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Forme di Stato e Governo: Patrimonio, Unitario, Monarchia, Dittatura e Socialismo, Sintesi del corso di Diritto Pubblico

Diritto internazionalediritto amministrativoDiritto Costituzionale

Le diverse forme di stato e governo, partendo dallo stato patrimoniale, che caratterizza il periodo dell'alto medioevo, fino al governo socialista. Vengono descritte le loro caratteristiche, i loro fini e le loro evoluzioni. Il testo illustra inoltre come le forme di governo si sono evolute nel corso dei decenni, passando dal principio del suffragio universale al principio di partecipazione di massa, e come questo ha portato all'affermazione del cosiddetto stato costituzionale.

Cosa imparerai

  • Come si evolve il concetto di Stato nel corso dei decenni?
  • Che forme di Stato si distinguono nel testo?
  • Come si differenzia il Governo Socialista dal precedenti forme di governo?
  • Che forme di governo si distinguono nel testo?
  • Che caratteristiche ha lo Stato Patrimoniale?

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 18/06/2019

manlio-lipani
manlio-lipani 🇮🇹

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Scarica Forme di Stato e Governo: Patrimonio, Unitario, Monarchia, Dittatura e Socialismo e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Pubblico solo su Docsity! CAPITOLO I: CARATTERI FONDAMENTALI DEL FENOMENO GIURIDICO Il diritto e le società Il diritto è il complesso di regole di condotta che disciplinano i rapporti tra i membri di una certa collettività, in un dato momento storico. Vi è un nesso strettissimo tra fenomeno giuridico e fenomeno sociale: come il fenomeno giuridico nasce là dove esiste una qualche forma di aggregazione umana, così lo sviluppo della società si svolge all’interno delle regole che disciplinano i rapporti tra i soggetti che la compongono. Il fenomeno giuridico consiste nella nascita di un complesso di regole che si applicano all’interno di un aggregato sociale, entro una determinata sfera territoriale, attraverso un’organizzazione dotata di un minimo di stabilità, mentre possono essere assai vari i fini e i contenuti delle norme che quelle regole contengono. L’esigenza di avere regole di comportamento obbligatorie per tutti i membri della comunità nasce in coincidenza con la fase della nascita delle città-Stato, che superavano lo stadio di sviluppo immediatamente precedente, caratterizzato da una civiltà prevalentemente agricola, che aveva come struttura base i singoli nuclei familiari o altre forme di aggregazione instabile. Ha origine così lo Stato, cioè un’entità che si colloca in una posizione di supremazia rispetto a tutti i soggetti (il popolo) individuali e collettivi, che vivono in un determinato ambito spaziale (il territorio dello Stato) rivendicando l’originarietà del proprio potere (la sovranità) e che conseguentemente dispone della forza legittima, necessaria per assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo del gruppo sociale che ne ha determinato la nascita. Le regole del diritto statale sono caratterizzate dalla coattività, ossia dall’esistenza di meccanismi sanzionatori volti a reprimerne le violazioni. Le regole giuridiche non sempre sono contenute in particolari atti (diritto scritto), ma a volte hanno origine dal comportamento consuetudinario di coloro che appartengono a una certa società (diritto non scritto o consuetudinario). Storicamente si è assistito ad un processo di progressiva estensione dell’area del diritto scritto, legato ad esigenze di solennità, di certezza, di delimitazione delle facoltà del soggetto titolare del potere. Le caratteristiche del fenomeno giuridico Le caratteristiche che contraddistinguono il diritto statale sono: 1. Effettività: una regola di diritto può considerarsi davvero esistente quando i membri della società le riconoscono un valore obbligatorio e collegano alla sua violazione la irrogazione di determinate sanzioni, di natura giuridica o sociale; non è sufficiente che una determinata regola sia prevista come tale, ma a ciò deve accompagnarsi l’effettivo adeguamento dei comportamenti individuali e sociali alla norma stessa. In altre parole l’effettività di una regola è assicurata dalla convinzione sociale della sua obbligatorietà. 2. Certezza del diritto: particolari strutture (ordinamento giudiziario) e particolari istituti (sanzioni), che vengono applicati nei casi di accertata infrazione della regola stessa, servono per dare certezza al diritto, cioè certezza della effettiva applicazione delle regole di comportamento che la società si è data. 3. Relatività del diritto: significa come le regole di diritto possano avere un contenuto mutevole a seconda della comunità sociale a cui si riferiscono, a seconda dei fini che essa si propone di raggiungere e come possa mutare l’ambito di estensione del diritto, a seconda delle esigenze e dei problemi nuovi e diversi che lo sviluppo di una società pone e a cui si ritiene debba darsi soluzione sul piano giuridico. Non solo le regole stabilite in una certa materia possono mutare, ma può mutare anche ciò che è considerato giuridicamente rilevante. Effettività, certezza e relatività confermano la stretta connessione tra fenomeno giuridico e fenomeno sociale, sottolineando l’importanza che per l’esistenza effettiva di una regola di diritto ha la convinzione sociale della sua obbligatorietà ed evidenziando la mutevolezza del contenuto e dell’estensione del diritto a seconda della storia del consorzio sociale cui esso si riferisce e della sua evoluzione. Il contenuto delle norme giuridiche La regola o norma giuridica è una regola di comportamento obbligatoria per tutti i componenti di una determinata società. Per imporre un determinato comportamento è necessario avere determinato: • Quale ordine di fatti si intende regolare • Quali effetti si intendono riconnettere a tali fatti. Il meccanismo che presiede alla formazione di una norma giuridica implica una scelta degli eventi cui riconoscere determinati effetti giuridici; tali fatti costituiscono la fattispecie astratta che la norma intende disciplinare: essa può consistere in un’attività che è espressione della volontà dell’uomo (atti giuridici) o in un fatto preso in considerazione di per sé e non in quanto determinato da una espressa manifestazione di volontà (fatti giuridici). In secondo luogo vi deve essere la scelta degli effetti giuridici che conseguono obbligatoriamente al verificarsi in concreto della fattispecie astrattamente prevista dalle norma; essi possono consistere in: • Posizioni soggettive di svantaggio: obbligo di svolgere (o di astenersi dallo svolgere) una determinata attività • Doveri: previsti per la soddisfazione di un interesse di carattere generale • Obblighi: previsti per la soddisfazione di un interesse particolare di un altro soggetto • Oneri: previsti per la soddisfazione di un interesse proprio e non altrui • Posizioni soggettive di vantaggio: diritto ad esigere da altri un comportamento conforme a quello imposto dalla norma giuridica • Posizione di diritto soggettivo: ne è titolare colui il cui interesse riceve una tutela diretta da parte della norma giuridica, mediante l’imposizione di un obbligo di rispetto di tale interesse ad altri soggetti. Si distinguono i diritti assoluti dai diritti relativi, con i primi l’interesse individuale è tutelato attraverso l’imposizione di obblighi nei confronti di una pluralità di soggetti e non solo nei confronti di soggetti determinati. • Posizione di interesse legittimo: la tutela assicurata dalla norma giuridica è indiretta nell’interesse del singolo (la norma è finalizzata alla tutela di esigenze collettive). • Posizione di interesse semplice o di fatto I soggetti giuridici I soggetti giuridici sono coloro cui le norme intendono rivolgersi nell’attribuire diritti o nell’imporre obblighi. Essi sono innanzitutto le persone fisiche, secondo l’art. 1 c.c. ciascuna persona fisica è dotata della capacità giuridica, cioè è idonea ad essere titolare di diritti e destinataria di obblighi fin dal momento della nascita; per essere idoneo a svolgere in concreto le attività che si riconnettono a posizioni giuridiche soggettive, il soggetto deve possedere la capacità di agire. Esistono poi le persone giuridiche, cioè una pluralità di persone che danno vita ad un’organizzazione al fine di perseguire una finalità comune (associazioni, società commerciali), ovvero una pluralità di beni materiali gestiti da alcune persone fisiche per il raggiungimento di una specifica attività comune (fondazioni). Tra le persone giuridiche si distinguono quelle private (espressione di fenomeni di aggregazione sociale) da quelle pubbliche; tra le persone giuridiche pubbliche va annoverato lo Stato, che è soggetto giuridico sia nei confronti degli altri stati sia nei confronti dei cittadini. Ciò consente di ricondurre a un unico centro di imputazione tutte le attività statuali, che sono esercitate attraverso una serie di organi di cui sono titolari persone fisiche; organi i quali agiscono in nome e per conto dello Stato, in virtù del rapporto organico (diverso dal rapporto di rappresentanza). Tra i soggetti giuridici vi sono anche tutti i fenomeni associativi (associazioni di fatto) che, pur privi di un apposito riconoscimento pubblico (non dotati di personalità giuridica) sono tuttavia destinatari di alcune norme giuridiche. Ordinamento giuridico e pluralità degli ordinamenti giuridici Nel momento in cui le regole di diritto si presentano con i caratteri di complessità e di stabilità dettati dalla complessità e stabilità di un certo gruppo sociale e dei fini che ne rappresentano il tessuto connettivo, esse • Interpretazione letterale: condotta sul dettato testuale della norma in questione, sulla base del significato lessicale delle parole che la compongono • Interpretazione logica: diretta ad individuare la coerenza interna della legge, facendo ricorso ai lavori preparatori della legge o del regolamento o di altra fonte normativa che deve essere applicata • Interpretazione analogica: diretta a ricercare la norma da applicare al caso concreto in disposizioni che disciplinano materie o fattispecie analoghe a quella che il giudice si trova ad affrontare • Interpretazione sistematica: diretta a ricercare la norma da applicare al caso concreto desumendola dai principi vigenti nel sistema giuridico complessivo. L’interpretazione del diritto, quando punta a colmare quella che appare come una lacuna dell’ordinamento, finisce per tradursi in un’attività che assomiglia a quella creatrice di nuove norme giuridiche. Di qui la possibilità di qualificare, entro certi limiti, anche le sentenze dei giudici come fonti del diritto, là dove le decisioni del giudice sono dotate di una forza obbligatoria capace di imporsi nei confronti di tutti (efficacia erga omnes). Tale procedura non trova riscontro nell’esperienza degli ordinamenti giuridici di civil law, nei quali la sentenza del giudice produce i suoi effetti limitatamente alle fattispecie concrete sottoposte al suo giudizio ed è priva (salva l’eccezione rappresentata dalle sentenze della Corte costituzionale) dell’efficacia erga omnes. CAPITOLO II: LE FORME DI STATO E LE FORME DI GOVERNO Quando si allude ad una particolare forma di Stato si fa riferimento al modo in cui è risolto il rapporto tra autorità e libertà, ovvero quel rapporto tra potere statuale e società civile, da cui nasce e si sviluppa ogni esperienza statuale. Per forma di Stato si intendono l’insieme delle finalità che lo Stato si propone di raggiungere ed i valori a cui ispira la propria azione; finalità e valori che determinano le caratteristiche di fondo del rapporto tra la struttura del potere statuale e la collettività che in essa si riconosce. La nozione di forma di governo è descritta dagli elementi che contraddistinguono il modello organizzativo o l’insieme degli strumenti e dei mezzi mediante i quali una determinata organizzazione statuale persegue le sue finalità. Modi e mezzi che si traducono in un insieme di regole che disciplinano i rapporti tra gli organi di vertice dell’apparato statuale (organi costituzionali). Le forme di Stato • Lo Stato patrimoniale: è la prima forma di Stato affermatasi successivamente al disfacimento dell’impero romano e che ha caratterizzato tutto il periodo dell’alto medioevo. Manca ancora un’organizzazione amministrativa stabile in grado di consentire il perseguimento dei fini di carattere generale. A fondamento dello Stato patrimoniale c’è un accordo, di natura privatistica, che interessa solo alcuni soggetti (feudatari) e che ha ad oggetto la tutela del diritto di proprietà; uno stato caratterizzato non da una pluralità di fini generali, ma da un unico fine e che su questa base fonda i rapporti che si stabiliscono tra i detentori del potere politico. La sfera dei diritti si arresta a quella dei soggetti titolari del diritto di proprietà; al di là di questa, esiste una comunità indistinta di individui che appare più come oggetto di diritti altrui che come soggetto di diritti propri. • Lo stato assoluto: è uno stato che tende a farsi carico dei nuovi problemi che nascono dagli svolgimenti della vita sociale, che assume come propri fini di interesse generale, rappresentati dalla sicurezza interna, da una politica estera di potenza nazionale e dal benessere dell’intera collettività. Lo stato sviluppa la sua azione nei vari settori in cui si svolge la vita sociale ed economica, secondo una concezione interventista del suo ruolo. Caratteri fondamentali: assunzione da parte dello stato della cura di interessi generali, arricchimento dei suoi compiti, intervento diretto nei più diversi settori delle attività sociali. Sul piano dell’ordinamento statuale ciò comporta una progressiva differenziazione degli organi e degli atti che essi compiono. Vi è un fenomeno di progressiva concentrazione del potere nelle mani del Sovrano, la cui legittimazione risiede su un asserito principio di natura trascendente. • Lo stato liberale: caratterizzerà l’esperienza costituzionale del continente europeo fino agli anni successivi al primo conflitto mondiale. Conserva ai pubblici poteri il compito di perseguire come finalità generale il soddisfacimento degli interessi dell’intera collettività, attraverso un’azione indiretta volta ad assicurare condizioni di sicurezza sul piano esterno (politica estera) e il rispetto dei diritti di libertà, in primo luogo le libertà economiche, sul piano interno (sicurezza pubblica). È ispirato a dottrine liberiste e si presenta come stato non interventista, è importante il principio di legittimazione dell’esercizio del potere: non più una sorta di autolegittimazione di origine trascendente (natura divina del potere) ma una legittimazione che proviene direttamente dai consociati. Il principio cardine dello stato di diritto implica che il funzionamento e l’organizzazione dello stato devono essere disciplinati dalle leggi e gli atti della pubblica amministrazione devono essere conformi alla legge, pena la loro annullabilità da parte del giudice. La crisi di questa forma di stato è determinata soprattutto dall’emergere di una serie di gravi contraddizioni tra i principi che lo Stato liberale aveva posto a sua fondamento e gli sviluppi concreti che la vita degli ordinamenti che ad esso si richiamavano aveva conosciuto. Alla solenne affermazione del principio di uguaglianza e dei diritti di libertà individuali corrispose un aggravamento delle disuguaglianze (economiche); al principio della volontà popolare corrispose l’esclusione delle classi sociali più povere da ogni forma di partecipazione politica. • Lo stato totalitario: fu lo sbocco alla situazione di crisi dello stato liberale, nasce con l’obiettivo primario di sostituire l’apparato istituzionale proprio dello Stato liberale, mediante l’introduzione di una nuova organizzazione, non più fondata sui meccanismi elettorali ma ispirata ad un forte accentramento del potere intorno alla figura di un Capo, espressivo della forza politica egemone e in grado di contenere e regolare in maniera autoritaria i conflitti sociali. È uno stato impegnato in ogni settore della vita economica e sociale. Nuovi strumenti furono: partito unico, sindacati di stato, mezzi di comunicazione di massa. È uno stato che persegue una politica repressiva dei diritti di libertà, in particolare delle libertà politiche, arrivando a calpestare il principio di uguaglianza. • Lo stato socialista: nasce con la rivoluzione che portò alla caduta del regime zarista in Russia, ma è solo nel secondo dopoguerra che si estende a molti paesi dell’Europa centrale e orientale. Sul piano istituzionale vi sono radicali innovazioni: prevalenza di una classe sociale su tutte le altre (dittatura del proletariato), concentrazione del potere come modulo organizzativo ispirato al principio del centralismo democratico, pianificazione di tutte le attività economiche e sociali, sistema di governo di tipo federale assai complesso ma egemonizzato dal partito unico. • Lo stato sociale: il fine è quello di rimuovere le disuguaglianze presenti nella società, orientando in questa direzione l’azione dei pubblici poteri, che intervengono attivamente nei più diversi settori economici si adoperano per la soluzione dei conflitti sociali (stato interventista). Lo stato, i cui organi politici sono rappresentativi di tutti i cittadini, si propone di assicurare ad essi una effettiva partecipazione alla vita politica del paese. Lo stato sociale si caratterizza per il fatto di assumere come fine principale quello di raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale e non solo di quella formale tra i cittadini (art. 2 costituzione repubblicana). si ritrovano nello stato sociale molti elementi di continuità con il vecchio stato liberale (viene rafforzata la divisione dei poteri, resta l’affermazione dei diritti di libertà come diritti assoluti, si confermano tutte le caratteristiche dello stato di diritto, vengono recuperate molte delle istituzioni tipiche di quella forma di stato) ma si assiste al pieno riconoscimento di istituti fondamentali per garantire l’effettiva partecipazione dei cittadini in una grande società di massa (partiti e sindacati) e ad un profondo mutamento dell’atteggiamento dei pubblici poteri, impegnati in un’opera di progressivo riequilibrio delle posizioni di svantaggio, determinate dal libero gioco delle forze sociali. Elementi tipici dello stato sociale sono il notevole accrescimento degli apparati amministrativi e la loro differenziazione in relazione alla diversificazione dell’azione statale, il massiccio intervento diretto o indiretto nell’economia, l’aumento significativo delle risorse necessarie alla finanza pubblica. Un altro possibile elemento di classificazione delle forme di stato attiene al rilievo che viene riservato al principio dell’autonomia territoriale. Il riconoscimento del principio autonomistico determina una serie di reazioni sul piano dell’assetto della forma di governo, influenzando struttura e funzioni degli organi centrali dello stato. Si parla di: • Stato unitario: modello di stato accentrato, in cui tanto le istituzioni in cui si esprime la dialettica politica quanto le fondamentali strutture amministrative conoscono un unico livello, quello centrale, verso il quale sono destinate a confluire e a trovare risposta le domande di varia natura espresse dal contesto sociale. • Stato federale: è basato sulla regola per cui i membri della federazione hanno una competenza generale, dalla quale sono escluse le materie che vengono espressamente riservate dalle norme costituzionali agli organi federali; l’autonomia delle autorità locali è ampia. Gli stati membri di uno stato federale mantengono spesso alcune tipiche caratteristiche degli stati sovrani (hanno corpi armati, agiscono sul piano internazionale, dispongono di apparati giurisdizionali). • Stato regionale: sono gli organi centrali dello stato ad avere una competenza generale, fatte salve le specifiche competenze riservate alle regioni; l’autonomia delle autorità locali incontra maggiori limiti rispetto allo stato federale Le forme di governo • Monarchia assoluta: l’affermarsi dello stato assoluto, l’estendersi dei fini statuali e il moltiplicarsi dei settori in cui si esercita l’intervento dei pubblici poteri creano le premesse per la costituzione dei primi nuclei di una struttura amministrativa statuale unitaria e stabile; al vertice si pone il sovrano, unico organo titolare del potere di decisione politica (di natura trascendente) e ad esso fanno capo tutte le funzioni statuali: sia la funzione legislativa, sia la funzione esecutivo-amministrativa, sia la funzione giurisdizionale. • Monarchia costituzionale: in Inghilterra si assiste con Locke alla prima teorizzazione del principio della divisione dei poteri: postula la frantumazione dell’unicità del potere sovrano e la sua ripartizione tra organi distinti ed autonomi; ciò significava immaginare una forma di governo centrata su due organi costituzionali: il sovrano titolare della funzione esecutiva e federativa (politica estera) e il parlamento titolare della funzione legislativa. Il sovrano ha ancora un ruolo fondamentale nel quadro della forma di governo, ma si trova come limite l’organo parlamentare, formando così una situazione dualista. In Francia la concezione del principio della divisione dei poteri venne teorizzata da Montesquieu e Rousseau: appare centrale l’idea per cui non solo non ci dovrà essere per il futuro alcun potere esercitato in condizioni di monopolio da alcun organo dello stato, ma nemmeno alcun potere esercitato al di fuori da uno stretto collegamento con la volontà popolare. Di qui il nuovo principio di legittimazione del potere, il cui corretto esercizio trova garanzia nella individuazione di una pluralità di soggetti istituzionali (Parlamento, governo e giudici) ciascuno chiamato ad operare in condizioni di separazione e di autonomia rispetto agli altri. La prima applicazione di tale principio teorico si ebbe con la monarchia costituzionale, in cui il parlamento ripete la legittimazione, per l’esercizio del suo potere, dalla volontà popolare e si pone come interlocutore necessario del re. Il sovrano rimane titolare del potere esecutivo e del potere di nomina e di revoca dei suoi ministri, ma deve dividere l’esercizio del potere legislativo con il parlamento e sottoporre al suo controllo tutta una serie di atti fondamentali per la vita dello stato. Mano a mano che si consolida l’esperienza liberale, si attenueranno i poteri mantenuti in capo al sovrano e accrescerà il ruolo del parlamento con l’apparire di un nuovo organo costituzionale, ossia il governo. • Governo parlamentare: si assiste a una rottura dell’equilibrio tra parlamento e sovrano a favore del ruolo del parlamento, l’istituto giuridico che sanziona questo fondamentale passaggio nella storia del costituzionalismo moderno è l’istituto della fiducia, il quale comporta che il governo (una volta formato) si presenti di fronte al parlamento per ottenere un avallo preliminare al programma di attività che intende svolgere nel corso della propria vigenza in carica; insieme al potere di concedere o meno questo avallo iniziale, il parlamento acquista anche quello di revocare la fiducia al governo mediante l’approvazione di una mozione di sfiducia, la quale obbliga giuridicamente il governo a dimettersi. Mentre formalmente il potere di nomina dell’esecutivo rimane affidato al capo dello stato, politicamente il governo diviene responsabile del suo operato nei confronti del parlamento; si passa così da una fase dualista ad una fase monista, in cui al centro del sistema si colloca saldamente un solo organo: il parlamento. Questo passaggio avviene in modo graduale: inizialmente il governo resta ancora parzialmente vincolato alla volontà del sovrano (si trova in una situazione di doppio vincolo o doppia fiducia) successivamente l’unica vera sede in cui può essere fatta valere la Dal punto di vista del contenuto si può parlare di: • Costituzione procedurale e costituzione-programma: la prima si limita essenzialmente a regolare l’esercizio dei poteri pubblici e i modi di produzione del diritto (fonti di produzione), la seconda si prevede anche disposizioni che intendono orientare l’azione dei pubblici poteri in funzione del raggiungimento di finalità di carattere generale. Dal punto di vista dell’effettività, ossia della sua reale capacità di regolare i comportamenti dei soggetti privati e di quelli pubblici, si può parlare di: • Costituzione formale: è rappresentata dall’insieme delle disposizioni contenute nel testo costituzionale • Costituzione vigente: è individuata nella parte della costituzione formale che risulta effettivamente operante in quel determinato momento storico • Costituzione materiale: sarebbe rappresentata dalla risultante delle concezioni sociali e istituzionali condivise, in un determinato momento storico, dalle forze politiche dominanti. La costituzione come fonte normativa negli sviluppi del costituzionalismo moderno Il punto di partenza del percorso è rappresentato dall’avvio delle due grandi esperienze costituzionali americana (1787) e francese (1791); sono entrambe costituzioni votate da assemblee rappresentative nell’esercizio del potere costituente. Un potere che non incontra limiti di sorta e che affida la formalizzazione in termini giuridici del nuovo sistema alle disposizioni costituzionali. Le costituzioni hanno una funzione garantista del patto costituente che esse esprimono; ma, perché questa funzione di garanzia possa davvero realizzarsi, era necessario che la costituzione fosse messa al riparo dai possibili attentati che potevano esserle mossi dagli altri poteri costituiti e in particolare dal potere legislativo, attraverso gli istituti della rappresentanza politica. Una nuova legalità costituzionale che investe il comportamento del legislatore e il comportamento di tutti gli altri soggetti investiti di poteri pubblici e che per produrre effetti concreti richiedeva anch’essa sedi e modi per verificarne l’effettivo rispetto. Per la prima volta negli USA, pochi anni dopo l’entrata in vigore della costituzione, viene introdotto il controllo di legittimità costituzionale delle leggi. Spettava ai giudici accertare la conformità delle leggi (che dovevano applicare nei loro giudizi) rispetto alla Costituzione e, in caso di accertato contrasto, disapplicare la legge incostituzionale. Tutti i giudici americani hanno svolto questa funzione di garanzia della rigidità della Costituzione (esercitata in modo diffuso e non riservata ad un organo giurisdizionale speciale), secondo le regole proprie dell’ordinamento giudiziario e in particolare del principio dello stare decisis (ossia del valore vincolante del precedente giudiziario). Questo significa che le decisioni in punto di incostituzionalità di una legge presa da un giudice vincola la decisione di un altro giudice che affronti successivamente la stessa questione; un vincolo che è tanto più forte quanto di livello più elevato sia il giudice che ha dato luogo al precedente. In Europa passerà circa un secolo perché si affermino costituzioni rigide e garantite da sistemi di giustizia costituzionale. Tra le ragioni vi è il modello di stato fortemente caratterizzato dall’egemonia di limitate classi dirigenti, allorché il rigido assetto elitario viene fondato su leggi elettorali ispirate al principio censitario; questa limitata rappresentanza popolare negli organi legislativi produce politiche legislative assai restrittive sul piano della tutela dei diritti e viene dato poco rilievo anche al principio del pluralismo istituzionale rappresentato dalle autonomie locali. Un altro ordine di ragioni si lega alla difficoltà di staccarsi dal principio della sovranità della legge (quella del parlamento). In una impostazione di questo tipo, nella quale la natura del potere legislativo tende a confondersi con l’esercizio del potere costituente, in quanto entrambi espressione della sovranità popolare, una distinzione formale tra la legge e la costituzione che assegnasse alla costituzione la supremazia sulla legge non poteva trovare spazio. Quindi la scelta adottata dalle costituzioni europee ottocentesche è stata a favore di costituzioni flessibili, che assegnano un ruolo centrale alla legge senza prevedere alcun rimedio giuridico nei confronti di violazioni dei principi costituzionali da parte del legislatore. La situazione muta nei decenni tra il XIX e il XX secolo nel quadro delle profonde trasformazioni che si vanno producendo nell’impianto dello Stato liberale: dalla progressiva introduzione del principio del suffragio universale, alla nascita dei primi sindacati e partiti di massa, alla conseguente più larga partecipazione alle decisioni politiche di ampi stati sociali. Vi è l’intervento dello stato ai nuovi ambiti e la creazione di consistenti apparati burocratici che operano per la fornitura dei servizi sociali. I mutamenti si accentuano all’indomani della fine del primo conflitto mondiale anche per la necessità di molti nuovi stati europei di darsi le rispettive costituzioni: in questo contesto anche in Europa inizia a farsi strada l’idea che i principi e le regole costituzionali debbano essere messe al riparo dalle decisioni di contingenti maggioranze politiche e la costituzione debba vedere rafforzata la sua forza normativa anche nei confronti della legge. Si assiste alla nascita dei primi sistemi di giustizia costituzionale, a garanzia della rigidità della costituzione; è nel periodo tra le due guerre che vengono messi in opera i primi tre sistemi di giustizia costituzionale. Al termine del secondo conflitto mondiale, la maggioranza dei costituenti europei edificarono le nuove costituzioni democratiche su due pilastri fondamentali: • L’affermazione dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo • La scelta a favore di costituzioni rigide, in grado di assicurare stabilità a tali previsioni attraverso l’introduzione di speciali procedimenti di revisione costituzionale, ma anche attraverso l’introduzione di sistemi di giustizia costituzionale. Nel 1948 entra in vigore la costituzione italiana che prevede l’istituzione di una corte costituzionale. Al principio di legalità che impone il rispetto della legge ai pubblici poteri si affianca un nuovo principio di legalità costituzionale, che si impone anche ai massimi organi politici e gli atti che sono espressione dell’esercizio della loro volontà e in primo luogo alla legge. Questa è l’essenza della nuova forma di stato che nasce con le costituzioni del secondo dopoguerra e che prende il nome di stato costituzionale. I caratteri comuni delle Costituzioni contemporanee I tratti comuni delle costituzioni contemporanee possono essere riassunti: • Costituzioni votate da appositi organi costituenti • Costituzioni scritte che riuniscono in un unico testo normativo tutte le disposizioni costituzionali • Costituzioni lunghe che contengono norme di principio e norme di diretta applicazione • Costituzioni rigide, la cui natura di leggi fondamentali stabili è garantita da appositi procedimenti aggravati di revisione costituzionale e da sistemi di controllo di costituzionalità delle leggi • Costituzioni programmatiche che si propongono di fungere da cornice e guida all’esercizio dei poteri costituiti in vista del perseguimento di finalità di carattere generale. Le costituzioni disciplinano i modi di produzione delle norme giuridiche: individuazione delle diverse fonti normative (fonti-atto), imputazione di ciascuna di esse a determinati organi, definizione delle regole procedurali di base per l’adozione delle regole giuridiche (fonti sulla produzione), nonché dei criteri base ai quali trovano soluzione le eventuali antinomie tra una fonte e un’altra (gerarchia e competenza). Le costituzioni disciplinano la tutela dei diritti fondamentali dei singoli e dei gruppi sociali; contengono disposizioni di principio e disposizioni direttamente precettive (principi e regole). A tutte le disposizioni costituzionali va riconosciuta la stessa valenza giuridica, con la differenza che mentre le regole possono trovare diretta applicazione, i principi impongono un obbligo di implementazione del loro contenuto (traduzione in specifiche regole). CAPITOLO IV: LE TRASFORMAZIONI DELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA Lo Statuto Albertino, concesso il 4 marzo 1848 da parte di Carlo Alberto, Re di Sardegna, divenuto poi costituzione del Regno d’Italia nel 1861, segna tutta la prima fase della nostra storia costituzionale fino al 1948. Si presenta come una versione moderata dei principi affermatisi in seguito alla rivoluzione francese: accoglie parzialmente le istanze di democratizzazione dello Stato, ma nel quadro di un sistema costituzionale che conservasse comunque al Sovrano un ruolo centrale. La forma di governo era una monarchia costituzionale pura, di tipo dualista, basata su due centri del potere: Sovrano e Parlamento, al primo si assegna un ruolo di assoluta primazia; spetta al Re il potere esecutivo, spetta al Re nominare e revocare i suoi ministri, il Re condivide il potere legislativo col parlamento attraverso il potere di sanzionare leggi, il Re nomina i membri del senato, il Re ha il potere di scioglimento della camera elettiva, il Re è capo supremo dello stato. Era previsto che il sovrano fosse organo irresponsabile, riversandosi la responsabilità degli atti regi sui ministri chiamati a controfirmarli. Il parlamento era formato da una Camera elettiva e da un senato di nomina regia, cui spettava insieme al Sovrano il potere legislativo, nonché la fondamentale funzione di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato. Vi era un esiguo numero di libertà garantite, cioè solo alcune libertà individuali. Una delle debolezze di fondo era quella di essere una costituzione flessibile, cioè che non prevede alcun meccanismo giuridico di reazione nei confronti di possibili abusi del legislatore ordinario. Lo statuto Albertino enuncia i diritti di libertà, ma lascia al legislatore ordinario la disciplina dei limiti al loro concreto esercizio. La legislazione di pubblica sicurezza e quella penale si caratterizzano come estremamente severe nella prevenzione e nella repressione non solo dei reati, ma anche dei comportamenti ritenuti antisociali o comunque pericolosi per il sistema politico dominante, con una vastissima attribuzione di poteri discrezionali agli organi di polizia. Riguardo la tutela della libertà religiosa, lo Statuto sembrava prefigurare uno stato confessionale, là dove si riferiva alla religione cattolica come alla sola religione dello stato e agli altri culti come semplici culti tollerati. In realtà i sviluppò una legislazione che puntava a ridurre le differenze giuridiche nella tutela delle diverse confessioni religiose. Con la legge delle guarentigie del 1871 si intendeva garantire il libero esercizio delle funzioni del pontefice e della santa sede. Iniziò ad affermarsi il legame di responsabilità politica tra governo e parlamento; consci dell’impossibilità di realizzare i propri programmi politici senza l’appoggio di una maggioranza parlamentare, i governi pur nominati dal Re cominciarono da subito a ricercare un voto parlamentare di adesione agli obiettivi che intendevano perseguire. Questo voto rafforzava il Governo nei confronti del parlamento ma anche nei confronti del sovrano. Si passa così ad una forma di governo centrata sull’equilibrio dei rapporti tra governo e parlamento, mentre il ruolo del Sovrano tende a passare in secondo piano. Ci furono resistenze da parte del re che si accentuarono in coincidenza con la crisi di fine secolo, che vede il paese percorso da forti tensioni sociali rispetto alle quali le istituzioni parlamentari statutarie mostrano tutta la loro inadeguatezza, soprattutto a causa della loro scarsa rappresentatività. Vi fu la progressiva accentuazione della rilevanza politica del Presidente del consiglio dei Ministri e dello stesso governo. Si arrivò al R.D. 14 novembre 1901, durante il governo Zanardelli, con il quale si affermano con chiarezza due principi: a. Primazia riconosciuta al Presidente del consiglio rispetto agli altri ministri, poiché egli rappresenta il gabinetto, mantiene l’unità di indirizzo politico e ammnistrativo di tutti i ministeri e cura l’adempimento degli impegni presi dal governo. b. Valorizzazione della collegialità nell’esercizio delle funzioni del governo. La crescita del ruolo del governo è testimoniata anche dall’espansione dei suoi poteri normativi: sempre più frequente il ricorso, in casi di urgenza, ai decreti legge e ai decreti legislativi. La legislazione elettorale: dal criterio censitario al suffragio universale maschile Il carattere censitario della legislazione elettorale di tale periodo finisce per ridurre fortemente il carattere rappresentativo della Camera elettiva. • La legge elettorale adottata nel 1848 consentì l’esercizio di voto ad una percentuale non superiore al 2% della popolazione. • Nel 1877 il diritto di voto viene esteso ai cittadini di sesso maschile che avessero raggiunto la maggiore età e che avessero adempiuto all’obbligo scolastico; l’elettorato passò al 7% della popolazione. ad altri soggetti. Si parla degli organi costituzionali: corpo elettorale, parlamento, PdR, governo e Corte costituzionale. Tali organi: • Sono organi rappresentativi: hanno un rapporto più o meno diretto col popolo • Sono organi titolari della funzione di indirizzo politico: determinano gli obiettivi della politica nazionale nel quadro dei principi costituzionali • Sono organi necessari: indispensabili al corretto funzionamento del sistema • Sono organi indefettibili: non possono essere sostituiti nell’esercizio delle loro funzioni. • Art. 2: la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Il ruolo dello Stato si riassume in una funzione strumentale di garanzia, nonché di pieno sviluppo dei valori personalistici e comunitari di tutte le persone. • Art. 11: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. • Art. 3: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche di condizioni personali e sociali . È così giustificata la previsione di conseguenti ed adeguate tecniche giuridiche a tutela delle situazioni di libertà individuali e collettive (riserve di legge, riserve di giurisdizione). Tale articolo esprime con assoluta chiarezza il superamento dello stato liberale a favore dello stato sociale, prescrivendo che è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. • Art. 1: l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. Individua nel lavoro, inteso come contributo che ciascuno dà al progresso materiale e culturale della società, il valore sociale primario. • Art. 40: è riconosciuto il diritto di sciopero. • Art. 42: è garantita la proprietà privata, ma è consentita una disciplina legislativa che ne assicuri la funzione sociale e ne favorisca l’accesso al maggior numero possibile di soggetti. • Art. 41: libertà dell’iniziativa economica privata, non solo vieta che essa possa essere esercitata in contrasto con la libertà sociale, con la sicurezza e la libertà e dignità umana, ma prevede che possa essere indirizzata e coordinata dalla legge al raggiungimento di fini sociali. • Art. 43: l’intervento dello stato è facoltativo, per fini di utilità generale la legge può riservare allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese. • Al sistema politico centrale si affiancano i sistemi politici regionali e locali, introdotti al fine di adeguare meglio l’amministrazione pubblica alle tante e diverse esigenze locali, sia al fine di arricchire il quadro istituzionale attraverso la formazione di sedi di mediazione degli interessi più ravvicinate ai cittadini che di quegli interessi non sono portatori. • Tutto il sistema costituzionale trova nell’istituzione e nei poteri della Corte costituzionale, in una posizione di grande autonomia ed indipendenza dagli altri poteri dello Stato, lo strumento di garanzia fondamentale del rispetto della legittimità costituzionale. • Art 10: si afferma la subordinazione dell’ordinamento giuridico nazionale alle norme internazionali generalmente riconosciute. Gli elementi portanti della costituzione italiana sono: costituzione rigida, scelta a favore della forma di stato sociale, forma di governo parlamentare corretta dall’introduzione di un sistema di giustizia costituzionale, apertura internazionalista. Dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, il testo originario ha subito numerose modifiche: abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 27 in ordine alla pena di morte, modifica dell’art. 48 in ordine al voto degli italiani all’estero, dell’art. 51 in ordine alle pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive, dell’art. 60 in ordine alla durata di Camera e senato. CAPITOLO VI: IL CORPO ELETTORALE Popolo e corpo elettorale L’art. 1 afferma che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione. Gli organi costituzionali si dicono sovrani in quanto rappresentano gli strumenti attraverso i quali il popolo esercita la sovranità. La Costituzione prevede che l’esercizio delle fondamentali funzioni dello stato non possa avvenire se non in seguito all’attivazione di istituti che chiamano in causa direttamente il corpo elettorale, che rappresenta la parte attiva del popolo. Titolare della sovranità resta il popolo nel suo complesso (insieme di tutti i cittadini), di esso fanno parte anche coloro che non sono elettori ma portatori di interessi che influiscono sull’esercizio della sovranità. Con il concetto di nazione si individuano gli elementi etnici, linguistici, culturali e sociali che costituiscono il patrimonio di una determinata collettività. Con il termine popolazione si designa l’insieme dei soggetti, cittadini e non, che risiedono in un determinato momento sul territorio dello stato e sono tenuti a rispettarne le leggi. Elemento essenziale per l’esercizio dei diritti connessi alla titolarità della sovranità è il possesso della cittadinanza, che costituisce uno status cui la Costituzione ricollega una serie di diritti e doveri. L’acquisto, la perdita e il riacquisto della cittadinanza sono disciplinati dalla legge 91/1992. • Secondo il principio dello iure sanguinis, acquista la cittadinanza italiana il figlio, anche adottivo, di padre o madre in possesso della cittadinanza italiana qualunque sia il luogo di nascita; il non cittadino del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita acquista la cittadinanza, su sua richiesta, se presta effettivo servizio militare, se assume pubblico impiego dello stato ove risieda per un biennio in Italia. • Acquista la cittadinanza iure soli, perché nato nel territorio nazionale, colui che è nato da genitori ignoti o apolidi o che, nato in Italia da cittadini stranieri, non ottenga la cittadinanza dei genitori, sulla base delle leggi degli Stati cui questi appartengono. • Acquista la cittadinanza colui che ne fa richiesta espressa: ad esempio il coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano, o lo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano; ciò che conta è poter vantare un certo periodo di residenza in Italia (lo straniero residente in Italia può richiedere la cittadinanza solo dopo 10 anni di residenza stabile). Il coniuge straniero può ottenere la cittadinanza quando risiede legalmente da almeno due anni in Italia o dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero. L’art. 22 prevede che nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome. La perdita della cittadinanza può avvenire per rinunzia o automaticamente (se il cittadino svolge funzioni alle dipendenze di uno stato estero, in periodo di pace o di guerra, e intende conservare questa posizione nonostante l’intimazione del Governo italiano a cessare tale rapporto di dipendenza). Il riacquisto della cittadinanza è previsto: • Nel caso in cui l’interessato presti il servizio militare o accetti un impiego alle dipendenze dello stato italiano e dichiari la volontà di volerla riacquistare • Nel caso in cui l’interessato dichiari di volerla riacquistare e stabilisca la propria residenza nel territorio della Repubblica, entro un anno dalla dichiarazione • Nel caso in cui l’interessato risieda da oltre un anno nel territorio della Repubblica, salvo espressa rinuncia entro lo stesso termine • Nel caso in cui l’interessato abbia abbandonato il rapporto di dipendenza da uno stato estero, che aveva determinato la perdita, e risieda da almeno due anni nel territorio della Repubblica • Su richiesta degli interessati per coloro che siano stati cittadini italiani residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano, successivamente ceduti alla Repubblica Jugoslava, nonché per i loro figli e discendenti in linea retta che siano di lingua e cultura italiana. Il Trattato sull’Unione Europea introduce una nozione di cittadinanza europea: si acquista in virtù del possesso della cittadinanza di uno degli stati membri e comporta il riconoscimento di una serie di diritti (libertà di circolazione, diritto alla tutela da parte delle autorità diplomatiche di qualsiasi stato membro, diritto di rivolgere petizioni al parlamento europeo, diritto di ricorrere al mediatore, diritto di rivolgersi alle Istituzioni dell’Unione in una delle lingue dei trattati e ricevere risposta nella stessa lingua); inoltre viene riconosciuto l’elettorato attivo e passivo nello Stato in cui si risiede, per ciò che attiene alle elezioni comunali e a quelle per il Parlamento europeo, alle stesse condizioni dei cittadini dello stato di residenza. Le funzioni del corpo elettorale Le funzioni che spettano al corpo elettorale sono: elezione dei propri rappresentanti nel Parlamento nazionale ed in quello europeo, nei consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali, ecc. La Costituzione prevede alcune forme di esercizio diretto della sovranità da parte del corpo elettorale: petizione, iniziativa popolare e referendum. La funzione elettorale L’art. 48 fissa i principi fondamentali in materia di esercizio della funzione elettorale. Oltre a determinare quali devono essere le caratteristiche del voto (personalità, uguaglianza, libertà e segretezza), oltre a definirne l’esercizio dovere civico, esso indica i requisiti positivi (cittadinanza e maggiore età) e negativi (incapacità, indegnità morale) della capacità elettorale. La Costituzione non contiene alcuna espressa previsione sulle regole destinate a caratterizzare il sistema elettorale. Le caratteristiche del voto sono: 1. Personalità: indica il divieto per il legislatore elettorale di introdurre regole che consentano all’elettore di esercitare la funzione elettorale attraverso un altro soggetto (voto per delega), salvi i casi in cui l’intervento di un terzo sia indispensabile all’esercizio del voto 2. Uguaglianza: indica il divieto di introdurre regole elettorali che abbiano come conseguenza l’attribuzione ad alcuni soggetti di un peso elettorale maggiore rispetto a quello di altri 3. Libertà e segretezza: indicano l’obbligo per il legislatore elettorale di predisporre modalità di esercizio del diritto di voto che garantiscano, insieme alla non riconoscibilità del voto stesso, la possibilità di esprimere la propria volontà elettorale senza condizionamenti di sorta. L’art. 48 definisce l’esercizio del diritto di voto come dovere civico, anche le leggi elettorali per la Camera e per il Senato ribadiscono il carattere doveroso del voto, senza però prevedere alcuna sanzione per il suo mancato esercizio. I requisiti positivi sono due: 1. Cittadinanza 2. Maggiore età: l’art. 48 rinvia alle determinazioni del legislatore ordinario la fissazione della maggiore età, mentre altre disposizioni costituzionali prevedono direttamente l’età per l’elezione di determinati organi rappresentativi (art. 58: 25 anni per l’elezione dei membri del Senato) e l’età richiesta per l’elettorato passivo (art. 56: 25 anni per essere eletti deputati, art. 58: 40 anni per essere eletti senatori, art. 84: 50 anni per essere eletti Presidenti della Repubblica). Si è posto il problema di rendere effettivo il diritto di voto degli italiani all’estero, ossia di soggetti in possesso della cittadinanza ma non più residenti in Italia. Gli aventi diritto al voto, iscritti in apposite liste elettorali distinte per ciascuna delle quattro ripartizioni in cui è suddivisa la circoscrizione estero votano o per corrispondenza o in Italia. I requisiti negativi della capacità elettorale sono rappresentati: partito o alla coalizione di partiti che avesse ottenuto il 50%+1 dei voti validamente espressi; si parlò di legge truffa e non trovò mai applicazione. Una spinta decisiva a favore dell’adozione di un sistema che contenesse alcuni elementi propri di un sistema maggioritario è venuta dalla vicenda referendaria che ha interessato una parte di quello che era allora il sistema elettorale del senato. Con il referendum del 1991 si arriva all’abolizione delle preferenze e con quello successivo del 1993 si corregge in senso maggioritario (facendo cadere la percentuale di 2/3 per ottenere il seggio nei collegi uninominali regionali) il sistema misto fino ad allora in vigore per il Senato. Si è così arrivati all’approvazione di una nuova legislazione elettorale (leggi 276-277/1993) che ha profondamente modificato il sistema precedente per l’elezione sia della camera che del Senato. Per una parte il sistema poteva definirsi maggioritario (3/4 dei deputati e dei senatori erano eletti in collegi uninominali secondo la regola plurality che assegna il seggio al candidato che ottiene più voti rispetto agli altri), ma per una parte ancora proporzionale (1/4 dei deputati e dei senatori era eletto secondo un sistema proporzionale). Con l’approvazione della legge 270/2005 si è passati ad un sistema elettorale di tipo proporzionale corretto con il premio di maggioranza: si tratta di un sistema proporzionale (i seggi vengono assegnati in proporzione ai voti validi ottenuti dalle liste singole o collegate tra loro che abbiano superato le diverse soglie minime per accedere alla ripartizione), a scrutinio di lista (senza possibilità per l’elettore di esprimere preferenze) in collegi plurinominali, con assegnazione di un forte premio di maggioranza alla coalizione o lista che ha raccolto il maggior numero di voti validi a livello nazionale (per la Camera) e a livello regionale (per il Senato), ma non ha conseguito il 55% dei seggi in palio. Le critiche alla legge 270/2005 riguardavano soprattutto due punti: 1. Assegnazione del premio di maggioranza alla coalizione vincente senza la predeterminazione di una soglia minima di voti che in ogni caso dovrebbe essere raggiunta (con il rischio che il premio venga assegnato al partito o alla coalizione che ha ricevuto un numero di voti superiore a quello degli altri partecipanti ma oggettivamente basso e poco rappresentativo dell’intero corpo elettorale) 2. Presentazione in grandi circoscrizioni elettorali di liste bloccate di candidati scelti dalle segreterie dei partiti, determinando così a priori i possibili vincitori del seggio (con conseguente annullamento della libertà di scelta dell’elettore dei propri rappresentanti. La Corte Costituzionale, con la sentenza 1/2014 ha dichiarato incostituzionale la legge impugnata per la mancata previsione di una soglia minima di voti da raggiungere al fine di conseguire il premio di maggioranza, ritenendo che vi fosse limitazione del principio di uguaglianza del voto sancito dall’art. 48. Inoltre ha dichiarato incostituzionale la presentazione di liste bloccate che negano del tutto all’elettore la libertà di scelta dei propri rappresentanti. Per effetto di questa sentenza, ciò che resta della legislazione per l’elezione della camera si presenta come un sistema proporzionale puro, con alcune soglie differenziate di accesso all’assegnazione dei seggi, a scrutinio di lista e con la possibilità per l’elettore di esprimere una preferenza. Nel maggio 2015 è stata approvata la legge 52 recante “Disposizioni in materia di elezione della Camera dei Deputati (Italicum). L’impianto della nuova legge si muove lungo le direttrici tracciate dalla sentenza della Corte Costituzionale, ma mantiene al sistema elettorale la caratteristica di un sistema elettorale misto: riparto proporzionale dei seggi a livello nazionale, con esclusione delle sole liste che non ottengono la soglia minima del 3%, corretto dalla possibilità di un premio di maggioranza (premio di governabilità) allorché nessuna lista consegua la maggioranza assoluta. Il sistema prevede due fasi: 1. Una volta adempiuti da parte dei partiti gli obblighi relativi alla presentazione delle liste nei 100 collegi plurinominali in cui è previsto che vengano suddivise le venti circoscrizioni regionali, si procede al voto. Si verifica quali liste abbiano raggiunto la soglia del 3% (soglia minima per partecipare all’assegnazione dei seggi) e si accerta se tra queste ve ne è una che ha raggiunto la maggioranza assoluta; si procede quindi al riparto proporzionale dei seggi. Altrimenti si verifica se una lista ha conseguito la soglia minima del 40% dei voti validi, utile a conseguire il premio di maggioranza che si sostanzia nell’assegnazione automatica di 340 seggi; gli altri 277 seggi vengono attribuiti alle altre liste in proporzione al numero di voti che hanno conseguito nei singoli collegi. Fanno eccezione a questa regola Valle d’Aosta e Trentino, dove vigono regole elettorali speciali. 2. Se nessuna delle liste consegue la soglia minima del 40% vi è un successivo voto di ballottaggio tra le due liste più votate al primo turno e il premio di maggioranza viene assegnato a quella delle due liste che otterrà più voti. In ogni collegio le liste sono composte da capi lista e da candidati (presentati in ordine alternato a seconda del sesso): solo i primi possono essere candidati in più collegi fino ad un massimo di 10. Ogni elettore può esprimere fino a due preferenze, ma nel caso in cui decida di utilizzarle entrambe, la seconda deve riguardare un candidato di sesso diverso. I capilista appartenenti allo stesso genere non possono superare la percentuale del 60% dei collegi della circoscrizione e i candidati dello stesso sesso non possono superare il 50% del totale. La legge posticipa al 1 luglio 2016 la sua entrata in vigore, presupponendosi che a quella data possa essere stata approvata la riforma costituzionale relativa alla trasformazione del senato in Camera delle autonomie ad elezione indiretta. Fino ad allora per il Senato vale un sistema proporzionale puro. Gli strumenti di esercizio diretto della sovranità Attraverso gli strumenti di democrazia diretta il corpo elettorale, anziché delegare ad altri organi l’esercizio della sovranità, provvede ad esercitarla in proprio, saltando le mediazioni degli organi rappresentativi. Gli istituti previsti dalla Costituzione sono tre: 1. Petizione 2. Iniziativa legislativa popolare 3. Referendum. Petizione La petizione è definita dall’art. 50 come il diritto di ciascun cittadino di rivolgersi alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità. Si tratta di un istituto dalla disciplina generica e indeterminata. Del diritto di petizione è titolare la generalità dei cittadini e si traduce in pratica non certo in un esercizio diretto della sovranità, ma nell’esercizio di una funzione di stimolo nei confronti delle camere, che può avere ad oggetto uno specifico intervento legislativo, ovvero la presa in considerazione di esigenze considerate dagli interessati di interesse generale. Ogni deliberazione in merito spetta esclusivamente all’organo destinatario della petizione. La petizione è trasmessa alla commissione parlamentare competente, la quale può prenderla in considerazione e deliberare su di essa oppure trasmetterla al Governo se i provvedimenti citati lo chiamano in causa; è infine previsto che al presentatore venga comunicato l’esito della stessa. Iniziativa legislativa popolare Secondo l’art. 71 il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno 50.000 elettori, di un progetto redatto in articoli . Una funzione di stimolo che lascia libero l’organo cui l’iniziativa popolare è rivolta di assumere le decisioni in merito che ritiene più opportune. Al contrario della petizione, vi sono alcune garanzie minime (la presa in considerazione da parte della Camera) ma non è previsto alcun serio vincolo alla loro libertà decisionale. I regolamenti di Camera e Sanato stabiliscono che le proposte di legge di iniziativa popolare non decadono con lo scadere della legislatura, ma sopravvivono anche per quella successiva; il regolamento del Senato prevede che l’esame in commissione inizi entro e non oltre un mese dal deferimento e prevede la possibilità di un’audizione di un rappresentante dei proponenti designato dai primi dieci firmatari del progetto. Si ammette che debbano ritenersi escluse dall’iniziativa popolare le leggi che sono ricondotte all’iniziativa riservata del governo (es. leggi di bilancio). Gli unici controlli cui le iniziative popolari sono soggette sono quelli relativi alla regolarità degli adempimenti formali cui esse sono subordinate (regolarità firme), svolti direttamente dalla camera che riceve la proposta di legge. Il referendum L’istituto referendario è previsto dalla Costituzione come istituto destinato ad operare sia a livello nazionale che a livello regionale e locale. La tipologia del referendum a livello nazionale prevede il referendum abrogativo di leggi e il referendum che si inserisce nel procedimento di revisione costituzionale. Il referendum abrogativo di leggi è certamente quello in grado di produrre gli effetti più traumatici sul normale funzionamento degli organi rappresentativi, potendo portare ad una aperta sconfessione dell’operato del parlamento da parte degli elettori. Il referendum abrogativo di legge consiste nella sottoposizione al voto popolare di uno e più quesiti relativi all’abrogazione, totale o parziale, di una legge già in vigore. L’art. 75 fissa a 500.000 il numero minimo di elettori necessario per la presentazione delle richieste referendarie, ma prevede anche l’ipotesi che tali richieste vengano da almeno 5 consigli regionali. L’art. 75 affronta: • Limiti di materia: sono sottratte al referendum le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. • Limiti procedurali: il quorum partecipativo prevede la maggioranza+1 degli aventi diritto, mentre per essere abrogata la legge devono aver votato in tal senso la metà+1 dei votanti. L’attuazione del referendum avviene con la legge 352/1970. Le richieste di referendum abrogativo, che non possono essere presentate nell’anno anteriore a quello di scadenza di una delle Camere o nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali, sono soggette a un primo controllo di conformità alle regole da parte dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione. La richiesta è poi sottoposta al giudizio di ammissibilità da parte della Corte costituzionale: giudizio diretto ad accertare l’inesistenza di una violazione dei limiti fissati dalla Costituzione all’istituto referendario. La Corte costituzionale ha sciolto in senso positivo il quesito circa l’ammissibilità del referendum abrogativo su leggi elettorali, purché non produca gli effetti paralizzanti sulla funzionalità dell’organo. Ha risolto in senso positivo anche i referendum manipolativi, cioè quelli che attraverso l’effetto abrogativo puntano a modificare il significato di specifiche disposizioni di legge, ma con un limite: il quesito proposto agli elettori non può portare al risultato di introdurre una nuova disposizione del tutto estranea al contesto normativo disegnato dalla legge. Spetta al P.d.R., su deliberazione del consiglio dei ministri, indire con proprio decreto il referendum in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Il referendum si intende sospeso in caso di scioglimento anticipato del Parlamento ed i termini riprendono a decorrere dopo un anno dalla elezioni. Se l’elettorato si esprime in senso contrario all’abrogazione, la stessa legge non potrà essere sottoposta di nuovo a referendum per 5 anni. Il referendum di revisione costituzionale si inserisce come fase eventuale del procedimento speciale previsto dall’art. 138 per la modifica, integrazione o soppressione di alcune parti della Costituzione o di leggi costituzionali. Nell’ipotesi in cui la maggioranza raggiunta in ciascuna camera nella seconda votazione non raggiunga i 2/3 ma solo la maggioranza assoluta, si prevede che 500.000 elettori, 5 consigli regionali o 1/5 dei membri di una camera possano chiedere di sottoporre a consultazione popolare il testo votato dal Parlamento. Iniziativa che si può esercitare entro tre mesi dalla apposita pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del testo della deliberazione legislativa. Si chiama referendum sospensivo in quanto una volta avviata la procedura referendaria questa sospende il perfezionamento del procedimento di revisione costituzionale fino al momento in cui si sia svolta, con esito favorevole alla revisione stessa, la consulta popolare. CAPITOLO VII: IL PARLAMENTO Il parlamento repubblicano si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. È adottato un modello di bicameralismo eguale, paritario e indifferenziato, in virtù del quale entrambi i rami del parlamento esercitano gli stessi poteri e gli atti parlamentari sono il frutto del necessario accordo delle due camere. Le uniche differenze attengono: • Al numero dei membri: 630 deputati e 315 senatori (oltre ai senatori a vita previsti dall’art. 59) • Al diverso sistema elettorale, la cui disciplina ha del tutto svuotato di significato l’indicazione contenuta nell’art. 57 che prevede un’elezione del senato a base regionale. • Commissioni temporanee: vengono costituite per lo svolgimento di compiti specifici e durano in carica solo per il tempo necessario a tale adempimento. Si distinguono inoltre: • Commissioni monocamerali: composte da appartenenti a una sola camera • Commissioni bicamerali: composte da un egual numero di deputati e senatori. La Costituzione in realtà prevede in un unico caso la creazione di una commissioni di questo tipo, si tratta della commissione bicamerale per le questioni regionali prevista dall’art. 126. Possono essere configurate come permanenti o temporanee e svolgono funzioni di vigilanza e di indirizzo, di vigilanza e controllo o consultive. Se sono previsti membri esterni al parlamento, queste operano presso il Governo. Gli apparati burocratici delle camere Entrambe le camere si avvalgono, per l’esercizio delle loro funzioni, di piccoli ma altamente qualificati apparati burocratici, la cui importanza si è fortemente accentuata. Alla burocrazia parlamentare sono stati attribuiti compiti non solo quantitativamente ma anche qualitativamente sempre più rilevanti (es. potenziamento dei servizi diretti ad assicurare alle camere un flusso di dati informativi sufficiente a garantire un’adeguata conoscenza delle questioni da affrontare). Organo di raccordo tra la componente politica e la componente burocratica della camera è il segretario generale, il quale viene nominato dall’ufficio di presidenza, su proposta del Presidente, e dura in carica fino al raggiungimento dell’età pensionabile. Camera e senato si avvalgono di due apparati burocratici, completamente distinti l’uno dall’altro. Autonomia finanziaria e contabile, immunità della sede e giustizia domestica Le camere godono di un’autonomia finanziaria e contabile , cioè decidono autonomamente l’ammontare delle risorse necessarie allo svolgimento delle loro funzioni. La Corte costituzionale ha stabilito che non hanno obbligo del rendiconto e non sono soggetti al controllo della Corte stessa. L’immunità della sede consiste nella riserva alle camere del potere di decidere chi ammettere e chi non ammettere all’interno degli edifici in cui si svolgono le attività parlamentari. Ciò vale anche per la forza pubblica: il mantenimento dell’ordine in ciascuna camera è affidato ai presidenti che si avvalgono del personale e di un reparto militare posto alle loro strette dipendenze. Con giustizia domestica, o autodichia, si intende che le controversie relative allo stato giuridico ed economico dei dipendenti (funzionari e impiegati) delle camere sono sottratte al giudice comune e riservate ad organi interni alle stesse. Su questo tema è intervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo la quale, pur giustificando l’autodichia del Parlamento, ne ha censurato i modi di esercizio; la conseguenza è stata una modifica del regolamento interno che ha stabilito che siano istituiti organi interni di primo e secondo grado, competenti a giudicare in via esclusiva sui ricorsi in questione e che di essi non possano far parte i componenti dell’Ufficio di presidenza per l’imparzialità del giudizio. Lo status di membro del Parlamento • L’art. 68 stabilisce il principio della insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni: l’ampiezza della libertà di manifestazione delle opinioni si traduce nella non perseguibilità del parlamentare né sul piano civile, né penale, né amministrativo e contabile. La libera espressione delle proprie opinioni incontra solo il limite rappresentato dalle eventuali misure disciplinari disposte dal Presidente dell’assemblea in caso di manifestazioni particolarmente offensive nei confronti di altri parlamentari o di terzi. Tale insindacabilità non copre la responsabilità politica del parlamentare nei confronti del proprio gruppo; ma tale responsabilità potrà esser fatta valere solo a fine legislatura nell’ipotesi in cui esso si ricandida. • L’art. 68 nel testo originario prevedeva le guarentigie dell’improcedibilità e dell’inviolabilità dei membri del Parlamento, ossia la loro non sottoponibilità al procedimento penale, né arresto, né ad alcuna misura restrittiva della libertà personale da parte dell’autorità giudiziaria, senza previa autorizzazione a procedere della camera di appartenenza; l’unica eccezione era l’ipotesi in cui fosse colto in flagranza di reato, per il quale la legge preveda come obbligatorio il mandato di cattura: in tal caso l’autorizzazione della camera sarebbe stata successiva. Nel nuovo testo dell’art. 68 scompare l’istituto dell’improcedibilità contro il parlamentare senza previa autorizzazione della camera di appartenenza; l’autorizzazione resta obbligatoria solo per sottoporre il parlamentare ad una misura limitativa della libertà personale (ma non più per la detenzione in esecuzione di una sentenza di condanna irrevocabile) o domiciliare. • È obbligatoria l’autorizzazione della Camera di appartenenza per la sottoposizione del parlamentare a limitazioni della libertà a segretezza di corrispondenza e comunicazione . Riguardo alle intercettazioni delle comunicazioni, la Corte ha ritenuto che il giudice debba richiedere preventivamente l’autorizzazione alla Camera di appartenenza nei casi in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, sia con riferimento alle utenze nella sua diretta disponibilità (intercettazioni dirette) sia con riferimento alle utenze di soggetti diversi che possono presumersi frequentati dal parlamentare (intercettazioni indirette). • L’art. 69 garantisce ai parlamentari un’indennità il cui importo è stabilito da apposita legge. Con una serie di sentenze la Corte costituzionale ha affermato alcuni importanti principi: • Competenza esclusiva della Camera di appartenenza a deliberare circa l’applicazione delle immunità • Riferibilità dell’immunità solo ad esternazioni collegabili inequivocabilmente all’esercizio delle unzioni proprie del parlamentare • Obbligo da parte del giudice procedente di interrompere e archiviare il procedimento in ipotesi di decisione favorevole all’interessato da parte della Camera e fatta salva la possibilità di sollevare conflitto d’attribuzione davanti alla Corte costituzionale • Potere della Corte costituzionale di sindacare la correttezza della decisione della Camera. La perdita dello status di membro del Parlamento può avvenire: a. Per decisione dell’assemblea, quando: • L’interessato perde uno dei tre requisiti previsti per l’elettorato passivo • Incorra in una delle cause di incompatibilità senza esercitare la necessaria opzione • Quando sia sopravvenuta una causa di incandidabilità che ne determina la decadenza (art. 66) b. Per dimissioni. Principi che guidano il funzionamento delle Camere La durata in carica delle Camere è 5 anni. Nel periodo di tempo necessario all’insediamento delle nuove camere, quelle scadute vedono prorogati i propri poteri (prorogatio) secondo l’art. 61. L’unico limite esplicito contenuto in Costituzione ai poteri delle Camere in prorogatio è quello previsto dall’art. 85: divieto di procedere all’elezione del Presidente della Repubblica, a partire dai tre mesi che precedono lo scioglimento; si sostiene che i poteri delle Camere in prorogatio non possano eccedere l’ordinaria amministrazione, quindi si esclude l’ordinaria attività legislativa ma si include l’approvazione delle leggi di bilancio o la deliberazione dello stato di guerra (atti costituzionalmente indifferibili). Le commissioni permanenti rimangono attive per l’esercizio delle funzioni referenti e consultive, ma non decisionali; le commissioni di inchiesta rimangono attive solo per provvedere alla conclusione delle attività inquirenti già svolte. La fine della legislatura provoca la decadenza di tutti i disegni di legge all’esame del parlamento (salvo quelli di iniziativa popolare), anche se già approvati da una camera; l’esame può essere ripreso con tempi abbreviati se vengono presentati entro sei mesi dall’inizio della nuova legislatura. La prorogatio dei poteri delle vecchie camere non significa proroga della loro durata in carica, la quale è espressamente esclusa salvo il caso di stato di guerra e in seguito all’approvazione di un’apposita legge (art. 60). La prorogatio dura per un periodo massimo di 70 giorni, cui si aggiungono i 20 giorni (al massimo) che possono intercorrere tra le elezioni e la prima riunione delle nuove camere (art. 6). L’avvio della legislatura si ha con lo svolgimento della prima riunione del Parlamento fissata dal PdR. Convocazioni straordinarie delle camere (oltre a quelle di diritto previste il primo giorno non festivo di febbraio e ottobre) possono avvenire su iniziativa del Presidente dell’assemblea, del PdR o di un terzo dei suoi componenti (art. 62). Riguardo la validità delle sedute e delle deliberazioni delle camere, l’art. 64 fissa il numero legale nella metà più uno degli appartenenti all’organo (maggioranza assoluta) e il quorum necessario per le deliberazioni, al di là dei casi in cui la Costituzione non prescriva una maggioranza più elevata, nella metà più uno dei presenti (maggioranza semplice). Il numero legale si presume esistente, salvo verifica che può avvenire o su iniziativa autonoma del Presidente, ovvero su iniziativa di un certo numero di deputati o senatori. Riguardo il quorum per le deliberazioni (quorum di maggioranza), camera e senato procedono al computo degli astenuti secondo criteri diversi: se gli astenuti non vengono considerati votanti, si determina un abbassamento del quorum di maggioranza richiesto, il quale risulterà più elevato nel caso opposto. La Camera considera non presenti gli astenuti, favorendo la maggioranza; in caso di parità di voti a favore e di voti contrari, la proposta si considera respinta salve alcune eccezioni. Riguardo la modalità di espressione del voto si ha: • Voto segreto: dirette a tutelare l’anonimato del votante; vi rientrano: voto per schede, per palline bianche o nere, voto elettronico • Voto palese: evidenzia di fronte agli elettori il collegamento tra votante e voto espresso; vi rientrano: voto per alzata di mano, voto per alzata e seduta, per divisione dell’assemblea, per appello nominale. La nuova disciplina prevede: • Voto palese per: legge finanziaria, legge di bilancio e leggi ad essa collegate, ogni altra deliberazione avente riflessi finanziari • Voto segreto solo per votazione su persone • Per tutte le altre ipotesi vale la regola del voto palese, salva la possibilità di chiedere il voto segreto per le deliberazioni relative a leggi concernenti i diritti di libertà, i diritti della persona umana, i diritti della famiglia, le modifiche del regolamento parlamentare, l’istituzione di commissioni di inchiesta, leggi elettorali. Il principio della pubblicità dei lavori parlamentari riguarda le sedute dell’assemblea che devono essere di regola pubbliche, salvo diversa deliberazione delle Camere (art. 64). Ad assicurare una pubblicità più ampia di quanto avviene in parlamento, provvedono i resoconti sommari e stenografici delle discussioni che si svolgono all’interno dell’organo parlamentare. La funzione legislativa Con la Costituzione repubblicana, il parlamento ha perso il monopolio del potere legislativo. La scelta operata a favore di uno Stato regionale (enti dotati di autonomia anche legislativa) ha determinato il passaggio ad un sistema policentrico. Nell’esperienza precedente, in regime di costituzione flessibile, la legge si poneva al vertice della scala gerarchica, senza incontrare limiti di sorta. Ora in regime di costituzione rigida la legge resta un elemento fondamentale del sistema normativo, ma incontra limiti sia di ordine procedimentale che di ordine contenutistico, il cui rispetto è assicurato dalla Corte Costituzionale. Quanto ai limiti procedimentali, si pensi a quanto previsto dall’art. 79 in ordine all’innalzamento delle maggioranze necessarie per l’approvazione di un’amnistia (eliminazione sanzione penale) o di un indulto (ridurre la sanzione per certi reati): si richiede la maggioranza dei 2/3 dei voti su ciascun articolo della legge e sul testo complessivo (si parla di leggi rinforzate). La Costituzione italiana si caratterizza per la scelta a favore di una posizione di grande apertura; ciò vale per le norme internazionali e per quelle che l’art. 10 definisce norme internazionali generalmente riconosciute manovra di bilancio e che erano sottoposti all’approvazione parlamentare erano: bilancio annuale, bilancio pluriennale e legge finanziaria. La legge finanziaria aveva l’obiettivo di apportare alla legislazione di entrata e di spesa vigente quelle correzioni ritenute necessarie al perseguimento degli obiettivi di politica economica del governo. Approvata immediatamente prima della legge di bilancio, essa consentiva così che questa riproducesse le variazioni in entrata e in uscita che erano ritenute necessarie dal Governo; spettava sempre alla legge finanziaria fissare il limite massimo dell’indebitamento pubblico. I regolamenti parlamentari avevano istituito un’apposita sessione di bilancio, durante la quale le camere non potevano deliberar su altri disegni di legge (salvo quelli di conversione dei decreti legge, quelli legati alla manovra finanziaria del governo e quelli urgenti legati all’adempimento di obblighi internazionali o comunitari). La legge 196/2009, cosi come modificata dalla legge 39/2011, ha ridefinito gli strumenti della manovra di bilancio: prevede che l’impostazione delle previsioni di entrata e di spesa dei bilanci delle amministrazioni pubbliche sia ispirata al metodo della programmazione. Gli strumenti della programmazione sono individuati nei seguenti: a. Documento di economia e finanza (DEF), che il governo deve presentare alle camere entro il 10 aprile di ogni anno. Si compone di tre sezioni: a.a. Lo schema del programma di stabilità, richiesto dall’UE a.b.Previsioni tendenziali, a legislazione vigente ed a politiche invariate, delle grandezze di finanza pubblica a.c. Programma nazionale di riforma, richiesto dall’UE. b. Nota di aggiornamento del DEF, da presentare alle camere ogni anno entro il 20 settembre. È necessario per adeguare la manovra finanziaria all’eventuale diverso andamento delle grandezze macroeconomiche rispetto alle previsioni fatte, ma anche per recepire le raccomandazioni approvate dal Consiglio dell’UE (sia il programma di stabilità che il programma nazionale di riforma sono presentati all’UE entro il 30 aprile, affinché deliberi apposite raccomandazioni al riguardo; si tratta del semestre europeo). c. Legge di stabilità, la cui proposta è presentata dal governo alle camere entro il 15 ottobre di ogni anno e che svolge una funzione analoga a quella della legge finanziaria. d. Legge di bilancio annuale, la cui proposta è presentata dal governo alle camere entro il 15 ottobre; contiene il bilancio annuale di previsione ed è formata ai sensi dell’art. 81, sulla base della legislazione vigente, tenuto conto dei parametri indicati nella decisione di finanza pubblica. La legge di bilancio è redatta sia in termini di competenza che di cassa. Il bilancio di previsione, oggetto di un unico disegno di legge governativo, è costituto dallo stato di previsione dell’entrata, dagli stati di previsione delle spese distinti per Ministeri, con allegate le appendici dei bilanci delle amministrazioni autonome, e dal quadro generale riassuntivo con riferimento al triennio. Il bilancio dello stato deve essere redatto secondo alcuni criteri: a.d. Integrità: tutte le entrate devono essere iscritte in bilancio al lordo delle spese di riscossione e di altre eventuali spese ad essa concesse a.e. Universalità: è vietato gestire fondi al di fuori del bilancio a.f. Unità: tutte le entrate finanziano tutte le spese, per cui la realizzazione di certe spese non può essere subordinata alla avvenuta realizzazione di determinate entrate. Qualora non si riesca a rispettare il termine del 31 dicembre per l’approvazione della legge di bilancio, le camere possono autorizzare il governo all’esercizio provvisorio, ma solo per un periodo di tempo non superiore a 4 mesi; durante l’esercizio provvisorio, la gestione del bilancio è consentita per tanti dodicesimi della spesa prevista da ciascun stanziamento quanti sono i mesi dell’esercizio provvisorio. Vi è anche il bilancio pluriennale di previsione, elaborato dal ministro dell’economia e delle finanze in coerenza con il DEF, che copre un periodo di tre anni ed è aggiornato annualmente. e. Legge di assestamento delle previsioni di bilancio , la cui proposta è presentata dal governo alle camere entro il 30 giugno f. Eventuali leggi collegate alla manovra di finanza pubblica, le cui proposte sono presentate entro il mese di gennaio g. Specifici strumenti di programmazione delle altre amministrazioni pubbliche diverse dallo stato h. Rendiconto generale dell’esercizio scaduto il 31 dicembre dell’anno precedente, presentato dal Ministro dell’economia e delle finanze entro il mese di giugno. Tali regole sono state profondamente cambiate in conseguenza alla legge costituzionale 1/2012; la modifica della disciplina costituzionale originaria è stata determinata da alcune disposizioni del Trattato di Lisbona, nonché da una serie di accordi conclusi in sede di UE, i quali dettano apposite regole per il patto di stabilità e di crescita e impongono il rispetto dell’equilibrio di bilancio (Fiscal Compact 2012). Tali accordi puntano a garantire l’equilibri tra entrate e spese nei bilanci pubblici, contenendo l’indebitamento e prevedendo appositi impegni per la progressiva riduzione del debito pubblico. L’obbligo è accompagnato da elementi di flessibilità: nell’assicurare l’equilibrio tra spese e entrate, si tiene conto dell’andamento sfavorevole o favorevole del ciclo economico. Può essere anche consentito il ricorso all’indebitamento, ma questo può avvenire solo se autorizzato dal Parlamento con una legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. Si stabilisce che le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’UE, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. È stata prevista un’apposita legge da approvare con voto a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, con cui regolare in modo più circostanziato la materia. La legge previsa che cosa debba intendersi per equilibrio di bilancio, prevedendo che esso possa dirsi raggiunto quando il saldo strutturale non si discosta dagli obiettivi di medio termine in termini tali da essere considerato uno scostamento significativo. La legge prevede la suddivisione del bilancio in due sezioni: • Nella prima sono contenute le modifiche sostanziali alle leggi vigenti di entrata e spesa • Nella seconda sono contenuti gli stati di previsione di spesa distinti per singoli Ministeri. La legge provvede ad istituire l’Ufficio parlamentare per il bilancio: composto da tre membri e dal presidente, nominati d’intesa dai due Presidenti delle camere. Compito dell’ufficio è quello di vigilare sull’andamento della finanza pubblica e sul rispetto delle regole riguardanti la manovra di bilancio. La natura di atto di esercizio della funzione parlamentare di indirizzo e controllo nei confronti del governo si riscontra anche nella legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Secondo l’art. 80 spetta al Parlamento autorizzare, con legge, la ratifica di quei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazione di legge. Non vi possono essere dubbi circa la natura non di atto di mero controllo, ma di atto di partecipazione alla definizione del contenuto ce l’intervento parlamentare assume in questo caso, come in quello analogo della legge di bilancio. Una partecipazione che consiste nella possibilità di far valere gli indirizzi maturati all’interno delle Camere e che può tradursi nella imposizione al governo di includere alcune clausola di riserva del testo del trattato o, nei casi di più grave contrasto, nel diniego dell’autorizzazione alla ratifica. La funzione di revisione costituzionale La rigidità di una Costituzione è garantita dalla predisposizione di organi e procedure di controllo circa la conformità ai principi costituzionali delle fonti normative su-costituzionali, nonché della previsione di procedimenti speciali attraverso i quali apportare al dettato costituzionale le modifiche che il passare del tempo e il mutare delle condizioni sociali e politiche possono rendere necessarie. La costituzione repubblicana attribuisce al parlamento tale funzione di revisione costituzionale (art. 138). Si approvano con tale procedimento le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali. Il procedimento consiste in due fasi: • Fase necessaria: si svolge in sede parlamentare, l’art. 138 impone una doppia deliberazione da parte di ciascuna camera a distanza non minore di tre mesi. Nella seconda deliberazione è richiesta la maggioranza assoluta. Ove la maggioranza ottenuta sia ancora più elevata e raggiunga i 2/3 dei componenti di ciascuna camera, il procedimento si arresta a questa fase e la legge costituzionale o di revisione costituzionale viene trasmessa al PdR per la promulgazione. • Fase eventuale: vede il coinvolgimento del corpo elettorale, infatti se non viene raggiunta la maggioranza dei 2/3 nella seconda votazione (ma solo quella assoluta), il testo legislativo può essere sottoposto a referendum qualora ne facciano richiesta 1/5 dei membri di una camera, 500.000 elettori o 5 consigli regionali. Tale richiesta deve essere presentata entro 3 mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, a fini notiziali, del testo legislativo votato dal parlamento. Tale referendum ha natura sospensiva-confermativa. L’art. 138 non accenna ad alcun limite espresso all’esercizio del potere di revisione costituzionale; solo l’art. 139 stabilisce che non può essere modificata, nemmeno attraverso il ricorso allo speciale procedimento di revisione costituzionale, la forma repubblicana dello stato. La dottrina prevalente ritiene che accanto a questo unico limite espresso vi siano altri impliciti rappresentati dai principi costituzionali che caratterizzano il nostro ordinamento. La funzione di indirizzo e controllo sul Governo e sulla Pubblica Amministrazione Gli istituti che rappresentano la funzione di indirizzo e controllo sono: 1. Mozione di fiducia: l’art. 94 stabilisce che il Governo, una volta nominato dal PdR, deve presentarsi in Parlamento per ottenere da ciascuna camera la fiducia, la quale viene concessa mediante votazione per appello nominale di una mozione motivata. Tale votazione avviene sulla base della esposizione da parte del Presidente del consiglio dei Ministri delle linee del programma di governo. 2. Interrogazioni e interpellanze: tra gli strumenti diretti a consentire al parlamento puntuali verifiche circa l’atteggiamento del Governo in ordine a specifici problemi vi sono questi due. Le interrogazioni chiamano in causa il Governo per avere notizie circa un fatto determinato e circa la posizione che esso intende assumere al riguardo. Le interrogazioni devono essere poste per iscritto e possono avere risposta scritta o orale: alla risposta da parte del Ministro o del Presidente del consiglio segue una replica dell’interessato. L’interpellanza ha una finalità più complessa e una struttura più articolata, essendo diretta ad acquisire informazioni sulle ragioni che hanno indotto il Governo ad assumere determinate posizioni in ordine a problemi di carattere generale o sull’atteggiamento che esso ha in animo di assumere (e non su singoli fatti). Le interpellanze vengono presentate in forma scritta ma devono essere discusse in assemblea. 3. Inchieste , hanno il fine di acquisire elementi conoscitivi in ordine all’attività del Governo e quello di accentramento di specifiche responsabilità di natura politica. Secondo l’art. 82, ciascuna Camera ha il potere di dar vita ad una apposita commissione di inchiesta, su materie di pubblico interesse, con una deliberazione per la quale non è richiesta maggioranza qualificata. La commissione di inchiesta deve rispecchiare proporzionalmente i gruppi politici presenti in assemblea; essa svolge il suo compito con gli stessi poteri e gli stessi limiti dell’autorità giudiziaria. 4. Mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. La mozione rappresenta il mezzo mediante il quale provocare una discussione ed un voto dell’assemblea su uno specifico problema. Essa contiene nella parte finale una sorta di dispositivo in cui si invita il Governo ad assumere un determinato comportamento in ordine al problema oggetto di discussione; una volta approvata, la mozione vincola politicamente l’operato del governo il quale, ove ritenga il contenuto della mozione presentata fortemente contrario ai propri indirizzi, può porre sulla medesima la questione di fiducia. Il rispetto del vincolo politico derivante dall’approvazione di una mozione è garantito dal controllo esercitato dalle commissioni competenti per materia sul successivo operato del Governo. La risoluzione è uno strumento utilizzabile anche dal singolo membro del parlamento, là dove invece la all’esame delle Camere; è il Presidente del Consiglio che assume questa iniziativa, con l’assenso del Consiglio dei ministri. Allorché il governo pone la fiducia, si procede al voto per appello nominale direttamente sul testo ritenuto essenziale dal governo, con la decadenza di tutti gli emendamenti presentati, ed in tal modo la maggioranza parlamentare viene richiamata a confermare la fiducia e viene ridotta la possibilità, per le opposizioni parlamentari, di attivare tecniche ostruzionistiche. Delle numerosissime crisi di governo che si sono succedute dall’entrata in vigore della Costituzione, solo due sono state originate dalla reiezione di questioni di fiducia (nel 1999 e nel 2008); normalmente le crisi sono state originate dalle dimissioni spontanee, dovute a situazioni di crisi politica manifestatasi all’interno della coalizione di maggioranza. Da ciò la diffusa polemica a proposito delle crisi extraparlamentari, che estranierebbero il Parlamento dal decisivo potere di giudizio sulla permanenza del rapporto fiduciario nei riguardi del Governo ed anche alcune opinioni dottrinali relative ad una pretesa illegittimità costituzionale di una simile prassi. Alle crisi determinate da deliberazioni del Consiglio dei ministri, si aggiungono quelle determinate dalle dimissioni (o per la morte) del Presidente del consiglio: tale conseguenza deriva dal ruolo del tutto determinante svolto dal Presidente del consiglio nella formazione del Governo, con l’accettazione di presiederlo e con la designazione dei suoi componenti. Riguardo ai poteri dei Governi dimissionari (che tali rimarranno fino al decreto presidenziale di accettazione delle dimissioni, contemporaneo alla nomina del nuovo Governo e controfirmato dal nuovo Presidente del consiglio, appare evidente l’opportunità che essi vengano limitati solo al disbrigo degli affari correnti. Unico sicuro (e modesto) limite giuridico all’attività del Governo dimissionario sembra essere l’impossibilità di richiedere la registrazione con riserva di un decreto governativo alla Corte dei conti, mentre in generale occorre far riferimento fondamentalmente ai criteri di opportunità o di improrogabile necessità per valutare l’ammissibilità delle attività di un Governo dimissionario. Le dimissioni di un ministro non provocano crisi del Governo dal punto di vista giuridico e obbligano semplicemente a colmare il vuoto prodottosi, attraverso la nomina di un nuovo ministro o l’attribuzione dell’interim ad uno dei ministri già in carica. A ciò si procede con decreto presidenziale, su proposta del presidente del consiglio. Nel medesimo modo si opera anche per i rimpasti, consistenti nel mutamento di più incarichi ministeriali all’interno del governo in carica. L’art. 95 parla di responsabilità collegiale dei singoli ministri all’interno del governo ed anche individuale per gli atti dei loro Ministeri. La Costituzione non prevede particolari requisiti soggettivi per poter essere nominati membri del Governo, né che essi debbano essere parlamentari; può ritenersi che sia indispensabile la cittadinanza, la capacità di agire e la condizione di alfabetismo. Negli anni più recenti si è evidenziata la carenza di istituti idonei a precludere l’assunzione di responsabilità di governo a soggetti che siano in una situazione di oggettiva incompatibilità per conflitto di interessi; la legge 215/2004 intitolata Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interesse contiene un ampio ed analitico elenco di incompatibilità temporanee per questi soggetti rispetto a cariche, uffici, attività professionali o di lavoro sia nel settore pubblico che privato. A vigilare su queste disposizioni è chiamata l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che può imporre il venir meno delle posizioni professionali o di lavoro incompatibili con le cariche di governo. Il Presidente del Consiglio Il Presidente del Consiglio è indicato dall’art. 95 come organo che dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile e che mantiene l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Anche se è pacifico che non sussiste un rapporto gerarchico tra Presidente del Consiglio e singoli ministri (ciò che viene spesso espresso con la formula che il presidente è un primus inter pares), non di meno vi sono alcuni importanti strumenti giuridici mediante i quali il presidente del consiglio può concretamente esercitare il suo primato politico sugli altri membri del governo: • Spetta al Presidente, e non ai singoli ministri, il potere di manifestare autonomamente verso l’esterno gli indirizzi politici generali del Governo • Spetta al Presidente approvare e autorizzare la diffusione del comunicato sui lavori del Consiglio dei ministri, mentre i singoli ministri non potrebbero neppure render nota la loro eventuale opinione dissenziente. • Il presidente è l’organo competente ad assumere una serie di determinazioni impegnative per l’intero governo (es. pone la questione di fiducia, controfirma le leggi e gli atti con forza di legge, mantiene i contatti con il PdR). • Egli dispone personalmente del potere di fissazione della data delle riunioni del Consiglio e di determinazione del relativo ordine del giorno, seppure sulla base delle proposte dei Ministri. • Egli presiede e dirige il Consiglio del Gabinetto; può istituire speciali Comitati di ministri con funzione istruttorie. • Ha il potere di rivolgere ai ministri le direttive politiche ed amministrative in attuazione delle deliberazioni del consiglio dei ministri, ma anche quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del Governo, quello di sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti in ordina a questioni politiche e amministrative, sottoponendoli al consiglio dei ministri nella riunione immediatamente successiva. • Ha esclusiva responsabilità in tema di servizi segreti e di tutela del segreto di stato. Presiede il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica e tiene i rapporti con l’apposita commissione bicamerale. Il Consiglio dei Ministri Il Consiglio dei ministri, organo collegiale composto da tutti i ministri e presieduto dal Presidente del Consiglio, è titolare delle fondamentali funzioni governative: gli spettano tutte le funzioni che la Costituzione e le leggi costituzionali attribuiscono generalmente al governo ed è indicato dalla legge come organo che determina la politica generale del governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa. Le principali attribuzioni sono: a. In tema di indirizzo politico: il Consiglio delibera sulle dichiarazioni di indirizzo politico e di impegno programmatico b. In tema di attività normativa: delibera i disegni di legge, adotta i decreti legislativi e i decreti legge, nonché i regolamenti governativi c. In tema di politica internazionale e comunitaria: determina le linee di indirizzo e delibera i progetti dei trattati e degli accordi internazionali, comunque denominati, di natura politica o militare. d. Conferisce i massimi incarichi dirigenziali nell’amministrazione statale e nelle agenzie, enti, istituti ed aziende di carattere nazionale e. In relazione alle Regioni: può impugnare le leggi regionali, delibera lo scioglimento dei Consigli regionali o la rimozione dei Presidenti delle Giunte f. In relazione alle confessioni religiose: delibera gli atti concernenti i rapporti con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose g. In relazione ai rapporti con gli organi ausiliari del governo: può deliberare che il ministro possa disattendere il parere del Consiglio di stato e può chiedere la registrazione di un decreto a cui la Corte dei conti l’abbia negata h. In relazione alla tutela dei principi di costituzionalità e legalità: delibera di sollevare o di resistere a conflitti di attribuzione fra poteri dello stato o fra stato e regioni, procede all’annullamento straordinario a tutela dell’unità dell’ordinamento degli atti amministrativi illegittimi degli enti locali i. Delibera, su proposta del Presidente del consiglio, la nomina di uno o più vice-presidenti e dei Commissari straordinari del governo; deve essere sentito per la delega di funzioni ai ministri senza portafoglio, la nomina dei sottosegretari e l’attribuzione di speciali incarichi ad un ministro. I Ministri I ministri sono contemporaneamente componenti del Consiglio dei ministri e organi di vertice degli apparati amministrativi, cui la legge ripartisce organicamente la pubblica amministrazione statale, denominandoli Ministeri (o Dicasteri); i Ministeri sono in numero finito, attualmente 13. Il numero dei Ministri potrebbe essere anche inferiore a quello dei Ministeri previsti dalla legge: un ministro mediante gli interim può essere preposto a più Ministeri e lo stesso Presidente del consiglio può avere anche la responsabilità di uno o più ministeri. Il Presidente del consiglio ha il potere di conferire ad un ministro incarichi speciali di governo per un tempo determinato. Accanto a questi ministri, esistono i Ministri senza portafoglio, cioè non preposti a Ministeri (non gestiscono alcun stato di previsione, in cui il bilancio è articolato, per la parte relativa alle uscite). La loro nomina è facoltativa e svolgono le funzioni loro delegate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio dei Ministri, con provvedimento da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale, nonché gli eventuali compiti specifici loro attribuiti da singole leggi. La carica di ministri come vice-presidenti del Consiglio è nata essenzialmente per valorizzare il ruolo politico particolare di uno o più esponenti della maggioranza governativa, dipende attualmente dalla volontà del presidente del consiglio che può proporre al Consiglio dei ministri la nomina di uno o più vice-presidenti; carica dal rilievo essenzialmente politico, dal momento che non ne deriva alcune differenziazione sul piano delle funzioni rispetto agli altri ministri, salva la possibilità di essere chiamati a supplire il Presidente del consiglio in caso di assenza o impedimento temporaneo. Il Consiglio di Gabinetto e i Comitati fra i Ministri Dal 1983 si è sperimentata la creazione informale del Consiglio di Gabinetto, la cui funzione era solo quella di coadiuvare il Presidente nella fase di istruttoria delle questioni da sottoporre poi alle decisioni del Consiglio dei Ministri, quindi nello svolgimento delle funzioni di direzione della politica generale del governo e di mantenimento dell’unità di indirizzo politico e amministrativo. Per l’esercizio di vere e proprie puntuali funzioni istruttorie o di stimolo nei riguardi del Governo, il Presidente del consiglio può disporre, con proprio decreto, l’istituzione di particolari Comitati di ministri con il compito di esaminare in via preliminare questioni di comune competenza, di esprimere parere su direttive dell’attività del Governo e su problemi di rilevante importanza da sottoporre al Consiglio dei ministri. I Comitati interministeriali sono organi creati tramite apposite leggi che attribuiscono loro rilevanti funzioni di governo in specifici ma importanti settori. In genere sono presieduti dal Presidente del Consiglio, sono composti dai Ministri competenti per il settore cui si aggiungono funzionari ed esperti e svolgono attività di indirizzo, ma anche attività normativa e provvedimentale. Da segnalare tra i più recenti comitati interministeriali quello per gli affari comunitari europei (CIACE), quello per la revisione della spesa, quello per la prevenzione e il controllo della corruzione e dell’illegalità nella PA. Le norme speciali in tema di reati ministeriali La legge costituzionale 1/1989, che ha approvato anche un nuovo testo dell’art. 96, afferma che sui reati commessi dal Presidente del consiglio e dai ministri (anche non più in carica), nell’esercizio delle loro funzioni, giudica la magistratura ordinaria, previa semplice autorizzazione da parte della Camera a cui l’inquisito appartiene o del Senato se sono coinvolti appartenenti a Camere diverse o non parlamentari. Le stesse camere devono anche autorizzare le necessarie misure limitative della libertà personale, intercettazioni telefoniche, sequestri o violazioni della segretezza della corrispondenza, perquisizioni personali o domiciliari nei confronti dei soggetti inquisiti, salvo che siano colti nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. I reati ministeriali, cioè reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali, consistono in reati comuni commessi dal Presidente del Consiglio o da un ministro, utilizzando i loro poteri o comunque nell’ambito delle funzioni ministeriali. Al di là di questo confine, il membro del governo che commetta reati ne risponde al pari di ogni altro cittadino. La competenza a richiedere l’autorizzazione a procedere è stata attribuita ad uno speciale collegio giudiziario istituito presso il Tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello competente per il
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