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Soluzioni per controversia di lavoro errata: ordinanze e impugnazione, Appunti di Diritto Processuale

Diritto civileDiritto Penalediritto amministrativo

Le soluzioni possibili quando una controversia individuale di lavoro viene erroneamente istituita nelle forme del rito sommario di cognizione. Viene esplorata la differenza tra le ordinanze anticipatorie di condanna emesse nel processo ordinario di cognizione e nel rito del lavoro, nonché i mezzi di impugnazione disponibili, come regolamento di competenza, appello e ricorso per cassazione. Il testo illustra le caratteristiche principali del giudizio di appello nel processo del lavoro e le modalità di istaurazione del giudizio di appello in base al modulo decisorio adottato in primo grado.

Cosa imparerai

  • Come si istaura il giudizio di appello in base al modulo decisorio adottato in primo grado?
  • Quali sono i mezzi di impugnazione disponibili per una controversia di lavoro?
  • Che caratteristiche ha il giudizio di appello nel processo del lavoro?

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 08/12/2022

aurora_zucali
aurora_zucali 🇮🇹

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Scarica Soluzioni per controversia di lavoro errata: ordinanze e impugnazione e più Appunti in PDF di Diritto Processuale solo su Docsity! I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE Il giudice del lavoro nel corso del processo del lavoro può pronunciare tre diversi tipi di provvedimenti: ✅ • Sentenza: è il provvedimento più importante; la sentenza ha natura e contenuto decisorio in quanto decide su diritti soggettivi; la sentenza viene emessa all’esito del processo; la sentenza può pronunciare sull’intera causa, su una delle più domande proposte all’interno del processo in caso di cumulo oggettivo di domande oppure solo su determinate questioni. • Ordinanza: è il provvedimento che viene emesso nel corso del processo: generalmente hanno la forma di ordinanza i provvedimenti che vengono resi nella fase di istruzione probatoria; l’iter di formazione dell’ordinanza è più snello e celere rispetto a quello della sentenza, tuttavia deve essere sempre motivata; l’ordinanza è sempre emessa nel contraddittorio delle parti. • Decreto: è il provvedimento che generalmente è privo del contenuto decisorio e istruttorio e viene emesso senza la previa instaurazione del contraddittorio tra le parti (es. decreto di fissazione della data dell’udienza di prima comparizione); lo scopo del decreto è quello di regolamentare lo svolgimento del processo. I fondamentali provvedimenti che possono essere emessi nel corso del processo del lavoro… DECISIONE SULLA COMPETENZA ✅ Il provvedimento che pronuncia sulla competenza risolve la questione sulla incompetenza del giudice, questione che può essere sollevata dal convenuto nella memoria tempestivamente depositata ma può anche essere rilevata d’ufficio nel corso della prima udienza di trattazione. L’eccezione di incompetenza per poter essere proposta deve essere completa, cioè il convenuto deve censurare i criteri attributivi della competenza tra quelli indicati all’art. 413 e deve indicare il giudice che nel caso di specie ritiene munito di competenza. Una volta che la questione sulla competenza sia sorta, il giudice deve decidere su tale questione: in particolare il giudice deve prima sollecitare le parti a discutere sulla questione e all’esito di questa discussione il giudice deve pronunciare sentenza, anche non definitiva. Il giudice pronuncia sentenza definitiva sulla competenza quando ritiene di essere incompetente (sentenza declinatoria della competenza); il giudice pronuncia sentenza non definitiva sulla competenza quando si ritiene competente. Anche se la norma relativa alla decisione sulla competenza (art. 420, comma 4 c.p.c.) prevede che quando il giudice deve decidere solo su questioni di competenza emette sentenza (definitiva o non definitiva, a seconda dei casi); tale norma deve però essere aggiornata in relazione a quanto previsto dalla riforma del 2009 che stabilisce che la forma del provvedimento deputato alla decisione sulla sola questione di competenza è l’ordinanza perché l’ordinanza è un provvedimento più snello, rapido, celere. Nel caso in cui il giudice si ritiene incompetente deve nell’ordinanza dichiararsi incompetente e deve indicare il giudice che ritiene competente; successivamente le parti hanno a disposizione un termine perentorio stabilito dal giudice per riassumere la causa davanti al giudice ritenuto competente; se le parti riassumono il processo tempestivamente dinanzi al giudice competente, il processo può proseguire con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda; in caso di mancata tempestiva riassunzione il processo si estingue. MUTAMENTO DEL RITO ✅ Nell’ordinamento processuale civilistico oggi esistono tre riti di risoluzione delle controversie: il rito ordinario di cognizione, il rito del lavoro e il rito sommario di cognizione. Ad ogni rito corrisponde una serie di controversie che possono essere definite solo con il rito che il legislatore ha scelto di adottare. Quindi promuovere una controversia con un rito diverso rispetto a quello predisposto dal legislatore significa incorrere in un errore nella scelta del rito. • 1° ipotesi: nel caso in cui il giudice adito riscontra che una controversia individuale di lavoro (che rientra nell’ambito applicativo dell’art. 409 c.p.c.) è stata erroneamente proposta con il rito ordinario di cognizione e quindi l!attore invece di depositare il ricorso davanti alla cancelleria del lavoro del tribunale competente ha notificato l!atto di citazione al convenuto, il giudice emette un provvedimento (con la forma di ordinanza) nel quale fissa la data dell’udienza di discussione e un termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti, in questo modo si attua il mutamento del rito da ordinario a rito del lavoro. Il fatto che il giudice fissa un termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’integrazione degli atti introduttivi si giustifica in quanto nel rito del lavoro le parti possono formulare richieste istruttorie con la presentazione degli atti introduttivi, a pena di decadenza; mentre nel processo ordinario di lavoro il sistema delle preclusioni è meno rigido e quindi le parti possono formulare istanze istruttorie anche nell’udienza di prima comparizione. • 2° ipotesi: nel caso in cui il giudice adito riscontra che è stata proposta con rito del lavoro una controversia che non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 409 c.p.c.: - Se il giudice adito è territorialmente competente dispone il versamento di un contributo unificato integrativo in quanto nel rito del lavoro la disciplina in materia di contributo unificato prevede delle agevolazioni a differenza di quanto previsto nel rito ordinario di cognizione (tribunale competente ma sezione sbagliata del tribunale). - Se il giudice adito non è territorialmente competente rimette la causa al giudice individuato come competente e fissa un termine perentorio per il mutamento del rito (tribunale non competente e sezione sbagliata del tribunale). L’ultima parte dell’art. 427 c.p.c. (passaggio dal rito speciale al rito ordinario) riguarda il regime giuridico delle prove raccolte nel corso del processo del In caso di estinzione del processo del lavoro, l’ordinanza anticipatoria di condanna conserva la sua efficacia (art. 186 c.p.c.). Cerco art 423 cpc SENTENZE NON DEFINITIVE SU QUESTIONI Quali “questioni” rientrano nel campo applicativo dell’art. 420, comma 4 c.p.c.? • Questioni pregiudiziali di rito: questioni che hanno ad oggetto l’osservanza di determinate norme di natura processuale, la cui violazione è idonea a determinare un arresto immediato del processo (es. il difetto di giurisdizione rappresenta una questione pregiudiziale di rito). Le decisioni sulle questioni pregiudiziali di rito rientrano nel campo applicativo dell’art. 420, comma 4 c.p.c. perché sono idonee a definire immediatamente il giudizio. Infatti, se sorge una questione pregiudiziale di rito il giudice deve invitare le parti a discutere sulla questione e poi deve pronunciare sentenza. Il giudice può pronunciare sentenza definitiva quando la questione pregiudiziale di rito sollevata è fondata, oppure non definitiva quando la questione pregiudiziale di rito si rilevi infondata e quindi il processo deve proseguire fino alla decisione della causa nel merito. (Es. il difetto di giurisdizione è una questione pregiudiziale di rito la cui decisione è idonea a definire il giudizio in quanto se il giudice riscontra di essere privo di giurisdizione il giudizio viene definito con una declaratoria di rigetto in rito, mentre se il giudice ritiene di essere munito di giurisdizione pronuncia sentenza non definitiva e il processo prosegue). • Questioni pregiudiziali di merito: questioni che hanno ad oggetto un diritto o uno status che potrebbe costituire oggetto di un autonomo processo. Le decisioni sulle questioni pregiudiziali di merito non rientrano nel campo applicativo dell’art. 420, comma 4 c.p.c. perché non sono idonee a definire immediatamente il giudizio in quanto se sorge una questione pregiudiziale di merito il giudice può limitarsi a conoscerla incidentalmente ma non è tenuto a decidere immediatamente sulle stesse (art. 34 c.p.c.). • Questioni preliminari di merito: questioni che non hanno ad oggetto diritti o status ma profili di diritto sostanziale che si identificano in meri fatti giuridici (è una questione di diritto sostanziale la cui soluzione può porre fine alla controversia) (es. la prescrizione del diritto di credito è una questione preliminare di merito perché non può costituire oggetto di un autonomo processo in quanto un processo non può essere instaurato per accertare la prescrizione di un diritto (ma l’esistenza o l’inesistenza di un diritto). Secondo un orientamento le decisioni sulle questioni preliminari di merito sono idonee a definire immediatamente il giudizio quindi secondo questo orientamento le questioni preliminari di merito rientrano nel campo applicativo dell’art. 420, comma 4 c.pc. (pur nel silenzio di tale norma). Quindi secondo questo orientamento se sorge una questione preliminare di merito il giudice deve invitare le parti a discutere sulla questione e poi deve pronunciare sentenza. Il giudice può pronunciare sentenza definitiva quando la questione preliminare di merito sollevata è fondata, oppure non definitiva quando la questione preliminare di merito si rileva infondata e quindi il processo deve proseguire fino alla decisione della causa nel merito. (Es. la prescrizione del diritto di credito è una questione preliminare di merito la cui decisione è idonea a definire il giudizio in quanto laddove viene fatto valere un diritto di credito e sorge una questione circa la prescrizione di tale diritto, se il giudice accerta che il diritto è inesistente in quanto prescritto il giudice rigetta la domanda con sentenza definitiva e quindi il processo si chiude immediatamente mentre se il giudice accerta che il diritto non si è prescritto il giudice pronuncia sentenza non definitiva e il processo continua). Secondo un differente orientamento le decisioni sulle questioni preliminari di merito non rientrano nel campo applicativo dell’art. 420, comma 4 c.p.c. perché non sono idonee a definire immediatamente il giudizio in quanto: - l’art. 420, comma 4 c.p.c. fa riferimento alle sole questioni pregiudiziali; - passare direttamente alla fase decisoria per decidere su questioni che sono sorte durante la trattazione implica un rallentamento dello svolgimento del processo Secondo questo orientamento se sorge una questione preliminare di merito e il giudice la ritiene fondata invita le parti alla discussione e decide con sentenza definitiva. Laddove il giudice non ritiene la questione preliminare di merito fondata il processo prosegue senza la necessità di invitare le parti alla discussione e di pronunciare sentenza non definitiva. ACCERTAMENTO PREGIUDIZIALE SULL’EFFICACIA, VALIDITÀ E INTERPRETAZIONE DEI CONTRATTI E ACCORDI COLLETTIVI NAZIONALI DI LAVORO (CCNL) ✅ Quando nel corso di un processo del lavoro sorge una questione avente ad oggetto l!efficacia, la validità o l!interpretazione delle clausole di un contratto collettivo nazionale di lavoro, il giudice deve decidere la questione immediatamente con sentenza, anche se la questione non è astrattamente idonea a definire immediatamente il giudizio. La differenza che sussiste tra le questioni ex art. 420, comma 4 c.p.c. (quelle prima) e le questioni ex art. 420 bis c.p.c. (queste qui) consiste nel fatto che le prime per poter essere oggetto di decisione immediata con sentenza devono essere astrattamente idonee a definire immediatamente il giudizio mentre le seconde devono sempre essere oggetto di decisione immediata con sentenza ma non sempre si tratta di questioni astrattamente idonee a definire il giudizio (es. la decisione di una questione avente ad oggetto la validità di una clausola del CCNL può portare alla definizione immediata del giudizio; mentre è più difficile che la risoluzione di una questione inerente all’interpretazione possa portare alla definizione immediata del processo). Tale sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione. In caso di ricorso spetta alla Cassazione decidere la questione. La decisione della corte vincola il giudice del lavoro del caso singolo, rappresenta una guida per gli altri giudici del lavoro che devono applicare il medesimo CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro) oppure nel caso in cui in un differente processo viene sollevata la medesima questione e si perviene a un nuovo ricorso, la sezione della corte che deve decidere su tale questione deve adeguarsi al precedente della Cassazione. Quanto previsto dall’art. 420 bis c.p.c. ha lo scopo di garantire su tutto il territorio nazionale uniformità circa l’interpretazione e l’applicazione delle clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro perché trattandosi appunto di contratti nazionali interessano una molteplicità di individui (siano essi lavoratori e datori di lavoro). RIUNIONE DEI PROCEDIMENTI ✅ La riunione dei procedimenti può riguardare due controversie (separate) instaurate dinanzi allo stesso giudice (dello stesso ufficio) oppure due controversie instaurate dinanzi a due diversi giudici sempre dello stesso ufficio giudiziario. I procedimenti possono essere riuniti laddove alcune delle questioni che devono essere decise siano comuni. La legge impone un obbligo in capo al giudice di disporre la riunione dei procedimenti. Tuttavia esistono delle eccezioni a questo obbligo: se il giudice ritiene che la riunione ritarda eccessivamente il processo oppure lo rende troppo gravoso può decidere di non disporre la riunione dei procedimenti. Se però il giudice ritiene che la riunione ritarda eccessivamente il processo oppure lo rende troppo gravoso ma le controversie si trovano nella stessa fase processuale le riunione deve essere comunque disposta (anche qui ci sono delle eccezioni: gravi e motivate ragioni). L’obbligo previsto per legge di disporre la riunione dei procedimenti sta a significare che generalmente la riunione deve essere sempre disposta e i casi in cui la riunione non può essere disposta devono essere marginali. L’art. 151 disp. att. c.p.c. trova applicazione nel primo grado di giudizio ma anche in appello. La ratio della riunione dei procedimenti è di economia processuale: se più procedimenti presentano questioni comuni, tali questioni devono essere risolte una volta sola perché questo consente un risparmio di tempi, di risorse e di attività processuali. Inoltre la possibilità di riunire procedimenti che presentano questioni comuni permette di evitare contrasti di giudicati. Sia nel modulo standard, sia in quello eccezionale introdotto con la riforma, il giudice deve sempre procedere in udienza alla lettura del dispositivo, a pena di nullità. Quindi se il giudice in udienza non procede alla lettura del dispositivo la modalità decisoria è nulla e la sentenza è nulla. L’impugnazione non è solo funzionale a far valere l’ingiustizia del provvedimento ma serve anche per far valere l’illegittimità del provvedimento. Tuttavia se la sentenza è nulla ma non viene impugnata nei termini perentori stabiliti dalla legge e quindi passa in giudicato, i vizi della sentenza si intendono sanati e le parti sono tenute ad osservare il contenuto della sentenza anche se nulla. In base alla regola generale, la mancata proposizione dell'impugnazione fa passare in giudicato la sentenza e comporta una sanatoria del vizio. Di norma una volta esaurite le attività di assunzione dei mezzi di prova si procede immediatamente nella stessa udienza alla discussione orale della causa e alla pronuncia della sentenza. È prevista però una deroga: se le parti ne fanno richiesta e il giudice lo ritiene necessario, una volta esaurite le attività di assunzione dei mezzi di prova non si procede immediatamente con la discussione orale della causa e con la pronuncia della sentenza ma il giudice rinvia tali attività a una successiva udienza al fine di permettere alle parti di depositare note difensive. La valutazione del giudice sulla necessità di concedere questo rinvio si lega alla necessità da parte del giudice di acquisire una maggiore cognizione dei fatti rilevanti per la controversia e ciò può essere raggiunta attraverso la presentazione ad opera delle parti di note difensive. La concessione del rinvio ad un’altra udienza non rappresenta una violazione del divieto di udienze di mero rinvio perché questo rinvio è giustificato da esigenze meritevoli di tutela: esigenza per le parti di articolare meglio le proprie difese e di specificare meglio le proprie pretese e l’opportunità per il giudice di pronunciare la propria sentenza dopo aver maturato una maggiore cognizione dei fatti rilevanti per la controversia, operazione che può essere facilitata dalla presentazione delle note difensive delle parti. La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva: possibilità per le parti di procedere a esecuzione forzata per dare attuazione coattiva alla sentenza laddove la parte non adempia al comando giudiziale conteso nella sentenza. Efficacia esecutiva del provvedimento può essere sospesa (è il giudice dell’impugnazione che la può concedere). Vi sono disposizioni di favore per il lavoratore. È più difficile per il ddl ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento. Laddove a favore del lavoratore sia pronunciata una sentenza di condanna al pagamento di una somma pecuniaria oltre agli interessi è prevista la possibilità di riconoscergli il danno subito da svalutazione monetaria. INTERESSI E RIVALUTAZIONE DEI CREDITI ✅ Introdotto con riforma del 1973 del processo del lavoro. Quando il giudice pronuncia a favore del lavoratore una sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro (crediti che possono derivare da indennità, retribuzione, TFR, ecc.) deve liquidare all’interno della sentenza, d’ufficio, cioè senza che il lavoratore ne faccia richiesta, gli interessi nella misura legale e il danno che il lavoratore ha subito per la diminuzione di valore del suo credito. Quindi quando all’esito del processo il giudice riconosce al lavoratore il diritto di credito, il giudice deve d’ufficio liquidare al lavoratore, oltre agli interessi legali, anche il danno che il lavoratore ha subito per la diminuzione di valore del suo credito in quanto durante lo svolgimento del processo il credito pecuniario del lavoratore viene attaccato dal fenomeno di svalutazione monetaria. I lavoratori non sono tenuti a dimostrare il danno da svalutazione monetaria ma tale danno si presume (mentre nel processo ordinazione di cognizione quando si richiede risarcimento di un danno quest’ultimo deve essere allegato e dimostra). Il calcolo degli interessi legali viene effettuato nella misura prevista per legge. A memoria: La condanna al pagamento della somma complessiva così determinata ha decorrenza dal giorno successivo alla maturazione del diritto. (La giurisprudenza ritiene che l’art. 429, comma 3 c.p.c. si applica ai lavoratori titolari di un rapporto di lavoro privato e non pubblico). Quindi il giudice nella sentenza condanna il datore di lavoro al pagamento di una somma di denaro comprensiva del capitale + interessi + rivalutazione del credito. In aggiunta a queste voci (interessi legali e danno da svalutazione monetaria) se il lavoratore dimostra di aver subito un danno maggiore non ristorato dalla somma di denaro riconosciuta ai sensi dell!art. 429 c.p.c. può chiedere un ulteriore risarcimento. Tuttavia per l’applicazione dell’art. 1224 nel processo del lavoro è necessario che il lavoratore presenti istanza (non è liquidato d’ufficio!) e fornisca la prova del maggiore danno subito. VALUTAZIONE EQUITATIVA DELLE PRESTAZIONI ✅ Quando l!oggetto della domanda è rappresentato da un diritto di credito pecuniario e il giudice all’esito del processo riconosce l’esistenza di tale diritto di credito (an) ma non viene raggiunta certezza circa l’ammontare della somma di denaro dovuta (quantum), il giudice deve d’ufficio (non occorre l’istanza di parte) liquidare la somma dovuta con valutazione equitativa (secondo equità). Il giudice deve ricorre all’equità integrativa e non all’equità sostitutiva. Si ha equità sostitutiva quando tutta la decisione viene assunta secondo equità (conciliazione). Si ha equità integrativa quando la decisione viene assunta applicando le norme di diritto ma, per un singolo aspetto, (in questo caso il quantum del diritto di credito) il giudice fa ricorso all’equità. Il giudice non può procedere alla valutazione equitativa se la determinazione del quantum era oggettivamente possibile ma le parti non hanno raggiunto tale risultato per mancanza di prove. Il giudice può procedere alla valutazione equitativa soltanto se sussiste un’oggettiva impossibilità di dimostrare il quantum del diritto di credito. Laddove il giudice sceglie di procedere a questa valutazione equitativa deve adeguatamente motivare. ESECUTORIETÀ DELLA SENTENZA ✅ Sia nel processo ordinario di cognizione sia nel processo del lavoro la sentenza di condanna di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti, quindi una volta ottenuta la sentenza la parte vincitrice può immediatamente rivolgersi all’ufficio esecutivo del tribunale al fine di ottenere l’attuazione coattiva della prestazione contenuta nella sentenza, se la parte soccombente non adempie spontaneamente al comando giudiziale. Nel processo del lavoro l’art. 431 c.p.c. da applicazione all’art. 282 c.p.c. e prevede dei profili di favore per il lavoratore: (leggo) • Se il giudice ha pronunciato sentenza di condanna seguendo il modulo che prevede la scissione tra il momento della pronuncia del dispositivo in udienza e il momento del deposito della sentenza completa di dispositivo e motivazione e la parte vincitrice è il lavoratore, il lavoratore può procedere immediatamente all!esecuzione forzata sulla base del dispositivo letto in udienza, senza aspettare che il giudice depositi la sentenza in cancelleria. Rappresenta un profilo di favore per il lavoratore perché consente al lavoratore, parte economicamente più debole, di ottenere una tutela rapida ed efficace. Il dispositivo letto in udienza costituisce un titolo esecutivo valido fino a quando il giudice non deposita la sentenza in cancelleria. Quando il giudice deposita la sentenza in cancelleria, il titolo esecutivo su cui si deve reggere l’esecuzione forzata è la sentenza completa di dispositivo e motivazione (= “in pendenza del termine per il deposito della sentenza”). • L’autorità giudiziaria competente a pronunciare la sospensione della provvisoria efficacia esecutiva della sentenza è il giudice di impugnazione (giudice di appello). Sono mezzi di impugnazione a critica vincolata il ricorso per cassazione (l’art. 360 c.p.c. prevede cinque motivi di ricorso per cassazione che possono essere spesi contro un determinato provvedimento) e la revocazione. 3. Sulla base degli effetti che la parte può ottenere tramite la proposizione dell’impugnazione è possibile distinguere i mezzi di impugnazione in: • Mezzi di impugnazione rescindenti: sono quelli che mirano al mero annullamento della sentenza impugnata, all’eliminazione della sentenza. Sono mezzi di impugnazione rescindenti il ricorso per cassazione. Eccezioni: vi sono casi c.d. di cassazione sostitutiva di merito in cui la cassazione pronuncia una nuova sentenza che sostituisce la sentenza impugnata. • Mezzi di impugnazione rescissori o sostitutivi: sono quelli che mirano ad ottenere una nuova pronuncia sulla lite. Sono mezzi di impugnazione rescissori l’appello. Eccezioni: vi sono casi in cui l’appello può avere effetti meramente rescindenti, c.d. appello rescindente, le ipotesi di appello rescindente sono tassative, predeterminate dal legislatore, se ricorrono i vizi indicati negli artt. 353, 354 c.p.c. il giudice di appello non può pronunciare una nuova decisione sulla lite ma deve rimettere la causa al giudice di primo grado affinché emetta lui una nuova decisione, quindi la sentenza di primo grado viene eliminata. 4. Sulla base del giudice dell’impugnazione…: • Il giudice dell’impugnazione è un giudice di grado superiore rispetto al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. È il caso dell’appello, del regolamento di competenza e del ricorso. • Il giudice dell’impugnazione è lo stesso giudice che ha emanato la sentenza impugnata, per “stesso giudice” si intende lo stesso ufficio giudiziario, lo stesso grado e non lo stesso giudice persona fisica perché altrimenti verrebbe meno il requisito di terzietà e imparzialità del giudice. È il caso della revocazione e dell’opposizione di terzo. I vizi che affliggono la sentenza sono l’illegittimità e l’ingiustizia della sentenza: • Illegittimità: vizi che si sostanziano nella violazione delle norme processuali, cioè delle norme che regolano il processo che porta all’emanazione della sentenza (errores in procedendo = errore di carattere procedurale, attinente al rapporto processuale che si è concluso con la emanazione della sentenza, e cioè l'errore nella osservanza delle norme giuridiche che regolano lo svolgimento del processo). Gli errores in procedendo possono essere: - Vizi extra formali: vizi che non riguardano il procedimento o la sentenza ma dati esterni, tali vizi inficiano il procedimento e quindi la sentenza dall’esterno (es. difetto di giurisdizione). - Vizi formali: vizi che possono derivare da nullità della sentenza (es. sentenza priva di motivazione) oppure da nullità di altri atti del procedimento che non sono state sanate nel corso del processo e che di conseguenza inficiano la sentenza (es. se la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza con cui ha avuto inizio il procedimento era nulla e questa nullità non è mai stata sanata e si giunge alla sentenza, la sentenza è viziata da un vizio formale (cioè nullità) e tale nullità può essere fatta valere tramite un mezzo di impugnazione) - • Ingiustizia: vizi che riguardano il giudizio formulato dal giudice (errores in iudicando). Gli errores in iudicando possono inerire a: - Elementi di diritto della decisione: il giudice può commettere un errore nell’individuazione della norma applicabile al caso di specie = il giudice ha applicato la norma sbagliata (errore di sussunzione) oppure un errore nell’interpretazione della norma applicabile al caso di specie = il giudice ha individuato la norma applicabile al caso di specie ma l’ha interpretata in modo errato (errore di giudizio). - Elementi di fatto della decisione: errori che riguardano l’accertamento dei fatti giuridici rilevanti ai fini della controversia. Tali vizi devono essere fatti valere tramite impugnazione. L’art. 161, comma 1 c.p.c. stabilisce che le nullità che affliggono la sentenza, per vizi suoi propri o per derivazione da altre nullità che si sono verificate nel corso del procedimento, devono essere fatte valere tramite un mezzo di impugnazione perché laddove la parte non fa valere tali vizi di nullità tempestivamente tramite i mezzi di impugnazione la sentenza passa in giudicato e la formazione del giudicato comporta sanatoria di tali vizi. Eccezione: i vizi di inesistenza giuridica della sentenza non si sanano con il passato in giudicato del provvedimento e quindi possono essere sempre fatti valere tramite mezzi di impugnazione. Le condizioni per proporre impugnazione che devono parimenti (assieme) sussistere sono: • Legittimazione ad impugnare: i legittimati ad impugnare sono le parti del giudizio che è sfociato nel provvedimento impugnato (attore e convenuto) e le parti intervenute o chiamate in causa in quanto tali soggetti tramite l’intervento e la chiamata in causa hanno assunto la qualità di parte e in quanto tale sono legittimati a proporre impugnazione. Eccezione: l’opposizione di terzo rappresenta un mezzo di impugnazione riservato ai terzi, cioè a coloro che non hanno assunto la qualità di parte ma che comunque sono pregiudicati dal provvedimento reso. • Interesse ad impugnare (soggetto soccombente): si identifica con la possibilità per la parte che impugna la sentenza di conseguire un risultato più favorevole rispetto a quanto stabilito nella sentenza impugnata. Il soggetto titolare di interesse ad impugnare è il soggetto soccombente, cioè colui che ha visto la propria pretesa rigettata (es. l’attore è soccombente se la sua domanda è stata rigettata, il convenuto è soccombente se la domanda del convenuto è stata accolta). La soccombenza può essere anche reciproca, cioè entrambe le parti sono soccombenti e questo si verifica nel caso in cui il giudice accoglie la domanda dell’attore parzialmente oppure nel caso in cui nel corso del processo il convenuto propone domanda riconvenzionale ed entrambe le parti risultano soccombenti sulla propria domanda o sulla domanda altrui. La regola generale è che da una sentenza deve scaturire un solo giudizio di impugnazione, quindi se in caso di soccombenza reciproca entrambe le parti propongono impugnazione, la parte che impugna per prima è detta impugnante principale mentre quella che impugna per seconda è tenuta a proporre impugnazione all’interno del giudizio di impugnazione promosso dalla parte impugnate principale e la sua impugnazione viene definita incidentale. Ciononostante l’impugnazione principale e impugnazione incidentale hanno lo stesso valore. Bisogna distinguere tra: • Giudicato formale (art. 324 c.p.c.): passa in cosa giudicata formale il provvedimento che non è più impugnabile con mezzo di impugnazione ordinario perché sono spirati i termini per proporre impugnazione ordinaria e quindi il provvedimento diventa irretrattabile (irretrattabilità del provvedimento). Il giudicato formale connota tutti i provvedimenti (di rito e di merito) perché riguarda la forma del provvedimento. • Giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.): è una conseguenza del giudicato formale e si traduce nell’imperatività riconosciuta al comando giudiziale contenuto nella sentenza passata in giudicato formale: le parti hanno l’obbligo di rispettare il comando giudiziale (imperatività del comando giudiziale). Il giudicato sostanziale riguarda solo i provvedimenti di merito in quanto solo questi decidono il caso concreto e quindi contengono il comando giudiziale. Per evitare la formazione del giudicato formale e sostanziale le parti devono proporre un mezzo di impugnazione ordinario. Per quanto riguarda i mezzi di impugnazione ordinari (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione e revocazione ordinaria) la legge prevede due termini per proporre impugnazione: • Termine breve: se la sentenza è stata notificata si innesca il termine breve che decorre dalla notificazione della sentenza (ad eccezione che per il regolamento di competenza in cui il termine per la sua proposizione decorre dalla data della comunicazione dell!ordinanza che ha deciso sulla questione di competenza) e la durata del termine differisce a seconda del mezzo di impugnazione (art. 326 c.p.c.): il Più chiaro: Esso trova applicazione rispetto ai capi della sentenza, non impugnati autonomamente, dipendenti da quelli riformati o cassati. • Il secondo comma disciplina l’effetto espansivo esterno, “esterno” perché riguarda gli atti esterni rispetto alla sentenza impugnata ma tali atti sono stati adottati sulla base della sentenza e quindi quest’ultima costituisce il fondamento di tali atti. Se la sentenza viene modificata o viene meno, tali atti, rispettivamente, vengono modificati o vengono meno (es. la sentenza di condanna di primo grado viene utilizzata per dare avvio a un processo di esecuzione forzata, se la sentenza viene fatta oggetto di appello e viene riformata, il processo esecutivo e gli atti dell’esecuzione devono essere caducati in conseguenza della riforma della sentenza di primo grado). Affinché l’effetto della riforma o della cassazione possa prodursi non è necessario attendere il passaggio in giudicato della sentenza di appello o della cassazione ma si produce immediatamente con la pubblicazione della sentenza. (La regola generale è che contro un determinato provvedimento si può svolgere un solo giudizio di impugnazione, bisogna quindi evitare che ciascuna parte del processo instauri un giudizio di impugnazione contro lo stesso provvedimento e che, nel caso in cui la sentenza si compone di più capi, ogni capo venga impugnato instaurando diversi giudizi di impugnazione. ) Tutte le parti del processo di primo grado devono ricevere la notificazione nel caso in cui una parte avvia un giudizio di impugnazione avverso la sentenza e tutte le parti interessate a impugnare la medesima sentenza devono proporre le proprie impugnazioni all’interno di tale giudizio (artt. 331 e 332 c.p.c.). Nel processo del lavoro è la cancelleria (e non le parti) che ha l’onere di provvedere d’ufficio alle notificazioni, quindi è il giudice che deve assicurare che tutte le parti abbiano avuto notizia del giudizio di impugnazione e possano intervenire in tale giudizio. Le parti che vogliono impugnare un provvedimento che è già stato impugnato tramite un’impugnazione principale devono proporre la propria impugnazione mediante la formulazione di un’impugnazione incidentale che si inserisce nel procedimento di impugnazione già instaurato. Se la parte non è a conoscenza del fatto che è già stata proposta impugnazione principale e quindi non provvede a proporre un’impugnazione incidentale ma propone anch’essa un’impugnazione principale, le plurime impugnazioni principali proposte nei confronti dello stesso provvedimento devono essere riunite, anche d’ufficio, in un unico processo (es. le parti impugnano lo stesso giorno a distanza di poco tempo). Le sentenze non definitive sono quelle che decidono su questioni pregiudiziali di rito, quelle che decidono su questioni preliminari di merito ma anche le sentenze parziali, cioè quelle che pronunciano su una sola delle domande cumulate in un unico giudizio. Nel processo ordinario di cognizione la sentenza non definitiva può essere impugnata immediatamente dopo la sua pronuncia oppure la parte può scegliere di riservarsi, tramite una dichiarazione espressa, di impugnare la sentenza in un momento successivo unitamente al momento in cui impugna la sentenza definitiva del giudizio (riserva di impugnazione). Nel processo del lavoro, in deroga alla disciplina ordinaria, la sentenza non definitiva* può essere impugnata solo immediatamente dopo la sua pronuncia e solo per ricorso per cassazione (art. 420 bis c.p.c.) in quanto la Cassazione ha una funzione normofilattica e mira a garantire su tutto il territorio nazionale uniformità di interpretazione delle norme e certezza del diritto. *sentenza non definitiva: si tratta di un provvedimento che definisce solo una parte del giudizio. MEZZI DI IMPUGNAZIONE I singoli mezzi di impugnazione delle sentenze: • Regolamento di competenza • Appello • Ricorso per cassazione: è un mezzo di impugnazione esperibile nei confronti delle sentenze di secondo grado, quindi pronunciate dalla corte d’appello • Revocazione • Opposizione di terzo (ordinaria e revocatoria) I mezzi d'impugnazione ordinari sono l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione ordinaria. Sono mezzi d'impugnazione straordinari quelli che possono essere proposti anche contro sentenze passate in giudicato e sono la revocazione straordinaria e l'opposizione di terzo. IL GIUDIZIO DI APPELLO Il giudizio di appello è l’unico mezzo di impugnazione specificatamente disciplinato dalle norme che regolano il rito del lavoro (artt. 433-441 c.p.c.). Nel 1973, anno in cui è stato disciplinato il giudizio di appello nel processo del lavoro, il giudizio di appello nel processo ordinario di cognizione era disciplinato come giudizio aperto ai c.d. nova e quindi all’interno di tale giudizio le parti potevano proporre nuove eccezioni e potevano richiede l’ammissione di nuovi di mezzi di prova senza limitazioni. Nel processo ordinario di cognizione il giudizio di appello era visto come un nuovo giudizio. Al fine di abbreviare i tempi per giungere alla sentenza (principio di concentrazione) il legislatore del 1973 ha deciso di disciplinare il giudizio di appello nel processo del lavoro come giudizio chiuso ai nova e quindi nel giudizio di appello del processo del lavoro già dal 1973 è preclusa la possibilità per le parti di proporre nuove domande (= giudizio di appello nel processo ordinario di cognizione), di proporre nuove eccezioni e di richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova (a differenza del giudizio di appello nel processo ordinario di cognizione. Nel processo del lavoro il giudizio di appello era visto come una revisione del giudizio di primo grado, senza la possibilità di apportare novità. Nel 1990 il legislatore ha scelto di strutturare il giudizio di appello del processo ordinario di cognizione come il giudizio di appello del processo del lavoro, quindi come giudizio chiuso ai nova. L'appello è il primo mezzo di impugnazione previsto dal nostro ordinamento. Con esso si introduce il giudizio di secondo grado e diviene possibile procedere a un nuovo esame della controversia. Le caratteristiche principali del giudizio di appello: • Mezzo di impugnazione ordinario: proponibile nei confronti delle sentenze non ancora passate in giudicato • Mezzo di impugnazione proponibile nel termine breve (se la sentenza è stata notificata) oppure nel termine lungo (se la sentenza non è stata notificata) • Mezzo di impugnazione a critica libera quindi con questo mezzo di impugnazione possono essere fatti valere tutti gli errores in procedendo e in iudicando che indicano la sentenza di primo grado • Mezzo di impugnazione tendenzialmente sostitutivo perché ci sono casi in cui produce effetti rescindenti (= abroga, revoca, invalida). • Mezzo di impugnazione a effetto devolutivo in quanto tramite il giudizio di appello si chiede al giudice dell’impugnazione di emettere una nuova sentenza sulla causa oggetto del giudizio in primo grado. In particolare ciò che viene devoluto alla cognizione e alla decisione del giudice di appello è solo ciò che le parti specificatamente scelgono di devolvergli. • La sentenza emessa all’esito del giudizio di appello è idonea a sostituire la sentenza di primo grado (anche laddove sia una sentenza confermativa della sentenza di primo grado). • L’autorità giudiziaria competente a decidere sulla sospensione della provvisoria efficacia esecutiva della sentenza (di primo grado) è il giudice di appello. (La provvisoria esecutività di una sentenza di I grado significa che le statuizioni di condanna in essa contenute sono immediatamente esecutive ed il vincitore, anche se la controparte impugna la sentenza, può procedere in via esecutiva ovverosia con l'esecuzione forzata, in quanto dispone di un titolo esecutivo (…). Quindi il giudice di appello può sospendere questa provvisoria efficacia esecutiva della sentenza di primo grado. SENTENZE APPELLABILI Come regola generale sono assoggettate ad appello tutte le sentenze rese dal tribunale in funzione di giudice del lavoro tranne quelle che hanno deciso una controversia di valore non superiore a 25,82 euro. Questo valore deve essere determinato avendo riguardo al valore della domanda proposta dalla parte. Il legislatore non ha mai provveduto ad adeguare l’importo indicato nella norma ed infatti ad oggi Il “non accoglimento” non coincide con il rigetto perché di fronte al rigetto di una domanda o di un’eccezione l’attività che la parte deve svolgere per ottenere in secondo grado l’accoglimento è la proposizione in appello. Per “riproposizione” si intende la mancata decisione del giudice sulla domanda o sull’eccezione in virtù di un fenomeno di rituale assorbimento. Quindi ai sensi dell’art. 436 c.p.c. la domanda o l’eccezione non accolta è la domanda o l’eccezione rimasta ritualmente assorbita. Si ha rituale assorbimento quando il giudice ha deciso la controversia pronunciando in via assorbente su un’altra domanda o su un’altra eccezione proposta. La riproposizione è l’attività tipica della parte che in primo grado ha vinto la causa e che tramite la riproposizione della domanda o dell’eccezione rimasta assorbita in primo grado si vuole assicurare che la sua vittoria non possa essere messa a repentaglio dall’eventuale accoglimento dell’appello proposto. Per quando riguarda i limiti preclusivi per esercitare l’attività di riproposizione possono essere effettuati negli atti introduttivi del giudizio d’appello ma anche nella prima udienza di discussione del giudizio di appello. Altro requisito richiesto per l’attività di riproposizione è la specificità: la parte deve procedere a identificare la domanda che si ripropone al giudice d‘appello e le singole questioni che si ripropongono alla cognizione del giudice d’appello. Esempio 1: in primo grado l’attore propone domanda di condanna del convenuto a una determinata prestazione che ha origine in un contratto tra attore e convenuto. Il convenuto deduce eccezione di nullità del contratto ed eccezione di annullabilità del contratto. Il giudice ritiene fondata l’eccezione di nullità del contratto e rigetta la domanda proposta dall’attore sulla base della fondatezza dell’eccezione di nullità del contratto. L’eccezione di annullabilità del contratto viene legittimamente assorbita: non la conosce, non la decide, non la esamina e non la rigetta perché ha deciso la controversia sulla base di un’altra eccezione. L’attore soccombente propone appello censurando la decisione del giudice. Il convenuto può riproporre in appello l’eccezione di annullabilità per cautelarsi dal rischio che il giudice d’appello accolga l!appello proposto dall!attore e quindi ritenga che il contratto non fosse nullo. Esempio 2: attore propone una domanda di rivendica di un determinato bene nei confronti del convenuto e il convenuto a sua volta propone per il caso di accoglimento della domanda dell’attore una domanda di garanzia per evizione nei confronti di un terzo chiamato (= chiama in causa un terzo garante proponendo nei suoi confronti domanda di garanzia per evizione). Se il giudice rigetta la domanda dell’attore, non ha senso conoscere e decidere la domanda di garanzia del convenuto e quindi vene assorbita. La sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza deve essere richiesta tramite il ricorso in appello (i presupposti sono diversi a seconda che la sentenza sia favorevole al lavoratore o al datore di lavoro). Cerco art 434 e 431 comma 3 4 6 APPELLO CON RISERVA DEI MOTIVI Se il modulo decisorio scelto è quello eccezionalmente riservato alle controversie di particolare complessità (= in primo grado il tribunale in funzione di giudice del lavoro ha pronunciato in udienza il dispositivo e solo successivamente deposita in cancelleria la sentenza completa di dispositivo e motivazione) Se il tribunale in funzione di giudice del lavoro pronuncia in udienza il solo dispositivo e se il dispositivo è a favore del lavoratore, il lavoratore può avviare l’esecuzione forzata sulla base del solo dispositivo, se il lavoratore avvia l’esecuzione forzata prima del deposito della sentenza completa di dispositivo e motivazione, il datore di lavoro può proporre appello contro tale dispositivo (con riserva dei motivi) al fine di richiedere la sospensione dell’esecuzione forzata avviata dal lavoratore. L’appello con riserva dei motivi consente al datore di lavoro di proporre appello contro il dispositivo senza redigere già da subito i motivi di impugnazione. Quando la sentenza completa di dispositivo e motivazione viene depositata il datore di lavoro, entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza ovvero sei mesi dalla stessa (in caso di mancata notificazione della sentenza), deve depositare un atto che contiene i soli motivi di appello. Se il datore di lavoro non provvede a depositare i motivi di appello nel termine, l’appello deve essere dichiarato inammissibile e quindi la sentenza impugnata passa in giudicato e il provvedimento di sospensione dell’esecuzione eventualmente concesso a favore del datore di lavoro viene caducato. L’appello con riserva dei motivi è un istituto riservato al datore di lavoro: non c’è nessuna indicazione esplicita ma lo si desume perché la possibilità di iniziare l!esecuzione forzata sulla base del solo dispositivo e quindi appunto prima della notificazione della sentenza è riservata al solo lavoratore ne deriva che tale istituto può essere fruito dal solo datore di lavoro. Lo scopo del legislatore è quello di bilanciare la disciplina di favore prevista per il lavoratore in primo grado (= avviare l’esecuzione forzata sulla base del solo dispositivo senza dover attendere il depositino della sentenza) introducendo un istituto che consente al datore di lavoro soccombente di proporre appello contro il solo dispositivo al fine di chiedere la sospensione dell!esecuzione forzata senza dover attendere il deposito della sentenza e quindi senza dover redigere appello ordinario. Le delimitazioni all’ambito applicativo di questo istituto: • Poiché tale istituto può essere esperito solo in caso di esecuzione forzata avviata sulla base del solo dispositivo e la pronuncia in udienza del solo dispositivo si ha solo laddove la controversia è di particolare complessità, anche l’appello con riserva dei motivi conosce il proprio vigore solo laddove la controversia originaria fosse di elevata complessità. • Il dispositivo deve contenere una condanna a favore del lavoratore e nei confronti del datore di lavoro. • Può essere proposto solo nei casi in cui l’esecuzione forzata sia stata già avviata: questo lo si desume dal dato letterale (“ove l’esecuzione sia iniziata”) ed è coerente con la finalità dell’appello con riserva dei motivi. Secondo la giurisprudenza un appello con riserva dei motivi proposto prima che il lavoratore abbia iniziato l’esecuzione forzata deve essere inammissibile. NOVA IN APPELLO La norma fa riferimento al collegio quando parla di corte d’appello in quanto quest’ultima decide sempre in composizione collegiale (mentre il tribunale decide sempre in composizione monocratica). Il giudizio di appello tendenzialmente è chiuso ai nova, quindi tendenzialmente sono vietate le nuove attività assertive o probatorie svolte dalle parti. Per nova si intende tre tipi di attività: • Proposizione di nuove domande: secondo l’art. 437, comma 2 c.p.c. nel giudizio di appello del rito del lavoro non è ammessa la possibilità di proporre nuove domande. L’art. 345 c.p.c. stabilisce che nel giudizio di appello del rito ordinario di cognizione non è ammessa la possibilità di proporre nuove domande e, se proposte, devono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Per domanda nuova si intende una domanda che per petitum e/o causa pretendi muta rispetto alle domande formulate in primo grado. Tuttavia, l’art. 345 c.p.c. reca una previsione ulteriore che non si trova nell’art. 437 c.p.c.: nel giudizio di appello del rito ordinario di cognizione si possono richiedere gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata e il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Queste domande possono essere proposte in giudizio di appello perché rappresentano un aggiornamento delle domande già proposte nel giudizio di primo grado. L’orientamento maggioritario ritiene che la previsione che si rinviene nell’art. 345 c.p.c. si possa applicare anche al rito del lavoro, quindi nel giudizio di appello del rito del lavoro non è ammessa la possibilità di proporre nuove domande, salvo la possibilità di proporre domande che costituiscono uno sviluppo delle domande già proposte in primo grado. • Proposizione di nuove eccezioni: secondo l’art. 437, comma 2 c.p.c. nel giudizio di appello del rito del lavoro non è ammessa la possibilità di proporre nuove eccezioni. L’art. 345 c.p.c. stabilisce che nel giudizio di appello del rito ordinario di cognizione non è ammessa la possibilità di proporre eccezioni in senso stretto mentre è possibile proporre eccezioni in senso lato, cioè quelle che il giudice può rilevare d’ufficio. • Tale valutazione non deve essere troppo rigida perché altrimenti si rischia di non consentire a numerose impugnazioni proposte di accedere al giudizio di appello e si rischia di negare alla parte il diritto di azione. • Si tratta di una valutazione totalmente rimessa alla discrezionalità della corte, non è stato fissato alcun criterio di natura oggettiva che consente di parametrare questo giudizio, questo espone a rischi nell’applicazione pratica della norma. • Non è corretto dal punto di vista dogmatico collegare la sanzione dell’inammissibilità a una valutazione che attiene alla fondatezza nel merito dell’impugnazione (sarebbe stata più corretta la sanzione dell’infondatezza perché l’inammissibilità è una sanzione che si ricollega alla violazione di norme di natura processuale). La corte d’appello non può dichiarare inammissibile l’appello proposto perché non supera il filtro senza sentire le parti, il contraddittorio tra le parti deve sempre essere sollecitato. Laddove la corte d’appello ritiene che l’appello proposto non ha una ragionevole probabilità di essere accolto dichiara l’inammissibilità dell’appello con ordinanza. L’ordinanza deve essere motivata ma si consente al collegio di procedere con una motivazione sintetica al fine di sveltire il lavoro della corte d’appello e ridurre il sovraccarico di lavoro. Se l’appello viene dichiarato inammissibile o improcedibile la sentenza di primo grado passa in giudicato. Se l’appello viene dichiarato inammissibile perché non supera il filtro la sentenza di primo grado non passa in giudicato ma le parti hanno possibilità di proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado entro 60 giorni decorrenti dalla notificazione dell’ordinanza di inammissibilità dell’appello oppure entro sei mesi decorrenti dalla pubblicazione di tale ordinanza. Le sezioni unite hanno affermato che se la corte d’appello ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello per mancato superamento del filtro, al di fuori dalle ipotesi considerate dall’art. 348 bis c.p.c., l’ordinanza può essere impugnata proponendo ricorso per cassazione. Se sono stati proposti appello principale e incidentale, il giudice può pronunciare ordinanza di inammissibilità laddove ritenga che entrambi gli appelli proposti sono privi di una ragionevole probabilità di essere accolti; ma se soltanto uno dei due appelli risulta avere una ragionevole probabilità di accoglimento tutti gli appelli proposti devono essere trattati e decisi dalla corte d’appello. (Nasce il sistema del “filtro” che consente al giudice di dichiarare inammissibile l'appello solo perché non connotato dalla ragionevole probabilità di essere accolto). FASE INTRODUTTIVA Il giudizio di appello si istaura secondo le stesse modalità del giudizio di primo grado. L’appellante deve provvedere alla redazione del ricorso che deve essere depositato nella cancelleria della corte di appello competente entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza oppure entro 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza. Nel momento in cui l’appellante deposita nella cancelleria il ricorso si costituisce in giudizio con il deposito del proprio fascicolo di parte all’interno del quale inserisce copia della sentenza impugnata. Successivamente la cancelleria procede a formare il fascicolo d’ufficio (all’interno del quale vengono inseriti tutti gli atti relativi al processo di secondo grado). Il fascicolo d’ufficio viene presentato al presidente della corte d’appello che deve nominare il giudice relatore incaricato della fase di trattazione e fissare con decreto l’udienza di discussione dinanzi al collegio. Successivamente al deposito del decreto l’appellante deve notificare il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza all’appellato. Tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercorre un termine non minore di 25 giorni (termine che deve essere rispettato al fine di garantire alla parte il suo diritto di difesa), in caso di violazione di tale termine il ricorso in appello è affetto da nullità. La costituzione dell’appellato si effettua così come in primo grado. L’appellato deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza di discussione, la costituzione tempestiva è necessaria se l’appellato vuole svolgere le attività che devono essere svolte a pena di decadenza, cioè la proposizione di appello incidentale. Il primo atto difensivo dell’appellato consiste in una memoria difensiva che deve essere depositata in cancelleria con il fascicolo di parte e che contiene le difese dell’appellato. Se vi è soccombenza reciproca e l’appellato propone appello incidentale, l’appellato deve indicare nella memoria difensiva i motivi su cui fonda l’impugnazione. L’appellato deve indicare la parte del provvedimento che intende impugnare, le questioni di fatto e di diritto che l’appellato censura (= critiche rivolte alla decisione assunta dal primo grado). Poiché l’attività di riproposizione è l’attività che tipicamente viene svolta dalla parte vittoriosa, tale attività tipicamente viene svolta dall’appellato (che è la parte che ha vinto il giudizio di primo grado): l’appellato può quindi procedere alla riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte in primo grado in quanto legittimamente assorbite (art. 346 c.p.c.). Q L’udienza di discussione e la decisione Anche nel giudizio di Appello, come in primo grado, l’intenzione del legislatore era quella di designare una udienza di discussione che fosse una ed unica. Quindi anche il processo di Appello conosce al suo interno lo svolgimento un’unica udienza di discussione immediatamente destinata a sfociare nella decisione della causa, che avviene con lettura del dispositivo all’esito della stessa udienza di discussione. Se con riguardo al giudizio di primo grado è assai improbabile che si svolga un‘unica udienza di discussione # con riguardo al giudizio di Appello questa ipotesi non è così assurda, in quanto è un giudizio chiuso alla possibilità di assumere nuovi mezzi di prova. Vi sono comunque delle ipotesi eccezionali in cui vi è uno sdoppiamento (raddoppiamento) dell’udienza di discussione (esempio: quando la parte non ha potuto chiedere prima delle prove per causa non imputabile). Oppure potrebbe accadere che il Collegio (anche esso munito di quell’insieme di poteri di direzione del procedimento tipici del Giudice del lavoro) si occupi di verificare che non ci siano vizi di carattere processuale o irregolarità negli atti di causa. Anche all’inizio dell’udienza di discussione in secondo grado il giudice - il Collegio deve verificare la regolarità degli atti e del contraddittorio, laddove ravvisi vizi (esempio: nella notificazione del ricorso e nel decreto di fissazione dell’udienza) dovrà ordinare la rinnovazione degli atti processuali + provvedere a fissare una nuova udienza di discussione = si possono avere una pluralità di udienze di discussione della causa prima di pervenire alla decisione finale. Alla decisione finale (articolo 437 c.p.c.) segue la relazione orale della causa che il giudice relatore incaricato è tenuto a svolgere. Quindi il collegio ascolta la relazione orale (del giudice) + sente i difensori della parti, dopodiché pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza. Nel giudizio di appello la modalità decisoria è unica (= NO possibilità di utilizzare moduli decisori diversi a seconda della complessità della controversia, ma c’è un’unica modalità per arrivare alla decisione della causa), ossia tramite lettura del solo dispositivo all’esito dell’udienza di discussione. L’articolo 438 c.p.c. si occupa di disciplinare il deposito della sentenza (comprensiva di motivazione) deve avvenire in un termine di 15 giorni. Un ulteriore variante è rappresentata dal caso in cui una delle parti abbia presentato unitamente al proprio appello anche un istanza di sospensione dell’esecuzione o dell’efficacia esecutiva della sentenza. Si parla di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza quando ci si trova di fronte a una sentenza di condanna e l’esecuzione forzata non è ancora stata avviata. Si parla di sospensione dell’esecuzione nel caso in cui sia già stata avviata l’esecuzione forzata sulla base della sentenza di condanna. Nel caso in cui sia presentata un’istanza di questo tipo il Presidente della Corte di Appello è tenuto a fissare un’udienza che si svolge in Camera di Consiglio, che temporalmente precede l’udienza di discussione, in cui sarà discussa solamente l’istanza di sospensione. Il Collegio all’interno di tale udienza deciderà solo su tale istanza, sulla base degli atti processuali e pronuncerà ordinanza con la quale deciderà se sospendere o meno l’esecuzione o l’efficacia esecutiva della sentenza. Al secondo numero il ricorrente impugnerà la sentenza laddove ritenga che la questione di competenza insorta nel corso delle processo e decisa dal giudice di merito, sia stata decisa erroneamente. Il numero tre è particolarmente rilevante per due motivi: 1) incarna la funzione tipica della Corte di Cassazione, ossia quella di giudice delle leggi incaricato di verificare la correttezza delle norme di diritto compiuta dal giudice di merito; 2) prevede una disposizione specifica riguardante la materia lavoristica. Questa seconda parte è stata introdotta nel 2006. Si fa riferimento alle norme di diritto sostanziale applicabili alla controversia. Quando si verifica una violazione di questo tipo? si distinguono tre fattispecie: 1) il caso in cui il giudice abbia omesso di applicare una norma sostanziale che era applicabile; 2) nel caso in cui il giudice abbia correttamente individuato la norma applicabile alla fattispecie concreta e l’abbia correttamente applicata, ma abbia fornito un’interpretazione di tale norma errata; 3) errore di sussunzione, che ricorre quando il giudice a seguito di un errore di qualificazione della fattispecie giuridica sottoposta al suo esame applica a tale fattispecie una norma non pertinente. Nel testo originario l’oggetto della violazione potevano essere solo le norme di legge o comunque racchiuse in un atto normativo equiparato alla legge # nel 2006 il legislatore ha scelto di rendere censurabile la violazione del contenuto di determinati contratti specifici - ben individuati e dotati di una certa rilevanza. Il numero quattro è il motivo di ricorso per Cassazione che consente di censurare le violazioni di norme di carattere processuale. Tali violazioni hanno comportato alla nullità della sentenza impugnata, che può essere nulla per vizi propri (esempio: manchi di un suo elemento) o per derivazione/nullità di determinati atti processuali che hanno caratterizzato il procedimento di secondo grado. Il quinto motivo di ricorso per Cassazione è stato riscritto nel 2012 # prima si faceva riferimento all’ammessa - contraddittoria o insufficiente motivazione. Nel 2012 il legislatore ha deciso di riscrivere questo motivo di ricorso allo scopo di ridurre i ricorsi per Cassazione che potevano essere presentati. La Cassazione Sezioni Unite nel 2014 si è pronunciata sulla corretta interpretazione di questo numero 5: “sia denunciatile solo l’anomalia motivazionale che attenga all’esistenza della motivazione in sé, coincidente con la mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico (= denunciatile sentenza in cui anche dal punto di vista visivo manca la motivazione) - apparente - contrasto irriducibile tra motivazioni inconciliabili - perplessa e obiettivamente incomprensibile. In ogni caso la Cassazione ritiene che non assuma più alcuna rilevanza la semplice insufficienza di motivazione”. Come si svolge il giudizio La Corte di Cassazione in Italia è unica e ha sede a Roma. In sede di Cassazione il giudizio si apre con ricorso (a prescindere dal fatto che il giudizio di merito fosse regolato dal rito del lavoro). La peculiarità sta nel fatto che il ricorso viene prima notificato alla controparte e solo successivamente viene depositato nella Cancelleria della Corte di Cassazione. Il contenuto del ricorso è analiticamente disciplinato dall’articolo 366 c.p.c. e tale norma richiede che siano debitamente articolati i motivi di ricorso per cassazione di cui all’articolo 360. Inoltre il numero 6 dell’articolo 366 richiede che: “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”. Uno dei principi fondamentali del ricorso per Cassazione è quello della autosufficienza del ricorso stesso. Questo significa che la Corte per decidere non deve essere messa nella condizioni di esaminare gli atti dei precedenti gradi di giudizio, ma deve riuscire a decidere il ricorso sulla base del ricorso proposto che deve essere autosufficiente. Di particolare interesse sempre per la materia lavoristica/controversie di lavoro è la disposizione di cui all’articolo 369, 2° comma numero 4: “Insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità: 4) gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” = laddove il ricorso sia formato su contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro questi devono essere indicati nel ricorso + depositatati. Ci sono due orientamenti che si sono espressi sulle modalità per adempiere a quest’onere di deposito dei contratti e accordi collettivi. Un indirizzo più rigoroso ritiene che quest’onere possa considerarsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale di questi contratti o accordi # un indirizzo più liberale invece non richiede il deposito, ma ritiene sufficiente la produzione in Cassazione del fascicolo di parte al cui interno la Cassazione può trovare il testo del contratto o accordo collettivo invocato. Per le ragioni di autosufficienza del ricorso seguire questo indirizzo più liberale pone dei rischi. L’atto che deve redigere la controparte è il controricorso, disciplinato dall’articolo 370. Il controricorso viene depositato se la parte resistente intende costituirsi e difendersi nel giudizio di Cassazione. Anche il controricorso deve essere previamente notificato al ricorrente e poi depositato nella Cancelleria della Corte. Queste attività devono avvenire nel rispetto di determinati termini processuali. Il contenuto del controricorso viene disciplinato dal contenuto del ricorso (articolo 366), inoltre l’articolo 371 prevede la possibilità per il resistente/controricorrente di proporre ricorso incidentale. L’oggetto È la revisione della sentenza impugnata. In Cassazione non si svolge mai un’attività istruttoria. vi sono solo alcune tipologie di documenti che possono trovare ingresso in Cassazione, che sono descritti dall’articolo 372 c.p.c.: “Non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso" = si tratta di documenti funzionali alla decisione. Un’altra caratteristica di questo processo è il suo carattere officioso. Una volta instaurato il giudizio per Cassazione procede verso il suo esito a prescindere dalle attività compiute delle parti o dalla loro inattività, si estingue solo se le parti decidono di rinunciare. Anche in Cassazione esiste un filtro che consente al giudice di legittimità di non decidere i ricorsi che non superino il vaglio di ammissibilità imposto dallo stesso filtro. L’introduzione del filtro in Cassazione è stata giustificata dalle stesse ragioni che hanno condotto al filtro in Appello. La norma di riferimento è l’articolo 360 bis: “Il ricorso è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l!esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l!orientamento della stessa; 2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giusto processo” = il primo filtro è volto a potenziare la funzione nomofilattica della Cassazione, cioè se esiste già una giurisprudenza consolidata a livello di Cassazione e il provvedimento impugnato è conforme a tale giurisprudenza consolidata generalmente il ricorso è inammissibile. Questo perché il giudice di merito si è correttamente conformato ai principi di diritto espressi dalla giurisprudenza consolidata. Il secondo motivo che va ad integrare il filtro di ammissibilità in Cassazione riguarda la violazione dei canoni di giusto processo, e deve essere letto in correlazione con il motivo di ricorso per Cassazione che consente di censurare la nullità della sentenza o del procedimento. Come prende avvio il giudizio di Cassazione? La Corte di cassazione è divisa in più sezioni, tra cui: le sezioni unite (9 membri) - le sezioni semplici (6 membri) - la sezione lavoro ecc. Una volta che il ricorso introduttivo/per Cassazione sia stato presentato in cancelleria, il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio che viene presentato al primo Presidente della Cassazione (responsabile dell’assegnazione del ricorso alle sezioni semplici). L’assegnazione segue determinati criteri stabiliti dal c.p.c., infatti prima di tutto occorre verificare se si versa in una di quelle ipotesi in cui il ricorso deve essere assegnato alle sezioni unite. I casi in cui la Cassazione pronuncia sezioni unite sono definiti dall’articolo 374, esempio: i ricorsi presentati ai sensi del numero 1, articolo 360. Laddove non ricorra una di tali fattispecie, il primo Presidente deve assegnare il ricorso alla sezione sesta della Cassazione. La sezione sesta è detta “filtro” (NON è la sezione a cui è richiesto di applicare il filtro di ammissibilità) che ha il compito di verificare se ricorre una delle fattispecie in cui la Cassazione deve pronunciare con ordinanza in camera di Consiglio. (Si tratta delle fattispecie indicate dai numeri 1 e 5 dell’articolo 375 c.p.c..) Laddove non ricorra una di queste condizioni la sezione filtro rimette gli atti al Primo Presidente che procede con l’assegnazione alle altre sezioni semplici. La Corte può pronunciare secondo due modalità: 1) in Camera di Consiglio, con ordinanza; 2) in pubblica udienza, con sentenza (più complessa). *Il giudizio di rinvio, pertanto, ha un carattere “chiuso”, nel senso che le parti non possono ampliare il thema decidendum, produrre nuovi documenti, né chiedere nuovi mezzi di prova, salvo che ciò sia reso necessario dalle statuizioni della Cassazione. I procedimenti speciali in materia lavoristica Il procedimento per la repressione della condotta antisindacale ✅ (4) Quando si parla di procedimenti speciali ci si riferisce a quei procedimenti che non sono disciplinati dalla normativa ordinaria in materia di controversie lavoristiche, ragione per cui la disciplina non si rinviene nel Codice di rito ma in altri Testi normativi. Questo procedimento infatti si trova disciplinato all’interno dello Statuto dei lavoratori (1970) all’articolo 28. Il procedimento è stato introdotto per sanzionare comportamenti del ddl diretti ad impedire o limitare l’esercizio delle libertà e delle attività sindacali, nonché del diritto di sciopero. Si tratta di una forma di tutela che è assistita anche da una norma del Codice penale, che consente la coercizione del ddl nell’adeguarsi a quanto stabilito dal giudice all’esito di questo procedimento. L’articolo 28 si limita a regolamentare il procedimento per la repressione della condotta antisindacale, quindi regola gli aspetti processuali legati alla punizione/ repressione della condotta antisindacale, ma non si sofferma nella definizione di cosa si intende per condotta antisindacale. Questo compito è stato lasciato agli interpreti, in primis alla giurisprudenza che nel tempo ha definito gli esatti confini del concetto di condotta antisindacale. Innanzitutto da un punto di vista generale la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che per integrare condotta antisindacale sia sufficiente che il comportamento posto in essere ddl leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, senza che sia necessario accertare altresì uno specifico intento lesivo da parte del ddl. Quindi il giudice non deve accertare i profili soggettivi in capo al ddl, ma unicamente l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto di ledere le libertà e le attività sindacali. Esempio: il comportamento tenuto dal ddl che sostituisce i lavoratori in sciopero con altri dipendenti, assegnando poi ai lavoratori in sciopero mansioni diverse e minori rispetto a quelle svolte precedentemente. Oppure il trasferimento a una diversa sede di tutti i lavoratori iscritti a una determinata organizzazione sindacale. L’oggetto del procedimento per la repressione della condotta antisindacale coincide non con i diritti individuali dei singoli lavoratori che sono stati lesi, ma con i diritti collettivi del sindacato. Quindi è un’azione a tutela di diritti di natura collettiva. Ciò non toglie che la condotta antisindacale possa essere pluri-offensiva, in questi casi ai diritti collettivi delle associazioni sindacali si affiancano anche le azioni individuali che possono essere proposte dai lavoratori specificatamente lesi dalla condotta del ddl. I soggetti attivi I soggetti legittimati all’avvio del procedimento sono le associazioni sindacali, e in particolari gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. La Cassazione ha chiarito che per associazioni nazionali sindacali debbano intendersi quelle che risultano dotate di una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che quindi svolgano attività sindacale su ampia parte del territorio nazionale (= uno degli indici tipici per desumere il connotato di nazionalità di una associazione è l’avvenuta sottoscrizione di contratti collettivi nazionali di lavoro). La legittimazione non è conferita direttamente all’associazione sindacale nazionale, ma agli organismi locali che sono individuati tramite gli Statuti interni delle associazioni. Il soggetto passivo Il legittimato passivo coincide con il ddl. Procedimento Il procedimento si istaura con ricorso. Il testo della norma, che non è stato adeguato alle novità normative intervenute, fa riferimento al Pretore quale autorità giudiziaria competente a raccogliere e conoscere il ricorso presentato = tale riferimento deve ritenersi abrogato in seguito alla soppressione delle Preture avvenuta negli anni ’90. Quindi il ricorso oggi deve essere presentato al Tribunale in funzione di giudice del lavoro competente per territorio. Il termine La norma non detta un termine particolare entro il quale il ricorso per reagire alla condotta antisindacale deve essere presentato. A questo proposito è intervenuta la giurisprudenza di legittimità che ha escluso che esista un termine rigido per promuovere questo procedimento sicché il mero ritardo nella presentazione del ricorso non determina l’inammissibilità del procedimento avviato. Tuttavia il ricorso deve essere presentato in un momento temporale in cui sono ancora permanenti gli effetti lesivi provocati dalla condotta antisindacale. Una volta depositato il ricorso il Tribunale convoca le parti e assunte sommarie informazioni decide sul ricorso presentato. Quindi la fase di trattazione non è disciplinata/non sono previsti particolare formalismi = il procedimento è snello. La decisione poi è assunta con decreto motivato, tramite il quale il Tribunale ordina al ddl la cessazione del comportamento illegittimo (e la rimozione degli effetti). Il decreto è munito di efficacia esecutiva, quindi il ddl è tenuto a dare esecuzione al comando immediatamente dopo la sua pronuncia. Salva la possibilità per il ddl di proporre opposizione davanti al medesimo Tribunale che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Per quanto riguarda l’efficacia esecutiva del decreto, questa non è sospesa in virtù dell’opposizione. Infatti: (E’ inammissibile l'istanza di sospensione degli effetti del decreto con cui sia stato accolto un ricorso per la soppressione di condotta antisindacale, ex art. 28 St. Lav., poichè tale sospensione si porrebbe in contrasto con il principio espressamente affermato da questa stessa norma, secondo il quale l'efficacia esecutiva del decreto non  può essere revocata fino alla sentenza con cui viene deciso il giudizio di merito). Inoltre laddove il ddl non ottemperi ai comandi contenuti nel decreto o nella sentenza, è punito ai sensi dell’articolo 650 c.p.. Si tratta di una previsione tesa a rafforzare l’efficacia di questo strumento, in quanto l’articolo prevede la possibilità di punire con l’arresto o l’ammenda chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’autorità giudiziaria. Se non viene proposta opposizione contro il decreto, il decreto assume efficacia di giudicato e contro la sentenza emessa all’esito dell’opposizione è ammesso appello alla Corte d’Appello competente per territorio che deciderà in funzione di giudice del lavoro. Le forme di tutela previste contro le discriminazioni (4) Il primo dato da rilevare è la pluralità delle fonti normative in materia. Infatti il nostro ordinamento prevede diverse norme e leggi dedicate alla tutela contro le discriminazioni di qualsiasi genere e specie. Nel sistema giuslavoristico qualsiasi forma di discriminazione operata dal ddl comporta conseguenze piuttosto gravi. Sistematicamente al compimento di un atto o più in generale di un comportamento discriminatorio, consegue l’invalidità radicale dell’atto con cui viene posta in essere la discriminazione + sanzioni ulteriori (differite a seconda dei casi) che coincidono con una condanna per il ddl. Dal punto di vista del procedimento che si applica alle forme di tutela contro le discriminazioni un tentativo di semplificare il quadro normativo è stato recentemente compiuto dal legislatore. La legge a cui dobbiamo questa operazione di razionalizzazione è il D.lgs. 150/2011, ossia il decreto di semplificazione dei riti = aveva previsto che tutti i procedimenti speciali ravvisabili nel nostro ordinamento processuale civilistico dovevano essere ricondotti a uno dei 3 riti assunti dal decreto stesso. Con l’articolo 28 del decreto si è scelto di ricondurre le controversie in materia di discriminazione al rito sommario di cognizione. Il rito sommario di cognizione si instaura con ricorso e si definisce sommario in quanto si tratta di un rito deformalizzato che dovrebbe garantire una maggiore celerità nel suo svolgimento rispetto al rito ordinario. Con questa norma le specifiche forme di discriminazione conosciute da questi testi normativi sono state assoggettate al rito sommario di cognizione (= unificazione dei procedimenti per l’accesso a queste forme di tutela), ma vi sono altre ipotesi che È prevista anche un determinato criterio per la liquidazione del danno (liquidato a favore del lavoratore) e in particolare si indica al giudice la possibilità di tenere conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio abbiano costituito ritorsione a una precedente azione giudiziale, ovvero ingiusta reazione a una precedente attività del soggetto leso = questi casi verranno valutati con una maggiore gravità e quindi si potrà aprire la strada alla liquidazione per danno maggiore. Inoltre un ulteriore previsione di carattere sanzionatorio per il ddl, è la possibilità per il giudice di ordinare la pubblicazione su un quotidiano di tiratura nazionale dell’ordinanza che ha condannato il ddl. (La violazione dei divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro - alla formazione - alla promozione professionale e nelle condizioni di lavoro Queste forme di discriminazione non confluiscono nell’articolo 28, ma sono disciplinate nel D.lgs 198/2006). Il primo procedimento che l’articolo 28 considera è l’azione per la repressione di condotte discriminatorie previste nel Testo unico per l’immigrazione (ossia nel D.lgs. 286/1998). Articolo 44: = la vittima della discriminazione può ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti discriminatori. Laddove gli atti o i comportamenti discriminatori assumano non carattere individuale ma collettivo, il ricorso può essere presentato non solo dai singoli soggetti lesi dalla condotta discriminatoria, ma anche dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. E anche in questo caso è previsto che il provvedimento conclusivo del procedimento è assistito da una norma racchiusa nel Codice penale (articolo 388, 1° comma). Un’altra previsione degna di notazione per la natura punitiva e deterrente è quella che si trova nei periodi successivi di questa disposizione, dove si considera il caso in cui l’impresa che è stata condannata per aver posto in essere un comportamento discriminatorio avesse previamente ricevuto dei benefici di natura tributaria - fiscale ecc dallo Stato oppure avesse stipulato dei contratti di appalto per l’esecuzione di opere pubbliche. In questo caso è previsto che il provvedimento di condanna per condotta discriminatoria debba essere comunicato allo Stato o alle Regioni interessate che possono revocare i benefici concessi o disporre l’esclusione del responsabile per 2 anni o possono disporre l’esclusione da qualsiasi appalto. Questa previsione non trova applicazione solo nelle discriminazione del Testo Unico sull’immigrazione, ma in virtù di un richiamo sistematicamente compiuto trova applicazione anche nelle altre forme di discriminazione. La 1 forma di discriminazione cittadini non appartenenti all’ue e apolidi (immigrazione e straniero vedi sopra) La seconda forma di discriminazione considerata dall’articolo 28 è l’azione disciplinata dall’articolo 4 D.lgs. 215/2003, ossia l’azione contro le discriminazioni in ragione della razza e dell’origine etnica. Tuttavia le condotte illecite discriminatorie punite dalla legge sono definite dall’articolo 2 di questo Decreto, che distingue tra discriminazioni dirette e indirette. La discriminazione diretta ricorre quando per la razza o l’origine etnica una persona viene trattata meno favorevolmente di quanto sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga # la discriminazione indiretta sussiste quando una disposizione - un criterio - una prassi - un atto - un patto o un comportamento apparentemente neutri, in realtà nella loro concreta applicazione possono mettere le persone di una determinata razza o origine etnica in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone. L’azione in questo caso può essere proposta sia in via individuale, sia in via collettiva = in entrambi i casi le parti possono dapprima scegliere di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi o in mancanza possono promuovere il tentativo di conciliazione o possono scegliere di promuovere direttamente l’azione giudiziale. Anche in questo caso è prevista la sanzione del ritiro o dell’esclusione dell’impresa dai benefici concessi o dagli appalti con Stato e Regioni. La terza azione considerata dall’articolo 28 è contenuta nell’articolo 4 del D.lgs. 216/2003, che distingue e punisce le discriminazioni dirette e indirette ricollegandole alla religione - alle convinzioni personali - all’handicap - all’età o all’orientamento sessuale. Anche in questo caso la legittimazione a promuovere l’azione è riconosciuta sia in via individuale al soggetto discriminato, sia alle organizzazioni sindacali. È sempre prevista la possibilità di avvalersi (prima di procedere nelle vie giudiziali) alle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi o del tentativo di conciliazione. In caso di esito negativo di questi tentativi di conciliazione resta salva la possibilità di procedere con l’iniziativa giudiziaria. La quarta di tutela contro le discriminazioni considerata dall’articolo 28 è disciplinata della legge 67 del 2006, che disciplina l’azione contro le discriminazioni in ragione della disabilità. Anche con riguardo a questa azione le specifiche condotte discriminatorie sono distinte tra discriminazione diretta ed indiretta. In questo caso la legittimazione ad agire viene riconosciuta oltre che alla vittima della discriminazione, anche a determinate associazioni o enti individuati tramite un decreto del Ministero per le pari opportunità. Anche in questo caso è prevista una agevolazione della posizione del ricorrente, in quanto è previsto che al fine di dimostrare la sussistenza del comportamento discriminatorio può dedurre in giudizio elementi di fatto in termini gravi - precisi e concordati, che il giudice valuta in limiti di cui all’articolo 2729 = si consente al ricorrente di dimostrare l’esistenza della discriminazione tramite presunzioni. Il provvedimento/l’ordinanza condanna al danno (anche non patrimoniale) - alla cessazione del comportamento e all’adozione di ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione. Anche qui compare la possibilità di ordinare al ddl di adottare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un determinato termine fissato nel provvedimento di condanna + è previsto la possibilità di ordinare la pubblicazione dell’ordinanza su un quotidiano a tiratura nazionale. La quinta ed ultima tutela è disciplinata dall’articolo 55 quinques del D.lgs. 198/2006, ossia del Codice delle par opportunità tra uomo e donna. L’azione contro le discriminazioni in ragione del sesso. Gli articoli 36 e 37 del D.lgs. 198/2006 prevedono delle forme di tutela contro le discriminazioni fondate sul sesso che possono trovare attuazione in sede lavorativa, ma non sono considerate dall’articolo 28 e quindi mantengono la proprio disciplina autonoma + restano assoggettati al rito del lavoro. Articolo 36: si riferisce alle discriminazioni individuali, la cui legittimazione attiva viene attribuita individualmente al soggetto vittima della discriminazione. La discriminazione guarda l’accesso al lavoro, nella promozione e nella formazione professionale, nelle condizioni di lavoro compresa la retribuzione, nonché alle forme pensionistiche complementari collettive. Il singolo può decidere di: avvalersi delle procedure conciliative previste dai contratti collettivi oppure di promuovere il tentativo di conciliazione oppure di agire in via giurisdizionale. Contro il decreto il ddl può proporre opposizione, senza però sospendere l’efficacia del decreto. Articolo 37: l’azione riguarda condotte discriminatorie aventi carattere collettivo, la cui legittimazione viene attribuita al Consigliere - alle Consigliere o ai Consiglieri di parità, che possono chiedere al ddl di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a 120 giorni. Se il piano proposto dal ddl viene ritenuto idoneo a rimuovere le discriminazioni il Consigliere di parità promuove il tentativo di conciliazione. Si redige al termine verbale, il quale acquista forza di titolo esecutivo con Decreto apposto dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Nel caso opposto (= il piano non viene ritenuto idoneo) il Consigliere si rivolgerà direttamente al Tribunale con ricorso. Il Tribunale decide con sentenza e laddove accerti le discriminazioni denunciate provvede a condannare il ddl al risarcimento del danno (anche non patrimoniale) ordinandogli di definire un piano di rimozione delle discriminazioni + fissa dei criteri anche temporali da osservare al fine della definizione/ della attuazione del piano. Nel caso in cui esistano determinati motivi d’urgenza, ai Consiglieri di parità è accordata la possibilità di proporre davanti al Tribunale un ricorso in via d’urgenza = al fine di ottenere un provvedimento emanato in tempi più celeri. Il rito speciale per l’impugnazione del licenziamento del lavoratore 1) controversie aventi ad oggetto le impugnative dei licenzianti nei casi regolati dall’articolo 18; 2) la possibilità di applicare il rito anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Un ulteriore disposizione è quella contenuta al successivo comma 48, dove in prima battuta si fissa una regola di carattere generale, ossia il divieto di proporre con il ricorso domande diverse rispetto a quelle considerate dal comma 47. Tuttavia si apre questa possibilità nel caso in cui siano fondate su identici fatti costitutivi = possono essere proposte dallo stesso attore o dal convenuto o da parte di terzi interventori. Vi è poi un riferimento alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, in quanto il dubbio interpretativo sorto attorno a questa disposizione riguarda la necessità per il giudice di pronunciarsi su queste questioni con una pattuizione idonea a produrre gli effetti del giudicato sostanziale oppure se il riferimento che la legge fa alla possibilità di risolvere con rito Fornero queste questioni si risolve in una cognizione funzionale alla decisone della controversia senza che il giudice pronunci sulla questione con efficacia di giudicato = questione ancora controversa. Sempre per definire l’ambito applicativo del rito: il rito si ritiene applicabile anche con riguardo ai licenziamenti collettivi (legge 223/1991) nel caso in cui siano intimati senza la forma scritta. E si ritiene applicabile anche ai pubblici dipendenti. Ulteriore specificazione: generalmente è il lavoratore a rivestire i panni di attore/a promuovere l’iniziativa di licenziamento, in questo caso si ammette che possa essere anche il ddl a promuovere un procedimento di questo tipo. La domanda proposta dal ddl sarà di accertamento della legittimità del proprio recesso dal rapporto di lavoro (= l’interesse ad agire sarà integrato da una condotta tenuta dal lavoratore in sede stragiudiziale di contestazione della legittimità del licenziamento intimato). È data possibilità di presentare domande diverse rispetto a quella impugnative di licenziamento, laddove siano fondate su identici fatti costitutivi. Queste domande sono eccezionalmente consentite. Quali sono i fatti costitutivi delle domande che hanno ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti? questi fatti costitutivi sono rappresentati dalla preesistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato + dall’interruzione di questo rapporto di lavoro tramite un licenziamento che la parte ritiene essere illegittimo. L’identità di cui parla questo comma è rappresentata da una coincidenza parziale dei fatti costitutivi e quelli posti a fondamento della domanda diversa che la parte vuole proporre. Esempio: proporzione in via subordinata di una domanda con cui si richieda l’applicazione di un regime sanzionatorio diverso rispetto a quello domandato in via principale, ma che rientri pur sempre nelle previsioni di cui al 47° comma = in questo caso la fattispecie non pone problematiche particolari, in quanto l’azione è pur sempre qualificabile come azione impugnativa del licenziamento ance se diretta ad ottenere un livello di tutela diversa. Devono invece essere escluse dall’ambito applicativo di questo procedimento le controversie relative al licenziamento che abbiano ad oggetto i rapporti di lavoro a tempo determinato. Queste domande restano assoggettate al rito del lavoro disciplinato dal c.p.c.. La fase sommaria (si chiude con ordinanza) Il rito Fornero si compone di due fasi: 1) la fase sommaria; 2) la fase a cognizione piena ed esauriente (non necessaria, in quanto il rito può concludersi già alla prima fase). In riferimento alla prima fase, le disposizioni di riferimento sono i commi dal 48 al 50 dell’articolo 1. La domanda introduttiva del procedimento si propone con ricorso e la competenza viene attribuita al Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Un aspetto importante riguarda il contenuto del ricorso, in quanto si fa riferimento all’articolo 125 c.p.c. e quindi il ricorrente non risulta assoggettato a preclusioni riguardati le proprie attività assertive o alle richieste di mezzi istruttori = non esistono disposizioni che ricollegano il ricorso a decadenze per quanto riguarda l’allegazione di fatti giuridicamente rilevanti o la possibilità di richiedere mezzi istruttori. Com’è indicato dalla norma, unicamente al ricorso possono essere presentati dei documenti che verranno depositati presso la cancelleria del Tribunale adito. A seguito del deposito il giudice con decreto fissa l’udienza di comparazione delle parti, la legge prevede che alla trattazione delle controversie siano riservati particolari giorni del calendario delle udienze. Al ricorrente viene assegnato un termine per notificare il ricorso alla controparte + viene assegnato un termine per la costituzione del resistente (= termine di 5 giorni precedenti all’udienza). Tuttavia non vengono forniti dati relativi al resistente, per questo nel silenzio normativo si ritiene che debba essere disciplinato dall’articolo 125 c.p.c.. Questo implica che anche per il convenuto/resistente non varranno tutte le preclusioni che il rito del lavoro ricollega alla memoria difensiva tempestivamente depositata. Nella fase sommaria la prima udienza di comparizione non viene particolarmente disciplinata, ma in ogni caso anche all’inizio dell’udienza di discussione il giudice è tenuto ad effettuare tutte le consuete verifiche inerenti alla regolarità degli atti + può procedere all’interrogatorio libero delle parti e al tentativo di conciliazione. Viene viceversa disciplinata la fase di istruzione probatoria, comma 49: “Il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d'ufficio, ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all'accoglimento o al rigetto della domanda” = al giudice della fase sommaria del rito Fornero vengono attribuiti tutti i poteri istruttori ufficiosi considerati dall’articolo 421 c.p.c.. Inoltre si apre la possibilità di ammettere e assumere gli atti di istruzione che sono ritenuti indispensabili. In questa fase (fase sommaria) la cognizione è connotata da sommarietà, in quanto è ridotta dal punto di vista dell’istruzione probatoria a ciò che viene ritenuto strettamente indispensabile per decidere la controversia # la cognizione è destinata ad espandersi in sede di opposizione. Inoltre la fase sommaria è definita con ordinanza, ed immediatamente esecutiva. L’efficacia esecutiva non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza conclusiva del giudizio di opposizione. Quindi i provvedimenti che abbiano dichiarato la nullità, l’annullamento o l’inefficacia del licenziamento combinato, nonché i provvedimenti di condanna alla reintegra nel posto di lavoro o al pagamento dell’indennità risarcitoria saranno immediatamente esecutivi. Non è previsto nulla dalla legge con riguardo alla sua idoneità ad acquistare la forza di giudicato sostanziale, ma in un’ottica di valorizzazione della ratio della riforma Fornero (= assicurare in tempi celeri una stabile definizione controversia in materia di licenziamento) l’ordinanza emessa all’esisto della fase sommaria debba essere riconosciuta l’idoneità a diventare la legge del caso concreto ed ad acquistare forza interattiva tra le parti. Il giudizio di opposizione (si chiude con sentenza) È disciplinato dall’articolo 1, dal comma 51 al 57 (legge Fornero), che prevedono che contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto della domanda presentata, possa essere proposta opposizione con ricorso. La competenza sul giudizio di opposizione appartiene al Tribunale e il termine di proporzione dell’opposizione è di 30 giorni dalla notificazione dell’ordinanza o dalla sua comunicazione a cura della cancelleria. Di nuovo si propone il divieto circa la formula di proporre domande diverse rispetto a quella dell’impegnativa del licenziamento, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. La natura e la funzione del giudizio di opposizione Il giudizio di opposizione è un giudizio a cognizione piena ed esauriente, e questo si deduce dalla circostanza per cui la legge consente al giudice di procedere con gli atti di istruzione ritenuti ammissibili e rilevanti (= non più solo quelli indispensabili). Inoltre questa fase si chiude con sentenza, cioè con il provvedimento che tipicamente conclude i giudizi a cognizione piena ed esauriente. A questo giudizio viene riconosciuta una sorta di doppia anima, ossia bisogna guardarlo come procedimento di primo grado che al contempo svolge anche una funzione impugnatoria dell’ordinanza che chiude la fase sommaria. Lo svolgimento Solo il giudice che ha emesso l’ordinanza è competente a conoscere il giudizio di opposizione (= competenza esclusiva).
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