli ulteriori creditori che sono riusciti a procurarsi il titolo esecutivo. Il che significa, ovviamente, che gli altri restano definitivamente esclusi da tale riparto. Non di rado può sorgere controversia fra i creditori concorrenti o fra creditore e debitore o terzo assoggetto all’espropriazione, circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di diritti di prelazione; nel qual caso è lo stesso giudice a decidere, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti, con ordinanza, che può eventualmente sospendere la distribuzione in tutto o in parte ed è impugnabile esclusivamente tramite l’opposizione agli atti esecutivi, cioè con un rimedio che dà luogo ad un giudizio a cognizione piena destinato a concludersi con una sentenza inappellabile, e dunque in unico grado. Ciascun creditore, ad es., potrebbe contestare l’esistenza o l’ammontare del credito vantato da un altro creditore, anche se confortato dall’esistenza di un titolo esecutivo, allegando magari un fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto: con la sola condizione che il credito cui la contestazione si riferisce sia di grado pari o maggiore rispetto al proprio, così da incidere negativamente sulla collocazione del creditore istante e sulla sua possibilità di trovare capienza per l’intero ammontare del proprio credito. Per analoghe ragioni la contestazione potrebbe vertere, altresì, sulle specifiche condizioni cui all’art. 499 subordina l’intervento dei creditori e comunque il loro diritto a partecipare alla distribuzione; per sostenere ad es. che l’esecutività della sentenza di 1° sulla quale l’intervento si fonda è stata sospesa dal giudice di 2°. Per entrambi i profili, inoltre, la contestazione deve ritenersi di per sé ammissibile anche rispetto ai crediti riconosciuti dal debitore: sicché, altrimenti, il creditore resterebbe inerme di fronte ai possibili accordi fraudolenti del debitore e dell’altro creditore in suo danno. Quanto al debitore esecutato, poi, è chiaro ch’egli non avrebbe interesse a contestare l’esistenza di una certa prelazione in favore di taluno dei creditori; mentre può sicuramente contestare l’esistenza o l’ammontare di qualunque credito vantato dai creditori muniti di titolo esecutivo, al fine di ottenere l’eventuale somma avanzata dopo la distribuzione, o di evitare che venga soddisfatto un credito in tutto o in parte inesistente. Qualora si tratti di creditori privi di titolo esecutivo, invece, il debitore può ben più semplicemente disconoscere il relativo credito, con le conseguenze già esaminate: e semmai, il dubbio riguarda la possibilità di contestare nella fase di distribuzione anche l’esistenza o la misura di crediti precedentemente riconosciuti, almeno quando si tratti di un riconoscimento tacito, derivante dalla mancata comparizione all’udienza. Ulteriori interrogativi si pongono in relazione alla natura e all’oggetto tanto dell’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione si pronuncia in prima battuta sulla controversia sollevata dal debitore o da taluno dei creditori, quanto della sentenza pronunciata in seguito all’eventuale opposizione agli atti esecutivi. Secondo la soluzione che appare preferibile, peraltro, entrambi i provvedimenti vertono esclusivamente sul diritto del creditore di partecipare al riparto, con effetti limitati al processo esecutivo cui si riferiscono, senza dar luogo invece ad un accertamento con efficacia di giudicato circa la sussistenza e/o la misura del credito o della causa di prelazione contestati. L’ultimo problema da considerare riguarda la stabilità della distribuzione. Si discute infatti se le attribuzioni patrimoniali che ne scaturiscono, in favore dei creditori ammessi al concorso, possano essere o no rimesse in discussione, successivamente, al di fuori del processo esecutivo, in particolare tramite un’azione per ripetizione d’indebito o invece debbano considerarsi irreversibili. A tal proposito appare opportuno distinguere. 1. Per quel che concerne i rapporti meramente processuali fra i diversi creditori, l’esaurimento della fase di distribuzione e la preclusione relativa alle eventuali impugnazioni determina certamente una situazione non più modificabile, in conseguenza dell’irrevocabilità del provvedimento che pone fine al processo esecutivo. 2. Per ciò che riguarda, invece, i rapporti fra debitore esecutato e creditori partecipanti alla distribuzione, sembra difficile ammettere che la conclusione del processo esecutivo possa produrre di per sé una preclusione in grado d’impedire eventuali azioni di ripetizione d’indebito. Sezione 2 : L’espropriazione mobiliare presso il debitore 62. L’individuazione dei beni da pignorare e i relativi limiti A differenza dell’espropriazione immobiliare e di quella mobiliare, presso terzi, in cui la ricerca e l’individuazione dei beni pignorabili vengono materialmente compiute, in via preventiva, dallo stesso creditore, nell’espropriazione mobiliare che si attua presso il debitore esse competono in tutti i sensi all’ufficiale giudiziario, che d’altronde gode a tale riguardo di specifici poteri coercitivi. L’ufficiale, quindi, munito di titolo esecutivo e precetto, può effettuare la ricerca delle cose da pignorare nella casa del debitore e in tutti gli altri luoghi a lui appartenenti nonché con cautela sulla stessa persona del debitore: a tal fine, può anche ricorrere all’uso della fora ogniqualvolta sia necessario aprire porte, ripostigli o recipienti o allontanare persone che disturbano l’esecuzione del pignoramento. Su autorizzazione del presidente del tribunale o di altro giudice da questi delegato, che ne sia stato richiesto dal creditore procedente, l’ufficiale può anche pignorare cose determinate che non si trovano in luoghi appartenenti al debitore, ma delle quali egli può direttamente disporre: l’esempio classico è quello dell’autovettura. Se invece manca questo potere di disposizione diretta del bene da parte del debitore, è necessario ricorrere alle diverse e più complesse forme dell’espropriazione presso terzi, a meno che il terzo possessore non accetti di esibire volontariamente il bene all’ufficiale giudiziario. V’è poi da considerare che l’individuazione delle cose da assoggettare ad espropriazione incontra alcune limitazioni, miranti a salvaguardare la dignità e il decoro del debitore e la stessa sopravvivenza sua e del suo nucleo familiare. Si discorre, a tal proposito, di impignorabilità assoluta o relativa. 1. La prima ipotesi, disciplinata dall’art. 514, riguarda, oltre i casi previsti da speciali disposizioni di legge, una serie di beni mobili che vengono sottratti all’espropriazione vuoi in ragione della loro peculiare destinazione, vuoi perché ritenuti indispensabili alle esigenze basilari del debitore e della sua famiglia. Lo stesso regime si ritiene che competa ai beni giuridicamente inalienabili per legge (quali, in particolare, i beni del demanio pubblico). 2. La seconda ipotesi, contemplata dagli artt. 515 e 516, attiene invece a beni che possono essere autonomamente pignorati solo in determinate circostanze ed entro certi limiti: per es., quanto agli strumenti, agli oggetti e ai libri indispensabili per l’esercizio della professione del debitore, fino ad un massimo di 1/5 del loro valore, allorquando il valore di presumibile realizzo degli altri beni rinvenuti dall’ufficiale giudiziario appaia insufficiente; oppure, se si tratti di frutti non ancora raccolti o separati dal suolo, nelle 6 settimane anteriori al tempo della loro maturazione. 66. L’intervento dei creditori La disciplina dell’intervento dei creditori corrisponde a quella generale già esaminata. In linea di principio, l’intervento deve avvenire non oltre la prima udienza fissata per l’autorizzazione della vendita o per l’assegnazione: dopo tale momento, invece, si considera tardivo ed il credito dell’interveniente, salvo che non sia assistito da un diritto di prelazione, viene posposto a quello degli altri creditori, potendosi soddisfare solo sull’eventuale somma residua. V’è da aggiungere, tuttavia, che l’art. 525 anticipa il limite temporale dell’intervento tempestivo per la c.d. piccola espropriazione, ossia quando il valore dei beni pignorati, così come stimato in occasione del pignoramento, non superi i 20.000€: in tal caso, infatti, si fa riferimento alla data di presentazione del ricorso con cui è chiesta la vendita o l’assegnazione. 67. L’assegnazione o la vendita dei beni e la distribuzione del ricavato Su ricorso del creditore pignorante o di un altro creditore intervenuto che sia munito di titolo esecutivo, proponibile dopo che sia decorso il termine dilatorio previsto dall’art. 501, il giudice fissa l’udienza per l’audizione delle parti, al fine di decidere circa l’assegnazione, allorché ne ricorrano i presupposti, o la vendita dei beni pignorati. Tale udienza, in cui le parti possono fare osservazioni circa l’assegnazione o circa il tempo e le modalità della vendita, costituisce anche l’ultima occasione per le opposizioni agli atti esecutivi nei confronti degli atti anteriori all’udienza stessa, ammesso che la decadenza non si sia già prodotta prima. Se non vi sono opposizioni, o se comunque le parti comparse raggiungono l’accordo su di esse, il giudice dispone con ordinanza, l’assegnazione o la vendita: altrimenti, prima di provvedere in tal senso, deve decidere sulle opposizioni con sentenza. Nel caso della piccola espropriazione di cui all’art. 525, poi, il giudice provvede con decreto, senza fissare l’udienza, allorché fino alla presentazione dell’istanza non siano intervenuti altri creditori; oppure, in caso contrario, provvede con ordinanza, secondo le modalità poc’anzi indicate, dopo l’audizione dei soli creditori intervenuti tempestivamente. Per quel che concerne le modalità della vendita, la regola è rappresentata dalla vendita senza incanto o tramite commissionario. Il giudice, quindi, col provvedimento autorizzato della vendita - e dopo ave sentito, se necessario, uno stimatore - fissa il prezzo minimo della vendita stessa, l’importo globale al cui raggiungimento la vendita deve arrestarsi, il numero complessivo degli esperimenti di vendita, i criteri per determinare i relativi ribassi, le modalità di deposito della somma ricavata dalla vendita e il termine finale, non superiore a 6 mesi, alla cui scadenza il soggetto incaricato della vendita, in caso di insuccesso, deve restituire gli atti in cancelleria. Inoltre, il giudice deve stabilire che il versamento della cauzione, la presentazione delle offerte, lo svolgimento della gara fra gli offerenti e il pagamento del prezzo siano effettuati con modalità telematiche, salvo che le stesse siano pregiudizievoli per gli interessi dei creditori o per il sollecito svolgimento della procedura. I beni pignorati sono quindi affidati all’istituto vendite giudiziarie o, con provvedimento motivato, ad altro soggetto specializzato nel settore di competenza, affinché proceda alla vendita in qualità di commissionario. Se poi la vendita non avviene entro il termine fissato nel provvedimento, il soggetto incaricato è tenuto a restituire gli atti in cancelleria e il giudice dispone poi la chiusura anticipata del processo esecutivo. - Nel caso della vendita ALL’INCANTO (consentita solamente quando appare probabile che tale modalità frutti un prezzo superiore di almeno la metà rispetto al valore di stima del bene) il giudice deve egualmente fissare il prezzo di apertura dell’incanto e stabilire luogo, giorno ed ora in cui la vendita deve avvenire, affidandone l’esecuzione al cancelliere o all’ufficiale giudiziario o ad un istituto all’uopo autorizzato.
 Se la cosa resta invenduta, il soggetto incaricato fissa un nuovo incanto ad un prezzo base inferiore di 1/5 rispetto a quello precedente. 
 In ogni caso, al di fuori dell’ipotesi della piccola espropriazione (e dunque quando il valore dei beni è superiore a 20.000€), il giudice può anche disporre che il versamento del prezzo avvenga ratealmente, entro un termine non superiore a 12 mesi. - Allorché la vendita riguardi, invece, beni mobili iscritti in pubblici registri, l’art. 534-bis prevede che il giudice, nel disporre la vendita all’incanto o senza incanto, ne deleghi sempre le relative operazioni ad un istituto a ciò autorizzato o, in mancanza, a un notaio o avvocato o commercialista iscritto in appositi elenchi. 
 Qualora nel corso delle operazioni sorgano difficoltà, tanto il commissionario quanto il professionista possono rivolgersi al giudice, che provvede con decreto. 
 Le parti e gli altri interessati, dal canto loro, possono proporre reclamo allo stesso giudice contro tale decreto nonché avverso gli atti del professionista/commissionario: e in tal caso, il giudice provvede con ordinanza, a sua volta reclinabile al collegio. L’art. 530 prevede che la vendita sia sempre resa pubblica nelle forme prescritte dalla legge, ossia tramite un avviso inserito sul portale delle vendite pubbliche del Ministero della giustizia almeno 10 gg prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte o della data dell’incanto: e inoltre, quando si tratti di espropriazione di beni mobili registrati di valore superiore a 25.000€, mediante inserimento del medesimo avviso, unitamente a una copia dell’ordinanza di vendita e della relazione di stima del bene, in appositi siti internet almeno 45 gg prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte o della data dell’incanto. L’art. 534 fa inoltre salva la possibilità che il giudice, nell’autorizzare la vendita, disponga forme di pubblicità straordinaria. Quanto alla distribuzione del ricavato, infine, la legge prevede che i creditori possano concordare un piano di riparto, che il giudice, dopo aver sentito il debitore, può senz’altro recepire nel proprio provvedimento. Qualora ciò non avvenga o se il giudice non approva il piano di riparto, ciascun creditore può chiedere che sia il giudice stesso a provvedere alla distribuzione. L’art. 540-bis, infine, prevede, allorché le cose pignorate risultino invendute dopo il secondo o successivo incanto, o quando la somma assegnata non sia sufficiente a soddisfare le ragioni di tutti i creditori, che il giudice, ad istanza di uno dei creditori stessi, ordini l’integrazione del pignoramento, tramite la ricerca di ulteriori beni. Se tale ricerca è positiva, il giudice dispone la vendita delle nuove cose pignorate, senza bisogno di una nuova istanza; altrimenti dichiara d’ufficio l’estinzione del procedimento. Sezione 3 : L’espropriazione presso terzi 68. L’oggetto dell’espropriazione presso terzi e i limiti alla pignorabilità dei crediti Premesso che l’espropriazione presso terzi può avere ad oggetto tanto dei beni mobili di proprietà del debitore che si trovino nella disponibilità di un terzo, quanto dei crediti che il debitore vanti nei confronti di un terzo, è chiaro che la prima ipotesi non pone problemi diversi rispetto a quelli già esaminati in relazione all’espropriazione mobiliare presso il debitore. La seconda ipotesi, invece, esige qualche chiarimento circa i requisiti generali dei crediti assoggettabili a tale espropriazione nonché qualche cenno sulle incisive limitazioni legali concernenti la pignorabilità di taluni specifici crediti. 1. Per quel che concerne il primo punto, prevale l’opinione che siano espropriabili non solo i crediti non ancora esigibili, poiché sottoposti a termine o condizione, ed i crediti illiquidi, ma anche quelli futuri, per lo meno quando essi derivino da un rapporto giuridico già esistente: quel che conta è che il credito, al momento dell’assegnazione, possieda una capacità satisfattiva concretamente apprezzabile così da poter essere oggetto di assegnazione o vendita. 2. Quanto al secondo punto, invece, v’è da tener presente che alcuni crediti sono assolutamente impignorabili: a parte le ipotesi risultanti da leggi speciali, l’art. 545 menziona i crediti aventi ad oggetto sussidi di grazia o di sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri, o sussidi dovuti per maternità, malattie e funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficienza. Ben più rilevanti, peraltro, sono le limitazioni aventi carattere relativo, ossia le ipotesi in cui il credito è pignorabile solo per una parte e/o per il soddisfacimento di determinati altri crediti. Le fattispecie contemplate dallo stesso art. 545 riguardano: 1. I crediti alimentari, che sono pignorabili esclusivamente a tutela di altri crediti alimentari, su autorizzazione del presidente del tribunale e nella misura da lui stabilita con decreto; 2. I crediti relativi a stipendi, salari o altre indennità derivanti da rapporto di lavoro privato, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, che possono pignorarsi per crediti alimentari, nella misura autorizzata dal presidente o nei limiti di 1/5 per crediti di natura tributaria dello Stato, delle province o dei comuni ed in egual misura per ogni altro credito; con l’ulteriore limite massimo della metà del credito, allorché concorrano simultaneamente più crediti di diversa natura. 
 Per quel che riguarda il rapporto di pubblico impiego, invece, v’è da considerare che in passato si prevedeva un regime molto restrittivo, in cui si consentiva il pignoramento esclusivamente a tutela di determinati crediti. Tale discriminazione però è venuta meno in seguito a reiterati interventi della Corte costituzionale, sicché, pur permanendo qualche diversità di disciplina, anche per i crediti del pubblico dipendente vige il principio della pignorabilità nella misura di 1/5. 3. Le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza. Tali somme sono assolutamente impignorabili per un importo pari a una volta e mezza la misura massima mensile dell’assegno sociale (attualmente 460€ circa); mentre al di là di questo importo sono pignorabili entro i limiti (cioè di regola nella misura di 1/5). L’art. 545 ha inoltre disciplinato l’ipotesi in cui le somme dovute a titolo di stipendio, salario e altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, siano corrisposte al debitore mediante accredito su un conto bancario o postale a lui intestato. In tal caso le somme che risultino già accreditate sono pignorabili per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale; mentre quelle accreditate successivamente al pignoramento sono pignorabili entro i limiti indicati ai punti n. 1 e 2. La violazione dei divieti e dei limiti previsti nell’art. 545 o da altre speciali disposizioni è causa di parziale inefficacia del pignoramento, rilevabile dal giudice anche d’ufficio. Un discorso a parte è necessario, infine, in relazione ai crediti dello Stato e degli enti pubblici in genere. In passato, la realizzazione in via esecutiva di un credito nei confronti di una p.a. era difficoltosa perché si riteneva che le somme di denaro ed i crediti degli enti pubblici fossero automaticamente soggetti ad un vincolo di destinazione. Negli ultimi decenni però questo orientamento è stato accantonato, affermandosi l’opposto principio secondo cui il vincolo di destinazione ad un pubblico servizio non può valutarsi in astratto, per il sol fatto che le somme di denaro o i crediti dell’ente pubblico siano stati iscritti nel relativo bilancio, bensì presuppone un provvedimento amministrativo che abbia già concretamente attribuito loro tale specifica destinazione. 69. Il pignoramento Il pignoramento si attua per iscritto ed ha una struttura complessa, giacché l’azione esecutiva, sebbene sia diretta contro il solo debitore, non può fare a meno di coinvolgere il terzo, sul quale dovrà gravare alla fine l’obbligo di consegnare il bene mobile di proprietà del debitore o di pagare le somme di cui è a sua volta debitore nei confronti dell’esecutato. Nella specie, dunque, il pignoramento deve produrre effetti anche nei confronti del terzo, per evitare ch’egli riconsegni la cosa mobile o paghi nelle mani dell’esecutato, e nel contempo presuppone che, in caso di contestazioni, possa pervenirsi ad un accertamento circa l’effettiva esistenza del bene o del credito pignorato. Il pignoramento, quindi, si esegue mediante la notifica, al debitore e al terzo, di un atto che, oltre agli elementi prescritti in via generale, deve contenere, ai sensi dell’art. 543: 1. L’indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e della data di notificazione del precetto; 2. L’indicazione, almeno generica, delle cose o somme dovute dal terzo al debitore esecutato: si noti che la giurisprudenza reputa sufficiente anche un’indicazione del tutto generica: il che consente al creditore, soprattutto nella più frequente ipotesi in cui l’espropriazione abbia ad oggetto un credito, di eseguire pignoramenti plurimi, con finalità sostanzialmente esplorative, alla ricerca di crediti del debitore utilmente espropriabili; 3. L’intimazione al terzo di non disporne senza ordine del giudice: ciò ch’è inibito al terzo non è disporre delle cose o dei crediti pignorati MA riconsegnare la cosa o estinguere il proprio debito pagando nelle mani del debitore esecutato: infatti l’art. 546 prevede che il terzo, fin dal giorno in cui gli è notificato l’atto di pignoramento, sia soggetto agli obblighi del custode 3. In seguito a una decisione che verifichi, a conclusione di una vera e propria parentesi di cognizione, l’esistenza e l’entità del credito del debitore esecutato nei confronti del terzo o il possesso, da parte di quest’ultimo, di un bene appartenente al debitore. 
 Tale decisione si rende necessaria allorché la dichiarazione del terzo sia stata oggetto di contestazioni, nonché quando, avendo il terzo omesso di rendere la dichiarazione e di comparire all’udienza, non risulti comunque possibile l’esatta identificazione del credito o dei beni del debitore in possesso del terzo. 
 In entrambi i casi, dunque, l’art. 549 prevede che sia lo stesso giudice, su istanza di parte, a compiere i necessari accertamenti nel contraddittorio fra le parti e con il terzo, provvedendo con un’ordinanza che produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione e nel contempo può essere impugnata con l’opposizione agli atti, rimedio che instaura un giudizio a cognizione piena e si conclude con sentenza, ricorribile per cassazione. 
 - Molti dubbi appaiono la natura e l’oggetto di tale giudizio come pure dell’ordinanza con cui il giudice decide sulle contestazioni mosse nei confronti della dichiarazione del terzo. 
 L’attuale formulazione dell’art. 549 anche se non fornisce indicazioni univoche, induce a pensare che il legislatore, per semplificare, abbia inteso circoscrivere l’oggetto dell’accertamento alla sola assoggettabilità del credito pignorato all’espropriazione forzata. In altre parole, l’ordinanza pronunciata in prima battuta dal giudice, quanto la sentenza che definisca l’eventuale opposizione, devono SOLO accertare l’esistenza del credito ai fini della possibile sua assegnazione, e dunque nei rapporti fra creditore e terzo, esaurendo i propri effetti all’interno del processo esecutivo e senza fare stato fra il debitore ed il terzo. Il che dovrebbe rendere irrilevanti criteri di giurisdizione, competenza e rito che avrebbero trovato applicazione qualora il giudizio fosse stato promosso dal debitore nei confronti del terzo. 71. L’intervento dei creditori L’intervento dei creditori, nell’espropriazione presso terzi, è soggetto alla stessa disciplina dell’espropriazione mobiliare presso il debitore, tenendo presente che in tal caso si considera tempestivo l’intervento avvenuto entro la prima udienza di comparizione delle parti: da intendersi come l’udienza indicata nell’atto di pignoramento e destinata alla dichiarazione del terzo, secondo l’opinione preferibile. 72. L’assegnazione o la vendita Una volta che, in seguito alla positiva dichiarazione del terzo o in seguito alla decisione del giudice, sia stata accertata l’esistenza della cosa o del credito, si tratta di stabilire come prevedere al soddisfacimento del creditore pignorante e di quelli eventualmente intervenuti. 1. Se il pignoramento riguarda una cosa mobile del debitore in possesso del terzo, troveranno applicazione le disposizioni in tema di assegnazione e vendita dettate per l’esecuzione mobiliare presso il debitore. 2. Allorché si tratti invece di crediti, è necessario distinguere: 
 - Se il credito è esigibile immediatamente o in un termine NON superiore ai 90 gg, il giudice l’assegna in pagamento, salvo esazione, ai creditori concorrenti, ovviamente tenendo conto delle rispettive cause di prelazione; 
 - Se invece il termine di esigibilità è maggiore, o si tratta di censi o rendite perpetue o temporanee, l’assegnazione è subordinata ad una richiesta concorde dei creditori, in mancanza della quale è necessario vendere il credito con modalità analoghe a quelle stabilite per la vendita forzata di cose mobili. Con riguardo all’ipotesi più frequente, rappresentata dall’assegnazione del credito in pagamento, deve precisarsi ch’essa avviene pro solvendo, nel senso che il diritto del creditore nei confronti dell’originario debitore non si estingue per effetto della sola assegnazione MA in seguito all’effettivo pagamento di quanto dovuto dal terzo: ciò significa che, in caso di mancata riscossione, nulla impedirebbe all’assegnatario di promuovere una nuova procedura esecutiva nei confronti del medesimo originario debitore. L’attuale formulazione dell’art. 548 lascia chiaramente intendere che il provvedimento di assegnazione costituisce titolo esecutivo nei confronti del terzo. Tuttavia, esso determina solamente un trasferimento coattivo del credito, senza far stato di per sé sull’esistenza del credito stesso: fermo restando, peraltro, che l’incontrovertibilità dell’esistenza del credito potrebbe derivare non solo dall’ordinanza o dalla sentenza che abbia risolto le relative contestazione ma anche, indirettamente, dall’irretrattabilità della dichiarazione positiva resa dal terzo. Sezione 4 : L’espropriazione immobiliare 73. Il pignoramento In base all’art.555 il pignoramento di beni immobili si esegue tramite la notificazione e successiva trascrizione di un atto contenente l’esatta indicazione dei beni e dei diritti assoggettati ad espropriazione, con gli estremi catastali richiesti dal codice civile per l’individuazione dell’immobile ipotecato, oltre alla consueta ingiunzione prevista. Ove si consideri che tale ingiunzione compete all’ufficiale giudiziario, si può pensare che l’atto in questione debba essere sottoscritto anche da lui: ed anzi dall’ufficiale del luogo in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione, indipendentemente dal luogo in cui viene eseguita poi la notifica. La giurisprudenza, tuttavia, sembra svalutare siffatto elemento, sul presupposto che la paternità dell’ingiunzione possa essere assunta dall’ufficiale tramite la mera notificazione dell’atto di pignoramento. Molto discusso poi è il rapporto fra la notificazione dell’atto di pignoramento e la sua trascrizione, alla quale l’ufficiale può provvedere tanto direttamente quanto tramite il creditore pignorante. Ci si chiede infatti se la trascrizione debba considerarsi un elemento costitutivo del pignoramento in esame o invece ne condizioni solo gli effetti nei confronti di terzi. Prevale comunque l’idea che, sebbene la notificazione del pignoramento dia inizio all’esecuzione forzata e produca sicuramente effetti nei confronti del debitore esecutato, il perfezionamento presupponga la sua trascrizione, in assenza della quale non potrebbe disporsi la vendita. Dopo la notifica del pignoramento, l’ufficiale deve consegnare senza ritardo al creditore l’originale dell’atto di pignoramento e la nota di trascrizione restituitagli dal conservatore dei registri immobiliari, affinché il creditore, entro i 15 gg successivi alla consegna, provveda a depositare nella cancelleria la nota di iscrizione a ruolo, unitamente a copie conformi del titolo esecutivo, del precetto, del pignoramento e della nota di trascrizione, e il cancelliere possa conseguentemente formare il fascicolo dell’esecuzione. Anche in tal caso, l’omesso o tardivo deposito dei predetti documenti FA venir meno l’efficacia del pignoramento. Si noti poi che l’art. 556 consente al creditore, quando appare opportuno che l’espropriazione avvenga unitariamente, di pignorare insieme con l’immobile anche i mobili che lo arredano: nel qual caso è previsto che l’ufficiale formi atti separati per l’immobile e per i mobili, ma poi li depositi insieme nella cancelleria. 74. L’intervento dei creditori Anche nell’espropriazione immobiliare si considera tempestivo l’intervento dei creditori che avvenga non oltre la prima udienza per l’autorizzazione della vendita; mentre per l’intervento tardivo gli artt. 565 e 556 lasciano intendere ch’esso debba comunque aver luogo prima dell’udienza di comparizione delle parti fissata per la discussione del progetto di distribuzione. I creditori eventualmente intervenuti tardivamente invece, subiscono una penalizzazione, SE chirografari, giacché concorrono solo alla distribuzione della somma che eventualmente sopravanzi dopo il soddisfacimento del creditore pignorante, dei creditori intervenuti tempestivamente e di tutti quelli intervenuti che siano titolari di diritti di prelazione: i quali ultimi, invece, conservano integri tali diritti di prelazione pure se intervenuti tardivamente. Sebbene l’art. 556 riferisca tale potere solo ai creditori iscritti o privilegiati, la giurisprudenza è dell’avviso che tutti i creditori eventualmente intervenuti TARDIVAMENTE siano abilitati, se muniti di titolo esecutivo, a compiere atti d’impulso dell’espropriazione. 75. La custodia dei beni pignorati Le disposizioni concernenti la custodia degli immobili pignorati mirano a favorirne ed agevolarne la successiva vendita. Il pignoramento costituisce automaticamente custode il debitore. Su istanza di un creditore però il giudice, sentito lo stesso debitore, può nominare custode una persona diversa: e deve farlo anche d’ufficio quando l’immobile non sia occupato dal debitore. Successivamente è sempre possibile che il custode venga sostituito, con ordinanza non impugnabile, in caso di inosservanza degli obblighi su di lui soccombenti. A prescindere da tale eventualità, comunque, se la custodia è attribuita al debitore, il giudice deve provvedere alla sua sostituzione con la stessa ordinanza con cui autorizza la vendita o dispone la delega delle relative operazioni, designando custode la persona incaricata di tali operazioni o l’istituto autorizzato alle vendite giudiziarie. La ratio di tale previsione può individuarsi nell’esigenza che il custode divenga un punto di riferimento per i soggetti interessati all’acquisto dell’immobile: laddove è ovvio che ben difficilmente potrebbe ottenersi collaborazione dal debitore esecutato, che di certo non ha alcun interesse a facilitare la vendita. In base ad una recente modifica dell’art. 560, peraltro, il debitore e i familiari con lui conviventi conservano il “possesso” dell’immobile e delle relative pertinenze fino alla pronuncia del decreto di trasferimento, spettando al custode nominato il dovere di vigilare affinché il bene sia conservato con diligenza del buon padre di famiglia e ne sia tutelata l’integrità. Il debitore, dal canto suo, non può dare in locazione l’immobile senza l’autorizzazione del giudice ed è tenuto a consentire ch’esso sia visitato dai potenziali acquirenti. Di regola quindi il rilascio dell’immobile può essere ordinato in seguito alla pronuncia del decreto di trasferimento: ed anzi a quel punto deve ritenersi obbligatorio. È tuttavia previsto che il giudice, sentiti il debitore ed il custode, anticipi il relativo provvedimento allorché l’immobile non sia abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare, qualora sia ostacolato il diritto di visita dei potenziali acquirenti, quando l’immobile, per colpa o dolo del debitore o della famiglia, non viene adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione o ancora quando il debitore viola altri obblighi posti dalla legge a suo carico. Tanto il debitore quanto il custode, poi, sono tenuti a presentare il rendiconto di gestione. 76. L’autorizzazione della vendita La disciplina della vendita immobiliare è considerevolmente più articolata e complessa rispetto agli altri procedimenti espropriativi, sicché in questa sede ci si limiterà ad esaminare gli aspetti più salienti. In primo luogo mette conto di rilevare il che creditore che presenta l’istanza di vendita ha l’onere di provvedere, entro i successivi 60 gg, alla produzione dell’estratto catastale dell’immobile nonché dei certificati concernenti le iscrizioni e trascrizioni intervenute nei 20 anni anteriori alla trascrizione del pignoramento: documentazione che serve ad accertare l’effettiva titolarità e la situazione giuridica del bene pignorato e che può essere rimpiazzata da un certificato notarile che attesti le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari. La proroga del suddetto termine è ammessa per giusti motivi, una volta soltanto e fino ad un massimo di ulteriori 60 gg, su istanza di qualunque creditore o dello stesso esecutato. Il giudice, inoltre, assegna di propria iniziativa al creditore un altro termine di 60 gg allorchè ritiene che la documentazione presentata debba essere completata. La conseguenza prevista per l’inadempimento di tale onere entro il termine indicato o prorogato è l’inefficacia del pignoramento, eventualmente limitata all’immobile per il quale non è stata depositata la prescritta documentazione: inefficacia che è dichiarata dal giudice, previa audizione delle parti, con ordinanza, cui fa seguito l’ordine di cancellazione della trascrizione del pignoramento. Se invece la documentazione viene tempestivamente prodotta, il giudice, nei successivi 15 gg, provvede alla nomina di un esperto, fissando anche la data dell’udienza di comparizione delle parti e dei creditori titolari di diritti di prelazione risultanti da pubblici registri. Tale esperto, dopo aver verificato la completezza della documentazione e segnalato eventuali lacune, redige, prima della suddetta udienza, una relazione di stima dell’immobile pignorato, che deve anche contenere una serie di elementi diretti ad agevolare il controllo e le valutazioni del giudice, delle parti e degli stessi soggetti interessati all’acquisto. La relazione dev’essere trasmessa dall’esperto ai creditori e al debitore, anche se non costituito, almeno 30 gg prima dell’udienza tramite PEC o se non è possibile telefax o posta ordinaria: e le parti possono, dal canto loro, depositare direttamente all’udienza delle note circa la relazione purché le abbiano preventivamente trasmesse all’esperto almeno 15 gg prima: nel qual caso l’esperto interviene poi all’udienza per rendere i chiarimenti opportuni. Qualora entro il predetto termine intervenga almeno un’offerta valida, il giudice deve indire una gara, fissando altresì il termine perentorio entro cui potranno essere formulate, con le stesse modalità e sempre nel rispetto del limite minimo di aumento del quinto, ulteriori offerte. A tale gara potranno partecipare non solo gli iniziali offerenti in aumento e l’aggiudicatario ma anche tutti coloro che, avendo preso parte al precedente incanto, abbiano integrato l’originaria cauzione entro il termine fissato dal giudice. Se però alla gara non partecipa alcuno degli offerenti in aumento, l’aggiudicazione diviene definitiva e l’importo della cauzione ch’essi avevano prestato resta definitivamente incamerato, come somma ricavata dall’esecuzione, a meno che non ricorra un documentato e giustificato motivo. Per quel che concerne poi l’aggiudicatario, egli è tenuto, a pena di decadenza dall’aggiudicazione e di perdita della cauzione, a versare il prezzo nel termine e nel modo stabiliti dall’ordinanza di vendita, documentando al cancelliere tale adempimento. A tale pagamento, peraltro, è espressamente previsto che possa provvedersi tramite la stipulazione di un contratto di mutuo, che preveda l’erogazione diretta dell’importo finanziato in favore della procedura e sia assistito da ipoteca di 1° sul medesimo immobile, la cui iscrizione dev’essere contestuale alla trascrizione del decreto di trasferimento. Una volta che il pagamento sia avvenuto, al giudice non resta che pronunciare il decreto con cui trasferisce il bene, ripetendo la descrizione dell’immobile contenuta nell’ordinanza di vendita e ordinando la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie su di esso gravanti, a meno che queste ultime non si riferiscano ad obbligazioni assunte dallo stesso aggiudicatario. Tale decreto contiene anche l’ingiunzione a rilasciare l’immobile all’acquirente e costituisce titolo esecutivo per il rilascio nei confronti di chiunque detenga il bene: a meno che ovviamente questi non possa vantare un diritto opponibile all’aggiudicatario. L’art. 586, peraltro, attribuisce al giudice l’incisivo potere discrezionale di sospendere la vendita allorché ritenga che il prezzo per cui è avvenuta l’aggiudicazione sia notevolmente inferiore a quello giusto. Tale norma mirava a porre rimedio ad eventuali interferenze illecite di cui il giudice potesse aver avuto sentore: ma si ritiene ch’essa sia, oggi, utilizzabile ogniqualvolta il prezzo di aggiudicazione si discosti considerevolmente dal valore effettivo ed attuale dell’immobile. 79. L’assegnazione e le ulteriori possibilità in caso di mancata vendita Fino a 10 gg prima della data d’udienza fissata per la vendita ciascuno dei creditori, pignorante o intervenuto, può presentare istanza di assegnazione dell’immobile pignorato per sé o a favore di un terzo, per l’eventualità che la vendita non abbia luogo. Di regola l’istanza deve contenere l’offerta di pagamento di una somma che non sia inferiore né all’importo determinato a norma dell’art. 506, né al prezzo base dell’immobile stabilito per lo specifico esperimento di vendita in relazione al quale l’istanza è presentata, a meno che non provenga dal creditore procedente, in assenza di altri creditori interventi o aventi comunque diritti di prelazione risultanti da pubblici registri; nel qual caso l’offerta può essere contenuta in una somma pari alla differenza fra il prezzo offerto per l’immobile e la sorte capitale del credito di cui l’istante è titolare, oltre alle spese (assegnazione c.d. satisfattiva). Se, essendo state presentate istanze di assegnazione, la vendita non riesce, il giudice provvede su di esse e, qualora ne accolga una, fissa il termine per il versamento dell’eventuale conguaglio, pronunciato, dopo che questo sia avvenuto, il decreto di trasferimento dell’immobile. Si noti che, laddove sia accolta un’istanza di assegnazione che era stata formulata a favore di un terzo, il creditore istante è tenuto, entro 5 gg dalla pronuncia in udienza del provvedimento di assegnazione o dalla sua comunicazione, a dichiarare in cancelleria il nome del terzo cui deve essere trasferito l’immobile, depositando anche la dichiarazione del terzo stesso di volerne profittare. In mancanza, il bene verrebbe trasferito allo stesso creditore. In mancanza di istanze di assegnazione o quando non ritenga di accoglierne alcuna, invece, il giudice ha 3 possibilità: 1. Ricorrere all’amministrazione giudiziaria dell’immobile, per un periodo non superiore a 3 anni; 2. Disporre la vendita all’incanto per il prezzo base anteriormente stabilito, qualora ritenga che tale modalità di vendita possa aver luogo ad un prezzo superiore di almeno il 50% rispetto a quel prezzo base; 3. Disporre un nuovo tentativo di vendita senza incanto, stabilendo eventualmente nuove forme di pubblicità e/o nuove condizioni di vendita nonché un prezzo base inferiore fino ad 1/4 rispetto a quello precedente. 
 In questo caso, il provvedimento deve anche assegnare un nuovo termine, compreso fra 60 e 90 gg per la presentazione delle offerte di acquisto. Se neppure il secondo tentativo di vendita ha successo e però vi sono domande di assegnazione, il giudice assegna senz’altro il bene al creditore o ai creditori richiedenti, fissando il termine per il versamento dell’eventuale conguaglio da parte dell’assegnatario. In assenza di domande di assegnazione, invece, si ripropongono al giudice le stesse opzioni prima indicate. 80. La possibile deroga delle operazioni di vendita Un istituto di grande rilievo pratico in grado di alleviare considerevolmente il lavoro del giudice e della sua cancelleria è quello che prevede la possibilità di delegare ad un notaio, ad un avvocato o ad un commercialista, iscritto in appositi elenchi, l’intero complesso di operazioni di vendita esaminate, riservando al giudice solo la pronuncia del decreto di trasferimento e dei provvedimenti accessori in esso contenuti. L’odierna formulazione dell’art. 591-bis prevede che anzi questa strada sia obbligatoria, salvo che il giudice, sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti. In particolare dal comb. disp. degli artt. 569 e 591-bis può dedursi che il giudice, quando utilizza tale istituto, deve limitarsi a stabilire, con l’ordinanza che dispone la vendita, accanto ai consueti elementi (con l’eccezione della determinazione del valore dell’immobile) il termine per lo svolgimento delle operazioni, le modalità della pubblicità, il luogo di presentazione delle offerte ed il luogo in cui si procederà all’esame delle offerte, alla gara e alle operazioni dell’eventuale incanto. È il professionista delegato, poi, che provvede a tutto il resto, cominciando dalla stessa determinazione del valore dell’immobile nonché degli adempimenti pubblicitari. Dunque, competono a lui tutti i provvedimenti relativi alla deliberazione sull’unica offerta o alla gara; le operazioni circa l’incanto e l’aggiudicazione provvisoria; i provvedimenti conseguenti alle offerte dopo l’incanto, all’inadempienza dell’aggiudicatario o al fallimento del precedente tentativo di vendita; la deliberazione sulle istanze di assegnazione. Allorché sia avvenuto il versamento del prezzo, inoltre, egli predispone il decreto di trasferimento da sottoporre alla firma del giudice e, successivamente alla pronuncia, cura tutte le formalità ad esso connesse. Nell’espletamento del suo incarico, il professionista agisce con ampia autonomia, ferma restando la possibilità ch’egli si rivolga a giudice per averne lumi e direttive, quando emergono difficoltà: nel qual caso, il giudice provvede con decreto, senza essere tenuto a sentire previamente le parti. Queste, dal canto loro, possono proporre ricamo sia contro il decreto del giudice su sollecitazione del professionista, sia direttamente contro gli atti di quest’ultimo (però solo DOPO ch’essi siano stati compiuti). Su tale reclamo, deciderà lo stesso giudice dell’esecuzione con ordinanza, contro la quale è esperibile il reclamo al collegio. Il giudice, inoltre, dopo aver sentito l’interessato, può revocare la delega delle operazioni di vendita allorché non vengano rispettati i termini e le direttive per lo svolgimento delle operazioni, salvo che lo stesso professionista dimostri che ciò è dipeso da causa a lui non imputabile. 81. La distribuzione del ricavato Allorché il ricavato della vendita debba essere ripartito fra più creditori, il giudice o il professionista provvede, non più tardi di 30 giorni dal versamento del prezzo, a redigere un progetto di distribuzione, eventualmente anche parziale, contenente la graduazione dei creditori concorrenti e a depositarlo in cancelleria, affinché possa essere consultato dai creditori stessi e dal debitore, fissando altresì l’udienza per l’audizione degli interessati, cui il provvedimento dev’essere comunicato almeno 10 gg prima dell’udienza stessa. Il progetto di distribuzione deve tener conto anche degli accantonamenti cui hanno diritto i creditori intervenuti privi di titolo esecutivo i cui crediti siano stati disconosciuti. Il giudice, peraltro, potrebbe disporre la distribuzione anche in favore di tali creditori o, al contrario, dei creditori che avrebbero diritto alla distribuzione delle somme ricavate nel caso in cui risultasse insussistente il credito del soggetto avente diritto all’accantonamento o oggetto della controversia distributiva. In entrambi i casi, è necessario che il creditore interessato fornisca una fideiussione irrevocabile, autonoma e “ a prima richiesta ”, rilasciata da uno dei soggetti a ciò abilitati e destinata ovviamente a garantire la restituzione delle somme che dovessero in seguito risultare percepite in eccesso. Se all’udienza il progetto viene approvato o comunque si raggiunge l’accordo delle parti, di tale circostanza si dà atto nel relativo verbale ed il giudice o il professionista possono dar corso alla distribuzione, ordinando il pagamento delle singole quote. Si consideri, a tal proposito, che la mancata comparizione alla prima udienza fissata per l’esame del progetto implica ex lege l’approvazione del progetto stesso. Se invece permangono contestazioni e il progetto non viene approvato, la relativa controversia c.d. distributiva dev’essere decisa nelle forme di cui all’art. 512. Sezione 5 : L’espropriazione contro il terzo proprietario 82. I presupposti Al di fuori dei casi in cui l’esecuzione forzata coinvolga un terzo per errore, vi sono ipotesi in cui l’espropriazione può colpire legittimamente i beni appartenenti ad un soggetto diverso dal debitore esecutato, che pertanto subisce l’azione esecutiva pur senza essere esso stesso il titolare passivo dell’obbligazione risultante dal titolo. L’art. 602 fa riferimento a 2 situazioni, a seconda che l’espropriazione riguardi 1. Un bene la cui alienazione è stata revocata perché compiuta in frode dei creditori oppure 2. Un bene gravato da pegno o ipoteca per debito altrui. 1. La prima ipotesi si realizza in conseguenza del vittorioso esperimento dell’azione revocatoria da parte dei creditori dell’alienante, i quali in tal modo ottengono che il trasferimento sia dichiarato inefficace nei loro confronti e possono così assoggettare il bene ad espropriazione come se appartenesse ancora al loro debitore, pur dovendo dirigere l’azione esecutiva contro il terzo acquirente. L’art. 2929-bis anzi prevede che, laddove si tratti di alienazione di beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, compiuta a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, l’esecuzione forzata possa essere esercitata prescindendo dal previo esperimento della revocatoria, a condizione che il pignoramento sia trascritto entro 1 anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole. 2. La seconda ipotesi, invece, si spiega col diritto di seguito che caratterizza il pegno e l’ipoteca e presuppone, evidentemente, che il terzo abbia acquistato il bene già gravato dal diritto reale di garanzia o che abbia egli stesso concesso il pegno o l’ipoteca a garanzia di un debito altrui. 
 Si consideri, inoltre, che l’acquirente del bene ipotecato potrebbe anche evitare l’espropriazione rilasciando il bene stesso ai creditori iscritti o liberandolo dalle ipoteche. La disciplina ora esaminata deve ritenersi applicabile quanto meno per analogia all’ipotesi dell’art. 189, in cui il creditore particolare di uno dei coniugi intenda agire esecutivamente, in via sussidiaria, sui beni della comunione legale, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Stando all’orientamento prevalente, infatti, tale norma consente al creditore di uno dei coniugi di chiedere il pignoramento per l’intero di qualunque bene della comunione legale e conseguentemente di soddisfarsi sull’intero ricavato della vendita o dell’assegnazione del bene stesso, con il solo limite rappresentato dal valore della quota idealmente spettante al debitore obbligato sul complesso dei beni della comunione legale; sicché la sua posizione corrisponde perfettamente, per l’appunto, a quella di un soggetto responsabile per un debito altrui. Ancora in relazione all’ipotesi del terzo acquirente v’è poi da aggiungere che l’implicito presupposto per l’applicazione degli artt. 602 ss. È che l’acquisto del terzo sia anteriore al pignoramento, o più esattamente, allorché si tratti di un bene immobile, che la relativa trascrizione sia anteriore alla trascrizione del pignoramento: sicché, se così non fosse, l’espropriazione sarebbe legittimamente diretta contro il solo debitore, e l’acquirente potrebbe tutt’al più far valere la sua successione nella titolarità del bene per contestare eventuali vizi della procedura esecutiva Una complicazione può aversi allorché nell’immobile oggetto del rilascio si trovino dei beni mobili appartenenti alla parte esecutata o ad un terzo, che non devono essere consegnati. L’art. 609 prevede che l’ufficiale intimi all’esecutato o al terzo di asportare tali beni entro un termine. Scaduto inutilmente, se la parte istante lo richiede, l’ufficiale deve determinare il presumibile valore di realizzo dei beni, eventualmente avvalendosi di uno stimatore, indicando anche le prevedibili spese occorrenti per la loro custodia e per l’asporto: se il valore è superiore a tali spese, l’ufficiale nomina il custode e lo incarica di trasportare altrove i beni per poi provvedere alla loro vendita senza incanto; altrimenti, se mancano l’istanza o l’anticipazione delle spese occorrenti e non appare evidente l’utilità del tentativo di vendita, i beni si considerano abbandonati e l’ufficiale ne dispone lo smaltimento o la distruzione. Fino alla vendita o allo smaltimento o alla distruzione, peraltro, il proprietario dei beni può sempre chiederne la riconsegna al giudice, previo pagamento delle spese e dei compensi per la custodia e l’asporto. Disposizioni specifiche sono poi dettate per l’ipotesi in cui si tratti di documenti inerenti lo svolgimento di attività imprenditoriale o professionale, oppure di cose sequestrate o pignorate. In quest’ultimo caso, infatti, l’ufficiale deve dare immediatamente notizia dell’avvenuto rilascio tanto al creditore che aveva richiesto il sequestro o il pignoramento, quanto al giudice dell’esecuzione, anche in vista dell’eventuale sostituzione del custode. CAPITOLO 8 : L’ESECUZIONE DEGLI OBBLIGHI DI FARE O NON FARE 88. Rilievi introduttivi Per comprendere i principali problemi sollevati dall’esecuzione degli obblighi di fare o non fare, è opportuno rammentare alcuni principi. 1. Con riguardo alla funzione e ai limiti generali dell’esecuzione forzata, è necessario tener presente ch’essa, traducendosi in un’attività di tipo sostitutivo e surrogatorio rispetto a quella che sarebbe richiesta al debitore, non è utilizzabile per l’attuazione di obblighi materialmente o giuridicamente infungibili. 2. Va ricordato poi che l’obbligo di non fare, in quanto tale, non è suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica, potendo invece giustificare, in caso di inosservanza, una condanna a disfare, cioè a distruggere, a spese dell’obbligato, ciò ch’era stato realizzato in violazione dell’obbligo. Spesso tuttavia il confine fra gli obblighi fungibili o infungibili può risultare sfumato, soprattutto quando la difficoltà di darvi attuazione in via d’esecuzione forzata sia soltanto materiale e parziale. Tale circostanza può forse spiegare perché questa forma di esecuzione si ritiene consentita, secondo l’opinione tradizionale, esclusivamente in presenza di un titolo esecutivo giudiziale: sul presupposto, evidentemente, che la fungibilità dell’obbligo debba essere valutata, in via preventiva, dal giudice della cognizione. 89. Il procedimento Il procedimento inizia, ovviamente dopo la notifica del titolo esecutivo e del precetto, con un ricorso al giudice dell’esecuzione, nel quale si chiede che siano determinate le concrete modalità dell’esecuzione. In queste ipotesi, infatti, il titolo esecutivo si limita solo a determinare l’obiettivo che il creditore ha diritto di conseguire in virtù dell’obbligo di fare o disfare imposto al debitore, senza stabilire invece come tale obiettivo deve essere raggiunto: il che, a seconda dei casi, potrebbe esigere attività piuttosto complesse, anche di natura non meramente materiale. Per quest’aspetto, quindi, sebbene l’art. 612 menzioni esclusivamente la designazione dell’ufficiale giudiziario che deve procedere all’esecuzione e delle persone che devono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella illegittimamente compiuta, l’opinione prevalente ammette che il giudice possa specificare e integrare il comando eventualmente generico contenuto nel titolo, optando anche tra le varie soluzioni che dovessero essere in astratto praticabili per realizzare l’obiettivo in esso indicato. Il vero problema consiste nell’individuare i confini concreti di tale potere, tenuto conto che si esclude che il giudice nel provvedere possa travalicare i limiti del titolo esecutivo, stabilendo modalità che si pongano con esso in contrasto. Il giudice decide di regola con ordinanza, dopo aver sentito la parte obbligata. Su istanza dell’ufficiale, inoltre, può impartire anche con decreto le opportune disposizioni occorrenti per superare le difficoltà sorte nel corso dell’esecuzione. In entrambi i casi, il provvedimento sarà soggetto al rimedio tipico dei provvedimenti del giudice, rappresentato dall’opposizione agli atti esecutivi. Più incerto, invece, è il regime del provvedimento laddove il giudice abbia risolto questioni attinenti all’interpretazione e alla portata del titolo esecutivo, cioè si assuma che, nel determinare le modalità di attuazione dell’obbligo, abbia comunque travalicato i propri poteri. Stando all’orientamento tradizionale, esso avrebbe carattere decisorio, in quanto investirebbe il diritto stesso di procedere ad esecuzione forzata e quindi, indipendentemente dalla forma concretamente adottata per la pronuncia, natura di sentenza appellabile. Di recente, invece, ha preso piede un diverso orientamento secondo cui il provvedimento avrebbe in ogni caso natura sommaria, in quanto equivarrebbe al provvedimento con cui si conclude la prima fase dell’opposizione all’esecuzione: sicché esso non sarebbe autonomamente impugnabile, mentre il rimedio sarebbe rappresentato dalla possibilità di instaurare il giudizio di merito a cognizione piena. 90. Le misure coercitive per l’attuazione di condanne non aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro L’art. 614-bis aveva introdotto una misura coercitiva di natura civile dalla portata piuttosto ampia, diretta ad assicurare l’esecuzione indiretta delle condanne aventi ad oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare, che non possono trovare attuazione tramite il processo esecutivo. Il d.l. 83/2015, poi, ha esteso enormemente l’ambito applicativo dell’istituto, stabilendo ch’esso può essere utilizzato per garantire l’attuazione di qualunque provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro: e quindi a fronte di obblighi di fare, non fare, di consegnare beni mobili o rilasciare beni immobili, indipendentemente dalla loro fungibilità o infungibilità. Più precisamente, l’art. 614-bis prevede che il giudice, con il provvedimento di condanna, fissi su richiesta di parte, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento: somma che è determinata tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato e prevedibile e di ogni altra circostanza utile. Il relativo provvedimento costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Si tratta, quindi, di un istituto che non ha nulla a che vedere con l’esecuzione forzata vera e propria, né interessa la sola esecuzione di obblighi di fare o disfare: si è invece in presenza di una misura coercitiva civile di carattere generale, mirante ad assicurare la collaborazione dell’obbligato per l’adempimento di qualunque obbligo che non abbia ad oggetto il pagamento di una somma di denaro. L’applicazione di tale misura coercitiva compete esclusivamente al giudice della cognizione: anzi a lettera della norma, induce a ritenere che l’imposizione della stessa debba aver luogo con lo stesso provvedimento di condanna cui accede, restando invece esclusa la possibilità di chiederne la pronuncia con un’azione successiva. Il che si spiega, probabilmente, in ragione del fatto che il giudice cui è richiesta la condanna all’adempimento di un determinato obbligo si trova nella posizione migliore per valutare l’an e il quantum della sanzione, alla luce degli elementi indicati nello stesso art. 614-bis. Il capo relativo all’applicazione di tale misura, inoltre, costituisce una statuizione accessoria rispetto alla condanna principale, concernente l’adempimento dell’obbligo di fare, non fare, consegnare o rilasciare: sicché, ogniqualvolta quest’ultima sia caducava dal giudice dell’impugnazione, ne resterà automaticamente travolta anche la condanna comminata per l’ipotesi dell’inadempimento e sorgerà il diritto alla ripetizione delle somme eventualmente pagate in esecuzione della sentenza riformata o cassata. I problemi interpretativi poi che si pongono in relazione a tale istituto sono molteplici. I principali sono 4: 1. Per quel che riguarda l’ambito di applicazione dell’art. 614-bis, occorre tener presente che ne restano espressamente escluse le controversie di lavoro subordinato, pubblico o privato, e quelle relative ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa: soluzione che può comprendersi ove si pensi alla naturale incoercibilità delle obbligazioni gravanti sul lavoratore, mentre appare meno scontata relativamente alle obbligazioni del datore di lavoro- imprenditore. 
 Ciò che colpisce, tuttavia, è che un’analoga esclusione non sia stata prevista per i rapporti di lavoro autonomo o professionale, per i quali si profilano esigenze analoghe dal punto di vista della tutela della dignità e della sfera di libertà del prestatore d’opera. 
 Questa discriminazione fa sorgere dubbi di illegittimità costituzionale. 2. Occorre chiarire come debba intendersi l’ulteriore limite interno indicato dal legislatore, per cui l’applicazione della misura coercitiva deve escluderei allorché sarebbe manifestamente iniqua: è proprio questo l’interrogativo più delicato suscitato dalla norma, soprattutto alla luce della sua formulazione attuale, che non distingue più fra obblighi fungibili e obblighi infungibili. 
 La premessa dalla quale occorre muovere, a tal proposito, è che il ricorso all’esecuzione c.d. indiretta (ossia alle misure coercitive), in tanto ha senso e può comunque giustificarsi, alla luce di un’accorta comparazione delle contrapposte esigenze in gioco, in quanto l’interesse del titolare del diritto leso non possa trovare piena e comoda realizzazione o soddisfazione per altre strade. 
 Un’altra importante indicazione può desumersi dall’art. 2058, per cui la reintegrazione in forma specifica può esser accordata al danneggiato, in luogo del risarcimento per equivalente, solo a condizione ch’essa non risulti eccessivamente onerosa per il debitore. 
 Alla luce di tali considerazioni, si può pensare che l’imposizione di una misura coercitiva debba essere negata quanto meno in 2 ipotesi: 
 - Quando l’adempimento dell’obbligo implicherebbe una penalizzazione eccessiva per il debitore, magari sacrificando anche un suo interesse non patrimoniale; 
 - Quando il facere si concreti in una prestazione dal carattere strettamente personale cui si contrappone, dal lato del creditore, un interesse di natura meramente patrimoniale, che può trovare piena soddisfazione nel risarcimento per equivalente. 3. Qualche perplessità, sotto il profilo della compressione che può derivare in danno del diritto di difesa del debitore, è legata al fatto che il provvedimento che impone la misura coercitiva ha efficacia di titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza successiva: infatti, qui, si è in presenza di una sorta di condanna in futuro dall’oggetto indeterminato, che l’attore vittorioso può porre in esecuzione in qualunque momento, adducendo semplicemente l’intervenuta violazione dell’obbligo assistito dalla misura coercitiva. Se è vero infatti che il debitore, laddove voglia contestare tale violazione, ha a propria disposizione il rimedio tipicamente offerto nei confronti di un’esecuzione ingiusta, cioè l’opposizione all’esecuzione, è pur vero che questo non lo pone affatto al riparo dal rischio di subire un pignoramento del tutto arbitrario dell’an o nel quantum, fondato esclusivamente sulle affermazioni del creditore. 
 Si osservi, poi, che l’art. 614-bis parla solo di violazione o inosservanza successiva e non anche del ritardo nell’esecuzione del provvedimento, distintamente menzionato nel primo periodo della stessa norma. Tale circostanza può quindi suggerire un’interpretazione restrittiva, che limiti l’esecutività della condanna in futuro alla sola violazione o inosservanza di provvedimenti recanti la condanna ad un non facere; tenuto anche conto che il risarcimento del danno da mero ritardo potrebbe sollevare, ad es., non lievi questioni legate all’accertamento dell’effettiva imputabilità del ritardo al debitore. 4. Diversi, infine, sono i dubbi connessi alla disciplina strettamente procedimentale dell’istituto. 
 Stando alla ricostruzione che appare preferibile l’istanza diretta all’applicazione dell’art. 614- bis costituisce una vera e propria domanda accessoria, che concorre a determinare il valore della causa, vincola il giudice quanto al limite massimo della relativa condanna, e deve tenere conto delle ordinarie preclusioni riguardanti per l’appunto la proposizione delle nuove domande, tanto più che l’accertamento dei relativi presupposti potrebbe rendere necessaria una specifica attività istruttoria. 
 Parallelamente, la statuizione che impone la misura coercitiva costituisce un capo di sentenza autonomo, ancorché accessorio rispetto a quello concernente la condanna all’adempimento dell’obbligo di fare o di non fare, suscettibile di inibitoria in sede d’impugnazione. 
 L’eventuale inibitoria della condanna principale, anzi, tenuto conto che le misure in questione ne presuppongono l’esecutività, dovrebbe definitivamente escludere, pure in caso di motivi, la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, che ovviamente impedisce di utilizzare quest’ultimo per avviare l’esecuzione. 2. Ad esecuzione già iniziata, invece, l’opposizione si propone sempre con ricorso allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti dinanzi a sé ed il termine perentorio entro cui l’opponente deve provvedere alla notificazione del ricorso e del decreto. Si noti poi che siffatta competenza del giudice ha un carattere del tutto provvisorio ed è giustificata dalla circostanza che l’opposizione si accompagna normalmente ad una richiesta di sospensione dell’esecuzione: richiesta sulla quale, per principio, spetta al giudice dell’esecuzione decidere. 
 Dopo questa primissima fase, che dovrebbe ridursi ad un’unica udienza, si passa al giudizio di cognizione vero e proprio, ed allora si torna ad applicare non solo i criteri ordinari di competenza ma anche lo specifico rito pertinente alla materia della causa. L’art. 616, in particolare, prospetta a tal proposito 2 ipotesi: 1. Se i criteri ordinari portano ad affermare la competenza dello stesso ufficio giudiziario (tribunale) cui appartiene il giudice dell’esecuzione, questi fissa un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione della materia e del rito, previa iscrizione a ruolo, a cura della parte interessata, osservati i termini a comparire dalla legge o altri se previsti, ridotti alla metà; 2. Se invece risulta competente un diverso ufficio giudiziario, il giudice deve rimettere ad esso la causa, assegnando un termine perentorio per la riassunzione della causa stessa. Sebbene la formulazione della norma sia ambigua, essa deve interpretarsi nel senso che, quantunque la causa concernente l’opposizione debba considerarsi già instaurata e pendente dal momento del ricorso introduttivo, la parte interessata è tenuta a dare nuovo impulso al relativo giudizio, entro il termine perentorio all’uopo assegnato dal giudice, vuoi (quando il giudizio sia di competenza dello stesso tribunale) con un atto introduttivo di forma adeguata al rito della causa, vuoi (se la competenza spetta ad altro ufficio giudiziario) tramite una comparsa di riassunzione. La ragione della necessità di un nuovo atto di impulso deve ricondursi all’eventualità che nessuna delle parti, alla luce dell’esito della preliminare fase inibitoria, si mostri interessata ad ottenere una sentenza sul merito dell’opposizione. Tale sentenza è soggetta a tutte le impugnazioni proprie della sentenza di 1°, e quindi anche all’appello: il che rappresenta una non lieve differenza rispetto alla sentenza che definisce l’opposizione agli atti esecutivi. 94. L’opposizione agli atti esecutivi L’opposizione agli atti esecutivi, riguardando il modo in cui si svolge l’esecuzione, può servire a contestare la regolare formalità del titolo esecutivo o del precetto, come pure la legittimità di qualunque altro singolo atto del processo esecutivo o provvedimento del giudice dell’esecuzione. Prescindendo da quest’ultimo caso, nel quale si può dire che l’opposizione operi come una sorta di impugnazione a critica libera, non è chiaro in quale senso debba intendersi il concetto di regolarità formale e se esso implichi la rilevanza anche di vizi che non sarebbero motivo di nullità in base ai principi desumibili dall’art. 156, non essendo previsti espressamente come tali né potendo precludere il raggiungimento dello scopo dell’atto. Considerato, peraltro, che l’art. 480 contiene un’elencazione dettagliata delle possibili cause di nullità del precetto, che non avrebbe senso se poi si attribuisse rilievo alla mera irregolarità dell’atto, è lecito pensare che l’inclusione di quest’ultima tra i possibili motivi di opposizione debba riguardare esclusivamente il titolo esecutivo e non anche tutti gli altri atti - a cominciare dalla stessa notificazione del titolo esecutivo e del precetto - che saranno censurabili solamente per nullità. A differenza dell’opposizione all’esecuzione, quella ora considerata è assoggettata ad un termine di decadenza di 20 gg, che decorrono: 1. Dalla notificazione del titolo esecutivo o del precetto, quando riguardino vizi propri di tali atti; 2. Dal primo atto di esecuzione, se attengono alla stessa notificazione del titolo esecutivo o del precetto o nei casi in cui, pur investendo direttamente il titolo esecutivo o il precetto, sia stato impossibile proporre l’opposizione prima dell’inizio dell’esecuzione; 3. Dal giorno del compimento dell’atto, allorché il vizio riguardi un diverso atto o provvedimento. In quest’ultima ipotesi, peraltro, la giurisprudenza più recente ritiene che il dies a quo si identifichi col momento in cui l’interessato acquisisce conoscenza effettiva dell’atto, o di un diverso e successivo atto che necessariamente lo presuppone: il che, tenuto conto della brevità del termine, può rendere talora assai problematica l’opposizione. Dovendo applicarsi anche al processo esecutivo la generalissima disposizione dell’art. 157, per cui le nullità sono di regola dichiarabili su eccezione della parte interessata, il rilievo d’ufficio di un vizio formale, da parte del giudice, può ammettersi solamente quando, in ragione della peculiare natura del vizio stesso, la nullità debba ritenersi prevista non già nell’interesse esclusivo delle parti, bensì a tutela del corretto esercizio della funzione giurisdizionale: nel qual caso, peraltro, deve pur ammettersi, per coerenza, che la rilevabilità d’ufficio sopravviva alla scadenza del termine per l’opposizione agli atti e possa condurre anche alla revoca o modifica del provvedimento che ne è affetto, finché quest’ultimo non abbia avuto esecuzione. Per quel che attiene al modo d’instaurazione del giudizio, vale anche per l’opposizione agli atti la distinzione basata sul momento in cui viene introdotta: qualora l’esecuzione non sia ancora iniziata, l’opposizione dev’essere proposta con un atto di citazione dinanzi al giudice, inteso come ufficio giudiziario, di regola coincidente col tribunale competente per l’esecuzione; altrimenti, si fa ricorso allo stesso giudice dell’esecuzione, inteso come magistrato-persona fisica. La disciplina di questa 2a ipotesi è analoga a quella dettata per l’opposizione all’esecuzione già iniziata: infatti, il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti e il termine perentorio entro cui tale decreto dev’essere notificato, insieme al ricorso, alle altre parti, e poi, all’udienza si limita a pronunciare con ordinanza i provvedimenti che ritiene indilazionabili o a sospendere la procedura, assegnando anche un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito ecc. Nella specie, peraltro, è previsto che il giudice, già col decreto di fissazione dell’udienza, possa dare, nei casi urgenti, i provvedimenti opportuni e la decisione della causa in ogni caso spetta al giudice dell’esecuzione, poiché è esclusa la rimessione ad un diverso ufficio giudiziario. Il giudizio è poi definito con sentenza non impugnabile, che naturalmente è però ricorribile per cassazione ed è altresì soggetta a regolamento di competenza. Resta da precisare, infine, che l’opposizione ora esaminata, rappresentando un rimedio di carattere generale rispetto all’illegittimità degli atti del processo esecutivo, è utilizzabile non solo dal debitore esecutato, MA anche da tutti i soggetti coinvolti in tale processo e quindi interessati al suo corretto svolgimento: i quali, anzi, laddove possano risentire effetti positivi o negativi dall’accoglimento dell’opposizione, si ritiene assumano la qualità di litisconsorti necessari nel relativo giudizio. 95. L’opposizione di terzo all’esecuzione L’espropriazione forzata, prescindendo dalle ipotesi in cui si dirige legittimamente nei confronti di un soggetto diverso dal debitore, può colpire per errore beni di proprietà di un terzo o sui quali un terzo vanti un diritto reale di godimento: nel qual caso, il terzo ha a propria disposizione una specifica opposizione esperibile senza particolari limiti temporali purché prima che l’esecuzione si concluda, cioè prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni, che non va confusa con le opposizioni di terzo-impugnazione, e che introduce un giudizio a cognizione piena avente ad oggetto il diritto affermato dall’opponente. Potrà comprendersi che non sempre l’opposizione ora considerata rappresenta per il terzo uno strumento esclusivo ed indispensabile: in alcuni casi, infatti, egli potrebbe anche agire in rivendica, successivamente alla conclusione del processo, direttamente nei confronti dell’acquirente o dell’assegnatario. Ciò non toglie, tuttavia, che il terzo ha sempre interesse ad evitare che i propri beni vengano coinvolti dall’espropriazione: sicché la scelta dell’opposizione mira proprio ad ottenere la sospensione dell’esecuzione, nel tempo occorrente perché si decida sull’esistenza del diritto ch’egli vanta sui beni pignorati. Se poi la sospensione non viene concessa o l’opposizione è proposta in un momento successivo alla vendita, il terzo può far valere il diritto sulla somma ricavata dalla vendita stessa. V’è da tener presente, inoltre, che l’art. 621, per proteggere i creditori da possibili accordi fraudolenti fra debitore e terzi, impedisce all’opponente di provare con testimoni il suo diritto sui beni mobili pignorati nella casa o nell’azienda del debitore, a meno che l’esistenza del diritto stesso sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal debitore o dal terzo. Si tratta quindi di una presunzione legale relativa di appartenenza al debitore di tutti i beni mobili esistenti presso la sua abitazione o azienda, che la giurisprudenza intende in modo molto rigoroso, ritenendola superabile solamente tramite un atto scritto, avente data certa anteriore al pignoramento, da cui risultino tanto il diritto di proprietà del terzo sui beni pignorati, quanto il titolo del loro affidamento al debitore esecutato. Per quel che riguarda il procedimento, esso ricalca quello dell’opposizione del debitore: sicché, tenuto conto che in questo caso si tratta di un’esecuzione necessariamente già iniziata, l’opposizione va proposta con ricorso al giudice dell’esecuzione, il quale fissa con decreto l’udienza di comparizione ed il termine per la notificazione del ricorso e dello stesso decreto. All’udienza, poi, è previsto che le parti possano raggiungere un accordo ed allora il giudice deve darne atto con ordinanza, adottando i provvedimenti diretti ad assicurare la prosecuzione o l’estinzione del processo, e statuendo nella 2a ipotesi anche sulle spese. Se invece l’accordo non viene raggiunto, il giudice provvederà anzitutto sull’istanza di sospensione e poi, a seconda che la competenza sul merito dell’opposizione spetti allo stesso ufficio giudiziario di cui egli fa parte o ad uno diverso, fisserà un termine per l’introduzione o la riassunzione del relativo giudizio. Un tema piuttosto delicato riguarda, poi, i rapporti fra l’opposizione dell’art. 619 e gli altri rimedi esperibili dal terzo nei confronti di un’esecuzione che illegittimamente lo coinvolga. Infatti, tale opposizione, stante il preciso riferimento all’esistenza di un diritto reale del terzo sui beni pignorati, parrebbe utilizzabile nei confronti della sola espropriazione e non anche quando la lesione del diritto del terzo derivi da un’esecuzione forzata in forma specifica, diretta alla consegna o rilascio oppure all’attuazione di obblighi di fare o disfare, o ancora quando sia illegittimamente leso un diritto personale del terzo. Quid iuris, ad es., se il terzo afferma di essere il reale possessore/deterntore dell’immobile per cui rilascio è stata avviata l’esecuzione? Dovrebbe distinguersi a seconda che il terzo intenda semplicemente contestare il diritto del creditore di procedere nei suoi confronti o se invece voglia rimettere in discussione la legittimità del titolo esecutivo alla cui formazione egli è rimasto estraneo. 1. Nel primo caso, il rimedio sarebbe offerto dall’opposizione all’esecuzione 2. Nel secondo caso, invece, la contestazione del titolo passerebbe necessariamente tramite la sua impugnazione con l’opposizione di terzo, ordinaria o revocatoria. Nella sua concreta applicazione, tuttavia, tale criterio distintivo appare inequivoco. Mentre è certo, infatti, che i terzi titolari di situazioni giuridiche dipendenti da quella accertata nel titolo esecutivo possono usufruire della sola opposizione di terzo, sempre che deducano il dolo o la collusione delle parti in loro danno e si tratta altresì di una sentenza passata in giudicato, i dubbi riguardano i terzi titolari di diritti autonomi ed incompatibili con quello risultante dal titolo, i quali, per un verso sono sottratti agli effetti del provvedimento reso fra le parti, e per altro verso possono avvalersi dell’opposizione ordinaria, ogniqualvolta abbiano comunque motivo di temere un pregiudizio dal provvedimento stesso. Non va trascurato, poi, che il titolo potrebbe non essere una sentenza e neppure un titolo giudiziale, sicché nei suoi confronti sarebbe esclusa a priori l’opposizione ordinaria e l’unico rimedio sarebbe offerto dall’opposizione all’esecuzione ogniqualvolta il terzo vantasse un diritto autonomo. Si può pensare, allora, che la necessità di avvalersi dell’opposizione ordinaria debba circoscriversi alle sole ipotesi in cui, basandosi l’esecuzione forzata su una sentenza, la contestazione del terzo miri dichiaratamente ad ottenerne la riforma anche fra le parti. CAPITOLO 10 : LA SOSPENSIONE E L’ESTINZIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO 96. Rilievi introduttivi sulla sospensione del processo esecutivo A differenza che nel processo di cognizione, nel quale dovrebbe rappresentare un evento piuttosto anomalo, la sospensione gioca un ruolo importante nell’ambito del processo esecutivo, perché serve ad evitare che un’esecuzione forzata ingiusta o illegittima determini una situazione non più reversibile in danno del debitore. La sospensione mira a coordinare il processo esecutivo alle varie parentesi di cognizione che su di esso possono innestarsi oppure all’autonomo giudizio in cui si discuta, in sede d’impugnazione, dell’esistenza del diritto risultante da un titolo di formazione giudiziale. Proprio perché è preordinata a fronteggiare il periculum rappresentato per il debitore dal compimento dell’esecuzione, essa svolge una funzione cautelare, che spiega alcuni aspetti della sua disciplina. Due autonome ipotesi di sospensione, entrambe meramente discrezionali, sono poi previste con riguardo alla sola espropriazione forzata: la prima si riferisce specificamente alla fase di alle parti, e l’estinzione viene dichiarata se neppure a tale udienza alcuna delle parti si presenta. Lo stesso art. 631 poi sottrae a questa disciplina l’udienza in cui ha luogo la vendita, lasciando così intendere che per dar corso alla vendita non occorre la presenza delle parti. 3. In altre ipotesi specificamente previste dalla legge: ad es. omesso o tardivo deposito della nota di iscrizione a ruolo. Sull’estinzione il giudice provvede con ordinanza, soggetta a reclamo al collegio - sia quando dichiari l’estinzione, sia quando rigetti la relativa eccezione - entro 20 gg dalla pronuncia in udienza o dalla comunicazione; ed il conseguente procedimento è definito in ogni caso in camera di consiglio con sentenza. Per la verità il reclamo è previsto espressamente solo nelle ipotesi n. 1 e 2. Considerato però che la Corte costituzionale in passato ha esteso il reclamo anche all’ordinanza dichiarativa dell’estinzione per rinuncia agli atti, esso deve ritenersi ammissibile anche l’ipotesi n.3. Tutt’altro discorso vale, invece, per le fattispecie di estinzione c.d. atipiche, di creazione giurisprudenziale: qui infatti si ritiene che il rimedio utilizzabile per far valere i vizi dei provvedimenti sia non il reclamo MA l’opposizione agli atti esecutivi. Gli effetti dell’estinzione sono diversi a seconda del momento in cui essa si verifica: 1. Qualora intervenga prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione (anche provvisoria), l’estinzione rende inefficaci tutti gli atti già compiuti; 2. In caso contrario, invece, l’aggiudicazione o l’assegnazione non ne vengono travolte e l’estinzione implica solo il diritto del debitore alla consegna della somma che ne è stata ricavata. Con l’ordinanza di estinzione il giudice deve anche disporre la cancellazione della trascrizione del pignoramento e provvedere alla liquidazione del compenso spettante al soggetto cui erano state eventualmente delegate le operazioni di vendita, nonché se richiesto, alla liquidazione delle spese sostenute dalle parti. Tenuto conto però che lo stesso art. 632 richiama l’art. 310, per cui le spese del processo estinto per inattività delle parti restano definitivamente a carico di coloro che le avevano anticipate, si ritiene che il diritto del creditore procedente e di quelli intervenuti al ristoro delle spese sopportate possa derivare esclusivamente da un accordo col debitore in occasione della rinuncia agli atti. CAPITOLO 11 : IL PROCEDIMENTO PER INGIUNZIONE 101. Caratteristiche generali Il procedimento per ingiunzione, introdotto nel 1922, è oggi il più importante fra tutti i procedimenti sommari, costituendo lo strumento tramite il quale trovano soddisfazione un grandissimo numero di diritto di credito, altrimenti destinati a passare tramite il processo ordinario o un processo a cognizione piena. In molti casi, e cioè quando il debitore non propone o non coltiva l’opposizione nei confronti del provvedimento sommario, tale procedimento fornisce rapidamente al creditore una tutela stabile e definitiva. Ciò che contraddistingue il procedimento in esame, altrimenti detto monitorio, è l’assoluto difetto del contraddittorio nella sua prima fase, molto semplice, che in realtà esaurisce il procedimento sommario propriamente detto. Qualora il giudice reputi fondata la domanda del creditore, tale fase si conclude con la pronuncia di un decreto, in cui viene ingiunto al debitore di pagare una certa somma di denaro entro il termine indicato nello stesso provvedimento, con l’avvertimento che nello stesso termine gli è consentito di proporre opposizione. Se il debitore, cui a questo punto il decreto dev’essere notificato, non reagisce proponendo tempestiva opposizione, il provvedimento acquista una stabilità del tutto analoga a quella di una sentenza passata in giudicato e comunque diventa titolo esecutivo. Se invece l’opposizione viene proposta, si apre una nuova e distinta fase processuale che ha la natura di un giudizio di 1° a cognizione piena, governato dalle regole ordinarie e destinato a concludersi con una sentenza, che prenderà ovviamente il posto del provvedimento sommario. 102. L’oggetto dell’ingiunzione e i relativi presupposti, con particolare riguardo alla prova scritta del diritto Il procedimento di ingiunzione è utilizzabile per le domande di condanna aventi ad oggetto: 1. Il pagamento di una somma di denaro liquida, cioè già compiutamente determinata o determinabile nel suo ammontare; 2. La consegna di una determinata quantità di cose fungibili; 3. O infine, la consegna di una cosa mobile determinata. L’ambito di applicazione quindi è davvero vasto, restando escluse solo le domande concernenti il rilascio di immobili o l’adempimento di obblighi di fare o disfare. Il presupposto essenziale però è che del diritto fatto valere si dia prova scritta, ossia che i fatti costitutivi del diritto risultino da una prova documentale. Per questo profilo si è soliti discorrere di un procedimento monitorio documentale, in contrapposizione ai sistemi in cui l’ingiunzione viene concessa esclusivamente in base alle allegazioni del creditore, senza alcuna verifica della fondatezza della pretesa. Il presupposto della prova scritta dovrebbe valere per tutti i fatti costitutivi, non essendo evidentemente concepibile, in tale procedimento, un’attività istruttoria diretta ad integrare la prova documentale offerta dal creditore. L’unica attenuazione di tale principio è prevista per il caso in cui il diritto posto a base della domanda d’ingiunzione dipende da una controprestazione o da una condizione: limitatamente a questi fatti infatti è sufficiente che il ricorrente fornisca una prova indiretta, offrendo elementi atti a far presumere l’adempimento della stessa controprestazione o l’avveramento della condizione. È subito il caso di sottolineare che il concetto dei prova scritta necessaria e sufficiente in sede monitoria è più ampio rispetto a quello che verrebbe in rilievo in un processo a cognizione piena, nel senso che, ai soli fini della pronuncia del decreto ingiuntivo, possono utilizzarsi anche dei documenti che non varrebbero come prova secondo le regole ordinarie e che talvolta provengono dallo stesso creditore. In particolare, la prova scritta può esser data: 1. Dalle polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e dai telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal c.c.; 2. Limitatamente ai crediti relativi a somministrazione di merci e di denaro o a prestazioni di servizi effettuate da imprenditori esercenti un’attività commerciale, dagli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dal c.c. o dalle leggi tributarie, purché bollate e vidimate e comunque tenute secondo le norme stabilite per esse. Si noti che i libri e le scritture contabili dell’impresa potrebbero eventualmente far prova in favore dell’impresa stessa solamente nei rapporti con altri imprenditori: ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo, invece, essi sono reputati sufficienti anche quando il credito sia vantato nei confronti di persone che non esercitano alcuna attività commerciale; 3. Per i crediti di una banca, dall’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido; 4. Per i crediti dello Stato, o di enti o istituti soggetti a tutela o vigilanza dello Stato, dai libri o registri della p.a., a condizione che un funzionario all’uopo autorizzato o un notaio ne attesti la regolare tenuta a norma delle leggi e dei regolamenti; 5. Trattandosi di crediti derivanti da omesso versamento di contributi previdenziali o assistenziali obbligatori inerenti a rapporti di lavoro, dagli accertamenti eseguiti dall’ispettorato del lavoro o dai funzionari degli enti creditori. Si ritiene, peraltro, che tali indicazioni abbiano un carattere meramente esemplificativo e che la prova scritta possa consistere, più in generale, in qualunque documento che sia intrinsecamente idoneo a dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto vantato, anche quando esso difetti dei requisiti formali che sarebbero necessari in un giudizio a cognizione piena. 103. Il regime di favore previsto per alcuni crediti Lo stesso art. 633 esenta implicitamente dal presupposto della prova scritta i crediti riguardati onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo, nonché quelli concernenti onorari o altri emolumenti spettanti ai notai a norma della loro legge professionali o ad altri esercenti una libera professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata. Per tali crediti la domanda d’ingiunzione dev’essere corredata dalla parcella delle spese e prestazioni, sottoscritta dal ricorrente nonché, di regola, dal parere del competente consiglio dell’ordine professionale di appartenenza, che evidentemente dovrebbe attestare la congruità degli importi richiesti per ciascuna delle prestazioni. Il parere infatti non è necessario allorché tali importi siano determinati in base a tariffe obbligatorie, stabilite cioè in misura fissa e non solo nei minimi e nei massimi. In questi casi, comunque, è chiaro che la domanda si fonda, per ciò che concerne la veridicità delle singole voci inserite nella parcella sulle affermazioni dello stesso creditore, che asserisce di aver compiuto determinate prestazioni o sostenuto determinate spese: potendosi semmai pensare che la prova scritta debba esser pur sempre fornita in ordine all’effettivo conferimento dell’incarico. Per il resto, invece, il giudice parrebbe vincolato tanto alla parcella quanto allo stesso parere dell’ordine professionale, cui deve attenersi nei limiti della somma domandata, salva la correzione degli errori materiali. 104. Il giudice competente e la domanda d’ingiunzione La competenza per la pronuncia del decreto ingiuntivo si determina, di regola, con riguardo ai consueti criteri di competenza: sicché essa spetta, a seconda dei casi, al giudice di pace o al tribunale in composizione monocratica che avrebbe dovuto conoscere della domanda proposta in via ordinaria. In aggiunta a tali criteri, il ricorrente, qualora si tratti di un credito relativo a prestazioni fornite in occasione di un processo, può adire anche l’ufficio giudiziario che ha deciso la causa cui il credito si riferisce. Gli avvocati e i notai, infine, possono altresì rivolgersi al giudice (giudice di pace o tribunale) competente per valore del luogo in cui ha sede il consiglio dell’ordine o il consiglio notarile di appartenenza. Quanto alla forma della domanda d’ingiunzione, essa va proposta con un ricorso, contenente i consueti requisiti prescritti dall’art. 125 nonché l’indicazione delle prove fornite a supporto dell’istanza. Un altro elemento importante, quantunque estraneo alla domanda vera e propria, è rappresentato, nei casi in cui il ricorrente possa stare in giudizio personalmente, dalla dichiarazione di residenza o elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito: ove essa manchi, le notificazioni dirette al ricorrente potranno essere eseguite presso la cancelleria. Se invece il ricorrente si avvale di un difensore con procura, è sufficiente che il ricorso contenga l’indicazione dello stesso, a meno che non si tratti di un giudizio che si svolge al di fuori della circoscrizione del tribunale cui l’avvocato è assegnato; nel qual caso l’elezione di domicilio nel luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario adito è ugualmente prescritta. Il ricorso dev’essere depositato in cancelleria unitamente ai documenti allegati, che non potranno essere ritirati prima della scadenza del termine accordato al debitore per l’opposizione. 105. Il possibile rigetto della domanda. Il contenuto del decreto ingiuntivo e la sua notificazione al debitore La fase propriamente sommaria del procedimento per ingiunzione è semplicissima, giacché l’unica attività che compete al giudice, una volta che il cancelliere gli abbia sottoposto il ricorso con la documentazione allegata, è quella di provvedere, accogliendo o rigettando la domanda. Il rigetto, in particolare, può aversi per qualunque ragione, processuale o di merito, che implicherebbe il rigetto della domanda di condanna proposta in via ordinaria: ad es. per la mancanza di un presupposto processuale, quale la giurisdizione o la competenza. Se però il giudice ritiene di non poter accogliere la domanda perché insufficientemente giustificata, cioè perché reputa non adeguata la prova fornita dal ricorrente, deve darne notizia a quest’ultimo tramite il cancelliere, invitandolo ad integrare la prova. In tal caso il rigetto viene pronunciato solo se il ricorrente non adempie all’invito né ritira il ricorso, o comunque quando il giudice ritiene di non poter accogliere la domanda neppure dopo l’integrazione. Si consideri, poi, che il rigetto NON ha alcun effetto preclusivo, non impendendo la riproposizione della domanda stessa né in via monitoria, né in via ordinaria. Se invece sussistono le condizioni per l’accoglimento, il giudice entro 30 gg dal deposito del ricorso (termine ordinatorio) ingiunge all’altra parte di pagare la somma o di consegnare la Sembra lecito quindi concludere che il giudizio di opposizione ha natura composita e un oggetto essenzialmente duplice: anzitutto, pur dando luogo ad un processo di 1°, opera come una vera e propria impugnazione del decreto pronunciato inaudita altera parte: nel contempo però introduce un ordinario processo di cognizione, avente ad oggetto quanto meno la domanda di condanna già posta a fondamento del ricorso per ingiunzione, nonché, eventualmente, le ulteriori domande ad essa connesse, secondo i principi che consentono il cumulo oggettivo e soggettivo di cause. 109. Le possibile relazioni con altri giudizi a cognizione piena (litispendenza, continenza e connessione) Se il più delle volte, essendo la decisone unitaria, la duplicità dell’oggetto del giudizio di opposizione non si fa neppure avvertire, talora invece emerge nettamente. Si considerano in particolare 4 casi: 1. L’ipotesi di incompetenza del giudice che ha pronunciato il decreto ingiuntivo; 2. Quella in cui la domanda di condanna avanzata in via monitoria sia già stata anteriormente proposta in via ordinaria dinanzi ad un diverso ufficio giudiziario, dando quindi luogo ad una situazione di litispendenza; 3. Il caso in cui la predetta domanda di condanna sia in relazione di continenza rispetto ad un’altra causa, anch’essa precedentemente proposta dinanzi ad un diverso ufficio giudiziario; 4. Le ipotesi, infine, in cui la domanda di condanna posta a base dell’ingiunzione sia semplicemente connessa ad un’altra domanda che è oggetto di un separato giudizio oppure, essendo proposta nello stesso giudizio di opposizione, esorbiti la competenza del giudice adito. In tutte queste situazioni, sebbene si tratti di un punto controverso, l’opinione prevalente muove dalle premessa che la competenza del giudice dell’opposizione in quanto tale sia una competenza funzionale, che non ammette deroghe per ragioni di connessione. Conseguentemente, si ritiene che a dover decidere sulla legittimità e validità del decreto, cioè sulla ricorrenza dei presupposti per la relativa pronuncia, sia sempre l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto, mentre quel che può eventualmente trasmigrare ad altro giudice è solo la causa avente ad oggetto il merito dell’ordinaria azione di condanna virtualmente cumulata nello stesso giudizio di opposizione. Questa premessa non implica problemi seri in relazione alle ipotesi ai punti n. 1 e 4. Nel primo caso, cioè quando il decreto ingiuntivo sia stato resto da un giudice incompetente, può tranquillamente ritenersi che il giudice dell’opposizione debba egli stesso revocarlo con sentenza e nel contempo rimettere al giudice competente la sola causa ordinaria concernente il merito della domanda. Nel secondo caso, poi, v’è da considerare che gli inconvenienti derivanti dalla trattazione separata di cause connesse, per quanto indesiderabili, sono gli stessi nei quali inevitabilmente ci si imbatte ogniqualvolta risulti per qualunque ragione inattuabile il simultaneo processo. Le maggiori perplessità riguardavano invece, in passato, i punti n. 2 e 3, per cui è solo la notificazione del ricorso e del decreto che determina la pendenza della lite. Quid iuris, infatti, se anteriormente a questa notificazione, sia stata proposta in via ordinaria una domanda soggettivamente ed oggettivamente identica a quella posta a base del ricorso oppure una domanda diversa ma in relazione di continenza rispetto ad essa? Prescindendo, in realtà, dall’eventualità che i due procedimenti pendano dinanzi allo stesso ufficio, la prima ipotesi è di scarso rilievo pratico perché presuppone che lo stesso creditore abbia proposto prima il ricorso e successivamente, senza attendere la pronuncia del decreto, abbia richiesto l’azione in via ordinaria ad un diverso giudice. La seconda ipotesi, invece, è ben più rilevante perché accade spesso che il debitore cerchi di prevenire l’azione del creditore proprio tramite l’instaurazione di un giudizio di accertamento negativo del credito, o di nullità, annullamento e risoluzione del rapporto da cui il credito deriverebbe: tutte fattispecie che la giurisprudenza prevalente suole ricondurre all’istituto della continenza di cause. La stessa giurisprudenza, in questi casi, era divisa fra la soluzione secondo cui la previa pendenza del giudizio ordinario avrebbe implicato la declaratoria di nullità del decreto ingiuntivo, dovendo il giudice dell’opposizione rimettere al giudice del processo preveniente la sola decisione della causa ordinaria di condanna, e quella che reputava invece utilizzabile la sospensione del processo di opposizione nell’attesa che si pervenisse al giudicato sulla causa anteriormente promossa. Qualche tempo fa però le Sezioni Unite hanno invertito la rotta, muovendo dalla premessa che la pendenza della causa introdotta dal ricorso per ingiunzione, una volta intervenuta la notificazione del ricorso e del decreto, debba farsi risalire alla data del deposito del ricorso stesso, e quindi affermando che nell’ipotesi ora considerata è il giudice della causa ordinaria a dover dichiarare la continenza in favore di quello adito in via monitoria. 110. La sua disciplina specifica Il processo instaurato dall’opposizione si svolge, in linea di principio, secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito. L’unica peculiarità, quanto alla fase introduttiva, riguarda la mancata o tardiva costituzione dell’attore-opponente, la quale non implica solo le conseguenze dell’art. 290, ma conduce all’improcedibilità dell’opposizione, che a sua volta rende immutabile il decreto ingiuntivo. Non pochi dubbi attengono poi all’applicazione di alcune disposizioni che disciplinano i poteri delle parti nell’ordinario procedimento dinanzi al tribunale. Tenuto conto, infatti, che nel giudizio di opposizione, la posizione processuale delle parti non coincide con quella sostanziale, giacché il creditore-opposto, formalmente convenuto, è in realtà colui che ha proposto la domanda di condanna in via monitoria, si discute soprattutto in relazione alla possibilità che l’opposto proponga, con la propria comparsa di risposta, domande riconvenzionali o comunque diverse da quelle poste a base del ricorso per ingiunzione. Sebbene la giurisprudenza sia di contrario avviso, la soluzione più corretta parrebbe quella di aver riguardo alla posizione FORMALE delle parti e di riconoscere al creditore-opposto tutti i poteri processuali che normalmente competono al convenuto, ivi incluso quello di proporre domande nuove oggettivamente connesse a quella originariamente dedotta in sede monitoria, quanto meno se rientranti nella competenza dello stesso ufficio giudiziario. In molti casi, poi, si tratterà di domande che il creditore non avrebbe potuto formulare col ricorso per ingiunzione, per difetto dei presupposti indicati dalla legge: sicché è irragionevole impedire che esse trovino ingresso nell’eventuale giudizio di opposizione e costringere il creditore stesso a farne oggetto di un giudizio separato. Analoga soluzione, poi, deve prospettarsi quanto alla chiamata di terzi, che naturalmente non vi è motivo di escludere nell’opposizione a decreto ingiuntivo. È lecito pensare, pertanto, che l’opponente, qualora intenda chiamare un terzo, cui ritiene comune la causa o dal quale pretende di essere garantito, possa e debba farlo già con lo stesso atto di opposizione: a meno che l’interesse all’intervento del terzo non derivi dalle difese svolte dal creditore-opposto nella propria comparsa di risposta. Per ciò che riguarda il creditore, invece, la chiamata deve intendersi regolata dall’art. 269, sicché dovrà essere richiesta nella stessa comparsa di risposta ed accompagnata dalla contestuale istanza di differimento di prima udienza, al fine di poter citare il terzo nel rispetto dei consueti termini minimi di comparizione. 111. L’esecutività provvisoria del decreto in pendenza del giudizio di opposizione Prescindendo dall’ipotesi in cui il provvedimento sia stato reso provvisoriamente esecutivo fin dall’origine, il decreto può acquistare efficacia di titolo esecutivo, di regola, solo in seguito al rigetto dell’opposizione o all’estinzione del relativo processo. Gli arti. 648 e 649 poi prevedono che il giudice dell’opposizione, in presenza di determinati presupposti, possa o talora debba per un verso concedere la provvisoria esecuzione nella pendenza del giudizio, e per altro verso sospendere l’esecutività che fosse stata già concessa ab initio. 1. Cominciando da questa 2a ipotesi, deve sottolinearsi che la formulazione dell’art. 649 parrebbe consentire, su istanza dell’opponente ed in presenza di gravi motivi, solamente la sospensione del processo esecutivo, e non anche la revoca dell’esecutività provvisoria del decreto, neppure quando quest’ultima fosse stata concessa per errore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge: la quale soluzione, tuttavia, è comprensibilmente contestata da una parte della dottrina e della giurisprudenza perché penalizza pesantemente il debitore, costringendolo a subire, fino all’esito del giudizio di opposizione, gli effetti negativi di un provvedimento illegittimo pronunciato in assenza di contraddittorio. 2. Per quel che concerne la 1a ipotesi, invece, l’art. 648 prevede, se il decreto non è già esecutivo, che il giudice, provvedendo già nella prima udienza: 
 - Debba concedere l’esecuzione provvisoria parziale limitatamente alle somme non contestate, a meno che l’opposizione sia stata proposta per vizi procedurali, che evidentemente prescindono dalla contestazione del credito vantato dal ricorrente; 
 - Possa concedere l’esecuzione provvisoria se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione; 
 - Debba concederla in ogni caso, infine, se l’istante offre cauzione per l’ammontare delle eventuali restituzioni, spese e danni. V’è da considerare, tuttavia, che sull’ultima ipotesi ha inciso una pronuncia della Corte costituzionale, per cui il giudice, anche se il creditore offre cauzione, conserva il potere di valutare, ai fini ella concessione della provvisoria esecuzione, gli elementi probatori, cioè quelli richiamati al punto n.2 al 2° - nonché la congruità della cauzione stessa. Pertanto, ove si prescinda dall’ipotesi della contestazione parziale del credito, l’elemento decisivo per la concessione della provvisoria esecuzione parrebbe rappresentato esclusivamente dal tipo di prova sulla quale si basa l’opposizione: dalla circostanza, cioè, che l’opponente non abbia fornito una prova documentale o comunque di pronta soluzione, da cui il giudice possa agevolmente desumere la fondatezza delle eccezioni o delle ragioni ch’egli ha addotto per contrastare la pretesa del ricorrente. In realtà, però, si ammette che l’ambito della cognizione del giudice, in relazione al provvedimento in esame, sia molto più vasto, dovendo egli verificare, tra l’altro: 1. Che la prova scritta offerta dal creditore sia a sua volta sufficiente a dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto; 2. Che l’infondatezza della pretesa creditoria non sia comunque desumibile dagli atti; 3. Che infine non sussistano gravi motivi per negare comunque la provvisoria esecutività, anche in considerazione del pregiudizio irreparabile che potrebbe derivarne al debitore. In questa prospettiva, allora, la stessa offerta di una cauzione da parte del creditore perde la propria originaria autonomia e diviene uno soltanto dei vari elementi che il giudice è chiamato a valutare nel bilanciamento dei contrapposti interessi. Da rilevare, infine, che per la concessione della provvisoria esecuzione, il legislatore prescrive la pronuncia di un’ordinanza non impugnabile: il che lascia intendere che il provvedimento non è neppure revocabile o modificabile. Non v’è motivo di escludere, invece che, in caso di rigetto, l’istanza diretta ad ottenere la provvisoria esecuzione o la sospensione della stessa potesse essere reiterata nel prosieguo del giudizio di opposizione, magari alla luce di nuovi fatti o di nuovi elementi istruttorii in esso acquisti; come pure parrebbe doveroso ammettere che la provvisoria esecuzione o l’inibitoria possano essere circoscritte ad una parte soltanto della somma per cui era stata pronunciata l’ingiunzione. 112. L’esito del giudizio di opposizione Al pari di ogni altro giudizio, quello di opposizione può concludersi per conciliazione, estinzione o sentenza definitiva. 1. In caso di conciliazione il giudice, con ordinanza non impugnabile, deve semplicemente adeguare il decreto ingiuntivo all’accordo raggiunto dalle parti, eventualmente riducendo la somma per cui era stata pronunciata l’ingiunzione e rendendo quest’ultima esecutiva, qualora non lo fosse già prima. Se interviene una riduzione del quantum, relativamente ad un decreto provvisoriamente esecutivo in base al quale il creditore aveva intrapreso l’esecuzione forzata, gli atti esecutivi già compiuti, al pari dell’ipoteca giudiziale eventualmente iscritta, restano validi fino a concorrenza della somma o quantità ridotta. 2. Se il giudizio di opposizione, invece, si estingue, il decreto ingiuntivo, che non sia già esecutivo, acquista efficacia di titolo esecutivo: quantunque non sia chiaro se ciò presuppone o no la definitività del provvedimento di estinzione. 3. Se il giudizio si conclude poi con sentenza, deve ritenersi che quest’ultima, sia essa di accoglimento o di rigetto dell’opposizione, si sovrapponga e sostituisca in ogni caso al decreto, con una relazione non troppo diversa da quella che correrebbe tra una sentenza di 2° e una sentenza di condanna di 1°. Pertanto: 
 - In caso di accoglimento totale dell’opposizione, il decreto, pure se provvisoriamente esecutivo, resta immediatamente caducato, indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza; 
 - Se l’opposizione viene integralmente rigettata, la relativa pronuncia equivale a sua volta ad 115. Caratteristiche generali Il procedimento per convalida di licenza o sfratto offre al locatore, che intenda agire per conseguire il rilascio dell’immobile locato, una possibile scorciatoia rispetto al processo ordinario. In esso, infatti, il locatore può sperare, qualora il conduttore non contrasti la domanda di rilascio o vi opponga delle eccezioni non supportate da prova scritta, di ottenere in maniera piuttosto rapida un provvedimento che gli consente di accedere al processo esecutivo. A differenza del procedimento per ingiunzione, però, quello che ci accingiamo ad esaminare inizia con un atto di citazione e dunque assicura, fin dal primo momento, un pieno contraddittorio fra le parti. La sua specialità e sommarietà, pertanto, va ricercata altrove ed in particolare nella circostanza che: 1. Se il convenuto omette di comparire alla prima udienza o non si oppone, il procedimento viene senz’altro definito con un’ordinanza non impugnabile, equivalente ad una sentenza di condanna esecutiva; 2. Se invece il conduttore compare e si oppone, il giudizio dee necessariamente proseguire nelle forme e con le garanzie del processo a cognizione piena, per essere definito con una sentenza, ma per intanto il giudice può pronunciare, in presenza di determinate condizioni, un’ordinanza non impugnabile di condanna al rilascio con riserva delle eccezioni del convenuto. 116. Le ipotesi in cui è esperibile Le azioni che possono esperirsi tramite il procedimento in questione sono 2: 1. Quella di rilascio per finita locazione 2. E quella di sfratto per morosità, che evidentemente implica una domanda di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento nel pagamento del relativo canone. 1. Relativamente alla 1a ipotesi, il locatore può agire non soltanto per intimare al conduttore lo sfratto, allorché il contratto sia già scaduto, ma pure in via preventiva, ossia prima ancora della scadenza del contratto, chiedendo in definitiva un provvedimento di condanna in futuro. 
 In tal caso, anzi, l’art. 657 gli consente di cumulare in unico contesto tanto la licenza quanto la citazione per la convalida dell’intimazione, i cui elementi non sono troppo diversi da quelli normalmente prescritti per l’atto introduttivo del processo ordinario.
 L’art. 659 prevede che il procedimento sia utilizzabile pure quando, trattandosi di un immobile il cui godimento costituisce il corrispettivo, anche parziale, di un contratto di prestazione d’opera, tale contratto venga a sua volta a cessare per qualunque causa. 
 Allorché sia intimato lo sfratto per morosità, invece, il locatore può anche chiedere, nel medesimo atto, che il giudice pronunci una separata ingiunzione per il pagamento dei canoni scaduti. 117. La fase introduttiva e la costituzione delle parti La competenza, per il procedimento di convalida, è attribuita inderogabilmente al tribunale del luogo in cui è ubicato l’immobile locato e coincide con quella, parimenti inderogabile, prevista in generale per tutte le cause in materia di locazione. L’atto introduttivo, poi, riveste la forma della citazione, che però presenta, rispetto alla disciplina ordinaria, le seguenti peculiarità (art.660): - Dal punto di vista del contenuto, non sono richiesti tutti gli elementi di cui all’art. 163, bensì solo quelli genericamente indicati nell’art. 125, integrati dall’invito a comparire nell’udienza indicata e dall’avvertimento che, in caso di mancata comparizione o di mancata opposizione, il giudice convaliderà la licenza o lo sfratto; - Il termine minimo di comparizione è di soli 20 gg liberi e, su istanza dell’intimante, può essere abbreviato fino alla metà dal presidente del tribunale, allorché si tratti di una causa che richiede pronta spedizione (cioè urgenza); - Per ridurre al minimo l’eventualità che l’intimazione non pervenga materialmente a conoscenza del conduttore, per un verso è esclusa la possibilità ch’essa sia notificata presso il domicilio eletto, e per altro verso, se l’atto non viene consegnato nelle mani proprie dell’interessato, è prescritto che l’ufficiale giudiziario avverta quest’ultimo dell’avvenuta notifica tramite lettera raccomandata, la cui ricevuta dev’essere poi allegata all’originale dell’atto. Per quel che concerne la costituzione delle parti, infine, si prescinde completamente dalla disciplina ordinaria, dal momento ch’essa può avvenire, analogamente a ciò ch’è previsto per il procedimento dinanzi al giudice di pace, tanto in cancelleria quanto direttamente all’udienza. In questa prima fase del processo, anzi, il conduttore convenuto non ha neppure bisogno di una formale costituzione giacché, qualora voglia opporsi alla convalida e compiere le altre attività, può farlo comparendo personalmente all’udienza. Dal che può dedursi, altresì, che non trovano neppure applicazione in tale fase, le preclusioni previste dall’art. 167. 118. I possibili esiti : in caso di mancata comparizione del locatore Qualora il locatore ometta di comparizione all’udienza fissata, l’art. 662 laconicamente prevede che gli effetti dell’intimazione cessano: il che significa che il procedimento viene definito in mero rito, indipendentemente dalla circostanza che il conduttore sia o no comparso. Deve ritenersi, peraltro, che la mancata comparizione del locatore non possa far venir meno gli effetti sostanziali della licenza eventualmente contenuta nell’atto introduttivo, che conserverà, comunque, la propria idoneità ad impedire la rinnovazione del contratto. 119. In caso di mancata comparizione o non opposizione del conduttore Se il conduttore non si presenta all’udienza o vi compare e non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto con ordinanza scritta in calce alla stessa citazione, disponendo che su di essa venga apposta la formula esecutiva: a meno che, non essendo l’intimato comparso, risulti o appaia comunque probabile, anche indipendentemente dai vizi della citazione o della relativa notificazione, ch’egli non abbia avuto conoscenza della citazione o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore. Quando si tratti di sfratto per morosità, però, la convalida è subordinata alla circostanza che il locatore, anche tramite il proprio difensore, attesi in giudizio che la morosità persiste; nel qual caso il giudice può anche imporgli la prestazione di una cauzione. In mancanza di tale attestazione, e a fortiori quando il locatore dia atto che i canoni sono stati nel frattempo pagati, lo sfratto non può essere convalidato e il procedimento può solo proseguire nelle forme ordinarie, qualora l’attore insista nel chiedere la risoluzione per inadempimento. Sempre in relazione allo sfratto per morosità, l’art. 664 prevede che, se l’attore l’aveva richiesto nell’atto introduttivo, il giudice pronunci un separato decreto d’ingiunzione, steso in calce ad una copia dell’atto di intimazione, che costituisce titolo immediatamente esecutivo per l’ammontare dei canoni già scaduti e di quelli a scadere fino all’effettiva esecuzione dello sfratto, nonché per le spese concernenti l’intimazione. Questo provvedimento è impugnabile nelle forme e con le modalità previste per l’opposizione a decreto ingiuntivo, ma senza che l’impugnazione possa incidere sull’avvenuta risoluzione del contratto. Per quel che concerne la natura del provvedimento di convalida, mentre l’ipotesi della non opposizione parrebbe costituire una fattispecie in cui il legislatore eccezionalmente conferisce un autonomo rilievo al riconoscimento della domanda, non altrettanto può dirsi in relazione all’ipotesi della mancata comparazione. In questo caso, per la verità, la prevalente dottrina ritiene che il giudice, prima di convalidare la licenza o lo sfratto, debba verificare non solo la sussistenza dei presupposti processuali di ordine generale e delle altre specifiche condizioni, MA ANCHE la fondatezza della domanda: ad es. con riferimento alla natura del contratto dedotto in giudizio. Ciò non toglie, tuttavia, che si tratterebbe di una verifica compiuta allo stato degli atti, senza un vero e proprio accertamento del diritto al rilascio: anche e soprattutto perché il conduttore, poi, ha ben poche chances di porre rimedio agli eventuali errori ed omissioni del giudice tramite l’impugnazione. Sembra doveroso ammettere, quindi, che l’ordinanza di convalida costituisce, quanto meno nell’ipotesi ora considerata, un provvedimento schiettamente sommario. Da notare, infine, che, sebbene l’art. 663 non lo preveda, si ritiene che l’ordinanza di convalida debba pronunciare anche in ordine alle spese del procedimento: il che pone ovviamente il problema di assicurare l’impugnabilità della relativa statuizione. 120. In caso di opposizione del conduttore Se l’intimato compare all’udienza e si oppone alla convalida, quest’ultima resta esclusa e il processo deve proseguire secondo le regole proprie del giudizio ordinario a cognizione piena, affinché la domanda del locatore sia decisa con sentenza. Tenuto conto, anzi, che nella specie, trattandosi di controversie in materia di locazione, trova applicazione lo speciale rito di cui all’art. 447-bis, l’art. 667 stabilisce che il giudice deve disporre, con ordinanza, il mutamento del rito, fissando conseguentemente l’udienza di discussione e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione dei rispettivi atti introduttivi. Prima che si addivenga a questo provvedimento, è però prevista la possibile pronuncia di 2 distinti provvedimenti anticipatorii, idonei ad attribuire immediatamente al locatore un titolo esecutivo, in un caso per il pagamento di una parte dei canoni e nell’altro per il rilascio dell’immobile. 1. La prima ipotesi, disciplinata dall’art. 666 e concernente il solo sfratto per morosità, ricorre quando l’intimato neghi la propria morosità contestando soltanto l’ammontare della somma pretesa dal locatore, e dunque implicitamente ammettendo di essere in parte inadempiente. 
 In tale situazione, ricorrendo una parziale non contestazione per un verso resta esclusa la convalida dello sfratto, e per altro verso, tuttavia, il giudice può disporre con ordinanza il pagamento della somma non controversa, concedendo al conduttore un termine non superiore a 20 gg perché vi provveda e fissando una nuova udienza successiva alla scadenza di detto termine. A tale udienza, poi, se l’ordine è rimasto inadempiuto, convaliderà l’intimazione di sfratto, pronunciando l’ulteriore provvedimento d’ingiunzione relativo al pagamento dei canoni. 2. La seconda ipotesi, più rilevante, si ha quando l’opposizione dell’intimato si concreti nella proposizione di eccezioni non fondate su prova scritta: in questo caso il giudice, su istanza del locatore e purché non sussistano gravi motivi, può pronunciare ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto, che è immediatamente esecutiva, non risente dell’eventuale successiva estinzione del giudizio, e può essere eventualmente subordinata alla prestazione di una cauzione per i danni e le spese. 
 Il legislatore sembra implicitamente presupporre, insomma, che i fatti costitutivi del diritto vantato dal locatore siano non controversie o risultino assistiti da una prova scritta: ed allora, di fronte ad eccezioni del convenuto che esigerebbero l’assunzione di prove costituende, consente la pronuncia di una condanna sommaria con riserva di tali eccezioni, fondata su una cognizione eventualmente incompleta e su una valutazione ampiamente discrezionale. Il che solleva gravi dubbi d’illegittimità costituzionale. 121. L’opposizione tardiva e gli altri rimedi nei confronti dell’ordinanza di convalida Come per il decreto ingiuntivo non opposto, o divento esecutivo per improcedibilità o estinzione del giudizio di opposizione, l’opinione dominante riconosce all’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto la piena attitudine al giudicato sostanzialmente equiparandola ad una sentenza costitutiva di risoluzione del contratto per inadempimento e/o di condanna al rilascio. Con specifico riferimento allo sfratto per morosità, gli arti. 664 e 669 lasciano intendere che la convalida determina senz’altro la risoluzione del contratto. Stando all’art.668, inoltre, l’unico rimedio idoneo a caducare l’ordinanza di convalida è rappresentato dall’opposizione c.d. tardiva, ammessa solo quando l’intimato provi di non aver avuto tempestiva conoscenza dell’intimazione per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore, o di non essere potuto comparire all’udienza per caso fortuito o forza maggiore. Tale opposizione, esperibile comunque non oltre 10 gg dall’inizio dell’esecuzione forzata per rilascio, instaura un giudizio a cognizione piena ed esauriente e si propone con le stesse forme prescritte per l’opposizione al decreto di ingiunzione, in quanto applicabili: tenendo presente che questo giudizio è soggetto alla speciale disciplina dell’art. 447-bis. La proposizione dell’opposizione non fa venir meno, di per sé, l’esecutività dell’ordinanza di convalida, ma consente al giudice, in presenza di gravi motivi, di disporre, con ordinanza non impugnabile, la sospensione del processo esecutivo, eventualmente subordinata, qualora lo ritenga opportuno, alla prestazione di una cauzione da parte dell’opponente. V’è subito da aggiungere però che la non impugnabilità del provvedimento di convalida è stata in parte ridimensionata tanto sul piano strettamente interpretativo, quanto in conseguenza di alcuni interventi della Corte costituzionale. racchiusa negli artt. 677-679 ed ispirata, per quel che riguarda il sequestro conservativo, alle forme del pignoramento: conseguenza del fatto che tale misura cautelare mira ad anticipare il vincolo d’indisponibilità che deriverebbe dall’inizio dell’espropriazione forzata. Qualora si tratti di beni mobili, quindi, trovano applicazione, a seconda dei casi, le norme relative al pignoramento presso il debitore o presso terzi: e in questo secondo caso, il creditore sequestrante deve, con lo stesso atto di sequestro, citare il terzo a comparire dinanzi al tribunale del luogo in cui risiede, per rendere la dichiarazione prevista dall’art. 547. Se tale dichiarazione, però, viene omessa o è oggetto di contestazioni, sicché deve procedersi all’accertamento dell’obbligo del terzo, il relativo giudizio resta di regola sospeso fino alla conclusione del giudizio di merito, a meno che non sia il terzo a chiedere l’accertamento immediato. Se poi oggetto del sequestro sono beni immobili o mobili registrati, la misura cautelare si esegue semplicemente mediante trascrizione del provvedimento autorizzativo, rispettivamente presso la conservatoria dei registri immobiliari del luogo in cui i beni si trovano oppure, negli altri casi, nei diversi registri previsti dalla legge. In ogni caso il sequestro conservativo, al pari di quello giudiziario, dev’essere eseguito entro 30 gg dalla pronuncia del provvedimento autorizzativo, che altrimenti diverrebbe inefficace. Altre specifiche disposizioni contemplano la possibile revoca del sequestro qualora il debitore presti idonea cauzione per l’ammontare del proprio debito e delle spese, nonché la vendita delle cose deteriorabili, con il trasferimento del vincolo del sequestro sul relativo ricavato. Invece, ove si prescinda da una norma che richiama, per il solo sequestro su beni mobili, l’art. 610 - che attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di risolvere le difficoltà sorte nel corso del procedimento che non ammettono dilazione - manca una disciplina autonoma delle varie questioni e contestazioni cui può dar luogo la fase di attuazione della misura cautelare. Su questo problema dovrà tornarsi più avanti con riguardo alla normativa comune agli altri provvedimenti cautelari. 126. Gli effetti In base all’art. 2906 c.c. non hanno effetto in pregiudizio del creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata, in conformità delle regole stabilite per il pignoramento. Gli effetti sostanziali del sequestro conservativo sono quindi identici a quelli del pignoramento e tuttavia, dal punto di vista soggettivo, operano solo a favore del creditore sequestrante. Ciò significa che, mentre il pignoramento crea un vincolo c.d. a porta aperta, dal quale possono trarre vantaggio non solo il creditore pignorante, ma anche tutti gli altri creditori che partecipano al processo esecutivo, il sequestro determina un vincolo a porta chiusa, nel senso che l’inefficacia relativa dell’eventuale atto di disposizione giova esclusivamente al creditore che aveva eseguito il sequestro e consente solo a lui, quindi, di espropriare successivamente il bene sequestrato come se appartenesse ancora al debitore. D’altronde, il sequestro conservativo serve ad anticipare il pignoramento, poiché mira in definitiva ad assicurare la fruttuosità di una futura espropriazione forzata: ed è quindi logico ch’esso si converta in pignoramento nel momento in cui interviene, a favore del creditore sequestrante, una sentenza di condanna esecutiva, anche se non passata in giudicato, ovviamente entro i limiti in cui la domanda del creditore sia risultata fondata. Stando all’opinione prevalente questa conversione si realizza ipso iure: anche se il sequestrante è poi tenuto, entro il termine perentorio di 60 gg dalla comunicazione della sentenza e per evitare che il processo esecutivo si estingua, a depositare copia della sentenza stessa nella cancelleria del giudice competente per l’esecuzione nonché, quando il sequestro riguardi beni immobili, a chiederne l’annotazione in margine alla trascrizione del provvedimento che aveva autorizzato la misura cautelare. 127. Il sequestro giudiziario di beni La prima e più diffusa forma di sequestro giudiziario dovrebbe servire, stando alla lettera dell’art. 670, a tutelare il diritto di proprietà o il possesso di beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni. È opinione consolidata, poi, che il termine “possesso”, in tal caso, debba intendersi in senso atecnico, per indicare tutte le ipotesi in cui è controverso un diritto, anche di natura meramente personale e non reale, alla consegna o alla restituzione di uno dei predetti beni e quindi ogni fattispecie in cui il provvedimento cautelare sia strumentale ad una domanda di condanna - ancorché subordinata all’accoglimento di una diversa azione alla consegna o al rilascio. Anche per il sequestro giudiziario il fumus boni iuris dev’essere apprezzato, in assenza di disposizioni specifiche, tenendo conto della sommarietà della cognizione propria di tutti i provvedimenti cautelari. Quanto al periculum in mora, invece, il discorso è più complesso perché l’art. 670 ne fornisce un’indicazione meramente indiretta e generica, facendo riferimento all’opportunità di provvedere alla custodia o alla gestione temporanea dei beni sequestrati. Dunque, possono venire in rilievo tanto il pericolo di distruzione, deterioramento o cattiva gestione del bene, quanto il rischio di alienazione del bene di cui è controversa la proprietà o il possesso. Questa seconda ipotesi, peraltro, è prospettabile prevalentemente in relazione ai beni mobili, cui è applicabile il noto principio dell’art. 1153 c.c., che tutelerebbe l’eventuale acquirente in buona fede. Per quel che riguarda gli immobili ed i mobili registrati, invece, il rischio è spesso prevenibile, più semplicemente, tramite la trascrizione della domanda giudiziale con cui si fa valere il diritto sul bene: sempre che si tratti di una domanda trascrivibile. Il punto più delicato semmai riguarda la valutazione dell’opportunità della custodia o della gestione temporanea, che evidentemente, in assenza di ulteriori indicazioni normative, consente al giudice un margine di discrezionalità assai ampio: tant’è che non di rado si è affermato che ad integrare il periculum in mora sarebbe sufficiente una possibilità del tutto astratta che si verifichi il pregiudizio paventato dal ricorrente. Il che, tenendo presente che anche la scelta del custode è ampiamente discrezionale, fa sì che l’istituto si presti a qualche eccesso ed operi in qualche caso, di fatto, come un vero e proprio provvedimento anticipatorio. Per quel che riguarda il contenuto del provvedimento, poi, v’è anzitutto da precisare che il sequestro giudiziario, a differenza di quello conservativo, si dirige fin dal principio, ovviamente, nei confronti di uno o più beni determinati, dei quali il ricorrente aspira alla consegna o al rilascio. Il provvedimento autorizzativo del sequestro, inoltre, deve sempre designare il custode stabilendo anche, a seconda dei casi ed ove occorra, i criteri e i limiti dell’amministrazione delle cose sequestrate e le particolari cautele idonee a render più sicura la custodia e a impedire la divulgazione dei segreti. La scelta del custode è rimessa alla discrezionalità del giudice, il quale può scegliere non solo un terzo ma anche quello fra i 2 contendenti che offre maggiori garanzie e dà cauzione, che potrebbe dunque coincidere con la stessa parte che aveva richiesto la misura cautelare. In tale eventualità, il ricorrente consegue di fatto dal sequestro un’utilità non troppo diversa da quella che gli verrebbe dall’esecuzione di una sentenza di accoglimento della domanda di consegna o rilascio. Le prerogative del custode, chiunque esso sia, sono disciplinate in generale dagli artt. 65 ss., nonché, a seconda che si tratti di beni mobili o immobili, dagli artt. 521, 522 e 560. Egli quindi, tra l’altro, ha diritto al compenso per la propria attività, almeno quando sia soggetto diverso da una delle parti, si ritiene sia legittimato a stare in giudizio per tutte le azioni che direttamente riguardano la custodia o l’amministrazione dei beni sequestrati, risponde civilmente e penalmente dell’inosservanza degli obblighi di custodia, ed è tenuto infine alla presentazione del rendiconto. 128. Il sequestro giudiziario di cose con funzione probatoria Il secondo tipo di sequestro giudiziario, contemplato dall’art. 670, può riguardare qualunque cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, che quindi viene in rilievo non come bene provvisto di un determinato valore economico ma quale fonte materiale di prova. È chiaro quindi che tale sequestro è strumentale rispetto al diritto alla prova e mira a prevenire ogni possibile alterazione materiale o dispersione giuridica (alienazione) degli oggetti sequestrati. La questione più delicata e discussa, invece, attiene all’interpretazione dell’inciso per cui la misura cautelare ora considerata è utilizzabile quando è controverso il diritto all’esibizione o alla comunicazione : questione che investe quindi i rapporti con l’istituto dell’esibizione. Sebbene ciò significhi restringere notevolmente l’ambito di applicazione del sequestro in esame, la tesi che appare più persuasiva è quella che ne limita l’esperibilità alle sole ipotesi in cui sia configurabile, sul piano sostanziale, un vero e proprio diritto all’esibizione del documento o della cosa da cui si vorrebbero desumere elementi di provato comunque un diritto reale o personale su di essi. Se così non fosse, infatti, è chiaro che il ricorso al sequestro dovrebbe ammettersi per il solo fatto che l’ordine di esibizione dell’art. 210 sia rimasto inadempiuto, e servirebbe ad assicurarne, seppure indirettamente, l’attuazione in via coattiva. 129. L’esecuzione e gli effetti del sequestro giudiziario Per quel che concerne l’esecuzione del sequestro giudiziario, l’art. 677 rinvia agli artt. 605 ss, in quanto applicabili, e quindi, a seconda della natura del bene, alle forme dell’esecuzione per consegna o rilascio, escludendo in ogni caso, peraltro, la necessità della precisa notificazione dell’atto di precetto. Il preavviso di rilascio prescritto, inoltre, è richiesto nella sola ipotesi in cui il custode non sia lo stesso detentore dell’immobile. Il sequestro giudiziario si attua, in definitiva, con l’immissione del custode nel possesso dei beni sequestrati. Se si tratta di beni mobili, ciò non può che implicare la loro materiale apprensione; nel caso di immobili, invece, la trasmissione del possesso al custode non esclude che la mera detenzione del bene venga lasciata alla parte destinataria del provvedimento di sequestro o al terzo che l’esercitava anteriormente. In tal senso depongono, infatti, sia l’art. 608, per cui l’esecuzione per rilascio si compie ingiungendo agli eventuali detentori di riconoscere il nuovo possessore, sia l’art. 677, che contempla l’ipotesi in cui il bene sia detenuto da un terzo e prevede che il giudice, con lo stesso provvedimento autorizzativo del sequestro o successivamente, possa ordinare al terzo di esibire il bene sequestrato o di consentire l’immediata immissione in possesso del custode. Nulla dispone il codice, invece, per l’eventualità in cui sia nominato custode la stessa parte che già si trovava nella detenzione del bene: e poiché nella specie non avrebbe senso applicare le disposizioni concernenti l’esecuzione per consegna o rilascio, sembra preferibile escludere la necessità di una vera e propria attività esecutiva del sequestro, giacché per far mutare il titolo giuridico della detenzione è sufficiente che al custode sia data conoscenza legale del provvedimento di nomina. Si noti, infine, che per il sequestro giudiziario manca una norma analoga all’art. 2906 c.c., che disciplini il regime degli atti di disposizione giuridica dei beni sequestrati: il che si spiega con la circostanza che la funzione prevalente dell’istituto non doveva essere quella di prevenire tali atti, bensì quella di assicurare la conservazione e la gestione materiale dei beni controversi. Una parte della dottrina, per la verità, ritiene che il divieto di alienazione sia comunque implicito nell’ordinamento : sicché taluno ne ha dedotto che la violazione di quel divieto sia motivo di nullità, quando il terzo acquirente è a conoscenza del provvedimento di sequestro. Nella maggior parte dei casi, peraltro, il problema di tenere indenne il sequestrante dagli eventuali atti di disposizione dei beni sequestrati è più agevolmente risolvibile tramite l’applicazione dei principi racchiusi nell’art. 111, relativamente alla successione a titolo particolare nel diritto controverso. Delle due, infatti, l’una: - Se si tratta di beni mobili, l’attribuzione del possesso al custode dovrebbe escludere l’eventualità che un terzo acquirente del bene possa invocare a proprio favore l’art. 1153 c.c., a meno che il possesso del bene non gli sia stato trasferito dallo stesso custode, in violazione dei propri obblighi; - Se invece si tratta di beni immobili o mobili registrati, la tutela del sequestrante è assicurabile tramite la trascrizione della domanda di merito cui il sequestro si ricollega, che opera come una sorta di prenotazione degli effetti della futura sentenza di accoglimento della domanda stessa, rendendo solitamente inopponibili all’attore i successivi atti di disposizione del bene controverso. Sezione 2 : LE DENUNCE DI NUOVA OPERA E DI DANNO TEMUTO 130. I presupposti sostanziali delle c.d. azioni di nunciazione Stando a ciò che si evince dagli artt. 1171 e 1172 c.c, le denunzie di nuova opera e di danno temuto sono azioni c.d. di nunciazione concesse a difesa della proprietà e dei diritti reali di godimento nonché del possesso: con l’esclusione, invece, dei diritti di natura meramente personale. L’istanza si propone con ricorso, contenente l’indicazione dei motivi dell’urgenza e dei fatti sui quali verte la prova, nonché l’esposizione sommaria delle domande o eccezioni alle quali la prova stessa è preordinata. La relativa competenza è attribuita allo stesso giudice che sarebbe competente per il merito in base ai criteri ordinari, sia esso il tribunale o il giudice di pace: con la peculiarità, però, che, nel caso del tribunale, la decisione spetta al presidente. A tale competenza si affianca, inciso di eccezionale urgenza, quella del tribunale del luogo in cui la prova deve essere assunta. Se poi la causa di merito è già pendente, l’istanza si propone al relativo giudice istruttore o al presidente del tribunale se l’istruttore non è ancora stato designato o il relativo giudizio si trovi in una situazione di acquiescenza. Qualora il ricorso sia proposto ante causam, il giudice di regola è tenuto, prima di provvedere sull’istanza, a disporre con decreto la comparizione delle parti, fissando contestualmente la relativa udienza ed il termine perentorio per la notificazione del provvedimento. Dopo aver sentito le parti ed aver acquisito, ove occorra, sommarie informazioni, egli decide invece con ordinanza non impugnabile: la quale, se ammette la prova, contiene la designazione del giudice che deve materialmente assumere la testimonianza o, quando si tratti di accertamento tecnico o ispezione, l’indicazione della data di inizio delle operazioni e la nomina del consulente tecnico. In caso di eccezionale urgenza, poi, il giudice può anche accogliere l’istanza con decreto, inaudita altera parte, dispensando il ricorrente dalla notificazione alle altre parti e nominando altresì un procuratore che intervenga per le parti non presenti all’assunzione della prova. In tale eventualità, tuttavia, il cancelliere deve notificare il decreto, non oltre il giorno successivo, alle parti non presenti all’assunzione. Tornando all’ordinanza che rappresenta la forma normale della decisione, v’è da considerare che in forza dell’art. 669-septies, l’ordinanza di incompetenza o rigetto della domanda cautelare non preclude la riproposizione della domanda: a condizione che, trattandosi di rigetto per ragioni di merito, siano dedotti mutamenti delle circostanze o nuovi ragioni di fatto o di diritto. Inoltre, quando l’incompetenza o il rigetto siano pronunciati prima dell’inizio del giudizio di merito, il provvedimento deve anche statuire sulle spese del procedimento cautelare. Discussa, infine, è la possibilità di estendere ai provvedimenti di istruzione preventiva, nonostante l’assenza di un’esplicita previsione, il reclamo cautelare di cui all’art. 669-terdecies: la Corte costituzionale ha assoggettato al reclamo il SOLO provvedimento di rigetto dell’istanza di istruzione preventiva; mentre una parte della dottrina ritiene che la stessa soluzione dovrebbe valere per il provvedimento di accoglimento. 135. La consulenza tecnica preventiva con funzione conciliativa La riforma del 2005, oltre ad ampliare i limiti dell’accertamento tecnico e dell’ispezione preventivi, ha previsto che una vera e propria consulenza tecnica preventiva possa essere richiesta, anche al di fuori delle condizioni dell’art. 696, ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Si è quindi in presenza di un istituto che ha ben poco in comune con l’accertamento tecnico dell’art. 696, giacché prescinde dalla sussistenza di un periculum in mora - ossia dall’urgenza del mezzo istruttorio - e conseguentemente da una finalità cautelare, essendo invece preordinato a favorire una composizione preventiva della lite, quando appare sperabile che l’intervento del consulente tecnico giovi al raggiungimento di un accordo. A tale consulenza può farsi ricorso, ante causam, in presenza di qualunque controversia riguardante il pagamento di somme di denaro, a titolo di risarcimento o restituzione, che comunque scaturisca da un illecito, contrattuale o extra-contrattuale: e in questo ambito, le indagini del consulente possono vertere non solo sul quantum ma anche sull’an del diritto. La disciplina procedimentale è mutuata in parte dall’accertamento tecnico preventivo, per quel che concerne la fase dell’ammissione, ed in parte dalla consulenza tecnica ordinaria, quanto alla fase di espletamento del mezzo istruttorio e all’attività del consulente. In ordine al primo aspetto si può quindi rinviare a quanto esposto prima: con la precisazione che in questo caso la natura non cautelare dell’istituto induce ad escludere l’esperibilità del reclamo dell’art. 669-terdecies. Per quel che riguarda l’attività del consulente, invece, vengono richiamati gli artt. 191-197 in quanto compatibili e l’unica particolarità degna di nota è rappresentata dall’obbligo del consulente di dar corso ove possibile, prima di provvedere al deposito della relazione, ad un tentativo di conciliazione. - Se tale tentativo riesce, lo stesso consulente forma il relativo processo verbale di conciliazione - che l’art. 696-bis esenta dall’imposta di registro- facendolo sottoscrivere alle parti e depositandolo, poi, in cancelleria, affinché il giudice gli attribuisca l’efficacia di titolo esecutivo, utilizzabile per ogni tipo di esecuzione forzata e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. - Se il tentativo invece fallisce, ciascuna delle parti può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo eventuale giudizio di merito: fermo restando che tale acquisizione deve intendersi subordinata ad un preliminare giudizio di ammissione da parte del giudice investito della causa, il quale potrebbe sempre optare per la rinnovazione della consulenza. Tenuto conto di ciò, è evidente che l’istituto in esame, pur avendo una primaria funzione conciliativa del tutto estranea all’accertamento tecnico preventivo ordinario, può concretamente sortire, qualora la conciliazione non si realizzi, un risultato probatorio pienamente coincidente con quello cui avrebbe potuto condurre il mezzo cautelare di cui all’art. 696, in assenza dei presupposti che sarebbero richiesti per quest’ultimo. Sezione 4 : I PROVVEDIMENTI D’URGENZA 136. L’aticipità e la sussidiarietà dei provvedimenti d’urgenza Per tutti i provvedimenti cautelari analizzati prima, come per quelli sparsi al di fuori del codice, la relativa disciplina definisce in maniera più o meno puntuale: - Il tipo di diritti oggetto di tutela - Il periculum cui la misura cautelare mira a porre rimedio - E il contenuto che può assumere il provvedimento cautelare. Il legislatore, per quanto previdente possa essere, non potrebbe mai sperare di far fronte con disposizioni specifiche alle più disparate situazioni in cui un diritto può essere minacciato da un pericolo immediato. Ove si consideri poi che il diritto d’azione garantito dall’art. 24 Cost. È per sua natura atipico che la tutela cautelare ne costituisce un presidio irrinunciabile, è inevitabile che l’ordinamento appresti strumenti idonei a far fronte ad ogni possibile evento in grado di attentare all’effettività della tutela giurisdizionale. Ciò spiega perché il codice, accanto ai provvedimenti cautelari fin qui esaminati, preveda anche delle misure c.d. atipiche, in grado di sopperire a tutte le residue esigenze di cautela. In base all’art. 700, infatti, fuori dai casi regolati prima, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. L’atipicità di tali provvedimenti può quindi agevolmente cogliersi rispetto alla situazione giuridica tutelata, che potrebbe esser qualunque “diritto”: rispetto al periculum prevenibile, genericamente definito come la minaccia di un “pregiudizio imminente e irreparabile” del diritto stesso; ed infine rispetto ai possibili contenuti, che saranno quelli “più idonei ad assicurare ecc.”. Questa formula lascia intendere ch’essi avranno, di regola, un contenuto anticipatorio, nel senso che potranno produrre, seppur provvisoriamente, effetti analoghi a quelli che deriverebbero da una sentenza di accoglimento della domanda: il che di certo non esclude che siano ammissibili provvedimenti d’urgenza dal contenuto meramente conservativo, miranti a cristallizzare la situazione di fatto e di diritto o comunque a dettare una regolamentazione intrinsecamente provvisoria del rapporto, che non corrisponde ad alcuno degli esiti conseguibili tramite il giudizio a cognizione piena. L’ulteriore caratteristica dell’istituto è desumibile dall’incipit dell’art. 700 “fuori dai casi regolati ecc.”: è chiaro infatti che tale disposizione, proprio perché costituisce una sorta di valvola di sicurezza della tutela, può essere invocata SOLAMENTE quando, per la difesa di un determinato diritto non sia utilizzabile un provvedimento cautelare tipico: ed è in ciò che consiste la c.d. sussidiarietà dei provvedimenti d’urgenza. 137. I limiti positivi dell’istituto La funzione stessa dei provvedimenti d’urgenza, unita all’inevitabile indeterminatezza delle espressioni adoperate nell’art. 700 e alla profonda crisi del processo a cognizione piena, ne ha favorito un uso massiccio e talora distorto, che in qualche caso si è tradotto in veri e propri abusi. 1. È bene sottolineare che, quantunque il contenuto dei provvedimenti d’urgenza possa essere il più vario, non appare lecito perseguire surrettiziamente per questa strada un risultato maggiore di quello che potrebbe ottenersi dal processo a cognizione piena o estraneo ai possibili esiti di quest’ultimo. 
 Per analoghe ragioni, inoltre, non è pensabile di attribuire al giudice del cautelare poteri finanche maggiori di quelli che spetterebbero al giudice della cognizione piena. 2. In secondo luogo è molto controversa l’ammissibilità di provvedimenti d’urgenza che anticipino non già una statuizione di condanna, bensì gli effetti di una sentenza di mero accertamento o costitutiva: problema al quale è preferibile dare soluzione negativa, giacché il provvedimento cautelare, essendo intrinsecamente inidoneo a produrre la certezza giuridica propria del giudicato, non sembra poter fornire alcuna oggettiva utilità rispetto a quelle derivanti dalla sua possibile attuazione coattiva. 3. L’ultima questione attiene invece all’individuazione del periculum in mora: non tanto in relazione all’imminenza del pregiudizio che minaccia il diritto, quanto piuttosto con riguardo all’irreparabilità di tale pregiudizio. Poiché il diritto al pagamento di una somma di denaro è sempre, almeno in astratto, realizzabile, questo secondo presupposto inteso alla lettera potrebbe indurre ad escludere l’esperibilità della tutela anticipatoria in esame a tutela dei diritti aventi un contenuto patrimoniale, per circoscriverla, invece, ai diritti assoluti in genere, con particolare riguardo a quelli, di rango superiore, che assolvono una funzione non patrimoniale e sono per lo più oggetto di copertura costituzionale. Dopo qualche iniziale incertezza, però, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno superato questa esegesi fortemente riduttiva, per ammettere i provvedimenti d’urgenza pure a tutela di diritti di credito: senza distinguere, ovviamente, a seconda che si tratti di crediti nati come tali o aventi, invece, carattere risarcitorio, in quanto derivati dall’inadempimento di un diritto avente diversa natura. Stando all’opinione che appare preferibile, avuto anche riguardo all’indispensabilità costituzionale della tutela cautelare, l’irreparabilità del pregiudizio va quindi intesa in senso relativo, sicché sussiste non solo nelle ipotesi in cui il diritto di credito risponde ad una funzione in tutto o in parte non patrimoniale, ma ANCHE quando la realizzazione tardiva del credito, procrastinata alla conclusione del processo a cognizione ed eventualmente anche di quello esecutivo, esporrebbe il creditore ad un pregiudizio non più rimediabile ex post, seppure attraverso il risarcimento del danno. Una siffatta lettura estensiva dell’art. 700 rende altamente opportuna un’attenta ponderazione ed un equo contemperamento tra gli interessi contrapposti del creditore e del debitore, che in tale prospettiva potrebbero essere di eguale natura e quindi sullo stesso piano dal punto di vista della meritevolezza della tutela. Sezione 5 : IL PROCEDIMENTO CAUTELARE C.D. UNIFORME 138. Rilievi introduttivi : l’ambito di applicazione della disciplina uniforme Il codice del 1940 non prevedeva alcuna regolamentazione unitaria dei procedimenti cautelari e dettava una disciplina sufficientemente articolata solamente per i sequestri. Per il resto, invece, le disposizioni processuali concernenti i singoli provvedimenti erano frammentarie, gravemente lacunose e comunque poco garantistiche, soprattutto rispetto alla parte che subiva il provvedimento. A porre rimedio a tali inconvenienti provvide il legislatore del 1990, attraverso l’inserzione degli artt. 669-bis a 669-quaterdecies, che oggi disciplinano proprio il rito cautelare c.d. uniforme. Tale rito, a norma dell’art. 669-quaterdecies, trova integrale applicazione ai provvedimenti contemplati dalle sezioni 2,3 e 5 del stesso capo, cioè ai sequestri, alle denunce di nuova opera e danno temuto e ai provvedimenti d’urgenza: mentre per i provvedimenti d’istruzione preventiva viene richiamato il solo art. 669-septies, concernente il contenuto e gli effetti dell’ordinanza di rigetto. Pertanto, fermo restando che la domanda di merito potrebbe essere successivamente modificata o precisata nel processo a cognizione piena, il ricorso cautelare che non consentisse in alcun modo di individuare tale domanda dovrebbe reputarsi nullo, in quanto privo degli elementi indispensabili per il raggiungimento del proprio scopo. La circostanza che il ricorso debba già preannunciare la domanda di merito può avere, poi, conseguenze non trascurabili circa il momento da cui devono farsi decorrere gli effetti di quest’ultima. È bene premettere, a questo riguardo, che il diritto positivo, anche in relazione alle ipotesi in cui la concessione di un provvedimento cautelare ante causam dev’essere seguita dall’instaurazione del giudizio a cognizione piena entro un termine perentorio, configura tale giudizio non già come una prosecuzione del procedimento cautelare, MA come una fase autonoma e distinta. La circostanza non è priva di significato né di inconvenienti, giacché parrebbe impedire che gli effetti del ricorso cautelare si saldino con quelli prodotti dalla successiva domanda introduttiva del giudizio a cognizione piena. L’autonomia del giudizio di merito conduce, inoltre, ad ammettere - nell’ipotesi in cui siano individuabili una pluralità di fori territorialmente competenti - la sua instaurazione dinanzi ad un ufficio giudiziario diverso da quello adito in via cautelare. La giurisprudenza, tuttavia, ha in più occasioni aggirato l’ostacolo, ritenendo che gli effetti della domanda di merito possano in qualche misura retrodatarsi al momento della proposizione del ricorso tutelare. E in realtà, pur tenendo ferma la tendenziale autonomia delle due fasi, siffatta soluzione merita di esser condivisa, per quel che concerne gli effetti processuali, quanto meno in relazione ai provvedimenti cautelari che ancor oggi mantengono un forte legame col giudizio a cognizione piena, non potendo sopravvivere senza la sua tempestiva instaurazione. D’altronde, quanto agli effetti sostanziali della domanda, un’analoga soluzione è desumibile dalla legge, dalla quale emerge non solo che l’atto introduttivo del procedimento cautelare è di per sé idoneo ad interrompere la prescrizione, MA PURE che l’interruzione così prodotta dura fino al passaggio in giudicato della sentenza definitiva del processo a cognizione piena. Ove si accolga tale soluzione, si potrebbe pensare, tra l’altro, che il ricorso stesso, dopo la sua notificazione, possa esser automaticamente trascritto nei registri immobiliari, ogniqualvolta la domanda ch’esso preannuncia sia sufficientemente determinata e rientri tra quelle soggette a trascrizione. Sebbene la questione sia controversa, non v’è ragione di escludere che la domanda cautelare, anziché col ricorso autonomo cui allude l’art. 669-bis, possa inserirsi all’interno dell’atto introduttivo del giudizio a cognizione piena: fermo restando, ovviamente, che in tal caso la stessa domanda cautelare si avrà per proposta a giudizio di merito già iniziato e più precisamente dal momento in cui l’atto di citazione, con la costituzione dell’attore ed il deposito in cancelleria, verrà portato a conoscenza dell’ufficio giudiziario. 142. Il procedimento La disciplina del procedimento cautelare in senso stretto è molto scheletrica, essendo evidente l’intento del legislatore di lasciare al giudice una discrezionalità assai ampia per ciò che attiene al concreto sviluppo del procedimento stesso. Allorché si tratti di un ricorso ante causam, o comunque venga adito un giudice diverso da quello investito del giudizio di merito, il cancelliere deve formare un fascicolo d’ufficio e poi presentarlo senza ritardo al presidente del tribunale, affinché questi provveda a designare il magistrato cui sarà affidato il procedimento cautelare. Negli altri casi, invece, il ricorso deve essere proposto allo stesso giudice istruttore dinanzi al quale pende la causa di merito, a meno che egli non sia stato ancora designato o il processo sia sospeso o interrotto. L’iter normale prevede poi che il giudice decida con ordinanza, accogliendo o rigettando la domanda dopo aver sentito le parti ed avere svolto l’attività istruttoria eventualmente occorrente. Di regola, quindi, il giudice fissa con decreto, solitamente in calce allo stesso ricorso introduttivo, l’udienza per la comparizione delle parti, nonché il termine entro cui il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura del ricorrente, all’altra parte. Per il resto, invece, il legislatore non impone alcuna particolare prescrizione o preclusione, stabilendo solo che il giudice, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. Ciò significa che egli dovrà compiere le sole indagini ed utilizzare i soli mezzi istruttori compatibili con l’urgenza del procedimento, avvalendosi delle prove di più celere acquisizione e senza essere neppure vincolato a tutte le formalità solitamente prescritte per la loro assunzione: evitando così che l’istruttoria cautelare si risolva nell’integrale anticipazione di quella che potrà aver luogo, eventualmente, nella fase istruttoria del processo a cognizione piena. Lo stesso art. 669-sexies, peraltro, prevede che il provvedimento possa anche assumersi con decreto motivato, senza la previa instaurazione del contraddittorio ed assunte, ove occorra, sommaria informazioni - ossia in base ad una cognizione ancora più superficiale - allorché la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento. Stando all’opinione che appare preferibile, tale situazione può verificarsi non solo quando, in considerazione della natura e dell’oggetto del provvedimento richiesto, la preventiva conoscenza della domanda cautelare da parte del soggetto che ne è destinatario potrebbe consentire a quest’ultimo di eludere agevolmente la successiva attuazione della misura cautelare, ma anche quando l’urgenza, derivante dall’imminenza del pericolo da cui è minacciato il diritto, sia tale da non consentire alcun indugio e da porre a rischio l’utilità stessa del provvedimento che dovesse intervenire successivamente all’instaurazione del contraddittorio. In tutte queste ipotesi, peraltro, l’efficacia del provvedimento concesso inaudita altera parte dovrebbe avere ristrettissimi confini temporali, giacché il giudice, col medesimo decreto, è tenuto a fissare l’udienza di comparazione delle parti entro un termine massimo di 15 gg, assegnando nel contempo all’istante un termine perentorio non superiore ad 8 gg per la notificazione del ricorso e del decreto all’altra parte. All’udienza, poi, decide senz’altro con ordinanza, confermando, modificando o revocando i provvedimenti dati col decreto. Sebbene si tratti di un’ipotesi palesemente estranea a quelle contemplate dall’art. 669-sexies, una parte della giurisprudenza e della dottrina ammette che il giudice possa utilizzare questo modus procedendi (ossia la pronuncia con decreto) anche per il totale rigetto della domanda cautelare, determinato da ragioni di rito o di merito: il che non reca alcun reale nocumento al ricorrente, a condizione che il decreto di rigetto fissi comunque l’udienza per la comparazione delle parti. 143. Gli effetti dell’ordinanza di rigetto L’art. 669-septies stabilisce che l’ordinanza di rigetto, sia esso determinato da ragioni processuali o di merito, non impedisce la riproposizione della domanda cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Il provvedimento di rigetto quindi ha un’efficacia preclusiva molto modesta giacché copre solo il dedotto e non anche il deducibile, lasciando aperta la strada all’allegazione di nuovi fatti ad esso preesistenti, e in secondo luogo, può anche essere rimesso in discussione in base a nuove argomentazioni meramente giuridiche. Inoltre, l’ordinanza dichiarativa dell’incompetenza non possiede neppure questa limitata efficacia preclusiva, poiché non è in alcun modo di ostacolo alla riproposizione della domanda. Questo regime, che può apparire inopportuno, era in realtà coerente con la soluzione originaria di escludere il reclamo nei confronti del provvedimento negativo, compensandolo con la possibilità di reiterare la domanda cautelare, seppure solo in base ad argomenti di fatto e di diritto diversi da quelli già spesi. Oggi, peraltro, essendo stato il reclamo esteso a tutte le ordinanze di rigetto, è ben possibile che l’istante faccia valere le nuove circostanze anche tramite l’impugnazione del provvedimento negativo: ed anzi v’è da aggiungere che, qualora sia proposto reclamo, ciascuna delle parti ha l’onere di far valere in quella sede tutte le argomentazioni e le circostanze, preesistenti o sopravvenute, che potrebbero condurre alla conferma o alla modifica del provvedimento impugnato. Il regime dell’art. 669-septies potrà trovare integrale applicazione nel solo caso in cui l’ordinanza di rigetto non sia stata reclamata. Allorché invece sia stato proposto reclamo e quest’ultimo abbia condotto alla conferma del provvedimento negativo, l’istanza cautelare potrà reiterarsi esclusivamente per circostanze sopravvenute alla conclusione del relativo procedimento. L’ordinanza di incompetenza o di rigetto pronunciata prima dell’inizio della causa di merito deve provvedere anche sulle spese del procedimento cautelare: e ciò per evitare che la parte resistente, risultata vittoriosa, sia costretta ad instaurare il giudizio a cognizione piena al solo fine di ottenere il rimborso di tali spese. 144. Il regime di stabilità dell’ordinanza di accoglimento : la disciplina tradizionale Una delle caratteristiche che hanno sempre contraddistinto la tutela cautelare può agevolmente indicarsi nella provvisorietà: intesa nel senso che l’efficacia del provvedimento cautelare non può protrarsi sine die, rimanendo subordinata tanto alla tempestiva instaurazione del giudizio di merito, quanto alla sua prosecuzione fino alla decisione sulla domanda. Pertanto, il giudice che conceda la misura prima dell’inizio della causa di merito è tenuto, col medesimo provvedimento di accoglimento, a fissare un termine perentorio non superiore a 60 gg per l’inizio del giudizio a cognizione piena. Tale giudizio può essere promosso da una qualunque delle parti: ma in concreto quella più direttamente interessata è proprio la parte che ha ottenuto il provvedimento cautelare, giacché la scadenza del predetto termine provocherebbe la caducazione del provvedimento stesso. Se quello che precede è il regime tradizionale, la situazione è però in parte mutuata per effetto della riforma del 2005, la quale ha previsto una disciplina diversa per i provvedimenti cautelari che possiamo definire a contenuto anticipatorio: provvedimenti la cui efficacia è stata affrancata dalla necessaria instaurazione e prosecuzione del giudizio a cognizione piena. La disciplina originaria fin qui descritta resta invece applicabile a tutte le altre misure cautelari, dal contenuto conservativo. 145. Il nuovo regime dei provvedimenti a contenuto anticipatorio L’art. 669-octies ha introdotto un regime di stabilità differenziato in relazione ai provvedimenti d’urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal c.c. o da leggi speciali, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell’art. 688, prevedendo che per essi non valga né l’obbligo di iniziare il giudizio di merito entro un termine perentorio, né il principio per cui l’efficacia della misura cautelare resta travolta dall’eventuale estinzione del processo a cognizione piena. Tale innovazione si ispira a finalità lato sensu deflative, contando sull’eventualità che in parecchi casi le parti, dopo l’emissione del provvedimento, siano ben biposte ad accettare il nuovo assetto di interessi determinato da quest’ultimo, prestandovi acquiescenza, e dunque non avvertano l’esigenza di intraprendere il processo a cognizione piena. Onde evitare, anzi, che la parte vittoriosa sia costretta ad instaurare il giudizio di merito al solo fine di recuperare le spese della fase cautelare, lo stesso art. 669-octies prevede che il giudice, ove conceda un provvedimento anticipatorio prima dell’inizio della causa di merito, debba per l’appunto pronunciare anche sulle spese del relativo procedimento. Una parte della dottrina ha proposto, in relazione ai provvedimenti cautelari ora esaminati, l’espressione “strumentalità attenuata”, alludendo al fatto che essi, pur rimanendo essenzialmente preordinati ad assicurare il proficuo esercizio della tutela cognitiva ed esecutiva, possono oggi ambire anche ad un’utilità ulteriore ed autonoma, allorché nessuna delle parti inizi e/o coltivi, fino alla sua conclusione, il giudizio di merito, lasciando in tal modo sopravvivere a tempo indeterminato il provvedimento sommario. Tuttavia, ciò ch’è stato ridimensionato è la precarietà del provvedimento, tenuto conto che gli effetti della misura non sono più limitati e condizionati dalla pendenza del giudizio di merito: sicché può avvenire, quando nessuna delle parti mostri interesse ad ottenere la sentenza, che tali effetti si protraggano sine die. Se di “attenuazione” vuole parlarsi, quindi, essa potrebbe più rifarsi alla provvisorietà, che in realtà, nel confronto con le misure conservative, appare certamente più prossima a quella che compete, quanto meno finché pende il giudizio a cognizione piena nel corso del quale sono stati resi, ai provvedimenti anticipatori non cautelari, che perdono efficacia solo in seguito ad una sentenza che dichiari l’inesistenza del diritto a tutela del quale erano stati pronunciati. Ciò non significa però che le due categorie possano essere pienamente assimilate, non foss’altro perché la caducazione degli effetti delle misure anticipatorie può dipendere anche da altre ragioni. Inoltre, mentre è controversa l’efficacia spettante ai provvedimenti anticipatorii non cautelari dopo l’eventuale estinzione del giudizio di merito non v’è dubbio che l’efficacia dei provvedimenti cautelari ora considerati operi esclusivamente sul piano dell’esecutività, ossia della possibilità di attuazione coattiva nelle specifiche forme previste o richiamate all’art. 669-duodecies, giacché l’art. 669-octies precisa che la loro autorità non è invocabile in un diverso processo. La concreta delimitazione dei provvedimenti cui si applica tale nuovo regime dà luogo, in realtà, a non pochi dubbi, tenuto che la distinzione fra misure cautelari conservative ed anticipatorie è meno scontata ed ovvia di quanto potrebbe credersi a prima vista. Per quel che concerne la competenza, poi, occorre distinguere: 1. Se il giudizio di merito è stato iniziato ed è tuttora pendente, il potere di revoca o modifica spetta in ogni caso al giudice istruttore che ne è investito, salvo che sia stato proposto reclamo: in questo caso, infatti, i nuovi fatti sopravvenuti dovrebbero essere comunque dedotti nel procedimento di reclamo; sicché la possibilità di porli a base di una successiva istanza di revoca o modifica presuppone che essi siano intervenuti dopo la conclusione di tale procedimento o che la parte interessata provi di averne avuto conoscenza dopo tale momento; 2. Se invece il giudizio di merito non è stato ancora iniziato, o si è già estinto, la revoca o la modifica possono chiedersi allo stesso giudice che ha provveduto sull’istanza cautelare, purché si sia esaurita l’eventuale fase del reclamo: ed anche in tal caso il riferimento al reclamo sottintende, ovviamente, l’onere di far valere nel relativo procedimento ogni fatto nuovo sopravvenuto prima della sua definizione; 3. Infine, se la causa di merito appartiene alla giurisdizione di un giudice straniero o è devoluta ad arbitri, o se il provvedimento da revocare o modificare è strumentale ad un’azione civile esercitata o trasferita nel processo penale, la competenza è attribuita allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento. 149. L’attuazione Prescindendo dalle specifiche disposizioni contenute negli artt. 677 ss. E relative all’esecuzione dei sequestri, la fase di attuazione del provvedimento cautelare è disciplinata dall’art. 669- duodecies, con una preliminare distinzione che si fonda sul contenuto dell’obbligo imposto al destinatario del provvedimento: 1. Quando si tratti di misure cautelari aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro si applicano, seppure in quanto compatibili, le disposizioni dell’espropriazione forzata ordinaria; 2. Se invece il provvedimento riguarda obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, la relativa esecuzione avviene sotto il controllo del giudice che lo ha emanato, il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti. 1. Nel primo caso, quindi, il rapporto che corre fra la fase di autorizzazione e quella di attuazione della misura è analogo al rapporto fra il processo di cognizione, deputato all’accertamento del diritto, e quello di esecuzione forzata; e, sebbene il legislatore ometta di qualificare il provvedimento cautelare come vero e proprio titolo esecutivo, la sostanza non cambia, giacché comunemente si ritiene che debbano trovare integrale applicazione le disposizioni generali dell’espropriazione forzata, nonché le disposizione che, a seconda del tipo di bene sul quale l’azione esecutiva si dirige, disciplinano le varie forme di espropriazione; 2. Nel secondo caso, invece, la fase di attuazione viene configurata come una sorta di naturale prosecuzione di quella autorizzata: il che risente di una certa opinione dottrinale stando alla quale il procedimento cautelare fonderebbe necessariamente in sé il momento della cognizione e quello dell’esecuzione. La dottrina più recente, peraltro, ha opportunamente rilevato che si tratta di un’impostazione accettabile solo in relazione alle misure conservative non anche per le anticipatorie, le quali, avendo un contenuto analoga a quello di una sentenza di condanna, possono fare a meno della fase di attuazione coattiva, laddove la parte intimata si adegui spontaneamente al comando racchiuso nel provvedimento. 
 Per lo più si ritiene, inoltre, che, nonostante la formulazione dell’art. 669-duodecies, la quale sembra attribuire al giudice la più ampia discrezionalità circa la determinazione delle concrete modalità di attuazione della misura cautelare, il paradigma fondamentale di riferimento sia pur sempre rappresentato dalle forme dell’esecuzione forzata (stavolta specifica) giacche è difficile pensare che il giudice possa inventarsi dei modelli di esecuzione completamente diversi ed autonomi. Premesso, dunque, che anche per tali ipotesi si reputano inapplicabili le disposizioni relative alla previa notifica del provvedimento e del precetto, la peculiarità più significativa è rappresentata proprio dalla specifica competenza attribuita allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento cautelare, anziché al giudice dell’esecuzione; competenza evidentemente preordinata a far sì che egli, all’occorrenza, possa nel modo più rapido e semplice integrare e/o modificare il proprio provvedimento o risolvere le difficoltà o le contestazioni sollevate dalle parti nella fase della sua attuazione. Il problema più delicato attiene all’individuazione del complesso di rimedi utilizzabili dalle parti e dai terzi per far valere eventuali vizi di questa fase di attuazione del provvedimento cautelare, con particolare riferimento all’esperibilità delle opposizioni tipiche del processo esecutivo ordinario. Anche a questo proposito deve distinguersi a seconda che il provvedimento imponga il pagamento di una somma di denaro o l’adempimento di un obbligo di diversa natura. 1. Nel primo caso, tenuto conto del generico rinvio dell’art. 669-duodecies alle disposizioni proprie dell’esecuzione forzata, può ammettersi che trovino applicazione, seppure con i non pochi adattamenti resi necessari dalla specifica disciplina delle misure, anche le disposizioni concernenti le opposizioni agli atti esecutivi o all’esecuzione (compresa l’opposizione proponibile dal terzo ai sensi dell’art. 619). 2. Nel secondo caso, invece, muovendo dalla formulazione della norma in esame, si è soliti escludere l’ammissibilità delle predette opposizioni: il che può dar adito a qualche dubbio di illegittimità costituzionale, soprattutto per ciò che attiene alla tutela dei terzi che dovessero essere illegittimamente coinvolti dall’esecuzione della misura cautelare. Gli stessi principi costituzionali, inoltre, impongono di ritenere che le contestazioni risolvibili dal giudice della cautela con ordinanza siano riproponibili nel giudizio di merito, giacché non può negarsi alla parte o al terzo, danneggiati da un’esecuzione irrituale della misura cautelare, il potere di ottenere che le proprie contestazioni siano decise con sentenza, in base ad una cognizione piena ed esauriente. Per finire, v’è da sottolineare che l’art. 669-duodecies non offre alcuna indicazione circa i rimedi esperibili dalle parti e dai terzi di fronte agli eventuali vizi della fase di attuazione dei sequestri, che non sono presi in considerazione neppure dalle specifiche disposizioni ad essi relative. Si discute, quindi, se possano utilizzarsi le opposizioni tipiche dell’esecuzione forzata vera e propria o invece - soluzione preferibile - debba trovare applicazione la disciplina dell’art. 669- duodecies per i provvedimenti aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare. 150. L’impugnazione del provvedimento cautelare : rilievi introduttivi L’introduzione di uno specifico rimedio impugnatori nei confronti dei provvedimenti cautelari è un’innovazione introdotta dalla riforma del 1990: che l’aveva però inizialmente circoscritta alle sole ordinanze di accoglimento dell’istanza cautelare, sull’implicito presupposto che la tutela del ricorrente, in caso di rigetto, fosse sufficientemente assicurata dalla possibile reiterazione dell’istanza stessa. La discriminazione cadde però, in seguito all’intervento della Consulta, la quale ritenne che, in considerazione della rilevanza costituzionale della tutela cautelare, anche per il provvedimento di rigetto dovesse essere garantito il controllo da parte di un giudice diverso da quello che lo aveva pronunciato. Oggi, pertanto, l’art. 669-terdecies ammette il reclamo nei confronti di qualunque ordinanza con la quale (non importa se ante causam o nel corso del giudizio di merito) è stato concesso o negato il provvedimento cautelare, entro il termine perentorio di 15 gg decorrente, a seconda dei casi, dalla data del provvedimento, se reso in udienza oppure dalla relativa comunicazione/ notificazione. Non essendo più previsto alcuno specifico rimedio, inoltre, è pacifico che tramite il reclamo possa contestarsi anche solo la pronuncia sulle spese resa in sede di accoglimento o rigetto del provvedimento cautelare. Ciò non significa, tuttavia, che il reclamo sia stato reso un rimedio di carattere generale, idoneo ad operare rispetto ad ogni possibile provvedimento intervenuto in sede cautelare: sicché restano insoluti e controversi non pochi problemi, concernenti ad es. l’impugnabilità dell’ordinanza resa sull’istanza di revoca o modifica di un anteriore provvedimento cautelare. Altra questione non meno spinosa, inoltre, attiene alla reclamabilità del decreto di accoglimento reso inaudita altera parte, allorché il giudice ometta di confermare o revocare il decreto alla prima udienza, impedendo così al resistente di impugnare la conseguente ordinanza. È pressoché pacifico, invece, che il provvedimento cautelare NON possa essere impugnato tramite il regolamento di competenza. 151. La disciplina del reclamo 1. Il reclamo, quando ha per oggetto un provvedimento reso dal tribunale in composizione monocratica, si propone al medesimo tribunale in composizione collegiale, del quale non può però far parte il magistrato che ha emesso il provvedimento stesso. 2. Se invece riguarda un provvedimento pronunciato dalla corte d’appello, la competenza è attribuita ad un’altra sezione della stessa corte oppure, quando si tratti di un ufficio giudiziario composto da un’unica sezione, alla corte d’appello più vicina. 
 Si discute, inoltre, se quest’ultimo criterio sia applicabile, per analogia, al provvedimento cautelare reso dal tribunale in composizione collegiale o se invece debba ritenersi competente la corte d’appello. Quanto al procedimento poi l’art. 669-terdecies rinvia essenzialmente alle disposizioni degli artt. 737 e 738, relative ai procedimenti in camera di consiglio, aggiungendo che il collegio, convocate le parti decide, non oltre 20 gg dal deposito del ricorso, con ordinanza non impugnabile, con la quale conferma, modifica o revoca il provvedimento. Stando all’opinione prevalente, il reclamo è, analogamente all’appello, un’impugnazione sostituiva, nel senso che esige che il giudice ad quem pronunci a sua volta sulla fondatezza della domanda cautelare, concedendo o negando il provvedimento richiesto, indipendentemente dal modo in cui si era concluso il primo procedimento. Infatti, non è consentita la rimessione al primo giudice e ciò perché in sede di reclamo è esclusa una pronuncia meramente rescindente, che si limiti all’annullamento dell’ordinanza impugnata: a meno che non sussistano ostacoli processuali che già avrebbero imposto al primo giudice il rigetto dell’istanza in mero rito. Al pari dell’appello, inoltre, il reclamo ha effetto devolutivo, giacché sottopone al giudice ad quem la stessa domanda cautelare oggetto del provvedimento impugnato: il che spiega perché le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti nel relativo procedimento. Tale disposizione va intesa nel senso che ciascuna delle parti ha il diritto e l’onere di far valere questi nuovi fatti o motivi in qualunque momento del procedimento di impugnazione, non potendo altrimenti dedurli, successivamente, a fondamento di un’istanza di revoca o modifica del provvedimento (reso o confermato in sede di reclamo). Secondo l’interpretazione più ragionevole, peraltro, la stessa soluzione deve valere, sebbene la norma in esame non ne faccia menzione, per le nuove circostanze di fatto o di diritto anteriori alla proposizione del reclamo o addirittura preesistenti alla pronuncia del provvedimento impugnato: con la differenza che per esse non v’è motivo di consentirne indiscriminatamente la deduzione nel corso del procedimento di reclamo, al di là dei rispetti atti introduttivi delle parti. Quanto ai limiti dell’effetto devolutivo, inoltre, deve ritenersi che il reclamante abbia l’onere di formulare censure specifiche e che la cognizione del giudice del reclamo sia correlativamente circoscritta alle sole questioni concretamente propostegli (o ripropostegli) dalle parti. Per altri profili, invece, la disciplina è lacunosa. Per quel che attiene invece ai nuovi mezzi di prova, poi, l’art. 669-terdecies fa cenno solo alla possibilità, per il SOLO giudice, di assumere informazioni e acquisire nuovi documenti, sicché potrebbe far pensare ad una corrispondente preclusione di ordine generale a carico della parti. Tenuto conto però che nel procedimento cautelare di prima istanza non v’è traccia alcuna di preclusioni, è certamente preferibile ritenere che la disposizione in esame non esclude affatto nuove iniziative probatorie delle parti, ma intenda soltanto concedere un limitato potere istruttorio officioso al giudice del reclamo, il quale potrà ordinare d’ufficio alle parti anche l’esibizione di documenti in oro possesso. Da notare, infine, che l’art. 669-terdecies disciplina in misura davvero restrittiva la possibile inibitoria del provvedimento impugnato, consentendo al giudice del reclamo di sospendere l’esecuzione solamente quando essa, per motivi sopravvenuti, arrecherebbe all’istante un grave danno. CAPITOLO 14 : I PROCEDIMENTI POSSESSORI 152. Natura e struttura dei procedimenti possessori Nel testo originario l’art. 703 prevedeva che alle azioni di reintegrazione e manutenzione nel possesso si applicasse la scarna disciplina delle denunce di nuova opera e di danno temuto. La tesi prevalente riteneva quindi che il procedimento possessorio avesse una struttura composita (biascia), caratterizzata da una prima fase c.d. interdittale essenzialmente sommaria, finalizzata alla pronuncia di provvedimenti immediati di probabile natura cautelare, e da una seconda fase a cognizione piena ed esauriente, avente ad oggetto il c.d. merito possessorio, destinata comunque a concludersi con una sentenza idonea al giudicato sostanziale. La riforma del 1990, invece, aveva esteso al procedimento in esame la disciplina del rito cautelare c.d. uniforme: il che aveva sollevato nuovi dubbi circa l’esattezza dell’opinione ricordata.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved