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Il Titolo Esecutivo in Senso Documentale: Funzione e Importanza nel Processo Esecutivo, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Diritto civileDiritto Penalediritto amministrativo

Il concetto di titolo esecutivo in senso documentale nel processo esecutivo. Il titolo esecutivo in senso documentale rappresenta un documento incompleto che conferma l'esistenza di un diritto a procedere ad esecuzione forzata. le funzioni del titolo esecutivo, i presupposti processuali, le opposizioni agli atti esecutivi e il principio del contraddittorio nel processo esecutivo.

Cosa imparerai

  • Quali sono le funzioni del titolo esecutivo in senso documentale?
  • Che cos'è un titolo esecutivo in senso documentale?
  • Come si applica il principio del contraddittorio nel processo esecutivo?
  • Come si contesta la conformità del processo esecutivo alle norme processuali?
  • Quali sono i presupposti processuali per emettere una misura esecutiva?

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 27/05/2022

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marlen-perez-4 🇮🇹

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Scarica Il Titolo Esecutivo in Senso Documentale: Funzione e Importanza nel Processo Esecutivo e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, VOLUME TERZO: IL PROCESSO ESECUTIVO – F. LUISO Dispensa sostitutiva e integrata Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Giurisprudenza Prof. Valerio Tavormina Diego del Corral, mat. 4405943 Capitolo I – L’esecuzione forzata nel quadro dell’ordinamento 1, 2, 3. Situazione sostanziale protetta. Situazioni finali. Situazioni strumentali Prima di delineare la funzione dell’esecuzione forzata di cui al libro III del c.p.c., è necessario richiamare alcune nozioni generali. Ogni sistema normativo opera prendendo in considerazione i comportamenti umani e qualificandoli alternativamente come leciti o doverosi. Alcune norme danno facoltà di compiere certe attività e altre norme viceversa vietano il compimento di altre attività. Normalmente, tralasciando il settore penalistico, il legislatore prevede che il comportamento qualificato come doveroso sia funzionale alla realizzazione di un interesse altrui, il quale assurge alla dignità di situazione sostanziale protetta. E qui si offre l’opportunità di operare una prima, importante distinzione tra: • situazioni finali: in questa categoria rientrano i diritti assoluti e i diritti personali di godimento, ossia quelle situazioni sostanziali che si attuano fornendo al titolare poteri di comportamento in relazione ad un determinato bene, e semplicemente facendo obbligo a tutti gli altri soggetti dell’ordinamento di non inframmettersi tra il titolare del diritto e il bene garantito; in altri termini, il titolare del diritto non ha bisogno di alcuna cooperazione esterna per poterne godere, poiché l’unica cosa che conta è che gli altri soggetti non glielo impediscano; • situazioni strumentali: in questa categoria rientrano i diritti di credito, ossia quelle situazioni sostanziali che si attuano non già attraverso l’attività indisturbata del titolare del diritto, bensì tramite un comportamento attivo di un altro soggetto, senza la cui cooperazione il titolare del diritto non può trovare soddisfazione. 4. Doveri primari e secondari Accanto alla suesposta suddivisione, si deve porre una seconda distinzione tra: • doveri primari: in questa categoria rientrano i doveri di comportamento che attuano lo svolgimento fisiologico della situazione sostanziale; ci si riferisce a tutti quei casi in cui, sul piano del diritto sostanziale, è previsto come obbligo primario quello di tenere un certo comportamento attivo; • doveri secondari: in questa categoria rientrano i doveri nati da un precedente illecito, ossia nati dal fatto che esisteva un altro dovere a monte che non è stato rispettato; sicchè il dovere secondario ha una funzione lato sensu ripristinatoria. 5, 6. Illecito. Poteri sostanziali dell’avente diritto Ora, ciò che ci si deve chiedere è: cosa accade quando il soggetto che dovrebbe tenere un comportamento satisfattivo del diritto altrui (omissivo o commissivo, primario o secondario che sia), in realtà non tiene tale comportamento e contravviene all’obbligo impostogli dall’ordinamento? In altre parole, che succede quando si verifica un illecito? Si inizia così a familiarizzare con il concetto di tutela esecutiva, per il cui azionamento è sufficiente che sul piano del diritto sostanziale si sia verificato l’illecito, e non è altresì necessario che vi sia una specifica statuizione sui reciproci diritti ed obblighi delle parti: quello è affare della tutela dichiarativa, disciplinata nel libro II del c.p.c., la quale peraltro è di per sé insufficiente, in quanto non garantisce che l’illecito non permanga anche dopo la pronuncia dichiarativa. Orbene, talune volte può accadere che, a fronte dell’inadempimento dell’obbligato, sia lo stesso titolare del diritto a sostituirsi all’obbligato, attraverso la propria attività sul piano del diritto sostanziale, con il fine di ottenere quel risultato utile che l’ordinamento gli garantisce e che non ha spontaneamente ottenuto dall’obbligato; e ciò prima o dopo che sia instaurato un eventuale processo di cognizione su quel determinato rapporto. Esempio: Tizio appalta a Caio la costruzione di un edificio. Caio rimane inadempiente, e allora Tizio si procura l’utilità che non gli è stata fornita da Caio rivolgendosi a Sempronio. In questo modo, Sempronio costruisce l’edificio, Caio paga (spontaneamente o per effetto della statuizione contenuta in un provvedimento autoritativo) i danni per il ritardo e le spese a Tizio, e Tizio è soddisfatto. 7, 8. Tutela esecutiva. Rapporti con la tutela dichiarativa Non sempre, però, sul piano del diritto sostanziale è possibile suddetta attività sostitutiva. Non sempre l’avente diritto può autonomamente procurarsi l’utilità che gli era garantita dall’ordinamento, e pertanto in casi simili il diritto sostanziale è definitivamente impotente. Ecco che entra in scena lo strumento finalizzato a fornire all’avente diritto quella tutela che gli spetta e che non ha ricevuto: l’esecuzione forzata. Ora, prima di procedere è fondamentale chiarire che, da un punto di vista generale, la tutela dichiarativa non costituisce affatto un presupposto logico e cronologico rispetto alla tutela esecutiva. Sarebbe un grave – per quanto comune – errore pensare che in sede esecutiva si attui soltanto quanto previsto in sede dichiarativa, cioè l’accertamento contenuto in una sentenza o in un lodo; questo può essere vero per previsione squisitamente positiva, come avviene nel processo amministrativo e tributario, ma per l’esecuzione forzata civile non vale il brocardo ab executione non est inchoandum (cioè «non si deve iniziare subito con l’esecuzione»). Ciò è dimostrato dall’esistenza – riconosciuta dallo stesso diritto positivo – di determinati atti (p.e. atti di notaio, titoli di credito) che, pur non avendo la caratteristica di impartire tutela dichiarativa, sono egualmente idonei ad azionare la tutela esecutiva. Naturalmente, alla circostanza che nella tutela esecutiva si postuli (nel senso che si dà per scontata) l’esistenza dell’obbligo di effettuare la prestazione, corrisponde la possibilità per l’esecutato di azionare strumenti finalizzati a far valere l’eventuale inesistenza del diritto che si vuol dar valere tramite l’esecuzione forzata. Di ciò si dirà a suo tempo. Capitolo II – L’esecuzione diretta e l’esecuzione indiretta 1. Garanzia costituzionale Si deve ritenere, anche sulla scorta dei molteplici interventi della Corte di Strasburgo ex art. 6 CEDU, nonché di quello della Corte Costituzionale con sent. 186/2013, che il diritto di azione e di difesa di cui all’art. 24 Cost. abbracci non soltanto l’ambito della tutela dichiarativa, ma anche quello della tutela cautelare ed esecutiva. Pertanto, è espressa garanzia costituzionale la reazione all’inadempimento dell’obbligato attraverso il ricorso alla tutela esecutiva. 2. A – Esecuzione diretta All’inadempimento dell’obbligo si può reagire, in sede giurisdizionale esecutiva, con l’esecuzione diretta e l’esecuzione indiretta. Iniziando dall’esecuzione diretta, questa si ha tutte le volte in cui l’inerzia dell’obbligato è sostituita dall’attività dell’ufficio esecutivo, il quale si attiva in luogo dell’inadempiente, compiendo ciò che quest’ultimo ha mancato di fare e facendo conseguire all’avente diritto l’utilità che l’ordinamento gli garantisce. Ovviamente, poiché l’attività dell’obbligato è sostituita dall’attività dell’ufficio, e quindi l’ufficio esercita i poteri e le facoltà proprie dell’obbligato, attraverso la tutela esecutiva il titolare del diritto non può ottenere di più (né deve ottenere di meno) di quanto avrebbe ottenuto in virtù dell’adempimento spontaneo dell’obbligato. Ed è altresì chiaro che il tipo di attività che l’ufficio esecutivo deve tenere è strettamente correlata al tipo di attività che doveva tenere l’obbligato: in altre parole, i due tipi di attività devono essere omogenei; l’ufficio fa, a prescindere dalla volontà dell’obbligato, quelle stesse cose che avrebbe fatto l’obbligato se fosse stato inadempiente. Infatti, se vi fosse disomogeneità tra il comportamento sostitutivo dell’ufficio e il comportamento sostituito, l’avente diritto otterrebbe dall’esecuzione un’utilità diversa da quella che aveva chiesto. Esempio: Tizio acquista dal rivenditore Alfa una decappottabile d’epoca dal valore corrente di €200000. Alfa è inadempiente poiché rifiuta di consegnare la vettura a Tizio, nonostante sia avvenuto il passaggio di proprietà. Se l’ufficio esecutivo, invece di prelevare l’auto con le ganasce e consegnarla a Tizio, la vende e dà a Tizio €200000, evidentemente costui ottiene un’utilità diversa da quella che aveva richiesto con il ricorso alla tutela esecutiva: a Tizio non interessava avere €200000, ma la decappottabile. 3. Fungibilità Ovviamente, la tecnica di tutela dell’esecuzione diretta ha un limite intrinseco: l’obbligo deve essere fungibile, cioè per il titolare del diritto deve essere indifferente che la prestazione provenga personalmente dall’obbligato, oppure dall’ufficio esecutivo (che è un terzo). Esempio: una compagnia teatrale ha scritturato per uno spettacolo il famoso ballerino Sempronio, e questi pochi giorni prima dell’esibizione fa sapere alla compagnia che non ha alcuna voglia di ballare per loro. Ora, alla compagnia teatrale interessa che sia proprio Sempronio a ballare, e non l’ufficiale giudiziario o il giudice dell’esecuzione. L’esecuzione diretta, qui, non è strutturalmente possibile: la prestazione è, infatti, infungibile. 4. B – Esecuzione indiretta Quando si è in presenza di obblighi infungibili, ossia in quelle circostanze in cui l’adempimento personale da parte dell’obbligato è determinante o a causa del contenuto personale della prestazione o perché trattasi di obbligo di astensione, si rende necessaria l’esecuzione indiretta. Occorre, cioè, indurre l’obbligato ad adempiere, prevedendo a carico di costui delle conseguenze negative per lui più onerose dell’adempimento. Tali conseguenze negative possono avere, secondo l’esperienza storica e il diritto comparato, natura civile o penale: • esecuzione indiretta con misure coercitive civili: si ha esecuzione indiretta attuata con misure civili allorquando viene previsto che a carico dell’inadempiente, una volta verificatisi i presupposti della tutela esecutiva, sorga l’obbligo di pagare una certa somma di denaro per ogni ulteriore periodo di inerzia o per ogni ulteriore violazione del dovere di astensione. In questa fattispecie, dunque, la somma di denaro è calcolata sulla base di un’unità temporale (giorno, settimana, mese) nel caso di inadempimento di obblighi di facere o dare, ovvero sulla base di ogni illecito commesso in caso di obblighi di non facere. Il beneficiario di tali somme può essere la controparte o un terzo (p.e. lo Stato); • esecuzione indiretta con misure coercitive penali: si ha esecuzione indiretta attuata con misure penali allorquando sia previsto che, verificatisi i presupposti della tutela esecutiva, gli ulteriori inadempimenti dell’obbligano costituiscano fatti di reato. Ora, a pensarci bene, l’esecuzione indiretta potrebbe essere impiegata anche per gli obblighi fungibili in luogo o accanto a quella diretta; il motivo per il quale ciò non succede è che l’esecuzione diretta è di molto più efficace di quella indiretta, presentando quest’ultima i seguenti inconvenienti: a. in primis, gli strumenti coattivi operano sulla volontà dell’obbligato, e quindi possono risultare inefficaci, se l’obbligato resta pervicacemente determinato a non adempiere; b. inoltre, lo strumento coattivo di natura penale costituisce un ulteriore appesantimento per una giurisdizione – quella penale – già sovraccarica, la quale proprio per tale sovraccarico spesso non riesce ad applicare la sanzione; c. infine, lo strumento coattivo di natura civile è un’arma spuntata per chi non ha un patrimonio con cui rispondere dell’obbligazione pecuniaria. E, in senso contrario, l’esecuzione indiretta di natura civile non serve neppure a chi ha un patrimonio così ingente da non risentire neppure minimamente della sanzione inflittagli. Ci si deve chiedere adesso cosa accade se l’esecuzione indiretta viene utilizzata per un diritto (accertato esecutiva soltanto relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, di talchè le scritture private sono titoli esecutivi solo per l’espropriazione. Inoltre, il riferimento alle scritture private autenticate non si limita ai soli contratti, ma abbraccia anche gli atti unilaterali (promesse di pagamento e ricognizioni di debito). Per quanto riguarda, invece, i titoli di credito, le leggi sulla cambiale e sull’assegno prevedono che questi siano titoli esecutivi solo se in regola con il bollo fin dalla loro emissione; in caso contrario, tali strumenti valgono come titoli di credito, ma non hanno efficacia esecutiva. 11. Atti pubblici La terza categoria di titoli esecutivi è costituita dagli atti pubblici ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. Ai sensi dell’art. 474 co. 3 c.p.c., l’atto pubblico costituisce titolo esecutivo anche in relazione all’esecuzione per consegna e rilascio; pertanto, facendo l’esempio del contratto di compravendita, l’atto pubblico ha un quid pluris quanto ad efficacia esecutiva rispetto alla scrittura privata autenticata, poiché mentre quest’ultima ha efficacia esecutiva solo in relazione all’obbligo del debitore di pagare il prezzo (e quindi è utile alla sola espropriazione), l’atto pubblico estende la propria efficacia esecutiva anche all’obbligo del creditore di consegnare il bene (e quindi è utile anche all’esecuzione per consegna/rilascio). 12. Altri titoli esecutivi L’elencazione di tutti gli atti aventi efficacia esecutiva non si esaurisce di certo nella previsione del co. 2 dell’art. 474 c.p.c. Infatti, vi sono centinaia di altri titoli esecutivi che il legislatore individua in una enorme mole di leggi speciali, al punto che si può dire che quasi non c’è legge in cui non sia previsto un titolo esecutivo. Ciò che rileva, in ogni caso, è che l’efficacia di titolo esecutivo sia prevista espressamente dal legislatore, e non sia desunta in via di interpretazione analogica. Merita di essere menzionata qui almeno una fattispecie di titolo esecutivo, la quale presenta un particolare interesse, vista il suo crescente impiego nel mondo degli affari: la conciliazione stragiudiziale, ossia quel procedimento volto a favorire una soluzione negoziale della controversia in ambito civile e commerciale; proprio perché il risultato del procedimento conciliativo è perfettamente equivalente alla tutela data da una sentenza, il legislatore attribuisce all’accordo, raggiunto nelle sedi conciliative indicate dal legislatore medesimo, efficacia piena di titolo esecutivo. Infatti, il verbale di conciliazione, il quale sia autenticato dai legali che hanno assistito le parti oppure munito dell’exequatur del tribunale, costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. 13, 14. Fondamento del titolo esecutivo. Irrilevanza della certezza A questo punto, è lecito chiedersi perché il legislatore individua certe fattispecie, e non altre, come costitutive del diritto alla tutela esecutiva. In dottrina, è prevalente l’opinione che pone a fondamento del titolo esecutivo la certezza che determinati atti danno dell’esistenza del diritto da tutelare; in altri termini, il legislatore attribuisce efficacia esecutiva a certi atti, e non a certi altri, in ragione dell’efficacia di accertamento propria degli uni, e non degli altri. Questa impostazione, per la verità, non convince. Certo, l’atto cui il legislatore attribuisce efficacia esecutiva può fornire una sufficiente certezza dell’esistenza del diritto da tutelare, ma non è questa la ratio in virtù della quale il legislatore concede la tutela esecutiva. E per chiarirlo è sufficiente un esempio: titoli di credito come cambiali o assegni sono scritture private la cui sottoscrizione non è necessariamente autenticata da un pubblico ufficiale, sicchè tali mezzi non danno certezza della loro provenienza; nulla impedisce a Tizio di acquistare una cambiale al primo tabaccaio che trova e sottoscrivere a nome di Caio (ignaro di tutto) l’impegno a pagare €100000. Formatosi così un titolo falso, il portatore del titolo può iniziare, alla scadenza, l’esecuzione forzata contro Caio. Da ciò si capisce che il legislatore, nell’attribuire efficacia esecutiva ai titoli di credito, sconta il rischio della loro falsificazione, preferendo concedere la tutela correndo siffatto rischio, piuttosto che pretendere una certezza dell’esistenza del diritto. Questo perché al legislatore non (sempre) interessa che l’accertamento del diritto contenuto nell’atto sia corrispondente al vero, o quantomeno sufficientemente certo. Nel caso della cambiale, p.e., al legislatore interessa soltanto incassare i proventi dell’imposta di bollo sui titoli di credito, tant’è che se la cambiale o l’assegno non vengono emessi su carta bollata valgono solo come titoli di credito, senza efficacia esecutiva; eppure non c’è differenza materiale tra una cambiale sottoscritta sulla carta bollata e cambiale sottoscritta su un comune foglio di carta, non c’è maggior certezza in un caso piuttosto che nell’altro: il motivo del discrimine è squisitamente fiscale. 15. Diritto meritevole di tutela Quanto detto finora consente di giungere ad una conclusione più coerente sul piano sistematico: gli elementi che il legislatore prende in considerazione per attribuire la tutela esecutiva sono disomogenei, e la certezza del diritto è solo uno dei possibili motivi che può spingere il legislatore a considerare titolo esecutivo un certo atto. Il legislatore, in realtà, attribuisce efficacia esecutiva all’atto sulla base di una valutazione di meritevolezza, ossia quando ritiene il diritto contenuto nell’atto meritevole di tutela esecutiva (p.e. perché il diritto ivi contenuto è certo, o perché appartiene ad un ente pubblico/previdenziale, o soltanto – i titoli di credito cambiari, per l’appunto – quando il diritto è strumentale al raggiungimento di fini fiscali). 16. Rapporti con la tutela dichiarativa In chiusura, le considerazione appena esposte consentono di tirare le somme circa i rapporti tra tutela esecutiva e tutela dichiarativa. Molto banalmente, poiché si è detto che nulla executio sine titulo, e cioè che per accedere alla tutela è necessario essere in possesso di un titolo esecutivo, la conseguenza è che se l’interessato non ha un titolo esecutivo stragiudiziale (p.e. assegno), deve procurarsene uno: in altre parole, deve finire davanti al giudice, instaurando un processo di cognizione (ordinario o sommario). Visto sotto questa luce, dunque, il processo di cognizione è «prostituito» ad una funzione diversa da quella sua propria, in quanto all’attore non interessa che siano stabilite le regole di condotta fra lui e la controparte in relazione alla sua situazione sostanziale protetta: ciò che importa è chiudere il processo con un atto fra le mani che abbia valore esecutivo e consenta di intraprendere la tanto agognata esecuzione. È quindi evidente che, quanto più si moltiplicano i titoli esecutivi stragiudiziali, tanto più si alleggerisce il processo di cognizione da tutte quelle domande (e sono la stragrande maggioranza) che hanno come unico scopo la formazione di un titolo esecutivo: ecco perché, negli ultimi anni, il legislatore ha ritenuto preferibile lasciar proliferare centinaia di titoli esecutivi, onde evitare una richiesta di tutela dichiarativa «prostituita» e il sovraccarico dei processi di cognizione. Capitolo V – Il titolo esecutivo in senso sostanziale e il titolo esecutivo in senso documentale 1. Oggetto dell’esecuzione Bisogna ora chiarire i rapporti fra titolo esecutivo e diritto oggetto dell’esecuzione. Il titolo esecutivo sta fuori e prima dell’esecuzione: esso non è l’oggetto dell’esecuzione, bensì il mero diritto processuale alla tutela esecutiva del diritto sostanziale. Pertanto, oggetto della tutela esecutiva è soltanto il diritto sostanziale da tutelare. In altri termini (e una volta per tutte), l’esecuzione forzata costituisce l’attuazione non del provvedimento del giudice, bensì della situazione sostanziale protetta. Questo perché – quantomeno nel processo civile – l’esecuzione può essere messa in moto anche da titoli esecutivi stragiudiziali, sicchè avrebbe poco senso parlare di «esecuzione della sentenza» o di «esecuzione della cambiale»; si dovrebbe invece dire «esecuzione in base alla sentenza» o «in virtù della cambiale», ecc. Le cose cambiano se si guarda al processo penale o amministrativo, nei quali il provvedimento giurisdizionale è sempre presupposto dell’esecuzione, tant’è che nel c.p.p. si parla di «esecuzione delle sentenze», e nel processo amministrativo di «esecuzione del giudicato». Ora, l’aver riportato l’attenzione sul fatto che la tutela esecutiva è consentita dal titolo, ma non è misurata sul titolo, consente di trarre la seguente conclusione: la struttura del processo esecutivo si deve adattare non al tipo di provvedimento che ne è presupposto, ma al tipo di diritto che si vuole tutelare. Esempio: se Tizio vanta un credito di €1000 nei confronti di Caio, la tutela esecutiva è sempre la stessa, a prescindere che il titolo esecutivo che mette in moto il processo d’esecuzione sia una cambiale o una sentenza o un lodo. 2. Legittimità processuale Le conclusioni a cui finora si è pervenuti consentono di trarne un’ulteriore di pari importanza: l’esistenza del titolo esecutivo è condizione sufficiente per la tutela esecutiva. La fattispecie di cui all’art. 474 c.p.c. produce da sola il seguente effetto giuridico: il titolare della situazione sostanziale descritta nel titolo ha il diritto di rivolgersi all’ufficio esecutivo, e l’ufficio esecutivo ha il dovere di porre in essere la propria attività e di svolgere la propria funzione a tutela della situazione sostanziale indicata nel titolo. 3. Liceità sostanziale Ma attenzione: l’esistenza dell’effetto processuale derivante dal titolo (cioè il diritto all’intervento dell’ufficio esecutivo) non incide sulla liceità dell’esecuzione forzata sul piano del diritto sostanziale. Le due fattispecie devono essere tenute ben distinte: da un lato la legittimità processuale, data dall’esistenza del titolo; dall’altro la liceità sostanziale dell’intervento, che si fonda sulla realtà sostanziale. Ora, la peculiarità della tutela esecutiva è che colui il quale l’ha richiesta sulla base di un titolo esecutivo deve averla, anche se nei confronti della controparte sta commettendo un illecito. Non è un caso che l’art. 96 co. 2 c.p.c. preveda l’obbligo al risarcimento dei danni in caso di inesistenza del diritto di cui è richiesta la tutela esecutiva. Da quanto detto, allora, emerge chiaramente la possibilità di una utilizzazione illecita della tutela esecutiva. Il fatto che ciò sia potenzialmente realizzabile non deve stupire: infatti, una cosa è il diritto alla tutela, cioè il diritto processuale verso lo Stato; un’altra cosa, invece, è il diritto da tutelare, che è un diritto sostanziale verso la controparte. Poiché l’esistenza del primo diritto prescinde dall’esistenza del secondo, l’esecuzione diventa un’arma che lo Stato fornisce nelle mani di chi ha un titolo esecutivo: se questi la usa male, ne risponde sul piano del diritto sostanziale. 4. Titolo esecutivo in senso sostanziale La distinzione che si deve operare ora è tra titolo esecutivo in senso sostanziale e titolo esecutivo in senso documentale. Per titolo esecutivo in senso sostanziale si intende la fattispecie da cui sorge l’effetto giuridico di rendere tutelabile in via esecutiva una situazione sostanziale protetta, per la quale il titolare di tale situazione ha diritto all’intervento degli organi giurisdizionali, e per la quale questi ultimi hanno l’obbligo di attivarsi. In altre parole, l’esistenza di un titolo esecutivo in forma sostanziale, nel rapporto (di diritto processuale) istante-organi esecutivi, costituisce la pretesa fondata dell’istante. Invece, nel rapporto (di diritto sostanziale) istante-esecutato, il titolo esecutivo non è idoneo a modificare la situazione di diritto sostanziale. Pertanto, nonostante la tradizionale (e fuorviante) denominazione, il titolo esecutivo in senso sostanziale è un istituto di diritto processuale. Come tutte le fattispecie produttive di effetti giuridici, anche il titolo esecutivo è composto di elementi così suddivisibili: • elementi costitutivi: l’effetto giuridico, ossia la pretesa esecutiva, nasce allorchè è completata la fattispecie costitutiva; • elementi impeditivi/modificativi/estintivi: l’effetto giuridico, in presenza di elementi impeditivi/modificativi/estintivi (p.e. riforma della sentenza costituente titolo esecutivo in appello) rispettivamente non sorge/si modifica/si estingue. 5. Titolo esecutivo in senso documentale Diversamente, per titolo esecutivo in senso documentale si intende un documento che rappresenta in modo non completo la fattispecie del diritto a procedere ad esecuzione forzata. Si tratta di una rappresentazione parziale della fattispecie del titolo esecutivo in senso sostanziale, in quanto tale rappresentazione: • può essere carente di un fatto costitutivo (p.e. avvenuta scadenza del termine non documentata nel titolo); • è sicuramente carente di eventuali fatti estintivi o modificativi del diritto di procedere ad esecuzione forzata (p.e. nella sentenza di primo grado che sia titolo esecutivo sono riportati i fatti costitutivi, ma non anche l’eventuale sospensione dell’esecuzione che sia stata disposta dal giudice d’appello). Allorchè le norme parlano di «titolo esecutivo», si deve quindi distinguere a seconda che si riferiscano al titolo esecutivo in senso sostanziale o al titolo esecutivo in senso documentale. P.e., l’art. 474 c.p.c. si esprime in termini di titolo esecutivo in senso sostanziale, e quindi si riferisce alla fattispecie del diritto di procedere ad esecuzione forzata; l’art. 475 c.p.c., invece, il quale enuclea le modalità di redazione e i contenuti che un titolo esecutivo deve avere, si riferisce al «pezzo di carta» rappresentativo del diritto di procedere ad esecuzione forzata, e non all’attuale esistenza di tale diritto. 6. Funzione del titolo in senso documentale L’ordinamento ha creato la figura del titolo esecutivo in senso documentale per rendere edotto l’ufficio esecutivo dell’esistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata, così semplificando le operazioni cognitive che l’ufficio esecutivo deve compiere per rendersi conto se l’istante ha diritto alla tutela esecutiva. La semplificazione della cognizione dell’ufficio esecutivo si attua, dunque, onerando l’istante di fornire la prova documentale dell’esistenza dei fatti costitutivi del diritto alla tutela esecutiva. L’ufficio esecutivo si limita quindi a constatare l’esistenza del titolo esecutivo in senso documentale, e sulla base di ciò deve procedere, salva un’opposizione della controparte che porti a una cognizione piena del titolo esecutivo in senso sostanziale. 7, 8, 9. Spedizione in forma esecutiva. Formula esecutiva. Eccessività delle cautele Ai fini dell’individuazione dei titoli esecutivi in senso documentale, è bene distinguere le ipotesi previste dall’art. 474 n. 2 (scritture private autenticate e titoli di credito) da quelle previste dai n. 1 e 3 della medesima norma (provvedimenti giudiziali e atti pubblici). Nel caso di scritture private autenticate e titoli di credito, infatti, il titolo esecutivo in senso documentale è rappresentato dall’originale del titolo esecutivo stesso. Nel caso di provvedimenti giudiziali e atti pubblici, invece, l’originale non circola, ma è destinato a rimanere custodito dal pubblico ufficiale che lo ha formato. Il titolo esecutivo in senso documentale, allora, è qui costituito da una copia dell’atto originale; proprio in virtù di questo, l’ordinamento vuole evitare il pericolo che entrino in circolazione una pluralità di titoli esecutivi in senso documentale. Tale pericolo è fronteggiato dal meccanismo della spedizione in forma esecutiva ex art. 475 c.p.c. Il meccanismo in esame consiste nell’identificazione della copia dell’atto – costituente titolo esecutivo in senso documentale – attraverso l’apposizione dell’intestazione «Repubblica Italiana. In nome della legge» e della seguente formula: «Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, e a tutti gli ufficiali della forza pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti». La suesposta formula esecutiva è, invero, un residuato storico (quasi archeologico) di una tradizione giuridica oggi estinta, da datarsi come anteriore alla codificazione napoleonica, in cui quel «comandiamo» era un ordine non del cancelliere o del notaio (che oggi lo appongono), bensì dell’autorità amministrativa; un tempo, infatti, l’esercizio della tutela esecutiva era riservato al potere amministrativo. Oggi, la formula così pomposa e altisonante ha il solo scopo di contrassegnare l’unica copia dell’atto esecutivo che può fungere da titolo esecutivo in senso documentale. A pensarci bene, le cautele predisposte dall’art. 475 c.p.c. sono eccessive, poiché il pericolo che vi siano in circolazione una pluralità di titoli esecutivi in senso documentale è di scarsa rilevanza pratica. Ciò che dovrebbe importare al legislatore – ma si è detto che questo in sede esecutiva è problema futile – è che risultino dall’atto le vicende successive attinenti all’efficacia esecutiva dell’atto stesso: ben può accadere, p.e., che Tizio si presenti dal notaio per ottenere una copia esecutiva di un atto dal quale risulti un obbligo, al quale Caio ha in realtà adempiuto, ma di tale pagamento non residua traccia poiché Caio non ha alcun diritto di far annotare il pagamento sull’originale. 10. Effetti della spedizione in forma esecutiva La spedizione in forma esecutiva non ha alcuna incidenza sul diritto di procedere ad esecuzione forzata. Se un atto ha efficacia esecutiva, la mantiene anche se il titolo esecutivo in senso documentale manca della forma esecutiva; al più, si può dire che il diritto all’esecuzione sarà stato malamente esercitato. La ovvia conseguenza in senso contrario è che se ad un atto è stata erroneamente apposta la formula esecutiva, il creditore non acquista per ciò solo il diritto di procedere all’esecuzione forzata. Capitolo VI – L’efficacia del titolo esecutivo verso i terzi 1. Concretezza ed astrattezza Per affrontare il problema dell’efficacia del titolo esecutivo verso i terzi, occorre preliminarmente considerare che il titolo esecutivo segue un sistema di imputazione dei suoi effetti strutturalmente diverso da quello seguito da un atto normativo. La norma giuridica, infatti, individua i soggetti a cui riferire certi comportamenti non nominativamente, bensì attraverso una fattispecie: è l’astrattezza, ossia il carattere intrinseco e il requisito ontologico di (quasi) ogni norma di diritto. Gli atti giurisdizionali e i titoli esecutivi, invece, presentano il carattere della concretezza. Il titolo esecutivo, p.e., non stabilisce: «il proprietario di una certa autovettura deve pagare ad una certa persona una tot somma»; ma stabilisce: «Giovanni Rossi, proprietario della vettura targata DX152TY, è condannato a pagare a Mario Bianchi la somma di €1000». Fatte queste premesse, il problema da affrontare adesso è se si può avere un processo esecutivo da/contro soggetti diversi da quelli individuati nominativamente dal titolo esecutivo; in altre parole, se il titolo esecutivo può essere utilizzato da un soggetto diverso da quello indicato nel titolo stesso come titolare del Il precetto deve inoltre contenere la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio della parte istante nel comune in cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione. In mancanza le opposizioni al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato, e le notificazioni alla parte istante si fanno presso la cancelleria del giudice stesso. Il precetto deve essere sottoscritto […] e notificato alla parte personalmente […]». Sull’ult. comma si deve precisare che è sufficiente la sottoscrizione personale del creditore, in quanto non c’è ancora in questa fase l’obbligo di difesa tecnica (che invece scatta con l’inizio dell’esecuzione forzata). 6. Processo esecutivo Il precetto è un atto del processo esecutivo, anche se anteriore all’inizio dell’esecuzione forzata. Questo perché l’inizio del processo esecutivo non coincide con l’inizio dell’esecuzione forzata. A ciò si può arrivare tramite l’art. 617 c.p.c., che regola uno dei possibili processi di cognizione incidentali al processo esecutivo; la norma dispone che l’opposizione agli atti esecutivi è proponibile in relazione al titolo esecutivo ed al precetto, così come a tutti gli altri atti del processo esecutivo: in virtù di tale equiparazione del titolo esecutivo e del precetto a tutti gli altri atti del processo esecutivo, e del fatto che il precetto è un atto del processo esecutivo anteriore all’inizio dell’esecuzione forzata, si desume che il processo esecutivo inizia prima dell’esecuzione forzata. 7. Domanda giudiziale Il precetto ha nel processo esecutivo la funzione che la domanda giudiziale ha nel processo di cognizione: l’individuazione del diritto di cui si richiede la tutela. Come atto avente la medesima funzione della citazione o del ricorso, anche il precetto produce gli effetti sostanziali della domanda giudiziale: impedimento della decadenza, interruzione/sospensione della prescrizione, ecc. Peraltro, rispetto alla citazione e al ricorso, il precetto presenta una diversità: nella citazione e nel ricorso, contestualmente all’indicazione delle parti, è presente anche la richiesta del provvedimento del giudice; nel precetto, invece, la richiesta di intervento dell’ufficio esecutivo non è contestuale alla notifica del precetto, ma successiva. In altre parole, prima si individua il diritto, si notifica il precetto alla controparte (e con ciò è proposta la domanda esecutiva e individuato il diritto da tutelare); poi, scaduto il termine indicato nel precetto per adempiere, ci si rivolge all’ufficio esecutivo per un suo intervento. 8. Perenzione L’art. 481 c.p.c. statuisce: «Il precetto diventa inefficace, se nel termine di 90 giorni dalla sua notificazione non è iniziata l’esecuzione. Se contro il precetto è proposta opposizione, il termine rimane sospeso e riprende a decorrere a norma dell’art. 627». Il co. 2 necessita di una spiegazione più approfondita. L’opposizione contro il precetto non sospende il processo esecutivo; ebbene, il creditore, contro il cui precetto è presentata opposizione, può: procedere ugualmente all’esecuzione (sempre che il giudice non sospenda l’esecuzione), assumendosi la responsabilità dei danni per ingiusta esecuzione ex art. 96 co. 2 c.p.c.; ovvero aspettare l’esito del processo di opposizione, e in questo caso il co. 2 gli garantisce che il precetto non perde efficacia, poiché la sua validità permane oltre il termine di perenzione di 90 giorni per tutta la durata del processo di opposizione. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, peraltro, il termine di perenzione del precetto – in quanto termine di decadenza, e non di prescrizione – è fatto salvo da un pignoramento tempestivamente effettuato, di talchè altri pignoramenti successivi al primo possono essere effettuati anche se successivi al termine di 90 giorni. Capitolo VIII – La struttura generale del processo esecutivo 1. Funzione dell’esecuzione forzata Ci si deve ora occupare della struttura generale del processo esecutivo, per la quale ci si può riferire agli artt. 483-490 c.p.c., redatti con riferimento all’espropriazione forzata, ma utilizzabili come parte generale del processo esecutivo e dell’esecuzione in forma specifica. Preliminarmente, si deve ricapitolare in breve la funzione dell’esecuzione forzata. Come si è ampiamente detto, l’esecuzione forzata non ha il compito di accertare i diritti e gli obblighi delle parti, poiché tale funzione è propria del processo di cognizione. L’esecuzione forzata ha come unico scopo quello di procurare la soddisfazione di diritti correlati a obblighi non adempiuti, dando per scontata l’esistenza di tali diritti e obblighi. La conseguenza di ciò è che sugli effetti delle misure giurisdizionali esecutive non può formarsi il giudicato ex art. 2909 c.c., in quanto la preclusione della possibilità di ridiscutere ciò che è stato oggetto del provvedimento giurisdizionale si addice ad un processo volto a statuire circa i diritti e gli obblighi delle parti, e non al processo esecutivo. Non è dunque compito dell’esecuzione forzata accertare che l’adempimento coattivo sia dovuto sul piano del diritto sostanziale. Gli atti dell’ufficio esecutivo possono produrre, a favore di terzi, effetti rimuovibili solo a certe condizioni; viceversa, è il risultato finale dell’esecuzione che l’ufficio esecutivo non può stabilizzare, perché la sua funzione non va a toccare la «giustizia» dell’esecuzione rispetto al diritto sostanziale. 2. Cognizione dell’ufficio esecutivo L’ufficio esecutivo si muove accertando preventivamente la sussistenza dei presupposti per la propria attività; quindi, l’ufficio esecutivo compie una «cognizione», da non confondersi naturalmente con l’attività propria del processo dichiarativo. Questo perché, da un punto di vista strumentale, l’attività di cognizione forma il necessario presupposto di qualunque attività, non solo giurisdizionale. Nel caso di specie, l’ufficio esecutivo, prima di emettere una misura esecutiva, procede alla ricognizione della sussistenza dei presupposti per emetterla: questo non significa – lo si ripete – che l’ufficio esecutivo statuisca sul modo di essere di tali presupposti (ossia della realtà sostanziale sulla quale incide la misura esecutiva). Da quanto detto finora si desume che, in fondo, l’esecuzione forzata è strutturata in base a modalità tipiche non solo della tutela dichiarativa, ma di ogni attività giurisdizionale: 1. domanda della misura giurisdizionale; 2. ricognizione della situazione esistente; 3. risposta dell’ufficio giurisdizionale. L’unico punto da tenere ben fermo in tema di esecuzione è che è esclusa dalla ricognizione dell’ufficio esecutivo l’effettiva esistenza del diritto da tutelare, che è data per presupposta; se qualcuno afferma che non ci deve essere esecuzione, poiché non c’è alcun diritto da tutelare, deve aprire un processo dichiarativo ad hoc. 3, 4. Accertamento dei presupposti per la tutela. Contenuto delle misure giurisdizionali L’ufficio esecutivo, allora, di fronte alla domanda di tutela esecutiva, procede all’accertamento dei presupposti per la concessione della tutela medesima, e deve dare una risposta che sia positiva o negativa. Una risposta, pertanto, non potenzialmente triadica, come lo è nel processo dichiarativo, nel quale si può avere una pronuncia di rito (sulla quale non si forma giudicato) e due possibili pronunce di merito (sulle quali si forma giudicato), e nel quale le questioni di rito e le questioni di merito sono trattate e decise con gli stessi strumenti processuali. Essendo il processo esecutivo sprovvisto di una struttura idonea a decidere, le risposte dell’ufficio sono sempre due (affermativa o negativa), ma quella negativa non si distingue in rifiuto per ragioni di merito ed in rifiuto per ragioni di rito, bensì costituisce un unitario rifiuto di tutela giurisdizionale. Lo stesso, peraltro, accade nel processo cautelare. 5. Forma delle misure giurisdizionali Anche dal punto di vista formale vi è differenza tra processo dichiarativo e processo esecutivo. Nel processo dichiarativo, la forma del provvedimento è sempre la stessa, indipendentemente dal suo contenuto: la sentenza; nel processo esecutivo, invece, la forma del provvedimento può essere diversa a seconda che la risposta dell’ufficio esecutivo sia positiva (pignoramento, ordinanza di vendita, ecc.) o negativa (non-provvedimento). 6. Questioni di rito Se l’interessato si duole del comportamento dell’ufficio, sostenendo che la misura esecutiva è stata illegittimamente rifiutata o concessa, la relativa controversia non può mai essere decisa nel processo esecutivo (come invece accadrebbe nel processo di cognizione): l’interessato deve aprire un processo di cognizione in cui discutere della questione che ha sollevato. E questo non solo per risolvere le controversie relative al modo di essere della realtà sostanziale, ma anche per risolvere le questioni che possono sorgere intorno a questioni di rito. Non potrebbe essere diversamente: l’ambito della cognizione degli organi del processo esecutivo (giudice dell’esecuzione, ufficiale giudiziario, ecc.) ha la medesima portata. 7. Presupposti processuali Le condizioni minime indispensabili per emettere una misura esecutiva sono l’equivalente delle condizioni per la decisione del merito del processo dichiarativo, e sono costituite dai presupposti processuali del processo esecutivo (giurisdizione, competenza, interesse, capacità, legittimazione, rappresentanza tecnica, ecc.), in mancanza dei quali il processo è viziato e l’emanazione della misura esecutiva richiesta è contra ius. La rilevazione dei presupposti processuali segue la disciplina di cui al libro I del c.p.c., con gli adattamenti che ovviamente richiede il passaggio dal processo di cognizione a quello esecutivo, e che verrano esposti qui di seguito. 8. Prima udienza In taluni casi, il legislatore prevede la prima udienza come termine ultimo per la rilevazione dei vizi di certuni presupposti processuali (p.e. incompetenza); secondo l’opinione preferibile, alla prima udienza del processo dichiarativo corrisponde, nel processo esecutivo, la prima udienza di fronte al giudice dell’esecuzione. In tutti i casi diversi da quelli espressamente regolati nei modi e termini di cui sopra, la carenza di un presupposto processuale (p.e. difetto di giurisdizione) è rilevabile anche d’ufficio senza limiti di tempo. 9. Nullità formali Altra questione che l’ufficio esecutivo è tenuto ad esaminare è quella relativa alla nullità dei singoli atti del processo, alla quale devono applicarsi gli artt. 156 ss. c.p.c.; poiché tali norme non contengono un riferimento univoco al processo dichiarativo, possono trovare applicazione senza adattamenti anche per il processo esecutivo. Si fa dunque integrale rinvio alla relativa disciplina esaminata a suo tempo. L’unica precisazione che si rende necessaria è la seguente: la cognizione dell’ufficio esecutivo che esamina la sussistenza dei presupposti processuali o la nullità dei singoli atti ex art. 157 c.p.c., non ha natura decisoria, e l’esito di tale ricognizione in nessun caso può intendersi come decisione della questione; semplicemente, quindi, la ricognizione è strumentale a stabilire se emettere o meno la misura esecutiva. 10. Opposizione agli atti esecutivi Ricapitolando: nel processo dichiarativo, le questioni di rito sono decise; nel processo esecutivo, le questioni di rito vengono delibate, con il fine di orientare l’attività dell’ufficio esecutivo, senza che ciò costituisca attività decisoria. Ma allora come si possono «decidere» le contestazioni relative alla correttezza dell’operato dell’ufficio esecutivo? L’ordinamento a tal proposito offre come strumento ad hoc l’opposizione agli atti esecutivi, ossia un processo di cognizione avente per oggetto l’accertamento della validità dell’atto esecutivo. In tale processo vengono decise quelle stesse questioni che nel processo esecutivo erano state soltanto affrontate. 11, 12. Irrilevanza del diritto sostanziale da tutelare. Poteri dell’ufficio rispetto al titolo esecutivo Date le peculiarità del processo esecutivo che finora sono state oggetto di esame, si può arrivare agevolmente alla conclusione che l’esecutato non può sollevare, all’interno del processo esecutivo, contestazioni circa l’esistenza del diritto fatto valere in sede esecutiva, ma lo deve fare proponendo opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., al di fuori del processo esecutivo. Rimane il problema se l’ufficio deve accertare la sussistenza di un titolo esecutivo in senso sostanziale. La soluzione preferibile è la seguente: l’ufficio esecutivo – salve determinate eccezioni di legge (p.e. cambiale e assegno) – non ha il potere di rilevare d’ufficio l’inesistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale. Per l’ufficio rileva esclusivamente il titolo esecutivo in senso documentale, e non anche i fatti modificativi ed estintivi dell’efficacia esecutiva del titolo. Tale impostazione è suffragata anche dall’art. 615 c.p.c., il quale prevede, come uno dei possibili oggetti dell’opposizione all’esecuzione, l’inesistenza del titolo esecutivo in senso sostanziale. L’esecutato, dunque, potrà aprire un incidente di cognizione; tale opposizione può essere proposta esclusivamente dall’esecutato, e non dal procedente o da altre parti del processo esecutivo. Se si ritenesse rilevabile d’ufficio la sopravvenuta carenza del titolo esecutivo in senso sostanziale, l’ufficio esecutivo, qualora ritenga che il titolo esecutivo in senso sostanziale sia venuto meno, dovrebbe rifiutare di andare avanti; il creditore procedente allora dovrebbe contestare la decisione dell’ufficio esecutivo attraverso l’opposizione agli atti esecutivi. Se, invece, l’ufficio esecutivo ritiene sussistente il titolo esecutivo in senso sostanziale, sarebbe l’esecutato a proporre opposizione. In altri termini, la stessa questione (la sussistenza del titolo in senso sostanziale) sarebbe oggetto di due processi di cognizione diversi. Assurdo. Ancora più sconcertante se si considera che questa seconda impostazione è quella (così sembrerebbe) accettata dalla giurisprudenza. 13. Principio del contraddittorio Il fatto che all’interno del processo esecutivo non ci si chiede se esiste o meno la situazione sostanziale oggetto di tutela esecutiva, non significa che non vi sia attuato il principio del contraddittorio e che non sia rispettato il diritto di difesa ex artt. 24 e 111 Cost. Questo perché – nonostante certa parte della dottrina non veda il problema – restringere il campo dell’applicazione delle garanzie costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost. al solo processo di cognizione, significa peccare di rigidità e dimenticare che le suddette norme trovano applicazione in tutti gli interventi giurisdizionali, e non solo in quelli aventi funzione dichiarativa. È chiaro che il principio del contraddittorio nel processo esecutivo si esplica consentendo alle parti di contribuire, su un piede di parità, alla raccolta degli elementi rilevanti (di certo non a qualcosa che è irrilevante in sede esecutiva, come l’esistenza del diritto) per l’emanazione della misura esecutiva. 14. Audizione delle parti All’interno del processo esecutivo si deve stabilire quali sono le attività da compiere per impartire la tutela richiesta; è infatti in relazione a dette attività che si attua il principio del contraddittorio di cui si è detto finora. Orbene, in virtù degli artt. 485-487 c.p.c. – che disciplinano le domande e le istanze che si propongono al giudice dell’esecuzione, nonché i provvedimenti del giudice – l’ordinamento prevede che l’ufficio esecutivo, prima di emettere la misura, debba sentire le parti. Per «sentire le parti» si intende l’instaurazione del contraddittorio circa le modalità con cui il processo esecutivo deve andare avanti; sicchè ciascuna delle parti può convincere il giudice ad emettere oppure a non emettere una misura esecutiva, ovvero a darle un certo contenuto piuttosto che un altro. L’audizione delle parti avviene avvertendole della fissazione della relativa udienza da parte del giudice. Il giudice fissa l’udienza e dispone la comparizione delle parti, ed il provvedimento è comunicato alle parti interessate. Se risulta che una delle parti avvertite non è comparsa all’udienza per cause indipendenti dalla sua volontà, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che il provvedimento di fissazione della nuova udienza sia comunicato alla parte non comparsa. 15, 16. Domande delle parti. Provvedimenti del giudice Ai sensi dell’art. 486 c.p.c., le domande delle parti devono essere proposte con ricorso da depositare in cancelleria o oralmente nel verbale di udienza. L’art. 487 c.p.c. prevede che i provvedimenti del giudice dell’esecuzione hanno la forma dell’ordinanza modificabile o revocabile fino alla sua esecuzione; una volta eseguita, il giudice non può più modificarla o ritirarla. 17. Competenza Guardando ora alla competenza, gli uffici giudiziari competenti per l’esecuzione forzata sono indicati dagli artt. 9 e 26 c.p.c. In senso verticale, per l’esecuzione forzata è sempre competente il tribunale. In senso orizzontale, territorialmente competente per l’espropriazione immobiliare e mobiliare è il giudice del luogo dove si trova il bene; per l’espropriazione presso terzi è competente il giudice del luogo dove risiede il terzo debitore; per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo deve essere adempiuto; per l’esecuzione forzata per consegna/rilascio è competente il giudice del luogo dove si trovano i beni. La competenza territoriale è inderogabile dalla volontà delle parti. L’incompetenza è rilevabile d’ufficio non solo dal giudice, ma anche dall’ufficiale giudiziario. La competenza per le cause di cognizione incidentali all’esecuzione è, invece, disciplinata dagli artt. 17 e 27 c.p.c.; tutti i processi incidentali all’esecuzione forzata sono a decisione monocratica. 18. Composizione dell’ufficio esecutivo L’ufficio esecutivo non è composto dal tribunale nel suo complesso, bensì da uno o più giudici a cui vengono attribuite le mansioni di giudice dell’esecuzione. Ovviamente, anche il cancelliere fa parte dell’ufficio esecutivo; vi fa parte, anzi vi ha un ruolo fondamentale, anche l’ufficiale giudiziario. Le mansioni affidate al giudice dell’esecuzione e all’ufficiale giudiziario sono variabili a seconda dei vari procedimenti, e pertanto verranno esaminate volta per volta nel corso della trattazione. Capitolo IX – L’espropriazione forzata 1. Tutela dei crediti pecuniari Il processo con cui si tutelano esecutivamente i crediti relativi a somme di denaro è l’espropriazione forzata, di cui al titolo II del libro III del c.p.c. In realtà, il fondamento dell’espropriazione forzata non sta nel c.p.c., ma negli artt. 2740 e 2910 c.c. In del bene, diventa esperibile l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. 5. Oggetto dell’esecuzione e oggetto del processo esecutivo Si rende dunque necessario tenere distinti l’oggetto dell’esecuzione dall’oggetto del processo esecutivo. Oggetto dell’esecuzione (artt. 2740 e 2919 c.c.) è la titolarità, in capo all’esecutato, di un diritto sostanziale trasferibile sul bene pignorato, poiché solo a quelle condizioni il bene può essere efficacemente trasferito. Oggetto del processo esecutivo è invece l’appartenenza del bene, la sussistenza di quella situazione processuale di cui all’art. 513 c.p.c. 6. Pignoramento diretto Si vedano ora i casi di pignoramento mobiliare diretto: a. beni mobili collocati in un bene immobile «appartenente» al debitore. Com’è stato precisato, non si parla di proprietà di tali beni immobili, ma della loro materiale disponibilità da parte del debitore; b. beni mobili non collocati in un bene immobile «appartenente» al debitore, ma dei quali questi può direttamente disporre senza che il proprietario dell’immobile possa opporvisi (p.e. valori nella cassetta di sicurezza della banca, autovettura nella rimessa, ecc.); c. beni mobili volontariamente riconosciuti dal terzo possessore come di proprietà del debitore. In questa fattispecie, il bene è nella materiale disponibilità non già del debitore, bensì del terzo, il quale può: esibire il bene, riconoscendone volontariamente la proprietà e consentendone il pignoramento; o rifiutare il consenso al pignoramento diretto, e in questo caso diventa necessario ricorrere al pignoramento presso terzi. 7. Limiti al pignoramento Gli artt. 514-516 c.p.c. indicano una serie di cose mobili in relazione alle quali la pignorabilità è assolutamente o parzialmente esclusa, ovvero è consentita in condizioni particolari di tempo. È sufficiente qui dire che le norme in esame concernono beni di primaria necessità per il debitore e/o di scarso valore economico. Le questioni relative alla pignorabilità dei beni danno luogo a opposizione all’esecuzione. 8. Individuazione dei beni Quanto all’individuazione dei beni mobili da pignorare, sono irrilevanti le eventuali affermazioni del debitore esecutato circa la non corrispondenza fra appartenenza e proprietà, salvo che il creditore procedente, presente al pignoramento stesso, non decida di rinunciare, in quanto si convinca della fondatezza delle affermazioni del debitore; altrimenti, l’ufficiale giudiziario non è esentato dal procedere ugualmente. Naturalmente, il creditore procedente non è legittimato a far valere un diritto altrui (art. 81 c.p.c.): spetta infatti a chi eventualmente si afferma proprietario dei beni pignorati tutelare il suo diritto attraverso l’opposizione di terzo. 9. Scelta dei beni L’art. 517 c.p.c. è estremamente chiaro in merito alla scelta dei beni da pignorare: «Il pignoramento deve essere eseguito sulle cose che l’ufficiale giudiziario ritiene di più facile e pronta liquidazione, nel limite di un presumibile valore di realizzo pari all’importo del credito precettato aumentato della metà. In ogni caso l’ufficiale giudiziario deve preferire il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito e ogni altro bene che appaia di sicura realizzazione». 10. Descrizione e custodia L’ufficiale giudiziario, mentre individua i beni con i criteri di cui all’art. 517 c.p.c., procede alla loro descrizione, mediante rappresentazione fotografica o altro strumento simile, con l’assistenza di uno stimatore. È possibile il differimento delle (sole) operazioni di stima: in questo caso, l’ufficiale giudiziario effettua un pignoramento provvisorio, poi interviene lo stimatore (che può accedere al luogo in cui si trovano i beni pignorati), e una volta effettuata la stima l’ufficiale procede al pignoramento definitivo. L’ufficiale giudiziario trasmette copia del verbale di pignoramento al creditore e al debitore richiedenti. Il creditore ha la possibilità di ottenere un riesame delle valutazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario in sede di pignoramento, richiedendo al giudice il completamento del pignoramento entro il termine per il deposito dell’istanza di vendita, sempre che il giudice ritenga errato il valore di realizzo dei beni in sede di pignoramento. Inoltre, qualora, all’esito della vendita, la somma ricavata non sia sufficiente, il giudice dell’esecuzione, su istanza del/i creditore/i, ordina l’integrazione del pignoramento: i beni sono dunque venduti senza che sia necessario presentare un’altra istanza di vendita. Al pignoramento può partecipare il creditore, a sue spese. Successivamente alla redazione del verbale di pignoramento, l’ufficiale giudiziario provvede all’asportazione dei beni, con il fine di evitare che il bene mobile possa essere sottratto all’esecuzione. L’art. 521 c.p.c. stabilisce che non può essere nominato custode il creditore (o il suo coniuge) senza il consenso del debitore, e neppure il debitore (o i familiari con lui conviventi) senza il consenso del creditore: evidentemente, la norma mira a neutralizzare un potenziale acquisto a titolo originario ex art. 1153 c.c. in capo a un terzo, il quale acquisterebbe (apparentemente in buona fede, ma magari d’accordo con l’interessato) un diritto prevalente su quello del creditore. 11. Pignoramento degli autoveicoli L’art. 521bis c.p.c. prevede determinate modalità di pignoramento degli autoveicoli, motoveicoli e rimorchi. Gli autoveicoli – è noto – sono beni mobili registrati, pertanto il loro pignoramento si effettua mediante un atto notificato e poi trascritto. Per pignorare un autoveicolo, dunque, non è necessaria la materiale apprensione del bene, salvo il caso in cui tale apprensione diventa necessaria per la vendita dell’autoveicolo stesso: la vendita forzata, infatti, avviene in cospectu rei, nel senso che l’acquirente deve poter prendere visione del bene. Fatte le premesse di cui sopra, la riforma del 2014 ha introdotto alcune modifiche. In primis, la competenza è del giudice del luogo ove il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (e non più il giudice del luogo dove si trova il bene). Inoltre, il sopra citato art. 521bis c.p.c. statuisce che l’esecutato deve consegnare l’autoveicolo all’istituto vendite giudiziare entro 10 giorni dal pignoramento. Se non lo consegna, gli organi di polizia (visto che il pignoramento risulta dai pubblici registri) che individuano l’autoveicolo pignorato, possono portarlo via e consegnarlo all’istituto vendite giudiziare del luogo. 12. B – Pignoramento immobiliare Si esamini ora il pignoramento immobiliare, disciplinato dagli artt. 555 ss. c.p.c. Oggetto dell’esecuzione forzata è, anche qui, il diritto che il debitore esecutato ha sull’immobile, il quale deve essere suscettibile di trasferimento (p.e. proprietà, enfiteusi, usufrutto, nuda proprietà, superficie). Non possono quindi essere oggetto di espropriazione il diritto d’uso e di abitazione (in quanto non trasferibili) e le servitù (che seguono le sorti del fondo dominante e non sono trasferibili separatamente ad esso). 13. Appartenenza La situazione di titolarità del diritto sul bene immobile è di più facile accertamento in caso di immobili rispetto ai mobili: esistono, infatti, i pubblici registri immobiliari, e l’usucapione (che è fenomeno percepibile all’esterno); il creditore procedente, dunque, è più facilitato nel compiere accertamenti in tal senso. L’appartenenza qui si determina sulla base della pura e semplice affermazione, da parte del creditore procedente, che il debitore ha un diritto trasferibile sul bene immobile; l’atto di pignoramento deve essere sottoscritto dal creditore procedente, il quale, in questo modo, si assume la responsabilità della sua affermazione. 14. Individuazione L’art. 555 c.p.c. stabilisce che la descrizione del bene è effettuata dal creditore con gli estremi richiesti dal c.c. per l’individuazione dell’immobile ipotecato: in altri termini, attraverso la tipologia del bene (terreno, fabbricato, ecc.), il comune in cui si trova e gli estremi catastali. 15. Atto di pignoramento Il creditore, dunque, chiede all’ufficiale giudiziario di procedere al pignoramento di quel bene da lui (dal creditore) stesso individuato e descritto nell’atto di pignoramento da se medesimo sottoscritto. L’ufficiale giudiziario aggiunge a tale atto la sua ingiunzione e procede alla notificazione del tutto al debitore esecutato. Dopodichè, l’atto di pignoramento è trascritto nei registri immobiliari. Notifica e trascrizione sono i momenti che determinano la decorrenza degli effetti del pignoramento: gli effetti verso il debitore decorrono dalla notifica; l’opponibilità del pignoramento ai terzi decorre dalla trascrizione. 16. Custodia La disciplina di cui agli artt. 559 e 560 c.p.c. ha come presupposto il possesso del bene da parte dell’esecutato. Fin dal momento della notificazione del pignoramento (quindi a prescindere dalla sua trascrizione), l’esecutato diventa ipso iure custode del bene da lui occupato. Se il bene non è occupato dall’esecutato, ma da un terzo, non si applica la suesposta disciplina, bensì interviene l’istituto della necessaria sostituzione: il giudice dell’esecuzione deve (e non ha discrezionalità in proposito) sostituire l’esecutato nella custodia del bene con un soggetto che fornisca maggiori garanzie nel rapporto con il terzo occupante. La cessazione della custodia dell’immobile da parte dell’esecutato avviene nel momento in cui viene disposta la vendita ex artt. 569 o 591bis c.p.c.; in luogo dell’esecutato, viene nominato custode il soggetto incaricato della vendita, o l’istituto vendite giudiziare. A ciò si fa eccezione quando la sostituzione sia reputata inutile dal giudice in ragione della particolare natura dei beni (p.e. un terreno non recintato confinante con una strada pubblica). I provvedimenti di nomina e sostituzione del custode sono disposti dal giudice con ordinanza non impugnabile (e quindi nemmeno modificabile o revocabile); ovviamente il provvedimento del giudice è controllabile tramite l’opposizione agli atti esecutivi. Il custode del bene immobile pignorato è un sorta di curatore delle espropriazioni concorsuali, solo che in questo caso l’esecutato non perde la legittimazione processuale. In particolare, l’art. 560 co. 5 c.p.c. stabilisce: «[…] Il custode provvede in ogni caso, previa autorizzazione del giudice dell’esecuzione, all’amministrazione e alla gestione dell’immobile pignorato, ed esercita le azioni previste dalla legge ed occorrenti per conseguirne la disponibilità». Spetta peraltro al giudice dell’esecuzione stabilire, nel disporre la vendita del bene, le modalità con cui i potenziali acquirenti possano esaminare detto bene. Infine, il provvedimento di aggiudicazione o assegnazione costituisce necessariamente motivo di revoca dell’autorizzazione ad abitare l’immobile; in questo caso, l’ordinanza di revoca dell’autorizzazione costituisce titolo esecutivo attraverso il quale il custode può ottenere la disponibilità del bene. Sono fatti salvi eventuali accordi tra acquirente ed esecutato che conferiscano a quest’ultimo un titolo alla detenzione del bene (p.e. un contratto di locazione). 17. C – Pignoramento dei crediti Si deve ora affrontare il pignoramento dei crediti. Qui l’ordinamento non si accontenta della semplice affermazione del creditore, e neppure dell’indice di appartenenza che è presupposto del pignoramento mobiliare. La disciplina, infatti, è diversificata, e non vi rientrano le ipotesi di cui all’art. 545 c.p.c., ossia i limiti alla pignorabilità dei crediti, come si dirà di seguito. 18. Atto di pignoramento Il pignoramento si effettua attraverso la notificazione al debitore esecutato e al terzo debitore di un atto contenente: • indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e del precetto; • indicazione (almeno generica) delle somme/cose dovute dal terzo debitore al debitore esecutato; • indicazione dell’indirizzo PEC del difensore del creditore procedente; • indicazione dell’udienza fissata davanti al tribunale competente. È competente il giudice del luogo ove il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede; se il debitore esecutato è una P.A., competente è il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede. Il debitore esecutato deve essere citato a comparire all’udienza fissata, mentre il terzo debitore è invitato a rendere la dichiarazione ex art. 547 c.p.c. tramite raccomandata o PEC da inviare al (difensore del) creditore entro 10 giorni dalla notificazione dell’atto di pignoramento. Il debitore esecutato, inoltre, deve essere avvertito delle conseguenze della sua eventuale inerzia. Con la notifica di tale atto si producono tutti quanti gli effetti del pignoramento; la produzione di tali effetti, tuttavia, è provvisoria e condizionata al completamento del procedimento che si va illustrando. L’atto di pignoramento contiene l’ingiunzione al debitore di non disporre del bene ex art. 492 c.p.c. Il terzo debitore, a partire dal momento in cui gli è notificato il pignoramento, riveste la posizione di custode; egli non è più tenuto ad adempiere nei confronti del debitore, e l’eventuale adempimento è inopponibile al creditore procedente. Tuttavia, vi è un limite agli effetti del pignoramento (art. 546 c.p.c.): il credito dell’esecutato è pignorato per l’entità massima del 150% della somma oggetto di pignoramento. Pertanto, se il credito pignorato è superiore a tale entità, per la parte eccedente il terzo debitore non è soggetto agli obblighi di custodia e può adempiere senza conseguenze. Esempio: vi sono tre soggetti: • Tizio (fornitore), creditore di Caio; • Caio (appaltatore), debitore esecutato di Tizio e creditore di Sempronio; • Sempronio (appaltante) debitore di Caio e terzo debitore di Tizio. Tizio notifica a Caio e a Sempronio un atto di pignoramento del credito che Caio vanta verso Sempronio, per una somma pari a €1000, come risultante dall’atto di precetto. Il credito complessivo che Caio vanta verso Sempronio è però di €10000. Poiché l’atto di pignoramento costituisce Sempronio custode per €1500, per gli altri €8500 il terzo debitore Sempronio potrà adempiere tranquillamente nei confronti dell’esecutato Caio. Da qui in poi l’ulteriore sviluppo del procedimento di pignoramento dei crediti varia a seconda che il terzo debitore renda o meno una dichiarazione conforme a quanto attestato dal creditore nell’atto di pignoramento. 19. Udienza Come si è finito di accennare, il procedimento è diverso a seconda che: • il terzo debitore rende una dichiarazione conforme a quanto affermato dal creditore nell’atto di pignoramento: in questo caso, l’atto di pignoramento si perfeziona e si consolidano gli effetti solo provvisoriamente prodotti con la notifica dell’atto stesso. Qui, dunque, il processo esecutivo può andare avanti; • il creditore non riceve risposta dal terzo: in questo caso, il creditore lo dichiara in udienza e il giudice fissa un’udienza successiva, con ordinanza notificata al terzo almeno 10 giorni prima della nuova udienza. A questo punto, si deve vedere se il terzo rimane inerte, o rende una dichiarazione negativa (o comunque) difforme da quanto dichiarato dal creditore nell’atto di pignoramento. 20, 21. Disciplina previgente. Mancata dichiarazione Ora, la disciplina originaria del c.p.c. prevedeva che l’assegnazione del credito poteva avvenire solo dopo l’accertamento dell’esistenza del credito pignorato (ossia dell’obbligo del terzo). Tale certezza si raggiungeva o in virtù di una dichiarazione lato sensu confessoria del terzo, conforme all’atto di pignoramento; ovvero in virtù di una dichiarazione difforme del terzo, ma non contestata dal creditore; ovvero ancora in virtù di una sentenza, la quale definiva un ordinario processo di cognizione che il creditore procedente aveva l’onere di aprire. Venendo all’epoca contemporanea, la riforma del 2012 (seguita poi dal correttivo del 2015) ha introdotto delle novità e ha ridefinito la disciplina di cui agli artt. 548 e 549 c.p.c. Il legislatore ha previsto che, se il terzo non invia la sua dichiarazione e non si presenta all’udienza, e il creditore dichiara che non gli è pervenuta la sua dichiarazione, il giudice fissa un’altra udienza alla quale il terzo è invitato a comparire; l’ordinanza è notificata al terzo. Se anche a questa udienza il terzo non si presenta, ovvero presentandosi rifiuta di fare la dichiarazione, il credito pignorato nei termini indicati dal creditore si considera non contestato ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione. Naturalmente, la non contestazione non ha efficacia di accertamento, sicchè il terzo potrà sempre contestare, attraverso un processo dichiarativo, di non essere debitore. Il terzo – almeno, così sembrerebbe – può difendersi sia in ordine ai fatti modificativi/estintivi posteriori all’ordinanza di assegnazione, sia in ordine all’esistenza/inesistenza del diritto attraverso lo strumento dell’opposizione all’esecuzione. Il terzo può impugnare l’ordinanza con la quale il giudice, mancando la dichiarazione scritta del terzo, fissa un’udienza per la sua comparizione. Fin qui, la riforma è mossa e concretizza un’intenzione apprezzabile: evitare che l’inerzia del terzo debitore costringa il creditore a passare necessariamente e preventivamente per l’accertamento giudiziale dell’obbligo del terzo, prima di poter ottenere l’assegnazione del credito. 22. Contestata dichiarazione Superando l’inerzia del terzo debitore, e guardando all’ipotesi in cui il terzo rende una dichiarazione non conforme, si sarebbe potuto prevedere che, essendo sorta una controversia, si aprisse un processo di cognizione finalizzato all’accertamento del credito. Il legislatore, invece, ha ritenuto di estendere anche alla fattispecie in esame la disciplina prevista per l’inerzia del terzo, di talchè se sulla dichiarazione sorgono contestazioni, il giudice dell’esecuzione le risolve, compiuti i necessari accertamenti, con ordinanza; l’ordinanza produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione, ed è impugnabile tramite opposizione agli atti esecutivi. In altre parole, i necessari accertamenti compiuti dal giudice non hanno funzione decisoria (né a maggior ragione preclusiva), in quanto sono finalizzati semplicemente ad emettere un’ordinanza di assegnazione. Ora, questa struttura regge finchè il giudice assegna il credito; e se non lo assegna? Che può fare il creditore procedente? Proporre opposizione agli atti esecutivi? Ma l’opposizione agli atti esecutivi serve a far valere i vizi processuali, non l’erroneità nel merito. Quindi, se il credito viene assegnato, il terzo può aprire un processo di cognizione esterno al processo esecutivo; se invece il credito non viene assegnato, viene meno ogni possibilità di controversia esterna al processo esecutivo sul medesimo oggetto, poiché senza un’assegnazione il creditore non può vantar alcun diritto verso il terzo al di fuori del processo esecutivo. 23. Identificazione dei crediti o dei beni acquirente cessionario e creditore procedente come due aventi causa del debitore esecutato/ceduto. Dunque, come nel caso di conflitto tra cessionari si guarda alla notificazione della cessione con atto avente data certa anteriore a quella dell’altro atto, qui si guarda alla data certa dell’atto di pignoramento e a quella della notificazione dell’atto di cessione: l’atto che risulta anteriore rispetto all’altro ha la meglio. 15. C – Alienazione di universalità di mobili Il n. 3 della norma contempla il caso dell’alienazione di universalità di mobili, non avente data certa. Qui è applicabile la regola generale, in virtù della quale, se il legislatore non stabilisce diversamente, fra i due acquirenti prevale quello che ha un atto di data certa anteriore; è evidente la differenza con le fattispecie di cui sopra, in cui prevale l’atto prima trascritto o prima notificato, e non l’atto avente data certa anteriore. 16. D – Alienazione mobiliare Il n. 4, infine, contempla il caso dell’alienazione di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che tale alienazione non risulti da atto avente data certa. L’art. 1155 c.c. stabilisce che o una delle parti ha acquistato il possesso in buona fede, e allora è preferita all’altra ex art. 1153 c.c.; oppure nessuno degli acquirenti ha acquistato il possesso in buona fede, e allora vale il criterio generale dell’atto di data certa anteriore. Ciò detto, l’art. 2914 n. 4 c.c. ha una particolarità: colui che ha acquistato il bene mobile dal debitore prevale (oltre che se ha acquistato il possesso in buona fede prima del pignoramento: art. 1155 c.c.) se il suo acquisto risulta da data certa anteriore al pignoramento. Ora, volendo immaginare un possibile scenario concreto, si dovrebbe ipotizzare: un acquisto tra il debitore esecutato e il terzo; la consacrazione della vendita in un atto avente data certa; la circostanza che l’acquirente non ha ancora conseguito il possesso del bene, rimasto presso il debitore esecutato; la circostanza che il bene rimasto presso il debitore esecutato viene pignorato. A questo punto, l’acquirente del bene mobile propone opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., dimostra che il bene gli era stato venduto con atto avente data certa anteriore al pignoramento e vince l’opposizione. Se l’art. 2914 n. 4 c.c. fosse la fotocopia dell’art. 1155 c.c. per i pignoramenti, accadrebbe invece che chi consegue per primo il possesso prevale sull’altro, sicchè prevarrebbe il creditore procedente, che ha «messo le mani» per primo, pignorandolo, sul bene del debitore esecutato, nonostante l’acquisto del terzo con atto avente data anteriore al pignoramento. La spiegazione di tutto questo è semplice: il creditore, con il pignoramento, non acquisisce il possesso del bene ex art. 1155 c.c., e quindi nei suoi confronti non può scattare il meccanismo da tale norma previsto. Se il creditore procedente acquisisse il possesso con il pignoramento, dall’art. 2914 n. 4 c.c. dovrebbero essere cancellate le parole «salvo che [l’acquisto del terzo, ndr] risulti da atto avente data certa». 17. Vincolo di indisponibilità Si deve ora esaminare l’art. 2915 co. 1 c.c. Tale norma detta una disciplina identica a quella prevista in caso di acquisto di un diritto sul quale grava un vincolo di indisponibilità (p.e. cessione dei beni a creditore ex art. 1980 c.c.). Ebbene, se il vincolo è trascritto prima della trascrizione dell’atto di acquisto (beni immobili o mobili registrati), il vincolo prevale sull’atto d’acquisto, e viceversa. Nel caso di beni mobili o universalità di mobili, è rilevante l’atto di data certa anteriore. 18, 19. Domande giudiziali. Effetti processuali Più complesso è l’esame dell’art. 2915 co. 2 c.c. Qui occorre far riferimento agli artt. 2652 e 2653 c.c., i quali prevedono una serie di domande giudiziali soggette a trascrizione per essere opponibili ai terzi. La trascrizione della domanda giudiziale – come si disse a suo tempo – ha un duplice effetto: di natura processuale e di natura sostanziale. Si inizi con gli effetti processuali: rispetto ai terzi la litispendenza si determina con riguardo al momento della trascrizione della domanda. Ove la trascrizione della domanda dell’attore contro il convenuto sia anteriore alla trascrizione dell’acquisto del terzo contro il convenuto, la posizione dell’avente causa del convenuto è disciplinata dall’art. 111 c.p.c.; quindi la sentenza emessa al termine del processo la cui domanda è stata trascritta anteriormente alla trascrizione dell’atto di acquisto del terzo, è efficace e vincolante anche verso l’avente causa del convenuto: questi non può contestare il contenuto della sentenza emessa contro il suo dante causa. Se, invece, l’acquisto del terzo contro il convenuto è trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale dell’attore contro il convenuto, nel processo sorto da tale domanda la sentenza non produce effetti nei confronti del terzo acquirente; è evidente allora che il vantaggio per il terzo è soltanto processuale, poiché sul piano sostanziale egli non è meno o più proprietario del bene di quanto lo potrebbe essere l’attore: ciò che conta è che l’attore vittorioso non potrà spendere contro il terzo la sentenza che vede il convenuto soccombere. Ora, si metta al posto del terzo acquirente il creditore pignorante. Il conflitto fra attore in rivendicazione contro il convenuto, e pignorante contro il convenuto, si risolve con il criterio delle trascrizioni. Se la domanda dell’attore contro il convenuto è trascritta anteriormente al pignoramento del creditore contro il convenuto, la sentenza che accerta la proprietà dell’attore è efficace e vincolante sia contro il convenuto sia contro il creditore pignorante; in altre parole, il creditore pignorante, avente causa del convenuto, è qui equiparato ad un successore nel diritto controverso. Se, al contrario, il pignoramento del creditore contro il convenuto è trascritto prima che sia trascritta la domanda giudiziale dell’attore contro il convenuto, la sentenza non è vincolante contro il creditore pignorante, in quanto egli è un terzo con titolo anteriore alla litispendenza. 20. Opposizione di terzo Il problema che si pone quando il pignoramento del creditore contro il convenuto è trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale attore-convenuto, è che, se l’attore vuole ottenere una sentenza efficace contro il creditore pignoratizio, deve instaurare il contraddittorio nei suoi confronti. Tuttavia, l’esecuzione forzata non ha una struttura che prevede un suo «rappresentante» che sia abilitato a condurre processi con effetti per l’esecuzione (come può invece esserlo il curatore nel fallimento). Non potendo, dunque, l’attore instaurare un ordinario processo di cognizione contro l’esecuzione forzata, è necessario che egli proponga la domanda all’interno del processo esecutivo, attraverso l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., che consente l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’esecuzione. La domanda così proposta ha lo stesso contenuto che avrebbe avuto la domanda proposta dall’attore in un ordinario processo di cognizione, se il terzo avente causa fosse stato un acquirente, e non un creditore pignorante. 21. Effetti sostanziali La trascrizione della domanda ha talvolta anche effetti sostanziali: è quanto si prevede nell’art. 2652 c.c. La priorità della trascrizione della domanda dell’attore contro il convenuto rispetto alla trascrizione dell’atto di acquisto dell’avente causa comporta le stesse conseguenze della rei vindicatio: la sentenza è efficace e vincolante anche verso l’avente causa del convenuto, ed egli non può contestarne il contenuto. Al contrario, la priorità della trascrizione dell’atto d’acquisto dell’avente causa rispetto alla trascrizione della domanda (unita ad altri elementi eventualmente necessari: p.e. buona fede), determina – oltre all’inefficacia processuale dell’emananda sentenza – anche un titolo di preferenza sul piano sostanziale dell’avente causa verso l’attore. Si torni ora all’art. 2915 co. 2 c.p.c., e si sostituisca all’avente causa il creditore pignorante. Si è detto poc’anzi che l’attore che trova trascritto il pignoramento prima della trascrizione della domanda da lui proposta è svantaggiato per il solo fatto che deve far valere il suo diritto di proprietà all’interno del processo esecutivo (art. 619 c.p.c.); ma sul piano sostanziale egli non incontra ostacoli maggiori quando fa valere il suo diritto nel processo esecutivo anziché in quello ordinario di cognizione. Qui, invece, poiché il creditore pignorante ha acquistato, in virtù dell’anteriore trascrizione del pignoramento, una situazione sostanziale prevalente su quella dell’attore, le cose cambiano. L’attore, infatti, non ha alcuna possibilità di vincere l’opposizione ex art. 619 c.p.c., poiché qui il diritto del creditore pignorante acquistato tramite la priorità della trascrizione è inattaccabile dal punto di vista sostanziale. 22, 23. Ragioni di prelazione. Crediti sopravvenuti Proseguendo e terminando l’esame degli effetti sostanziali del pignoramento, si deve analizzare l’art. 2916 c.c., da cui possono ricavarsi due principi: • il pignoramento «congela» le ragioni di prelazione dei vari creditori. Nella distribuzione del ricavato si tiene conto soltanto delle cause di prelazione esistenti alla data del pignoramento, di talchè quelle sorte dopo il pignoramento non sono opponibili alla massa dei creditori; • il pignoramento non blocca i crediti, i quali possono essere fatti valere all’interno del processo di espropriazione anche se sorti dopo il pignoramento. Certo, le cause di prelazione sono congelate dal momento del pignoramento, ma il creditore può sempre intervenirvi come chirografario. È una delle differenze fondamentali tra espropriazione singolare ed espropriazione concorsuale: in quest’ultima, infatti, non possono farsi valere crediti sorti dopo la dichiarazione di insolvenza (che può equipararsi ad un pignoramento generalizzato su tutti i beni trasferibili dell’insolvente). 24. Pignoramento dei crediti Infine, l’art. 2917 c.c. statuisce: «Se oggetto del pignoramento è un credito, l’estinzione di esso per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento non ha effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione». Dunque, se i fatti estintivi si sono prodotti anteriormente al pignoramento, oppure non dipendono da atti di disposizione dell’esecutato o da comportamenti volontari del terzo debitore, essi sono opponibili al creditore. Capitolo XII – Le vicende anomale relative al pignoramento 1. Pignoramento congiunto Ora si devono esaminare una serie di istituti che si collocano a metà fra il pignoramento e la vendita forzata, e che dimostrano – fra l’altro – che nel processo esecutivo è rispettato il principio del contraddittorio. Ai sensi dell’art. 493 co. 1 c.p.c., ci può essere un’unica istanza di pignoramento e un solo atto di pignoramento a tutela di più creditori, anche sulla base di titoli esecutivi diversi: è il c.d. pignoramento congiunto. Naturalmente, le eventuali nullità inerenti alla fase del pignoramento si verificano per tutti i creditori, vista l’unicità dell’atto; non così, invece, per le vicende dei rispettivi titoli esecutivi e dei rispettivi crediti. 2. Unione di pignoramenti L’art. 523 c.p.c. si occupa dell’unione di pignoramenti: più ufficiali giudiziari, separatamente richiesti, si trovano congiuntamente ad effettuare un pignoramento mobiliare. Si tratta di un’ipotesi rara, in cui – a differenza del pignoramento congiunto – vi sono più istanze di pignoramento, e si verifica un unico pignoramento; viene così redatto un unico processo verbale. 3. Pignoramento successivo L’art. 493 co. 2 c.p.c. statuisce: «Il bene sul quale è stato compiuto un pignoramento può essere pignorato successivamente su istanza di uno o più creditori». Per comprendere la norma si deve ipotizzare uno scenario di questo genere: • il creditore Caio pignora il bene immobile del debitore Tizio in data 1/1/2000; • la vendita forzata del bene pignorato è prevista per il 1/3/2000. In pendenza del pignoramento, e prima della vendita forzata, Sempronio, altro creditore di Tizio munito di titolo esecutivo, in data 1/2/2000 può alternativamente: • intervenire nel processo in corso tra Tizio e Caio (con un notevole risparmio di tempo e soldi); • effettuare un pignoramento successivo dello stesso bene già pignorato da Caio (ponendo in essere un’attività più lenta e costosa: notifica del titolo esecutivo e del precetto, e secondo pignoramento). Che differenza c’è tra le due strade? Si inizi dalla prima: il semplice intervento di Sempronio nel processo esecutivo in corso tra Tizio e Caio. Il vantaggio – si sa – è che l’alienazione del bene pignorato ad opera di Tizio non pregiudica né Caio né Sempronio (poiché anteriore al 1/1/2000). Ma cosa succede a Sempronio se Caio ha «mal tenuto» il processo esecutivo, e cioè se il pignoramento da lui effettuato viene caducato perché, p.e., dichiarato nullo o per mancanza di idoneo titolo esecutivo di Caio? Succedono due cose spiacevoli per Sempronio: in primo luogo, il processo esecutivo instaurato da Caio non può andare avanti, e Sempronio deve iniziare di nuovo l’espropriazione, ritardando così la sua soddisfazione; in secondo luogo, l’atto di alienazione che Tizio aveva effettuato sul bene pignorato, una volta caducato il pignoramento, riespande i suoi effetti, e Sempronio non solo non vedrà soddisfatto il proprio credito, ma non potrà neppure effettuare un nuovo processo esecutivo sullo stesso bene. Si guardi ora alla seconda strada: il pignoramento successivo di Sempronio. Tizio propone le sue opposizioni e il giudice dell’esecuzione caduca l’esecuzione instaurata da Caio. E Sempronio? Sempronio, dal punto di vista processuale, non riceve alcun pregiudizio, poiché egli può proseguire il pignoramento da lui effettuato in data 1/2/2000, il quale è autonomo dal pignoramento di Caio. Dal punto di vista sostanziale, invece, egli non è protetto dagli atti di disposizione intercorsi tra l’1/1/2000 (pignoramento di Caio) e l’1/2/2000 (suo pignoramento), ma è protetto soltanto dagli atti eventualmente intercorsi dopo l’1/2/2000. Quindi il creditore Sempronio deve farsi due calcoli. Si fida del pignoramento di Caio, e crede che le eventuali opposizioni di Tizio non verranno accolte? Se sì, semplicemente interviene. Se no, compie per sicurezza un successivo pignoramento, che peraltro – almeno, finchè non è caducato il precedente – vale come intervento in quello già in corso. Quanto detto finora vale senza alcun dubbio per tutti i casi in cui l’atto di pignoramento è caducato per un vizio proprio o per la carenza originaria di titolo esecutivo. Ma vale altrettanto per le ipotesi in cui il titolo esecutivo viene meno con efficacia ex tunc, successivamente all’avvenuto pignoramento? Cass. SS.UU. 61/2014 ha affermato che, nei casi di titolo esecutivo originariamente esistente, le vicende relative allo stesso che ne producono la sopravvenuta inefficacia, non impediscono la prosecuzione del processo esecutivo da parte del creditore intervenuto munito di titolo esecutivo. Il che ha senso, perché altrimenti nessuno ricorrerebbe all’istituto dell’intervento del creditore titolato, se avesse sempre la spada di Damocle di dover ricominciare dall’inizio con un nuovo pignoramento. 4. Litispendenza esecutiva Quanto si è detto fino a questo momento consente di ricavare un principio fondamentale: non possono aver luogo processi esecutivi per lo stesso bene pignorato (o meglio, per lo stesso diritto sul bene pignorato) nei confronti dello stesso debitore (principio del ne bis in idem). Il processo esecutivo è unico, anche se gli effetti di ciascun pignoramento sono autonomi; il che è ovvio, considerando che il diritto pignorato verrà trasferito a un terzo, il quale pagherà il denaro da dividersi tra i creditori: il bene, evidentemente, non potrà essere venduto più volte, perciò non hanno senso più processi esecutivi. Se, per errore, venissero portati avanti più processi esecutivi per lo stesso bene nei confronti dello stesso esecutato, e dunque se dovessero essere effettuate più vendite forzate, secondo l’opinione comune dovrebbe prevalere la vendita effettuata per prima; questo va bene per i beni mobili, ma per i beni immobili, le universalità di mobili e i crediti, ai sensi dell’art. 2919 c.c., bisognerebbe considerare prevalente il trasferimento effettuato nel processo esecutivo che ha il pignoramento di data anteriore, anche se il trasferimento è successivo a quelli posti in essere negli altri processi esecutivi. Che succede, invece, quando sono pignorati diritti incompatibili che hanno ad oggetto lo stesso bene, ma nei confronti di debitori diversi? Qui i diritti oggetto dei pignoramenti sono il diritto X dell’esecutato Caio sul bene Alpha, e il diritto Y dell’esecutato Sempronio sul medesimo bene Alpha. Esempio: Tizio instaura un processo di espropriazione contro Caio e pignora il bene Alpha per il diritto X. Mevio instaura un processo di espropriazione contro Sempronio e pignora il bene Alpha per il diritto Y. X e Y sono tra loro incompatibili. Che si fa? Nel caso di pignoramento di beni immobili, di universalità di mobili e di crediti, evidentemente, i due processi andranno avanti, perché i diritti che ne sono oggetto sono diversi; vi saranno due vendite forzate e due acquirenti, dei quali solo uno acquisterà il diritto. Ma chi? Il contrasto fra i due aggiudicatari sarò risolto in un ordinario processo di cognizione, in quanto si dovrà chiarire se il diritto spettava effettivamente a Caio o a Sempronio. Il contrasto può essere risolto anche in via preventiva attraverso l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., la quale può essere proposta alternativamente da Mevio nel processo instaurato da Tizio, ovvero da Tizio nel processo instaurato da Mevio. Nel caso di pignoramento di beni mobili, invece, i processi esecutivi devono essere riuniti anche se i debitori sono diversi: la vendita forzata mobiliare, infatti, ha normalmente natura di acquisto a titolo originario, sicchè prevale di norma la vendita effettuata per prima, a prescindere dal fatto che l’esecutato sia o meno proprietario del bene; con la riunione dei processi e la vendita del bene mobile, in sede di distribuzione del ricavato si accerterà quale dei due debitori era effettivamente proprietario del bene, e il ricavato sarà distribuito ai creditori di quel debitore. 5. Cumulo dei mezzi di espropriazione Si può invece avere una pluralità di crediti tutelati con lo stesso processo esecutivo, e si possono avere anche più processi esecutivi diversi a tutela del medesimo credito. In altri termini, è consentito al creditore munito di titolo esecutivo chiedere cumulativamente la tutela dello stesso credito con le varie forme di espropriazione, o con più esecuzioni dello stesso tipo su beni diversi. Il cumulo dei mezzi di espropriazione, o di più espropriazioni dello stesso tipo su beni diversi sono pienamente ammissibili, con il limite di cui all’art. 2911 c.c.: il creditore che vanta una causa di prelazione Per intervenire, ai sensi dell’art. 499 co. 2 c.p.c., il creditore deve procedere al deposito, nella cancelleria del giudice dell’esecuzione, di un ricorso contenente l’indicazione del credito e del titolo (cioè della fattispecie costitutiva) del credito, nonché al deposito della domanda per partecipare alla distribuzione della somma ricavata. Se l’intervento si fonda sulle scritture contabili, queste devono essere allegate all’atto di intervento in copia autentica. Sebbene la disposizione prevede che l’intervento debba aver luogo prima dell’udienza in cui è disposta la vendita o l’assegnazione, si deve ritenere possibile l’intervento tardivo. Il creditore sfornito di titolo esecutivo, ma rientrante in una delle categorie di cui al co. 1, può intervenire all’esecuzione, ma deve provvedere alla notificazione al debitore dell’atto di intervento, nonché della copia autentica delle scritture contabili se l’intervento si fonda su esse. 4. Verificazione dei crediti L’art. 499 co. 5 e 6 c.p.c. introduce una specie di procedimento di verificazione del credito per i soli creditori legittimati a intervenire, ma sforniti di titolo esecutivo. Con la stessa ordinanza con cui dispone sulla vendita e sull’assegnazione, il giudice dell’esecuzione fissa un’udienza dinanzi a sé per la comparizione del debitore e dei creditori non muniti di titolo esecutivo. L’ordinanza è notificata, a cura di una delle parti, al debitore e ai creditori. All’udienza fissata, se il debitore non compare, ovvero comparendo riconosce – in tutto o in parte – l’esistenza dei crediti, questi acquisiscono il diritto di essere soddisfatti; in caso contrario, se i crediti sono – in tutto o in parte – contestati, il creditore ha l’onere di proporre, nei 30 giorni successivi, una domanda idonea a munirlo di un titolo esecutivo. 5. Violazione della par condicio La riforma del 2006 tradisce e umilia il principio della par condicio, in quanto impedisce ai creditori che non rientrano nelle categorie di cui all’art. 499 co. 1 c.p.c., di trovare soddisfazione attraverso l’intervento. E questa non è una semplice leggerezza del legislatore: il principio della par condicio ha rilevanza costituzionale, in quanto il processo deve essere strumento di attuazione, e non di distorsione del diritto sostanziale. P.e., se il legislatore ha stabilito che i crediti retributivi dei lavoratori subordinati (art. 2751bis c.c.) debbano essere soddisfatti prima degli altri, come può il legislatore costruire un sistema di tutela esecutiva che impedisce a tali lavoratori di intervenire nel processo esecutivo e soddisfarsi con precedenza rispetto, p.e., agli imprenditori commerciali? Pertanto, la scelta del legislatore di eliminare la possibilità di intervenire liberamente nell’esecuzione da parte del creditore deve considerarsi – oltre che ingiustificata – incostituzionale, poiché viola un canone fondamentale dei rapporti fra diritto sostanziale e processo. 6. Effetti dell’intervento Gli effetti dell’intervento sono previsti in generale dall’art. 500 c.p.c., e sono i seguenti: • diritto del creditore intervenuto di prendere parte alla distribuzione; • diritto del creditore intervenuto di partecipare attivamente al processo esecutivo; • potere del creditore intervenuto di provocare i singoli atti dell’espropriazione, ossia di sostituirsi al creditore procedente nel compiere gli atti necessari alla prosecuzione del processo. Queste tre conseguenze sono pienamente assicurate solo ai creditori che intervengano muniti di titolo esecutivo; i creditori sforniti di titolo esecutivo, invece, devono prima passare per il procedimento di verificazione dei crediti, e non hanno il potere di compiere gli atti necessari per far procedere l’espropriazione verso la distribuzione del ricavato. 7. Creditore munito di titolo esecutivo Gli artt. 526 e 564 c.p.c. stabiliscono che i creditori intervenuti che siano muniti di titolo esecutivo hanno il potere di provocare i singoli atti dell’espropriazione. L’atto di impulso processuale più importante che il creditore intervenuto può compiere è l’istanza di vendita, che – si disse – deve essere effettuata in un termine non inferiore a 10 giorni e non superiore a 90 giorni dal pignoramento; in mancanza di tale istanza, il processo si estingue. Ma non solo: il creditore intervenuto munito di titolo esecutivo può anche sostituire il creditore procedente alle udienze del processo, o depositare la documentazione eventualmente necessaria per procedere alla vendita, ecc. La distinzione tra creditori muniti di titolo esecutivo e creditori sforniti di titolo esecutivo cessa nel momento in cui è effettuata la vendita; questo perché la fase di distribuzione avviene ex officio, sicchè non c’è più bisogno di un impulso di parte. E da ciò si ricava ulteriormente che, una volta effettuata la vendita, è necessaria la rinuncia di tutti creditori (compresi quelli non muniti di titolo esecutivo) per l’estinzione del processo; diversamente, prima della vendita è sufficiente la rinuncia dei creditori muniti di titolo, con la conseguenza che quelli sforniti di titolo esecutivo vedono estinguere il processo per rinuncia senza poter fare niente. 8. Irrilevanza del titolo esecutivo dopo la vendita Parte della dottrina ha intravisto nella irrilevanza del titolo esecutivo dopo la vendita una summa divisio tra: una fase di aggressione del patrimonio del debitore, iniziata col pignoramento e terminata con la vendita, in cui il titolo esecutivo è rilevante per la spendita di poteri d’impulso processuale; e una fase di distribuzione, avente natura sostanziale, in cui è irrilevante il titolo esecutivo, in quanto i creditori vi parteciperebbero solo in quanto tali. Tuttavia, vi è una norma contraria a tale impostazione bifasica, e soprattutto alla qualificazione della fase distributiva come attività di diritto sostanziale (e non processuale): l’art. 632 c.p.c., in virtù del quale, se l’estinzione avviene dopo la vendita, la somma ricavata è consegnata al debitore, sicchè la vendita rimane efficace anche se interviene l’estinzione (a tutela dell’acquirente). Anche dopo la vendita, dunque, il processo esecutivo prosegue. La distribuzione del ricavato avviene non già per attività di diritto sostanziale, bensì per la presenza del processo esecutivo. 9. Creditori privilegiati Per quanto concerne i creditori muniti di ragioni di prelazione (da non confondere assolutamente con i creditori muniti di titolo esecutivo) risultante da pubblici registri (quindi non tutti i creditori privilegiati), l’art. 498 c.p.c. stabilisce che essi devono essere necessariamente avvertiti della pendenza del processo esecutivo, cioè devono essere avvertiti che è stato pignorato il bene su cui hanno diritto di prelazione. Questa disposizione ha senso se letta alla luce della disciplina generale della vendita forzata. La vendita forzata, infatti, a differenza della vendita di diritto comune, ha effetto «purgativo», cioè tipicamente ha l’effetto di estinguere i diritti di prelazione che gravano sul bene, affinchè il bene passi libero nelle mani dell’acquirente; la vendita di diritto comune, invece, mantiene i diritti reali di garanzia esistenti sul bene. Per capire come mai solo i creditori con prelazione risultante da pubblici registri devono essere avvertiti, si deve in primis ricordare che i creditori muniti di privilegio non soffrono delle stesse preoccupazioni che affliggono i creditori privilegiati iscritti: poiché il privilegio non dà diritto di sequela, il diritto di prelazione del creditore permane fintantochè il bene, che ne è oggetto, rimane nel patrimonio del debitore. Eliminata tale classe di creditori, rimangono quelli con diritti reali di garanzia. Ora, l’iscrizione nei pubblici registri di un diritto reale di garanzia ha la funzione di rendere pubblica l’esistenza del vincolo sul bene; il creditore procedente, dunque, essendoci diritto di sequela sui beni gravati da garanzie reali, ha l’onere di avvertire i creditori, poiché ciò costituisce condizione necessaria per procedere alla vendita. Peraltro, sarebbe assurdo imporre tale onere al creditore in relazione a tutti i creditori privilegiati, in quanto sarebbe impossibile (o comunque eccessivamente difficile) rintracciare i creditori muniti di diritto di prelazione non reso pubblico. 10. Creditori privilegiati non iscritti Si è detto che la vendita forzata ha la caratteristica di «azzerare» i diritti di prelazione che gravano su un bene, per consentire che il bene passi libero nelle mani dell’aggiudicatario. Ora, se anche i creditori con prelazione non risultante dai pubblici registri perdono tale prelazione (come quelli con prelazione risultante dai pubblici registri), perché prevedere che solo quelli muniti di prelazione risultante dai pubblici registri devono essere avvisati della pendenza del processo esecutivo? Si prenda allora in esame il caso del creditore munito di pegno, il quale può far valere il suo diritto contro qualunque soggetto a cui il proprietario trasferisce la proprietà del bene, tranne l’aggiudicatario. Ora, per l’esistenza del pegno, occorre che il bene sia sottratto al debitore e sia entrato in possesso del creditore, ovvero di un terzo. Ma se il bene è in possesso del creditore pignoratizio, l’esecuzione forzata va instaurata nei suoi confonti, e quindi il creditore viene necessariamente a conoscenza del pignoramento, potendovi così intervenire. E se invece il bene è in possesso del terzo, poiché questi è detentore di un bene che appartiene al debitore esecutato, il suo obbligo di custodia gli impone di avvertire il creditore pignoratizio della pendenza del processo esecutivo, affinchè egli possa intervenire. Ed ecco risolto il problema del mancato avvertimento. 11. Creditori privilegiati iscritti Per i diritti reali iscritti nei pubblici registri, dunque, scatta l’obbligo di cui all’art. 498 c.p.c. Il creditore procedente deve procedere alla notificazione ai creditori privilegiati iscritti di un avviso contenente l’indicazione del creditore pignorante, del credito per il quale si procede e del titolo. In mancanza di tale notificazione, il giudice deve rifiutarsi di emettere l’ordinanza di vendita; il giudice controlla se sono state effettuate le prescritte notifiche ai creditori iscritti sulla base delle allegazioni dei certificati delle trascrizioni/iscrizioni, che il creditore procedente deve fare all’istanza di vendita. 12. Creditori tempestivi e tardivi L’intervento dei creditori può essere tempestivo o tardivo. La distinzione in parola vale solo per i creditori chirografari, poiché i creditori con prelazione, in qualunque momento del processo intervengano, sono soddisfatti secondo l’ordine delle prelazioni previsto dal c.c. Naturalmente, sia per i chirografari sia per i privilegiati, il termine ultimo per l’intervento è il momento in cui si effettua la distribuzione del ricavato, poiché dopo tale momento il processo esecutivo è concluso. Ritornando alla distinzione di cui sopra, si possono definire tre categorie di creditori: • creditori privilegiati: creditori che concorrono con preferenza rispetto ai creditori chirografari, e nell’ordine delle prelazioni di cui al c.c.; • creditori chirografari tempestivi: creditori che concorrono pro quota dopo i creditori privilegiati, e prima dei chirografari tardivi (ipotesi di prelazione di natura processuale); • creditori chirografari tardivi: creditori che concorrono pro quota sul residuo eventualmente avanzato dalla soddisfazione per intero dei chirografari tempestivi. Di norma, l’intervento è tempestivo se effettuato entro la prima udienza fissata per stabilire le modalità di assegnazione o di vendita (cioè l’udienza che apre la fase liquidatoria). Se l’intervento è effettuato dopo tale udienza, ma prima della distribuzione del ricavato, esso è tardivo. Tuttavia, si deve considerare che, per la piccola espropriazione mobiliare (valore dei beni pignorati €20000), la tempestività dell’intervento è misurata sull’istanza con cui il creditore pignorante richiede la fissazione dell’udienza per determinare le modalità di liquidazione. Inoltre, per l’espropriazione dei crediti, la tempestività dell’intervento è misurata sull’udienza di comparizione delle parti, fissata dal creditore pignorante con il ricorso ex art. 543 c.p.c. Qui, poiché se il terzo rende una dichiarazione conforme ha luogo l’assegnazione del credito e la chiusura del processo, l’intervento tardivo sarà possibile solo se la dichiarazione è omessa o contestata. 13. Estensione del pignoramento L’art. 499 co. 4 c.p.c. statuisce che il creditore pignorante ha facoltà di indicare ai creditori tempestivamente intervenuti, all’udienza o con atto notificato, l’esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili. Pertanto, se la quantità di beni pignorabili deriva da una doverosa scelta del creditore procedente, il quale ha limitato il pignoramento in relazione all’entità del suo credito, e nel patrimonio del debitore non mancano altri beni utilmente pignorabili, la legge consente che il creditore procedente indichi detti beni agli altri creditori affinchè si eviti il concorso dei creditori su un medesimo bene. Il creditore procedente, indicando i beni in parola agli altri creditori, può invitarli ad estendere il pignoramento (se muniti di titolo esecutivo) o effettuare l’estensione col proprio titolo. A questo punto, se i creditori intervenuti non rispondono all’invito ad estendere il pignoramento, diventano postergati al creditore procedente al momento della distribuzione: un’altra ipotesi di prelazione di natura processuale. Capitolo XIV – La vendita e l’assegnazione in generale 1. Liquidazione Nella seconda fase del processo d’espropriazione, il diritto pignorato viene liquidato, cioè trasformato in una somma di denaro. Il che aiuta a comprendere che la liquidazione non è necessaria (solo): • se il bene pignorato consiste in una somma di denaro (art. 517 co. 2 c.p.c.); • se il debitore ha consegnato una somma di denaro come oggetto del pignoramento (art. 494 co. 3 c.p.c.); • se vi è stata conversione del pignoramento (art. 495 c.p.c.). 2. Termine dilatorio Nel passaggio tra la fase del pignoramento alla fase della liquidazione è cruciale l’art. 501 c.p.c., in virtù del quale si prevede un termine minimo di 10 giorni dal pignoramento alla domanda di assegnazione/vendita. Ciò significa che, considerando che il pignoramento perde effetti decorsi 90 giorni dal suo compimento, effettuato il pignoramento, ci sono 80 giorni utili per proporre l’istanza di vendita. Il termine dilatorio di cui all’art. 501 c.p.c. ha una duplice funzione: in primis, consente al debitore di reagire al pignoramento (p.e. con una richiesta di conversione, o un’istanza di riduzione, o con le opposizioni); in secondo luogo, dà agli altri creditori il tempo per poter tempestivamente intervenire nell’esecuzione. Per il pignoramento dei crediti, il termine dilatorio è quello che va dalla notificazione dell’atto di pignoramento all’udienza fissata nello stesso atto ex art. 543 c.p.c. Il termine dilatorio ai fini dell’istanza di vendita non si applica alle cose deteriorabili, le quali sono immediatamente liquidabili. 3. Istanza di vendita L’art. 529 c.p.c. stabilisce che, decorso il termine dilatorio, il creditore procedente e i creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo possono chiedere la distribuzione del denaro e la vendita di tutti gli altri beni. Questo a ricapitolazione di quanto già detto in tema di rilevanza del titolo esecutivo per la spendita di poteri d’impulso. Mancando l’istanza, il pignoramento perde efficacia. 4. Assegnazione I modi per procedere alla liquidazione sono la vendita e l’assegnazione. Dal punto di vista degli effetti sostanziali, tra le due fattispecie non c’è differenza: in ogni caso il diritto pignorato si trasferisce ad un altro soggetto. La differenza, invece, è esclusivamente processuale, in quanto: • nella vendita, il soggetto che diventa titolare del diritto pignorato al posto dell’esecutato può essere qualunque soggetto – anche i creditori – tranne l’esecutato (art. 579 c.p.c.); • nell’assegnazione, il diritto viene trasferito a uno dei creditori (procedente o intervenuto). L’assegnazione, dunque, è un «panno sporco che si lava in famiglia», per così dire; ecco perché, difatti, esistono precisi limiti e condizioni alla procedura, per garantire che essa non abbia luogo per una somma non corrispondente al valore effettivo del bene. L’assegnazione può assumere due forme: - assegnazione satisfattiva; - assegnazione-vendita. 5. A – Assegnazione satisfattiva Nel caso di assegnazione satisfattiva, il creditore si rende assegnatario soddisfacendosi – in tutto o in parte – del suo credito attraverso l’attribuzione del diritto pignorato. Tale assegnazione si definisce «satisfattiva» proprio perché si tratta di una sorta di datio in solutum, di talchè contemporaneamente si producono: l’effetto traslativo del diritto pignorato, dal debitore al creditore; e l’effetto estintivo – totale o parziale – del credito dell’assegnatario verso il debitore, con conseguente chiusura del procedimento. Nelle altre ipotesi, invece, il provvedimento liquidativo ha solo un effetto traslativo, e non anche estintivo. 6. B – Assegnazione-vendita Si ha, invece, assegnazione-vendita quando il creditore assegnatario, per rendersi tale, effettua il pagamento di una somma di danaro. In questo modo, la somma che il creditore assegnatario ha versato non estingue il suo credito, poiché non è da lui trattenuta, ma è oggetto di distribuzione come se il bene pignorato fosse stato venduto. I vantaggi che tale operazione può comportare per l’assegnatario sono molteplici, p.e. trattenere un bene che il creditore assegnatario preferisce pagare al valore effettivo, piuttosto che vedere svenduto a un prezzo minore. 7. Rapporti tra vendita e assegnazione I rapporti tra vendita e assegnazione sono così strutturati: 1. beni che devono essere assegnati senza un previo tentativo di vendita (art. 553 c.p.c.): tali sono i crediti pignorati che siano scaduti o che scadano entro 90 giorni; 2. beni che possono essere assegnati senza un previo tentativo di vendita (art. 529 c.p.c.): tali sono i titoli di credito e le altre cose il cui valore risulta dal listino di Borsa o di mercato; 3. beni che devono essere assegnati dopo un tentativo di vendita fallito (art. 539 c.p.c.): tali sono gli oggetti d’oro e d’argento, i quali non possono essere in nessun caso venduti per un prezzo inferiore al valore intrinseco; pertanto, in caso di invenduto, essi sono assegnati per il loro valore intrinseco ai creditori; 4. beni che possono essere assegnati dopo un tentativo di vendita fallito: tali sono tutti i beni diversi da quelli sopra citati. Se nel tentativo di vendita non si è raggiunto il prezzo di stima del bene, con il meccanismo dell’assegnazione per valore di stima, il creditore che la richiede non pregiudica né il debitore né gli altri creditori intervenuti, in quanto il valore non raggiunto in sede di vendita (e pari a quello di stima) è raggiunto in siffatto modo. Ora, per quanto sia vero che il trasferimento in esame costituisce una cessione del credito di diritto comune, alla quale dunque si applicano le regole ordinarie, è il caso di precisare che qui si può avere una vicenda pregressa costituita da una dichiarazione lato sensu confessoria del terzo debitore; ebbene, a tale dichiarazione il terzo debitore è vincolato anche nei confronti del cessionario, sicchè le eccezioni opponibili dal debitore non possono entrare in contrasto con il contenuto vincolante della dichiarazione. 6. Credito scaduto Se il credito pignorato è scaduto o ha scadenza inferiore a 90 giorni, l’assegnazione è coattiva, cioè avviene senza che l’assegnatario ne faccia richiesta. L’assegnazione avviene «salvo esazione» (art. 553 c.p.c.), il che significa che la cessione avviene pro solvendo. Pertanto, al momento dell’assegnazione non avviene l’estinzione del diritto del creditore verso il debitore esecutato, poiché esso si estingue soltanto al momento del pagamento del credito assegnato. 7. Credito non scaduto Assai più incerta è la disciplina dei crediti aventi scadenza oltre i 90 giorni. L’art. 553 c.p.c. stabilisce che i crediti che scadono oltre i 90 giorni possono essere o assegnati o venduti. Essi sono assegnati se i creditori ne fanno domanda; se nessuno dei creditori ne chiede l’assegnazione, sono venduti. Ora, se il credito non scaduto viene venduto, non si pongono particolari problemi: la cessione avviene pro soluto, cioè il rischio di un’eventuale ritardo, o peggio insolvenza del debitore è addossato al cessionario. Non è un caso che questi paghi il credito a minor prezzo rispetto al suo valore nominale: altrimenti non solo non ricaverebbe un guadagno, ma soprattutto non avrebbe un centesimo a copertura del suo rischio. Il problema si pone per l’assegnazione del credito non scaduto. L’assegnazione del credito scaduto o con scadenza inferiore a 90 giorni – lo si è detto – realizza una cessione del credito pro solvendo. Qui vale la stesso regime, o la cessione è da intendersi pro soluto, come per la vendita del credito scaduto? Al problema si risponde coordinando il co. 1 e il co. 2 dell’art. 553 c.p.c. tra loro. Intanto il co. 2 non riporta l’inciso «salvo esazione» che si ritrova nel co. 1; e poi il co. 2 equipara la vendita del credito all’assegnazione su domanda, di talchè si deve ragionevolmente presumere che il legislatore abbia inteso l’assegnazione di credito non scaduto come una cessione pro soluto. In chiusura, si deve sottolineare che l’assegnazione chiude il processo esecutivo, perché non c’è più nulla da fare, come accadrebbe in caso di assegnazione satisfattiva. Diversamente, nella vendita il terzo acquirente versa una somma di denaro che sarà oggetto di distribuzione nei modi ordinari. 8. Riscossione del credito assegnato Si è detto che l’ufficio esecutivo non cura la riscossione del credito, e che tale compito spetta all’assegnatario. Ovviamente, nel caso di assegnazione pro solvendo, è un onere del creditore assegnatario curare la riscossione, in quanto se egli si rende inattivo non può poi pretendere di mantenere il suo credito nei confronti dell’esecutato: non si è proprio attivato per riscuotere il credito assegnatogli, tanto peggio per lui; dal debitore esecutato non può pretendere più nulla in questo caso. Nel caso di assegnazione (e di vendita) pro soluto, invece, il credito nei confronti del debitore esecutato si è già estinto nel momento in cui il credito è stato assegnato (o venduto). Nel caso di inadempimento del terzo debitore, l’assegnatario può procedere all’esecuzione forzata nei confronti di costui sulla base del titolo esecutivo di cui era già munito il debitore esecutato, ovvero – se il debitore esecutato non aveva un titolo esecutivo contro il terzo debitore – sulla base dell’ordinanza di assegnazione. 9. C – Immobili Per quanto riguarda la liquidazione degli immobili, occorre anzitutto premettere che all’istanza di vendita (che il creditore procedente o il creditore intervenuto munito di titolo esecutivo devono depositare entro 90 giorni dal pignoramento) deve essere allegata la documentazione ex art. 567 c.p.c. A seguito della presentazione dell’istanza, il giudice incarica un esperto della stima del bene, e fissa l’udienza in cui dispone la vendita del bene e ne fissa le modalità. Ciò detto, le modalità di liquidazione del bene immobile sono: • vendita senza incanto; • vendita all’incanto. 10. Offerte in busta chiusa La vendita senza incanto (artt. 570-572 c.p.c.) consiste in un invito a fare la propria offerta in cancelleria in busta chiusa. Tale offerta rimane sconosciuta finchè non vengono aperte le buste. Possono partecipare tutti gli interessati (creditori compresi), tranne il debitore esecutato. Una forma particolare di vendita senza incanto è costituita dall’offerta fatta per persona da nominare, ad opera di un avvocato. L’avvocato può offrire una certa somma senza indicare il soggetto interessato all’acquisto; avvenuta l’aggiudicazione a suo favore, entro 3 giorni deve procedere al deposito in cancelleria del nome del vero acquirente, e da quel momento la procedura prosegue con l’acquirente effettivo. Se non viene dichiarato il nome del vero acquirente, l’aggiudicazione diviene definitiva a nome dell’avvocato. Si ricorre a questa forma di offerta quando si preferisce restare nell’anonimato per l’acquisto del bene. Con il deposito in cancelleria dell’offerta in busta chiusa, si deve effettuare il versamento, a titolo di cauzione, di una somma equivalente a del prezzo offerto. Scaduto il termine per il deposito in cancelleria delle offerte, il giudice dell’esecuzione provvede all’apertura delle buste e vede le offerte effettuate; poi convoca tutte le parti. Se l’offerta maggiore è superiore di almeno il 20% al valore di stima, l’immobile è immediatamente aggiudicato all’offerente. Altrimenti, si passa alla vendita all’incanto, se il creditore procedente ne fa richiesta o se il giudice lo ritiene opportuno. Qualora vi siano più offerte, il giudice dell’esecuzione invita gli offerenti ad una gara sull’offerta più alta. In caso di accoglimento dell’offerta, il giudice emette due decreti: 1. decreto con cui vengono stabilite le modalità di versamento del prezzo. Se il versamento non è effettuato, il giudice provvede alla rivendita del bene all’incanto, e la cauzione versata dall’offerente prescelto confluisce nelle casse dell’esecuzione; se poi nella rivendita viene fuori un prezzo minore, per la differenza tra prezzo offerto e non pagato e prezzo minore offerto nella rivendita resta obbligato il soggetto offerente e inadempiente; 2. decreto di trasferimento. Se il versamento è effettuato, il giudice emette un secondo decreto, il quale costituisce l’atto terminale del procedimento di liquidazione, e con il quale si trasferisce all’acquirente il diritto pignorato al debitore. 11. Vendita all’incanto La vendita all’incanto ha inizio con il bando di vendita ex art. 576 c.p.c., di cui si dà pubblicità. Il bando stabilisce il giorno e l’ora in cui si procederà alla vendita, nell’udienza pubblica in presenza del giudice. I soggetti che possono partecipare sono gli stessi della vendita senza incanto; anche qui vi è la possibilità di avanzare offerte per persona da nominare da parte di un procuratore legale; gli offerenti devono prestare la stessa cauzione prevista nella vendita senza incanto. All’udienza, il giudice procede alla vendita all’incanto ex art. 581 c.p.c. Ciascun legittimato a partecipare ex art. 580 c.p.c. avanza oralmente la sua offerta. Trascorsi 3 minuti dall’ultima offerta senza che ne siano fatte di maggiori, il bene viene aggiudicato all’ultimo offerente. A questo punto, sono stati individuati l’offerente e il prezzo di vendita, ma la cosa non finisce qui: entro 10 giorni dall’incanto, possono essere fatte delle offerte in aumento almeno di del prezzo raggiunto nell’aggiudicazione; qui si innesta una sorta di vendita senza incanto, poiché si passa alla vendita con le offerte in cancelleria. Se uno o più offerenti in aumento depositano la propria offerta, il giudice convoca costoro e l’aggiudicatario per la gara di cui si è detto a proposito di vendita senza incanto. 12. Decreto di trasferimento L’aggiudicatario (o il vincitore della predetta gara) deve procedere al versamento del prezzo nel modo stabilito nel bando di vendita. In caso di mancato versamento, si producono le medesime conseguenze già viste in tema di vendita senza incanto. Se il versamento viene effettuato, il giudice pronuncia il decreto di trasferimento; l’art. 586 c.p.c. consente al giudice di non pronunciare il decreto di trasferimento, se ritiene che il prezzo di aggiudicazione sia notevolmente inferiore al valore effettivo del bene. Da ciò, e dal fatto – più in generale – che sia necessario il decreto di trasferimento per trasferire il bene, si può muovere per ribadire l’infondatezza della tesi di parte della dottrina, secondo la quale il trasferimento del bene avviene al momento dell’aggiudicazione. E la conclusione, in forza della quale il trasferimento si produce con decreto, non pare contraddetta neppure dall’art. 187bis disp. att. c.p.c., secondo il quale «in ogni caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l’aggiudicazione, anche provvisoria, o l’assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari […] gli effetti di tali atti»; infatti, ciò non significa che il trasferimento avvenga con tali atti, ma solo che il processo esecutivo – nonostante la sua chiusura – prosegue limitatamente al subprocedimento in cui si provvede al compimento degli atti per il trasferimento definitivo del diritto. Con il decreto di trasferimento si verifica l’effetto purgativo della vendita forzata di cui si è fatto cenno in precedenza, e cioè si dispone la cancellazione della trascrizione del pignoramento e delle iscrizioni ipotecarie. 13. Titolo per il rilascio Il decreto di trasferimento costituisce titolo esecutivo per il rilascio, cioè per ottenere la consegna del bene acquistato. Il decreto contiene l’ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Qui è necessaria una precisazione. Il pignoramento immobiliare – lo si è detto a suo tempo – è effettuato dall’ufficiale giudiziario sulla base delle indicazioni del creditore procedente, il quale se ne assume la responsabilità tramite la sottoscrizione dell’atto di pignoramento. Il bene immobiliare, peraltro, può essere come non essere in possesso di colui che subisce l’espropriazione. Bisogna a questo punto distinguere: • bene immobile pignorato assoggettato alla custodia del debitore esecutato (o di un terzo): in questo caso, non v’è dubbio che il decreto di trasferimento costituisca titolo esecutivo per il rilascio nei confronti del custode; • bene immobile pignorato in possesso di un estraneo: in questo caso, il decreto di trasferimento non è propriamente un titolo esecutivo spendibile nei confronti dell’estraneo. Pertanto, l’aggiudicatario del bene dovrà agire nei confronti del terzo possessore con l’azione di rivendicazione o di restituzione. Un’eccezione a quanto detto è costituita dal terzo che sia avente causa del debitore esecutato ex artt. 2913 ss. c.c.: in questo caso, infatti, il decreto di trasferimento costituisce titolo esecutivo per il rilascio. 14. Vendita fallita Ciascun creditore può chiedere l’assegnazione del bene immobile, per la somma maggiore comparando il valore stimato del bene con i crediti privilegiati anteriori al richiedente e le spese di giustizia. L’istanza di assegnazione deve essere avanzata dal creditore almeno 10 giorni prima della data fissata per l’incanto, in previsione di un eventuale fallimento della vendita. Se non si provvede all’assegnazione, il giudice può provvedere in due modi: o dispone l’amministrazione giudiziaria del bene immobile o dispone una nuova vendita all’incanto. Ancora, il giudice può stabilire nuove condizioni di vendita o un nuovo prezzo base inferiore del 25% al precedente, ma in questi casi ha luogo una vendita senza incanto. 15. Amministrazione giudiziaria Se il giudice ritiene di disporre l’amministrazione giudiziaria, ciò ha due vantaggi. Il primo vantaggio è quello di far produrre all’immobile i frutti necessari alla soddisfazione dei creditori – come se si verificasse una specie di anticresi processuale – e poi, una volta soddisfatti tutti i creditori, restituire l’immobile al debitore. Se tale soddisfazione non si completa entro 3 anni, si deve procedere ad un’ulteriore vendita del bene. Il secondo vantaggio è legato alle condizioni di mercato. Se il mercato è in una fase «dormiente», il giudice può attendere un momento propizio per disporre la vendita. 16. Delega al professionista Alcune attività del processo esecutivo possono essere delegate a professionisti: ciò accade per la vendita dei beni immobili e dei mobili registrati. Al professionista vengono affidate le attività previste dall’art. 591bis c.p.c., le quali si svolgono (non più presso l’ufficio esecutivo, ma) presso lo studio del professionista, o in altro luogo da questi indicato. Il professionista, pertanto, provvede a determinare il prezzo della vendita, a dare pubblicità alla stessa, ad effettuare la vendita senza incanto e quella eventualmente successiva all’incanto, ad aggiudicare il bene, a ricevere il pagamento del prezzo, a predisporre il decreto di trasferimento (che peraltro anche in questa fattispecie rimane atto del giudice dell’esecuzione), ecc. Se nel corso delle operazioni affidate al professionista sorgono difficoltà, il professionista stesso può rivolgersi al giudice dell’esecuzione, il quale provvede con decreto (reclamabile come lo sono gli atti del professionista). 17. Infruttuosità dell’espropriazione forzata La riforma del 2014 ha introdotto l’art. 164bis disp. att. c.p.c., il quale prevede un rimedio estremo in caso di infruttuosità dell’espropriazione. La norma stabilisce: «Quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo». Capitolo XVI – Gli effetti sostanziali della vendita e dell’assegnazione 1. Natura della vendita forzata La natura della vendita forzata ha costituito oggetto di annosi dibattiti in dottrina: c’era chi ne affermava la natura privatistica, chi la natura pubblicistica, o chi ancora una natura mista (processuale-sostanziale). Oggi il problema è piuttosto sopito, in quanto si ritiene prevalentemente che la vendita forzata sia un fenomeno essenzialmente processuale, ma avente effetti di diritto sostanziale. Questo perché gli atti compiuti dall’acquirente sono atti del processo esecutivo, come lo è anche il provvedimento di trasferimento, pur avendo – ovviamente – tali atti ricadute sul piano sostanziale. Degli effetti sostanziali della vendita forzata se ne occupano gli artt. 2919-2929 c.c. 2. Acquisto a titolo derivativo Si inizi con l’esame dell’art. 2919 prima parte c.c.: «La vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, salvi gli effetti del possesso di buona fede». È da premettersi subito che quando si parla di «vendita forzata», qui ci si sta riferendo anche all’assegnazione forzata, la quale ha i medesimi effetti sostanziali della vendita, salvo alcune particolarità di cui si dirà a suo tempo. L’altro aspetto interessante da segnalare è che la norma parla di «colui che ha subito l’espropriazione», e non del «debitore esecutato»: questo perché vi sono anche ipotesi di espropriazione subita da chi non è debitore. Dunque, la vendita forzata dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo: la misura dell’acquisto è determinata dalla misura del diritto del dante causa. Certuni, in passato, hanno discusso intorno all’appellativo di acquisto a titolo derivativo per la vendita forzata, sostenendo che tale non si può definire il trasferimento di un diritto che prescinde dal consenso del dante causa; ed è vero, sotto questo profilo la vendita forzata non può dirsi un acquisto a titolo derivativo, ma non è quanto rileva in questa sede, poiché qui si sta considerando la vendita forzata dal punto di vista dei suoi effetti, e non dei suoi presupposti. Peraltro, oggi con il termine «derivativo» si vuole connotare quell’acquisto che postula la sussistenza, in capo al dante causa, di una situazione sostanziale uguale o maggiore rispetto a quella acquistata, e da ciò si fa derivare la dipendenza del diritto acquistato da quello del dante causa; viceversa, con il termine «originario» si tende a configurare il fenomeno in forza del quale il dante causa non ha un diritto maggiore o uguale di quello dell’acquirente, e da ciò si fa derivare l’autonomia del diritto acquistato da quello del dante causa. Sotto questa luce, la vendita forzata è un acquisto a titolo derivativo: se colui che ha subito l’espropriazione (si accerta che) non era effettivamente titolare del diritto pignorato, l’acquirente in vendita forzata non acquista un bel niente in pregiudizio del terzo estraneo effettivamente titolare del diritto sul bene pignorato. In altre parole, proprio perché la vendita forzata è un acquisto a titolo derivativo, essa non può mai arrecare pregiudizio al terzo vero proprietario del diritto sul bene pignorato. 3, 4. Effetti del pignoramento. Creditori intervenuti L’art. 2919 ultima parte c.c. statuisce: «Non sono però opponibili all’acquirente diritti acquistati da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori intervenuti nell’esecuzione». La norma, in sostanza, stabilisce l’inopponibilità all’acquirente in vendita forzata dei diritti dei terzi inopponibili al creditore pignorante, sicchè ciò che acquista l’aggiudicatario è ciò che colui che ha subito l’espropriazione aveva al momento del pignoramento, e non già al momento della vendita: ciò che rileva è la situazione sostanziale esistente in capo all’esecutato al momento del pignoramento; gli atti compiuti dopo il pignoramento sono inopponibili all’acquirente (come lo sono ai creditori procedente e intervenuti). Il riferimento dell’art. 2919 c.c. anche ai creditori intervenuti nell’esecuzione è la conferma del fatto che i creditori intervenuti beneficiano degli effetti utili del pignoramento: lo si disse in tema di differenza tra res litigiosa e res pignorata. Ma si tratta solo di questo? O il riferimento esplicito ai creditori intervenuti nell’esecuzione cela l’intenzione del legislatore di ribadire l’esistenza di categorie di creditori, nei cui confronti vale una protezione ancora maggiore rispetto a quella del creditore procedente? La cosa non è di poco conto, poiché maggiore è lo scudo di cui beneficiano i creditori intervenuti (proprio per le peculiarità del loro credito), maggiore è lo scudo di cui beneficia l’acquirente di fronte al terzo, dato che le protezioni dei creditori al momento del pignoramento si trasmettono all’acquirente. 5, 6, 7. Creditori ipotecari. Diritti reali maggiori. Diritti reali minori Sul punto si dirà di più a suo tempo. 20, 21. Posizione dell’aggiudicatario. Collusione con il creditore procedente Per quanto riguarda i rapporti esecutato-aggiudicatario, la regola è la seguente: la nullità degli atti esecutivi precedenti alla vendita o all’assegnazione non ha effetto nei confronti dell’aggiudicatario. In altri termini, tutte le nullità verificatesi fino all’ordinanza di vendita sono inopponibili all’acquirente o all’assegnatario, poiché costui non è stato parte – nella veste di acquirente o assegnatario – della fase precedente. Di questo già si disse a suo tempo, quando si esaminarono gli artt. 530 e 569 c.p.c., in virtù dei quali l’udienza di vendita costituisce lo sbarramento per la rilevazione di tutte le nullità formali, che da quel momento perdono di rilevanza se non fatte valere in quella sede. Da ciò si ricava agevolmente che le nullità extraformali, invece, hanno la caratteristica di inficiare ogni singolo atto del processo, quindi anche quelli compiuti posteriormente all’udienza di vendita. Per quanto riguarda, invece, le nullità del subprocedimento di vendita, la regola è che esse devono essere fatte valere all’interno del processo esecutivo attraverso l’opposizione agli atti esecutivi, e non già al di fuori del processo. In sostanza, occorre fare applicazione qui del principio dell’onere dell’impugnazione. Ma c’è un eccezione: la regola dell’onere di impugnazione non vige nel caso in cui vi sia stata collusione tra creditore procedente e acquirente, ossia l’approfittamento della nullità da parte dell’acquirente per rendersi tale, e il debitore esecutato abbia scoperto tale accordo fraudolento dopo la chiusura del processo esecutivo (perché altrimenti avrebbe dovuto utilizzare l’opposizione agli atti esecutivi). Si tratta, insomma, di una specie di impugnazione straordinaria della vendita forzata. 22. Irrilevanza del diritto di procedere a esecuzione forzata Il suddetto art. 2929 c.c. fa riferimento alla nullità degli atti esecutivi, e non alla mancanza del diritto di procedere ad esecuzione forzata. Il che ha un senso, se si considera che la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata si fa valere con l’opposizione all’esecuzione; tale contestazione non impone, infatti, al giudice di risolvere preliminarmente la questione dell’esistenza del diritto, come è chiamato a fare prima dell’udienza di vendita per le nullità. Ed è naturale che sia così, poiché tra diritto di procedere ad esecuzione forzata e risultato dell’esecuzione medesima non vi è nesso di pregiudizialità. Se, infatti, il processo di espropriazione è immune da vizi, il suo risultato è la trasformazione del diritto su un bene in una somma di denaro, istituzionalmente equivalente al diritto trasferito con l’aggiudicazione. Orbene, dopo la distribuzione del ricavato nulla impedisce all’esecutato di contestare la sussistenza dei crediti, agendo in ripetizione dell’indebito; e l’esecutato non ha alcun motivo di chiedere all’aggiudicatario la restituzione del bene, perché egli ha la possibilità di farsi consegnare l’equivalente istituzionale in termini monetari del bene. Ecco perché, in chiusura, le nullità del processo esecutivo sono assai più gravi della mancanza del diritto di procedere ad esecuzione forzata: quest’ultima mancanza, infatti, non impedisce al processo di operare una corretta e attendibile – per quanto ingiusta – trasformazione del bene in una somma di denaro; invece, le nullità del processo esecutivo fanno sì che la trasformazione sia inattendibile, in quanto operata da un meccanismo (il processo esecutivo, appunto) viziato. Capitolo XVII – La distribuzione del ricavato 1. Somma da distribuire Il terzo momento dell’espropriazione forzata, dopo il pignoramento e la liquidazione del bene, e cioè la fase distributiva, non può avvenire se non sia stato possibile procedere alla realizzazione del diritto pignorato o se tale diritto è stato assegnato ad un creditore senza che costui abbia versato un conguaglio. La distribuzione del ricavato è disciplinata in generale dagli artt. 509-512 c.p.c., e più specificamente dagli artt. 541 e 542 c.p.c. (espropriazione mobiliare) e dagli artt. 596-598 c.p.c. (espropriazione immobiliare). L’art. 509 c.p.c. statuisce: «La somma da distribuire è formata da quanto proviene a titolo di prezzo o conguaglio delle cose vendute o assegnate, di rendita o provento delle cose pignorate, di multa e risarcimento di danno da parte dell’aggiudicatario». 2. Ordine di distribuzione Il vero problema in tema di distribuzione è la graduazione dei crediti, che è così configurata: 1. spese della procedura: le spese della procedura hanno la precedenza assoluta e inderogabile, anche rispetto ai crediti assistiti da cause legittime di prelazione. Le spese prededucibili sono quelle del pignoramento, della vendita, della custodia del bene, e delle eventuali opposizione infondatamente proposte dall’esecutato; 2. crediti assistiti da cause legittime di prelazione: l’ordine delle prelazioni è stabilito dall’art. 2777 c.c.; 3. crediti chirografari tempestivi: ove la somma non sia sufficiente per tutti, si opera una ripartizione pro quota. Se vi è stato intervento dei creditori e invito del creditore procedente all’estensione del pignoramento ex art. 499 co. 4 c.p.c., e i creditori intervenuti non hanno seguito l’invito del creditore procedente, si crea una prelazione di natura processuale e i creditori intervenuti sono postergati alla soddisfazione del creditore procedente; 4. crediti chirografari tardivi: per creditori chirografari tardivi si intende quelli intervenuti dopo l’udienza di vendita o di assegnazione, o – in caso di piccola espropriazione mobiliare – quelli intervenuti dopo il deposito dell’istanza con cui il creditore procedente chiede la fissazione dell’udienza di vendita o di assegnazione; 5. esecutato: l’esecutato è destinatario dell’eventuale residuo. 3. Formazione del piano di riparto Dal punto di vista processuale, occorre distinguere a seconda che vi siano o non vi siano creditori intervenuti. Se vi è un solo creditore da soddisfare, il giudice dell’esecuzione convoca le parti e dispone il pagamento, a favore del creditore, di quanto gli è dovuto. Se, invece, vi sono più creditori da soddisfare, occorre procedere alla formazione di un piano di riparto. Qui bisogna distinguere tra: • espropriazione mobiliare: nell’espropriazione mobiliare, i creditori possono presentare al giudice un piano di riparto concordato tra loro, già predisposto e sottoscritto da tutti i creditori. In tal caso il giudice dell’esecuzione provvede in conformità, se non c’è opposizione del debitore, poiché l’accordo è vincolante per il giudice ed egli non può discostarsene. Se c’è opposizione del debitore, si procede ai sensi dell’art. 512 c.p.c. In mancanza di un piano di riparto concordato, ogni creditore (compresi quelli non muniti di titolo esecutivo, o il cui credito è stato contestato ma la domanda per ottenere un titolo esecutivo sia stata tempestivamente proposta) può chiedere che si proceda alla distribuzione della somma ricavata; il giudice allora predispone un piano di riparto e lo sottopone alle parti per l’approvazione. Se tutti sono d’accordo, il piano è approvato; altrimenti si procede ai sensi dell’art. 512 c.p.c.; • espropriazione immobiliare: nell’espropriazione immobiliare il giudice procede d’ufficio alla predisposizione di un piano di distribuzione, senza bisogno dell’istanza di parte o di un piano concordato. Una volta preparato il piano, il giudice provvede al suo deposito in cancelleria e alla fissazione di un’udienza; il cancelliere avvisa i creditori intervenuti e il debitore dell’avvenuto deposito e dell’udienza fissata; le parti hanno 10 giorni per consultare il piano di riparto. Se all’udienza le parti non compaiono o non si oppongono, il piano è approvato. Se le parti in udienza si trovano d’accordo fra loro per modificare il piano, il giudice anche qui non può che prenderne atto e modificare il piano in conformità agli accordi raggiunti dalle parti. Se invece il piano viene contestato e non si raggiunge un accordo sulla sua modificazione, si procede ai sensi dell’art. 512 c.p.c. 4. Accantonamenti L’art. 510 co. 3 c.p.c. statuisce: «L’accantonamento [a favore dei creditori contestati che abbiano tempestivamente proposto la domanda volta ad ottenere un titolo esecutivo, ndr] è disposto dal giudice per il tempo ritenuto necessario affinchè i predetti creditori possano munirsi di titolo esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di tempo non superiore a 3 anni. Decorso il termine fissato, su istanza di una delle parti o anche d’ufficio, il giudice dispone la comparizione davanti a sé del debitore, del creditore procedente e dei creditori intervenuti, con l’eccezione di coloro che siano già stati integralmente soddisfatti, e dà luogo alla distribuzione della somma accantonata tenuto conto anche dei creditori intervenuti che si siano nel frattempo muniti di titolo esecutivo». La disposizione presenta gravi profili di incostituzionalità. Se il principio della ragionevole durata del processo, e il corollario in virtù del quale colui che esercita il proprio diritto di azione ex art. 24 Cost. non deve essere pregiudicato dalla durata del processo, hanno un minimo peso nell’ordinamento, allora lasciare insoddisfatti i creditori privilegiati per un periodo fino a 3 anni, per avvantaggiare i creditori che sono ex lege ai primi postergati, significa svilire i suesposti principi, oltre che frustrare in concreto le regole di diritto sostanziale sull’ordine di soddisfazione dei crediti. Approvato il piano di riparto o risolte le contestazioni, il processo esecutivo giunge a chiusura con l’emissione dei mandati di pagamento da parte del cancelliere. 5. Domanda di sostituzione L’art. 511 c.p.c. si occupa della domanda di sostituzione nel processo esecutivo. I creditori di un creditore avente diritto alla distribuzione possono chiedere di essere a lui sostituiti proponendo domanda a norma dell’art. 499 co. 2 c.p.c. La logica è la medesima sottesa all’azione surrogatoria; addirittura si ritiene che il creditore sostituente possa effettuare lui stesso la domanda di intervento per il suo debitore (ossia il creditore avente diritto, ma inerte). Una precisazione: la domanda di sostituzione si effettua nelle forme della domanda di intervento ex art. 499 co. 2 c.p.c., ma non è una domanda di intervento; quest’ultima, infatti, o è stata già proposta dal sostituito o la propone il sostituente per il sostituito, ma con tutte le caratteristiche dell’intervento contro l’esecutato, e non – com’è invece nella fattispecie in esame – come una semplice domanda di sostituzione. Al momento della distribuzione del ricavato, il giudice provvede ad assegnare al sostituente le somme che spettano al sostituito; tuttavia, se sorge contestazione tra sostituente e sostituito, tale contestazione non può in alcun modo ritardare la distribuzione agli altri concorrenti. 6. Effetti della distribuzione Ci si deve porre ora il delicato problema degli effetti della distribuzione rispetto alla posizione e alle pretese del debitore esecutato. In particolare, la questione verte intorno alla possibilità del debitore, che ha subito l’espropriazione, di contestare, conclusosi senza irregolarità il processo esecutivo, la sussistenza di un credito in tutto o in parte soddisfatto, e agire per la ripetizione dell’indebito. Ecco che il problema richiede un’analisi, sul piano sostanziale, degli effetti dell’approvazione del piano di riparto e della distribuzione del ricavato; l’interrogativo, dunque, è: dalla distribuzione del ricavato e dalla percezione della somma da parte del creditore deriva una qualche preclusione ad affermare l’inesistenza (o l’inferiorità) del credito per il debitore? 7. Stabilità della distribuzione Il problema è dunque quello di stabilire se dalla distribuzione del ricavato nasca o meno una specie di «cosa eseguita», analoga, come forma di stabilità sostanziale, alla «cosa giudicata» del processo di cognizione. Ora, si deve anzitutto sgomberare il campo da un facile fraintendimento. L’eventuale effetto stabilizzante della distribuzione, ostativo alla ripetizione dell’indebito, non deve essere in alcun modo confuso con altri e diversi fenomeni preclusivi derivanti non già dall’espropriazione forzata (come potrebbe inizialmente apparire), bensì da atti esterni all’esecuzione stessa. Esempio: se il creditore, soddisfatto in sede esecutiva, ha a suo favore una sentenza passata in giudicato che accerta l’esistenza del suo credito, l’ostacolo alla ripetizione dell’indebito non nasce dalla distribuzione del ricavato, ma dalla formazione del giudicato sulla questione di diritto sostanziale in virtù dell’accertamento giurisdizionale del credito. E infatti non è un caso che l’ostacolo alla ripetizione dell’indebito, stando le cose nella maniera in cui sono state appena descritte, si formi sia in caso di espropriazione sia in caso di pagamento spontaneo: ciò che unicamente rileva come preclusione, infatti, è l’avvenuto accertamento giurisdizionale del credito. Fatta questa premessa, ci si deve chiedere: la distribuzione ha un’efficacia preclusiva che il pagamento spontaneo non ha? La risposta più corretta – per quanto la dottrina maggioritaria non sia di questo avviso – è quella negativa. L’espropriazione forzata, infatti, ha la (mera) funzione di soddisfare crediti, attraverso la surrogazione processuale dell’inattività sostanziale dell’obbligato; in altri termini, l’espropriazione forzata ha la medesima funzione che avrebbe l’adempimento spontaneo, ove fosse stato realizzato, e pertanto, non si comprende perché le dovrebbe essere attribuita un’efficacia preclusiva maggiore rispetto a quella data dall’adempimento spontaneo. Quindi dare alla distribuzione del ricavato una stabilità sostanziale preclusiva, che il pagamento spontaneo non ha, significa dare all’esecuzione forzata un effetto eccedente la sua funzione. Ma non solo. Neppure all’inattività dell’esecutato, il quale non abbia contestato il piano di riparto, può attribuirsi un’efficacia maggiore di quella propria dell’adempimento spontaneo; di talchè anche l’esecutato rimasto inerte ha la possibilità di intraprendere un’azione di ripetizione dell’indebito, se vi sono i presupposti sostanziali per farlo. Dunque l’esecutato può mettere in discussione il risultato della distribuzione, al ricorrere dei presupposti sostanziali del caso. E i creditori? Può un creditore contestare, al di fuori del processo esecutivo, l’ordine di distribuzione del ricavato? La risposta è negativa, e lo è non perché la distribuzione del ricavato produce un qualche effetto stabilizzante, ma sulla base del semplice diritto sostanziale: non è possibile, infatti, che possa ottenersi la revoca dell’adempimento di un debito esistente (art. 2901 co. 3 c.c.), a meno che non ci si trovi nelle procedure concorsuali. 8. Controversie in sede di distribuzione Si è detto in precedenza che, in sede di distribuzione, possono sorgere delle controversie relative al piano di riparto. Il tema deve essere ora approfondito, tenendo conto delle profonde modifiche apportate con la riforma del 2006. Ante riforma, infatti, le controversie tra creditori o tra creditori/debitore/terzo assoggettato all’espropriazione, circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o di ragioni di prelazione, erano risolte attraverso un ordinario processo di cognizione, incidentale al processo esecutivo. In tal modo, l’accertamento contenuto nella sentenza aveva un effetto stabilizzatore del risultato della distribuzione, e costituiva uno degli elementi extraesecutivi preclusivi della ripetizione dell’indebito visti poc’anzi. Ora le cose stanno diversamente. Il nuovo testo dell’art. 512 co. 1 c.p.c. statuisce: «Se, in sede di distribuzione, sorge controversia tra creditori concorrenti o tra creditore e debitore o terzo assoggettato all’espropriazione, circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di diritti di prelazione, il giudice dell’esecuzione, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti, provvede con ordinanza, impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, secondo comma [opposizione agli atti esecutivi, ndr]». Si deve da subito premettere che, a seconda dell’oggetto che si vuole assegnare all’opposizione agli atti esecutivi contro l’ordinanza, le conseguenze a cui si giunge sono assai diversificate. Le controversie in sede di distribuzione, dunque, sono istruite e risolte all’interno del processo esecutivo; l’attività del giudice dell’esecuzione fa capo ad un provvedimento che non può – per definizione – avere efficacia dichiarativa, ma che ha il solo fine di consentire la distribuzione del ricavato. Con l’intervento del legislatore nel 2006, è finalmente cessato l’aspro dibattito intorno al concorso tra opposizione all’esecuzione e controversia in sede di riparto; oggi, infatti, l’opposizione all’esecuzione è decisa con sentenza produttiva di giudicato a tutti gli effetti, mentre invece la controversia in sede di riparto è risolta con ordinanza avente effetti soltanto interni al processo esecutivo. Peraltro, il fatto che l’ordinanza che risolve la contestazione non ha efficacia dichiarativa consente che le possibili reazioni avverso la distribuzione – esperibili a processo esecutivo concluso – siano identiche vuoi che la distribuzione sia avvenuta senza contestazioni, vuoi che la distribuzione sia avvenuta una volta risolte le contestazioni ex art. 512 c.p.c. 9. Contestazioni del debitore Si deve ora guardare alla posizione del debitore e alle contestazioni che gli è consentito sollevare. Ai fini della determinazione di tali contestazioni, ci si deve riferire alla regola generale dell’interesse ad agire, valevole anche nel processo esecutivo: la contestazione sollevata deve poter essere in concreto utile per il contestante. Evidentemente, allora, il debitore può sicuramente contestare la sussistenza e l’ammontare dei crediti di tutti i creditori, creditore procedente compreso. Questo perché il debitore ha interesse non solo a non pagare debiti inesistenti, ma anche ad estinguere con il ricavato debiti effettivamente esistenti. Diversamente, il debitore non può contestare le ragioni di prelazione. Se è vero che egli può avere interesse affinchè il ricavato non vada a lui medesimo, ma al creditore effettivamente tale, è altrettanto vero che le ragioni di prelazione non sono affare che riguarda il debitore: egli è infatti obbligato sia verso i privilegiati sia verso i chirografari. 10. Contestazioni dei creditori Le contestazioni che i creditori possono sollevare l’uno nei confronti dell’altro, sempre alla luce della regola dell’interesse ad agire, riguardano – certamente – le ragioni di prelazione, ma anche l’ammontare e la sussistenza dei crediti altrui; ma attenzione: in quest’ultimo caso, la contestazione proposta dal creditore concorrente – se accolta – deve portargli un beneficio, cioè gli deve essere concretamente vantaggiosa. 11. Onere della prova Nelle controversie ex art. 512 c.p.c., il creditore contestato assume la posizione di colui che afferma l’esistenza del proprio diritto, mentre il creditore/debitore contestante assume la posizione di colui che nega l’esistenza di tale diritto. Questa precisazione consente di attuare la regola dell’onere della prova: è onere del creditore contestato provare i fatti costitutivi del proprio diritto, mentre è onere del contestante provare i fatti modificativi/estintivi/impeditivi di tale diritto. 12. Difese del creditore contestante Un altro punto delicato riguarda l’efficacia, nei confronti del creditore contestante, di eventuali atti • bene la cui alienazione da parte del debitore è stata revocata per frode. La norma dà attuazione processuale a quanto già previsto nell’art. 2910 c.c., secondo il quale possono essere espropriati anche i beni di un terzo, quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore. Quindi entrambe le norme forniscono i presupposti per l’espropriazione contro il terzo proprietario, ossia per la scissione fra il debito e la responsabilità. 2, 3. A – Terzo acquirente. Terzo datore L’ipotesi di bene gravato da pegno o ipoteca per un debito altrui può aver luogo per: • alienazione ad un terzo di un bene del debitore gravato da pegno o ipoteca (art. 2808 co. 1 c.c.): in questa fattispecie, il debitore concede ipoteca/pegno su un bene che fa parte del suo patrimonio, e successivamente aliena detto bene ad un terzo; poiché l’ipoteca dà diritto di sequela, il creditore ipotecario può espropriare il bene non solo finchè esso si trova nel patrimonio del debitore, ma anche quando viene trasferito nel patrimonio di un terzo (il quale non è obbligato sul piano sostanziale con il creditore ipotecario); • concessione da parte di un terzo di pegno o ipoteca a garanzia di un debito altrui (art. 2808 co. 2 c.c.): in questa fattispecie, il terzo, non obbligato con il creditore sul piano sostanziale, concede volontariamente al creditore ipoteca o pegno su un proprio bene a garanzia del credito e in favore del debitore. 4. Scissione fra debito e responsabilità In entrambe le fattispecie appena descritte si verifica il fenomeno della scissione fra debito e responsabilità: il terzo datore di pegno o ipoteca, ovvero il terzo acquirente del bene gravato da pegno o ipoteca, non sono personalmente obbligati, né sono tenuti ad adempiere; semplicemente, devono sopportare che l’espropriazione si svolga sul loro bene. Nell’ipotesi di cui all’art. 2808 co. 1 c.c., la scissione fra debito e responsabilità non si verifica immediatamente, poiché solo in un momento successivo all’iscrizione dell’ipoteca, e cioè con l’alienazione del bene, si viene a creare la scissione. Diversamente, nell’ipotesi di cui all’art. 2808 co. 2 c.c., la scissione fra debito e responsabilità sussiste fin dall’inizio, in quanto fin dall’inizio il terzo datore non è obbligato sul piano sostanziale. La necessità di far partecipare al processo di espropriazione il titolare del diritto sul bene, di fargli assumere la qualità di esecutato, deriva dagli effetti della vendita forzata ex art. 2919 c.c.: la vendita fa nascere un titolo a favore dell’acquirente in vendita forzata contro colui che ha subito l’espropriazione. Quindi, il terzo proprietario deve partecipare all’espropriazione come esecutato, poiché è contro di lui che si deve formare il trasferimento nella vendita forzata. 5. B – Inefficacia delle alienazioni Si deve ora esaminare la seconda ipotesi di espropriazione contro il terzo proprietario, ossia il caso in cui il creditore ha ottenuto (p.e. con una revocatoria ex art. 2901 c.c. o 67 l.fall.) una sentenza che dichiara inefficaci gli atti di alienazione del debitore compiuti in pregiudizio del creditore. Già si disse a suo tempo che gli atti di disposizione del proprietario, ai sensi dell’art. 2812 c.c., non sono opponibili al creditore ipotecario, nel senso che non hanno effetto in suo pregiudizio. Lo stesso principio vige in riferimento all’azione revocatoria ex art. 2901 c.c.: l’accoglimento della domanda di revoca degli atti di disposizione porta alla dichiarazione di inefficacia degli stessi nei confronti del creditore-attore. Ma che significa «inefficacia», quantomeno ai fini del discorso che qui interessa? Ora, o si considera – solo nei confronti del creditore – il bene come non uscito dal patrimonio del debitore, sicchè a costui sarebbe consentito espropriare il bene come se si trovasse ancora nel patrimonio del debitore; o si considera il bene non già come «rientrato» nel patrimonio del debitore, bensì come passibile di espropriazione presso il terzo, nonostante questi non sia debitore. Gli artt. 2902 e 2910 c.c., nonché l’art. 602 c.p.c. scelgono questa seconda strada. Quindi, il terzo proprietario continua ad essere tale anche nei confronti del creditore, ma è soggetto al potere espropriativo di costui. 6. Strumenti per evitare l’espropriazione Si deve ora vedere come si svolge il processo esecutivo contro il terzo proprietario. Anzitutto, l’art. 603 c.p.c. stabilisce che titolo esecutivo e precetto devono essere notificati al terzo; ovviamente, al terzo non è fatto precetto di pagare, poiché egli non è debitore. La notificazione è fatta solo per consentire al terzo proprietario di venire a conoscenza del processo esecutivo. Il terzo proprietario ha a sua disposizione diversi strumenti per evitare l’espropriazione, in quanto può, a sua scelta: a. pagare, adempiendo l’obbligo altrui: in questo caso, il terzo pagando estingue sia il debito sia il potere di espropriazione del creditore; si ha qui una surrogazione legale nel diritto del creditore procedente ex art. 1203 c.c., sicchè il terzo può recuperare dal debitore la somma versata al creditore procedente; b. chiedere la liberazione dei beni dalle ipoteche. Istituto di cui all’art. 2889 c.c., peraltro pochissimo utilizzato; c. rilasciare il bene ai creditori: qui il terzo praticamente abbandona il bene ai creditori, e l’espropriazione ha luogo nei confronti di un curatore speciale nominato dal tribunale; in questo modo il terzo non compare come esecutato. 7. Posizione processuale del terzo Se non fa niente di tutto questo, il terzo proprietario assume la posizione di esecutato. Il pignoramento, e in genere gli atti di espropriazione si compiono nei suoi confronti, e a lui si applicano tutte le disposizioni relative al debitore. Si verifica, così, un litisconsorzio assai peculiare: parti necessarie dell’espropriazione sono il debitore non esecutato e l’esecutato non debitore. Entrambi hanno gli stessi doveri/poteri, ma il divieto di rendersi acquirente in vendita forzata non vale per il terzo proprietario, il quale – in sostanza – può riacquistare il suo bene. 8. Distribuzione del ricavato Un’altra particolarità concerne la distribuzione del ricavato, la quale segue qui un ordine diverso rispetto a quello ordinario. Infatti, in questa forma di espropriazione, i creditori legittimati ad intervenire sono i creditori del terzo proprietario (poiché per costoro il bene è nel patrimonio del terzo, e non del debitore), e non già i creditori del debitore (poiché per questi ultimi – chirografari o inerti nel proporre domanda di revoca – il bene è efficacemente uscito dal patrimonio del debitore). Pertanto, in sede di riparto, l’ordine sarà il seguente: 1. creditore ipotecario o creditore che ha ottenuto la revoca dell’atto; 2. creditori del terzo intervenuti (privilegiati, chirografari tempestivi, chirografari tardivi); 3. terzo. 9, 10, 11. Difese del terzo. Difese ex causa propria. Difese ex causa debitoris Il terzo è processualmente equiparato al debitore, sicchè beneficia degli stessi strumenti di difesa di quest’ultimo. In particolare, il terzo proprietario può, tramite l’opposizione agli atti esecutivi, avanzare contestazione in ordine al diritto del creditore istante di procedere all’esecuzione forzata. Per comprendere com’è strutturato il quadro delle difese a disposizione del terzo, si deve tener presente che le condizioni di assoggettabilità all’espropriazione del terzo sono molteplici: esistenza di un titolo esecutivo contro il debitore, validità dell’iscrizione dell’ipoteca o esistenza della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, sussistenza del credito garantito, ecc. Ebbene, in relazione a ciascuno dei suddetti profili, il terzo può spendere le proprie difese. Potrà, p.e., sostenere che l’ipoteca non è stata rinnovata tempestivamente, oppure che l’atto di iscrizione dell’ipoteca è nullo (c.d. difese ex causa propria), o che l’obbligo garantito in realtà non esiste (c.d. difese ex causa debitoris). Ma attenzione: per quanto riguarda le difese ex causa debitoris, l’art. 2859 c.c. è chiaro nel distinguere a seconda che la domanda con cui sia stata chiesta la condanna del debitore sia anteriore o posteriore alla trascrizione dell’atto di acquisto del terzo proprietario. Se la proposizione (e non la trascrizione) della domanda è anteriore alla trascrizione dell’atto di acquisto del terzo, il terzo proprietario può, in sede di opposizione, opporre al creditore soltanto le difese che spettano al debitore dopo la condanna; diversamente, se il terzo proprietario ha un titolo anteriore alla litispendenza, egli non è vincolato al contenuto della pronuncia, e può opporre al creditore tutte le difese del debitore, comprese quelle che la sentenza preclude a quest’ultimo. 12. Domanda verso il terzo acquirente Ora, posto che il terzo con titolo anteriore alla litispendenza è al sicuro dall’efficacia preclusiva della sentenza emessa contro il debitore, si crea il seguente inconveniente: se il terzo proprietario contesta l’esistenza del credito, il creditore deve dimostrare ex novo la sussistenza del credito garantito. Per evitare tale fastidio, il creditore, nel processo in cui chiede la condanna del debitore, può proporre domanda verso il terzo proprietario, chiedendo (non già l’ottenimento di un titolo esecutivo contro costui, bensì) l’accertamento della sua soggezione all’azione esecutiva. In questo caso, il terzo è chiamato a spendere in quella sede tutte le difese che ha a disposizione; egli diviene parte del processo, e dunque è legato agli effetti della sentenza. 13. Terzo datore Per quanto riguarda la posizione del terzo datore di ipoteca, egli non è mai vincolato dalla sentenza, se non è stato chiamato a partecipare al processo; il terzo datore, infatti, nel momento in cui concede l’ipoteca è necessariamente già proprietario del bene, sicchè la sua posizione è assimilabile a quella del terzo con titolo anteriore alla litispendenza. 14. Titolo esecutivo stragiudiziale Finora si è detto dell’esecuzione contro il terzo proprietario fondata su un titolo esecutivo giudiziale, ottenuto dal creditore contro il debitore. Tuttavia, può anche accadere che il creditore adoperi contro il terzo proprietario un titolo esecutivo stragiudiziale (p.e. cambiale ipotecaria o atto notarile). In tal caso, nell’opposizione all’esecuzione proposta dal terzo, l’atto stragiudiziale ha l’efficacia preclusiva sua propria, secondo le regole di diritto sostanziale. Capitolo XX – L’esecuzione in forma specifica 1. Esecuzione in forma specifica Terminato l’esame dell’espropriazione forzata, si deve ora analizzare l’esecuzione per consegna o per rilascio e l’esecuzione per obblighi di fare. Queste due tecniche di tutela sono anche denominate come «esecuzione forzata in forma specifica»; il termine – lo si precisa – compare soltanto nel c.c. e in talune leggi speciali, e non anche nel c.p.c. 2. Tutela in forma specifica Sarebbe bene non confondere l’esecuzione con la tutela in forma specifica. La tutela in forma specifica si contrappone alla tutela per equivalente, e opera esclusivamente sul piano sostanziale: posto un illecito lesivo di un interesse protetto, bisogna chiedersi se tale illecito porta – sul piano sostanziale – all’estinzione del diritto e alla nascita, in sostituzione di questo, di un credito avente ad oggetto il risarcimento del danno subito (tutela per equivalente); ovvero se l’illecito non estingue il diritto leso, ma lo fa permanere integro, e fa sorgere obblighi strumentali diritti a eliminare la lesione e a ripristinare il diritto leso (tutela in forma specifica). 3. Tutela per equivalente Ora, la scelta fra tutela in forma specifica e tutela per equivalente spetta al legislatore sostanziale. In alcuni casi si tratta di scelta obbligata: ciò accade quando l’interesse protetto è definitivamente distrutto o compresso, sicchè la tutela in forma specifica qui non è praticabile. Altre volte il legislatore sceglie l’una o l’altra forma di tutela sulla base di valutazioni di opportunità (e nel costante rispetto della Costituzione, beninteso). Orbene, tale distinzione squisitamente sostanziale è – puramente e semplicemente – recepita dal processo esecutivo: al processo non spetta stabilire se si ha l’una o l’altra forma di tutela, bensì è chiesto di attuare la scelta già effettuata dalla normativa sostanziale. 4. Espropriazione ed esecuzione in forma specifica Che differenza c’è tra espropriazione ed esecuzione in forma specifica? Nell’espropriazione i diritti in gioco sono due: il diritto di credito, di cui si chiede la tutela esecutiva; e il diritto patrimoniale del debitore, che è oggetto di pignoramento e poi di vendita. Nell’espropriazione, dunque, il credito prevale sulla proprietà del debitore. Esempio: Caio è creditore per €1000 di Tizio, proprietario del bene X. Tizio è inadempiente, e Caio chiede la tutela esecutiva. Ad espropriazione conclusa, si avrà la seguente situazione: il credito di Caio si è estinto; Tizio non è più proprietario del bene X; il bene X ora appartiene a Sempronio. L’esecuzione ha operato su due situazioni sostanziali: il diritto di credito di Caio (estinto) e la diritto di proprietà di Tizio (trasferito a un terzo). Nell’esecuzione in forma specifica, invece, il diritto in gioco è uno soltanto: quello individuato nel titolo esecutivo, e del quale si chiede la tutela esecutiva. Esempio: vi è un titolo esecutivo che obbliga Tizio, possessore del bene X, a restituirlo al proprietario Caio. Si procede dunque all’esecuzione per consegna o rilascio, e il possesso di Tizio è trasferito a Caio: Caio è soddisfatto. L’esecuzione ha operato sempre e soltanto su un’unica situazione sostanziale: il diritto di proprietà di Caio. 5, 6, 7. Diritti tutelabili. Situazioni strumentali e finali. Tutelabilità dei diritti relativi Altra questione: l’individuazione dei diritti sostanziali tutelabili con l’esecuzione in forma specifica. Per certa dottrina, è rilevante la distinzione tra situazioni strumentali e situazioni finali. Le situazioni finali coincidono con i diritti assoluti, ossia quei diritti il cui titolare è soddisfatto attraverso l’esercizio dei poteri che l’ordinamento gli attribuisce, e attraverso il dovere generale di astensione per i terzi dal turbare l’attività del titolare del diritto. Le situazioni strumentali, invece, coincidono con i diritti relativi, ossia quei diritti il cui titolare è soddisfatto attraverso la collaborazione – cioè l’adempimento – dell’obbligato. Orbene, per la dottrina in parola, soltanto le situazioni finali sono surrogabili nel loro inadempimento dall’ufficio esecutivo, attraverso l’esecuzione in forma specifica. Le obbligazioni in senso tecnico restano escluse, in quanto – si sostiene – per il loro inadempimento vale la tutela risarcitoria ex art. 1218 c.c., e dunque è prevista una forma di tutela per equivalente. Ma è così? Per la verità, la risposta alla questione si ricava non già guardando alla struttura del diritto, bensì alla struttura dell’obbligo inadempiuto, a tale diritto contrapposto. Questo perché l’ufficio esecutivo non si sostituisce con la propria attività all’attività del creditore, bensì all’inattività dell’obbligato. L’elemento che distingue i diritti assoluti da quelli relativi, peraltro, non è la struttura degli stessi, ma l’opponibilità ai terzi delle vicende costitutive ed estintive di tali diritti. Si pensi al caso della servitù negativa e al caso dell’obbligo di non fare: in entrambi i casi è identico il tipo di comportamento che, rispettivamente, il proprietario del fondo servente e il debitore devono tenere. La differenza tra le due fattispecie, pertanto, sta in ciò: la servitù negativa è opponibile non solo all’attuale proprietario del fondo servente, ma anche a tutti i proprietari successivi di tale fondo; l’obbligo di non fare, invece, non è opponibile ai successivi proprietari del bene (salvo che questi non assumano personalmente l’obbligo). Come si può notare, allora, anche i diritti relativi aventi ad oggetto beni individuati (cioè cose determinate) devono essere qualificati come situazioni finali, avendo la medesima struttura dei diritti assoluti, e come tali suscettibili di tutela in forma specifica; d’altronde, l’art. 1218 c.c. non stabilisce affatto che la tutela delle situazioni strumentali sia soltanto risarcitoria. 8. Diritti su quantità di cose indeterminate Altro problema: che ne è – viste le conclusioni a cui si è pervenuti poc’anzi – degli obblighi relativi a quantità di cose indeterminate? Sono gli obblighi aventi ad oggetto un genus suscettibili di tutela con l’esecuzione in forma specifica? Ora, una quantità di cose può diventare oggetto di un contratto in due modi diversi: • contratto avente per oggetto una quantità di cose fungibili individuate (art. 1377 c.c.): in questo caso, non rileva che queste cose debbano essere misurate; il trasferimento della proprietà avviene comunque al momento del consenso ex art. 1376 c.c. Orbene, in questa ipotesi colui che è diventato proprietario in virtù del mero consenso, ben può chiedere l’esecuzione in forma specifica, poiché i beni di cui l’acquirente ottiene la consegna sono già di sua proprietà, e l’esecuzione non comporta alcun depauperamento del patrimonio del debitore; • contratto avente per oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel genere (art. 1378 c.c.): in questo caso, poiché il bene non è identificato se non nel genere, è necessario, ai fini del trasferimento della proprietà, la specificazione della parte oggetto del contratto. Qui non è possibile, in caso di inadempimento dell’obbligato, procedere ad esecuzione in forma specifica, ossia realizzare la separazione della parte oggetto del contratto dal genus; infatti, l’art. 2741 c.c. impedisce – in ossequio al principio della par condicio creditorum – che il creditore di una somma proceda ad esecuzione in forma specifica sul patrimonio del debitore, escludendo il concorso di tutti gli altri creditori, i quali hanno diritto di soddisfarsi su tutto il patrimonio del debitore, e non soltanto sul residuo dell’esecuzione in forma specifica. 9. Necessità della tutela in forma specifica Altra questione ancora: la necessità della tutela esecutiva in forma specifica per la soddisfazione del diritto. L’obbligo inadempiuto sul quale si fonda l’esecuzione in forma specifica può essere correlato al diritto, di cui si chiede la tutela, attraverso l’esecuzione stessa. Questo o perché l’avente diritto – sul piano sostanziale – può esercitare poteri funzionalmente idonei a sostituire l’inadempimento dell’obbligato e a procurargli così la soddisfazione che gli avrebbe dovuto garantire l’obbligato; o perché l’avente diritto – sempre sul piano sostanziale – può sostituire all’attività dell’obbligato inadempiente l’attività di un altro soggetto. Esempio: un bene dato in locazione necessita di riparazioni, le quali spettano al locatore. Il conduttore ottiene la condanna che impone al locatore di effettuare le riparazioni. Il locatore resta inerte. Il conduttore non ha bisogno dell’intervento dell’ufficio esecutivo, in quanto può effettuare da sé le riparazioni del caso, così nascendo un credito verso il locatore per la restituzione delle spese affrontate. Esempio: un bene dato in locazione necessita di riparazioni, le quali spettano al conduttore. Il conduttore resta inerte, e impedisce al locatore di effettuare i lavori. Qui il locatore non può procurarsi da sé la prestazione, poiché non gli è consentito violare la detenzione del conduttore senza il suo consenso. L’incisione nella sfera giuridica del conduttore, allora, deve avvenire con l’intervento dell’ufficio esecutivo. Come si esprime l’art. 612 co. 2 c.p.c., oggetto dell’esecuzione per obblighi di fare (e di disfare) è la costruzione o distruzione di un’opera. 2, 3. Esecuzione della sentenza e attuazione del diritto. Titolo esecutivo L’art. 612 c.p.c. parla di «esecuzione forzata di una sentenza di condanna»: si è in presenza di un’imprecisione terminologica. Infatti, l’esecuzione forzata ha sempre per oggetto il diritto, e non il provvedimento; in altre parole, si tutela in via esecutiva il diritto, e non la sentenza. In ogni caso, l’art. 612 c.p.c. sembrerebbe esigere una sentenza come titolo esecutivo per l’esecuzione degli obblighi di fare. Il problema, a questo punto, si pone per i verbali di conciliazione giudiziale; ebbene, posto che sarebbe assurdo che il giudice debba emettere una sentenza nonostante l’intervenuto accordo tra le parti, si deve ritenere che costituisce titolo esecutivo idoneo all’esecuzione per obblighi di fare anche il verbale di conciliazione giudiziale. In ulteriori norme speciali, inoltre, si prevede che costituiscono titoli esecutivi idonei all’esecuzione per obblighi di fare anche i titoli esecutivi stragiudiziali. 4. Imputazione degli effetti Analogamente a quanto accade per l’esecuzione per consegna o rilascio, l’esecutato viene individuato sulla base degli effetti concreti che produrrà l’esecuzione. Titolo e precetto, dunque, devono essere notificati a chi esercita sul bene il potere di fatto, nonché al proprietario, se questi è un soggetto diverso dal procedente o dall’esecutato; questo perché la costruzione/demolizione di un’opera incide, oltre che nella sfera giuridica del detentore corpore, anche nella sfera giuridica del proprietario. 5, 6. Determinazione delle modalità. Spese Decorsi 10 giorni dalla notifica del precetto, il creditore ricorre al giudice per la determinazione delle modalità dell’esecuzione. Il giudice convoca l’esecutato, stabilisce con ordinanza le modalità dell’esecuzione (infatti il titolo esecutivo individua il risultato, e l’ordinanza come esso si deve raggiungere), nomina l’ufficiale giudiziario che deve sovrintendere e che deve materialmente compiere l’opera. Gli incaricati svolgono le loro attività come previsto. Le spese dell’esecuzione sono a carico dell’esecutato. 7. Autorizzazioni amministrative In sede di esecuzioni per obblighi di fare, può darsi che l’opera da costruire necessiti del rilascio di concessioni, autorizzazioni e simili da parte della P.A. In questa eventualità, il titolo esecutivo dà all’ufficio esecutivo la possibilità di usare tutti gli strumenti giuridici che il debitore ha nel suo patrimonio; di talchè l’ufficio esecutivo può richiedere tutte quelle autorizzazioni e concessioni amministrative che l’esecutato avrebbe potuto richiedere (ma che non ha in concreto richiesto). Capitolo XXIII – L’esecuzione indiretta 1. Misura coercitiva Più volte si è accennato all’esecuzione indiretta come strumento necessario per la tutela esecutiva di diritti correlati ad obblighi infungibili. Il legislatore, invero, per lungo tempo ha lasciato che la materia versasse in uno stato lacunoso e disorganizzato, in cui vi erano qua e là alcune leggi speciali che prevedevano ora sanzioni penali, ora sanzioni civili a beneficio dell’avente diritto, ora sanzioni civili a beneficio della P.A. Le lacune in questione sono state finalmente colmate prima nel 2009 e poi nel 2015, con l’introduzione nel libro III del c.p.c. dell’art. 614bis c.p.c., il quale adotta la tecnica della sanzione civile a beneficio dell’avente diritto. La norma, infatti, statuisce: «Con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza […]». 2. Attribuzione del potere La nuova norma appena esaminata affida la concessione della tutela esecutiva al giudice della cognizione. Questo, in realtà, è un clamoroso errore del legislatore, il quale ancora una volta si è sbagliato e ha confuso l’esecutività del provvedimento con l’esecuzione del diritto. In altre parole, ancora una volta il legislatore si è dimenticato che oggetto dell’esecuzione è il diritto, e non il provvedimento. La conseguenza di tale errore sistematico non è di poco conto, poiché pone problemi di coordinamento alquanto delicati, e soprattutto taglia fuori dall’esecuzione indiretta tutti i titoli esecutivi diversi da quelli giudiziali (in particolare, vengono esclusi i titoli esecutivi stragiudiziali). In ogni caso, guardando al diritto positivo così com’è, il compito di concedere la misura esecutiva è attribuito al giudice della cognizione competente per la domanda di condanna; dunque, il giudice di pace potrà determinare la sanzione esecutiva anche in misura eccedente la sua competenza per valore. Un’ultima precisazione: quando si parla di «provvedimenti» si vuol far riferimento in generale ai provvedimenti dichiarativi con cui può essere concessa la tutela esecutiva (dunque, p.e., anche l’ordinanza pronunciata nel procedimento sommario). 3. Contenuto processuale È lecito interrogarsi sul contenuto del provvedimento con cui è disposta la misura coercitiva. In altre parole, si tratta di un provvedimento di merito o di rito? La risposta corretta è la seconda: la misura coercitiva è un provvedimento a contenuto processuale, e tale rimane nonostante sia inserita in una pronuncia di merito. Questo perché un provvedimento è di merito quando impartisce una disciplina attinente al diritto sostanziale, e cioè quando dà regole di condotta che si sostituiscono a norme sostanziali. Ora, poiché è da ritenersi che non è configurabile un diritto sostanziale all’ottenimento della tutela esecutiva, è evidente che la regola di condotta contenuta nella misura coercitiva non ha proprio niente di sostanziale. La portata economica del provvedimento, infatti, per quanto possa risultare fuorviante, non è in alcun modo rilevante; d’altronde, si pensi alla determinazione delle spese o dei danni processuali o delle sanzioni pecuniare di cui al c.p.c.: nessuno sano di mente potrebbe mai asserire che una di queste sanzioni o determinazioni sia una misura di merito, per il solo fatto che comporta il pagamento di una somma di denaro! 4, 5, 6. Domanda. Rapporti con il risarcimento. Rapporti con il potere sostanziale delle parti Ora, assodato che la misura coercitiva ha contenuto processuale, la prima conseguenza di ciò è che la necessaria istanza della parte non costituisce una vera e propria domanda giudiziale da aggiungersi alla domanda di condanna; inoltre, il provvedimento con cui il giudice fissa la sanzione pecuniaria non è un provvedimento di merito che si cumula alla sentenza di condanna. Pertanto, l’istanza può essere proposta in qualunque momento del processo, non essendo soggetta alle preclusioni relative alle nuove domande. Peraltro, le somme che l’avente diritto percepirà in caso di verificazione delle violazioni indicate nel provvedimento del giudice, si cumulano e non si sostituiscono al risarcimento dei danni, spettante all’avente diritto sulla base della normativa sostanziale. E ancora: la portata processuale e non sostanziale della misura coercitiva fa sì che le parti non siano in grado di realizzare in via negoziale gli stessi effetti prodotti dalla misura giurisdizionale. 7. Giurisdizione dichiarativa Ci si deve adesso porre un ulteriore quesito: posto che ogni provvedimento che costituisce esercizio di giurisdizione dichiarativa e avente efficacia di titolo esecutivo è idoneo a fondare la misura esecutiva, resta da chiedersi se questa può essere disposta anche dal giudice in sede di conciliazione giudiziale, ovvero dall’arbitro, ovvero ancora dal giudice in sede di tutela cautelare. Per quanto riguarda la conciliazione giudiziale, si disse a suo tempo che la Corte Costituzionale ha ritenuto la conciliazione giudiziale titolo esecutivo idoneo a sorreggere qualsiasi esecuzione forzata; tuttavia, la scelta del legislatore del 2009, così netta nel sancire che la tutela esecutiva indiretta deve essere concessa attraverso l’esercizio della giurisdizione dichiarativa, mostra chiaramente l’esclusione della conciliazione giudiziale – in cui non c’è traccia di esercizio di giurisdizione dichiarativa – dai titoli idonei a fondare un’esecuzione indiretta. Per quanto riguarda l’arbitrato, poiché le parti non possono consensualmente attribuire agli arbitri poteri che esse stesse non hanno, e poiché la legge non attribuisce agli arbitri poteri in materia esecutiva, si deve constatare l’esclusione del lodo dai titoli idonei a fondare un’esecuzione indiretta. Il discorso cambia in tema di tutela cautelare. Qui, infatti, è vero che non si ha un provvedimento di condanna nell’accezione di cui all’art. 614bis c.p.c., però è anche vero che il provvedimento cautelare può costituire un’anticipazione di tutti gli effetti esecutivi della emananda pronuncia di merito, e dunque anche di quelli di cui all’art. 614bis c.p.c. 8, 9. Criteri di determinazione. Entità della sanzione La determinazione della sanzione avviene «per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento». Qui è utile distinguere fra: • obblighi di fare: in questa fattispecie, la sanzione è parametrata ad ogni frazione di tempo in cui si verifica il ritardo nell’adempimento; • obblighi di non fare: in questa fattispecie, la sanzione è parametrata ad ogni successivo episodio di violazione dell’obbligo di astensione. Ma quale entità può avere la sanzione? L’art. 614bis c.p.c. – in modo probabilmente incostituzionale – si limita a parlare di valore della controversia, natura della prestazione, danno quantificato/prevedibile, ecc. In altre parole, la determinazione dell’entità della somma dovuta viene rimessa – più che alla discrezionalità – all’arbitrio del giudice. Le eventuali contestazioni in ordine alla congruità della somma determinata sono rimesse al giudice dell’impugnazione. Poiché, peraltro, la sanzione pecuniaria in questione costituisce pur sempre una misura processuale esecutiva (e non una pronuncia di merito) maturata in un processo di cognizione, il sindacato in sede di impugnazione è quello tipico delle pronunce di rito, e non di merito; conseguentemente, la Cassazione ha cognizione piena in ordine alla sanzione determinata dal giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. 10. Verifica della infungibilità Prima di accogliere l’istanza – la quale non può non essere accolta, salve le eccezioni che si vedranno a breve – il giudice deve procedere alla verifica dell’infungibilità dell’oggetto della condanna. Naturalmente, se l’obbligo consiste in un’astensione, non vi sono dubbi; se invece si tratta di un obbligo di fare, l’infungibilità deve essere valutata secondo criteri oggettivi, e non sulla base di quanto semplicemente afferma l’avente diritto. 11. Fattispecie escluse Le ipotesi in cui l’esecuzione indiretta è esclusa (art. 614bis c.p.c.) sono: • obblighi di pagamento di somme di denaro; • rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato. Si tratta di un inciso del co. 1 dell’art. 614bis c.p.c. dalla ratio assai oscura, e probabilmente in odore di incostituzionalità; • manifesta iniquità della misura esecutiva. Un’ennesima norma vuota, che non si capisce che parametri fissi per giustificare la negazione della tutela esecutiva per un obbligo di diritto sostanziale inadempiuto. 12. Controlli Ora ci si deve soffermare sui controlli cui è sottoponibile la misura esecutiva. Posto che questa è frutto dell’esercizio di un potere giurisdizionale dichiarativo, ne deriva che il controllo sui suoi presupposti è preventivo rispetto alla concessione della misura esecutiva stessa. Dunque, in linea di principio, le eventuali censure avverso il provvedimento devono essere fatte valere attraverso i mezzi di impugnazione. Di certo, la misura esecutiva indiretta non può essere censurata dall’opposizione agli atti esecutivi, in quanto tale misura non può essere concessa al di fuori di un processo di cognizione. E per quanto riguarda le misure coercitive concesse nell’ambito della tutela cautelare? Certamente sono utilizzabili i rimedi propri dei provvedimenti cautelari: reclamo e revoca/modifica. Ma ciò non basta, in quanto tali rimedi non possono sostituire il controllo dichiarativo. Ebbene quest’ultimo viene esercitato nel giudizio di merito, che è la sede a cui sono riservate le contestazioni avverso i provvedimenti cautelari. 13. Riscossione delle somme Se si verifica un ritardo nel facere o la violazione dell’obbligo di astensione, poiché il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute, il creditore potrà intimare precetto, affermando che sono venuti ad esistenza i presupposti della nascita dell’obbligo di corrispondere le somme. Naturalmente, l’obbligato potrà negare, proponendo opposizione all’esecuzione, e a quel punto si applicheranno le ordinarie regole sull’onere della prova viste a suo tempo. 14. Riforma del provvedimento Se la pronuncia che condanna al facere infungibile o al non facere è modificata nelle sedi a ciò deputate, è pacifico che le somme eventualmente pagate devono essere restituite. E questo sia che si tratti di accoglimento dei mezzi di impugnazione (processo dichiarativo) sia che si tratti di riforma in sede di reclamo o di processo di merito (sede cautelare). In caso di caducazione, infatti, nessuno, infatti, può subire conseguenze negative per non aver ottemperato ad un provvedimento autoritativo, il quale sia stato dichiarato nelle sedi di competenza inefficace. In caso di sospensione della misura, invece, sia in sede di appello sia in sede di reclamo potrà essere richiesta la sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado o della misura cautelare. Se la misura esecutiva viene dapprima sospesa, ma poi confermata in sede d’appello o di reclamo, l’avente diritto non può comunque pretendere il pagamento delle somme maturate a titolo di sanzione nel periodo di sospensione dell’esecutività del provvedimento. Capitolo XXIV – L’opposizione all’esecuzione 1, 2. Oggetto. Fondamento L’opposizione all’esecuzione (artt. 615 e 616 c.p.c.) ha per oggetto la contestazione del diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata, ossia la contestazione della situazione processuale che dà la possibilità al titolare di una situazione sostanziale protetta di richiedere la tutela esecutiva. Questa situazione processuale presenta due profili: • sussistenza della situazione sostanziale di cui si chiede tutela in via esecutiva (il diritto da tutelare); • titolo esecutivo in senso sostanziale (il diritto alla tutela). Il diritto a procedere ad esecuzione forzata può mancare sia in caso di inesistenza del diritto da tutelare, sia in caso di inesistenza del diritto alla tutela; di talchè il diritto a procedere ad esecuzione forzata può essere contestato sotto entrambi i profili esaminati. 3. A – Mancanza del diritto alla tutela Si inizi dal profilo della mancanza del titolo esecutivo in senso sostanziale, ossia del diritto alla tutela esecutiva. Infatti, per le contestazioni relative al titolo esecutivo in senso documentale – il quale è un atto del processo esecutivo non rilevante ai fini del diritto alla tutela – si deve ricorrere al diverso strumento dell’opposizione agli atti esecutivi. Orbene, l’opponente può negare il diritto a procedere a esecuzione sostenendo o l’inefficacia originaria o l’inefficacia sopravvenuta del titolo. Esempio: si ha inefficacia originaria del titolo esecutivo in caso di cambiale o assegno non bollati fin dall’origine, o in caso di scrittura privata utilizzata per un’esecuzione in forma specifica, ecc. Esempio: si ha inefficacia sopravvenuta del titolo esecutivo in caso di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado ex art. 283 c.p.c., o nel caso in cui subentri un fatto nuovo che provoca la perdita del diritto alla tutela esecutiva, ecc. Questo perché l’esecuzione forzata è legittima solo se è fondata su un valido ed efficace titolo esecutivo, la cui efficacia deve sussistere per tutto il corso dell’esecuzione, fino al suo termine. Se l’esecuzione è iniziata in carenza di un titolo esecutivo, la sopravvenienza di esso nel corso del processo esecutivo non vale a sanare la situazione di illegittimità dovuta al compimento di atti esecutivi in mancanza di titolo esecutivo. 4. Nullità del titolo esecutivo Problemi particolari sorgono quando è negata l’esistenza del titolo esecutivo, allegando la nullità dell’atto in cui il titolo esecutivo consiste. Tali contestazioni riguardano la nullità dell’atto in sé: sentenza emessa da un giudice incompetente; atto rogato da soggetto che non è pubblico ufficiale; titolo di credito sfornito dei requisiti formali ex artt. 1 l.camb. e l.ass.; ecc. Si contesta l’efficacia esecutiva del titolo, poiché la nullità dell’atto travolge tutti gli effetti dell’atto stesso, e dunque anche quelli esecutivi, con la consequenziale inesistenza del diritto alla tutela esecutiva; viceversa, le questioni relative al contenuto di un atto validamente formato sono rilevanti per ciò che attiene alla contestazione dell’esistenza del diritto sostanziale da tutelare con l’esecuzione. Orbene, per i titoli esecutivi stragiudiziali, nulla quaestio: ogni nullità rilevante dell’atto può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione (salvo quanto si dirà a breve in tema di titoli esecutivi stragiudiziali e onere di impugnazione). Il discorso si complica per i titoli esecutivi giudiziali, poiché ad essi si applica il principio della conversione delle nullità in motivi di impugnazione (art. 161 co. 1 c.p.c.), di talchè la nullità di un atto giudiziale deve essere fatta valere con i mezzi di controllo previsti dalla legge, e non con strumenti diversi; da ciò deriva che la perdita della possibilità di usare il mezzo di controllo sana i vizi dell’atto giudiziale. In altre parole, o si usa lo strumento nei modi e nei termini previsti, oppure i vizi non possono essere fatti valere in una sede diversa (e quindi neppure in sede di opposizione all’esecuzione). 5. Inesistenza del titolo esecutivo giudiziale Quanto appena finito di dire, però, deve essere temperato con la previsione dell’art. 161 co. 2 c.p.c., il quale stabilisce che il principio della conversione delle nullità in motivi di impugnazione non trova applicazione nel caso in cui il provvedimento manca della sottoscrizione del giudice. Da qui – come si disse in modo approfondito a suo tempo – la dottrina ha ricavato la teoria dell’inesistenza del pronuncia libera il bene dal vincolo, ma non impedisce la prosecuzione dell’esecuzione verso altri beni dell’esecutato; se è dichiarata l’inefficacia del titolo esecutivo, l’esecuzione è caducata, ma il creditore potrà instaurare un nuovo processo esecutivo a tutela dello stesso diritto sostanziale; se è dichiarata l’inesistenza della situazione sostanziale per la quale si è richiesta tutela esecutiva, la sentenza ha l’efficacia preclusiva di una normale pronuncia di merito. Capitolo XXV – L’opposizione agli atti esecutivi 1, 2. Contestazioni relative al quomodo dell’esecuzione. Funzione L’opposizione agli atti esecutivi è lo strumento di risoluzione delle controversie relative al quomodo dell’esecuzione, cioè alla conformità degli atti del processo esecutivo alle prescrizioni normative che li disciplinano. In altre parole, con l’opposizione agli atti non si mette in discussione che l’esecuzione si debba fare, ma si rileva che si sta procedendo in modo sbagliato, a causa della nullità di uno o più atti del processo. Per quanto taluni ritengano più gravi i vizi relativi all’an dell’esecuzione (in quanto esterni e pregiudiziali al processo esecutivo), si deve sottolineare come in realtà questi possano essere rilevati e corretti anche all’esterno del processo esecutivo. Esempio: il condannato in primo grado propone appello, e nelle more adempie perché la sentenza che lo condanna è esecutiva. Una volta risultato vittorioso in appello, poiché l’esecuzione non ci sarebbe proprio dovuta essere, gli viene restituito quanto ha dato in sede di esecuzione forzata. Diversamente, i vizi relativi al quomodo dell’esecuzione (in quanto interni al processo esecutivo) non sono rimediabili al di fuori del processo esecutivo stesso (salvo eccezioni: art. 2929 c.c.). Ecco perché tali vizi devono necessariamente trovare rimedio all’interno del processo stesso: perché – a differenza dei vizi relativi all’an – una volta finito il processo esecutivo, essi non possono più essere fatti valere. L’opposizione agli atti esecutivi, dunque, costituisce l’unico strumento per operare il controllo sulla conformità degli atti processuali alle prescrizioni normative che li riguardano; questo perché – a differenza del processo di cognizione – nel processo esecutivo non c’è un ambiente idoneo per risolvere le questioni di rito, perciò si deve creare uno strumento strutturalmente idoneo a decidere delle controversie nel rito. 3. Oggetto Oggetto dell’opposizione agli atti esecutivi sono le nullità degli atti. In particolare, si possono distinguere: • nullità formali: nullità che riguardano singoli atti del processo, le quali si ripercuotono sugli atti successivi dipendenti da quello affetto da nullità; • nullità extraformali: vizi dei presupposti processuali, i quali travolgono autonomamente tutti gli atti del processo; gli atti del processo, in altri termini, non sono nulli «per contagio», ma perché nulli in sé. 4, 5, 6, 7. Termine. Nullità formali. Nullità extraformali. Nullità rilevabili d’ufficio Ai sensi dell’art. 617 c.p.c., l’opposizione agli atti esecutivi deve essere proposta entro 20 giorni dal momento in cui la parte è venuta a conoscenza dell’atto viziato. Tuttavia, è bene distinguere a seconda che si tratti di: • nullità formali: le nullità formali danno luogo a un vizio dell’atto di regola rilevabile solo dalla parte interessata, ovvero anche dal giudice solo nei casi in cui la legge prevede espressamente la rilevabilità d’ufficio. La mancata proposizione dell’opposizione agli atti nel termine previsto, dunque, determina la sanatoria del vizio dell’atto processuale, di talchè gli atti successivi dipendenti non ne sono più contagiati; • nullità extraformali: le nullità extraformali sono di solito rilevabili d’ufficio; inoltre, tutti gli atti del processo sono viziati autonomamente e non per contagio. In altre parole, qui non può funzionare il meccanismo della sanatoria previsto per le nullità formali. Ecco perché le nullità in questione sono rilevabili tramite l’opposizione agli atti esecutivi nei confronti di ciascun atto successivo del processo esecutivo. Solo se viene omessa l’opposizione anche nei confronti dell’ultimo atto del processo esecutivo si verifica la sanatoria del vizio (analogamente a quanto succede nel processo di cognizione quando la sentenza non viene impugnata e passa in giudicato: diviene irrilevante il vizio del presupposto processuale); • nullità rilevabili d’ufficio: problema particolare pongono le nullità – formali ed extraformali – espressamente qualificate dal legislatore come rilevabili d’ufficio. Ora, se l’ufficio rileva la nullità, semplicemente rifiuta di emettere il provvedimento che gli viene richiesto. Se, invece, l’ufficio non rileva la nullità che dovrebbe rilevare d’ufficio, la parte interessata o propone opposizione agli atti o fa istanza al giudice perché modifichi/revochi il provvedimento che ha emesso; ovviamente, l’istanza della parte non è più possibile quando il provvedimento del giudice ha già avuto esecuzione. 8. Legittimazione Quanto detto finora dovrebbe rendere agevole comprendere che non è possibile limitare il potere di proporre opposizione agli atti esecutivi al solo debitore/terzo assoggettato all’esecuzione. La legittimazione a proporre opposizione agli atti esecutivi, infatti, spetta a tutte le parti del processo esecutivo. Con delle puntualizzazioni: in primis, non è legittimato colui che ha causato la nullità o che vi ha rinunciato (ma questo solo per le nullità non rilevabili d’ufficio); inoltre, la nullità può essere fatta valere solo dalla parte che ha interesse a farla valere, in quanto tale nullità lede in concreto la sua posizione giuridica. 9. Proposizione L’opposizione è proposta, prima dell’inizio dell’esecuzione, con citazione (o ricorso, a seconda del rito). La competenza per materia spetta al giudice dell’esecuzione; la competenza per territorio spetta al tribunale avente sede nel comune ove l’istante ha eletto domicilio o – in mancanza di elezione – al tribunale del luogo di notificazione del precetto. L’opposizione è proposta, dopo l’inizio dell’esecuzione, con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice dell’esecuzione; il giudice dell’esecuzione fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti innanzi a sé e dà un termine perentorio per la notifica del ricorso e del decreto alle altre parti. Per lo svolgimento dell’udienza di comparizione, si fa integrale rinvio alla disciplina parallela del processo di opposizione all’esecuzione. 10. Provvedimenti opportuni Il giudice dell’esecuzione, nei casi urgenti, dà i provvedimenti «indilazionabili», e può anche disporre la sospensione del processo esecutivo. Quando l’opposizione è proposta per una nullità formale o extraformale, e questa è sanabile, il giudice dell’esecuzione – ferma restando la pendenza del processo di opposizione per la decisione della questione di rito – può anticiparne i probabili esiti, disponendo la rinnovazione dell’atto o la sanatoria del vizio. Diversamente, quando il vizio del presupposto sia insanabile, e l’opposizione sia ritenuta fondata, il giudice disporrà la sospensione del processo esecutivo. 11, 12. Decisione. Impugnazione Una volta pronunciati i suddetti provvedimenti (che fanno ancora parte del processo esecutivo), l’opposizione si autonomizza dal processo esecutivo. Il giudice dell’esecuzione fissa pertanto un termine per l’introduzione del giudizio di merito, nel senso già individuato in sede di opposizione all’esecuzione. A seguito dell’iscrizione della causa a ruolo, il presidente del tribunale provvede alla nomina di un giudice istruttore (art. 186bis disp. att. c.p.c.); il che ha il pregio di essere conforme a giustizia, essendo buona cosa che il giudice-persona fisica cui sia affidata la decisione nel merito dell’opposizione sia diverso dal giudice-persona fisica che si occupa dell’esecuzione. La sentenza che decide l’opposizione agli atti esecutivi è dichiarata non impugnabile dall’art. 618 c.p.c., ma l’art. 111 Cost. ne garantisce la ricorribilità per Cassazione. 13. Effetti della sentenza Quanto agli effetti della sentenza, analogamente a quanto già detto in tema di opposizione all’esecuzione, si deve distinguere a seconda di: • sentenza di rigetto dell’opposizione: la sentenza di rigetto accerta la validità dell’atto esecutivo e ne produce la stabilità; nelle ipotesi di nullità extraformale, inoltre, la sentenza forma giudicato anche sul motivo posto a fondamento della nullità dell’atto; • sentenza di accoglimento dell’opposizione: la sentenza di accoglimento dichiara l’invalidità dell’atto opposto e accerta la sussistenza del motivo dell’invalidità di tale atto. Ovviamente, la caducazione dell’intero processo esecutivo, piuttosto che soltanto del singolo atto o anche degli atti da esso dipendenti, è cosa da stabilirsi in relazione al motivo di invalidità. 14. Irrilevanza delle nullità fuori dal processo esecutivo Si è ampiamente detto che le nullità del processo esecutivo non possono essere fatte valere al di fuori del processo stesso, e all’interno di questo possono essere fatte valere con l’unico strumento dell’opposizione agli atti esecutivi. A ciò, tuttavia, fa eccezione l’art. 2929 c.c., cioè l’equivalente di un’impugnazione straordinaria di cui si disse a suo tempo. Resta, inoltre, salva l’applicazione, agli atti esecutivi aventi effetti extraprocessuali, della teoria dell’inesistenza, nonché la possibilità di far valere – ad esecuzione conclusa – le nullità ex art. 327 c.p.c. Capitolo XXVI – L’opposizione di terzo 1, 2. Appartenenza e titolarità. Nozione di terzo L’opposizione di terzo (artt. 619-622 c.p.c.) è uno strumento che trova applicazione quando il bene è legittimamente acquisito al processo esecutivo, ma gli effetti sostanziali non possono operare nei confronti del bene pignorato, poiché colui che subisce l’esecuzione non ha sul bene alcun diritto trasferibile ex art. 2919 c.c. Dunque, la funzione dell’opposizione di terzo è quella di far valere eventuali discrasie fra la situazione processuale (l’appartenenza) che costituisce l’oggetto del processo esecutivo, e la realtà sostanziale (la titolarità del diritto pignorato) che costituisce l’oggetto dell’esecuzione. Esempio: il bene mobile è pignorato in uno dei luoghi di cui all’art. 513 c.p.c., sicchè l’oggetto del processo è correttamente individuato. Però di tale bene è proprietario non già l’esecutato, bensì un terzo. Dunque, la realtà sostanziale (oggetto dell’esecuzione) diverge dalla situazione processualmente rilevante (oggetto del processo esecutivo). Per «terzo» qui si intende colui al quale il creditore non ha fatto assumere il ruolo di esecutato, rilevante ai sensi dell’art. 2919 c.c. 3. Diritto opponibile Il diritto del terzo, per essere opponibile al creditore procedente, deve trovare la sua fattispecie costitutiva o in un acquisto a titolo originario o in un titolo d’acquisto derivato da un soggetto diverso dal debitore. Se, infine, il terzo è avente causa del debitore, il suo diritto deve essere opponibile al creditore procedente sulla base degli artt. 2913-2915 c.c. Diversamente, si è detto a suo tempo che i diritti acquisiti in virtù degli atti di disposizione dell’esecutato successivi al pignoramento non sono opponibili al creditore procedente (nonché all’aggiudicatario, dopo la vendita forzata), e dunque non possono fondare una vittoriosa opposizione di terzo. 4, 5. Effetti del pignoramento. Effetti processuali Sulla scia di quanto appena detto, si deve ribadire l’impossibilità che l’opposizione di terzo sia fondata – quantomeno, con successo – su diritti derivanti da atti inopponibili al creditore procedente, in virtù degli effetti del pignoramento. All’opposizione di terzo bisogna ricondurre anche le ipotesi – ex art. 2915 c.c. – di conflitto tra la trascrizione di una domanda giudiziale e la trascrizione di un pignoramento. Si disse che se è trascritta preventivamente la domanda, il creditore pignorante assume il ruolo di successore nel diritto controverso, e quindi può intervenire nel processo, e in questo modo la sentenza sarà per lui vincolante. Se la trascrizione del pignoramento è precedente rispetto alla domanda, invece, il creditore pignorante (e l’aggiudicatario, a suo tempo) non sono vincolati agli effetti della sentenza. Naturalmente, con riguardo alla prima ipotesi, l’attore che voglia vedere riconosciuto il suo diritto non solo nei confronti del convenuto (debitore esecutato), ma anche verso il creditore pignorante e l’aggiudicatario, dovrà proporre la sua domanda nelle forme dell’opposizione di terzo. 6. Effetti sostanziali La trascrizione della domanda, però, ha anche effetti sostanziali, i quali influiscono sulla risoluzione del conflitto fra attore ed aventi causa del convenuto. Ora, il creditore procedente che abbia trascritto il pignoramento prima della trascrizione della domanda contro il debitore esecutato, fa salvo il suo diritto sul piano sostanziale, come lo farebbe qualsiasi acquirente del convenuto nelle sue stesse condizioni: in altre parole, al verificarsi della priorità della trascrizione del titolo dell’avente causa, si svincola la posizione dell’avente causa dalle vicende relative al titolo del dante causa. In questi casi, l’attore non può recuperare il bene contro l’esecuzione, e cioè rimane soccombente nell’opposizione di terzo da lui proposta. 7. Instaurazione del contraddittorio con il creditore Si disse a suo tempo che l’attore, quando si accorge che è già stato trascritto un pignoramento, per superare il principio dei limiti soggettivi di efficacia della sentenza, deve estendere il contraddittorio al creditore procedente, altrimenti rischia – pur essendo vittorioso – di non potergli opporre la sentenza ottenuta contro il debitore esecutato. Si disse anche che, mentre nei confronti di un normale avente causa sarebbe bastevole realizzare un litisconsorzio facoltativo passivo o ricorrere alla chiamata in causa del terzo, qui, poiché l’esecuzione non è un soggetto e non esiste chi possa stare in giudizio in nome e per conto dell’esecuzione, l’attore deve ricorrere allo strumento dell’opposizione di terzo, ossia deve creare il contraddittorio all’interno del processo esecutivo. 8, 9. Diritti di restituzione. Esperibilità delle azioni di restituzione L’art. 619 c.p.c. parla espressamente di «proprietà o altro diritto reale» quando individua l’oggetto dell’opposizione di terzo. Tuttavia, talvolta l’opponente non fa valere il diritto di proprietà, bensì propone un’impugnativa negoziale (p.e. nullità del contratto). Il problema che si pone è dunque il seguente: il terzo deve in ogni caso dimostrare di essere titolare di un diritto reale, oppure in certi casi è sufficiente fondare l’opposizione su un diritto diverso? Ci si riferisce, evidentemente, ai diritti di restituzione, i quali trovano la loro origine o in una fattispecie fisiologica (p.e. perché si tratta di un contratto di comodato o locazione) o in una fattispecie patologica (p.e. restituzione conseguente a nullità/risoluzione/rescissione). Orbene, il vantaggio dei diritti di restituzione consiste nell’esonerare l’attore dall’onus probandi della proprietà: nei diritti di restituzione è sufficiente dimostrare che è venuto meno il titolo che ha fondato l’attribuzione del godimento del bene. Inoltre, le azioni di restituzione sono azioni personali, cioè si possono far valere solo nei confronti di soggetti che sono legati al vincolo contrattuale; pertanto, quando il possesso del bene è passato dall’obbligato (o dagli aventi causa di costui) ad un terzo, bisogna accollarsi l’onere della prova ricorrendo alla domanda di rivendicazione, poiché il terzo possessore non diviene successore nell’obbligo di restituzione. Immaginando adesso che il debitore esecutato sia il soggetto obbligato alla restituzione, che l’opponente ex art. 619 c.p.c. sia il soggetto che ha diritto alla restituzione e che l’esecuzione forzata sia il terzo possessore, ci si deve chiedere: l’opponente può limitarsi, ai fini della restituzione, a dimostrare i presupposti dell’azione di restituzione? Oppure l’opponente deve dimostrare anche che era proprietario quando ha consegnato il bene al debitore? In altre parole: l’esecuzione forzata si può considerare un terzo possessore, o no? Se si equipara l’esecuzione forzata ad un terzo possessore del bene pignorato, l’art. 619 c.p.c. va interpretato alla lettera, e dunque l’opponente deve sempre e comunque dimostrare di essere proprietario del bene, per vederselo restituito; se, invece, si ritiene che l’esecuzione forzata non sia equiparabile ad un terzo possessore del bene pignorato, l’opponente può far valere il suo diritto di restituzione anche nei confronti del creditore procedente e dell’esecuzione forzata in genere senza dover previamente dimostrare di essere proprietario del bene pignorato. Per risolvere il problema ci si deve ricordare che il creditore procedente – pur perdendo il debitore esecutato il possesso del bene – non acquista un possesso rilevante sul piano sostanziale; il possesso in senso sostanziale rimane «congelato», in quanto il creditore non ha un diritto reale, e dunque non può instaurare col bene una relazione di fatto ex art. 1140 c.c. Ciò significa che l’esecuzione non ha un possesso idoneo ad escludere l’esperibilità dell’azione di restituzione, poiché non è un terzo possessore del bene, e dunque non vale la regola del possideo quia possideo. 10. Incompatibilità L’art. 619 c.p.c. non lo prevede espressamente, ma si deve ritenere senza alcun dubbio che l’opposizione di terzo deve presentare un’ulteriore caratteristica: il diritto su cui si fonda l’opposizione deve essere incompatibile con il diritto oggetto del pignoramento. Sono incompatibili quei diritti la cui coesistenza nello stesso momento è impossibile. Esempio: se oggetto del pignoramento è la piena proprietà di un bene, il terzo che si affermi usufruttuario (o pieno proprietario, o enfiteuta, ecc.) del bene fa valere un diritto incompatibile. Il discorso – fin qui lineare – si complica quando ci si trova di fronte a situazioni sostanziali di per sé bene. In questo caso, il processo resta sospeso in attesa della conclusione del processo di cognizione; qui la sospensione opera in favore del creditore procedente, poiché il processo esecutivo non può andare avanti finchè non è definito il suo oggetto, e il creditore procedente è colui che ha il massimo interesse alla prosecuzione del processo. 3, 4. B – Disposta dal giudice dell’impugnazione. Disposta dal giudice dell’opposizione a precetto L’altra ipotesi di sospensione è quella prevista dall’art. 623 c.p.c., ossia quella disposta dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo. Ma non solo: la riforma del 2006 ha introdotto una novità assai apprezzabile, di talchè oggi la sospensione può essere disposta anche dal giudice dell’opposizione a precetto (art. 615 c.p.c.), al ricorrere di gravi motivi. La dizione «gravi motivi» si riferisce evidentemente ad un elevato fumus boni iuri relativo all’opposizione proposta. 5, 6. C – A seguito di opposizione all’esecuzione e di opposizione di terzo. A seguito di opposizione agli atti esecutivi Vi sono poi delle ipotesi di sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione, a fronte della proposizione di un’opposizione di terzo o di un’opposizione all’esecuzione. Qui la sospensione va evidentemente contro gli interessi del creditore procedente, poiché di per sé – se non fosse stata sollevata l’opposizione dell’uno o dell’altro tipo – l’esecuzione è già pronta per andare avanti, quindi la sospensione conseguente all’opposizione va a svantaggio del creditore. Naturalmente, poiché tale sospensione non è automatica, ma è disposta con un provvedimento del giudice, essa deve essere giustificata da gravi motivi, per non arrecare un danno ingiusto alla parte vittoriosa; pertanto, l’opposizione deve apparire fondata, e si deve soppesare il danno che l’opponente subirebbe dalla prosecuzione dell’esecuzione con quello che subirebbe il creditore procedente con la sospensione dell’esecuzione. Si è detto anche che la sospensione può essere disposta anche in caso di opposizione agli atti esecutivi, ma qui la sospensione è giustificata non già perché nel processo di cognizione si fa valere l’ingiustizia dell’esecuzione, bensì perché in tale sede si fa valere l’invalidità dell’esecuzione. 7. Provvedimento Sull’istanza di sospensione il giudice provvede con ordinanza. L’art. 624 co. 2 c.p.c. introduce il reclamo ex art. 669terdecies c.p.c. come rimedio generalizzato per tutti i provvedimenti con cui il giudice dell’esecuzione decide sull’istanza di sospensione del processo esecutivo. Le fattispecie espressamente richiamate sono: la sospensione richiesta e concessa/negata in sede di opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.); la sospensione richiesta e concessa/negata in sede di opposizione di terzo (art. 619 c.p.c.); la sospensione richiesta e concessa/negata in sede di controversia sulla distribuzione della somma ricavata (art. 512 c.p.c.). L’art. 624 co. 3 e 4 c.p.c. introduce un raccordo fra la sospensione del processo esecutivo ed il processo di merito instaurato con l’opposizione, secondo la logica propria del cautelare anticipatorio. Una volta ottenuta la sospensione, l’opponente può «accontentarsi» di tale risultato, non coltivando il giudizio di merito. Naturalmente, rimane fermo il diritto delle altre parti – e, in particolare, del creditore procedente – di proseguire il processo di merito, ovvero di rinunciarvi e intraprendere una nuova esecuzione. 8. Su istanza delle parti L’art. 624bis c.p.c. introduce nel processo esecutivo la sospensione concordata, istituto tradizionalmente appartenente al processo di cognizione. La sospensione in parola deve essere richiesta, prima della vendita, da tutti i creditori muniti di titolo esecutivo; il debitore deve essere sentito, ma il suo consenso non vale nulla. Tale sospensione può essere richiesta una volta sola nel corso della litispendenza esecutiva, ed ha una durata massima di 2 anni. Il termine ultimo è 20 giorni prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte di acquisto nella vendita senza incanto e 15 giorni prima dell’incanto. Per la revoca della sospensione è sufficiente l’istanza di anche di uno solo dei creditori muniti di titolo esecutivo. Il processo esecutivo deve essere riattivato entro 10 giorni dalla scadenza del periodo di sospensione, da parte di qualunque creditore munito di titolo esecutivo. 9. Effetti Gli effetti della sospensione (art. 626 c.p.c.) consistono nella impossibilità di compiere atti nel processo esecutivo. Fanno eccezione gli atti conservativi, che possono essere autorizzati dal giudice dell’esecuzione. Si ha cessazione della sospensione entro il termine perentorio fissato dal giudice, o non più tardi di 6 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza del processo di merito. 10. Estinzione del processo incidentale Nel caso di estinzione del processo incidentale che ha causato la sospensione, se la sospensione è automatica, si verifica la caducazione del processo esecutivo, poiché viene meno la possibilità di plasmarne l’oggetto; negli altri casi di sospensione, invece, l’opponente può avanzare l’istanza di estinzione del processo esecutivo sospeso. 11. Riassunzione La riassunzione si effettua con ricorso al giudice dell’esecuzione, il quale, convocate le parti e constatata la cessazione della causa di sospensione, o compie lui l’atto successivo o consente al creditore di compierlo. In caso di mancato rispetto del termine perentorio, si verifica l’estinzione del processo esecutivo. Capitolo XXVIII – L’estinzione del processo esecutivo 1. Differenze con il processo di cognizione L’estinzione del processo esecutivo presenta delle differenze rispetto all’estinzione del processo di cognizione legate al fatto che nel processo di cognizione l’atto che produce effetti di diritto sostanziale è l’ultimo della serie procedimentale, mentre nel processo esecutivo vi sono atti con effetti di diritto sostanziale non finali, bensì intermedi (vendita forzata). Diversi sono dunque gli effetti a seconda che la fattispecie estintiva si sia realizzata prima o dopo l’emanazione di provvedimenti aventi effetti di diritto sostanziale. In ogni caso, le ipotesi di estinzione del processo esecutivo sono analoghe a quelle previste per il processo di cognizione dagli artt. 360 ss. c.p.c. 2. A – Rinuncia agli atti In primis, vi è la rinuncia agli atti. La rinuncia deve provenire sempre e necessariamente dal creditore procedente. Non è necessario che il debitore esecutato accetti tale rinuncia; d’altronde egli non ha alcun interesse alla prosecuzione del processo esecutivo. Diversamente, il regime di accettazione della rinuncia da parte dei creditori intervenuti è differente a seconda che la rinuncia sia avvenuta prima o dopo la vendita. Fino alla pronunzia del decreto di trasferimento, è necessaria l’accettazione dei soli creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo; dopo la vendita, invece, poiché diventa irrilevante il titolo esecutivo, è necessaria l’accettazione di tutti i creditori intervenuti, e dunque anche di quelli sforniti di titolo esecutivo. 3. B – Inattività Vi è poi l’estinzione per inattività delle parti, nel caso di mancata tempestiva riassunzione ex art. 627 c.p.c. L’estinzione opera di diritto, con effetti retroattivi al momento in cui è maturata la fattispecie estintiva. L’estinzione può essere eccepita dalla parte o anche dichiarata ex officio, ma non oltre la prima udienza successiva al verificarsi dell’estinzione stessa. 4. C – Diserzione delle udienze Un’ulteriore ipotesi di inattività che conduce all’estinzione è la mancata comparizione delle parti a due udienze consecutive (art. 631 c.p.c.); in particolare, se le udienze sono antecedenti al perfezionamento della vendita, le «parti» che devono comparire sono i creditori muniti di titolo esecutivo. La disposizione in parola non si applica – a seguito della riforma del 2006 – alla diserzione dell’udienza di vendita. 5. D – Documentazione nella vendita immobiliare Un’altra ipotesi di estinzione è prevista dall’art. 567 c.p.c., e cioè il mancato deposito della documentazione necessaria alla vendita forzata, entro il termine di 120 giorni dal deposito dell’istanza di vendita, da parte del creditore procedente o dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo. 6. E – Sospensione Si deve, infine, richiamare quanto detto a proposito dell’art. 624 c.p.c.: in caso di sospensione per opposizione – di qualsiasi natura essa sia – si verifica estinzione se nessuna delle parti coltiva il processo di opposizione. 7. Provvedimento L’estinzione è sempre dichiarata con ordinanza del giudice dell’esecuzione. Avverso l’ordinanza che rigetta l’istanza non è proponibile l’opposizione agli atti esecutivi, bensì il reclamo al collegio. La sentenza emessa dal collegio in camera di consiglio è soggetta ad appello. 8. Effetti Gli effetti dell’estinzione sono disciplinati dall’art. 632 c.p.c., e variano a seconda che l’estinzione si produca: • prima della vendita forzata: in questo caso, tutti gli atti del processo esecutivo diventano inefficaci e decadono gli effetti del pignoramento; • dopo la vendita forzata: in questo caso (in cui rientra anche l’aggiudicazione provvisoria), il trasferimento all’aggiudicatario non è toccato e il ricavato della vendita è consegnato all’esecutato. 37
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