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Diritto Processuale Penale 1a parte con schemi Tonini, Sintesi del corso di Diritto Processuale Penale

Diritto Processuale Penale 1a parte con integrazione schemi Tonini

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 30/03/2016

imeres22
imeres22 🇮🇹

4.1

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Scarica Diritto Processuale Penale 1a parte con schemi Tonini e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Parte Prima EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO PENALE - LE FONTI Capitolo 1 SISTEMA INQUISITORIO, ACCUSATORIO E MISTO 1.Diritto penale e diritto processuale penale: Le legge penale definisce i tipi di fatto che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono. Le legge processuale penale regola il procedimento mediante il quale si accerta se è stato commesso un fatto di reato, se l'imputato ne è l'autore e se sì quale pena dovrà essergli applicata. Spetta solo allo Stato accertare la responsabilità di un fatto ed usare coercizione e forza: il giudice infatti accerta se un imputato è responsabile del fatto di reato; la legge regola le modalità di svolgimento del processo penale. Il diritto processuale penale è il complesso di norme di legge che disciplinano le attività dirette all'attuazione del diritto penale nel caso concreto. In questo senso si afferma che il diritto processuale penale ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale. Si rileva quindi il carattere di "strumentalità" del diritto processuale penale rispetto al diritto penale, ma ciò non rappresenta una diminuzione per il diritto processuale penale, in quanto in mancanza di un processo regolato dalla legge, l'applicazione della norma penale si trasformerebbe in un "diritto di polizia",senza la presenza di un soggetto imparziale, che valuti gli argomenti prospettati dall'accusa e dalla difesa. Dunque la distinzione tra diritto penale sostanziale e processuale consiste nelle attività che vengono regolamentate: il diritto penale sostanziale vieta determinati fatti mediante la minaccia di una pena ed i suoi precetti si rivolgono a tutti i cittadini, inoltre ha la finalità di regolare le azioni delle persone e non di accertarle; il diritto penale processuale regola l'accertamento di una responsabilità penale e quindi prescrive i comportamenti processuali da tenere per il giudice, il pubblico ministero e gli altri soggetti del procedimento, inoltra ha la finalità non solo di regolare l'attività del giudice e delle parti ma anche di predisporre gli strumenti logici mediante i quali il giudice accerta i fatti di reato e la personalità di coloro che li hanno commessi. 2.La protezione della società e la difesa dell'imputato: Il processo penale, nell'applicare la legge sostanziale, deve perseguire contemporaneamente la funzione di tutelare la società contro la delinquenza e di difendere l'accusato dal pericolo di una condanna ingiusta. Le due esigenze hanno pari importanza, infatti non si deve pensare che il tutelare la società dalla delinquenza costituisca un interesse pubblico perchè riguarda tutti i cittadini ed invece la difesa dell'imputato è un interesse privato e che dunque il primo sia più importante del secondo. Infatti ad ogni cittadino potrebbe capitare di essere accusato e quindi l'interesse individuale spettante ad un determinato imputato diventa un interesse pubblico riferibile alla generalità dei cittadini. Ma coordinare le due esigenze è difficile: infatti la protezione della società è realizzata con mezzi che impediscono od ostacolano la difesa dell'imputato con il rischio che limitare la possibilità di difesa sì riduca le possibilità di assolvere il colpevole ma aumenta quelle di condannare l'innocente e viceversa. Il legislatore è quindi inevitabilmente costretto a prendere scelte che sacrifichino o l'una o l'altra esigenza. Il quesito su quale sistema processuale sia il più idoneo ad accertare i fatti di reato deve essere esaminato prima di tutto in chiave storica. Uno dei meriti degli studiosi illuministi è stato quello di riflettere sui "corsi e ricorsi della storia" al fine di individuare le caratteristiche ricorrenti dei regimi politici di tipo garantista e di tipo totalitario. Allo stesso tempo gli studiosi hanno rilevato che esiste una stretta correlazione tra regime politico e sistema processuale: ad un regime totalitario corrisponde un diritto penale nella quale la difesa della società prevale su quella dell'imputato e, viceversa, un regime garantista corrisponde un sistema processuale che dà all'imputato una tutela prevalente rispetto alla difesa della società. La distinzione tra modello processuale inquisitorio ed accusatorio ha assunto il nuovo significato di criterio di scelta politica per valutare l'accettabilità delle norme che devono regolare il processo penale; per valutare se è un ordinamento, che afferma di essere garantista, lo sia nei fatti, è sufficiente esaminare quale modello processuale penale accolga. 3. Sistema inquisitorio e sistema accusatorio: Già nel periodo medievale era denominato inquisitorio quel sistema processuale che attribuiva al giudice il potere di attivarsi d'ufficio per perseguire i reati ed acquisirne le prove. Tale nomenclatura derivava dall'organo che prendeva iniziative in quel tipo di processo, e cioè il giudice inquisitore. Sempre nello stesso periodo storico era denominato accusatorio quel tipo di processo nel quale giudice non esercitava alcun potere d'ufficio, poichè erano le parti ad avere l'iniziativa. L'avvio del processo, lo svolgimento e la ricerca delle prove erano lasciate alla parte, e cioè all'accusatore. Al giudice era attribuito soltanto il potere di prendere decisioni su richiesta di parte. Al potere di iniziativa e richiesta dell'accusatore corrispondevano analoghi poteri esercitabili dall'accusato personalmente o mediante difensore. Oggi con i termini accusatorio ed inquisitorio ci riferiamo a "tipi" di processo penale ai quali sono attribuite caratteristiche ben precise. Tuttavia tale distinzione ha valore astratto perchè nella realtà sono esistiti ordinamenti che presentavano caratteristiche tipiche sia del sistema inquisitorio che accusatorio, dando vita a sistemi di tipo misto. ! 1 Tutto ciò conferma che i due sistemi sono dei modelli ricostruiti seguendo una contrapposizione ideale delle rispettive caratteristiche. La maggior parte degli studiosi italiani ritiene che la contrapposizione prevalente sia quella tra scrittura ed oralità, definendo così inquisitorio il processo dove il giudice decide su prove scritte, limitandosi a leggere i verbali da atti compiuti anteriormente da altri soggetti, ed accusatorio il processo che impone al giudice di decidere soltanto in base a prove assunte oralmente davanti a lui, con la precisazione che gli elementi acquisiti in precedenza non possono essere utilizzati. Ma non è sufficiente limitarsi all'oralità per disegnare un sistema accusatorio, infatti la storia insegna che ci si deve preoccupare anche della fase che precede il giudizio. 4 e 5.Sistema inquisitorio e principio di autorità - Sistema accusatorio e principio dialettico: All'origine logica della distinzione tra sistema inquisitorio ed accusatorio sta la contrapposizione tra principio di autorità e principio dialettico. Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità secondo il quale la verità è tanto meglio accertata quanto più potere è dato al soggetto inquirente. Viene operato il cumulo delle funzioni processuali: egli opera al tempo stesso come giudice, accusatore e difensore dell'imputato ed ha pieni poteri sia d'iniziativa che rispetto alla formazione della prova, questo soggetto è il giudice inquisitore. Non importa se si tratta di un giudice singolo o collegiale, quello che conta è il tipo di potere che gli è concesso. Tanto maggiore è l’autorità tanto migliore sarà l’accertamento. Correlativamente si tende a non riconoscere alcun potere alle parti, l'offeso e l'imputato sono meri soggetti del giudizio. In questo sistema non occorre che il giudice sia indipendente anzi il legame politico è considerata buona cosa perchè la sua decisione sarà più aderente al vero. Il sistema accusatorio si prende atto dei limiti della natura umana e si ritiene che nessuna persona sia depositaria del vero e del giusto si basa cioè sul principio dialettico per cui la verità si può accertare tanto meglio quanto più le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi antagonisti e quanto più spazio si da al confronto tra tesi contrapposte. Al giudice, che deve essere indipendente ed imparziale, spetta di decidere sulla base di prove ricercate dall'accusa e dalla difesa. La scelta operata dal giudice tra le diverse ricostruzioni del fatto storico è stimolata dalla dialettica che si svolge tra soggetti spinti da interessi contrapposti. Accettato tale principio, occorre che nel processo penale i poteri di un soggetto siano bilanciati da quelli riconosciuti ad un altro soggetto. E' necessario che un giudice imparziale sia in grado di dirimere i momenti inevitabili di contrasto tra i due antagonisti. restando in una posizione di assoluta neutralità psichica. Il sistema si basa quindi sulla separazione delle funzioni processuali, principio che svolge la stessa finalità della separazione dei poteri dello stato e cioè evitare che l’uso di un potere degeneri in abuso. INQUISITORIO ACCUSATORIO 1. INIZIATIVA D'UFFICIO L'iniziativa del processo penale deve spettare al giudice, in quanto depositario del vero e del giusto, per cui non deve essere ostacolato dall’inattività delle parti. Non è necessario che il suo intervento sia richiesto da un soggetto che accusa un imputato; è sufficiente una denuncia anonima a mettere in funzione il giudice inquisitore. Non serve un organo pubblico o privato di accusa, né la polizia. 1. INIZIATIVA DI PARTE Il giudice non può procedere d'ufficio nel determinare l'oggetto della controversia, perché altrimenti si dimostrerebbe parziale. L'iniziativa del processo penale deve spettare soltanto alle parti. In origine il potere di azione spettava ad un accusatore privato, e cioè alla persona offesa dal reato o a qualunque cittadino. Successivamente il potere è stato esercitato da un organo pubblico designato in base ad elezioni o di un apposito procedimento giurisdizionale. Né il potere esecutivo, né il potere legislativo devono poter inibire il potere di azione. ! 2 6. Sistema processuale e regime politico: Il regime politico totalitario trova nel sistema processuale inquisitorio lo strumento di potere più efficace. Attraverso giudici parziali il potere politico può far iniziare, o anche fermare, il processo penale; può far assumere o meno le prove; può favorire o meno gli appartenenti alla propria fazione. La mancanza del contraddittorio è uno strumento efficace per realizzare ogni arbitrio e per creare una "verità di Stato". Viceversa, un processo di tipo accusatorio è connaturale ad un regime politico garantista. Solo al potere esecutivo spetta di indicare quale è l'interesse pubblico da perseguire. Il giudice non deve porsi questo problema; deve soltanto accertare se l'accusa ha dimostrato che l'imputato è colpevole al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Se il giudice si dimostra parziale, le parti devono avere il potere di ricusarlo; anzi, deve essere consentito di dimostrare che il singolo magistrato o giudice popolare non è in condizioni tali da "apparire" imparziale. Gli strumenti, che tendono a ridurre gli arbitrii sono la separazione delle funzioni processuali di accusa, difesa e giudizio; la distinzione tra il potere di direzione del dibattimento e il potere di decidere sull'accusa; la parità tra i poteri delle parti in tema di prova. Nel sistema accusatorio la pubblicità svolge la funzione di permettere all'opinione pubblica di verificare se la Giustizia è amministrata in modo corretto e se i diritti della persona umana sono rispettati. Il giudice deve poter accertare l'esistenza di un fatto, anche se ciò è "sgradito" al potere politico o all'opinione pubblica. 8. MOLTEPLICITÀ DELLE IMPUGNAZIONI Il regime totalitario dà ampi poteri al giudice inquisitore; nel momento in cui egli li esercita, non può essere controllato dalle parti. Una volta che è stata pronunciata la sentenza, il regime permette che le parti (il difensore dell'imputato e l'avvocato del re) possano presentare impugnazione, sulla quale deve decidere un giudice superiore che è dotato dei medesimi poteri inquisitori che sono concessi al primo giudice. La diffidenza nei confronti dei giudici-funzionari dello Stato porta il regime totalitario ad abbondare nelle impugnazioni, le quali hanno il "vantaggio" di avvicinare il processo all'organo che è titolare del potere politico (il sovrano, il dittatore o il partito unico). Infatti la sentenza pronunciata dal giudice di appello può, a sua volta, essere impugnata presso il consiglio del re o altro analogo organo al vertice, che è facilmente influenzabile dal titolare del potere politico. In definitiva, il processo inquisitorio permette di accertare quella che può essere definita la "verità di Stato". 8. LIMITI ALLE IMPUGNAZIONI Nel sistema accusatorio i controlli funzionano nel momento stesso in cui si forma la prova davanti al giudice nell'esame incrociato che sfrutta "l'effetto sorpresa"; se l'esame viene compiuto una seconda volta sulle medesime domande, ha scarse possibilità di essere utile. Le impugnazioni, che pure esistono nel sistema accusatorio, hanno soprattutto lo scopo di controllare se in primi grado il giudice ha osservato i diritti delle parti e se ha motivato la decisione in modo ragionevole. Ma soprattutto il giudice che decide sull'impugnazione deve essere indipendente ed imparziale alla pari del giudice di primo grado. Occorre evitare che sia influenzabile da qualsiasi potere, sia esso politico, economico, sindacale o dei mass media. E' caratterizzato dal pr. di autorità I fatti si accertano tanto meglio quanti più poteri si attribuiscono all'inquisitore E' caratterizzato dal pr. dialettico: La verità si accerta tanto meglio quanto più spazio si dà al confronto delle tesi contrapposte (accusa vs difesa) Si registra il cumulo delle funzioni processuali: il giudice è inquisitore, accusatore e difensore Si registra la separazione delle funzioni processuali tra accusa, difesa e giudice, il quale deve essere imparziale E' il modello prevalso nella storia. Il modello più puro era quello della Francia antecedente alla rivoluzione del 1789; si avvicinava molto ad un modello puro quello italiano (art. 299 CPP 1930: il giudice ha l'obbligo di compiere prontamente TUTTI quegli atti che appaiono necessari per l'accertamento della verità.") Roma – Monarchia Roma – Impero 1478 Inquisizione Spagnola Evoca il concetto di garanzia ed i modelli democratici: Roma Repubblicana o Inghilterra del 1600 1215 Inghilterra (Magna Charta Libertatum) Democrazia Ateniese ! 5 7. Sistema processuale ed efficacia: Con efficacia si intende il grado di raggiungimento dell'obiettivo, che potrebbe essere la difesa della società dal crimine. Il sistema inquisitorio utilizza una sorta di terrorismo di stato che da un lato debella le più agguerrite bande criminali ma dall'altro comporta un alto rischio di condanna di un innocente. Ma con efficacia si può anche intendere il raggiungimento dell'obiettivo di predisporre un sistema di regolazione idonea a tutelare la libertà politica e la persona umana, e qui il sistema accusatorio si mostra più rispettoso e meno manipolabile dal potere politico. Al sistema accusatorio però si critica l'eccessiva combattività che può arrivare sino al linciaggio dei testimoni anche perchè gli ampi poteri di cui gode la pubblica accusa non permettono al giudice di effettuare un controllo efficace soprattutto nei momenti anteriori al dibattimento. Qui però gli studiosi criticano il modello accusatorio c.d. puro, ma in realtà esistono anche altre versioni più temperate. A questa evoluzione non è estraneo il modello italiano che dopo aver accolto un modello accusatorio di tipo quasi puro nel 1988 ha dovuto apportare diverse modifiche. 8. Cenni storici sul processo penale: a.Il diritto romano: nell'antico diritto romano il re disponeva di un incondizionato potere di coercizione e giurisdizione per la repressione dei reati più gravi che mettevano in pericolo la vita della civitas e l'istituto monarchico. Egli stesso procedeva a far arrestare l'autore dei reati, a stabilire la sanzione (sacertas) e a far eseguire la pena di morte. Co l'avvento della Repubblica, la repressione dei rati era affidata al popolo, riunito nelle assemblee comiziali; il potere di coercitio attribuito ai magistrati superiore era temperato dall'istituto della provocatio ad populum la quale attribuiva la perseguito la facoltà di ricorrere all'assemblea. Il processo popolare cedette il posto a tribunali stabili detti queastiones perpetuae istituiti per legge e presieduti da un magistrato che progressivamente assorbirono il processo davanti ai comizi per poi diventare l'organo ordinario della repressione criminale dell'ultima età repubblicana e dei primi tempi dell’impero. Il processo davanti alle quaestiones perpetuae era puramente accusatorio, in quanto l'iniziativa spettava ad ogni privato cittadino, come rappresentante dell'interesse pubblico ma se i postulanti per il medesimo fatto criminoso erano più di uno si svolgeva una procedura preliminare detta divinatio diretta alla scelta dell'accusatore da preferire, poi deciso dalla giuria. I giurati erano estratti a sorte nella classe dei senatori e dei cavalieri, l'accusatore ed i difensore avevano il potere di ricusare i singoli candidati, finchè si perveniva ad un collegio sul quale erano tutti concordi. L'accusatore prescelto formulava l'imputazione detta nominis delatio ed il magistrato la raccoglieva in un processo verbale; quindi autorizzava l'accusatore a procedere alla raccolta delle prove con poteri coercitivi (imperium) e fissava la data del dibattimento. Nell'udienza dibattimentale, davanti ad una differente giuria, prendevano la parola per primo l'accusatore e poi il difensore e poi si procedeva all'escussione dei testimoni i quali prestavano giuramento davanti al magistrato, venivano interrogati dalla parte che li aveva chiamati a deporre e poi dall'altra. Seguivano le orationes dell'accusa e della difesa e poi la decisione del giudice, la quale non indicava la pena perchè questa era stabilita dalla legge e contro la decisione non era ammesso appello. Ma il sistema delle quaestiones perpetuae subì il declino con la nascita del procedimento cognitio extra ordinem dove la questione era affidata ad un delegato dell'imperatore che cumulava il potere di accusare, raccogliere le prove e giudicare; l'imperatore si riservava il potere di decidere sull'impugnazione presentata dal cittadino il quale "si appellava a Cesare”. b.Il periodo medioevale: nei primitivi regni barbarici il processo penale era considerato un fenomeno irrazionale dove si manifestavano credenze magiche; il giudizio era basato sull'ordalia che era una prova fisica subita dall'accusato: se la superava era innocente. Con il ritorno della civiltà vennero recepiti gli insegnamenti del diritto romano; nel diritto penale, in relazione ai delitti pubblici, venne ristabilita la cognitio extra ordinem che da quel periodo venne chiamata inquisizione. 9. Il processo penale nello stato assoluto: (cenni) Prendiamo come esempio il processo penale nella francia pre rivoluzionaria, perchè ha quasi tutte le caratteristiche del modello inquisitorio; la ordonnance criminelle del 1670 innovò il procedimento penale dove il l'arbitrio del giudice era illimitato, l'imputato era lasciato a se stesso, posto tra l'alternativa di confessare (condanna sicura) e negare la reità (prolungamento delle torture), i testimoni si limitavano a confermare le precedenti dichiarazioni, senza che venisse verificata la loro attendibilità e la decisione si fondava sulla prova legale e quindi su un meccanismo predeterminato non modificabile dal giudice stesso. Era un sistema che non tutelava nè la Giustizia, nè il diritto di difesa, nè l'imputato. Questo tipo di procedimento fu criticato sia da Voltaire che da Beccaria. 10. Il processo penale inglese: Gli storici sono concordi nel ritenere che il processo inglese abbia fondato i più importanti principi garantistici dello stato costituzionale e del processo accusatorio. In base alla Magna Charta libertatum «nessun uomo libero (poteva essere) arrestato o messo in prigione se non a seguito di un giudizio dei suoi pari, reso nella forma legale secondo il diritto del paese». Gli istituti su cui si fondava il processo penale inglese erano le giuria ed i testimoni e seguiva le cadenze del processo romano del periodo della repubblica. Una prima giuria (Grand Jury) decideva se l'imputato ! 6 doveva essere rinviato a giudizio mentre una seconda giuria assisteva al dibattimento e decideva, con decreto non motivato, se l'imputato era colpevole. Se veniva accertata la reità dell'imputato, il giudice togato stabiliva la pena. Le garanzie a favore dell'imputato furono strappate al sovrano dal parlamento dopo la rivoluzione di Cromwell. Ancora prima del 1600 per i crimini più gravi aveva caratteristiche inquisitorie. Il riconoscimento del privilegio contro l'autoincriminazione e il diritto a confrontarsi con l’accusatore si sono avuti negli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione. I due principi trovano la loro matrice filosofica nell'affermazione del diritto naturale. L’occasione per la loro affermazione furono due casi giudiziari dove questi diritti furono palesemente negati. Il primo ad essere affermato fu il diritto al confronto con l'accusatore: Sir Walter Raleigh inquisito su ordine del re chiese invano di essere messo a confronto con il suo accusatore Lord Cobham, che aveva deposto in segreto e le cui dichiarazioni erano state prodotte per iscritto nel processo. Ma la Star Chamber respinse la richiesta e condannò a morte Walter Raleigh e successivamente si venne a sapere che l'accusatore aveva ottenuto le dichiarazioni sotto tortura e poi le aveva ritrattate. Da quel momento il right of confrontation ha iniziato ad affermarsi. L'affermazione del diritto al silenzio è di poco posteriore: nel 1634 l'imputato Lilburn sostenne di aver il diritto di non rispondere a domande autoincriminanti ma la richiesta venne respinta. Il Parlamento nel 1641 dichiarò illegale il provvedimento e eliminò l'organo giudiziario che aveva negato il diritto, e cioè la Stare Chamber. Dopo la Rivoluzione e l'incoronazione del nuovo re, nel 1679 il Parlamento approvò l'Habeas Corpus Act che dava al giudice la possibilità di valutare la legittimità dello stato di detenzione di qualsiasi persona e nel 1689 fu approvato il Bill of Rights. Da allora la prassi giudiziaria ha perfezionato poco alla volta quel formidabile meccanismo processuale che è l'esame incrociato. 11. La rivoluzione francese e l'evoluzione del processo penale: Il periodo che va dal 1789 al 1808 è molto interessante, sia dal punto di vista costituzionale in quanto furono sperimentate le prime versioni di regime democratico (assembleare, totalitario, garantista) ma anche dal punto di vista processuale penale in quanto ci fu l'incontro tra il sistema inquisitorio e accusatorio e sorse quel sistema che poi fu definito misto per eccellenza. Le leggi del 1791 e delle fasi del terrore, del direttorio e dell'impero dettero vita a istituti fondamentali, che da allora costituiscono punto di riferimento per i sistemi processuali. Nella prima fase della rivoluzione, l’assemblea nazionale non ha voluto adottare il bilanciamento dei poteri ne quello statunitense nella netta separazione degli stessi. Il legislatore francese ha voluto perseguire l’unico scopo di contrapporre al re e sai suoi ministri organi che derivassero il loro potere da un’investitura popolare. Per quanto riguarda il processo penale il legislatore è stato influenzato dal processo penale inglese. Il processo penale risultava diviso in tre fasi: un informazione segreta condotta dal giudice di pace; un’udienza segreta davanti al giuri d’accusa; un’udienza pubblica davanti al giuri del giudizio. Nella prima fase del processo, il giudice di pace agiva d'ufficio o su denuncia di un cittadino. Accertato il compimento di un grave reato, egli sentiva i testimoni, interrogava l'imputato e poi poteva arrestarlo. Poi trasmetteva gli elementi raccolti al direttore del jury d'accusa. Nella seconda fase del procedimento, il direttore del jury sentiva nuovamente i testimoni e svolgeva una vera e propria istruzione. A lui spettava il potere di predisporre l'atto di accusa e di convocare il jury. Davanti a questo l'udienza si svolgeva oralmente ed infatti il jury aveva la funzione, garantita dalla costituzione del 1791, di controllare la necessità del rinvio a giudizio. Non era presente nè l'imputato, nè il suo difensore nè il pubblico ministero; otto giurati decidevano se rinviare a giudizio l'imputato o se doveva pronunciarsi il non luogo a procedere a maggioranza. La terza fase consisteva in un dibattimento pubblico di fronte ad una giuria composta da 12 cittadini estratti a sorte; la direzione dl dibattimento spettava ad un organo (il tribunal criminel) composto da 3 giudici elettivi i quali dovevano decidere la quantità della pena se l'imputato era ritenuto colpevole. Essendo il dibattimento pubblico, e basandosi sul principio di oralità, non potevano utilizzarsi i verbali di atti raccolti in precedenza. Per primo l'accusatore esponeva l'imputazione e poi chiamava i testimoni prima a carico e poi a discarico dell'imputato. L'accusato ed il suo difensore avevano la parola per ultimi. Il presidente riassumeva le argomentazione delle parti e poneva per iscritto le domande ad i giurati i quali si riunivano in camera di consiglio alla presenza di un giudice e rispondevano a tali domande. La decisione si fondava sull'intima convinzione dei giurati. Accertata la reità i giudici elettivi in pubblica udienza irrogavano la pena prevista dalla legge. Nel suo insieme il sistema era sufficientemente garantista: ad un'istruzione segreta seguiva un dibattimento in contraddittorio; vi era un forte separazione delle fasi anche se c'era carenza nella separazione delle funzioni processuali. Il principale difetto stava nell'ordinamento del pubblico ministero elettivo il quale era un organo locale carente di coordinamento (con l'avvento del consolato però il pubblico ministero fu sostituito da un rappresentante del potere esecutivo presso il potere giudiziario che svolgeva le funzioni del pubblico ministero). ! 7 1913. È stata ripristinata la partecipazione del difensore nell’istruzione; è stata migliorata la disciplina delle mortificazioni; è stata riproposta la categoria delle nullità risanabili; sono stati limitati i casi di obbligatorietà del mandato di cattura; é stato disciplinato il fermo di polizia giudiziaria e si è reintrodotto l'istituto della scarcerazione automatica per decorrenza dei termini. Nonostante tutte queste modifiche, sono state le sentenze della corte costituzionale ad essere più incisive, perchè esse hanno costretto il potere politico, alquanto riluttante, ad introdurre nuove leggi allo scopo di colmare i vuoti lasciati dalle sue sentenze. L'effetto è stato quello di pervenire ad un sistema misto di tipo prevalentemente accusatorio, infatti nonostante le varie innovazioni non fu toccato l'aspetto del cumulo delle funzioni processuali: da un lato il giudice istruttore procedeva d'ufficio alla ricerca delle prove, dall'altro il pubblico ministero poteva condurre una sua istruzione, detta sommaria, con gli stesi poteri coercitivi ed istruttori del giudice, il giudice del dibattimento inoltre poteva utilizzare tutti i verbali degli atti raccolti nelle fasi anteriori. 3. I lavori preparatori del nuovo codice di procedura penale: Dal 1962 iniziò a manifestarsi l'intenzione di riformare la struttura del processo penale, tant'è che il ministro della giustizia insediò una commissione per la riforma presieduta da Carnelutti, il quale poi presentò autonomamente una bozza per la riforma dove ipotizzava un processo accusatorio puro, basato sull'oralità e sulla netta separazione delle funzioni processuali, senza alcuna previsione di regole per l'esame incrociato. Dal 1963 iniziò un lungo cammino, che partì dalla legge delega per la riforma del CPP del governo leone per arrivare al Progetto Preliminare di riforma della commissione Pisapia nel 1978. Il difetto della legge delega stava nel contrasto tra il proposito di attuare il modello accusatorio e il mantenimento di istituti tipici del sistema misto, come l'ibrida figura del giudice istruttore che cumulava i poteri dell'accusa nella ricerca delle prove o il principio assoluto della centralità del dibattimento anche quando era possibili utilizzare riti abbreviati. Ma con l'emergenza terroristica interna il Parlamento abbandonò ogni progetto. Fu poi di nuovo a partire del 1980 che si riaprì il dibattito in Parlamento, che si concluse con l'approvazione della seconda legge delega 81/87. Nel 1988 il governo approvò il testo del nuovo codice, che entrò in vigore nel 1989. 4. Le linee generali del nuovo processo penale: La separazione delle funzioni e delle fasi del procedimento: Il nuovo processo penale è fondato su tre principi fondamentali: 1) il principio della separazione delle funzioni; 2) il principio della netta ripartizione delle fasi processuali; 3) il principio della semplificazione del procedimento. Il principio della separazione delle funzioni svolge un ruolo di garanzia simile a quello del principio della separazione dei poteri dello Stato; esso impone che il giudice abbia soltanto il compito di dirigere l'assunzione delle prove e di decidere senza cumulare in sé il potere di svolgere indagini, al contrario il pubblico ministero si limita a ricercare le prove e non può cumulare in sé il potere di ! 10 assumerle. In tal modo viene assicurata una maggiore dialettica tra accusa e difesa, equilibrata dal controllo del giudice, che si trova in una posizione di imparzialità. Questi è in una posizione di imparzialità perché il suo compito non è quello di indagare, bensì di decidere sulla base delle richieste formulate dalle parti. Il principio della netta ripartizione in fasi fa si che il procedimento penale veda susseguirsi le indagini preliminari svolte dal pubblico ministero, l'udienza preliminare ed il dibattimento. Innanzitutto si vuole che la prova utilizzabile nella decisione in dibattimento sia quella che viene assunta nel pieno contraddittorio delle parti, per cui di regola la prova assunta prima del dibattimento è inutilizzabile; in secondo luogo si vuole tutelare il diritto dell'imputato a che un giudice imparziale controlli la necessità del rinvio a giudizio e quindi la fondatezza dell'accusa, in quanto il rinvio a giudizio, a causa della forte pubblicità che lo caratterizza, costituisce una sofferenza per l'imputato innocente, anche in ragione delle spese processuali, per questo è predisposta un'udienza preliminare nella quale il giudice esamina gli atti raccolti dal pubblico ministero e decide se rinviare a dibattimento l'imputato o pronunciare una sentenza di non luogo a procedere. Le indagini preliminari: qui il pubblico ministero svolge funzioni investigative, che consistono nella ricerca di elementi di prova e nella identificazione del colpevole. Può disporre perquisizioni, sequestri ed accertamenti tecnici ed ha il potere di ordinare il fermo di un soggetto gravemente indiziato quando c'è pericolo di fuga. Tutte le altre misure coercitive nei confronti dell'imputato (custodia in carcere, arresto domiciliare, misure obbligatorie o interdittive) possono essere disposte soltanto dal giudice, su richiesta del pubblico ministero. Le funzioni di garanzia sono svolte da un nuovo organo, il giudice per le indagini preliminari, il quale non ha poteri di iniziativa probatoria ma solo il potere di decidere sulle richieste delle parti in quanto differisce dal giudice istruttore del codice del 1930. In questa fase il pubblico ministero non ha il potere di assumere le prove direttamente utilizzabili per la decisione finale e quando questo si prospetta necessario il pubblico ministero o l'indagato ne possono fare domanda al giudice. Se questi la accoglie, le prove sono assunte dinanzi a lui in un'udienza detta incidente probatorio e possono essere poi utilizzate ai fini della decisione. L'incidente probatorio è ammesso, ad esempio, quando è necessario per raccogliere la deposizione di un testimone che è sottoposto a minaccia o che si trova in gravi condizioni di salute. La richiesta di archiviazione. Quando sono concluse le indagini, il pubblico ministero deve scegliere entro un termine prefissato se chiedere al giudice per le indagini preliminari il rinvio a giudizio o l'archiviazione. Il pubblico ministero richiede l'archiviazione se la notizia di reato è infondata. In applicazione del principio costituzionale (art. 112) in base al quale l'azione penale è obbligatoria, il pubblico ministero è tenuto a valutare se «gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari» sono «idonei a sostenere l'accusa in giudizio»; se non li ritiene idonei, deve chiedere l'archiviazione al giudice per le indagini preliminari, il quale, se accoglie la richiesta del pubblico ministero, dispone l'archiviazione. In caso contrario si deve svolgere un'udienza in camera di consiglio alla quale possono partecipare il pubblico ministero e i difensori della persona offesa e dell'indagato. Il giudice svolge una penetrante funzione di controllo al termine della quale ha 3 possibilità: dispone l'archiviazione se ritiene che la notizia sia infondata, dispone ulteriori indagini al pubblico ministero se le ritiene necessarie, ordina al pubblico ministero di formulare l'imputazione e fissa la data dell'udienza preliminare (c.d. imputazione coatta) se ritiene che gli elementi raccolti siano già sufficienti a sostenere l'accusa. La richiesta di rinvio a giudizio. Nel caso in cui il pubblico ministero, terminate le indagini, intenda chiedere il rinvio a giudizio, egli è obbligato a depositare il fascicolo e a notificare all'indagato e al suo difensore un «avviso di conclusione delle indagini» (art. 415-bis, introdotto nel 1999). Tale atto contiene la descrizione del reato addebitato e l'invito all'indagato ad esercitare determinati diritti. Quindi il pubblico ministero, se non intende chiedere l'archiviazione, presenta richiesta di rinvio a giudizio e formula l'imputazione. L'udienza preliminare. Il giudice fissa la data dell'udienza preliminare, che si svolge in contraddittorio ma senza la presenza del pubblico; al giudice spetta di verificare se gli elementi raccolti siano idonei a sostenere l'accusa in giudizio e qualora non sussistano il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere; Viceversa, se esistono elementi idonei a sostenere l'accusa in dibattimento, il giudice emana il decreto che dispone il giudizio e suddivide l'originario fascicolo delle indagini in due distinti fascicoli. Si rispetta il principio per cui il giudice del dibattimento decida sulla base delle sole prove raccolte in contraddittorio e non sia condizionato da quelle raccolte in segreto: un primo fascicolo "per il dibattimento" contiene i verbali degli atti assunti in contraddittorio e i verbali degli atti non ripetibili assunti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, che possono essere utilizzati ai fini della decisione; un secondo fascicolo " del pubblico ministero" ha un contenuto residuale, contiene i verbali degli atti assunti dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria e dal difensore, è conosciuto solo dalle parti e non dal giudice che non può utilizzare tali atti, salvo i casi in sui siano utilizzabili come prova del fatto rappresentato. Il dibattimento: il principio del contraddittorio è qui garantito attraverso l'istituto dell'esame incrociato; le domande sono poste direttamente dal pubblico ministero e dai difensori; il presidente del collegio giudicante ha il potere di ammetterle o meno. Il presidente può intervenire per assicurare "la lealtà dell'esame e la correttezza delle contestazioni"; può rivolgere direttamente domande e perfino indicare "temi di prova nuovi o più ampi" che siano utili alla completezza dell'esame. Quando è terminata l'assunzione delle prove richieste dalle parti, il giudice può ordinare anche d'ufficio che siano assunti nuovi mezzi di prova. ! 11 I procedimenti semplificati: Il terzo principio, che sta alla base del nuovo codice, consiste nella semplificazione del procedimento. Lo svolgimento ordinario del processo penale impone ampie garanzie e richiede tempi lunghi, specialmente nella fase dibattimentale. Il nuovo codice ha previsto sei riti semplificati: 1) L'imputato si può accordare con il pubblico ministero sulla specie e sulla misura di pena da applicare (c.d. patteggiamento); l'accordo tiene conto della possibilità, prevista dalla legge, di ridurre la pena fino ad un terzo. Prima il massimo di sanzione, che poteva essere patteggiata era la detenzione fino a due anni, a con la legge n. 134 del 2003 il massimo di pena patteggiabile è stato portato a cinque anni; non vi è alcun limite per la pena pecuniaria. Il giudice ha il potere di controllare la correttezza della qualificazione giuridica del fatto e la congruità della pena. 2) L'imputato può chiedere che il processo sia definito nell'udienza preliminare sulla base degli atti raccolti nel fascicolo delle indagini (giudizio abbreviato). Nell'udienza preliminare il giudice può pronunciare una sentenza di proscioglimento o di condanna. In quest'ultimo caso vi è un incentivo per l'imputato: la pena è ridotta di un terzo. 3) Se la prova è evidente il pubblico ministero può chiedere al giudice per le indagini preliminari il rinvio a giudizio senza udienza preliminare (giudizio immediato). Il giudice, se respinge la richiesta, restituisce gli atti al pubblico ministero; se la accoglie, ordina il rinvio a giudizio. Entro quindici giorni dalla notificazione della citazione, l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento. Se l'imputato non presenta richiesta, ha luogo il dibattimento. 4) Dopo che il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio, l'imputato può chiedere al giudice di essere rinviato a dibattimento senza udienza preliminare (giudizio immediato). In tal caso il giudice è obbligato a pronunciare il decreto che dispone il giudizio. 5) Quando una persona è arrestata in flagranza o quando l'indagato ha confessato nel corso dell'interrogatorio, il pubblico ministero può condurlo direttamente davanti al giudice in dibattimento (giudizio direttissimo). 6) Per i reati meno gravi il pubblico ministero può presentare al giudice per le indagini preliminari richiesta motivata di emissione di un decreto penale di condanna ad una pena pecuniaria (procedimento per decreto). Il pubblico ministero chiede l'applicazione di una pena diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale. Il giudice può accogliere la richiesta o respingerla, restituendo gli atti alla pubblica accusa. L'imputato può proporre opposizione chiedendo lo svolgimento del dibattimento o, in alternativa, il patteggiamento o il giudizio abbreviato. 5. Le modifiche successive al 1989: Con il nuovo codice di procedura penale, promulgato il 24 ottobre 1988 ed entrato in vigore un anno dopo, si è attuato in Italia il passaggio dal sistema misto a quello accusatorio, con conseguenti problemi di assestamento. La fase delle indagini preliminari è stata sguarnita della garanzia del contraddittorio e in essa si è impedito l'esercizio del diritto alla prova sul presupposto che i risultati, raccolti in tale fase, non sarebbero stati utilizzabili perla decisione finale. In definitiva, si è accolta una visione distorta del sistema accusatorio, che viceversa è basato sulla separazione delle funzioni processuali e sulla presenza di controlli anche nelle fasi anteriori al dibattimento. Fin dall'inizio la carenza di personale, di uffici e di mezzi ha condizionato negativamente l'avvio della riforma; si sono manifestati poi problemi di adattamento degli operatori ad una logica processuale che è completamente diversa da quella accolta dal precedente codice e che è basata sul principio dialettico. Ad esempio nel codice attuale non si afferma più che il verbale è fidefacente fino a querela di falso; la normale valutazione di credibilità e di attendibilità riguarda anche la dichiarazione resa dall'ufficiale di polizia giudiziaria redigente. Viceversa nel codice previgente tale soggetto si limitava di regola a "confermare" in dibattimento la precedente dichiarazione, che gli veniva letta. L’ articolo 7 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 aveva conferito al Governo l'ulteriore delega ad emanare, entro tre anni dall'entrata in vigore del codice, disposizioni integrative e correttive nel rispetto dei criteri direttivi fissati e su conforme parere di una commissione parlamentare. Il Governo ha utilizzato tale strumento in modo eccessivamente cauto; la situazione è diventata esplosiva tra il 1991 ed i primi mesi del 1992, a causa del forte incremento dei delitti di mafia. La carenza di iniziativa del Governo e l'inerzia del Parlamento sono state superate dalla Corte costituzionale che ha iniziato a dichiarare illegittime, perché contrarie al principio di ragionevolezza, alcune disposizioni del codice ed i relativi criteri direttivi contenuti nella legge delega (n. 18, 31 e 76). Le declaratorie di incostituzionalità, insieme alla situazione di emergenza provocata dagli omicidi dei magistrati Livatino (1991), Falcone e Borsellino (1992), hanno indotto il Governo a modificare alcuni punti fondamentali della disciplina del processo penale (decreto legge n. 306 dell'8 giugno 1992). Il testo originario del codice limitava in modo eccessivo la possibilità di utilizzare, ai fini della decisione, i verbali delle dichiarazioni rese in segreto prima del dibattimento. Il legislatore con la legge di conversione n. 356 del 1992 ha ecceduto nel senso opposto, estendendone l'utilizzabilità. Lo stesso orientamento era stato fatto proprio dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 254 e 255 del 1992. Di conseguenza, è risultato leso il principio del contraddittorio, che costituisce il fulcro del sistema accusatorio. Un parziale ritorno alla tutela del contraddittorio si è avuto, per la fase anteriore al dibattimento, con la legge 8 agosto 1995, n. 332 e, per quella dibattimentale, con la legge 7 agosto 1997, n. 267. In particolare, la legge n. 332 del 1995 ha teso a ripristinare alcuni aspetti della separazione delle funzioni prima del dibattimento. La legge, da un lato, ha aumentato i poteri di controllo spettanti al giudice per le indagini preliminari ! 12 interprete «se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo». A differenza di quanto previsto dalla Convenzione europea, la norma non reca l'espressione «gratuitamente»; la norma deve essere intesa come se si riferisse genericamente al "procedimento". Il principio del contraddittorio. È affermato nei commi 3 e 4 dell'art. 111 Cost., in relazione alla materia della prova. Il principio è utilizzato in senso oggettivo e in senso soggettivo. Il contraddittorio in senso oggettivo. Si tratta del contraddittorio «nella formazione della prova». Il contraddittorio è così consacrato come metodo di conoscenza. Una prova che sia attendibile non si ottiene in segreto con pressioni unilaterali, bensì in modo dialettico; lo strumento al quale si fa implicito riferimento è l'esame incrociato. La novità, rispetto al passato, è che il principio non è affermato in maniera assoluta, ma soffre di eccezioni, poiché viene bilanciato con altre esigenze ritenute prevalenti in determinati casi. Infatti il comma 5 afferma: «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato, per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». Il contraddittorio in senso soggettivo. Altri enunciati, viceversa, accolgono un concetto differente di contraddittorio, nella sua accezione "soggettiva". Il terzo comma, nella parte centrale, garantisce all'imputato il diritto di «interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». Un’altra norma, nella quale è recepito il contraddittorio in senso soggettivo, è l'art. 111, comma 4, a mente del quale «la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore». La clausola effettua un bilanciamento tra due diritti di difesa: il diritto dell'accusatore e quello dell'accusato. Il diritto a confrontarsi trova la sua sanzione attraverso l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio. 7. L'attuazione di nuovi principi: L'entrata in vigore dei principi del giusto processo ha imposto al legislatore ordinario di predisporre in tempi brevi una modifica del sistema probatorio: la legge 63/2001 cerca infatti di dare attuazione al nuovo art.111 cost operando su due fronti. Per un verso è intervenuto sulla disciplina delle qualifiche dei dichiaranti e ha previsto una riduzione dell'area del diritto al silenzio; per un altro verso ha modificato la disciplina in materia delle dichiarazioni raccolte unilateralmente nel corso delle indagini e ha affermato che esse sono di regola inutilizzabili in dibattimento come prova dei fatti. Comunque la riforma non pare in piena sintonia con l'art.111: infatti sul fronte della riduzione del diritto al silenzio esiste ancora una specie di zona franca dove alcuni dichiaranti possono continuare a tacere o a mentire davanti al giudice anche sul fatto altrui, vanificando il diritto dell'imputato a confrontarsi con l'accusatore; invece sul versante dell'inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni è stata accolta una soluzione radicale che può talvolta addiritttura compromettere il fine stesso del processo penale. Questa riforma comunque appare più che altro come una tappa intermedia per il raggiungimento della piena attuazione del giusto processo. Parte seconda PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE CAPITOLO 1 I SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE 1.Procedimento e processo a. Il processo penale sul fatto, sull'autore e sulle conseguenze. Il processo penale ha lo scopo di accertare: a) se una determinata persona ha commesso un reato; il processo penale ha lo scopo di accertare se tale fatto costituisce reato, e nel caso positivo applicare una sanzione a chi lo ha commesso b) quale è la personalità dell'autore del reato; c) quali sono le sanzioni che devono essergli applicate. b) L’accertamento della personalità dell’autore del reato è reso necessario dalla caratteristica che distingue la sanzione penale, questa si differenzia da quella civile e da quella amministrativa per il fatto di essere proporzionata alla “personalità” dell'autore del fatto illecito. Viceversa la sanzione civile è proporzionata al danno che deve essere risarcito; la sanzione amministrativa è proporzionata all'interesse pubblico che è stato leso. Soltanto la sanzione penale è proporzionata, oltre che alla gravità del bene offeso, anche alla personalità dell'autore del fatto (art. 133 c.p.). c) nell’applicare una sanzione; la sanzione penale oltre alla funzione “retributiva”, persegue una funzione “rieducativa” (tendente a favorire il reinserimento sociale del condannato), è indispensabile che un giudice accerti l'evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva. Tale accertamento serve al fine di valutare se e quali misure alternative alla sanzione detentiva siano applicabili. b. L'azione penale. “Procedimento” e “processo” non sono sinonimi. Il procedimento penale. Con tale espressione si indica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una provvedimento penale, ciascuno dei quali, fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo ed, è ! 15 esso stesso realizzato in adempimento di un dovere posto dal suo antecedente. In primo luogo, la legge prevede una “serie cronologicamente ordinata” di atti, nel senso che gli atti stessi possono essere compiuti validamente soltanto se si rispetta una determinata sequenza temporale. In secondo luogo, il compimento di un atto del procedimento fa sorgere in un altro soggetto il "dovere" di compiere un atto successivo, fino alla decisione. Quest'ultima potrà essere una sentenza di condanna o di proscioglimento, se viene percorsa l'estensione massima del procedimento; oppure, sarà un decreto (o un'ordinanza) di archiviazione, se il procedimento si arresta prima che venga formulata una imputazione. La sentenza di proscioglimento o di condanna, pronunciata in dibattimento, diventa irrevocabile quando non è più ammessa un’impugnazione ordinaria perché è inutilmente decorso il termine per impugnare la sentenza o perché tutte le impugnazioni ordinarie sono state esperite. Il procedimento penale è diviso in tre fasi: le indagini preliminari, l'udienza preliminare ed il giudizio. Il processo penale. L'espressione indica una porzione del procedimento penale. Fanno parte del “processo” le fasi dell'udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale del processo corrisponde all'esercizio dell'azione penale; il momento finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile. L'azione penale. La nozione è correlata a quella di processo penale. È la serie cronologicamente ordinata e necessitata di atti che ha come atto iniziale l’azione penale. Essa è la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull'imputazione. Ai sensi dell'art. 405, comma 1 c.p.p., nel procedimento ordinario il pubblico ministero esercita l'azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell'imputato. La richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell'imputazione. Nei procedimenti speciali, che eliminano l'udienza preliminare, l'azione penale è esercitata quando il pubblico ministero formula l'imputazione nell'atto che instaura il singolo procedimento: ad esempio, nel giudizio direttissimo il pubblico ministero contesta l'imputazione all'imputato che sia stato condotto direttamente in udienza (art. 451, comma 4). L'imputazione. Consiste nell'addebito della responsabilità di un fatto storico di reato. Elementi dell'imputazione sono: 1) l'enunciazione del fatto storico di reato addebitato ad una persona; 2) l'indicazione degli articoli di legge che si ritiene siano stati violati; 3) le generalità della persona alla quale è addebitato il reato (art. 417, comma 1). L'esercizio dell'azione penale determina due effetti: 1) pone al giudice l'obbligo di decidere su di un determinato fatto storico; 2) fissa l'oggetto del processo, e cioè impone al giudice il divieto di decidere su di un fatto storico differente da quello precisato nell'imputazione (salve le eccezioni descritte negli artt. 516-521). Nel processo ordinario, l'azione penale è esercitata quando il giudice è chiamato a decidere nell'udienza preliminare sulla richiesta di rinvio a giudizio. Nei procedimenti speciali che omettono l'udienza preliminare, l'azione penale è esercitata con quell'atto introduttivo del singolo procedimento, con il quale è precisata l'imputazione. Non ha la natura di imputazione l'addebito provvisorio che è formulato dal pubblico ministero nel corso delle indagini; ad esempio la contestazione operata che il pubblico ministero fa all’indagato del fatto che gli viene addebitato, ex art.65, comma 1, ha solo la funzione di mettere in grado l'indagato di esercitare il diritto di difesa. c. I soggetti e le parti. Il libro primo del codice ricomprende tra i soggetti del procedimento penale il giudice, il pubblico ministero, la polizia giudiziaria, l'imputato, la parte civile, il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la persona offesa ed il difensore. I soggetti. Possono essere definiti "soggetti" coloro che sono titolari di poteri di iniziativa nel procedimento. Il compimento di un atto del procedimento da parte di un soggetto fa sorgere in altri soggetti il dovere di compiere un atto successivo. Non sono considerati “soggetti” i testimoni ed i periti, in quanto costoro non hanno poteri di iniziativa in relazione al procedimento. Essi rientrano nella più ampia categoria delle "persone" che partecipano al procedimento. Le parti. Sono parti il soggetto attivo e quello passivo dell'azione penale, che consiste nella formulazione dell'imputazione unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio o al compimento di un altro atto che instaura un procedimento speciale. Pertanto, si può definire parte colui che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all'imputazione e colui contro il quale tale decisione è chiesta. Con riferimento all'esercizio dell'azione penale, sono parti necessarie il pubblico ministero e l'imputato. Può essere parte, anche se eventuale, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, cioè colui che è tenuta al pagamento della pena pecuniaria in caso di insolvibilità dell’imputato (es. è civilmente obbligato l’ente giuridico qualora venga condannato colui che ne ha l’amministrazione se nel compiere il reato quest’ultimo ha violato gli obblighi inerenti alla sua qualità). Il civilmente obbligato è citato a richiesta del pubblico ministero o dell’imputato, ex art.89 c.p.p. in tal caso diventa parte nel processo penale: si tratta di una parte “eventuale”, in sua mancanza comunque il processo penale ha giuridica esistenza. L’azione civile di danno. Il danneggiato dal reato può esercitare l'azione civile tendente ad ottenere la condanna dell'imputato al risarcimento del danno derivante dal reato, ex artt. 185 c.p. e 76 c.p.p.; egli esercita l'azione civile costituendosi parte civile in un momento successivo a quello in cui il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale (art. 79). L'esercizio dell'azione civile in sede penale è eventuale, in quanto risulta subordinato ad una scelta facoltativa del danneggiato. In tal senso la parte civile è una "parte" poiché chiede al giudice una decisione in relazione all'imputazione; ed è una parte "eventuale" perché la sua esistenza deriva da una scelta facoltativa del danneggiato: in sua assenza il processo ha comunque giuridica esistenza. La parte civile può chiedere il risarcimento dei danni, oltre che contro l'imputato, anche contro il responsabile civile (ad es. il datore di lavoro è ! 16 responsabile civilmente per il danno che è stato arrecato dal proprio dipendente “nell'esercizio delle incombenze” a cui quest'ultimo è adibito). Qualora il responsabile civile sia citato o intervenga nel processo penale, costui diventa parte eventuale. A seguito della riforma introdotta dal d.l. n. 231 del 2001, il processo penale può avere come oggetto, oltre alla responsabilità civile per i danni derivanti dal reato, anche la responsabilità amministrativa dell'ente giuridico che deriva dagli illeciti penali commessi dai dirigenti dell'ente medesimo. Il procedimento per l'illecito amministrativo è riunito, di regola, al procedimento penale instaurato nei confronti dell'autore di quel reato da cui l'illecito amministrativo dell'ente dipende; quest’ultimo viene citato dal pubblico ministero, acquistando così la qualità di parte. 2. Il giudice a) Giudici ordinari, speciali Il termine "giurisdizione" può avere un duplice significato in quanto può riferirsi: 1) alla funzione dello Stato, che consiste nell'applicare la legge al caso concreto con forza cogente da parte di un giudice terzo; 2) ovvero all’organo che la svolge, per cui è quel potere dello stato che è impersonato da organi che hanno la caratteristica dell’indipendenza e dell’imparzialità. Il potere giurisdizionale è “diffuso” e cioè è frazionato in più organi ciascuno dei quali ha una competenza limitata. La competenza. È quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta dal singolo organo. Essa è individuata per approssimazioni che tengono conto della materia (il titolo di reato), territorio (il luogo in cui si è compiuto il reato), funzione che deve essere svolta in una determinata fase o grado del procedimento e della eventuale connessione con altri procedimenti. Sono organi giudiziari “ordinari” quelli che hanno una competenza generale a giudicare tutte le persone e che, inoltre, sono composti da magistrati ordinari, cioè facenti parte dell'ordinamento giudiziario ed ai quali la Costituzione garantisce l'indipendenza e l'autonomia (art. 104); godono delle garanzie di inamovibilità assicurate dall’art. 107 C.. Sono organi giudiziari “speciali” quelli che sono competenti a giudicare soltanto alcune persone e che inoltre sono composti da magistrati speciali, cioè non appartenenti all'ordinamento giudiziario, come i tribunali militari in tempo di pace. Le garanzie di indipendenza dei giudici speciali non sono previste direttamente dalla Costituzione, che rinvia la regolamentazione della materia alla legge ordinaria (art. 108, comma 2). I giudici penali ordinari. Sono giudici penali ordinari di primo grado il tribunale in composizione collegiale (tre magistrati di carriera, c.d. togati) o monocratica (un magistrato togato), la corte di assise (due magistrati togati e sei giudici popolari), il giudice di pace (un magistrato non togato) ed il tribunale per i minorenni (due magistrati togati e due esperti), il quale è un giudice ordinario specializzato con competenza sui reati commessi dai minori degli anni diciotto. Giudici ordinari d'appello sono la corte d'appello (tre magistrati togati), la corte d'assise d'appello (due magistrati togati e sei giudici popolari) e la sezione della corte d'appello per i minorenni (tre magistrati togati e due esperti). Vi è poi la corte di cassazione. Essa ha sede in Roma, è unica per tutto il territorio nazionale e davanti ad essa possono essere impugnate tutte le sentenze per motivi di legittimità. La corte può controllare se vi è stata inosservanza della legge e se il giudice inferiore ha motivato in modo corretto (art. 606), ma non può condurre un esame di merito, e cioè ad esempio non può valutare l'attendibilità delle dichiarazioni di un testimone. I giudici penali speciali. Giudici penali speciali sono i giudici militari e la corte costituzionale. I tribunali militari in tempo di pace sono competenti per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate. In grado di appello è competente la corte d'appello militare. Per il giudizio di legittimità è competente un giudice ordinario, cioè la corte di cassazione. La corte costituzionale, in seguito alla modifica operata dalla legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, è competente a giudicare i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione commessi dal presidente della repubblica (art. 90 Cost.); In tal caso, la composizione ordinaria della corte, di quindici giudici, è integrata con altri sedici (c.d. giudici aggregati). Giurisdizione. Il termine può essere utilizzato anche per indicare l'insieme delle regole che permettono di distinguere i procedimenti di competenza della magistratura ordinaria dai procedimenti di competenza della magistratura speciale; l'art. 28, lett. a, tratta del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale. ! 17 anni nel massimo purché non siano di competenza del giudice di pace. La perdita della garanzia della collegialità. La legge n. 479 del 1999 ha alimentato la competenza del giudice singolo da quattro a dieci anni di pena edittale nel massimo, con il pericolo che il giudice singolo, non adiuvato dai colleghi, non approfondisca i punti posti in discussione; egli, inoltre, ha un’esposizione sociale molto elevata, che lo potrebbe indurre, nei casi più scottanti, ad assumere una decisione “popolare”. La competenza funzionale. In dottrina si usa distinguere l'ulteriore nozione di competenza funzionale, che è la competenza a svolgere determinati procedimenti o particolari fasi o gradi di un procedimento o a compiere determinati atti. Ad esempio, nei procedimenti per reati di competenza della corte d'assise o del tribunale, gli atti giurisdizionali, che devono essere compiuti nella fase delle indagini preliminari, sono attribuiti alla competenza funzionale del giudice per le indagini preliminari incardinato presso il tribunale. d. La competenza per territorio. È determinata dal luogo nel quale il reato è stato consumato, locus commissi delicti, in quanto risulta più facile la raccolta delle prove. Sono previste alcune eccezioni; se si tratta di un fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione. Se si tratta di un reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone. Se si tratta di un delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto “diretto” a commettere il delitto. Le regole suppletive. L'art. 9 prevede alcune regole suppletive nei casi nei quali la competenza non può essere determinata in base alle regole generali. Inoltre, singole leggi speciali prevedono criteri di determinazione della competenza per territorio diversi dal luogo nel quale è commesso il reato. II procedimento nei confronti di un magistrato. Un’importante deroga alle norme ordinarie sulla competenza territoriale è prevista nei procedimenti in cui un magistrato (giudice o pubblico ministero) assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato, quando in base alle regole ordinarie tali procedimenti sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello nel quale il magistrato esercita le sue funzioni, ovvero le esercitava al momento del fatto. In base all'art. 11, per assicurare l'imparzialità dell'organo giudicante, la competenza è attribuita al giudice competente per materia e che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello individuato dalla tabella A annessa alla legge 2 dicembre 1998, n.420. Tale regola vale anche in caso di procedimenti connessi. e. La competenza per connessione - Riunione e separazione dei procedimenti. La connessione di procedimenti. La connessione è un criterio attributivo della competenza del giudice; essa non comporta necessariamente la riunione dei procedimenti. Vi è connessione di procedimenti di competenza del tribunale e della corte di assise in tre casi (art. 12): a) quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento (ad esempio, morte di una persona attribuita alternativamente o cumulativamente al feritore ed al medico che ha errato nel curarla); b) quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale di reati) ovvero con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso (reato continuato); ! 20 c) quando si procede per più reati, se gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri (ad es. falso commesso per occultare un reato di peculato). Quando vi è connessione, un solo giudice è competente a giudicare i reati connessi; di regola i procedimenti saranno riuniti (art. 17), ma potranno anche svolgersi separatamente (art. 18). Il giudice competente in caso di connessione viene individuato in base ai seguenti criteri. Fra i giudici competenti per materia, la corte d'assise prevale sul tribunale (art. 15). Applicata questa regola, se più giudici sono egualmente competenti per materia ed hanno, quindi, una diversa competenza per territorio, prevale il giudice competente per il reato più grave, ex art.16; in caso di pari gravità, prevale il giudice competente per il reato commesso per primo. Nel caso in cui alcuni procedimenti connessi appartengono al tribunale collegiale ed altri al tribunale in composizione monocratica, i procedimenti sono tutti attribuiti alla cognizione del tribunale collegiale. Le deroghe alla connessione. Essa non opera fra procedimenti relativi a imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni. Vi sono poi regole particolari per la connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali e per la connessione di procedimenti appartenenti alla competenza del giudice di pace. La riunione dei procedimenti. Quando i procedimenti sono connessi, essi possono essere riuniti in uno unico (simultaneus processus) onde consentire un’economia di atti processuali poiché, ad esempio, un testimone che riferisce su più imputati è sottoposto ad un unico esame. Al tempo stesso, il processo riunito può permettere di ricostruire con maggiore chiarezza e completezza il quadro probatorio ed i rapporti tra i vari fatti di reato. Perché si possa disporre la riunione sono necessari i seguenti requisiti (art. 17): 1) che i procedimenti siano pendenti nella stessa fase e nello stesso grado; 2) che i procedimenti siano di competenza del medesimo giudice; 3) che i procedimenti siano connessi oppure vi sia comunque tra gli stessi una di quelle ipotesi di collegamento probatorio che sono previste dall'art. 371, comma 2, lett. B: se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova d'un altro reato o di un'altra circostanza 4) che la riunione non determini un ritardo nella definizione dei procedimenti. La separazione dei procedimenti. L'esigenza di riunire i procedimenti si scontra con l’opposta tendente a tenerli separati, esigenza ricollegabile al sistema accusatorio, al fine di rendere possibile la migliore difesa dell'imputato stesso. Il giudice deve valutare se la riunione dei procedimenti sia «assolutamente necessaria» per giungere all'accertamento dei fatti di reato (art. 18 comma 1). Il codice pone un dovere di separazione, che scatta in presenza di determinate ipotesi previste dall'art. 18. In ogni caso, sia la riunione, sia la separazione dei “processi” sono disposte con ordinanza dal giudice anche d'ufficio, ma con il limite che devono essere “sentite le parti” (art. 19). Le ipotesi di separazione obbligatoria. La separazione deve essere disposta dal giudice nei seguenti casi (art. 18, comma 1): a) quando nel corso dell'udienza preliminare è possibile decidere subito la posizione di un imputato (ad esempio, in caso di giudizio abbreviato o patteggiamento); b) quando per un imputato si debba sospendere il procedimento; c) quando un imputato non è comparso in dibattimento ed occorra rinnovare la citazione nei suoi confronti; d) quando uno o più difensori di imputati non sono comparsi in dibattimento per motivi legittimi; e) quando per un imputato l'istruzione dibattimentale è già stata conclusa, mentre per altri deve continuare con tempi lunghi; e-bis) quando stiano per scadere i termini di custodia cautelare in relazione a taluno dei delitti elencati nell'art. 407, comma 2, lett. a (reati di criminalità organizzata e ipotesi assimilate) ed occorra definire con urgenza la fase o il grado per evitare la scarcerazione automatica. La separazione facoltativa. La separazione può essere disposta, sull'accordo delle parti, quando il giudice la ritenga utile ai fini della speditezza del processo. Il provvedimento del giudice. Nonostante la presenza di ipotesi di separazione obbligatoria il giudice p u ò r i t e n e r e l a r i u n i o n e assolutamente necessar ia per l’accertamento dei fatti. ! 21 f. II principio del giudice naturale. In base all'art. 25, comma 1 della Costituzione «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge». Dalla norma si ricava il principio della riserva assoluta di legge in materia di competenza. Ciò significa che la competenza del giudice può essere determinata soltanto dalla legge, e non da fonti secondarie (regolamenti o atti amministrativi); le norme, inoltre, non devono conferire un potere di scelta discrezionale; dalla necessaria “precostituzione” del giudice si ricava poi il divieto di applicazione retroattiva delle norme concernenti la competenza; queste sono applicabili soltanto a fatti di reato che siano stati commessi dopo la loro entrata in vigore. Il principio del giudice naturale, in definitiva, impedisce che un organo legislativo, amministrativo o giurisdizionale possa sottrarre discrezionalmente un procedimento ad un determinato giudice. Il termine «naturale» fa riferimento ad una caratteristica che preesiste rispetto alla legge e che quest'ultima è chiamata a tutelare; il “giudice naturale” è quello che l'ordinamento considera il più idoneo ad accertare il fatto di reato nel rispetto della legge e dei diritti dell'imputato ed il legislatore assicura il giudice naturale attraverso le norme sulla competenza che ripartiscono i procedimenti tra gli organi giurisdizionali. Tradizionalmente si ritiene che il termine «naturale» faccia riferimento alle norme relative alla competenza per territorio e, in particolare, al criterio generale che lo radica nel luogo nel quale è stato compiuto il reato (locus commissi delicti). Vi è un interesse costituzionalmente tutelato a che il processo si svolga in quella determinata sede davanti al “suo” pubblico, ma che può cedere di fronte ad interessi superiori (secondo criteri legalmente prestabiliti), come ad esempio di fronte al principio di imparzialità del giudice (art. 111, comma 2 Cost.). È il caso che si verifica quando nella sede “naturale” l’intero ufficio giudiziario appaia comunque parziale o sia esposto a pressioni ambientali (in tal caso opera l'istituto della rimessione, ex art. 45 c.p.p.); oppure quando l'organo giudicante debba decidere su di un magistrato che svolga le sue funzioni nel distretto e che sia imputato, o persona offesa o danneggiato dal reato (art. 11 c.p.p.). g. I conflitti di giurisdizione e di competenza. Dato il carattere diffuso della funzione giurisdizionale e posto che ogni organo giudicante è giudice anche della propria competenza, possono sorgere conflitti tra detti organi. I conflitti di giurisdizione intervengono tra un giudice ordinario ed un giudice speciale (o tra più giudici speciali); i conflitti di competenza intervengono tra giudici ordinari. Si ha conflitto positivo quando due (o più) giudici contemporaneamente prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona. Si ha conflitto negativo quando due (o più) giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona, ritenendo la propria incompetenza. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo (art. 28) e può essere denunciato dal pubblico ministero presso uno dei giudici in conflitto o dalle parti private (art. 30, comma 2); ma può anche essere rilevato d'ufficio da uno dei giudici (art. 30, comma 1). L'ordinanza che rileva l'esistenza del conflitto è trasmessa alla corte di cassazione con la copia degli atti necessari alla decisione, ma non ha effetto sospensivo sui procedimenti in corso. La corte di cassazione decide in camera di consiglio (art. 127) con sentenza e indica quale è il giudice competente a procedere (art. 32). La decisione della corte è vincolante, salvo che risultino nuovi fatti che determinino la competenza di un giudice superiore (art. 25). n. L'imparzialità del giudice - Incompatibilità, astensione e ricusazione. In un sistema inquisitorio l’imparzialità del giudice rientra nell’ambito del prestigio formale che deve essere riconosciuto al magistrato in quanto autorità pubblica. In un sistema accusatorio il giudice deve non solo essere imparziale ma anche apparire; le parti hanno diritto di sindacare in concreto la situazione del singolo magistrato e provare la presenza di situazioni che mettono in crisi l’imparzialità o anche la sola apparenza della stessa. Inoltre prima ancora che avvenga il giudice è obbligato a valutare la propria situazione ed astenersi qualora sia in difetto di imparzialità. L'imparzialità del giudice-persona fisica non è una qualità innata della quale egli è dotato in virtù del fatto che ha vinto un concorso pubblico e svolge un determinato ufficio. L’imparzialità, perché sia "effettiva", deve essere fondata sui seguenti principi: 1) la soggezione del giudice alla legge. Soltanto la presenza di leggi, che indichino con precisione quali fatti sono reato e quali poteri processuali possano (o debbano) essere esercitati, impedisce che il giudice sia influenzato dall'esterno (dal potere politico, economico, sindacale) o dall'interno (ideologismi del singolo magistrato). 2) la separazione delle funzioni processuali in soggetti distinti, e cioè l'accusa, la difesa ed il giudice. Se il giudice cumula i poteri di una parte (ad esempio i poteri dell'accusa), si rischia che la sua funzione giudicante sia sviata, anche inconsciamente, dagli ulteriori poteri che è chiamato ad esercitare. 3) la terzietà. In base all’ art. 111 il processo deve svolgersi davanti a un giudice terzo e imparziale. La terzietà concerne lo status ossia il piano ordinamentale. La terzietà è stata interpretata dalle norme dell’ordinamento giudiziario come un limite al passaggio tra le funzioni di pm e quelle di giudice e viceversa. Il passaggio può avvenire solo cambiando distretto di corte d’appello e dopo un controllo di professionalità. 4) l’impregiudicatezza. Vi è imparzialità quando il giudice è in una situazione di impregiudicatezza rispetto alla questione da decidere. Si tratta di un requisito psichico che concerne l’atteggiamento del giudice rispetto alla soluzione da accogliere. L’impregiudicatezza viene meno quando il giudice ha già emesso una decisione sul ! 22 individuato in base all'art. 11 (caso in cui un magistrato sia imputato, persona offesa o danneggiato). Lo spostamento è deciso dalla corte di cassazione se ed in quanto tale organo accerti l'esistenza di almeno uno dei requisiti della rimessione (art. 45). La richiesta motivata di rimessione può essere presentata soltanto dall'imputato, dal pubblico ministero presso il giudice che procede e dal procuratore generale presso la corte d'appello. Normativa modificata 2002 I casi di rimessione. Nei tre casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti «gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili». La situazione deve essere “grave”, e cioè occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire un esito non imparziale e non sereno del giudizio. Deve essere “locale”, e cioè non diffusa sull'intero territorio nazionale. Deve essere “esterna” rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale. Infine, deve essere “non eliminabile” con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo. I casi sono: 1) quando si pregiudica la sicurezza e l'incolumità pubblica, come ad esempio lo stato di guerriglia urbana che si è manifestato in alcune città italiane tra il 1970 ed il 1980. 2) quando si pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, come ad esempio quando i giudici popolari o i testimoni sono intimiditi da associazioni mafiose. Occorre che siano presenti fenomeni di vera e propria coartazione fisica o psichica di persone che possono anche essere diverse dal giudice e la norma si pone a tutela del regolare svolgimento del processo e solo indirettamente l'imparzialità del giudice. 3) quando vi sono gravi situazioni locali che «determinano motivi di legittimo sospetto». Questa ipotesi è stata aggiunta dalla legge n. 248 del 2002 e fa riferimento ad una «grave e oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice», inteso questo come l'intero ufficio giudicante della sede in cui si svolge il processo. Occorre che sia assicurata un’imparzialità sostanziale, che può essere messa in pericolo quando la pressione dell'ambiente sui giudici appare idonea a compromettere la serenità della decisione. Tale serenità è indispensabile perché la valutazione della prova non è una attività meccanica, bensì richiede un atteggiamento interiore di assoluta libertà psichica e di terzietà in capo al giudice quando questi costruisce ed elabora le massime di esperienza e quando applica le regole della scienza e della logica; ma soprattutto quando il giudice deve valutare se l'accusa ha eliminato ogni ragionevole dubbio. La corte di cassazione, investita dalla richiesta presentata dall'imputato o dal pubblico ministero, verifica l'esistenza di una delle situazioni che impongono la rimessione. Ove accolga la richiesta, trasferisce il processo ad un giudice che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello individuato in base all'art. 11 c.p.p. Pertanto, la richiesta di rimessione, se accolta, determina l'attribuzione del processo ad un altro giudice precostituito per legge. Decisione sulla richiesta. La cassazione decide in camera di consiglio; l’ordinanza che accoglie la richiesta di rimessione è comunicata senza ritardo al giudice che procede e a quello designato. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione (art. 48, comma 3). La normativa cerca di assicurare un bilanciamento tra il principio di imparzialità del giudice ed il principio del giudice naturale, con prevalenza del primo, anche se il principio del giudice naturale impone la tassatività-determinatezza delle ipotesi di rimessione. 3. Il pubblico ministero. a. Le funzioni. Il pubblico ministero è quel complesso di uffici pubblici che rappresentano nel procedimento penale l'interesse generale dello Stato alla repressione dei reati. Il pubblico ministero non è un organo unitario, bensì è frazionato in tanti uffici ciascuno dei quali svolge le sue funzioni, di regola, soltanto davanti all'organo giudiziario presso cui è costituito (art. 51, comma 3). Uffici del pubblico ministero davanti al giudice ordinario. Le funzioni del pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono svolte, presso il tribunale monocratico e collegiale, da un ufficio unitario denominato “procura della repubblica presso il tribunale”. Tale ufficio svolge altresì le funzioni di pubblico ministero per i reati di competenza della corte d'assise e del giudice di pace. Presso il tribunale per i minorenni vi è un apposito ufficio di procura della repubblica. Per i giudizi d'appello vi è una procura generale presso la corte d'appello. Presso la corte di cassazione vi è un ufficio di procura generale. Uffici del pubblico ministero davanti al giudice speciale. Presso il giudice speciale militare vi sono la procura militare presso il tribunale e la procura generale militare presso la corte d'appello. Presso la corte di cassazione vi è un apposito ufficio denominato “procura generale militare”. Le funzioni del pubblico ministero. Le funzioni svolte dal pubblico ministero sono indicate nell'ordinamento giudiziario. In particolare il pubblico ministero: 1) «veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci»; 2) «promuove la repressione dei reati» e cioè svolge le indagini necessarie per valutare se deve chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione; 3) «esercita l’azione penale» in ogni caso in cui non debba richiedere l'archiviazione, e ! 25 cioè quando dalle indagini sono emersi elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio; 4) «fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice, nei casi stabiliti dalla legge». Il pubblico ministero svolge nel procedimento penale la funzione di parte pubblica. Egli rappresenta l'interesse generale dello Stato-comunità, e cioè l'interesse della società che è stata lesa dal reato. Ben distinta è la situazione soggettiva dello Stato-persona, che è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Infatti, qualora il reato abbia cagionato un danno ad un bene dello Stato, il ministro competente può decidere di chiedere il risarcimento nel processo penale. In tal caso il ministro, che si costituisce parte civile, è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Status del pubblico ministero. Il magistrato che fa parte dell'ufficio del pubblico ministero ha una piena indipendenza di status (art. 105 Cost.); è inamovibile nel grado e nella sede; è nominato a seguito di pubblico concorso (art. 106, comma 1 Cost.); i provvedimenti disciplinari e le promozioni che lo riguardano sono deliberati dal consiglio superiore della magistratura, ex art. 105 Cost. La Costituzione impone al pubblico ministero l'obbligo di esercitare l'azione penale (art. 112) per cui egli è soggetto alla legge; la principale differenza rispetto al giudice sta nel fatto che il pm gode delle gareanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario; in particolare all’interno dell'ufficio del pubblico ministero vi sono alcune caratteristiche dell’ organizzazione gerarchica; quest'ultima, viceversa, è assente all'interno degli uffici del giudice. b. I rapporti con il potere politico. I sistemi totalitari non accettano la separazione dei poteri dello Stato se non a fini meramente burocratici. In essi il pubblico ministero è diretta espressione del "potere politico"; i sistemi garantisti sono fondati sull'opposto principio della separazione dei poteri dello Stato, nel senso che vi è un controllo reciproco fra gli stessi. Il pubblico ministero può essere configurato in tre distinti modi: 1) come rappresentante della società; 2) come rappresentante del potere esecutivo; 3) come rappresentante della legge. La prima soluzione, secondo la quale il pubblico ministero è il "rappresentante della società", deriva dal periodo iniziale della Rivoluzione francese, che ha introdotto la figura dell'accusatore pubblico elettivo. Costui era eletto con modalità simili a quelle dei membri del parlamento e tale configurazione è presente nella maggior parte degli ordinamenti degli Stati Uniti d'America. La seconda soluzione, che vede il pubblico ministero come "rappresentante del potere esecutivo presso il potere giudiziario", è stata accolta in Francia ai tempi del Consolato e dell'Impero. Tale configurazione è stata accolta in Italia ai tempi sia dello stato liberale, sia del regime fascista, ma con cattivi risultati. La soluzione del pubblico ministero quale "rappresentante della legge" tende a tenere il pubblico ministero fuori dalla dipendenza politica, e cioè a svincolarlo dal controllo operato dal potere esecutivo o dal potere legislativo; il pubblico ministero è vincolato alla "legge". Questa soluzione è accolta dai Paesi che hanno sperimentato in passato un regime di tipo dittatoriale, come l’Italia, il Brasile e il Portogallo. Nell'ordinamento italiano il pubblico ministero è stato configurato fin dall'Assemblea costituente come un magistrato con garanzie di indipendenza simili a quelle dei giudici. La soluzione è apparsa adeguata al nostro sistema, nel quale manca un'effettiva separazione tra potere legislativo e potere esecutivo e, quindi, un efficace controllo del primo sul secondo. c. I rapporti all'interno dell'ufficio. I rapporti di dipendenza gerarchica interni all'ufficio del pubblico ministero devono contemperare due esigenze contrapposte: la prima imposta dalla Costituzione, è quella di garantire la posizione di indipendenza del singolo magistrato del pubblico ministero, che ha l'obbligo di far osservare la legge; la seconda tende ad assicurare la buona organizzazione dell'ufficio della pubblica accusa, che non ha funzioni meramente decisorie, bensì ha oneri di iniziativa e di impulso del procedimento penale. Vi è la necessità di coordinare indagini condotte da più magistrati per evitare intralci reciproci. Evoluzione legislativa. La materia ha cambiato la configurazione a seguito della legge-delega n. 150 del 2005 sulla riforma dell'ordinamento giudiziario, alla quale è seguito il d.lgs. n. 106 del 2006 e la legge 24 ottobre 2006 n. 269 che hanno introdotto ulteriori modifiche. Si è passati così da un sistema classificabile come “personalizzazione delle funzioni”, al sistema di “gerarchia attenuata”. In base al principio di “personalizzazione delle funzioni”, il titolare dell'ufficio designava il magistrato in modo automatico in base al sistema tabellare che vige per i giudici e che il CSM con varie circolari aveva esteso all'ufficio della pubblica accusa. Esisteva un rapporto di sovraordinazione, ma il magistrato designato conservava una vera e propria autonomia operativa. Il titolare poteva dare soltanto direttive di carattere generale, e non particolare, per l'organizzazione dell'ufficio. La revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi: e cioè quando il magistrato intendeva formulare richieste in contrasto con le direttive di carattere generale, o quando le richieste erano insostenibili sul piano tecnico. L'assegnazione di un caso al magistrato del pubblico ministero. In base alle norme vigenti, l'assegnazione da parte del procuratore della repubblica può essere nominativa; in materia il CSM non ha poteri di ingerenza. La novità rispetto al sistema previsto nel testo del 1988 è che non si ha più la “designazione” che lasciava ampia autonomia ! 26 operativa a l sostituto. La legge n. 269 del 24 ottobre 2006 ha introdotto un nuovo istituto: la “assegnazione”, la cui natura giuridica consiste nel conferire poteri operativi con limitata autonomia funzionale, come afferma la Relazione ministeriale. In base alla disposizione modificatail procuratore della repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale la esercita «personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all'ufficio. Con l'atto di assegnazione il procuratore può stabilire i criteri (generali o particolari per il singolo procedimento) ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività. La revoca dell'assegnazione al di fuori dell’udienza. Quando i criteri generali o particolari sono violati, o comunque quando si verifica un contrasto con il titolare dell'ufficio, questi può revocare l'assegnazione con provvedimento motivato; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della repubblica. Un caso particolare di direttiva è quella che concerne l'impiego della polizia giudiziaria. Il procuratore della repubblica determina i criteri generali ai quali i magistrati addetti all'ufficio devono attenersi nell'impiego della polizia giudi-ziaria, nell'uso delle risorse tecnologiche assegnate e nella utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l'ufficio può disporre (art. 4). La piena autonomia in udienza. Il potere direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in udienza. In tal caso, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con "piena" autonomia (art. 53, comma 1). Il capo dell'ufficio provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell'interessato ovvero, se il consenso manca, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Inoltre, vi è l'obbligo di provvedere alla sostituzione se il magistrato ha un interesse "privato" nel procedimento (art. 53, comma 2). Se il capo dell'ufficio non provvede alla sostituzione, il procuratore generale presso la corte di appello deve disporre l'avocazione, che può essere disposta nelle medesime ipotesi al di fuori dell'udienza (es. durante le indagini preliminari) o anche quando, in conseguenza dell'astensione o dell'incompatibilità del magistrato designato, non è possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione. Le misure cautelari. Il magistrato del pubblico ministero, quando intende chiedere al giudice una misura cautelare personale (es. custodia in carcere) o reale (es. sequestro preventivo), deve ottenere l'assenso scritto dal procuratore della repubblica, così pure quando vuole disporre il fermo di persona indiziata di un delitto. L'assenso non è necessario quando la richiesta è formulata in occasione della convalida dell'arresto o del fermo o in occasione della convalida del sequestro preventivo operato d'urgenza. I rapporti con gli organi di informazione. Il procuratore della repubblica mantiene personalmente i rapporti con gli organi di informazione (comma 1). Ogni informazione inerente alle attività della procura della repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'uf¬ficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento (comma 2). È fatto divieto ai magistrati della procura della repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio (comma 3). Il procuratore della repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato dalla legge (comma 4). ! 27 definitiva, I pubblico ministero incombe un obbligo di "lealtà processuale" al quale non sono tenute, nella stessa misura, le altre parti private. 327 bis f. Le procure distrettuali e la procura nazionale antimafia. Dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale (24 ottobre 1989) è apparso evidente che la struttura tradizionale degli uffici del pubblico ministero provocava difficoltà agli inquirenti che conducevano indagini sui fatti di criminalità organizzata mafiosa. Il codice “auspicava” che vi fosse un coordinamento tra gli uffici del pubblico ministero impegnati in indagini legate (art. 371), senza però rendere tale coordinamento controllabile e coercibile. Art. 371 1. Gli uffici diversi del pubblico ministero che procedono a indagini collegate, si coordinano tra loro per la speditezza, economia ed efficacia delle indagini medesime. A tali fini provvedono allo scambio di atti e di informazioni nonché alla comunicazione delle direttive rispettivamente impartite alla polizia giudiziaria. Possono altresì procedere, congiuntamente, al compimento di specifici atti. 2. Le indagini di uffici diversi del pubblico ministero si considerano collegate: a) se i procedimenti sono connessi a norma dell'articolo 12; (1) b) se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza; (2) c) se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte. 3. Salvo quanto disposto dall'articolo 12, il collegamento delle indagini non ha effetto sulla competenza. Il collegamento tra le indagini. L'art. 371, comma 2 elenca i casi nei quali le indagini si considerano collegate: a) i procedimenti trattamenti sono connessi a norma dell'art. 12 e non sono stati riuniti; b) si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco ovvero se la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza; c) se la prova di più reati deriva anche in parte dalla stessa fonte. Il codice, per assicurare speditezza, economia ed efficacia alle indagini, pone ai diversi uffici del pubblico ministero, l'obbligo di coordinarsi. (quando il codice usa l’indicativo presente vuol dire che impone un obbligo, es. si coordinano= hanno obbligo di coordinarsi). Di conseguenza gli uffici devono scambiarsi gli atti e le informazioni e devono procedere al compimento congiunto di alcuni atti. Soltanto con le leggi n. 356 del 1991 e n. 8 del 1992 il legislatore ha sanzionato mediante l'istituto dell'avocazione la violazione dell'obbligo di coordinamento nelle ipotesi di indagini per delitti di criminalità organizzata mafiosa e non mafiosa. Il problema che si pone è quello di evitare la creazione di una gerarchia tra gli uffici del pubblico ministero poiché questa avrebbe imposto, in un sistema di democrazia garantista, un qualche controllo politico sul vertice; la soluzione è di creare uno stretto coordinamento tra uffici indipendenti, rendendolo tuttavia coercibile. La soluzione, proposta da Giovanni Falcone e poi approvata dal Parlamento in seguito ad un serrato dibattito, è stata quella di istituire le procure distrettuali e di porle sotto il controllo e lo stimolo del procuratore nazionale antimafia (decreto legge 20 novembre 1991, n. 367, convertito con modificazioni nella legge 20 gennaio 1992, n. 8). La procura distrettuale antimafia. La procura distrettuale non è un nuovo ufficio del pubblico ministero, bensì è l'ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di ciascuno dei 26 distretti di corte d'appello. A tale ufficio sono attribuite le funzioni del pubblico ministero in primo grado in relazione ai delitti di criminalità organizzata mafiosa e assimilati (art. 51, comma 3-bis), ai delitti «consumati o tentati con finalità di terrorismo» e ai delitti consumati o tentati in materia di pedopornografia, di reati informatici, di intercettazione abusiva. Per tali delitti la procura distrettuale svolge le indagini preliminari ed esercita le funzioni di accusa pubblica nell'udienza preliminare e nel dibattimento entro l'ambito territoriale del distretto di corte d'appello. Di conseguenza, tutte le attività investigative della polizia giudiziaria sono coordinate da questo ufficio all'interno del medesimo distretto. Anche le funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell'udienza preliminare debbono essere esercitate da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello nel quale ha sede il giudice competente. All'interno della procura distrettuale è costituita una “direzione distrettuale antimafia” (D.D.A.) che è un pool di magistrati dedicato esclusivamente ai procedimenti attinenti alla criminalità organizzata mafiosa. I magistrati predetti hanno l'obbligo di coordinarsi in modo stretto sia tra di loro, sia con il procuratore capo 70bis. Inoltre possono essere applicati temporaneamente presso altre procure distrettuali 110bis. In tal modo le indagini sulla criminalità mafiosa siano attribuite alle ventisei procure distrettuali (in base agli ordinari criteri di competenza) e non alle oltre 160 procure della Repubblica presso i tribunali. In ogni ufficio deve esserci un pool di magistrati specializzati. La procura nazionale antimafia. La direzione nazionale antimafia è un ufficio con sede in Roma con a capo il procuratore nazionale antimafia, sottoposto alla sorveglianza del procuratore generale presso la corte di cassazione; egli è nominato di concerto tra il consiglio superiore della magistratura e il ministro della Giustizia. È composto da 20 magistrati. Funzioni. Il procuratore nazionale antimafia ha poteri di coordinamento che non toccano l'indipendenza dei singoli uffici del pubblico ministero. Ha compiti di controllo che gli permettono di verificare se sia effettivo il coordinamento tra i singoli uffici del pubblico ministero che stanno compiendo indagini per i delitti di criminalità organizzata mafiosa e assimilati indicati nell’art. 51 comma 3 bis. In caso di mancato coordinamento il procuratore nazionale deve avocare le indagini 371bis comma 3h. Inoltre il procuratore nazionale ha poteri sia di impulso nei ! 30 confronti dei procuratori distrettuali sia di controllo sull’attività degli organi centralizzati di polizia giudiziaria. Della sua attività il procuratore è sottoposto alla mera “sorveglianza” del procuratore generale presso la corte di cassazione e del consiglio superiore della magistratura. Il procuratore generale non può dare direttive vincolanti nel merito alle procure distrettuali ma può solo riunire i capi degli uffici per accertare se questi si sono coordinati tra di loro. Non può compiere direttamente indagini, ma può avocare le indagini condotte da quella procura distrettuale che abbia dimostrato una "grave inerzia" o che non abbia voluto coordinarsi con gli altri uffici. Il procuratore nazionale non ha, quindi, un potere gerarchico sui ventisei procuratori distrettuali, ma può esercitare un controllo penetrante, che può giungere sino alla avocazione delle indagini nei confronti di quella procura distrettuale che abbia violato il dovere di coordinamento. 4. La polizia giudiziaria. a. Polizia giudiziaria e di sicurezza. Lo stato tutela l’ordine e la legalità con 5 corpi di polizia: la polizia di stato, l’arma dei carabinieri,la guardia di finanza, il corpo di polizia penitenziaria e il corpo forestale dello stato. I predetti corpi possono svolgere funzioni che sono definite o di polizia di sicurezza o di polizia giudiziaria. La polizia amministrativa e di sicurezza. La polizia amministrativa si occupa dell'osservanza della legge e dei regolamenti amministrativi e si distingue a sua volta in molte specializzazioni, quali ad esempio la polizia tributaria, la polizia sanitaria, la polizia stradale e la polizia di sicurezza. Quest’ultima ha come compito la tutela della collettività contro i pericoli e le turbative all’ordine pubblico (inteso come assenza di reati) e la sicurezza delle persone. Tende a prevenire il compimento di reati. La polizia giudiziaria. Art. 55 Essa «deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale». La differenza tra polizia di sicurezza e giudiziaria si basa sulla contrapposizione tra “prevenzione dei reati” e “repressione di un reato”, che consiste nella raccolta di tutti gli elementi necessari per accertare il reato e per rendere possibile lo svolgersi del processo penale. La distinzione tra polizia giudiziaria e di sicurezza. La polizia, quando svolge la funzione amministrativa o di sicurezza, non gode di poteri coercitivi, e cioè non può direttamente limitare le libertà fondamentali. Viceversa, non appena giunge la notizia che è stato commesso un reato, viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l'uso dei poteri coercitivi. In situazioni di necessità ed urgenza la polizia giudiziaria procede all'arresto in flagranza o al fermo di una persona gravemente indiziata (artt. 380-384); inoltre, in caso di flagranza può perquisire persone o luoghi (art. 352). L'esercizio di poteri coercitivi avviene in relazione al successivo svolgersi di un procedimento penale, con la garanzia del diritto di difesa e sotto il controllo del pubblico ministero e del giudice. La funzione di polizia di sicurezza è diretta da un organo unitario, il ministro dell'interno e in sede locale la direzione spetta al prefetto e al questore. La dipendenza funzionale della polizia giudiziaria. La funzione di polizia giudiziaria è svolta sotto la direzione del pubblico ministero (art. 56 c.p.p.) e sotto la sorveglianza del procuratore generale presso la corte d'appello, che può dare inizio al procedimento disciplinare contro l'ufficiale o l'agente. Per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata, la funzione di polizia giudiziaria è svolta da un organo centrale chiamato “direzione investigativa antimafia” (D.I.A.), che è posto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore nazionale antimafia. A prescindere dalla funzione che svolge la polizia rimane sotto la dipendenza “organica” del potere esecutivo, solo quando svolge funzioni di polizia giudiziaria è dipendente “funzionalmente” dal pubblico ministero. Per questo motivo vi è il pericolo che le direttive dell’autorità giudiziaria siano ostacolate da direttive in senso opposto degli organi del potere esecutivo. b. La dipendenza dall'autorità giudiziaria. Per evitare tali pericoli sono previsti vari strumenti che rafforzano la direzione funzionale dell’autorità giudiziaria, in applicazione del dettato costituzionale per cui “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”. 109 c Il codice distingue tre strutture che svolgono funzioni di polizia giudiziaria, pur restando i singoli ufficiali ed agenti sotto la dipendenza “organica” del corpo di appartenenza. Le sezioni di polizia giudiziaria. Si tratta di organi costituiti presso gli uffici del pubblico ministero di primo grado e composti, di regola, da ufficiali e agenti della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza; inoltre possono esservi applicati ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altre amministrazioni quando vi sono particolari esigenze di specializzazione. ! 31 Le sezioni svolgono esclusivamente funzioni di polizia giudiziaria sotto la dipendenza del capo del singolo ufficio del pubblico ministero, che dirige e coordina le attività. Il singolo magistrato del pubblico ministero dispone direttamente del personale della sezione e cioè incarica delle indagini nominativamente un ufficiale di polizia giudiziaria. I servizi di polizia giudiziaria. Sono costituiti presso i corpi di appartenenza (questure, comandi dei carabinieri e della guardia di finanza); si considerano servizi «tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle rispettive amministrazioni (...) il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni» di polizia giudiziaria. Il dirigente del servizio è responsabile dell'operato proprio e delle persone che da lui dipendono nei confronti del procuratore della repubblica presso il tribunale. Il magistrato del pubblico ministero, che dirige le indagini preliminari, dà un incarico impersonalmente all'ufficio e poi il responsabile di questo sceglierà l'ufficiale che condurrà le investigazioni. Gli altri uffici di polizia giudiziaria Gli organi di polizia giudiziaria che non sono ricompresi nelle sezioni o nei servizi restano comunque sotto la dipendenza funzionale della magistratura, infatti in base all’art.59 gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti ad eseguire i compiti a essi affidati dall’autorità giudiziaria. L’art. 58 stabilisce che l'autorità giudiziaria può ordinare singoli atti o alla sezione istituita presso la corrispondente procura della repubblica, ovvero ad ogni servizio od altro organo di polizia giudiziaria. Il potere disciplinare spettante alla magistratura è azionabile dal procuratore generale presso la corte d'appello; oggetto del potere disciplinare sono tutti gli illeciti che riguardano l'espletamento dei compiti di polizia giudiziaria. La giurisdizione disciplinare della magistratura è esclusiva; per gli illeciti che non attengono alle funzioni di polizia giudiziaria, gli ufficiali ed agenti rimangono soggetti alle sanzioni che sono stabilite dai corpi di appartenenza. Il potenziamento delle attività investigative. Il decreto-legge antiterrorismo n. 144 del 2005, conv. nella legge n. 155, da un lato, ha teso a potenziarne le capacità investigative per i delitti più gravi, dall’altro ha ridotto quei compiti addossati alla polizia giudiziaria in sostituzione di attività che la pubblica amministrazione non era in grado di svolgere; a) così per le esigenze connesse a indagini antiterrorismo il ministro dell'interno deve costituire apposite unità investigative interforze, formate da esperti ufficiali e agenti delle varie forze di polizia. La norma è tuttavia carente sotto il profilo dell'art. 109 Cost., in quanto, come per le unità antimafia, non è stato stabilito un potere di coordinamento in capo ad un organo centralizzato del pubblico ministero; il coordinamento è operato dal procuratore nazionale antimafia. b) Così sono state sottratte agli ufficiali di polizia giudiziaria le funzioni di pubblico ministero delegato per i dibattimenti presso il tribunale monocratico e presso il giudice di pace s sono state limitate le ipotesi nelle quali la polizia giudiziaria è chiamata a svolgere le notifiche di atti del processo in sostituzione dell'ufficiale giudiziario. c. Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono avere una competenza generale per tutti i reati, ovvero una competenza limitata all'accertamento di determinati reati. Polizia giudiziaria con competenza generale. Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti ai quali l'ordinamento dell'amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità art 57 (i dirigenti, i commissari, gli ispettori, i sovrintendenti e gli altri appartenenti alla polizia di Stato ai quali l'ordinamento dell'amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità) gli ufficiali superiori e inferiori ed i sottufficiali dei carabinieri della guardia di finanza, del corpo di polizia penitenziaria e del corpo forestale dello Stato. Polizia giudiziaria con competenza limitata. Sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria con competenza limitata a determinati reati i soggetti previsti all’art.57 comma 3, cioè le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono la funzione di polizia giudiziaria. Per godere di tale qualifica basta che la legge o un regolamento attribuisca tali funzioni ad una determinata persona (es. ispettore del lavoro) che svolge di norma funzioni di polizia amministrativa ma se nello svolgimento delle sua funzioni le giunge una notizia di uno di quei reati che deve prevenire scatta la funzione di polizia giudiziaria. 5. L'imputato. a. La distinzione tra imputato e indagato. All'inizio del procedimento penale le indagini possono svolgersi contro “ignoti” oppure contro un “indagato”. La maggior parte delle denunce sono presentate contro ignoti; la polizia giudiziaria trasmette la denuncia al pubblico ministero e questi ordina alla segreteria di iscriverla nell'apposito registro, denominato «registro delle notizie di reato» (art. 335). Svolte le indagini, può darsi che gli elementi raccolti consentano di addebitare il reato alla responsabilità di una determinata persona. Allora il pubblico ministero ordina alla segreteria di iscrivere nel registro, accanto all'indicazione della denuncia, il nome del soggetto al quale il reato «è attribuito», denominato «persona sottoposta alle indagini preliminari», nella prassi “indagato”. Soltanto in relazione al momento conclusivo delle indagini il codice usa il termine “IMPUTATO”, cioè la persona alla quale è attribuito il reato nell'imputazione formulata dal pm con la richiesta di rinvio a giudizio o con l’atto omologo nell’ambito del singolo procedimento penale. L'IMPUTAZIONE è composta dalla enunciazione in forma ! 32 a. La rappresentanza tecnica. La Costituzione afferma che «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», ex art. 24, comma 2. La “difesa penale” può essere definita la forma di tutela che permette all'imputato di ottenere il riconoscimento della piena innocenza o comunque di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella applicabile secondo la legge. La difesa è un “diritto”, e cioè consiste nel potere di esigere da altri soggetti un comportamento conforme alla legge. Sono titolari del diritto di difesa le parti ed alcuni fra i soggetti del procedimento penale. Il diritto può essere esercitato sia personalmente (autodifesa), ad es. il diritto di ricevere personalmente notizia del procedimento penale in corso attraverso l'informazione di garanzia, che deve essere inviata loro quando il pubblico ministero deve compiere un «atto al quale il difensore ha diritto di assistere», sia per mezzo del difensore (difesa tecnica), come ad es. il potere del difensore di condurre l'esame incrociato. Il difensore è una persona che ha particolare competenza tecnico-giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico e processuale. La qualifica penalistica è quella di esercente un servizio di pubblica necessità; la qualifica privatistica si individua nel rapporto di prestazione di opera intellettuale che lega il difensore al cliente; la qualifica processualistica è quella di rappresentante tecnico della parte. La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali “per conto” (cioè nell'interesse) del cliente, a condizione che i medesimi non siano personali, e cioè che non siano dalla legge espressamente riservati alla parte. Perché il difensore possa disporre di un diritto “in nome” del cliente, deve essergli attribuita una rappresentanza volontaria, e cioè il potere di compiere un atto i cui effetti ricadono sul cliente, mediante una procura ad litem; la nomina è contenuta in una dichiarazione che può essere resa oralmente davanti alla autorità procedente o può essere effettuata per atto scritto, da consegnare all’autorità procedente. Le stesse formalità sono previste per la persona offesa, mentre le altre parti (parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria) attribuiscono al difensore la rappresentanza tecnica mediante una procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. La rappresentanza volontaria per gli atti personali. Quando si deve compiere nel procedimento un atto "personale" e non può essere presente la parte assistita, è necessario che la parte conferisca una rappresentanza volontaria al difensore o ad altra persona di sua fiducia, con una procura speciale a compiere un determinato atto; essa è necessaria, ad esempio, per l'istanza di rimessione del processo, per l'accettazione della remissione di querela, per la transazione che abbia ad oggetto il risarcimento del danno derivante dal reato. La procura speciale deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce; se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. Atti personalissimi. Per essi non vi può essere rappresentanza volontaria, come ad esempio, rendere l'interrogatorio o l'esame incrociato. Rapporti difensore-imputato. La rappresentanza tecnica ha la forma della “assistenza” nel senso che l'imputato può sempre compiere personalmente gli atti che non siano per legge riservati al difensore; la difesa tecnica non può escludere quel tipo di autodifesa che spetta all'imputato, per cui egli può compiere un atto processuale anche senza dover necessariamente essere rappresentato dal difensore. L’imputato ha diritto di partecipare personalmente agli atti del procedimento affiancato dal proprio difensore che si limita ad assisterlo. Il diritto di autodifesa dell'imputato prevale sul diritto alla difesa tecnica, in considerazione del fatto che nel procedimento penale è in questione un diritto di libertà. In base all'art. 99, comma 2 «l'imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all'atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice». L’art. 99 comma 1, stabilisce che «al difensore competono le facoltà ed i diritti che la legge riconosce all'imputato a meno che essi siano riservati personalmente a quest'ultimo». II rapporto tra il cliente ed il difensore ha natura fiduciaria. Di conseguenza prima dell'accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina, comunicandolo immediatamente a colui che l'ha effettuata ed all'autorità che procede. La non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata a quest'ultima. Dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare allo stesso , comunicandola a colui che ha effettuato la nomina ed all'autorità procedente, ma non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a sette giorni, che sia stato concesso a quest'ultimo; fino a tale momento la parte è rappresentata dal difensore rinunciante. Lo stesso avviene quando il cliente revoca il mandato al difensore. Deontologia. In un sistema politico totalitario al difensore è imposto l'obbligo di "collaborare" con la Giustizia anche contro l'interesse dell'assistito, mentre in un sistema garantista, il difensore contribuisce all’amministrazione della Giustizia. Il difensore collabora all'accertamento dei fatti limitandosi a presentare gli elementi a favore del cliente e non ha l'obbligo di ricercare la verità contro il cliente; egli persegue un interesse privato e non pubblico. In base al codice deontologico degli avvocati il difensore non deve introdurre nel procedimento penale prove che egli sa essere false, ma tale divieto non gli impedisce di argomentare sulla base di prove da altri introdotte, anche se ritiene che siano false. Art 14 codice deontologico: Le dichiarazioni in giudizio relative alla esistenza o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato, e di cui l'avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore. ! 35 I. L'avvocato non può introdurre intenzionalmente nel processo prove false. In particolare, il difensore non può assumere a verbale né introdurre dichiarazioni di persone informate sui fatti che sappia essere false. II. L'avvocato è tenuto a menzionare i provvedimenti già ottenuti o il rigetto dei provvedimento richiesti, nella presentazione di istanze o richieste sul presupposto della medesima situazione di fatto. b. Difensore di fiducia e difensore d'ufficio. L'imputato ha il diritto di farsi assistere da non più di due difensori di sua scelta (denominati “difensori di fiducia”). La nomina è un atto a forma libera e può essere effettuata in tre modi: 1) con dichiarazione, scritta o orale, resa dall'indagato all'autorità procedente; 2) con dichiarazione scritta consegnata all'autorità procedente dal difensore; 3) con dichiarazione scritta trasmessa all'autorità procedente con raccomandata. Non occorre alcuna autentica della sottoscrizione dell'indagato. Ove l'indagato si trovi in stato di fermo, arresto o custodia cautelare, la nomina può essere fatta, con le stesse forme, da un prossimo congiunto, finché l'indagato stesso non vi provveda. Quando l'indagato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo, il codice prevede (solo per tale soggetto) l'istituto della difesa d'ufficio. Da tale norma si ricava il principio della necessità della difesa tecnica in favore dell'imputato, il quale non potrebbe esercitare una autodifesa esclusiva neanche se, per ipotesi, avesse la qualità di avvocato. All'imputato resta sia il potere di togliere effetto all'atto compiuto dal difensore (art. 99, comma 2), sia il potere di scegliere un altro difensore (art. 97, comma 6). La designazione del difensore d'ufficio. La materia è stata oggetto di una modifica ad opera della legge 6 marzo 2001, n. 60. La designazione del difensore d'ufficio spetta al consiglio dell'ordine degli avvocati di ciascun distretto di corte d'appello, che predispone gli elenchi dei difensori idonei sulla base di turni di reperibilità. Quando il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria devono compiere un atto per il quale è prevista l'assistenza del difensore e l'imputato (o l'indagato) ne sia privo, essi devono chiedere il nominativo del difensore d'ufficio al consiglio dell'ordine del distretto. Il magistrato o l'ufficiale di polizia danno avviso dell'atto al difensore così individuato. La funzione della difesa d'ufficio. La difesa d'ufficio ha la funzione di attuare il contraddittorio in un processo basato sul principio dialettico; l’inviolabilità garantita dall'art. 24 Cos. comporta per l'imputato la irrinunciabilità della difesa tecnica. Se il migliore metodo per accertare il fatto storico è ritenuto essere il contraddittorio, l'imputato non può rinunciare alle sue armi dialettiche. Ovviamente l'imputato assistito da un difensore d'ufficio ha piena libertà di scelta della linea difensiva: egli può togliere effetto all'atto compiuto dal difensore e può nominarne uno di fiducia, revocando così automaticamente il difensore d'ufficio. Il difensore d'ufficio ha diritto ad essere retribuito. Il difensore di ufficio ha l'obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo. Il sostituto del difensore. Il difensore, qualunque sia la parte che lo abbia designato, ha il potere di nominare un sostituto, il quale esercita i diritti e assume i doveri del difensore medesimo. c. II difensore della persona offesa. L'offeso può nominare il difensore nelle medesime forme semplificate che sono previste per il difensore dell'imputato. Il difensore della persona offesa dal reato svolge un'attività che si può inquadrare nella “rappresentanza”, ma che ha anche alcune tra le caratteristiche della “assistenza”. Da un lato, l'offeso ha il potere di esercitare quei «diritti e facoltà» che sono a lui espressamente riconosciuti dalla legge; in tali casi limitati, l'offeso può agire anche personalmente nel procedimento, presentando ad esempio memorie ed indicando elementi di prova. In relazione a questi atti l'offeso non è costretto ad agire “col ministero di un difensore”, a differenza di quanto è previsto per le parti private diverse dall'imputato (es. parte civile). Poiché la persona offesa può non essere un giurista, nella pratica ha la necessità di compiere atti processuali mediante un difensore. Da un altro lato, l'offeso non può (a differenza dell'imputato) togliere effetto ad un atto del proprio difensore; può solo revocare la nomina del difensore e nominarne un altro. d. II difensore delle parti private diverse dall'imputato (es. parte civile). La parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria «stanno in giudizio col ministero di un difensore». È un'ipotesi di “rappresentanza tecnica” in senso stretto. Questi soggetti non possono ! 36 stare personalmente in giudizio; essi nominano il proprio difensore mediante il conferimento di una procura speciale, la “procura ad litem”, con la quale tra la parte ed il difensore si instaura il rapporto di rappresentanza tecnica; essa deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. La procura ad litem si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, salvo che sia espressa una volontà diversa. In forza di tale atto, il difensore può compiere e ricevere per conto (e cioè nell'interesse) della parte rappresentata «tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono a essa espressamente riservati». Dal concetto di rappresentanza tecnica deriva il principio secondo cui il difensore non può compiere atti che comportino una disposizione del diritto in contesa , sa lvo che ne abbia r icevuto espressamente il potere, a mezzo di procura speciale. Rappresentanza volontaria. Perché possa compiere atti in nome della parte rappresentata il difensore deve essere munito della procura speciale indicata nell'art. 122: quando la legge consente che un atto sia compiuto per mezzo di un procuratore speciale, la procura deve, a pena di inammissibilità, essere rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere, oltre alle indicazioni richieste specificamente dalla legge, la determinazione dell'oggetto per cui è conferita e dei fatti ai quali si riferisce. Se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. La procura è unita agli atti. In forza di tale rappresentanza volontaria il difensore può compiere atti che incidono sulla situazione giuridica sostanziale della parte rappresentata, in nome e per conto della stessa. e. Il patrocinio per i non abbienti. La legge 30 luglio 1990, n. 217 (sostituita dal Testo unico spese di giustizia - d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115) ha istituito il patrocinio a spese dello Stato in favore delle persone che hanno un reddito annuo (calcolato ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e aggiornato con D.M. 1° aprile 2014) non superiore a euro 11.369,24. Il patrocinio è concesso su istanza ai soggetti che sono o possono diventare parti private, cioè all'imputato, all'indagato, al condannato, all'offeso, al danneggiato che intenda costituirsi parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Il d.l. 23.02.2009, n. 11 ha stabilito che, in caso di delitti di violenza sessuale individuale e di gruppo ed il delitto di atti sessuali con minorenne, la persona offesa è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, anche in deroga ai limiti di reddito. Il patrocinio a spese dello Stato assicura la difesa tecnica nel procedimento penale per reati (sia delitti, sia contravvenzioni) non di tipo tributario. L'istanza di ammissione al patrocinio è sottoscritta dal non abbiente e il difensore ne autentica la firma. L'ammissione al patrocinio a spese dello Stato è deliberata dal magistrato davanti al quale pende il processo o da quello che ha emesso il provvedimento impugnato, se procede la cassazione; nel corso delle indagini è deliberata dal giudice per le indagini preliminari. Gli effetti dell'ammissione: 1) sono rilasciate gratuitamente le copie «necessarie» degli atti del procedimento; 2) sono anticipate dallo Stato le spese per l’audizione dei testimoni e gli onorari del difensore, dell'eventuale consulente tecnico di parte, del sostituto e dell'investigatore privato. f. L'incompatibilità del difensore. ! 37 sia su autonoma richiesta del pubblico ministero o dell'indagato), il difensore della persona offesa sarà preavvisato, potrà parteciparvi e chiedere al giudice di rivolgere domande alle persone sottoposte ad esame. La persona offesa è sentita come testimone in dibattimento e come possibile testimone durante le indagini preliminari. I poteri di controllo sulla eventuale inattività del pubblico ministero. Sono riconosciuti anche poteri di tipo prettamente “penalistico”, tendenti a tutelare il suo interesse ad ottenere il rinvio a giudizio dell'imputato; non ha il potere di chiedere al giudice il rinvio a giudizio dell'indagato, ma gli sono attribuiti poteri di controllo sull’eventuale inattività del pubblico ministero; essi consentono all'offeso di mettersi in contatto con il giudice per le indagini preliminari e presentargli le proprie conclusioni in due ipotesi: 1) quando il pubblico ministero abbia chiesto al giudice la proroga delle indagini; 2) l'archiviazione. Nei due casi l'iniziativa del pubblico ministero deve essere resa nota soltanto alla persona offesa che, in precedenza, abbia formalmente chiesto al medesimo di esserne informata. In conclusione la persona offesa di regola non ha poteri di azione penale, bensì soltanto il potere di attivare il controllo del giudice in due casi, nei quali si palesa l'inerzia del pubblico ministero. b. La parte civile. Il reato, oltre a costituire un'offesa ad un bene giuridico, può aver provocato in concreto un danno. In tal caso colui che ha commesso il reato è obbligato a risarcire il danno e, se del caso, a restituire la cosa sottratta. L'illecito penale e l'illecito civile derivano dal medesimo titolo, e cioè dal fatto di reato. Il danno risarcibile può manifestarsi nelle forme del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale. Ad esempio, nel reato di lesioni personali l'offesa consiste nella lesione dell'integrità fisica di una persona; il danno risarcibile consiste nelle perdite patrimoniali, nelle sofferenze e nel pregiudizio alla salute subiti dalla medesima persona. 1) Il danno patrimoniale consiste nella privazione o diminuzione del patrimonio nelle forme del danno emergente (es. le spese sostenute per le cure) e del lucro cessante (per il periodo che la persona offesa non può lavorare). Il danno patrimoniale viene quantificato “per equivalente pecuniario”, cioè si deve ripristinare quella situazione economica e patrimoniale del danneggiato che era preesistente alla commissione del reato. 2) Il danno non patrimoniale (“danno morale”) consiste nelle sofferenze fisiche e psichiche patite a causa del reato. Esso viene calcolato con modalità di tipo “satisfattivo”, cioè il giudice in via equitativa determina una cifra di denaro che possa gare una soddisfazione tale da compensare le sofferenze patite. Secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale è risarcibile quando la risarcibilità è prevista in modo espresso dalla legge e quando, pur in assenza di una previsione normativa, il danno non patrimoniale deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. Una tipologia di danno non patrimoniale di particolare rilevanza è costituita dal danno biologico, cioè la menomazione dell’integrità fisico psichica del soggetto, che viene leso nel suo “diritto alla salute” riconosciuta dalla Costituzione quale «fondamentale diritto dell'individuo» (art. 32). La persona danneggiata dal reato. È il soggetto che ha subito uno dei tipi di danno in conseguenza del reato ed ha diritto ad ottenere che il responsabile del reato sia condannato a risarcire il danno. L'azione può essere esercitata, in alternativa, davanti al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure davanti al giudice penale ma soltanto dopo che il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale. In quest'ultimo caso, il danneggiato esercita l'azione civile costituendosi parte civile nel processo penale, ex art. 76 c.p.p. Spesso la medesima persona riveste sia la qualifica di persona offesa dal reato, sia la qualifica di persona danneggiata dal reato, mentre sono rari i casi nei quali un individuo ha soltanto una delle due qualifiche. La distinzione tra persona offesa e danneggiato dal reato è importante perché ad essa è ricollegato l'esercizio di differenti poteri spettanti all'una o all'altra qualifica. Persona offesa è soggetto ed ha diritti e facoltà, mentre il danneggiato non è soggetto. Le regole per l'esercizio dell'azione civile nel processo penale. L'esercizio dell'azione civile nel processo penale è fondato su due regole non espresse, ma che si ricavano dalla normativa del codice. In primo luogo l'azione civile resta “ospite” nel processo penale; in secondo luogo l'azione civile subisce la regolamentazione di quest'ultimo. La prima regola comporta che l'azione civile mantenga la sua natura e le sue caratteristiche civilistiche. L'azione resta facoltativa e disponibile, nel senso che il danneggiato in ogni momento del processo penale può revocare la costituzione di parte civile, perché ad esempio ha stipulato con l'imputato una transazione sul risarcimento dovuto. Inoltre, il giudice penale, nell'accertare i danni e nel condannare al risarcimento l'imputato colpevole, non può andare oltre i limiti della domanda, e cioè della quantità del risarcimento richiesto dalla parte civile. La seconda regola, della prevalenza della normativa del processo penale, comporta che al di fuori di quanto attiene alla natura “civilistica” dell'azione, i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale. Pertanto, l'esercizio dell'azione civile nel processo penale subisce, nei suoi aspetti “procedimentali”, varie deroghe rispetto alla regolamentazione che vige nel processo civile. Ad esempio, le prove dell'illecito penale e dei danni cagionati sono ricercate d'ufficio dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, che restano segrete (di regola) fino al loro termine. La parte civile ha un autonomo diritto di ricerca della prova, ma può affidarsi all'iniziativa del P.M. I doveri della parte civile. Un altro esempio della prevalenza del processo penale si trova nella norma che impone alla parte civile di deporre con l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità, quando sia citata come testimone, ! 40 a differenza del processo civile, ove le parti non possono essere chiamate a deporre come testimoni con l'obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità. Una conferma della natura civilistica dell'azione sta invece nel fatto che la parte civile può chiedere al giudice penale di condannare l'imputato a pagare una provvisionale, disposta dal giudice nei limiti in cui sia già acquisita la prova del danno; tale condanna è immediatamente esecutiva in primo grado. La dichiarazione di costituzione di parte civile. Deve essere fatta mediante un’apposita dichiarazione resa per scritto, sottoscritta dal difensore della parte civile, perché il danneggiato sta in giudizio non personalmente ma mediante il difensore munito di procura speciale. La dichiarazione svolge la funzione dell'atto di citazione in un processo civile e deve contenere a pena di inammissibilità i seguenti elementi: a)le generalità della persona fisica (o la denominazione dell'associazione o ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante); b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile; c) il nome e il cognome del difensore e la indicazione della procura a questi rilasciata; d) l’esposizione del petitum, cioè la richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno e della causa petendi, le «ragioni», cioè i motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno patrimoniale o non patrimoniale. Non è non è necessaria (anche se è possibile) quella parte del petitum che consiste nella precisazione del quantum dell'ammontare del risarcimento; l’indicazione del quantum richiesto sarà invece indispensabile al momento della presentazione delle conclusioni scritte al termine del dibattimento; e) la sottoscrizione del difensore. I termini per la costituzione di parte civile. Vi sono due termini: 1) all'inizio dell'udienza preliminare, nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti; 2) il limite “finale” per costituirsi parte civile è il momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti prima dell'inizio del dibattimento. Tale termine è stabilito a pena di decadenza. La dichiarazione può essere presentata nell'udienza (preliminare o dibattimentale) all'ausiliario del giudice; prima dell'udienza, può essere depositata nella cancelleria del giudice. In quest'ultimo caso essa deve essere notificata, a cura della parte civile, alle altre parti, e cioè al pubblico ministero e all'imputato. La dichiarazione produce effetto per ciascuna parte dal giorno nel quale è eseguita la notificazione. La costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo (c.d. principio di immanenza della costituzione di parte civile, ex art.76 c.p.p.); essa non ha la necessità di rinnovare la costituzione nelle successive fasi o nei successivi gradi del processo, finché la sentenza non sia diventata irrevocabile. Esclusione della parte civile. Se non esistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali per la costituzione di parte civile, il giudice, con ordinanza, ne dispone l'esclusione su richiesta motivata del pubblico ministero, dell'imputato o del responsabile civile ovvero d'ufficio. L'ordinanza di esclusione della parte civile non è impugnabile. Revoca della parte civile. È espressa la revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore speciale o con atto scritto depositato in cancelleria e notificato alle altre parti, ex art. 82; è tacita qualora la parte civile non presenti le proprie conclusioni scritte in dibattimento al momento della discussione finale, ovvero ove essa promuova l'azione civile davanti al giudice civile. L'azione risarcitoria davanti al giudice civile. Il c.p.p. prevede che il danneggiato dal reato possa compiere altre due scelte in alternativa a quella di costituirsi parte civile: 1) può esercitare l'azione di danno davanti al giudice civile; 2) può restare inerte, e cioè non esercitare l'azione risarcitoria né in sede penale, né in sede civile. Se il danneggiato resta inerte, corre il rischio che il giudice penale assolva l'imputato con una formula ampia, che acquista la forza del giudicato. Infatti, quando il danneggiato è stato messo in grado di partecipare al processo penale e non ha voluto difendersi, la sentenza di assoluzione con formula ampia ha efficacia vincolante in relazione al fatto che sia stato accertato. Qualora il danneggiato eserciti l'azione risarcitoria davanti al giudice civile in modo “tempestivo” (e cioè prima che il giudice penale abbia pronunciato una decisione in primo grado), l'azione civile può svilupparsi senza subire sospensioni, parallelamente allo svolgersi del processo penale e un’eventuale assoluzione dell'imputato nel processo penale non ha la forza del giudicato, e cioè non vincola il giudice civile né gli impedisce, eventualmente, di condannare l'imputato-convenuto al risarcimento del danno, ove siano raccolte le prove della responsabilità di quest'ultimo. c. Offeso e danneggiato nel codice del 1988: Con una netta separazione dal precedente sistema, il nuovo cpp ha riconosciuto alla persona offesa un ruolo meramente penalistico e cioè un interesse ad ottenere soltanto la persecuzione penale del colpevole del reato; viceversa, al danneggiato che si sia costituito parte civile, il codice ha voluto riconoscere un ruolo meramente civilistico e cioè a teso a tutelarne l'interesse al risarcimento del danno derivante da reato. Tale scelta ha un primo riflesso nella struttura del procedimento penale: nelle indagini preliminari è tutelata solo la persona offesa nel suo interesse penalistico ad ottenere il rinvio a giudizio, ma non viene tutelata la situazione soggettiva di danneggiato dal reato, tant'è che non è neanche prevista la possibilità di un provvedimento di sequestro conservativo sui beni del presunto autore del reato. ! 41 D o p o l a formulazione dell'imputazione i ruoli appaiono capovolti: la persona offesa in quanto tale può solo presentare memorie ed indicare elementi di prova ma non ha la possibilità di partecipare attivamente al processo, mentre la parte civile può. La persona offesa, da questo momento, si vede riconosciuti i poteri processuali solo se cumula la veste di danneggiato e si costituisce parte civile. Perché il codice ha voluto distinguere le due qualità? Dalla Relazione al progetto preliminare si ricava che il legislatore ha voluto premere perché il danneggiato esercitasse l'azione civile nel processo civile. La scelta ha la seguente motivazione: si vuole che i due processi si svolgano separatamente sia perché il problema del risarcimento del danno condiziona l'accertamento della responsabilità penale, sia per non alterare l'equilibrio delle parti nel processo, dove il ruolo dell'accusa è già pienamente assunto dal pubblico ministero. CAPITOLO 2 GLI ATTI GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE 1.1 CONSIDERAZIONI GENERALI: 1. Gli atti del procedimento penale. a. Considerazioni generali. È definibile “atto del procedimento penale” l'atto che è compiuto da uno dei soggetti (giudice, pubblico ministero, polizia giudiziaria, parti private, ecc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale (sentenza, ordinanza o decreto). Rientrano quindi nel concetto di “atto” sia gli atti delle indagini preliminari (compiuti in una fase preprocessuale), sia gli atti dell'udienza preliminare e del giudizio (che fanno parte del processo penale). Il primo atto del procedimento penale è, quindi, quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero (art. 330). Con il termine “atto” si designa quella attività che è stata compiuta da un soggetto. Nella prassi tuttavia individua anche il risultato permanente della attività che è stata compiuta. In quest’ultimo significato atto sta ad indicare sia il verbale che documenta l'attività compiuta, che il testo del provvedimento pronunciato (sentenza, etc.). Atti a forma vincolata. Il libro secondo del codice di procedura penale prevede i “modelli legali” che sono prefissati in via generale per gli atti del procedimento; nei libri successivi vi sono “modelli legali” speciali che sono previsti per singoli tipi di atti. Il rispetto delle forme legali è una delle garanzie poste a tutela dei soggetti che sono implicati ! 42 I poteri coercitivi del giudice. Tali poteri spettano al giudice al fine del «sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede» (art. 131). Tale potere comporta la possibilità di ottenere comportamenti anche contro la volontà dei singoli interessati; si tratta di poteri di “polizia processuale” per l'esercizio dei quali la legge non impone l'osservanza di particolari formalità: l'ordine può essere anche soltanto orale ed è riprodotto nel verbale di udienza. Spetta al giudice il potere di chiedere l'intervento della polizia giudiziaria; se necessario, anche l'intervento della forza pubblica. L'accompagnamento coattivo dell'imputato e di altre persone. È un atto che costituisce espressione del potere coercitivo; consiste in una restrizione della libertà personale poiché l'accompagnamento può essere eseguito con la forza. È una limitazione della libertà che si distingue nettamente dalle misure coercitive personali che possono essere disposte nei confronti dell'imputato o dell'indagato (artt. 272-286) e che trovano la loro giustificazione nelle esigenze cautelari (pericolo di inquinamento probatorio, pericolo di fuga e di reiterazione del reato). L'accompagnamento coattivo ha una finalità limitata che è quella di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile la acquisizione di un contributo probatorio. È però necessario che la legge preveda espressamente l'intervento di una determinata persona per il compimento di uno specifico atto, ex art.132 c.p.p.. I destinatari dell'accompagnamento. Vi sono sia l’imputato (o indagato) (art. 132), sia le altre persone indicate nell'art. 133, il testimone, il perito, il consulente tecnico, l'interprete ed il custode di cose sequestrate. Il potere del giudice è molto ampio perché concerne i procedimenti per qualsiasi reato (delitto e contravvenzione) anche di minima entità; pertanto, può essere disposto anche in relazione a reati per i quali non è ammessa alcuna misura cautelare (art. 280). Non deve però diventare una misura cautelare, per cui l’art. 132 comma 2 afferma che la persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione oltre il compimento dell'atto previsto e quelli successivi legati a quello precedente con un vincolo logico-funzionale, per i quali necessita la presenza del soggetto. In ogni caso la persona non può essere trattenuta oltre le ventiquattro ore. Il rinvio operato dall'art. 132 comma 1 ai «casi previsti dalla legge» fa sì che l'accompagnamento diventi una mistura strumentale all'esercizio di quei poteri che il codice in disposizioni specifiche attribuisce al giudice (e al pubblico ministero). Per quanto riguarda l'imputato e l'indagato, l'accompagnamento di regola deve essere preceduto da un invito a presentarsi o da una citazione rimaste senza effetto. L'art. 133 detta una apposita norma per le persone diverse dall'imputato (e cioè i testimoni, i periti ecc.) che, regolarmente citate, omettono di comparire senza addurre un legittimo impedimento: il giudice, oltre a disporre l'accompagnamento, può condannarle al pagamento di una somma di denaro e alle spese processuali alle quali la mancata comparizione ha dato causa. c. Gli atti delle parti. Nel libro secondo il codice si limita ad enunciare due soli “modelli generali” di atti delle parti: le richieste e le memorie. Numerosi altri atti sono previsti dal libro quinto in avanti, come ad es. le conclusioni, che devono essere presentate al termine del dibattimento (art. 523); il consenso (artt. 423, comma 2; 444; 446; 449, comma 2; 518, comma 2; 566, comma 5), l'accettazione (art. 340), la rinuncia (artt. 419, comma 5; 495, comma 4-bis; 569, comma 2; 589) la revoca (art. 82); l’impugnazione (art. 581). La richiesta. Assume tale forma ogni tipo di domanda che le parti (sia quella pubblica, sia quelle private) rivolgono al giudice al fine di ottenere una decisione, come ad es. la richiesta di procedere ad incidente probatorio (art. 392), la richiesta della parte civile di ottenere la provvisoria esecuzione della condanna al risarcimento del danno (art. 540, comma 1). Sulle richieste ritualmente formulate dalle parti il giudice deve provvedere senza ritardo e comunque entro quindici giorni, salvo specifiche disposizioni di legge (art. 121, comma 2). Se non adempie a tale obbligo, la parte può presentargli formale istanza, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità dei magistrati; se il giudice non decide entro trenta giorni, vi possono essere gli estremi del “diniego di Giustizia”, che è fonte di responsabilità civile. In ogni caso l'inosservanza delle norme del codice può dar luogo ad una responsabilità disciplinare ai sensi dell'art. 124. La memoria. La memoria ha un contenuto meramente argomentativo teso ad illustrare questioni in fatto o in diritto; es. le memorie che la persona offesa può presentare in ogni stato e grado del procedimento. d. Il procedimento in camera di consiglio. L’espressione «camera di consiglio» indica due situazioni: in base all'art. 125, comma 4, il giudice delibera in segreto i propri provvedimenti in camera di consiglio. L’espressione indica il luogo in cui il giudice si ritira per formare il proprio convincimento sulla singola questione da decidere. L'art. 127 disciplina, invece, il modello generale di «procedimento in camera di consiglio» e l’espressione indica qui la modalità di svolgimento di un’attività giurisdizionale, alla quale le parti e le altre persone interessate (es. l'offeso) hanno il diritto di partecipare. Il procedimento in camera di consiglio presenta due caratteristiche: l'assenza del pubblico e la non necessaria partecipazione delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori (art. 127, comma 3). ! 45 Si tratta di una procedura “semplificata” che il codice impone tutte le volte in cui occorre adottare una decisione in tempi rapidi e vi è la necessità di attivare un contraddittorio eventuale. Le parti ed i difensori ricevono un avviso, una non vi è l'obbligo di intervenire all'udienza. Il modello ordinario. Nel modello ordinario l’atto iniziale è il decreto di fissazione dell'udienza. Alle parti, agli altri interessati ed ai loro difensori è dato avviso, a pena di nullità, della data fissata per l'udienza almeno dieci giorni prima dell'udienza stessa. Fino a cinque giorni prima dell'udienza gli interessati possono presentare memorie presso la cancelleria del giudice. II contraddittorio eventuale. All’udienza il contraddittorio è soltanto eventuale, perché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa. Il giudice (o il presidente del collegio) ha comunque l'obbligo di ascoltare, a pena di nullità, tutti coloro che intervengono all'udienza. L'imputato e il condannato in stato di detenzione hanno diritto di essere sentiti, se ne fanno richiesta e purché siano detenuti nello stesso luogo ove ha sede il giudice: in caso di loro legittimo impedimento, l'udienza deve essere rinviata a pena di nullità. Se invece l'imputato o il condannato sono detenuti in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice, alla loro audizione deve procedere, a pena di nullità, il magistrato di sorveglianza prima che abbia luogo l'udienza in camera di consiglio. La Corte costituzionale ha precisato, però, che il giudice ha il potere di disporre anche d'ufficio la traduzione in udienza del detenuto (sent. n. 45 del 1991). Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume, di regola, la forma dell'ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per cassazione. e. La documentazione degli atti. Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia, mediante verbale, che viene redatto dall'ausiliario che assiste il giudice o il pubblico ministero. A norma dell’art. 136, comma 1, il verbale contiene la menzione del luogo, dell'anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell'ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute, la descrizione di quanto l'ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste. L’ausiliario si limita ad attestare quello che è avvenuto in sua presenza e le dichiarazioni ricevute, spettando al giudice l’apprezzamento del significato probatorio del contenuto del verbale, e cioè la valutazione della veridicità o meno delle dichiarazioni rese. Il valore probatorio. Nel codice previgente il verbale di un atto del procedimento penale era “fidefacente”, e cioè faceva «fede fino ad impugnazione di falso di quanto il pubblico ufficiale attesta(va) di avere fatto o essere avvenuto in sua presenza » (art. 158 c.p.p. 1930). In base a tale disposizione il fatto che era riferito nel verbale entrava a far parte delle conoscenze “ufficiali” del procedimento penale. Il codice del 1988 ha oggi eliminato il valore fidefacente del verbale e non ha riprodotto l'istituto dell'incidente di falso, con la conseguenza che il verbale di un atto del procedimento può essere sottoposto ad una verifica da parte del giudice quanto alla correttezza e veridicità della descrizione di ciò che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuto in sua presenza. La documentazione può essere effettuata con almeno tre modalità differenti: 1) Il verbale in forma integrale. In dibattimento di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento meccanico ovvero, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale. 2) Il verbale in forma riassuntiva con riproduzione fonografica. In tal caso spetta al giudice vigilare che sia riprodotta «nell’originaria genuina espressione, la parte essenziale delle dichiarazioni»; riassuntivo non significa riassunto del concetto delle dichiarazioni, ma solo sommaria esposizione degli elementi extra-dichiarativi. Deve essere effettuata anche la riproduzione fonografica (art. 134 comma 3). 3) Il verbale in forma riassuntiva senza riproduzione fonografica. Viene effettuata quando vi sia una «contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di ausiliari tecnici» o anche quando gli atti da verbalizzare hanno contenuto semplice o limitata rilevanza. L'art. 141-bis prevede che l'interrogatorio reso, al di fuori dell'udienza, da una persona detenuta, sia documentato integralmente a pena di inutilizzabilità con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva. Si vuole in tal modo ! 46 garantire al massimo l'assenza di qualsiasi condizionamento, data la par t icolare situazione in cui si trova la persona interrogata. f. La notificazione. Considerazioni preliminari. È lo strumento previsto dalla legge per rendere noto al destinatario un atto (o una attività) del procedimento; di regola essa è eseguita mediante la consegna, al destinatario, della copia dell'atto stesso. Questo può essere un atto del procedimento (ad esempio, la richiesta di archiviazione; art. 408, comma 2), o l'avviso di una attività già compiuta o da compiere (ad esempio, l'avviso che è depositato in segreteria il verbale di un atto di indagine, art. 366). L'organo che esegue la notificazione è, di regola, l'ufficiale giudiziario o chi ne esercita le funzioni (art. 148); l'ufficiale giudiziario è un ausiliario del giudice. In casi eccezionali le notificazioni possono essere svolte dalla polizia penitenziaria o dalla polizia giudiziaria. Conoscenza effettiva e presuntiva. Il codice ha voluto contemperare due esigenze fondamentali, ma contrastanti. Da un lato, quella di portare alla conoscenza effettiva del destinatario l'atto da notificare. Da un altro lato, l'esigenza di accertare il reato e assicurare la celerità degli adempimenti formali, in modo da non ritardare il corso del procedimento penale. Le due esigenze sono state conciliate mediante una disciplina dettagliata, finalizzata a rendere minimo lo scarto tra conoscenza effettiva e conoscenza legale dell'atto da notificare. Le formalità prescritte dalla legge sono finalizzate ad assicurare l'effettiva conoscibilità dell'atto da parte dell'interessato; una volta che esse sono state adempiute, scatta la presunzione legale di avvenuta conoscenza. Il codice in materia di protezione dei dati personali ai fini della tutela della riservatezza della persona destinataria della notifica, ha prescritto che, quando la notifica non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, è consegnato in busta sigillata, ad esempio, al portiere. Questa formalità non è prevista nel caso di notifica al difensore o al domiciliatario. La relazione di notificazione. Della consegna dell'atto è redatto un verbale, chiamato «relazione di notificazione», nel quale l’ufficiale giudiziario indica l'autorità o la parte privata richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona alla quale è stata consegnata la copia, il luogo e la data della consegna della copia, apponendo la propria sottoscrizione. La relazione di notificazione è destinata a far prova di quanto il pubblico ufficiale ha compiuto e dei fatti da lui constatati. La notificazione produce effetto per ciascun destinatario dal giorno della sua esecuzione; pertanto, da tale momento l'atto si presume conosciuto dal destinatario. I soggetti legittimati a disporre le notificazioni. Notificazioni disposte dal giudice. L’atto è notificato per intero mediante consegna al destinatario da parte dell'ufficiale giudiziario; nei procedimenti con detenuti ed in quelli davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre che, in caso di urgenza, le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo In cui i destinatari sono detenuti. Forme equivalenti alla notifica sono la consegna di copia dell'atto all'interessato da parte della cancelleria (art. 148, comma 4), la lettura dei provvedimenti e gli avvisi dati verbalmente dal giudice agli interessati che siano presenti (art. 148, comma 5). Notificazioni disposte dal pubblico ministero. Le notificazioni di atti del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari sono eseguite dall'ufficiale giudiziario, ovvero dalla polizia giudiziaria nei soli casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire, quali ad es. la notifica dell'invito a presentarsi (art. 375) per compiere l'interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria; la notifica di un decreto di sequestro che la polizia giudiziaria è delegata ad eseguire (art. 253). È possibile la consegna di copia dell'atto da parte della segreteria e la lettura di provvedimenti e avvisi in presenza degli interessati. Notificazioni chieste dalle parti private. Le parti private possono effettuare le notificazioni di loro interesse secondo le regole ordinarie (richiesta all'ufficiale giudiziario) oppure valersi di una modalità semplificata. Si tratta dell'invio di copia dell'atto da parte del difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. I destinatari delle notificazioni. Notificazioni al pubblico ministero. Le notificazioni al pubblico ministero sono eseguite nel modo ordinario o anche direttamente dalle parti mediante consegna di copia dell'atto alla segreteria. Allo stesso modo vengono notificati gli ! 47 a. Considerazioni generali. Il codice prevede dettagliatamente i requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale. Tali requisiti danno luogo al "modello legale" del singolo atto; essi rispondono alla fondamentale esigenza che in concreto l'atto possa svolgere la funzione che è ad esso assegnata all'interno del procedimento. L’atto perfetto è quello conforme al modello descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge, primo fra tutti quello di essere utilizzato dal giudice nella decisione. Ovviamente il suo valore probatorio è valutato liberamente dal giudice. L'atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. È invalido quando la singola difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti dal codice; cioè quando la singola inosservanza di legge è prevista come causa di decadenza, di inammissibilità, di nullità o di inutilizzabilità. L'atto irregolare. L’atto è irregolare se la difformità del modello legale non rientra in una delle cause di invalidità previste dalla legge. Cioè quando vi è stata una inosservanza di legge nel compiere l'atto, ma tale inosservanza non è prevista a pena di invalidità. Pertanto l'atto irregolare è valido: il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione, anche se è libero di apprezzarne il valore probatorio (e cioè potrà essere attendibile o meno il contenuto). L’inosservanza della legge nel compiere l'atto processuale potrà essere valutata dal punto di vista disciplinare e potrà dar luogo all'applicazione di una sanzione a carico della persona colpevole. Lo si ricava dall’art. 124: I soggetti del procedimento sono tenuti a osservare le norme di questo Codice anche quando l`inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale. L'atto invalido. L'inammissibilità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta presentata da una parte (effettiva o potenziale) quando la richiesta stessa non ha i requisiti previsti dalla legge. La decadenza comporta l'invalidità dell'atto che sia stato eventualmente compiuto dopo che è scaduto un termine perentorio (art. 173). La nullità è un vizio che colpisce l'atto del procedimento che sia stato compiuto senza l'osservanza di determinate disposizioni stabilite espressamente dalla legge appunto a pena tu nullità (art. 177). L'inutilizzabilità è una invalidità che colpisce direttamente il valore probatorio di un atto: il giudice non può basarsi su di esso per emettere una decisione. b. Il principio di tassatività. Il principio di tassatività stabilisce che l’inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una norma espressamente vi ricollega una delle invalidità indicate. Ad esempio, l'incompetenza per territorio deve essere eccepita (dalle parti) o rilevata (dal giudice) a pena di “decadenza” prima della conclusione dell'udienza preliminare (art. 21, comma 2). Viceversa, se l'inosservanza non rientra in una previsione generica o specifica di invalidità, l'atto è meramente irregolare. Il principio di tassatività è dettato specificamente per la nullità (art. 177) e per la decadenza (art. 173) tuttavia esso è desumibile dall'intero sistema delle cause di invalidità. È ricavabile, altresì, dalla legge-delega n. 81 del 1987, che ha stabilito la «previsione espressa sia delle cause di invalidità degli atti che delle conseguenti sanzioni processuali, fino alla nullità insanabile». Poiché gli effetti derivanti dall’invalidità sono particolarmente pesanti in quanto, se l’atto non è rinnovabile, impediscono al giudice di ricavare dall'atto risultati utili per la decisione, il legislatore ha fatto prevalere le esigenze di certezza nell'individuare le inosservanze che danno luogo all’invalidità. L’espressione “sanzione processuale”, contenuta sia nella legge delega, sia nell'art. 124 del codice di procedura penale, non pare corretta, in quanto la “sanzione" è una conseguenza che si aggiunge come reazione ad un comportamento valutato sfavorevolmente dall'ordinamento giuridico, per cui può essere usato soltanto nel diritto sostanziale; ad es., la commissione di un atto illecito può dar luogo alla applicazione di una “sanzione” penale, civile o disciplinare. c. L'inammissibilità. Quando la richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale, non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità, il giudice non può la esaminare nel merito. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l'atto (ad esempio, art. 591, comma 1, lett. c, per l'impugnazione); oppure può concernere il ! 50 contenuto dell'atto (ad esempio, art. 78, comma 1, per la dichiarazione di costituzione di parte civile); o può toccare un aspetto formale (ad esempio, art. 122, comma 1, sulla forma della procura speciale); o ancora può riguardare la legittimazione al compimento dell'atto (ad esempio, l'art. 41, in base al quale è inammissibile la ricusazione presentata da un soggetto che non le ha il diritto). Il regime giuridico. L'inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte o anche d'ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l'inammissibilità della domanda (con ordinanza o con sentenza) e non decide sul merito della stessa. Il codice non stabilisce in via generale un termine entro il quale la domanda deve essere dichiarata inammissibile, per cui il giudice può rilevare anche d'ufficio tale invalidità fino a che la sentenza sia divenuta revocabile, salvo che non sia previsto espressamente un termine anteriore (es. per la dichiarazione di inammissibilità della costituzione di parte civile). d. La decadenza; la restituzione nel termine. 1) La decadenza. Comporta la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio; l’atto compiuto oltre tale termine è giuridicamente invalido. Lo svolgersi del procedimento penale comporta una successione di atti, che deve avvenire in un ordine prestabilito. Gli strumenti che impongono una determinata cadenza al procedimento sono denominati termini. Il termine indica il momento in cui un atto può o deve essere compiuto (art. 172). Sono perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo, con la conseguenza che, superato tale periodo, il soggetto decade dal potere di compierlo validamente. Data la gravità delle conseguenze connesse allo scadere di un termine perentorio, il legislatore ha sancito che «i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge» (art. 173, comma 1) e non possono essere prorogati, salvo che la legge disponga altrimenti (art. 173, comma 2). Es. artt. 79, comma 2; 182, comma 3; 458, comma 1; 585, comma 5. Sono ordinatori quelli che fissano il periodo di tempo entro il quale un determinato atto deve essere compiuto, tuttavia a differenza dei termini perentoria il superamento della scadenza non comporta alcuna conseguenza di tipo “processuale”: l'atto è validamente compiuto anche se realizzato dopo il decorso del termine. Semmai il soggetto, che lo ha compiuto oltre il termine ordinatorio, può subire conseguenze di tipo disciplinare ove il superamento della scadenza non abbia una valida giustificazione (art. 124). Avuto riguardo all’effetto che imprimono sullo svolgersi del procedimento, i termini sono definiti dilatori o acceleratori: sono dilatori quelli con i quali si prescrive che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso. La finalità è quella di garantire che i soggetti processuali abbiano il tempo di prepararsi al compimento di un determinato atto. Ad esempio, l'art. 429, comma 3 afferma che tra la data del decreto che dispone il giudizio e la data fissata per il giudizio medesimo deve decorrere un termine non inferiore a venti giorni. Sono invece definiti acceleratori quei termini di cui la legge prevede il limite temporale entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; la finalità è quella di ottenere che il procedimento si svolga in modo celere per assicurarne la ragionevole durata. Ad esempio i termini entro i quali le parti devono impugnare il provvedimento del giudice. Il regime giuridico. L’atto eventualmente compiuto oltre il termine perentorio è giuridicamente invalido. Il codice, di regola, stabilisce che gli atti compiuti da una parte oltre un termine perentorio sono inammissibili, come ad esempio, l'impugnazione proposta oltre i termini stabiliti dall'art. 585, comma 5 (art. 591, comma 1, lett. c). Dal decorso di un termine perentorio sono ricollegate due sanzioni processuali: 1) dal punto di vista soggettivo, relativo alla estinzione del potere di compiere l'atto, si fa riferimento al concetto di decadenza; 2) dal punto di vista oggettivo, relativo al regime dell'atto compiuto oltre il termine, il codice prevede la sanzione della inammissibilità. Per il principio di tassatività, ove la legge non preveda la decadenza, né l'inammissibilità, l'atto compiuto oltre il termine è valido. II termine stesso, in tal caso, deve ritenersi di tipo “ordinatorio”. 2) La restituzione nel termine. Natura dell'istituto. La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l'inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza. L’esigenza di equità prevale su quella di certezza in presenza dei requisiti previsti dall'art. 175. Il codice prevede tre differenti istituti, uno di carattere generico e due di carattere specifico. Il rimedio generico. Concerne tutti i termini a pena di decadenza che non sono stati osservati per caso fortuito o forza maggiore, cioè per situazioni di impossibilità oggettiva non imputabile alla parte. Si tratta di eventi naturali (es. catastrofi, alluvioni) o fatti umani che concretano un impedimento non vincibile (es. scioperi, blocchi stradali, violenza fisica o morale esercitata da terzi, errori di operatori giudiziari). Non ha tali caratteristiche un errore o una omissione addebitabile all'interessato. Sono legittimati a chiedere la restituzione in termini «il pubblico ministero, le parti private e i difensori». All'imputato è equiparato l'indagato e si ritiene che sia legittimata anche la persona offesa. L’onere di provare di non aver potuto rispettare il termine per caso fortuito o forza maggiore incombe su colui che chiede il beneficio. ! 51 La decisione. Di regola decide sulla richiesta di restituzione quel giudice c h e p r o c e d e a l t e m p o d e l l a presentazione della stessa; sono poste delle eccezioni: prima dell'esercizio dell'azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari; dopo che sono stati pronunciati sentenza o decreto di condanna, decide il giudice che sa rebbe compe ten te su l l a impugnazione o sulla opposizione. La richiesta di restituzione generica deve essere presentata al giudice competente entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore (175 comma 1); mentre il termine è di trenta giorni per le restituzioni specifiche. I termini sono previsti a pena di decadenza. La restituzione (sia generica, sia specifica) non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento (art. 175 comma 3). Poiché la legge non indica le forme che devono essere osservate, il problema è stato risolto dalle Sezioni unite: di regola il giudice provvede de plano (senza contraddittorio) a meno che il relativo procedimento incidentale si inserisca in un procedimento principale in corso di svolgimento con il rito camerale, nel qual caso recepisce le forme del procedimento principale. Contenuto dell’ordinanza. Deve essere motivata (art. 125) e può essere impugnata non autonomamente ma solo con la sentenza che decide sull’impugnazione o sull’opposizione (art. 175 comma 5). Nella medesima ordinanza, che accoglie la richiesta di restituzione, il giudice, se occorre, ordina la scarcerazione dell'imputato detenuto e adotta tutti i provvedimenti necessari per far cessare gli effetti determinati dalla scadenza del termine (art. 175 comma 7). L'ordinanza che respinge la richiesta di restituzione nel termine è autonomamente impugnabile, con ricorso per cassazione (art. 175 comma 6). La restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale. La legge n. 67 del 2014, avendo eliminato l’istituto della contumacia, ha abrogato il rimedio specifico della restituzione nel termine contro la sentenza contumaciale. Quest’ultimo istituto rimane in vigore per i procedimenti nei quali alla data del 17 maggio 2014 è già stato pronunciato il dispositivo della sentenza, e ciò in base alla legge n. 118 del 2014 che pone ulteriori prescrizioni di dettaglio. e. La nullità. Questa causa d'invalidità colpisce un atto del procedimento che è stato compiuto senza l'osservanza di quelle disposizioni che sono imposte dalla legge a pena di “nullità”. Il principio di tassatività è previsto espressamente dall'art. 177 del codice. Di conseguenza non è possibile applicare la nullità per analogia; una volta accertata una nullità, inoltre, non è possibile valutare se vi sia stato un pregiudizio concreto per l'interesse protetto o se comunque l'atto nullo abbia raggiunto l'effetto (salvo le ipotesi previste espressamente dall'art. 183 lett. b). Si tratta di una scelta formalistica che si pone in tensione con l'esigenza di assicurare una durata ragionevole al processo penale (art. 111 comma 2 Cost.). Non danno luogo a nullità gli errores in iudicando, che trovano il loro rimedio nelle impugnazioni (ad es., il giudice ritiene il testimone non attendibile e, poi, basa la sentenza su tale deposizione). f. L'inutilizzabilità L’inutilizzabilità da un lato indica il vizio da cui può essere affetto un atto (causa), dall’altro lato illustra il regime giuridico al quale l’atto viziato è sottoposto (effetto) e cioè il fatto di non poter essere messo a fondamento di una decisione del giudice oppure di un atto del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. L'inutilizzabilità è un tipo di invalidità che ha la caratteristica di colpire non l'atto in sé, bensì il suo “valore probatorio”. L'atto, pur valido dal punto di vista formale è colpito nel suo aspetto sostanziale, poiché l'inutilizzabilità impedisce ad esso di produrre il suo effetto principale, che è quello di essere posto a base di una decisione. ! 52 g . L ' a t t o inesistente; l'atto abnorme. L'atto inesistente. Si tratta di una causa di invalidità che è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non essendo essa prevista espressamente nel codice. Una volta preso atto che in materia di invalidità esiste il principio di tassatività, si è ritenuto iniquo lasciare senza tutela quelle imperfezioni dell'atto che sono più gravi delle nullità assolute insanabili. In effetti, sarebbe ingiusto che il formarsi del giudicato impedisse al giudice di accertare quelle clamorose violazioni della legge processuale che non sono state espressamente previste dal legislatore proprio a causa della loro eccezionalità. La “inesistenza”, in particolare, di una sentenza impedisce che si formi il giudicato, di modo che l'invalidità possa essere rilevata dal giudice anche dopo che la sentenza stessa sia diventata irrevocabile, e cioè non più impugnabile. Fra i casi di inesistenza: 1) la carenza di potere giurisdizionale del giudice, come avviene nell'ipotesi di sentenza penale emessa da un organo delle pubblica amministrazione; 2) la sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto dall'immunità (es. un agente diplomatico). In tali casi l'atto non esiste in senso giuridico e l'eventuale irrevocabilità della sentenza non impedisce al giudice di rilevare e dichiarare l'inesistenza; l’inesistenza è, quindi, una deroga al principio di tassatività delle invalidità. L'atto abnorme. La giurisprudenza ha creato l’ulteriore diversa categoria del provvedimento abnorme, che può essere sottoposto a ricorso per cassazione prima della irrevocabilità della sentenza. Il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione avrebbe precluso la possibilità di impugnare quei provvedimenti affetti da anomalie così gravi da renderli del tutto eccentrici rispetto al sistema del codice. La giurisprudenza ha così creato la categoria della abnormità e la ha considerata come un vizio non tipizzato che giustifica il ricorso immediato per cassazione (applicando direttamente l'art. 111 comma 7 Cost.). È abnorme sia il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, (abnormità strutturale), sia il provvedimento che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, quando l'atto determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo (abnormità funzionale). L'impugnabilità per cassazione del provvedimento abnorme dipende non dalla sua conoscenza legale (la quale può mancare) ma dalla sua conoscenza concreta. Ovviamente, il termine per ricorrere, pur partendo dalla conoscenza concreta, è quello ordinario. CAPITOLO III PRINCIPI GENERALI SULLA PROVA: ! 55 1. Sistema processuale e norme sulla prova. Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità, secondo il quale la verità è tanto meglio accertata quanto più potere è dato al soggetto inquirente. Su di lui si cumulano tutte le funzioni processuali e ad un unico soggetto sono concessi pieni poteri nella ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova. Di conseguenza non si avverte la necessità di regolamentare la materia della prova, ma, anzi, un'eventuale regolamentazione si tradurrebbe immediatamente in un limite all'accertamento della verità. Gli strumenti di controllo, che dovessero essere posti in essere nel momento in cui l'inquisitore sta esercitando i suoi poteri, ne ridurrebbero l'efficacia; qualsiasi prova è ammissibile allo scopo di permettere all'inquisitore di accertare la verità. Viceversa il sistema accusatorio si basa su di un opposto principio, quello dialettico. Si ritiene che la verità si possa meglio accertare se le funzioni processuali sono ripartite tra soggetti che hanno interessi contrapposti. Ad un giudice imparziale spetta soltanto di decidere sulla base di prove ricercate dall'accusa e dalla difesa e la scelta operata da questi tra le diverse ricostruzioni del fatto storico è stimolata dal contraddittorio tra soggetti spinti da interessi contrapposti. Di conseguenza i poteri di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova non possono essere attribuiti ad un unico soggetto, bensì devono essere divisi e ripartiti tra il giudice, l'accusa, la difesa in modo che nessuno di essi possa abusarne. In questo sistema risulta indispensabile regolamentare la materia della prova. Il codice del 1988 ha accolto, sia pure con temperamenti, la scelta del sistema accusatorio. I poteri del giudice e delle parti sono distribuiti in vario modo nelle fasi della ricerca, dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova; alla materia della prova è dedicato un intero libro del codice, il terzo. Al giudice è riservato il potere di decidere; alle parti è attribuito il potere di ricercare le prove, di chiederne l'ammissione, di contribuire alla formazione delle stesse. L'istituto che esprime più chiaramente la filosofia del sistema accusatorio è l’esame incrociato, nel quale sono distribuiti in modo dettagliato i poteri di iniziativa spettanti alle parti ed i poteri di controllo attribuiti al giudice (artt. 498 e 499). 2. Il ragionamento del giudice: la sentenza. Il giudice, in primo luogo, accerta se l'imputato ha commesso il fatto che gli è stato addebitato nell'imputazione; in secondo luogo interpreta la norma incriminatrice al fine di ricavarne quale è il fatto tipico punibile; infine, valuta se il fatto storico, che ha accertato, è “conforme” al fatto tipico previsto dalla legge. Per questo la decisione è stata definita un “sillogismo”: il fatto storico, ricostruito attraverso le prove, è la premessa minore; la norma penale incriminatrice è la premessa maggiore; la conclusione consiste nel valutare se il fatto storico rientra nella norma incriminatrice. Vi è quindi un ordine logico nella discussione delle singole questioni: prima di tutto sono trattate le questioni che attengono alla ricostruzione del fatto storico; quindi si pongono le questioni che attengono all'interpretazione della legge. Il giudice ha l'obbligo di usure soltanto criteri razionali, che devono essere indicati nella motivazione. La sentenza. Essa è composta da una motivazione e da un dispositivo. Nella motivazione il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel corso del processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall'imputato (motivi “in fatto”); quindi interpreta la legge e individua il “fatto tipico” previsto dalla norma penale incriminatrice (motivi “in diritto”); infine valuta se il fatto storico rientra nel fatto tipico (giudizio di conformità). Nel dispositivo il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto storico commesso dall’imputato è conforme, il giudice condanna, se invece non è conforme, il giudice lo assolve con una delle formule previste dal codice (art. 530). Tutto ciò viene riassunto nell’espressione: “il giudice applica il diritto al caso concreto”. In sostanza il dispositivo è quella parte della sentenza nella quale il giudice emette un ordine e dove applica il diritto al caso concreto. a) L'accertamento del fatto storico. All'inizio del processo il “fatto storico commesso dall'imputato” non è certo; l'accusa ne afferma l'esistenza; la difesa in tutto o in parte la nega. Il conflitto tra accusa e difesa deve essere verificato mediante un accertamento basato su principi razionali; il giudice non può ad esempio limitarsi ad affermare che un testimone è attendibile soltanto perché gli crede, ma deve spiegare i motivi sui quali fonda la sua convinzione. Perché l'accertamento sia “razionale”, deve avere le seguenti caratteristiche: 1) deve essere basato su prove; 2) deve essere oggettivo; 3) deve essere basato sui principi della logica, dell'esperienza e della scienza. 1) “Provare” significa indurre nel giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un determinato modo. Tale fatto deve essere “rappresentato” al giudice mediante altri fatti, per cui la prova è quel ragionamento che partendo da un fatto noto si deducono l'esistenza del fatto ignoto e le modalità con le quali si è verificato. 2)L'accertamento, perché sia “oggettivo”, non deve fondarsi sulla conoscenza privata del giudice, bensì su elementi realmente avvenuti che trovino fondamento nelle prove. Il massimo grado di oggettività si ha quando il giudice si trova in una situazione di piena terzietà, anche di tipo psichico, rispetto alla prova. Ciò avviene quando sono le parti a ricercare la prova, a chiederne l'ammissione, ad assumerla ponendo le domande ai testimoni e agli altri soggetti che rendono dichiarazioni, come avviene nel nostro ordinamento. ! 56 3) L'accertamento deve essere “logico” e cioè basato sui principi razionali che regolano la conoscenza. L'assunzione delle prove deve permettere al giudice di valutare la credibilità e l'attendibilità di colui che rende dichiarazioni. Inoltre, il risultato di una prova deve essere messo a confronto con i risultati di altre prove: se vi è una contraddizione, questa deve essere risolta. Infine, il giudice deve riportare nella motivazione il percorso logico che ha seguito nella ricostruzione del fatto storico. L’accertamento può consistere in un giudizio sull'esistenza di un fatto storico così come esso è stato descritto nell'imputazione; oppure, in un giudizio che esclude che il fatto storico si sia verificato nel modo ipotizzato dall'accusa. In ogni caso si tratta di un giudizio su di un “fatto” e non sul diritto. b) L'individuazione della norma penale incriminatrice. Si tratta di un accertamento di tipo “giuridico”: il giudice esamina la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Il ragionamento svolto dal giudice è di tipo “giuridico”: 1) perché ha ad oggetto le disposizioni di legge; 2) perché usa il metodo dell'interpretazione per chiarire il significato esatto della legge e per ricostruire il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. c) Il giudizio di conformità. Il giudice valuta se il fatto storico, ricostruito mediante prove, è conforme al fatto tipico previsto e sanzionato dalla norma penale incriminatrice. 3. Il ragionamento inferenziale: prova e indizio. Al fine di agevolare la comprensione della disciplina della prova penale, è necessario premettere alcune nozioni di base. Il termine "prova" può avere almeno quattro diversi significati nella lingua italiana: si può riferire alla fonte di prova, al mezzo di prova, all'elemento di prova o al risultato probatorio. Fonte di prova. Sono fonti di prova le persone e le cose che forniscono un elemento di prova (es. art. 65, comma 1). Il reato, come qualsiasi fatto umano, lascia tracce sia nella memoria delle persone che lo hanno percepito, sia nelle cose presenti nei luoghi nel quale si è verificato. Le persone e le cose sono le fonti dalle quali possono essere tratte le informazioni utili per ricostruire un fatto del passato. Mezzo di prova è lo strumento col quale si acquisisce al processo un elemento che serve per la decisione; ad esempio, mezzo di prova è una testimonianza (artt. 194-207). Elemento di prova è l'informazione (intesa come dato grezzo) che si ricava dalla fonte di prova, quando ancora non è stata valutata dal giudice (art. 65, comma 1), il quale valuta la credibilità della fonte e l'attendibilità dell'elemento ottenuto, ricavandone un risultato probatorio (art. 192, comma 1). Pertanto, il risultato probatorio è l'elemento di prova valutato in base ai criteri della credibilità e dell’attendibilità. Attraverso i risultati delle prove acquisite nel processo, il giudice ricostituisce il fatto storico di reato (c.d. conclusione probatoria; es. art. 530). Un fatto si può ritenere accertato quando l'ipotesi formulata corrisponde alla ricostruzione del fatto storico effettuata nel processo. Il ragionamento inferenziale: il fatto storico è avvenuto nel passato, quindi non è ripetibile. Il giudice ricava la sua esistenza nel passato mediante le tracce che ha lasciato. Da tali tracce (elementi di prova) il giudice ricava l’esistenza del fatto del passato. Nel suo insieme la prova può essere definita come un ragionamento che da un fatto noto ricava l’esistenza di un fatto che è avvenuto nel passato e delle cui modalità di svolgimento occorre convincere il giudice. Per questa sua caratteristica il ragionamento probatorio viene detto inferenziale. Nel processo penale il ! 57 scientifico. Il risultato probatorio ha un alto grado di probabilità a due condizioni: che la legge scientifica non soffra di eccezioni e che la medesima sia applicata correttamente al caso concreto. La regola di valutazione degli indizi. L'indizio non è una prova “minore”, bensì una prova che deve essere verificata. Esso è idoneo ad accertare l'esistenza di un fatto storico di reato soltanto quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell'accaduto. Il principio è formulato nell'art. 192, comma 2: « l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti ». di conseguenza un solo indizio non è mai sufficiente. La gravità degli indizi attiene al grado di convincimento: è “grave” l’indizio che è resistente alle obiezioni e che presenta quindi un’elevata persuasività. Occorre, cioè, che la massima di esperienza, che è stata formulata, esprima una regola che ha un ampio grado di probabilità. Gli indizi sono precisi quando non sono suscettibili di altre diverse interpretazioni; ad esempio, è indizio preciso la coincidenza tra profili genetici risultante dall'esame del DNA. Ma soprattutto la "circostanza indiziante" deve essere ampiamente provata; altrimenti si corre il pericolo di costruire un castello di argomentazioni logiche che non ha fondamenta. Infine, gli indizi sono concordanti quando convergono tutti verso la medesima conclusione. Non debbono esservi elementi contrastanti; se questi residuano, occorre poter escludere ogni altra ricostruzione prospettabile. Il ragionamento indiziario non “rappresenta”, infatti, direttamente il fatto da provare, ma dimostra come questo probabilmente è avvenuto. Bisogna, quindi, escludere tutte le alternative, spiegando nella motivazione della sentenza perché appaiono improbabili, in modo da ritenere il fatto provato “oltre ogni ragionevole dubbio”, ex art. 533. Gli indizi devono essere (a pena di inutilizzabilità) gravi precisi e concordanti soltanto quando tendono a dimostrare l'esistenza di un fatto. L'alibi. È quella prova logica che dimostra che l'imputato non poteva essere a quell'ora sul luogo del delitto perché nel medesimo momento era in altro luogo ben distante; La massima di esperienza che si applica consiste nella regola in base alla quale la stessa persona non può trovarsi contemporaneamente in due luoghi differenti: in tal caso può avvenire che un solo indizio sia idoneo a dimostrare con certezza che il fatto non si è verificato così come lo ha ricostruito l'accusa. Anche la circostanza indiziante sulla quale si basa l'alibi ( es. un teste afferma che l'imputato era in un determinato luogo) deve essere sottoposto al vaglio di attendibilità da parte del giudice. Le leggi scientifiche probabilistiche. Accanto alle leggi scientifiche cd. universali, cioè quelle leggi che hanno un elevato grado di predizione, come le leggi della fisica o della chimica, nel processo penale sono utilizzate anche le leggi probabilistiche, che cioè hanno un grado di predizione non elevato, come le leggi della scienza medica. Ad es. la dattiloscopia si basa sull'osservazione empirica secondo la quale non si riscontrano due individui che abbiano le medesime impronte digitali; la presenza di sedici-diciassette punti simili tra due impronte (c.d. minuzie), in assenza di difformità, induce a ritenere che le impronte stesse appartengono alla medesima persona. Quando in concreto si devono mettere a confronto impronte che denotano un numero minore di punti simili, la probabilità di esattezza nell’identificazione decresce, ma può restare comunque alta quando una delle minuzie è raramente riscontrabile nella popolazione. Alcuni casi giudiziari sono stati risolti avendo a disposizione soltanto sette punti simili e ovviamente in assenza di una qualsiasi difformità: ne basta una per invalidare l'identificazione. Probabilità statistica e probabilità logica. Non vi è nessuna autorità scientifica che può determinare in astratto quale è il livello sufficiente di probabilità che serve per risolvere un caso concreto. La probabilità statistica non deve confondersi con la “probabilità logica”. Si tratta del giudizio circa l'idoneità di una o più leggi scientifiche a spiegare il singolo caso concreto sottoposto all'attenzione del giudice. La probabilità logica, denominata anche “certezza processuale al di là del ragionevole dubbio”, è apprezzata dal giudice sulla base degli elementi di prova raccolti in un determinato processo. La probabilità logica è un concetto che viene in rilievo non soltanto quando si tratta di leggi scientifiche; essa esprime uno standard probatorio che discende dalla presunzione di innocenza e che consiste nella certezza processuale al di là del ragionevole dubbio. Pertanto, anche qualora la prova si basi su massime di esperienza, per condannare occorre una forte probabilità logica. Riepilogo: l’indizio è un ragionamento che, partendo da un fatto provato, si propone di accertare l’esistenza di un fatto da provare. Il fatto noto può integrare una dichiarazione o un elemento materiale. Il risultato di tale inferenza (il fatto da provare) può essere sia il fatto storico di reato sia un fatto secondario rispetto alla condotta del reo, ma che da questa dipende logicamente. Completamente differente è il ragionamento che si svolge in presenza di una prova rappresentativa perché in essa il fatto noto rappresenta il fatto da provare e cioè il fatto scritto nell’imputazione. Il ragionamento del giudice: Il giudice ricerca la regola di esperienza esaminando i casi simili alla circostanza indiziante, da essi trae la regola che opera in detti casi. Il procedimento è di tipo induttivo: dalla ripetuta osservazione di fenomeni o casi si ricava per astrazione una regola generale; si ritiene che in casi simili il comportamento di un uomo o un fenomeno naturale sia identico. Se sono ricavate due regole aventi differenti probabilità di validità, il giudice deve scegliere quella che si adatta meglio al caso concreto. ! 60 Una volta individuata la massima di esperienza, il giudice la applica al fatto noto. Si tratta ragionamento di tipo deduttivo: ad un caso singolo è applicata la regola al fine di trarne come conseguenza l’esistenza del fatto da provare. Infatti il fatto da provare costituisce l’antecedente causale del fatto noto ma essendo in presenza di un ragionamento probabilistico, il nesso causale tra i due fatti è soltanto probabile. Si tratta dunque di una certezza relativa. Al posto della regola di esperienza può essere applicata una legge scientifica universale ed in questo caso le conclusioni saranno altamente probabili; se si applica una legge probabilistica invece non si può escludere che altre siano state le cause del fatto noto. Il codice vieta che il fatto di reato possa essere accertato mediante un solo indizio, a prescindere dal fatto che il ragionamento si poggi su una massima di esperienza o una legge scientifica. Partendo dalla osservazione di un fatto, in base alla migliore scienza ed esperienza si ipotizza che tale fatto sia stato provocato da una determinata condotta. Le parti devono poter tentare di smentire l’applicabilità della regola nel caso concreto ed infatti hanno il diritto di ricercare e introdurre nel processo quelle prove che sono volte a dimostrare una diversa ipotesi ricostruttiva. Ove la controparte riesca a dimostrare l’infondatezza della ricostruzione avversaria, la validità in concreto della regola utilizzata viene meno e l’esistenza del fatto non è più probabile. 4. Il procedimento probatorio e il diritto alla prova. Il principio di legalità processuale in materia probatoria. Il procedimento probatorio è regolamentato dal codice nei fondamentali momenti della ricerca, dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova. Nel processo di tipo accusatorio in base al principio della separazione delle funzioni processuali, alle parti spetta il potere di ricerca e di domanda,mentre al giudice spetta il potere di decidere l'ammissione e di emettere una valutazione sulle prove. I poteri sono regolamentati dalla legge perché le parti contrapposte non ne abusino; il controllo spetta al giudice imparziale. Ma anche i poteri esercitabili dal giudice sono regolati dalla legge, al fine di evitare abusi anche da parte di costui, vi è quindi un vero e proprio principio di “legalità processuale in materia probatoria”. Nella tecnica di formazione della prova le richieste formulate dall'accusa e dalla difesa sono valutate dal giudice in base ai medesimi criteri della pertinenza e della rilevanza; gli elementi ricavati sono sottoposti alla medesima valutazione di attendibilità. Il “diritto alla prova” indica così il potere, spettante a ciascuna delle parti, di: a) ricercare le fonti di prova; b) chiedere l'ammissione del relativo mezzo; c) partecipare alla sua assunzione; d) ottenere una valutazione del risultato al momento delle conclusioni. a. La ricerca della prova. Essa spetta esclusivamente alle parti: in primo luogo al pubblico ministero (art. 326 c.p.p.), sul quale incombe l'onere della prova, e cioè l'onere di convincere il giudice della reità dell'imputato; poi, al fine di confutare le tesi dell'accusa, spetta all'imputato l'onere di ricercare sia quelle prove che possano convincere il giudice della non credibilità della fonte o della inattendibilità dell'elemento di prova a carico, sia quelle tendenti a dimostrare che i fatti si sono svolti diversamente (art. 327-bis c.p.p.). Il diritto di indagare è concesso alle parti in tutto il corso del procedimento e costituisce un aspetto fondamentale per la realizzazione del contraddittorio (artt. 24, comma 2 e 111, commi 2 e 4 Cost.). b. L’ammissione della prova. Deve essere chiesta al giudice dalle parti (art. 190 c.p.p.); esse hanno l'onere di introdurre il singolo mezzo di prova e lo adempiono chiedendo (ad esempio) l'esame di un testimone o l'acquisizione di un documento. Il giudice ammette la prova in base a quattro criteri (art. 190, comma 1 c.p.p.): deve essere pertinente, e cioè essa deve riguardare l'esistenza del fatto storico enunciato nell'imputazione o di uno dei fatti indicati nell'art. 187 c.p.p. (ad es. la credibilità di un testimone); non deve essere vietata dalla legge (es. il divieto di perizia criminologica, ex art. 220, comma 2 c.p.p.); non deve essere superflua, e cioè sovrabbondante; non deve tendere ad acquisire il medesimo risultato conoscitivo che si aspetta da una pluralità di mezzi di prova; infine deve essere rilevante, e cioè tale che il suo probabile risultato sia idoneo a dimostrare l'esistenza del fatto da provare. Non occorre che la “rilevanza” o la “non superfluità” siano certe; è sufficiente il dubbio, e cioè la non manifesta irrilevanza o superfluità (art. 190, comma 1 c.p.p.); il riconoscimento del diritto alla prova implica, così, un limite al potere discrezionale esercitabile dal giudice nel respingere la richiesta di ammissione di un mezzo di prova. Il provvedimento di ammissione. Il giudice è vincolato anche in un aspetto di carattere “procedimentale”: deve provvedere sulla richiesta di ammissione «senza ritardo con ordinanza» (art. 190, comma 1 c.p.p.). Ciò significa che egli deve motivare l'eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito, senza poter riservarsi di decidere successivamente sull'ammissione. Le parti hanno il diritto di affrontare l'istruzione dibattimentale avendo ben chiaro il quadro probatorio di cui possono disporre. Il diritto alla prova contraria. Ove siano stati ammessi i mezzi di prova richiesti dall'accusa, l'imputato ha diritto all'ammissione delle «prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico» (art. 495, comma 2 c.p.p.). Il medesimo diritto spetta al pubblico ministero «in ordine alle prove a carico dell'imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico». . In sostanza la parte avversa ha diritto all’ammissione della prova che ! 61 ha per oggetto il medesimo fatto ed è finalizzata a dimostrare che non è avvenuto o che comunque si è verificato in maniera diversa. La dimostrazione contraria può essere data anche con un mezzo di prova differente; ad esempio, la dichiarazione di un teste potrebbe essere smentita da un altro dichiarante, ma anche da un documento, da una foto. La garanzia costituzionale. Nella Costituzione vi è il riconoscimento del diritto alla prova contraria, ex art. 111, comma 3 che, con riferimento al solo imputato, proclama il diritto di «ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». La formulazione letterale della norma potrebbe indurre a ritenere che sia escluso qualsiasi filtro operato dal giudice sull'ammissibilità delle richieste di prova formulate, ma un’interpretazione ispirata al principio di ragionevolezza e di parità delle parti fa ritenere che anche le prove richieste dall'imputato debbano superare il vaglio giudiziale di ammissibilità. Limiti al diritto alla ammissione della prova. Il diritto ad ottenere l'ammissione della prova di tipo dichiarativo è stato limitato nelle ipotesi di imputazione avente ad oggetto il delitto di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), i delitti ad esso collegati o alcuni reati in materia di violenza sessuale e di pedofilia (art. 190-bis). Se la persona, che una parte vuole sentire in dibattimento, ha già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio (o le sue dichiarazioni provenienti da altro procedimento sono state acquisite in base all'art. 238 c.p.p.), l'esame è ammesso soltanto in due casi: 1) se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni; 2) se il giudice o una delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze (art. 190-bis, mod. dalla legge n. 63 del 2001). Nella seconda ipotesi, l’ammissione della prova è rimessa alla valutazione del giudice che dovrà accertare la sussistenza delle “specifiche esigenze”. I poteri di iniziativa probatoria del giudice. Nella fase dell'ammissione della prova il giudice, di regola, ha soltanto il potere di decidere se ammettere o meno il mezzo di prova chiesto da una delle parti. Egli di regola non può introdurre un mezzo di prova senza una richiesta di parte, e cioè d'ufficio. In dibattimento, in via eccezionale, il giudice può ammettere una prova quando questa sia assolutamente necessaria e il giudice ha un potere di supplenza della inerzia delle parti. Il potere di iniziativa probatoria, esercitabile dal giudice d'ufficio è giustificato dal fatto che l'esito dell'accertamento in un processo penale incide sulla libertà personale che è un bene indisponibile della persona umana e che è dichiarato inviolabile dalla Costituzione (art. 13 Cost.). c. La assunzione della prova. L'assunzione della prova avviene, se si tratta di dichiarazioni rese in dibattimento, con il metodo dell'esame incrociato. Rientra nel “diritto alla prova” la partecipazione delle parti alla assunzione del mezzo di prova attraverso la formulazione diretta delle domande al dichiarante. Il codice prevede quali fra di esse sono inammissibili; spetta al giudice il potere di vietarle. Il nuovo comma 3 dell'art. 111 Cost. riconosce soltanto all'imputato il diritto di «interrogare o di far interrogare» davanti al giudice «le persone che rendono dichiarazioni a suo carico». È il diritto dell’imputato di “confrontarsi” con colui che lo accusa e tale diritto postula l'obbligo di rispondere secondo verità posto in capo all'accusatore. L'esame incrociato. È il miglior strumento che permette di valutare se il dichiarante risponde secondo verità. Se correttamente usato, esso consente di smascherare la persona che dice il falso intenzionalmente o inconsciamente,a causa di difetti nella percezione o nella memoria. In particolare, nel controesame, la parte può porre domande- suggerimento per saggiare la attendibilità della dichiarazione: si ritiene credibile quel dichiarante che sa resistere alle contestazioni che gli sono poste. Se al giudice fosse affidato il compito istituzionale di porre le domande egli, anche senza volere, finirebbe per scegliere una ipotesi ricostruttiva dei fatti; per tali motivi il codice attribuisce al presidente il potere di porre domande soltanto dopo che le parti hanno concluso l'esame incrociato (art. 506, comma 2); successivamente alle domande poste dal giudice, le parti possono riprendere l'esame. Ciò dimostra che il sistema normativo attribuisce al giudice una funzione di mero chiarimento di punti trattati dalle parti in modo non completo. La tutela della libertà morale del dichiarante. L’art. 188 c.p.p. stabilisce che: «non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti». Analogo divieto è contenuto nell'art. 64, comma 2 c.p.p. in relazione all'interrogatorio dell'indagato. La "acquisizione" della prova. In senso stretto, il termine acquisizione indica l'ammissione della prova “precostituita”, e cioè formata fuori del procedimento o prima del dibattimento; in senso lato, è utilizzato per ricomprendere anche l'ammissione e l'assunzione della prova “non precostituita” quale è la dichiarazione. d. La valutazione della prova. Le parti hanno il diritto di offrire al giudice la propria valutazione degli elementi di prova: è il potere di “argomentare” sulla base dei risultati che siano stati acquisiti. In dibattimento ciò avviene al momento della discussione finale. Le parti illustrano le proprie conclusioni in un ordine che rispetta le cadenze dell'onere della prova: al pubblico ministero seguono i difensori dell'eventuale parte civile e dell'imputato. Il presidente dell'organo collegiale dirige la discussione ed impedisce ogni divagazione, ripetizione ed interruzione. Al diritto delle parti corrisponde il dovere del giudice di dare una valutazione logica dell'elemento di prova raccolto, in base all’art.192 egli valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. L'obbligo di ! 62 di introdurre la prova è previsto nell’art. 190, comma 1 c.p.p., secondo cui «le prove sono ammesse a richiesta di parte». L'onere di introdurre la prova attribuisce alle parti il compito: a) di ricercare le fonti di prova; b) di valutare la necessità del mezzo di prova al fine di ottenere il risultato vantaggioso, e cioè dimostrare l'esistenza del fatto affermato; c) di chiedere al giudice l'ammissione del mezzo di prova. Il giudice decide se ammetterlo cioè che la prova sia “pertinente” rispetto all'oggetto del processo (art. 187), che sia “rilevante”, che non sia “vietata dalla legge” e che non sia “superflua” (e cioè che non vi sia sovrabbondanza di mezzi di prova sullo stesso punto; art. 190, comma 1). Non occorre che la "rilevanza" o la "non superfluità" siano certe; è sufficiente il dubbio, e cioè la non manifesta irrilevanza o superfluità. Il riconoscimento del diritto alla prova implica, quindi, un limite al potere discrezionale esercitabile dal giudice nel respingere la richiesta di ammissione di un mezzo di prova. Il “principio dispositivo in materia probatoria” stabilisce che la parte dispone della iniziativa volta alla ammissione del mezzo di prova. Tale regola nel processo penale è sottoposta a varie eccezioni. In base all'art 190, comma 2 c.p.p. «la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio», con la conseguenza che i casi nei quali il giudice introduce il mezzo di prova senza richiesta di parte costituiscono una deroga al principio dispositivo e devono essere previste espressamente dalla legge, ad es. art. 70, comma 1. L'onere di convincere il giudice. L'aver soddisfatto l'onere di introdurre la prova (in senso formale) non comporta automaticamente l'aver soddisfatto l'onere della prova in senso sostanziale. Il giudice può ammettere la testimonianza di Caio, ma se questi appare non attendibile o non credibile, il giudice non sarà convinto dell'esistenza del fatto narrato. Una parte soddisfa l'onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il giudice della esistenza del fatto storico da essa affermato; un fatto non provato equivale giuridicamente ad un fatto inesistente. A sua volta, la mancata osservanza dell'onere di introdurre un determinato mezzo di prova (onere formale) non comporta inevitabilmente il rigetto della domanda, anche se tale effetto può essere molto probabile. Infatti un'altra parte del processo potrebbe chiedere l'ammissione di quel determinato mezzo di prova. Una volta acquisito l'elemento di prova, il giudice deve valutare se esso è idoneo a dimostrare l'esistenza di un fatto oggetto di prova; e ciò a prescindere dalla circostanza che sia stato introdotto o meno dalla parte che aveva l'onere sostanziale della prova di quel determinato fatto. Si tratta del c.d. principio di acquisizione della prova. Al giudice spetta il potere residuale di sollecitare le parti o, anche, di introdurre d'ufficio mezzi di prova in determinate ipotesi previste dalla legge. In particolare, nel corso" del dibattimento, terminata l'acquisizione delle prove, il giudice «se risulta assolutamente necessario» può disporre anche d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova (art. 507). Attengono al tema dell'onere della prova i concetti di fatto notorio e di fatto pacifico. Il fatto notorio è un fatto di pubblica conoscenza in un determinato ambito territoriale. Si tratta, ad esempio, di un terremoto, della svalutazione della moneta, di uno sciopero generale. L'esistenza di un simile fatto è conosciuta dal giudice senza la necessità che le parti chiedano l'ammissione di un determinato mezzo di prova: notoria non egent probatione. Occorre naturalmente che il fatto sia indubitabile ed incontestabile. Il fatto pacifico è un fatto di conoscenza non pubblica; esso è affermato da una parte ed è ammesso esplicitamente o implicitamente dalla controparte. Ad esempio, la difesa non contesta che un testimone abbia detto una determinata frase. Il fatto pacifico non ha bisogno di essere provato: il giudice può direttamente utilizzarlo come elemento di ! 65 prova per la sua decisione. Tuttavia il giudice può valutare se il testimone è credibile e se quanto ha affermato è attendibile. 6. Il quantum della prova (c.d. standard probatorio). La quantità di prova, che è necessaria a convincere il giudice, è diversa nel processo civile ed in quello penale. Nel primo il quantum di prova è identico per l'attore e per il convenuto. Processo civile. Nel processo civile l’attore deve provare i fatti costitutivi del diritto in modo tale da convincere il giudice che la propria ricostruzione appare più probabile di ogni ipotesi contraria; parimenti avviene quando l'onere della prova spetta al convenuto. In base all'art. 2697, comma 2 c.c., «chi eccepisce l'inefficacia (dei fatti costitutivi del diritto) ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda». Ciò significa che in capo al convenuto esiste il medesimo standard probatorio previsto per l'attore. La norma trova la sua giustificazione nella sostanziale equivalenza dei diritti sui quali si controverte nel processo civile. Processo penale. Viceversa, nel processo penale colui che accusa ha l'onere di provare la reità dell'imputato in modo da eliminare ogni ragionevole dubbio. Tale standard probatorio è rimasto a lungo privo di espressa previsione entro il codice di procedura penale. Fino al 2006 l'art. 530 comma 2 si limitava a stabilire che il giudice doveva pronunciare sentenza di assoluzione quando era «insufficiente» o «contraddittoria» la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile. Tuttavia, nessuna norma espressa prevedeva il parametro in base al quale valutare l'insufficienza o la contraddittorietà della prova d'accusa. La giurisprudenza aveva accolto il canone in base al quale nel processo penale la reità doveva essere provata oltre ogni ragionevole dubbio. Pertanto, si era affermato che le prove d'accusa erano insufficienti quando il pubblico ministero non aveva dimostrato la reità eliminando nel giudice ogni ragionevole dubbio; mentre esse dovevano ritenersi contraddittorie quando, pur essendo prevalenti rispetto alle prove d'innocenza, si inserivano in un quadro probatorio che nel suo complesso non appariva concordante e univoco. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la legge n. 46 del 2006 il Parlamento ha modificato l'art. 533 comma 1 relativo alla sentenza di condanna e ha stabilito che il giudice pronuncia tale sentenza quando l'imputato «risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Tale modifica ha confermato l'interpretazione giurisprudenziale determinatasi in precedenza; la prova d'accusa, che lascia residuare un ragionevole dubbio, è equiparata alla mancata prova. L’aggettivo “ragionevole” significa “comprensibile da una persona razionale” e dunque oggettivabile attraverso una motivazione che faccia riferimento ad argomentazioni logiche nel rispetto del principio di non contraddizione. Non potrà trattarsi, quindi, di un dubbio meramente psicologico, possibile o congetturale, percepito soggettivamente dal giudice. Pertanto, può ritenersi che l'accusa abbia adempiuto all'onere quando ogni differente spiegazione del fatto addebitato, basata sulle prove, appare non ragionevole. Nel processo penale il criterio del ragionevole dubbio costituisce sia una regola probatoria, sia una regole di giudizio: sotto il primo profilo, il ragionevole dubbio nella sua veste di regola probatoria disciplina nel quantum l'onere della prova che è a carico del pubblico ministero; sotto il secondo profilo, il ragionevole dubbio prescrive la regola di giudizio che il giudice, deve applicare: egli deve ritenere come non provata la reità e, conseguentemente, assolvere l'imputato. L'onere della prova delle cause di non punibilità. Il dubbio è a favore dell'imputato anche quando questi ha l'onere della prova, e cioè quando egli deve convincere il giudice dell'esistenza di un fatto favorevole. Ai sensi dell'art. 530, comma 3, «se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione». Il legislatore non ha inserito nella norma in oggetto l'aggettivo “ragionevole”, tuttavia, l'art. 530 comma 3 deve interpretarsi congiuntamente all'art. 533 comma 1 come modificato dalla legge n. 46 del 2006. Pertanto, l'imputato avrà soddisfatto l'onere della prova e sarà prosciolto se avrà fatto sorgere nel giudice un dubbio ragionevole sull'esistenza della scriminante. Occorre tenere conto che l’imputato, se pure ha l’onere di provare i fatti a sé favorevoli, tuttavia non ha quei poteri coercitivi di ricerca delle fonti di prova che nel nostro sistema spettano soltanto al PM e alla polizia giudiziaria. Pertanto allo scopo di far sorgere un ragionevole dubbio egli potrebbe limitarsi ad asserire l'esistenza di un fatto estintivo (ad es., una causa di giustificazione o un alibi); spetterà poi all'autorità inquirente condurre le indagini per evitare che nel giudice si formi un convincimento favorevole all'imputato. Tuttavia quest'ultimo ha l'onere di indicare con sufficiente precisione i fatti e di introdurre almeno un principio di prova. Ad esempio, l'imputato che eccepisce l'esistenza di un alibi deve indicare con esattezza il luogo nel quale afferma di essersi trovato e le sembianze delle persone che erano presenti. Soltanto la pubblica accusa ha i poteri coercitivi per identificare i testimoni; ove non lo faccia, rischia di lasciar sopravvivere un dubbio ragionevole che andrà a favore dell'imputato. Viceversa può accadere che l'imputato si limiti ad indicare in modo impreciso fatti che soltanto lui poteva conoscere, impedendo all'accusa di condurre indagini per accertarli; in tal caso egli non adempie all'onere della prova perché non fa sorgere un dubbio ragionevole. 7. L'ambito di applicabilità delle norme sulla prova. ! 66 Il libro III sulle prove è collocato nella prima parte del codice, definita “statica” perché vi sono disciplinati gli aspetti comuni all'intero procedimento penale; nella seconda parte, detta “dinamica”, è disciplinato lo svolgimento del medesimo. Ciò pone il problema dell’estensibilità delle norme sulla prova in relazione alle singole fasi del procedimento penale; non vi è dubbio sull’applicabilità alla fase del giudizio o all'incidente probatorio mentre problemi si pongono in relazione alla fase delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare. Ma la collocazione della materia della prova nel libro terzo già di per sé costituisce un indice positivo della sua estensibilità a tutto il procedimento penale: i primi quattro libri del codice, infatti, costituiscono una sorta di “parte generale” del procedimento penale, per cui le norme generali sulle prove si applicano a tutto il procedimento penale a meno che non siano incompatibili (espressamente o implicitamente) con la regolamentazione del singolo atto da compiere in una determinata fase. 8. Oralità, immediatezza e contraddittorio. Il principio di oralità. Si ha “oralità” in senso pieno soltanto quando coloro che ascoltano possono porre domande ed ottenere risposte a viva voce dal dichiarante. II principio di immediatezza. È attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l'assunzione della prova e la decisione; in tal modo il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova (artt. 526 e 514) e viene assicurata l’identità fisica tra il giudice che assiste all'assunzione della prova e colui che prende la decisione di condanna o assoluzione (art. 525, comma 2). Il principio del contraddittorio. Comporta la partecipazione delle parti alla formazione della prova. Nella prova dichiarativa ciò avviene quando le parti pongono le domande e formulano le contestazioni. Così, gli elementi di prova si formano in modo dialettico: si ha il contraddittorio “per la prova”, fondamentale nel processo accusatorio, dove l’oralità è funzionale al contraddittorio perché permette il massimo della dialettica processuale. L’art. 111 Cost., 4° comma stabilisce che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova», riconosce espressamente il metodo dialettico inteso come la migliore forma di conoscenza. Da tale principio si ricava che, di regola, il giudice in dibattimento deve decidere soltanto in base alle prove raccolte nel contraddittorio (art. 526 c.p.p.). Vi possono essere situazioni nelle quali è attuato il contraddittorio, ma non l'immediatezza. Ciò avviene quando, durante le indagini preliminari, si svolge l’incidente probatorio che costituisce un'anticipazione dell'udienza dibattimentale senza la presenza del pubblico (artt. 392 e ss.). Il contraddittorio è assicurato in quanto l'escussione di una persona avviene mediante l'esame incrociato ad opera del pubblico ministero e del difensore dell'indagato; tuttavia, se le dichiarazioni verbalizzate sono lette nel successivo dibattimento (art. 511), il principio di immediatezza non è rispettato. Le eccezioni al contraddittorio. I principi dell'oralità, dell'immediatezza e del contraddittorio hanno un valore strumentale in quanto servono ad accertare la verità nel modo migliore; l’accertamento deve avvenire in base a prove, nel rispetto delle garanzie fondamentali. Tuttavia, non sempre nella realtà è possibile attuare in modo assoluto tali princìpi. Il problema è così quello di prevedere quelle eccezioni che siano ragionevoli al fine di una ricostruzione corretta dei fatti. Ad esempio, se il testimone di un reato è stato minacciato prima del dibattimento, diventa determinante conoscere quale versione dei fatti aveva esposto nel corso delle indagini. Il nuovo comma 5 dell'art. 111 Cost. ha tipizzato le situazioni eccezionali, stabilendo che «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita». 10. Il giudice, lo storico e lo scienziato. a. Considerazioni preliminari. Il giudice svolge un ragionamento differente da quello dello storico e da quello dello scienziato; la peculiarità sta nelle norme processuali che regolano i passaggi logici e temporali della sua decisione. Se mai, quello dello storico e quello dello scienziato sono due metodi di accertamento entrambi posti a disposizione del giudice; essi, in ogni caso, differiscono notevolmente tra di loro. Lo storico. Il suo compito è di ricostruire come si è svolto un fatto che è avvenuto nel passato e che ha cessato di esistere. Si tratta di un fatto non ripetibile, che può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha lasciato nel mondo del reale o nella memoria degli uomini. Da tali tracce (elementi di prova) lo storico ricava l'esistenza di un fatto del passato. Gli strumenti, dei quali egli si serve, consistono nelle prove rappresentative e indiziarie. Ove non sia presente una prova rappresentativa (es., un testimone oculare, un documento o, per fatti più vicini al momento attuale, un filmato) lo storico utilizza, per accertare i fatti del passato, le tracce che ancor oggi sono presenti. Si tratta della prova critica (o indiziaria): ad un fatto provato viene applicata una regola di esperienza che permette di accertare ciò che è probabile sia avvenuto in passato. Lo scienziato. Il compito dello scienziato è quello di esaminare un fatto che è ripetibile nel senso che è riproducibile o, comunque, si è riprodotto in modo da poter essere osservato. La finalità è quella di ricavare le leggi della natura che ne regolano lo svolgimento. Lo scienziato utilizza una conoscenza empirica: individua determinate categorie di fatti, studia i rapporti che intercorrono tra di essi e ricava leggi che sono valide fino a quando non si dimostrano ! 67 giudice e di dire la verità (artt. 198 c.p.p. e 372 c.p.), mentre l'imputato, quando si offre all'esame incrociato ai sensi dell'art. 208, non ha l'obbligo di presentarsi (art. 208), né l'obbligo di rispondere alle domande (art. 09, comma 2), né l'obbligo di dire la verità. In base all'art. 197 la qualità di testimone è di regola incompatibile con la qualità di parte ed, in particolare, di imputato, salvo le eccezioni previste dalla legge; la parte civile può, invece, essere sentita come testimone con gli obblighi penali conseguenti, mentre le altre parti private (responsabile civile e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria) non possono essere chiamate a deporre come testimoni, né possono offrirsi spontaneamente in tale ruolo. Il testimone e le parti sono esaminati sui fatti che costituiscono oggetto di prova, e cioè sulla responsabilità dell'imputato e sui fatti che servono a valutare la credibilità delle fonti e l'attendibilità degli elementi di prova (art. 187). La loro deposizione avviene nella forma dell'esame incrociato (art. 209 comma 1), e cioè con lo strumento che è ritenuto il più efficace per l'accertamento dei fatti. La qualità di testimone. La qualità di testimone può essere assunta dalla persona che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova ma che, al tempo stesso, non riveste una delle qualifiche alle quali il codice riconduce l'incompatibilità a testimoniare (es., la qualifica di imputato, o di imputato di un procedimento connesso o collegato, o di responsabile civile, o di soggetto civilmente obbligato per la pena pecuniaria). La persona così delineata diventa "testimone" soltanto quando, su richiesta di parte (o d'ufficio nei casi previsti), è chiamata a deporre davanti ad un "giudice" nel procedimento penale. Gli obblighi del testimone. Il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice (art. 198); se non si presenta senza un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo al pagamento di una somma di danaro nonché alle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa (art. 133); egli ha l'obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice; il testimone, infine, ha l'obbligo di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte». Se tace ciò che sa, afferma il falso o nega il vero, commette il delitto di falsa testimonianza (art. 372 c.p.). La libertà morale della persona nell'assunzione della prova dichiarativa. Un generale divieto probatorio che concerne le modalità di assunzione della prova è previsto dall'art. 188 c.p.p.: «non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti». Analogo divieto è posto per l'interrogatorio dell'indagato. Tra i metodi che influiscono sulla libertà di autodeterminazione, vi è la tortura (fisica o psichica). Tra quelli che tendono anche ad alterare la capacità di ricordare i fatti vi è la narcoanalisi e l'ipnosi; tra i metodi idonei ad alterare la capacità di valutare i fatti può essere ricompreso il poligrafo (macchina della verità), che si ritiene possa avere un forte effetto di condizionamento psichico. Il divieto probatorio in esame opera oggettivamente: un eventuale consenso dell'interessato non rende lecito l'uso di metodi o tecniche vietati. Il divieto ha ad oggetto le modalità di acquisizione della prova; esso determina l'invalidità dell'atto acquisitivo (ad esempio, la dichiarazione del testimone o dell'imputato è inutilizzabile). ! 70 L a persona come fonte di prova dichiarativa. Il divieto probatorio contenuto nelle disposizioni citate vale nei confronti della persona quando essa viene in rilievo come fonte di prova dichiarativa quando, e cioè quando ciò che si cerca appartiene al foro interno dell'individuo e non esiste indipendentemente dalla sua attivazione. Si delinea in tal caso una netta differenza tra l'imputato e tutte le altre personeCon riferimento all'imputato, vengono in gioco le norme costituzionali sul diritto di difesa e sulla presunzione di innocenza, così come integrate dalle Convenzioni internazionali. Tali norme delineano in capo all'imputato una situazione soggettiva che consiste in un pieno diritto di non collaborare. Con riferimento a tutti gli altri individui, i quali potrebbero rivestire la qualifica di testimoni, da sempre si ritiene che le norme costituzionali, che tutelano l'interesse alla repressione dei reati, giustifichino una servitù di giustizia che rende punibile il rifiuto di rispondere o la falsità. Resta fermo, che anche in tal caso, il teste deve essere moralmente libero di autodeterminarsi in relazione al contenuto ed alle modalità delle dichiarazioni (art. 188). La persona come fonte di prova reale. Se una persona riveste interesse probatorio non per ciò che dice, ma per ciò che è, in tal caso, si utilizzano atti di indagini e mezzi di prova e di ricerca che cercano di ottenere elementi diversi dalle dichiarazioni, come le identificazioni, le ricognizioni, le ispezioni, le perquisizioni, i sequestri, le consulenze tecniche e le perizie. Con riferimento a tali attività, i valori costituzionali interessati consistono nelle singole libertà che vengono compresse dalla ricerca e dalla acquisizione della prova. Prima tra tutte, la libertà personale: l’art. 13 consente la limitazione della libertà personale in presenza di un atto motivato dell'autorità giudiziaria nei casi e modi previsti dalla legge. b. La deposizione: oggetto e forma. È resa in dibattimento con le forme dell'esame incrociato, ex artt. 498 e 499 c.p.p. Il testimone è esaminato sui «fatti che costituiscono oggetto di prova»; le domande devono essere pertinenti, e cioè devono riguardare sia i fatti che si riferiscono all'imputazione, sia i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali, come l'accertamento dell'attendibilità di una dichiarazione. L’art. 194 pone un secondo limite alle domande: esse devono avere ad oggetto «fatti determinati»:il testimone di regola non può esprimere valutazioni né apprezzamenti personali, «salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti». Infine, non può deporre su «voci correnti nel pubblico». L'esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni; inoltre può avere ad oggetto le circostanze che servono ad accertare la credibilità, sia delle parti sia dei testimoni. Le leggi n. 66 del 1996, n. 269 del 1998 e n. 228 del 2003 hanno introdotto un secondo limite che riguarda i procedimenti per i delitti di violenza sessuale, di prostituzione minorile e di tratta di persone indicati nell'art. 472, comma 3-bis: le domande aventi ad oggetto la «vita privata» o la «sessualità» della persona offesa dal reato sono di regola vietate; sono consentite se sono «necessarie alla ricostruzione del fatto». ! 71 Sono lecite domande che hanno ad oggetto il fatto storico di reato; si considerano consentite anche le domande che tendono ad accertare la credibilità e l'attendibilità di dichiarazioni che ricostruiscono i fatti; la credibilità e l'attendibilità, infatti, costituiscono "oggetto di prova" ai sensi dell'art. 187, comma 2, in quanto concernono la prova di « fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali». Le domande sulla vita privata o sulla sessualità sono ammesse soltanto se sono "necessarie"; pertanto devono essere funzionali a valutare la credibilità e l'attendibilità di una dichiarazione già resa ed attinente a fatti oggetto di prova. c. La testimonianza indiretta. Dei fatti da provare il testimone può avere una conoscenza diretta o indiretta. Ha una conoscenza DIRETTA quando ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi. Ha una conoscenza INDIRETTA (de relato o de auditu) quando ha appreso il fatto da una rappresentazione che altri ha riferito a voce, per scritto o con altro mezzo (es. con immagini o gesti). Pertanto si ha una testimonianza indiretta quando il fatto da provare non è stato percepito personalmente dal soggetto che lo sta narrando, ma a costui è stato rappresentato da un'altra fonte: «il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone» (art. 195, comma 1). Il teste di riferimento. È la persona da cui si è "sentito dire": egli può avere percepito personalmente il fatto (ed allora è denominato "teste diretto"); oppure può averlo "sentito dire" da un'altra persona (ed è anch’egli denominato"teste indiretto”). Il codice non esclude questa seconda possibilità, anche se è in concreto più difficile trarre un valore probatorio da un sentito dire di “seconda mano”. C’è però un problema e cioè che nel processo penale attraverso l'esame incrociato è possibile accertare la credibilità e l'attendibilità del testimone che ha avuto una conoscenza personale del fatto da provare; a tal fine, il codice permette che siano fatte le contestazioni (art. 500) e le domande-suggerimento nel controesame. Quando il fatto è, invece, conosciuto dal testimone "per sentito dire" occorre che sia possibile accertare l'attendibilità sia del testimone indiretto, sia del testimone diretto. Ecco perché il codice pone alcune condizioni all'utilizzabilità della deposizione indiretta; esse permettono di effettuare il controllo sulla credibilità della persona da cui si è "sentito dire" e sull'attendibilità di quanto è stato riferito. La prima condizione, posta dall'art. 195, richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte «da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame». La legge impone, a pena di inutilizzabilità, di individuare fisicamente la persona o la fonte del "sentito dire", al fine di valutare la credibilità e l'attendibilità di quanto è stato riferito. L’ "individuazione" è diversa dall’ "identificazione"; ai fini dell'individuazione è sufficiente, ad esempio, aver indicato la persona che abitualmente frequenta un determinato luogo. Vi è una seconda condizione alla quale il nostro codice subordina l'utilizzabilità della testimonianza indiretta. Quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto, il giudice è obbligato a disporne la citazione (art. 195, comma 1). Se il giudice non dispone la citazione, la testimonianza indiretta non è utilizzabile; se, viceversa, nessuna delle parti ha chiesto la citazione, la testimonianza indiretta è comunque utilizzabile. Eccezione alla seconda condizione. In via eccezionale la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l'esame del testimone diretto « risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità». In particolare, l'irreperibilità del testimone è una situazione che presuppone che lo stesso sia già stato non soltanto individuato (ad esempio, l'avventore di un bar che si comporta in un modo caratteristico), ma anche identificato con nome, cognome o eventuale soprannome; l’irreperibilità presuppone che sia stato impossibile notificare la citazione a comparire ai sensi dell'art. 167 al testimone già identificato (dai privati o dalla polizia). Ove costui fosse stato citato, ma non fosse comparso in aula, deve disporsi l'accompagnamento coattivo. Valutazione della testimonianza indiretta. Nei casi sopra menzionati di impossibilità di rendere l’esame, se anche la testimonianza indiretta è utilizzabile, essa tuttavia, dovrà essere valutata con particolare cura, ad esempio, mediante riscontri con altri elementi di prova. Infatti, la mancata deposizione di colui, che aveva conoscenza diretta del fatto, rende più difficile il controllo sulla attendibilità di quanto si è appreso per sentito dire. Inoltre il codice permette al giudice di disporre d'ufficio la citazione del testimone diretto se essa non è stata richiesta da alcuna delle parti (art. 195, comma 2); ma anche se questi non è citato, il "sentito dire" può essere valutato. In concreto, il giudice deve valutare la credibilità e l'attendibilità della deposizione diretta e della deposizione indiretta, in base agli esiti dell'esame incrociato del singolo dichiarante e del riscontro operabile con gli altri risultati probatori già acquisiti. Non sarebbe ragionevole una eventuale massima che tendesse a ritenere comunque più attendibile la narrazione del testimone diretto; anche se è evidente che di questi si può valutare più facilmente la credibilità. È vietato assumere deposizioni su fatti appresi da persone vincolate da segreto professionale o d'ufficio, salvo che queste abbiano comunque divulgato tali fatti; ad esempio, se un avvocato confida ad un suo collaboratore una notizia, che ha appreso riservatamente dal cliente, il collaboratore non deve essere esaminato su questo punto. Il divieto di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni dell'imputato. Il codice pone un divieto di testimonianza sulle dichiarazioni «comunque rese» dall'imputato (o dall'indagato) in un atto del procedimento: la prova delle dichiarazioni rese dall'imputato (o dall'indagato) deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato «con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento». In sede di interrogatorio (art. 64, comma 3) e di sommarie informazioni (art. 350, comma 1), all'indagato deve essere dato avviso della facoltà di non rispondere allo scopo di tutelare la sua libertà nei confronti dell'autorità inquirente: egli deve poter essere libero di scegliere se e quando rendere dichiarazioni, di ciò deve essere redatto un regolare verbale. Il divieto di ! 72 dall’art. 195, commi 1-3. Pertanto se una parte chiede di sentire la fonte diretta il giudice è obbligato a citarla, salvo che l’esame risulti impossibile. d. L'incompatibilità a testimoniare. Il codice pone in via generale la regola per cui ogni persona ha la capacità di testimoniare (art.196.1), prevede però poi tutta una serie di eccezioni, che consistono in situazioni di incompatibilità relative ad un determinato procedimento (art.197). La regola permette che si assumano come testimoni sia l'infermo di mente, sia il minorenne, anche se il giudice dovrà valutare la credibilità e l'attendibilità con estrema cautela, anche ordinando gli «accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge» (es. può disporre una perizia). Vi sono situazioni di incompatibilità, che ricorrono quando una persona, pur capace di deporre, non è legittimata a svolgere la funzione di testimone in un determinato procedimento penale a causa della posizione assunta in tale procedimento o a causa dell'attività ivi esercitata. La ratio della incompatibilità. Vi sono due distinti ordini di ragioni. Da un lato, si vuole escludere che alcune persone abbiano un obbligo, penalmente sanzionato, di dire il vero; ed infatti tali soggetti non possono testimoniare, bensì possono dare il loro contributo conoscitivo senza un obbligo penale di dire la verità, con quel mezzo di prova che è denominato "esame delle parti". Da un altro lato, si vogliono escludere che possano comunque deporre quei soggetti che hanno svolto «nel medesimo procedimento» le funzioni di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario o altre funzioni ritenute incompatibili con quella di testimone. Art. 197, lettera a. Non possono essere assunti come testimoni (bensì sono sentiti con l'esame ai sensi dell'art. 210) gli imputati concorrenti nel medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12, comma 1, lettera a (cooperazione colposa o condotte indipendenti che hanno determinato un unico evento). L'incompatibilità opera a prescindere dal fatto che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati e cessa per il singolo imputato con l'irrevocabilità della sentenza che lo riguarda. Infatti i soggetti in questione possono essere chiamati a rendere testimonianza quando nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. In tutte queste ipotesi il legislatore reputa che l'imputato non corra rischi, perché non può essere processato una seconda volta per il medesimo fatto storico di reato (art. 649). Art. 197, lettera b. Di regola non possono essere assunti come testimoni, bensì sono sentiti con l'esame ai sensi dell'art. 210: 1) gli imputati in procedimenti legati da una connessione debole, e cioè nel caso in cui i reati per cui si procede «sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri» (c.d. connessione teleologica; es. l'imputato di omicidio che è chiamato a deporre nel procedimento relativo al reato di occultamento del cadavere, addebitato ad un altro imputato; 2) gli imputati in procedimenti probatoriamente collegati a norma dell'articolo 371, comma 2, lettera b), come ad es. quando la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un'altra circostanza. Sono poste due eccezioni: in primo luogo, i soggetti menzionati possono deporre come testimoni quando nei loro confronti è stata emessa sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. Stessa ratio di cui sopra. La seconda eccezione è stata introdotta dalla legge n. 63 del 2001 di attuazione del giusto processo. Gli imputati menzionati divengono compatibili con la qualifica di teste se, nel corso dell'interrogatorio, hanno reso dichiarazioni su fatti "altrui", e cioè concernenti la responsabilità di altri imputati collegati o connessi teleologicamente. In questo caso la compatibilità è "parziale" perché è limitata ai fatti altrui, oggetto di precedenti dichiarazioni. Su fatti diversi da quelli altrui già dichiarati, i soggetti in esame restano incompatibili con la qualifica di teste. A tal fine, ai sensi dell’art. 64, comma 3, tutti gli indagati, nel corso dell'interrogatorio svolto dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria o dal giudice devono essere avvertiti che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, su tali fatti dovranno deporre come testimoni. Art. 197, lettera c. Non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e di civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Esse possono rendere dichiarazioni, su loro consenso o richiesta, in qualità di parti e, quindi, senza l'obbligo penalmente sanzionato di dire il vero. Art. 197, lettera d. Non possono essere assunti come testimoni coloro che, nel medesimo procedimento, svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario (es. i cancellieri). L'incompatibilità in esame si fonda sul rilievo che le predette persone non sono psichicamente "terze" rispetto agli atti compiuti; di tali atti può essere data prova soltanto mediante i verbali che sono stati redatti. Sono altresì incompatibili il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione dell'intervista o che hanno redatto la relazione che recepisce le dichiarazioni scritte. Il difensore è incompatibile a testimoniare soltanto in relazione alla attività investigativa che ha svolto; per il resto, e compatibile come testimone, salvo quanto prevede il codice deontologico forense. e. Il privilegio contro l’autoincriminazione. Il codice accoglie la regola generale in base alla quale il testimone ha l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte nel corso dell'esame. Tuttavia può accadere che le parti, durante l'esame incrociato, formulino domande che potrebbero indurre il testimone ad autoincolparsi di ! 75 qualche reato. In ipotesi del genere, se il testimone fosse obbligato a rispondere secondo verità, egli si troverebbe in una penosa alternativa: rispondere incriminando se stesso oppure dire il falso per non ammettere la propria responsabilità. Nel primo caso, rischierebbe un procedimento penale per il reato che si è autoattribuito. Nel secondo caso, p o t r e b b e s u b i r e u n p r o c e s s o p e r f a l s a testimonianza. Una situazione del genere non sarebbe compatibile con la Costituzione, che garantisce i diritti fondamentali dell'individuo, tra i quali rientra anche il diritto di non incriminare se stesso (artt. 2 e 24, comma 2 Cost.). Per questo motivo, il codice tutela il testimone e stabilisce che egli o non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale o (art. 198, comma 2). II privilegio. Tale situazione giuridica soggettiva può essere correttamente definita "privilegio" perché si prevede una "esenzione da un regime ordinario", che è appunto l'obbligo di deporre. L ' e s e n z i o n e è p r e v i s t a d a l l a l e g g e i n considerazione della presenza di un intesse privato meritevole di tutela dall'ordinamento. Il teste ha diritto di non rispondere a tutte le domande che concernono quei "fatti" dai quali emerga una sua responsabilità per un reato commesso in passato. Il presupposto è la semplice probabilità che dalla risposta su di un determinato fatto possa derivare la responsabilità penale del dichiarante; non è sufficiente che possa scaturire una responsabilità soltanto di tipo civilistico od amministrativo. Alla posizione soggettiva del teste non corrisponde, a carico di chi lo interroga, l'obbligo di informare che può non rispondere. Né è vietato alle parti fare domande autoincriminanti al testimone; in ogni caso, il testimone è libero, se crede, di rispondere. Il destinatario del divieto. L'articolo 198, comma 2 stabilisce un divieto probatorio che ha come destinatario il giudice. Quando il testimone rifiuta di rispondere ad una domanda autoincriminante, la legge vieta al giudice di costringerlo a parlare. La violazione di un divieto probatorio comporta la inutilizzabilità del dato che è stato acquisito. Il regime appena descritto opera nell'ipotesi in cui il testimone eccepisca il privilegio in modo fondato e non pretestuoso. Quando il testimone rifiuta di rispondere ed oppone il privilegio, deve dare una giustificazione allo stesso, con l'ovvio limite che non può essere obbligato a precisare troppi dettagli; in caso contrario potrebbe fornire elementi contro di sé. Il giudice valuta le giustificazioni addotte e, se le ritiene infondate, può rinnovare al testimone l'avvertimento che ha l'obbligo di dire la verità. A questo punto il testimone, se ritiene di aver correttamente eccepito il privilegio, può persistere nel rifiuto. In tale ipotesi egli rischia che gli sia contestato il delitto di falsa testimonianza nella forma della reticenza. Tuttavia, se nel procedimento per falsa testimonianza si accerta che tale soggetto effettivamente aveva il privilegio contro l’autoincriminazione, egli deve essere assolto. Infatti il delitto di falsa testimonianza non sussiste quando il testimone «non avrebbe potuto essere obbligato a rispondere. Poiché il divieto è rivolto al giudice, di fronte ad una domanda autoincriminante il testimone è libero di scegliere se eccepire o meno il privilegio. Se il testimone si risolve a rendere dichiarazioni contro se stesso, il codice appresta una apposita regolamentazione. Le risposte autoincriminanti. Si applica l'art. 63, comma 1 che disciplina le "dichiarazioni indizianti" rese davanti all'autorità giudiziaria da una persona che non sia imputata o indagata. La giurisprudenza ritiene che tale norma abbia carattere generale e, pertanto, possa essere applicata anche in dibattimento. Una volta che il testimone abbia reso una dichiarazione dalla quale emergano indizi di reità a suo carico per un reato pregresso, l'autorità procedente (e cioè, il giudice, il pubblico ministero o la polizia) deve per prima cosa interrompere l'esame; in secondo luogo deve avvertire il soggetto che «a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti»; infine deve invitarlo a nominare un difensore. Quanto al valore probatorio delle precedenti dichiarazioni, il codice prevede una inutilizzabilità soggettivamente relativa. Infatti, esse non possono essere utilizzate contro la persona ! 76 che le ha rese. Ciò è conforme alla ratio della norma che è quella di tutelare il privilegio contro l'autoincriminazione, che sarebbe scalfito se fosse utilizzabile contro il dichiarante quello che egli ha detto in qualità di teste e, quindi, con l'obbligo penalmente sanzionato di rispondere secondo verità. Dichiarazioni rese da un testimone che avrebbe dovuto essere sentito come indagato o imputato. L’art.63 al secondo comma contiene una previsione ulteriore, relativa alle dichiarazioni rese da una persona che avrebbe dovuto essere sentita fin dall'inizio dalla polizia o dall'autorità giudiziaria in qualità di indagato o di imputato. Poiché gli inquirenti avrebbero dovuto sentire quella persona nella qualità di indagato o di imputato, avvertendola della facoltà di non rispondere, il codice commina l'inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese da tale soggetto: le dichiarazioni «non possono essere utilizzate» né contro la persona che le ha rese, né contro altre persone. f. Il testimone prossimo congiunto dell'imputato. I prossimi congiunti dell'imputato non possono essere obbligati a deporre come testimoni; sono "prossimi congiunti" gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; fra i "prossimi congiunti" non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole. Il testimone prossimo congiunto dell'imputato deve essere avvisato dal giudice della facoltà di astenersi dal rendere la deposizione; in caso di omissione la dichiarazione resa è affetta da nullità relativa e l'eventuale reato di falsa testimonianza non è punibile. Nel caso in cui il prossimo congiunto, regolarmente avvisato, decida di deporre come testimone, egli non può più rifiutarsi di rispondere alle singole domande; se afferma il falso, egli commette il reato di falsa testimonianza e non opera, in suo favore, la causa di non punibilità dell'art. 384, comma 1 c.p. Persone assimilate ai prossimi congiunti. La facoltà di astensione ed il diritto al preavviso della stessa sono estesi ad altre persone. La facoltà di astensione opera senza limiti in favore di colui che è legato all'imputato da vincoli di adozione; opera con alcuni limiti in favore: a) di chi, pur non essendo coniuge dell'imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso; b) del coniuge separato dell'imputato; c) della persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l'imputato. In questi tre casi la facoltà di astensione dalla testimonianza è limitata ai «fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza coniugale». I prossimi congiunti non possono astenersi e, quindi, sono obbligati a deporre, quando hanno presentato denuncia, querela o istanza, ovvero essi od un loro prossimo congiunto sono offesi dal reato. g. La violazione degli obblighi del testimone. Prima che inizi l'esame incrociato il giudice avverte il testimone dell'obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale per false dichiarazioni o reticenza. Il testimone legge la formula con la quale si impegna « a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a conoscenza" dopodiché è invitato a fornire le sue generalità. Ha quindi inizio l'esame incrociato, nel quale il testimone è tenuto a rispondere alle domande poste, di regola, dalle parti ed, eccezionalmente, dal presidente (art 506.2). Quando sembra che il testimone violi l'obbligo di rispondere secondo verità, soltanto il giudice può rivolgergli l'ammonimento a rispettare l'obbligo di dire il vero. Le parti possono solo sollecitare il giudice a rivolgere l'ammonimento, ma non direttamente al testimone altrimenti sembrerebbe una domanda che potrebbe nuocere alla sincerità delle risposte. In primo luogo, può accadere che il testimone rifiuti di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. In tal caso il giudice provvede ad avvertirlo sull'obbligo di deporre secondo verità. Se il testimone persiste nel rifiuto, il giudice « dispone l'immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge» (art. 207, comma 1). Quest'ultimo, ricevuta la copia del verbale di udienza, darà inizio alle indagini preliminari per accertare se sussiste la falsa testimonianza nella forma della reticenza (art. 372 .p.); inoltre, potrà chiedere al giudice una misura cautelare, ove ne sussistano i presupposti. In secondo luogo, può accadere che il testimone renda dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite. Il giudice, su richiesta di parte o d'ufficio, gli rinnova l'avvertimento dell'obbligo di dire il vero. Ove il pubblico ministero non prenda una immediata iniziativa, e cioè non chieda subito copia del verbale di udienza, il giudice potrà attivarsi soltanto al termine del dibattimento. Se il giudice ravvisa indizi del reato di falsa testimonianza, «ne informa il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti». In ogni caso è fatto divieto di arrestare in udienza il testimone per la testimonianza falsa o reticente. h. II segreto professionale. Alcuni testimoni con determinate qualifiche di tipo privatistico hanno la "facoltà" di non rispondere a determinate domande quando la risposta comporti la violazione dell'obbligo del segreto professionale. Tale segreto può essere definito "qualificato" perché la possibilità di non rispondere spetta soltanto ai professionisti indicati espressamente dall'art. 200 del codice di procedura penale (ministri del culto, avvocati, persone esercenti professioni sanitarie). La tutela penale del segreto professionale. Il professionista non rientrante nelle categorie indicate nell'art. 200 ha l'obbligo di deporre nel processo penale anche se, al di fuori di questo, è tenuto al segreto professionale. Per "segreto" si intende una notizia che non deve essere, portata alla altrui conoscenza e che, pertanto, non sia già di per sé notoria. In tale materia, la disciplina del CPP deve essere coordinata con quella del CP. ! 77 mentito, da quel momento egli può essere ritenuto non credibile; le altre affermazioni che abbia reso difficilmente potranno convincere il giudice, a meno che non siano sopportate da altre prove. Il diritto al silenzio. Nel corso dell'esame l'imputato può rifiutarsi di rispondere ad una qualsiasi domanda; del suo silenzio deve essere «fatta menzione nel verbale» (art. 209, comma 2). Il silenzio dell'imputato può essere valutato dal giudice come "argomento di prova", cioè l'imputato può essere ritenuto non credibile. Infine, l'imputato ha il privilegio di poter affermare di aver "sentito dire" qualcosa, senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità poste dall'art. 195; infatti egli può non indicare la fonte (persona o documento) da cui ha appreso l'esistenza di un fatto. La sua dichiarazione per sentito dire può essere utilizzata (a differenza di quanto avviene per il testimone e le altre parti private) perché, «data la peculiare posizione di questo soggetto, è importante a più effetti acquisire tutto quanto sia venuto a sua conoscenza anche per via indiretta. c. Le parti private diverse dall'imputato. L'esame del responsabile civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria e della parte civile, che non debba essere esaminata come testimone, si svolge con regole identiche a quelle che valgono per l’imputato, cioè: sono esaminati soltanto se richiedono il proprio esame o vi consentono possono non rispondere alle domande, salvo un particolare, infatti a differenza dell’imputato se le parti private diverse dall'imputato affermano di aver "sentito dire", valgono le ordinarie condizioni di utilizzabilità previste dall'art. 195=> Quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre. 2. Il giudice può disporre anche di ufficio l'esame delle persone indicate nel comma 1 3. L'inosservanza della disposizione del comma 1 rende inutilizzabili le dichiarazioni relative a fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da altre persone, salvo che l'esame di queste risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità. 4. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli e, comma 2, lettera a) e b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo 5. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche quando il testimone abbia avuto comunicazione del fatto in forma diversa da quella orale. 6. I testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate negli articoli e in relazione alle circostanze previste nei medesimi articoli, salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati. 7. Non può essere utilizzata la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame La parte civile, quando è chiamata a testimoniare, è obbligata a deporre in tale qualità e non come parte privata; di conseguenza, assume l'obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. d. Il contributo probatorio dell'imputato tra diritto al silenzio e diritto a confrontarsi con l'accusatore. I sistemi processuali che si sono succeduti nel tempo hanno escogitato soluzioni differenti per acquisire il sapere dell'imputato nel processo penale. Nel sistema inquisitorio l'imputato ha l'obbligo di rispondere secondo verità, alle sanzioni conseguenti al falso, si aggiunge la tortura; nel sistema accusatorio l'imputato non può mai essere costretto a testimoniare e ha il diritto di restare in silenzio anche di fronte alla polizia e alla pubblica accusa, oltre che di fronte al giudice. Ma poiché una forma di manifestazione del diritto difesa è la rinuncia al silenzio, sia pure con il massimo delle garanzie, si permette all'imputato di offrirsi come testimone volontario soltanto davanti al giudice; ovviamente, in tal caso il contraddittorio impone che sia tutelato il diritto alla prova spettante alla pubblica accusa e all'imputato concorrente nel medesimo reato o in un fatto inscindibile. Pertanto costoro possono contro-esaminare l'imputato che si è offerto come testimone. Vi è un bilanciamento: l'imputato ha il diritto "naturale" di confrontarsi con l'accusatore e di ottenere che costui risponda con un obbligo di verità tutelato penalmente in modo adeguato. Il sistema misto di origine napoleonica risolve il problema con un compromesso: l'imputato diventa assolutamente incompatibile con la qualità di testimone, non potendo dunque neanche offrirsi volontariamente, ma tale incompatibilità di regola vale solo nel proprio procedimento penale. Il diritto al silenzio è tutelato parzialmente attraverso l'assoluta incompatibilità a testimoniare ma l'imputato non è avvisato di tale diritto e non è garantito quando è interrogato dalla polizia, dal pubblico ministero o dal giudice, tanto che sono un'evoluzione del sistema visto andrà a prevedere la presenza del difensore, il quale però non potrà rivolgere domande né al proprio assistito né all'accusatore. In Italia abbiamo conosciuto la tortura quando era vigente il sistema inquisitorio, ma ricordiamo ciò che ha scritto Beccaria contro tale prassi: l'infame crociuolo della verità. Il legislatore del 1930 ha accolto il sistema misto ma ha aggravato il fragile compromesso della soluzione napoleonica aumentando oltre misura i casi di connessione. Al momento dell'elaborazione del cpp del 1989 il legislatore invece ha mantenuto in pieno la soluzione napoleonica, forse per inerzia, ed in più ha aggiunto la totale inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, prima del dibattimento, dall'imputato nei confronti di altro imputato connesso o collegato. Manca però la tutela del diritto a confrontarsi con l'accusatore quando questi è, a sua volta, imputato. Tra il 1992 e il 1998 la Corte Costituzionale e il legislatore hanno adottato soluzioni opposte, ampliando o restringendo, con alterne vicende, i limiti dell'inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni; solo nel 1999 il Parlamento ha introdotto, tra i principi del giusto processo, il diritto dell'imputato di confrontarsi con «le persone che rendono dichiarazioni a suo carico»: poteva essere l'occasione per accogliere la soluzione della testimonianza volontaria dell'imputato, che è tipica del sistema accusatorio e che vige nell'ordinamento angloamericano. Ed ! 80 invece con la legge 1° marzo 2001 n. 63, si introduce un istituto complesso, che appare difficile da gestire nella pratica. La legge ha conservato in favore dell'imputato e dell'imputato concorrente nel medesimo reato un’assoluta incompatibilità a testimoniare, impedendo a costoro di assumere volontariamente il ruolo di testimone. Ma ha introdotto anche una forma di testimonianza coatta a carico degli imputati che sono accusati di aver commesso un reato connesso o collegato; costoro hanno l'obbligo di testimoniare se hanno reso dichiarazioni «su fatti che concernono la responsabilità di altri». Gli imputati devono previamente essere avvisati delle possibili conseguenze delle dichiarazioni sul fatto altrui. e. L'esame di persone imputate in procedimenti connessi. I contributi probatori dell'imputato connesso o collegato. È "imputato connesso o collegato" l'imputato di quel procedimento che ha, rispetto al procedimento principale, un rapporto di connessione (art. 12) o di collegamento probatorio (art. 371 comma 2 lett. b) a prescindere dalla circostanza che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati. L'imputato connesso o collegato può dare quattro tipi di contributi probatori in dibattimento: 1) L'esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato (art. 12, lett. a=>cooperazione colposa o unico evento determinato da condotte indipendenti di più persone). Il codice detta una disciplina apposita per l’imputato di un procedimento connesso nelle ipotesi di concorso nel medesimo reato e situazioni assimilate. Tale soggetto, l’imputato concorrente", è incompatibile con la qualifica di testimone, fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Ad es. A e B imputati di aver commesso il furto di una autovettura in concorso tra loro. In linea generale l'imputato concorrente gode delle stesse garanzie che sono riconosciute all'imputato principale, ma poiché egli è chiamato a rendere dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, l'imputato concorrente viene assimilato al testimone, con l'obbligo di presentarsi per rendere l’esame. Ma per tutto il resto, egli è assimilato alla figura base dell'imputato. a) Infatti poichè all'imputato concorrente saranno chieste dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, egli è chiamato a deporre con le norme sulla citazione dei testimoni; se non si presenta il giudice ne ordina l'accompagnamento coattivo. b) Poichè si tratta di persona che, parlando, rischierebbe di incriminarsi, deve essere avvisato che ha la facoltà di non rispondere. c) per gli stessi motivi deve essere assistito da un difensore, tant'è che se non è presente quello di fiducia, viene nominato un difensore d'ufficio. Disciplina codicistica. L'imputato del procedimento connesso (B) è sottoposto all'esame senza che sia necessario il suo consenso (art. 210, comma 1); l’esame deve essere stato chiesto da una delle parti del procedimento principale (A) o, nei casi previsti dalla legge, sia stato disposto d'ufficio dal giudice (es., art. 195). Pertanto, tale soggetto è obbligato a presentarsi per deporre nel procedimento principale (A); nel caso in cui non si presenti, il giudice ne ordina l'accompagnamento coattivo a mezzo della forza pubblica. Deve essere inserito nelle liste testimoniali almeno sette giorni prima dell'inizio del dibattimento, con l'indicazione delle circostanze sulle quali è chiamato a deporre (468). Inoltre, l'imputato concorrente è avvisato che ha la facoltà di non rispondere. Se l'imputato concorrente decide di rispondere, egli non ha l'obbligo penalmente sanzionato di dire la verità, in quanto incompatibile con il testimone (197); ha la facoltà di non rispondere in relazione sia alle domande sul fatto di reato addebitato all'imputato concorrente (B), che alle domande su fatti commessi dall'imputato dei procedimento principale (A). Anche gli altri reati commessi con false dichiarazioni sono giustificati alla causa di non punibilità dell'art.384 cp, con l'esclusione della calunnia e della simulazione di reato. 384=>Nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371bis, 371ter (1), 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto (2) [307] da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore (3). Nei casi previsti dagli articoli 371bis, 371ter (1), 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnicoo interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o (4) avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione. L'imputato concorrente può tacere anche se la domanda non è suscettibile di assumere un significato auto incriminante. In tale situazione, l'imputato del procedimento principale (A) ha solo formalmente il diritto di controesaminare tale soggetto, poiché costui può legittimamente rifiutarsi di rispondere a tutte o ad alcune delle domande e, comunque, può dire il falso anche se depone su di un fatto altrui. 2) L'esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente. L’art. 210 comma 6 stabilisce un regime peculiare per gli imputati connessi teologicamente (12 lett. c) o collegati (371. 2 lett. b) che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato. I predetti imputati hanno il dovere di presentarsi, sono assistiti da un difensore; sono avvisati che hanno la facoltà di non rispondere (art. 210, comma 4) e sono altresì avvertiti che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno la qualifica di teste limitatamente a tali fatti. Tale imputato ha la facoltà di tacere e, se parla, non ha obbligo di verità. Tuttavia, se rende dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, da quel momento diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito limitatamente ai fatti dichiarati e deve rispondere su di essi con obbligo di verità. Il regime giuridico dell'esame su fatti diversi. Occorre chiedersi quale sia il regime dell’esame in relazione ai fatti diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni su fatti altrui. Nel concetto di fatti diversi rientrano sia quei fatti che non concernono la responsabilità altrui perché sono propri o riguardano accadimenti neutri, sia quei fatti ! 81 sui quali l’imputato ancora non abbia reso dichiarazioni. In tutti questi casi l’imputato collegato o connesso teleologicamente mantiene il suo status originario, che consiste nella facoltà di tacere e di mentire impunemente. Tuttavia, se nel prosieguo dell'esame la predetta persona rende dichiarazioni che concernono fatti altrui, assumerà la qualifica di teste in relazione a tali fatti. Ogni domanda su nuovi temi di prova concernenti la responsabilità altrui pone l'imputato connesso teleologicamente o collegato nell'alternativa tra tacere o rispondere. Una volta che abbia reso dichiarazioni su fatti altrui, egli è idoneo ad assumere la qualifica di testimone assistito. Può altresì accadere che, nel corso della deposizione, la persona sentita come teste assistito parli spontaneamente di fatti altrui "ulteriori" rispetto a quelli già dichiarati. In tal caso, conserva la qualifica di teste con tutti i relativi obblighi, dal momento che sta liberamente estendendo l'area dell'esame. La linea di discrimine. Il discrimine tra l'area degli obblighi testimoniali e quella coperta dai privilegi riconosciuti dall'art. 210 deve essere individuato di volta in volta dal giudice. È una distinzione piuttosto elastica, stante la vaghezza del concetto di "fatti concernenti la responsabilità altrui". Siamo in presenza di un "testimone ad intermittenza": l'obbligo di verità e la facoltà di mentire impunemente si alternano nel corso dell'esame. Dipende dal pubblico ministero la formulazione dell'imputazione in modo da configurare un concorso di persone (art. 12, lett. a) oppure una connessione teleologica (art. 12, lett. c). Ad esempio, se vuole che l'imputato diventi un testimone assistito per le dichiarazioni rese su fatti altrui, la pubblica accusa contesta il favoreggiamento, piuttosto che il concorso esterno nel reato commesso da altri. f . II riscontro delle dichiarazioni rese dall'imputato connesso o collegato. Il legislatore impone che sia fatto un riscontro accurato delle dichiarazioni rese da questi soggetti; per "riscontro" si intende comunemente il controllo di attendibilità di una dichiarazione; queste dichiarazioni devono essere sottoposte ad un riscontro che di "tipo originario". Si tratta di vedere se i fatti che sono stati affermati dal dichiarante trovino conferma negli altri elementi raccolti; ciò fa parte del più generale obbligo di motivazione imposto al giudice. Infatti, ai sensi dell’art. 192, comma 1, il giudice deve valutare la prova «dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati». Il codice pone un obbligo di riscontro come condizione per valutare le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato, dall'imputato di un procedimento connesso teleologicamente o collegato e dal testimone assistito. Il codice si esprime in questo modo (192.3) “le dichiarazioni sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità". La ratio. La ratio è da rinvenire nel fatto che l'imputato è la persona che ha, di regola, l'interesse più forte in relazione all'esito del procedimento penale; egli sarà toccato sia dalle misure cautelari nel corso del procedimento, sia dalle conseguenze sulla sua libertà e sul suo onore in caso di sentenza di condanna irrevocabile. Le dichiarazioni ! 82 altri, assumerà l'ufficio di testimone». Per fatto altrui si deve intendere un "fatto che concerne la responsabilità" di altri per un reato connesso o collegato con quello addebitato al dichiarante. In secondo luogo, una volta avvertito, l'imputato collegato o connesso teleologicamente deve aver reso dichiarazioni su un fatto altrui. Naturalmente deve trattarsi di un fatto che concerne la responsabilità di altri per un reato collegato o connesso teologicamente. Non è necessario che l'imputato sia consapevole delle conseguenze accusatorie, derivanti dalla propria dichiarazione: ciò che conta è il fatto oggettivo che essa concerna la responsabilità altrui. A seguito di tali dinamiche l’imputato collegato o connesso teleologicamente diventa compatibile con la qualifica di teste assistito. Si tratta dunque di una compatibilità condizionata e parziale: condizionata perché scatta solo se l’imputato ha reso dichiarazioni sul fatto altrui, parziale perché è limitata al singolo fatto altrui già dichiarato. Lo speciale privilegio contro l’autoincriminazione. Si è già detto che il testimone assistito con procedimento pendente gode del comune privilegio contro l’autoincriminazione con riferimento a reati diversi da quelli oggetto del procedimento a suo carico. Inoltre il legislatore ha riconosciuto all’imputato connesso teleologicamente o collegato che depone come teste assistito su fatto altrui già dichiarato un ulteriore privilegio. Ai sensi dell'art. 197- bis, comma 4, secondo periodo, i testimoni assistiti possono non rispondere sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei loro confronti. Poiché l'obbligo testimoniale è limitato ai fatti altrui già dichiarati, l'unico caso in cui l'escussione del teste assistito può inerire alla propria responsabilità è l'ipotesi nella quale le precedenti dichiarazioni vertano su fatti inscindibili. In relazione a tale ipotesi il legislatore ha riconosciuto al teste assistito la facoltà di non rispondere sul fatto proprio. Occorre concludere allora che quando i fatti sono inscindibili, la facoltà di non rispondere si estende inevitabilmente anche al fatto altrui. Tuttavia, se il teste assistito decide di rispondere, egli ha un obbligo di verità penalmente sanzionato: in sostanza, perde la facoltà di mentire. La disciplina si applica anche se i procedimenti connessi teleologicamente o collegati sono stati riuniti; Pertanto, quando il coimputato ha reso dichiarazioni sui fatti altrui, su tali fatti egli è sentito come testimone assistito, anche se rende l'esame nel proprio procedimento. Il fatto che concerne la responsabilità altrui. Ci si chiede se l’imputato, al momento della dichiarazione, sia in grado di riconoscere il fatto come “altrui”. Non sempre ciò è possibile. Accade spesso che un fatto soltanto successivamente rilevi come circostanza a carico di altri; tale rilevanza poteva essere ignota ex ante a colui che ha reso la dichiarazione. A volte avviene che il difensore soltatno al momento del deposito degli atti si renda conto dell’idoneità di una narrazione a coinvolgere altri. Così può accadere che l’imputato senza accorgersene renda dichiarazione che induttivamente sono rilevanti per accertare un fatto che riguarda la responsabilità di un’altra persona. 4) La testimonianza assistita dell'imputato "giudicato". Il secondo tipo di testimonianza assistita è quella che viene resa dall'imputato dopo che la sentenza, che lo riguarda, è diventata irrevocabile, sia essa una sentenza di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. L'imputato giudicato può essere «sempre» chiamato come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui o non ha ricevuto l'avviso previsto dall'art. 64, comma 3, lett. c. In questo caso l'imputato connesso o collegato giudicato è testimone "permanente". Infatti, l'obbligo di rispondere secondo verità non è limitato al fatto altrui su cui ha già reso dichiarazioni. Egli potrà essere esaminato anche su fatti ulteriori rispetto a quelli già dichiarati ed anche sul fatto proprio. Il privilegio contro l’autoincriminazione. Si già notato trattando la disciplina comune a tutti i testimoni assistiti che la persona giudicata con sentenza irrevocabile gode del normale privilegio contro l’autoincriminazione con riferimento a reati diversi da quelli oggetto del procedimento a suo carico. Di regola tale dichiarante non gode di alcun privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto proprio coperto dalla sentenza irrevocabile. Evidentemente il legislatore ritiene che l'interesse difensivo si sia affievolito, poiché è operante l'efficacia preclusiva del ne bis in idem. Tuttavia quando il dichiarante è stato condannato con sentenza irrevocabile, gode del privilegio sul giudicato se nel procedimento originario aveva negato la sua responsabilità (anche rendendo dichiarazioni) o non aveva reso alcuna dichiarazione. In questa ipotesi il privilegio contro l'auotoincriminazione è posto a presidio dell'onore del condannato; in tal caso non è tutelato il diritto dell'accusato a confrontarsi con il suo accusatore. L'imputato assolto con sentenza irrevocabile "per non aver commesso il fatto". Fino al 2006 la disciplina appena esposta si applicava a tutti gli imputati nei cui confronti fosse intervenuta sentenza irrevocabile, anche di assoluzione. Con la sentenza 21 novembre 2006 n. 381 la Corte costituzionale ha affermato che l'imputato assolto con sentenza irrevocabile "per non aver commesso il fatto" deve essere trattato in modo simile al testimone comune. Secondo la Corte, infatti, l'assoluzione irrevocabile con formula piena proclama la totale estraneità del soggetto rispetto al fatto, resa ancor più stabile dal principio del ne bis in idem, in base al quale il processo non potrà più essere riaperto. In conseguenza della dichiarazione di illegittimità dei commi 3 e 6 dell'art. 197-bis l'imputato, assolto con sentenza irrevocabile "per non aver commesso il fatto", deve essere esaminato quale testimone senza l'assistenza di un difensore e senza che sia indispensabile acquisire un riscontro esterno. Nei confronti dell'assolto con formula piena resta comunque operativa la garanzia stabilita dall'art. 197-bis comma 5, in base al quale le dichiarazioni non sono utilizzabili contro colui che le ha rese in qualunque processo civile o amministrativo relativo ai fatti oggetto della sentenza irrevocabile. Infatti, la Corte non ha esteso la declaratoria a tale disposizione. ! 85 h. Il "collaboratore di giustizia". La legge 13 febbraio 2001, n. 45 ha reso più stringenti i requisiti che consentono agli imputati ed ai condannati di diventare collaboratori di giustizia e di ottenere misure di protezione, benefici processuali e penitenziari. In particolare, la persona, che ha manifestato la volontà di collaborare, entro centottanta giorni deve fornire al pubblico ministero «tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sui quali è interrogato nonché degli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza. Le sue dichiarazioni sono poi trasfuse nel c.d. verbale illustrativo e, attraverso la sottoscrizione, il collaboratore di giustizia si impegna per il futuro a rendere dichiarazioni su quei fatti ("propri" o "altrui") che sono riconducibili alle informazioni in esso contenute, pena la perdita dei benefici riconosciuti in base al programma di protezione. Il collaboratore di giustizia sarà sentito come imputato connesso o come testimone assistito a seconda del tipo di legame che intercorre tra il proprio procedimento e quello nel quale è chiamato a deporre. 4. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali. a. Considerazioni preliminari. Alcuni mezzi di prova hanno una caratteristica comune: nella fase di assunzione esiste un vero e proprio potere di direzione spettante al giudice. Rispetto a tali atti le parti hanno un ruolo marginale, e cioè prevalentemente si limitano a controllare che l'atto si svolga in modo regolare; in particolare, non possono procedere ad esame incrociato nello svolgimento del singolo atto. b. Il confronto. Consiste nell'esame congiunto di due o più persone (testimoni o parti) che siano già state esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo tra di esse su fatti e circostanze importanti (art. 211). La ratio dell'istituto è quella di vagliare le dichiarazioni contrastanti: all'esito del confronto, è possibile che uno dei protagonisti ricostruisca meglio il fatto, ammettendo l'inesattezza del suo ricordo. Oppure è possibile che le precedenti dichiarazioni di uno dei soggetti coinvolti siano svuotate di credibilità. Per poter ammettere questo mezzo di prova devono sussistere quindi due presupposti: l’esistenza di un disaccordo tra due o più persone su fatti e circostanze importanti; le persone da mettere a confronto siano già state esaminate o interrogate. I protagonisti quindi possono essere sia imputati (o indagati), sia testimoni, sia altre parti private. Il confronto può quindi realizzarsi fra soggetti in posizione processuale omogenea (es: fra imputati; fra testimoni) o eterogenea (es.: fra imputati e testimoni); anche più di due contemporaneamente.Ovviamente l’imputato può avvalersi del diritto al silenzio. Il momento nel quale è disposto il confronto. L'esigenza che vi siano precedenti dichiarazioni discordanti svela il momento a partire dal quale il mezzo può essere disposto: nella fase delle indagini, quando si siano già raccolte ! 86 dichiarazioni; in udienza preliminare; in dibattimento; in appello; nel giudizio di rinvio e nel giudizio di revisione. Il mezzo può inoltre essere esperito in incidente probatorio, quando vi sia il pericolo di dispersione o di inquinamento della prova. Il confronto, in quanto mezzo di prova, ne segue i principi generali innanzitutto in punto di ammissione: di regola è richiesto dalle parti, ma in dibattimento può anche essere disposto dal giudice. Il confronto è non manifestamente irrilevante quando vi è un disaccordo fra dichiaranti; è pertinente quando il disaccordo verte su fatti e circostanze «importanti». Le modalità. La normativa esalta il ruolo del giudice (o del pubblico ministero nelle indagini), al quale spetta un potere propulsivo oltre che direttivo; è ridotto il potere delle parti, limitato al controllo della regolarità di svolgimento dell'atto, non essendo previsto l'esame incrociato. Il giudice richiama ai protagonisti le precedenti dichiarazioni discordanti e chiede loro se le confermano. Ove il disaccordo persista, li invita alle reciproche contestazioni. Tutto ciò che avviene durante il confronto deve essere verbalizzato e deve essere annotato anche il contegno tenuto dai partecipanti, la cui analisi può essere utile per verificare l’eventuale imbarazzo derivante dalle contestazioni. In ogni caso l’imputato (e l'imputato connesso) continua a godere del diritto al silenzio, il cui esercizio non può pregiudicarlo sul piano probatorio. c. La ricognizione. È il mezzo di prova mediante il quale, ad una persona che abbia percepito con i propri sensi una un essere umano, si chiede di riconoscerlo individuandolo tra altre simili. La ricognizione è disposta quando occorre procedere al riconoscimento di cose, voci, suoni o quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale. L'atto può essere compiuto nel corso del dibattimento o nell'incidente probatorio e si svolge nel rispetto del contraddittorio tra le parti. Il potere direttivo del giudice si manifesta sia al momento degli atti preliminari alla ricognizione, sia nel corso della stessa. Le modalità di svolgimento del mezzo di prova sono particolarmente dettagliate. Accertamenti sull'attendibilità (art. 213). Il giudice invita colui, che deve eseguire la ricognizione (c.d. ricognitore), a descrivere la persona (che ha visto) indicando tutti i particolari che ricorda. Gli chiede poi: a) se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento; b) se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere; c) se la stessa gli sia stata indicata o descritta; se vi siano altre circostanze che possano influire sull'attendibilità del riconoscimento. Nel verbale deve essere fatta menzione degli adempimenti previsti e delle dichiarazioni rese; il tutto a pena di nullità della ricognizione. La predisposizione della scena (art. 214). In assenza di colui che è chiamato ad effettuare il riconoscimento, il giudice dispone che siano presenti almeno due persone (i c.d. distrattori) il più possibile somiglianti "anche nell'abbigliamento" a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest'ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre persone. Il tentativo di riconoscimento. Nuovamente introdotto il ricognitore, il giudice gli chiede "se" riconosce taluno dei presenti; ciò presuppone che il giudice deve informare il ricognitore che l'indiziato potrebbe non essere tra le persone presenti. Nel caso in cui il ricognitore affermi di riconoscere qualcuno, il giudice mira a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certo. Il verbale, a pena di nullità, deve menzionare le modalità di svolgimento della ricognizione, ma non importa che menzioni l’osservanza delle stesse. Se vi è fondata ragione di ritenere che il ricognitore possa subire intimidazione dalla presenza della persona sottoposta a ricognizione, il giudice dispone che l'atto sia compiuto senza che quest'ultima possa vedere il primo. Quando occorre procedere alla ricognizione di una cosa, si osservano modalità analoghe: il giudice dispone che siano procurati almeno due oggetti simili a quello da riconoscere. Oltre al testimone, anche l'imputato può essere chiamato ad operare una ricognizione; in tale sede può esercitare il suo diritto al silenzio. La ricognizione si svolge nel corso del dibattimento; ma la sua naturale collocazione è nel corso delle indagini nella forma dell'incidente probatorio o nella forma non garantita della individuazione quale atto di iniziativa del pm. d. L'esperimento giudiziale. È ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo. Esso consiste nella riproduzione, per quanto è possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento del fatto stesso. Ovviamente il fatto storico di reato è irripetibile; scopo dell'esperimento è quello di valutare la verosimiglianza della ricostruzione dello stesso riproducendone le modalità di svolgimento. Ad esempio, l'esperimento può tendere ad accertare se in un determinato luogo il testimone abbia potuto effettivamente percepire quello che dice di aver visto o sentito. Il giudice dirige lo svolgimento delle operazioni; l’esperimento giudiziale si distingue dalla ispezione, che ha ad oggetto una percezione statica della situazione attuale di una cosa o di una persona. Infatti, con l’esperimento si riproduce un fatto già avvenuto, mettendo in movimento cose e persone. Questo mezzo di prova può essere disposto in dibattimento; ma può essere condotto anche durante le indagini preliminari attraverso lo strumento dell'incidente probatorio, quando debba svolgersi su di una cosa o un luogo «il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile». L'attendibilità dell'esperimento è subordinata alla possibilità di riprodurre esattamente e a posteriori tutte le condizioni nelle quali si afferma essere avvenuto il fatto da ricostruire e che abbiano ragionevolmente influito sulla dinamica dello stesso. L'impossibilità di riprodurre fedelmente siffatte condizioni potrebbe costituire il limite naturale dell'esperimento. Tuttavia, oggi è possibile ricostruire un fatto mediante computer nella realtà virtuale (computer generated evidence). Si simula la successione degli accadimenti ! 87 errore: al giudice deve essere comunicato, per ogni metodo proposto, la percentuale di errore accertato o potenziale che questo comporta. Il giudice diventa il guardiano del metodo: egli deve vagliarne la effettiva scientificità. I ricordati criteri devono operare nel momento in cui il giudice è chiamato ad ammettere una prova basata su di un metodo innovativo. Poiché né l'art. 220 in materia di perizia, né l'art. 190 sulla ammissione delle prove prevedono espressamente la possibilità di una valutazione approfondita di tali requisiti nel contraddittorio tra le parti, in dottrina si è formato un orientamento secondo cui la norma, alla quale occorre fare riferimento, è l'art. 189 c.p.p. sulla prova atipica. Tale norma, infatti, consente espressamente al giudice una approfondita verifica sulla idoneità accertativa della prova di cui si chiede l'ammissione. La soluzione in oggetto, tuttavia, rischia di ingenerare quell'equivoco che consiste nel considerare la nuova prova scientifica come necessariamente atipica. Per contro, accade quasi sempre che il mezzo di prova richiesto al fine di applicare il nuovo metodo scientifico sia la perizia. Per questo motivo, riteniamo preferibile la tesi in base alla quale già la disciplina generale sulla ammissione delle prove tipiche (art. 190) consente un vaglio sulla idoneità accertativa della prova richiesta. Dunque, se il metodo innovativo richiede l'esperimento di un mezzo di prova atipico, il canale acquisitivo sarà costituito dall'art. 189. Se, viceversa, l'applicazione di un metodo del genere è richiesta come quasi sempre accade nell'ambito di un mezzo di prova tipico (es. perizia), è ben possibile configurare all'interno del sindacato effettuato ai sensi dell'art. 190 una valutazione sulla relativa idoneità accertativa. È appena il caso di precisare che l'eventuale ordinanza di rigetto dell’istanza di ammissione della prova peritale può essere impugnata insieme alla ai sensi dell'art. 586 c.p.p., come avviene per tutte le ordinanze emesse nel corso del dibattimento. La scelta del perito. II giudice deve scegliere di regola una persona iscritta in appositi albi o, eccezionalmente, al di fuori di tali albi, ma tra coloro che siano forniti di particolare competenza tecnica (sulla quale dovrà dare congrua motivazione). Sono previste situazioni di incapacità ed incompatibilità del perito simili a quelle previste per il giudice: il legislatore vuole che il perito sia in una situazione di terzietà e impregiudicatezza, vista la delicata funzione che questi è chiamato a svolgere. Il perito ha l'obbligo di prestare il suo ufficio, salvo che sussista uno dei motivi di astensione. Non può prestare il suo ufficio se è stato citato come testimone. Il conferimento dell'incarico. Il perito deve presentarsi in udienza e impegnarsi ad adempiere al proprio ufficio secondo verità; la formulazione dei quesiti, da sottoporre al perito, spetta al giudice con la più ampia garanzia del contraddittorio: sono sentiti il perito, le parti ed i loro consulenti tecnici. Al momento del conferimento dell'incarico il giudice e le parti verificano la specifica qualificazione del perito anche in relazione all'oggetto dell'incarico stesso. Il giudice, sentite le parti presenti, formula in via definitiva i quesiti. Da questo momento i consulenti possono assistere allo svolgimento della perizia, presentare al giudice osservazioni e riserve e, infine, proporre specifiche indagini. L'attività del perito. Una volta che il giudice ha precisato i quesiti, il perito gode di propri poteri di direzione e di impulso; tuttavia egli resta sotto il controllo del giudice sia nel momento in cui prende contatto col materiale probatorio, sia quando occorre risolvere questioni relative ai propri poteri. In particolare, il perito può prendere visione del materiale probatorio, col limite che può conoscere soltanto gli atti acquisibili al fascicolo per il dibattimento; il consulente di parte può, invece, leggere gli atti del fascicolo del pubblico ministero. Il giudice può autorizzare il perito ad assistere all'esame delle parti o all'assunzione di prove; il perito può chiedere notizie all'imputato, all'offeso e ad altre persone informate, con il limite che gli elementi acquisiti possono essere utilizzati soltanto ai fini dell'accertamento peritale. Infine, il giudice ha il potere di adottare «tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali, come ad esempio, ordinare con poteri coercitivi la consegna al perito di documenti o disporre che al medesimo sia consegnato il corpo del reato. La relazione peritale. Il perito di solito la svolge oralmente o eccezionalmente anche per scritto, su autorizzazione del giudice. Dopo il perito è sottoposto all'esame incrociato su richiesta di parte. Il giudice non è vincolato dalla perizia perché può disattenderne le conclusioni dando adeguata motivazione; il giudice si dice è peritus peritorum: è in grado di disattendere il risultato di una perizia, ad esempio, nominando un nuovo perito o affidandosi alle valutazioni esposte da un consulente. Il divieto di perizia criminologica. L'art. 220 comma 2 pone il divieto di ammissione di perizie volte ad accertare «il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche; parimenti sono vietate quelle tendenti a stabilire «l'abitualità o la professionalità nel reato» e la « tendenza a delinquere». In definitiva sono ammesse sull’imputato soltanto quelle perizie che tendono ad accertare una malattia mentale. La ratio del divieto può essere rinvenuta nella esigenza di tutelare la presunzione di innocenza dell’imputato, in quanto gli accertamenti criminologici sulla personalità del soggetto potrebbero condizionare il giudizio sulla reità dell'imputato. Inoltre tali accertamenti comportano la violazione della sua sfera di riservatezza. c. Il consulente tecnico di parte. Le parti possono nominare consulenti tecnici sia in relazione ad una perizia già disposta, sia al di fuori della perizia ed anche per contrastare il risultato di una perizia già svolta. La consulenza tecnica di parte fuori perizia. Quando è stata disposta una perizia le parti hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore a quello dei periti 225.1. Al consulente tecnico si applicano le ! 90 cause di incapacità e di incompatibilità che sono previste per il perito. Le parti private non hanno l’obbligo di scegliere il consulente all’interno di albi, tuttavia sarà loro interesse nominare persone di riconosciuta capacità tecnica al fine di tenere testa al perito. Il pm deve nominare il consulente tecnico di regola scegliendo una persona iscritta agli albi dei periti. I consulenti possono assistere al conferimento dell’incarico e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve delle quali è fatta menzione nel verbale. Inoltre possono assistere allo svolgimento della perizia proponendo al perito specifiche indagini; anche in tal caso possono presentare richieste, osservazioni e riserve delle quali è fatta menzione nella relazione peritale. Se sono nominati dopo l’esaurimento delle operazioni peritali i consulenti possono prendere conoscenza delle relazioni e chiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona la cosa o il luogo oggetto della perizia. L'oggetto della consulenza tecnica di parte è identico a quello della perizia, ma differente è la disciplina giuridica. Il perito svolge indagini ed acquisisce risultati probatori per conto del giudice; gli esiti delle operazioni tecniche sono destinati a confluire direttamente nel fascicolo per il dibattimento e sono utilizzabili nella decisione finale. Il consulente di parte propone valutazioni tecniche, che si traducono in un parere esposto oralmente o in memorie scritte. Identico è lo strumento con il quale il perito ed il consulente tecnico sono sentiti in dibattimento. Essi sono sottoposti all'esame incrociato, che si svolge in forme simili a quelle con le quali è escusso il testimone. A differenza del perito, che assume l'obbligo penalmente sanzionato di «far conoscere la verità», nessun obbligo dei genere è previsto dal codice per il consulente di parte. Il regime giuridico della consulenza tecnica fuori dei casi di perizia. I consulenti tecnici della parte pubblica e quelli delle private possono svolgere la propria attività anche quando il giudice non ha disposto la perizia. Il codice detta una regolamentazione unitaria alla quale sfugge soltanto il consulente del pubblico ministero limitatamente alla fase delle indagini preliminari. Il consulente nominato da una parte privata può svolgere investigazioni difensive per ricercare ed individuare elementi di prova e può conferire con le persone che possono dare informazioni, nonché visionare, previa autorizzazione, il materiale che l'autorità giudiziaria ha posto sotto sequestro. Il difensore della parte privata può scegliere se presentare o meno al giudice gli elementi di prova raccolti dal consulente tecnico. Nell’indicare il titolare della facoltà di nomina del consulente tecnico fuori della perizia, l’art. 233.1 fa riferimento a ciascuna parte. Il termine va riferito anche ala persona offesa ed all’indagato, che nelle indagini preliminari sono parti potenziali, e tali soggetti possono nominare consulenti in numero non superiore a due. Anche in questo caso valgono le situazioni di incompatibilità che abbiamo segnalato in relazione alla consulenza tecnica nella perizia. In particolare non può essere nominato consulente tecnico colui che è chiamato a prestare l’ufficio di testimone. Natura della consulenza tecnica di parte. In base al sistema accolto dal codice, la consulenza di parte è insieme espressione della difesa tecnica e mezzo di prova scientifica, tecnica o artistica. Si discute se il consulente possa essere chiamato a deporre soltanto dalla parte che lo ha nominato o anche dalle contropar t i ; queste ul t ime, quanto meno, possono controesaminarlo. Di regola spetta alle parti l’onere di fornire prove mediante propri esperti, salvo il potere ufficioso del giudice qualora questi ritenga necessario interpellare un perito di propria fiducia. La valutazione della perizia e della consulenza tecnica. È difficile valutare una prova scientifica: da un lato vi è il pericolo che il giudice si rimetta completamente al parere dello scienziato abdicando sotto questo profilo alla propria funzione giurisdizionale; dall’altro vi è il rischio che il giudice si arroghi il diritto all’ultima parola, svolgendo il ruolo che è stato definito di "scienziato dilettante". Gli opposti pericoli si neutralizzano calando la prova scientifica all'interno degli ordinari meccanismi conoscitivi del processo:la prova scientifica deve ! 91 essere valutata alla stessa stregua delle altre prove. Occorre, quindi, valorizzare quello che è stato definito il «modello della motivazione legale e razionale» e che si desume da varie norme del codice tra le quali soprattutto l’art 546 a. Ciò significa che il giudice deve esporre nella motivazione della sentenza perché ritiene attendibile la prova sulla quale fonda la sua decisione e perché ritiene non attendibili le prove contrarie. Certamente non si può imporre al giudice di adottare una motivazione tecnica entrando nel merito delle argomentazioni degli specialisti, ma è necessario che il giudice dimostri di aver preso in considerazione le differenti ricostruzioni tecniche e di averle accettate o scartate sulla base di motivi oggettivi. In definitiva nella giurisprudenza più recente si ritiene indispensabile che il giudice, quando nel contrasto tra le parti presceglie una tesi scientifica, motivi le ragioni per le quali la preferisce ad altre, pur sottoposte alla sua attenzione. In tale quadro emerge l'assoluta centralità dell'esame incrociato al quale possono essere sottoposti gli esperti (art. 501), poiché è grazie a tale strumento che le parti riescono a convincere il giudice: egli sarà portato a ritenere maggiormente attendibili le conclusioni di un esperto che, identificando ed applicando le leggi scientifiche, riesca a provarne la ragionevolezza. In particolare è fondamentale che l’esame incrociato verta sull’analisi della teoria di riferimento accolta dal tecnico. Simili cautele evitano che al perito venga attribuito un credito privilegiato, infatti non esiste una gerarchia tra perito e consulente tale da determinare in via presuntiva un minor credito dell’esperto di parte. La prova scientifica deve, inoltre, essere collocata nel quadro delle altre risultanze processuali; nella valutazione il giudice deve necessariamente verificare se il risultato della prova scientifica appare coerente con le altre prove raccolte nel procedimento. In base al criterio della probabilità logica che presiede all'accertamento processuale, il giudice pronuncerà sentenza di condanna quando le risultanze determineranno una certezza processuale, e cioè una spiegazione concreta dotata di alta credibilità razionale al di là di ogni ragionevole dubbio. d. Il consulente tecnico del pubblico ministero. Nelle fasi dell'udienza preliminare e del giudizio il pubblico ministero può nominare consulenti tecnici sia nel caso di perizia art. 225 sia ai sensi dell'art. 233 fuori dei casi di perizia. Il pubblico ministero nomina il consulente tecnico "di regola" scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti. Egli agisce come parte ed è libero di chiedere o meno l'esame del consulente in dibattimento. La differenza con il consulente tecnico della parte privata sta nell'interesse pubblico che muove l'attività del pubblico ministero. L'obbligo spettante a quest'ultimo di svolgere «altresì accertamenti su fatti e circostanze» a favore dell'indagato deve intendersi riferito anche al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica. I risultati delle consulenze devono essere inseriti nel fascicolo delle indagini. e. La perizia che richiede atti idonei ad incidere sulla libertà personale: Può accadere che nel corso della perizia si renda necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale dell'indagato, come ad es. i prelievi di campioni biologici finalizzati all'estrazione del profilo del DNA. Nel codice del 1988 non esisteva una disciplina espressa in relazione al compimento di tali attività, per cui in assenza di collaborazione da parte dell’ individuo sottoposto a perizia, si poteva solo procedere all’esecuzione coattiva di tali atti, in contrasto però al principio di inviolabilità della libertà personale, ex art. 13 Cost. Eventuali limitazioni di tale diritto fondamentale sono ammesse esclusivamente per atto motivato dell'autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e nei soli casi e modi previsti dalla legge (riserva di legge cd. rinforzata). In assenza di una apposita regolamentazione, la versione originaria del codice non era idonea a soddisfare la riserva di legge e di giurisdizione stabilita dall'art. 13 Cost. La sentenza costituzionale n. 238 del 1996. Sulla questione era intervenuta la Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità dell’art. 224, comma 2 c.p.p. nella parte in cui consentiva al giudice di ordinare coattivamente la sottoposizione dell'indagato o di terzi allo svolgimento di attività peritali idonee ad incidere sulla libertà personale dell'imputato o dell'indagato o di terzi, senza prevedere i casi e i modi in relazione a simili attività. Con la medesima sentenza la Corte aveva affermato con chiarezza che l'esigenza di acquisire la prova di un reato costituisce un «valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità», ma tali atti possono essere compiuti soltanto in presenza di alcuni requisiti di forma e di sostanza. Dal punto di vista formale, occorre rispettare le due riserve di legge e di giurisdizione stabilite dall'art. 13, comma 2 Cost. Sotto un profilo sostanziale, l'accertamento non deve violare la dignità della persona umana né porre in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute dell'interessato. In definitiva, la Corte costituzionale aveva messo in evidenza che la materia degli accertamenti coercitivi necessitava di una dettagliata regolamentazione da parte del legislatore. La legge n. 95 del 2009. Con tale legge si è disciplinata la materia, seguendo le linee direttrici tracciate dalla Corte costituzionale. I prelievi con il consenso dell'individuo. La disciplina trova applicazione soltanto nel caso in cui la persona sottoposta alla perizia non presti il proprio consenso ai prelievi ed agli accertamenti suddetti (art. 224-bis, comma Qualora, infatti, l'interessato sia consenziente, non scatta la necessità di tutelare la libertà personale: la situazione è rimasta quella anteriore alla legge; i prelievi e gli accertamenti possono, pertanto, essere posti in essere nel corso delle comuni attività peritali, senza particolari formalità, e cioè a prescindere dalla gravità del reato per il quale si procede e indipendentemente da requisiti di indispensabilità ai fini probatori. Anche le tipologie degli accertamenti espletabili non richiedono una indicazione tassativa, con il limite ex art. 5 cod. civ.: l’individuo non può consentire ad atti che comportino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o psichica o che ledano la propria dignità. ! 92 regolamentazione del documento è contenuta negli artt. 234-243 del codice nel libro III sulle prove. Il documento in quanto mezzo di prova è di regola utilizzabile nel dibattimento. b. La definizione di documento. Tenendo conto delle innovazioni tecnico-scientifiche, si definisce documento "quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico o digitale". Il concetto di documento comprende quattro elementi: 1) Il fatto rappresentato: in tale concetto devono essere ricompresi sia i "fatti, persone o cose" sia i contenuti di pensiero che sono espressi nelle dichiarazioni di scienza o di volontà. Pertanto, il fatto rappresentato è, in sintesi, tutto ciò che può essere oggetto di prova. Può trattarsi non soltanto di un accadimento naturalistico (ad esempio, una fuga di gas), ma anche di un atto umano, e quindi di una dichiarazione; 2) La rappresentazione: rappresentare un fatto significa costruirne uno ecquivalente in moda da renderlo conoscibile quando non è più presente. Pertanto la rappresentazione è la riproduzione di un fatto. Le modalità di rappresentazione sono le più varie: parole, immagini, suoni o gesti. La rappresentazione può avvenire per opera dell'uomo (es. testimonianza) o automaticamente mediante uno strumento (es. apparecchio di registrazione); 3) L'incorporamento: operazione mediante la quale la rappresentazione è fissata su di una base materiale. Il codice prevede le forme più varie: scrittura, fotografia, fonografia, cinematografia, ma lascia la possibilità che l'incorporamento avvenga con .. qualsiasi altro mezzo». Visti i progressi della tecnica, si può affermare che i metodi di incorporamento sono due: quello analogico e quello digitale. a) attraverso il metodo analogico la rappresentazione è incorporata su di una base materiale mediante grandezze fisiche variabili con continuità; l’incorporamento è "materiale" nel senso che la rappresentazione non esiste senza il supporto fisico sul quale è incorporata. Lo strumento che opera l'incorporamento può essere manuale (es. scrittura o disegno) o automatico (es. fotografia, fonografia o cinematografia). b) attraverso il metodo digitale la rappresentazione è incorporata su di una base materiale mediante grandezze fisiche variabili con discontinuità: si tratta di numeri, zero e uno. Il dato che contiene l'informazione è denominato informatico ed è composto dalla sequenza di bit. L'incorporamento digitale è "immateriale" nel senso che la rappresentazione esiste indifferentemente dalla scelta del tipo di supporto fisico sul quale il dato informatico è incorporato; infatti, il documento informatico può essere trasferito facilmente da un supporto all'altro, anche se per la sua esistenza fisica ne richiede comunque uno. Ad esempio, il supporto fisico può essere I'hard disk, o una pen- drive, o un altro strumento idoneo. 4) La base materiale sulla quale e incorporata la rappresentazione può essere la più varia. È sufficiente l’idoneità a conservare la rappresentazione al fine di riprodurla quando occorra. Non è richiesto che la base materiale sia particolarmente durevole; la base materiale può essere la tradizionale carta, il nastro magnetico o il più moderno supporto informatico. Il documento tradizionale può essere definito come quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico; es. uno scritto, una fotografia, un disco di vinile. Il documento informatico può essere definito come quella rappresentazione di un fatto che è incorporata in una base materiale con un metodo digitale. Per i giuristi rilevano due difficoltà: il dato informatico è facilmente modificabile da persone anche differenti dall'autore; inoltre, in alcuni casi un successivo accesso al file tramite il dispositivo (es. personal computer) provoca la modifica del contenuto dello stesso. Per tali motivi, può essere arduo conservare un documento informatico inalterato, in modo da assicurare che la prova sia autentica e genuina; di qui la necessità di particolari cautele, come ad esempio la creazione di una copia-clone dell'hard disk conforme all'originale, che viene resa non modificabile mediante appositi procedimenti. Altri aspetti problematici si presentano nel momento in cui, per acquisire un documento informatico, è necessario procedere con mezzi di ricerca della prova quali sono l'ispezione, la perquisizione, ed il sequestro: la recente legge 18 marzo 2008, n. 48 (esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica) ha imposto che siano adottate cautele che assicurino la conservazione del documento informatico e ne impediscano l'alterazione (es. art. 354). c. Il valore probatorio del documento contenente dichiarazioni. Subito dopo l'entrata in vigore del codice del 1988, un'opinione dottrinale ha ritenuto non utilizzabile, come prova del fatto storico rappresentato, il documento contenente una narrazione del medesimo. La Corte costituzionale con la sentenza 17 marzo 1992, n. 142 ha precisato che l'art. 234 non distingue tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni; pertanto il documento contenete dichiarazione può costituire prova del fatto rappresentato nella medesima e può essere ammesso ai sensi dell'art. 190 del codice. L'unico limite di diritto positivo è oggi rinvenibile nell'art. 111, comma 4, secondo periodo, Cost., in base al quale «la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore». Da tale disposizione si può ricavare il principio secondo cui è garantito costituzionalmente il diritto dell'imputato a confrontarsi con l'autore della dichiarazione, anche se tale dichiarazione è contenuta in un documento. d. Il documento anonimo. La prova documentale può essere valutata dal giudice nella sua attendibilità quando è noto l'autore del documento. Infatti all'autore, chiamato a deporre, possono essere rivolte le domande che servono a ! 95 valutarne la credibilità e l'attendibilità. Una verifica del genere non può avvenire quando è ignoto l'autore del documento, infatti risulta impossibile ricercare gli elementi di prova che servono a valutare la credibilità. È anonima quella rappresentazione della quale non è identificabile l'autore; il codice distingue l'ipotesi in cui il documento contenga una dichiarazione anonima dall'ipotesi in cui il documento contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione (ad esempio, una foto). Nel solo caso in cui si sia in presenza di una "dichiarazione" anonima, il codice prevede la sanzione dell'inutilizzabilità: una lettera anonima che contiene la narrazione di un fatto non è utilizzabile. Del documento anonimo che contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione il codice non dà alcuna regolamentazione. Poiché è posto come regola generale il libero convincimento del giudice, ne deriva che le ipotesi di inutilizzabilità di elementi di prova devono essere previste espressamente. Quindi, possiamo concludere che i documenti anonimi non dichiarativi possono essere utilizzati. Ad esempio da una foto, della quale è ignoto l'autore, sarà possibile ricavare che una persona era viva alla data riportata sul giornale, che la medesima teneva in mano. In caso di un documento "misto" che contiene sia una dichiarazione, sia una rappresentazione differente dalla dichiarazione, occorre ritenere che esso sia utilizzabile in quella parte di rappresentazione che non consiste in una dichiarazione. Pertanto, un filmato anonimo è utilizzabile per la parte che contiene la videoripresa di un determinato luogo; non è utilizzabile per la parte che contiene un'eventuale narrazione che accompagna la videoripresa. La verifica della provenienza. Ancora, il codice prevede che il documento possa essere sottoposto alle parti private o ai testimoni «se occorre verificarne la provenienza». Da tale disposizione si ricava che il documento cessa di essere anonimo quando il suo autore ne riconosce la paternità. È "anonima" quella rappresentazione della quale non è identificabile l'autore, ma una volta accertato l'autore della dichiarazione, essa non è più anonima e, pertanto, diventa utilizzabile. Naturalmente, occorre poi accertare se l'autore è credibile e se la dichiarazione è attendibile. L'assenza della sottoscrizione o la sottoscrizione illeggibile (o di fantasia) dà luogo al documento soltanto formalmente anonimo. Infatti se vi è riconoscimento, ad es. attraverso una perizia, il documento non è più anonimo. Il valore probatorio. La mancata sottoscrizione col proprio nome dimostra che l'autore non ha voluto impegnare la propria responsabilità nel fare una determinata dichiarazione. Pertanto, non si pone un problema di utilizzabilità, poiché, a seguito dell'identificazione, la dichiarazione formalmente anonima non è più tale nella sostanza; si pone invece un problema di credibilità della fonte e di attendibilità della rappresentazione. La mancata sottoscrizione rende problematico, ma non impossibile, attribuire alla dichiarazione un sicuro significato probatorio. Le dichiarazioni anonime utilizzabili. Il codice prevede due eccezioni al divieto di utilizzare il documento contenente dichiarazioni anonime. In base all'art. 240 sono utilizzabili le dichiarazioni che costituiscono corpo del reato e quelle che comunque provengano dall'imputato. La prima eccezione costituisce un'applicazione dell'art. 235, che impone che il corpo del reato sia sempre acquisito al procedimento. Esse costituiscono il corpo del reato quando mediante le stesse o sulle stesse è stato commesso il reato. Ad esempio, la dichiarazione anonima calunniosa è utilizzabile nel procedimento penale promosso contro il presunto autore della dichiarazione; non è utilizzabile nel procedimento contro la persona che è stata calunniata. La seconda eccezione permette di utilizzare quella dichiarazione a n o n i m a c h e p r o v e n g a " c o m u n q u e " dall'imputato. Si pone il problema se è richiesto che l'imputato sia l'autore della dichiarazione o se è sufficiente che l'imputato sia colui che presenta nel procedimento la dichiarazione. Quando si accerta che l'imputato è autore della dichiarazione anonima (perché l'identificazione è avvenuta mediante riconoscimento o mediante perizia), la dichiarazione stessa cessa di essere anonima. Se si richiedesse che l'imputato fosse "l'autore" della dichiarazione, la previsione dell'eccezione nell'art. 240 comma 1 sarebbe inutile. Di conseguenza, perché l'art. 240 comma 1 c.p.p, abbia un qualche significato, occorre che venga interpretato nel senso che le dichiarazioni anonime sono utilizzabili se sono state presentate ("prodotte") dall'imputato, anche se il valore probatorio sarà molto limitato. 2. La notizia di reato. ! 96 a. Considerazioni generali. La notizia di reato è un'informazione che permette alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero di venire a conoscenza di un illecito penale. La presenza di una notizia di reato produce tre effetti: 1) segna il passaggio dalla funzione di polizia di sicurezza (attività tendente a prevenire il compimento di reati e a controllare che la legge sia osservata) alla funzione di polizia giudiziaria; 2) impone alla polizia giudiziaria l'obbligo di informarne il pubblico ministero; 3) impone a quest'ultimo l'obbligo di provvedere alla immediata iscrizione della notizia nel «registro delle notizie di reato». Il codice regola espressamente due notizie di reato: la denuncia ed il referto. Inoltre prevede le condizioni di procedibilità (che la loro mancanza impedisce al pubblico ministero di esercitare l’azione penale), cioè la querela, l'istanza, la richiesta di procedimento e l'autorizzazione a procedere; questi atti contengono sia l'informativa su di un illecito penale, sia la manifestazione della volontà che si proceda contro il responsabile dello stesso. b. La denuncia. Può essere presentata da qualsiasi persona che abbia avuto notizia di un reato (sia essa un cittadino italiano, uno straniero o perfino lo stesso autore del fatto illecito). Può essere scritta o orale e può essere presentata sia ad un ufficiale di polizia giudiziaria, sia direttamente al pubblico ministero. Essa contiene la esposizione degli elementi essenziali del fatto ed indica il giorno dell'acquisizione della notizia di reato «nonché le fonti di prova già note», se possibile, le generalità della persona alla quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che sono in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione del fatto. La denuncia è facoltativa, tranne alcuni casi in cui la denuncia costituisce, per persone che svolgono determinate funzioni o professioni, un obbligo sanzionato penalmente 331 334. La denuncia da parte di privati. Una persona privata ha l'obbligo di denuncia nei seguenti casi: 1) quando sia cittadino italiano ed abbia avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato per il quale la legge stabilisce l’ergastolo (art.364 c.p); 2) quando abbia ricevuto cose provenienti da delitto (art.709 c.p); 3) quando abbia notizia di materie esplodenti situate nel luogo da lui abitato (art.679 c.p); 4) quando abbia subito un furto di armi o esplosivi; 5) quando abbia avuto conoscenza di un delitto di sequestro di persona a fini di estorsione. I pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l'obbligo di denuncia dei reati dei quali vengano a conoscenza sia nell'esercizio delle funzioni (e cioè durante l'orario di lavoro), sia a causa della funzione o servizio (ad esempio, anche fuori dell'orario di lavoro una persona riferisce ad un insegnante pubblico che la sua allieva subisce maltrattamenti in famiglia), per i reati non precedibili a querela di parte. Le qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio nel diritto penale sono richieste per la configurabilità di determinati reati commessi da tali soggetti o contro tali soggetti. Ai fini del processo penale il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio hanno l’obbligo di presentare denuncia e, con riferimento alla testimonianza, l’obbligo di mantenere il segreto d’ufficio. La definizione delle due qualifiche la troviamo agli artt. 357 e 358 del codice penale. La funzione ed il servizio sono "pubblici" quando sono disciplinati da «norme di diritto pubblico e da atti autoritativi». Rilevante è l'esercizio in concreto di una funzione o servizio pubblici. Ciò che conta non è l’esistenza di un rapporto di impiego pubblico bensì l’esercizio in concreto di una funzione o servizio pubblici. Anche un professionista privato può essere legittimato da norme di diritto pubblico a svolgere tali funzioni. Il pubblico ufficiale. Sono funzioni pubbliche (e, in quanto tali, integrano la qualifica di pubblico ufficiale) le funzioni legislative, giudiziarie e amministrative. La funzione pubblica deve avere almeno una delle seguenti caratteristiche: deve consistere nella «formazione» o «manifestazione» della volontà della pubblica amministrazione o deve svolgersi per mezzo di «poteri autoritativi» o «certificativi».(es.notaio). L'incaricato di pubblico servizio. Il servizio deve essere disciplinato (come la pubblica funzione) da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi; devono mancare le caratteristiche proprie della funzione pubblica, e cioè lo svolgimento di poteri certificativi o autoritativi o la formazione o la manifestazione della volontà della pubblica amministrazione; il servizio non deve comportare l'esercizio di semplici mansioni d'ordine (ad es., un dattilografo o un usciere) né la prestazione di un'opera meramente materiale. Lo Stato può affidare l'esercizio di un servizio pubblico a soggetti privati, i quali, quando esercitano tali servizi, assumono la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, data la particolare qualifica rivestita, sono tenuti ad informare il pubblico ministero di tutti i reati procedibili d'ufficio dei quali sono venuti a conoscenza anche fuori dal servizio svolto. Esenzione dall'obbligo di denuncia. Il difensore e i suoi ausiliari non hanno obbligo di denuncia «neppure in relazione ai reati dei quali abbiano avuto notizia nel corso delle attività investigative da essi svolte». Dunque il difensore e gli ausiliari vanno considerati come privati nonostante operino attività come la verbalizzazione e la certificazione, attività svolte dai pubblici ufficiali o dagli incaricati di pubblico servizio. c. Il referto. È una particolare forma di denuncia alla quale è tenuto colui che, nell'esercizio di una professione sanitaria, ha prestato la propria assistenza o opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto procedibile d'ufficio; egli deve far pervenire il referto entro quarantotto ore al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria; l’obbligo viene meno quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale (es. se la persona offesa dal reato si fa assistere da un professionista privato, questi ha l'obbligo del referto, mentre se a farsi assistere ! 97
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