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La riproduzione umana e la tecnoscienza: un'analisi storica e critica, Sbobinature di Diritto

La storia della riproduzione umana attraverso la tecnoscienza, analizzando come l'utero e il corpo delle donne sono stati percepiti e controllati nel corso dei secoli. Della riproduzione umana come strumento di governo della popolazione e della sua evoluzione nel corso del neoliberalismo. Vengono inoltre esaminate le nuove tecnologie riproduttive e il loro impatto sulla società, sugli uomini e sulle donne.

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

Caricato il 28/02/2024

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Scarica La riproduzione umana e la tecnoscienza: un'analisi storica e critica e più Sbobinature in PDF di Diritto solo su Docsity! PER FARLA FINITA CON LA FAMIGLIA Introduzione- Riprodurre la vita De Beauvoir: si concentra sull’autodeterminazione femminile, e scrive negli anni 30/40 del 900 il Secondo Sesso in cui afferma che l’autodeterminazione femminile non c’è ancora. E tutt’oggi è ancora così. Le biotecnologie che oggi impieghiamo nella medicina riproduttiva e rigenerativa umana sarebbero state messe a punto negli allevamenti industriali, né che a curare il cancro al seno sarebbero state delle topoline da laboratorio. 1. Queste biotecnologie non sono accessibili a tutte (discriminazione economiche, di classe e di razza); si impone alle eterosessuali la riproduzione ostacolando l’accesso all’aborto, si nega a gay, lesbiche e persone trans di riprodursi quando ne avvertono il desiderio, ad altre latitudini vengono imposte sterilizzazioni forzate oppure viene interdetto l’accesso alla contraccezione. 2. Non è detto che la ri/produzione dell’umano non arrechi danni a terze parti: ad altri generi, razze e specie. Qualcuna si spinge sino a dire che la Grande Accelerazione Umana ha già provocato l’estinzione di troppe forme di vita e continuerà a farlo fino a quando non saremo in grado di decrescere ri/produttivamente, vale a dire di elaborare un sistema ri/produttivo alternativo al biocapitalismo. Sugli animali non umani sono state perfezionate le tecniche di riproduzione assistita: inseminazione, crioconservazione di gameti ed embrioni, superovulazione ed embryo transfer, clonazione. Queste tecniche sono state sperimentate su femmine appartenenti a specie animali mammifere (bovini e ovini in particolare) allo scopo di aumentarne produttività e redditività. In questo quadro la tecnoscienza funziona come insieme di dispositivi di cura e autoterapia antropocentrati, ossia orientati a quella morale che dall’umanesimo arriva fino al neoliberalismo, che considera la riproduzione umana sommo bene/imperativo morale ed economico a cui piegare le altre forme di vita, persino la vita stessa sulla Terra per come l’abbiamo conosciuta. L’invito di Haraway a “generare parentele non popolazioni!”: che diminuisca l’umano, la sua pretesa di riproduzione a scapito di sessi e specie seconde, le sue arroganti esigenze. Capitolo primo - La cosa medica per eccellenza Figurazione 1: Trotula Trotula fu insignita del titolo di medico nell’XI sec. Si dice sia stata la prima donna a essere ammessa a una scuola di medicina, la Scuola Medica di Salerno, e la prima a essere sparita dalla storia della medicina stessa. Levatrice? Ginecologa? Erborista? Autrice del “Sulle malattie delle donne prima, durante e dopo il parto”, ci ricorda che l’utero è sempre stato lì, tra la vagina e le tube di Falloppio, e che non è sempre stato “la cosa medica per eccellenza”. Il corpo delle donne nel Medioevo non era il corpo della medicina, benché controllato dalle tecnologie del potere pastorale (cristiano). Gli uomini non erano soliti varcare la soglia della stanza della puerpera: il corpo delle donne era il corpo delle donne. C’è stato un prima del capitale, un prima della medicina occidentale. un tempo da non mitizzare, ma da riconoscere come particolare momento storico in cui saperi e pratiche legate alla riproduzione erano concentrati nelle mani delle donne. La stessa dequalificazione del corpo e dei suoi piaceri sostenuta con ardore dal cattolicesimo aveva permesso a quest’autonomia di svilupparsi. I medici avrebbero fatto meglio a ignorare il corpo fonte di ogni peccato. Ma Trotula era una medica. Lei poteva spiegare alle altre donne che per gestire al meglio il potere nelle loro mani avrebbero prima di tutto dovuto lavarsele. Trotula poteva istruirle su come evitare gravidanze indesiderate, su come arrivare preparate al parto. Quando la chiamavano per un aborto, reagiva come quando la interpellavano per un parto difficile: preparava la sua sacca e si metteva in cammino. Non risalgono al Medioevo le prime leggi che vietano il ricorso all’aborto, ma dal Medioevo in poi l’aborto diviene oggetto di interesse della religione cristiana che, soprattutto in Occidente, lo condanna in modo netto. Tuttavia, la religione cristiana doveva fare i conti con la cultura greco-latina disposta ad accordare sovranità decisionale alla donna: “Il diritto romano […] non considerava il nasciturus come essere umano ma come parte del corpo materno. […] Nell’insieme della società greco-romana, l’aborto è ammesso dalla legge” La religione cristiana ha introdotto l’idea che l’aborto fosse un omicidio, conseguenza della dottrina che vede nell’embrione una persona, ma ha dovuto attendere il dispiegarsi dell’arte governamentale occidentale della tarda modernità per vedere diventare l’aborto reato (e Trotula una criminale). Prima del biopotere ci sono stati i roghi. L’Illuminismo brillava di luce riflessa, la luce prodotta dai corpi arsi delle streghe, delle eretiche, che altro non erano che guaritrici, erboriste, esperte conoscitrici dei propri corpi: le mille Trotula della storia vissute tra il XV e il XVII sec. non sono diventate mediche. A condannarle erano i tribunali ecclesiastici. Solo dopo l’epoca dei “lumi” il biopotere diventa strategia di governo della popolazione e lo Stato assorbe in sé funzioni e dispositivi pastorali prima propri della Chiesa: In questo quadro si comprende come, dal Codice napoleonico al Codice Rocco, il corpo delle donne diventi la “cosa statale e medica per eccellenza”, perché è stata la “doppia sollecitudine medico-giudiziaria” le donne vengono ridotte alle funzioni riproduttive del sesso che viene loro assegnato alla nascita. I ginecologi hanno cominciato a scavare nel nostro ventre. Su quali corpi hanno operato e come? Per comprendere in che modo la politica della vita faccia vivere alcune persone e morire altre ricorriamo a un esempio. Il ginecologo Sims nelle sue memorie spiega che prima di dichiarare guarita la schiava Anarcha, l’aveva sottoposta a trentaquattro interventi senza anestesia. Il divieto di aborto si inscrive in un quadro di crescente medicalizzazione dei corpi. Il Codice Rocco, Codice penale fascista, lo conferma: il divieto di aborto è emblematicamente inquadrato nel decimo Titolo, che recita Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe (Artt. 545-555). L’aborto non era un problema morale, ma politico-economico. A leggere l’art. 546 (Aborto di donna consenziente) ci appare chiaro l’impianto patriarcale: si punisce con cinque anni di reclusione la donna e chi la ha aiutata ad abortire, ma non l’uomo che l’ha messa incinta. Fino al 1978 il Titolo X del codice fascista ha condannato le donne alla clandestinità, a incertezze e rischi di vita e salute. Convissuto radicato 1: La storia del nostro aborto. Non tutte le donne che vivevano in Italia prima dell’abrogazione del Titolo X del codice fascista avevano la possibilità di abortire a Londra. Grazie a reti e consultori autogestiti femministi non si è dovuta affidare ai ferri da maglia. La verità però è che fino alla fine degli anni Settanta – l’aborto è stato depenalizzato nel 1978 – le strade per abortire clandestinamente si dipanavano a partire dalle condizioni di vita delle donne, soprattutto dal loro livello di reddito e istruzione. Chi ne aveva facoltà poteva recarsi all’estero, tuttavia molte delle nostre madri/zie/nonne/parenti/amiche si affidavano ai ginecologi che praticavano l’aborto illegalmente chiedendo in cambio esose somme di denaro: “i cucchiai d’oro”. La maggioranza degli aborti era eseguita con decotti di prezzemolo e chinino o ferri da calza. Queste le principali strade fino agli inizi degli anni Settanta, quando è tornato il tempo della condivisione, dell’autorganizzazione, dell’autogestione di corpi e salute. I metodi utilizzati non erano quelli di Trotula: il self-help femminista negli anni Settanta ha dalla sua lo speculum. Gruppi quali il Movimento di Liberazione della Donna, in sintonia e collaborazione con i consultori autogestititi come il CISA (Centro Informazioni Sterilizzazione e Aborto) e l’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica), offrivano alle donne informazioni sulla contraccezione e praticavano aborti, illegali ma sicuri. La loro era una forma di disobbedienza civile, sapevano che sarebbero incappate nelle sanzioni statali, provocavano l’intervento delle forze dell’ordine al fine di evidenziare il cinismo della norma. C’è stato un uso liberatorio e sovversivo delle tecniche mediche, come altre forme di lotta politica. Non tutte le femministe chiedevano una legge, volevano che venisse abrogata la legge che vietava l’aborto. Senza una legge che vieta qualcosa, allora quella cosa si può fare, senza condizioni. Per questo chiesero di fare un Referendum e vennero depositate 750.000 firme per il referendum abrogativo degli articoli del codice di cui al Titolo X. Il 18 dicembre 1975 la Corte costituzionale dichiarò ammissibile il referendum, ma il primo maggio 1976 il presidente Leone sciolse le camere. Il messaggio era chiaro: la legge sull’aborto non può essere “scritta dal basso”. Tanto era il timore che passassero le istanze di femministe e radicali, che erano preferibili le elezioni anticipate. La Legge 194 del 1978 è stata varata da un governo della DC, con presidente del consiglio Andreotti, nel famigerato periodo politico del compromesso storico per attenuare l’impatto delle rivendicazioni femministe. La storia del nostro aborto è la storia di un compromesso marchiato sui nostri corpi. La 194 non è purtroppo stata scritta dalle femministe. Gigliola Pierobon, nel 1969, stava testimoniando a un processo quando da “testimone diventa accusata” di procurato aborto. Il Pubblico Ministero di Padova chiese un anno di reclusione senza perdono giudiziale, per ché Gigliola non si pentì mai anzi rivendicò sempre la piena decisionalità sulla sua vita e sul suo corpo. La mobilitazione femminista fu forte abbastanza da influenzare il giudizio del Tribunale di Padova che dichiarò che non si doveva procedere. Non fu però assoluzione, ma “perdono giudiziale”, espressione che denota la volontà di non riconoscere l’autodeterminazione delle donne. Venne perdonata perché nel frattempo era diventata madre e quindi aveva assolto al suo compito. Convissuto radicato 2: Pillola, Pillole… Pillolo! La pillola è un contraccettivo sicuro nella misura in cui sicuro è l’effetto che sortisce: inibire l’ovulazione di modo da evitare la gravidanza. Ciò non significa che nelle sue prime formulazioni la pillola anticoncezionale non comportasse rischi per la salute delle donne o che non ne comporti oggi. Ma quale farmaco non ha controindicazioni? La pillola anticoncezionale continua a permettere a migliaia di eterosessuali di controllare le proprie funzioni riproduttive. Le altre pillole, i contraccettivi d’emergenza noti come pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo, aumentano le possibilità a disposizione delle donne per evitare ogni gravidanza indesiderata. Possibile che non si possa pensare di modificare ormonalmente anche i maschietti? I rischi per la salute connessi alla pianificazione della vita sessuale e riproduttiva sono riservati al solo secondo sesso, almeno a giudicare dal fatto che ancora oggi in commercio non si trova niente di simile a un pillolo. Con tutta evidenza, la storia della nostra autodeterminazione non ha già un lieto fine. Neppure oggi, malgrado le scienze della vita abbiano messo a punto una combinazione di pillole che ci permette di abortire senza ricorrere all’intervento chirurgico, possiamo dirci giunte alla piena auto gestione dei nostri corpi. Perché? on e offline dei femminismi che non smetteremo mai di ri/creare e amare. Il futuro è il nostro desiderio di vivere in mondi in cui la riproduzione e la salute delle persone non umane conti quanto la riproduzione e la salute delle persone umane: è il presente che costruiamo ogni giorno nelle comunità compostiste che occupano spazi urbani e non, che autogestiscono territori materiali e virtuali, nelle collettività di bio-hacker più o meno apprendisti che autorganizzano rifugi per accogliere animali non umani, nei movimenti antispecisti che smontano le gabbie e liberano i mammiferi dalla prigionia degli allevamenti industriali. La cura non esiste solo nelle relazioni tra persone umane: combatteremo lo specismo che domina il presente e se dovremo trasformare la biologia in fantascienza trans/ecofemminista ci troverete pronte. Le biopolitiche pro-vita occidentali sono antropocentriche e suprematiste, misogine e fasciste. Possiamo tenere insieme le lotte per l’autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQI+ con quelle per la sopravvivenza della Terra, occorre solo immaginare altri mondi ri/produttivi. L’impiego delle nuove tecnologie potrebbe essere parte di questo futuro non eteronormato, antispecista e geocentrato. Capitolo Secondo Il Cyborgfare tra fabula speculativa e tecnoscienza femminista Figurazione 3: Le tre madri e il covatoio Firestone, sosteneva che la “riproduzione artificiale non è intrinsecamente disumanizzante” e aggiungeva che essa potrebbe costituire “un’alternativa all’oppressione della famiglia biologica”. Nella sua visione le scienze della vita potrebbero giovare a liberarci dalla “tirannia della biologia”, se accompagnate da cambiamenti socio- culturali ed economici. Il suo approccio tecnofilo ha contribuito allo sviluppo del cyborgfemminismo, corrente dalla potenza immaginifica ineguagliabile che ha preso seriamente in considerazione le conseguenze dell’ectogenesi in senso eco/transfemminista. Non è un caso che tra i romanzi più citati da Haraway figuri sul filo del tempo di Marge Piercy, risorsa per chiunque voglia osare con l’immaginazione, dove si descrive un mondo in cui non spetta più alle “biologicamente assegnate donne” l’onere del condurre e portare a termine una gravidanza. Nel 1976 Piercy immagina che gli embrioni e il materiale genetico vengano conservati in un “covatoio”, un luogo simile a un acquario, e che le gravidanze siano portate a termine da placente artificiali. Nel mondo di Piercy gli uomini, modificati ormonalmente, allattano proprio come le donne e tutti si prendono cura insieme di bambini e anziani. Le madri sono tre ma non sono solo donne: per farla finita con la famiglia nucleare, smagliare la genitorialità e ribaltare i ruoli di genere. Anche tra le bioeticiste femministe c’è chi sostiene che l’ectogenesi potrebbe garantire la redistribuzione del lavoro riproduttivo tra i generi. L’autrice sostiene che l’ectogenesi potrebbe liberarci dagli eccessivi sacrifici economici, sociali e fisici della gravidanza. L’ectogenesi è già tecnicamente fattibile, sono le normative internazionali ad aver bloccato il proseguire delle ricerche. Diversi gruppi di ricerca sono riusciti a far sopravvivere un embrione umano fuori dal corpo materno per tredici giorni e si sono fermati solo per il divieto riconosciuto quasi ovunque a livello mondiale dei 14 giorni. Il risultato più interessante di queste ricerche consisterebbe nella scoperta delle capacità autorganizzative dell’embrione. Una volta messa a punto l’ectogenesi, rimarrebbero comunque gli stessi problemi etico-politico- culturali. Le motivazioni per cui l’ectogenesi ci affascina sono altre da quelle cattoliche: non sarebbero solo le biologicamente assegnate donne a diventare madri, non sarebbe la sola biologia a sancire il legame genitoriale e il lavoro riproduttivo potrebbe essere ripartito in modi inediti. Ciò che ci affascina è ciò che terrorizza neofondametalisti e neoliberisti: che la riproduzione non passi più solo per la famiglia nucleare eterosessuale. E di sicuro non nutriamo i loro stessi timori: noi sappiamo che naturacultura è una sola parola, non ci preoccupa la biobag, ma le leggi di mercati e Stati. Coviamo per lo più il sospetto che la biobag rimanga poco accessibile, ma l’ectogenesi non è l’unica delle nuove tecnologie riproduttive in via di sperimentazione. Per rispondere alla domanda di gameti, la ricerca si sta orientando alle cellule somatiche e alle staminali pluripotenti. Le cellule somatiche possono comportarsi in modi simili alle cellule germinali e completare il processo di meiosi, a partire da loro, si possono ottenere staminali pluripotenti con potenziale di differenziazione. Pensiamo agli scenari che si aprono con la produzione di spermatozoi da corpi di donne. Sì, possiamo farlo, o meglio: lo abbiamo già fatto. Non è ancora stato provato il caso contrario: l’uomo non ha ancora potuto sviluppare da una cellula somatica del suo corpo il gamete femminile, l’oocita, mentre è stato dimostrato che a partire dalla cellula somatica di una donna si possono ottenere spermatozoi. Tiriamo insieme la dirompente conseguenza: possiamo autofecondarci, possiamo generare al contempo gameti maschili e femminili, certo c’è qualche intoppo, dati i limiti etici non abbiamo ancora avviato la fase della fecondazione negli animali umani, ma la scienza specista negli animali non umani ha portato con successo a termine molte sperimentazioni. Ritornello speculativo 1: L’homo sapiens e la materia del suo capitale. La domanda inevitabile la suggerisce Foucault: che tipo di scienze e poteri hanno portato la Terra sull’orlo della crisi ecologica e noi precari della ricerca sull’orlo della crisi economico-esistenziale? Ma procediamo con ordine. Cosa intendo quando dico “la scienza”? Non intendo tutto lo scibile in circolazione sul pianeta, che per fortuna è un luogo pullulante di forme di conoscenza e vita a noi sconosciute. Quando dico “scienza” mi colloco in un preciso periodo storico e geopolitico: la scienza è “un risultato dell’Occidente”. Intorno alla metà del XVIII sec. la tassonomia comincia a delinearsi come biologia proprio in Occidente, in Nord Europa. L’homo sapiens è l’homo oeconomicus: è il cittadino bianco nord-europeo, colto e istruito, neurotipico. Le altre razze non sono descritte come realmente capaci di usare la ragione. La biologia ai suoi albori è razzismo, cruciale per lo Stato-nazione occidentale che intende riprodursi su base fenotipica. I soli sapiens a essere definiti “ingegnosi” sono gli europei, anche gli unici capaci di dotarsi di governi e leggi. Ora è più chiaro il senso del ritornello: La biologia non è “verità della natura”, ma prodotto storicamente definito meglio comprensibile come cultura. Certo siamo andati oltre la divisione in tre regni di Linneo (vegetale, animale e minerale), dibattiamo sulla possibilità di superare il modello dei cinque regni per arrivare a otto, per includervi i virus, gli archea e altre forme di estremofili che andiamo via via scoprendo. Purtroppo, pare però che di Linneo abbiamo mantenuto la postura. L’homo sapiens ha cominciato a chiedersi troppo tardi quali conseguenze determinasse sull’alterità la sua principale qualità messa in pratica: la ragione che diventa tecnoscienza. La scienza illuminista è stata funzionale al colonialismo, quanto oggi le tecnoscienze della vita sono funzionali al capitalismo avanzato. L’homo sapiens si è dotato di diritto alla vita, alla proprietà, alla libertà, proprio mentre inventava per sé stesso una scienza, la biologia, capace di descriverlo come naturalmente unico titolare di quei diritti. L’homo sapiens è nato perché sono morti altri umani, non bianchi e non occidentali, perché interi ecosistemi sono stati adattati ai suoi fabbisogni. La qualità che fa dell’uomo un animale superiore a tutti gli altri è propria solo del maschio, la qualità che ci accomuna ad altri animali è al contrario propria solo delle femmine. Mammalia, i mammiferi, la classe del regno animale in cui Linneo colloca l’homo sapiens, prende il nome dalle ghiandole mammarie anche se “tale preferenza non sembra necessariamente fondata su ragioni scientifiche”, perché le ghiandole mammarie diventano funzionali solo per le femmine e neppure per tutta la vita, ma solo durante l’allattamento. “Linneo avrebbe di certo potuto scegliere un termine più neutro rispetto al genere, come ad esempio Aurecaviga (dalle orecchie cave)”. E invece eccoci qui, non sappiamo se siamo mai state umane, ma sappiamo che siamo femmine appartenenti alla classe dei mammiferi. A noi si chiede la riproduzione delle specie, la gestazione, il parto, l’allattamento, la presa in carico della vita, la cura che ci vuole per la sua costante rigenerazione. Non stupisca che in molte siano poco allettate dall’idea di allattare un sapiens. La storia della schiava Saartjie Baartman ci aiuta a capire questa doppia forma di biovalore: agli inizi dell’Ottocento è schiava-cameriera del medico Dunlop, poi finisce esposta allo sguardo degli scienziati del tempo, incuriositi dalle misure fuori norma del suo corpo. Costretta a vivere per lo più nuda, mostruosa cioè messa in mostra come alterità inappropriata, Baartman muore intorno ai venticinque anni, per una polmonite (una tra le malattie che Dolly è stata obbligata a curare). Alla sua morte, lo scienziato/barone Cuvier ne ricalcò nel gesso il corpo e ne conservò sotto spirito vulva e cervello, esposti fino al 1985 al Musée de l’Homme di Parigi. Non mi pare casuale che il nome di questo museo sia Museo dell’Uomo, il genitivo rimanda al diritto di proprietà dell’uomo sugli oggetti in mostra. La pecora clonata Dolly non è poi andata incontro a un destino tanto diverso. Non nata ma comunque venuta al mondo più di un secolo dopo Baartman. Dolly è morta di una malattia banale e molto familiare: reumatismi. Dopodiché, per aggiungere insulto all’ingiuria, essa ha subito un ultimo attacco alla sua dignità, la tassidermia, ed è stata imbalsamata ed esposta come rarità scientifica in un museo. Per Baartman e Dolly, sorelle mammifere e modeste testimoni di tutto il lavoro di cura che ci vuole per riprodurre e rigenerare l’homo, ripetiamolo: la materia del capitale dei sapiens è transpecie. Figurazione 4: Rosita la balia. Ma la storia della riproduzione umana non è mai stata contenibile nel recinto nella famiglia eterosessuale borghese; in Occidente il triangolo edipico ha saputo colonizzare le sue rappresentazioni ma la realtà dei fatti è che alla nascita, alla crescita, all’educazione, alla cura di una vita umana sono sempre state fondamentali figure altre dalla madre e dal padre, così come è sempre stato vero che genitori non si diventa per soli vincoli biologici. L’antropocentrismo esiste e si serve da tempo della divisione sessualizzata e razzializzata del lavoro. Alcune donne (non ricche, non bianche) e molti mammiferi possono essere sacrificati per la riproduzione e la rigenerazione della specie sapiens. Ora, con l’arrivo di Rosita, si prova a esternalizzare al minor costo possibile una delle fasi principali della riproduzione biologica: l’allattamento dei neonati. Rosita è la mucca/balia clonata nel 2011 per produrre latte contente proteine umane destinato all’alimentazione di infanti sapiens. Gli scienziati argentini hanno inserito nel DNA della mucca i geni che producono lattoferrina, proteina che rinforza il sistema immunitario, e lisozima, sostanza antibatterica. L’obiettivo è di aumentare il valore nutrizionale del latte di mucca con l’aggiunta di due geni umani con protezioni antibatteriche e antivirali. La “portatrice/gestante” di Rosita per partorirla ha subito un cesario, perché al momento del parto Rosita pesava 45 kg, il doppio di una normale vitellina. Rosita scava a fondo nei nostri sé femministi, perché è evidente che la sua stessa esistenza si spiega con il processo di differimento delle funzioni materne, processo in corso aperto dalle lotte femministe e poi riterritorializzato nella cornice del postfordismo neoliberista. Oggi non è affatto scontato che sia una sola donna a fornire l’oocita, portare a termine la gravidanza, allattare, educare, in sintesi a riprodurre l’umano. E di questo non possiamo che gioire, se abbiamo a cuore l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva. Tuttavia, non è altrettanto scontato assumere criticamente la risposta che offrono lobby biotech e governi neoliberisti. Perché non investire nella diffusione delle terapie ormonali per far allattare i sapiens? Rosita è il clone-pilota dell’esternalizzazione transpecie: spostare la riproduzione dove costa di meno, ma anche dove solleva meno controversie di genere, fuori dall’ambito dell’umano. Inoltre, Rosita presenta un vantaggio per i sapiens: perché preoccuparsi del suo consenso alla sperimentazione? Le categorie classiche della bioetica – quelle dell’autonomia, del consenso, della libera scelta – valgono solo per alcuni uomini, figuriamoci per l’animale non-umano. Ad esempio, ci sono gli onco-topi che curano i tumori, ma loro muoiono per curare noi. Dov’è l’autodeterminazione di chi non è umano? Figurazione 5: HeLa la guaritrice. Se una casa farmaceutica ottiene un vaccino a partire dalla ricerca su una cellula staminale estratta dal corpo di una donna, può questa godere dei profitti derivanti da tale scoperta scientifica? La normazione in vigore esclude che partecipi ai profitti chi non ha partecipato al processo di creazione in laboratorio e alla sperimentazione scientifica, a essere oggetto di una doppia cattura sono generazione e produzione. In questo quadro conta qualcosa il consenso, la volontà del corpo umano da cui sono prelevati i materiali biologici senza i quali nessuna innovazione potrebbe mai essere prodotta e brevettata? La vita immortale di Henrietta Lacks prova purtroppo che alcuni corpi non contano affatto, che la loro autodeterminazione viene negata. Henrietta Lacks era una afroamericana senza redditi fissi dalla famiglia numerosa, ricoverata all’ospedale John Hopkins nel 1951 per un cancro alla cervice uterina che le causò la morte all’età di 31 anni. Lo scienziato Gey prelevò due campioni di tessuto dalla sua cervice e osservandone le cellule si rese conto che erano inusualmente capaci di riprodursi senza terreno di coltura. Decise perciò di renderle disponibili per il commercio, senza preoccuparsi di chiedere il consenso alla sua famiglia, dal momento che non lo aveva chiesto neppure a Henrietta mentre era in vita (i tessuti erano stati prelevati mentre era ancora in terapia). La famiglia di Henrietta è stata informata dell’esistenza delle cellule HeLa, cellule tumorali immortalizzate, solo nel 1973 e solo perché era necessario per portare avanti le ricerche. Gli scienziati avevano capito che le cellule HeLa avevano innumerevoli potenzialità, ma non riuscivano a contenerne l’effetto collaterale: le HeLa contaminavano le altre colture cellulari, bisognava trovare dei marcatori genetici per distinguerle. Ecco perché occorreva informare dei parenti stretti, perché il loro DNA era fondamentale per il confronto con quello di Henrietta. Ma neppure i parenti hanno mai letto o firmato un consenso informato, è stato loro prelevato del sangue con la promessa, impossibile da mantenere, di esaminare la possibilità che avessero lo stesso cancro della madre. E così, mentre la figlia Deborah aspettava invano i risultati di un’analisi mai compiuta, i medici McKusick e Hsu accumulavano brevetti e pubblicazioni scientifiche. La situazione non è cambiata molto: ancora oggi la famiglia di Henrietta non ha ricevuto compensi. Nel 2013 è stato portato a termine e reso pubblico il sequenziamento del DNA, violando la privacy familiare (il DNA è condiviso). Dopo molti dibattiti si è concluso che due familiari della Lacks possono partecipare alla Commissione scientifica che esamina gli usi delle HeLa, ma non si è mai parlato di redistribuzione dei profitti. Si badi che senza le cellule HeLa non avremmo il vaccino contro la poliomielite, la clonazione, la mappatura del gene, la fecondazione in vitro. Ma negli USA una volta che il materiale biologico viene separato dal corpo, puoi provare una causa legale (se sei ancora viva e te lo puoi permettere), ma intanto la ricerca procede. In Europa si riserva forse una maggiore attenzione al consenso informato, ma non si parla mai di contratti che riconoscono compensi al corpo fornitore dei materiali biologici. I profitti sono tutti per le corporation biotech, poco importa quale sia lo scopo della ricerca. E le cellule HeLa sono davvero state utilizzate per i più svariati scopi, sono state inviate in lungo e in largo sul pianeta Terra e non solo, sono persino state lanciate nello spazio per studiare il comportamento delle cellule a gravità zero: si stima che il numero totale di cellule HeLa propagate nella coltura cellulare superi di gran lunga il numero totale di cellule presenti nel corpo di Henrietta Lacks. Gli scienziati hanno coltivato circa 20 tonnellate di sue cellule e al momento sono state pubblicate oltre 74.000 pubblicazioni scientifiche e oltre 11.000 sono i brevetti depositati a partire dalle cellule HeLa. Ma HeLa non ha solo rigenerato vite umane, è stata ed è una guaritrice mammifera che salva altri mammiferi non umani. Nel bel mezzo della pandemia da polio, agli inizi degli anni Cinquanta, senza le cellule di Henrietta sarebbero state uccise milioni di scimmie. Il sangue necessario alle sperimentazioni proveniva infatti da scimmie uccise di proposito. Le cellule HeLa presentavano notevoli vantaggi: erano reattive al virus, potevano viaggiare per posta e continuavano a sdoppiarsi fino a quando avevano spazio a disposizione. Un’alternativa economica e versatile al costosissimo sangue di scimmia. Fig. 7. H+, logo transumanista. Rosita è più postumana di Primo. Primo non ha superato l’umano, è solo la versione tecnoperfezionata dell’uomo vitruviano, un soggetto chiuso incapace di creare relazioni con l’alterità non basate su bisogni egoistici. Il postumanesimo femminista è caratterizzato da: 1.una lettura spinoziana dei corpi, intesi comcoestensivi alle menti, e della materia, intesa come unica sostanza intelligente e autorganizzata non dialetticamente in conflitto con la cultura né con la mediazione tecnologica; 2.un approccio curioso ma critico alle tecnoscienze, in grado di coglierne le potenzialità senza dimenticare di chiedere a chi è concesso l’accesso e a chi è negato, su quali corpi e come è stato perseguito; 3.la volontà di denunciare come dietro la pretesa universalità dell’homo sapiens si celi il particolare uomo bianco occidentale, accompagnata dalla consapevolezza che la specie umana non è superiore per natura a nessun’altra. Così riassunto, il postumanesimo femminista non sembra distante dal compostismo di Haraway. Quando Haraway scrive che occorre vaccinarsi contro il postumanesimo si riferisce con molta probabilità al transumanesimo e non a quello che Braidotti e altre chiamano postumanesimo femminista, infatti precisa di voler prendere le distanze dall’eccezionalismo umano. Sono giunta alla conclusione che dovremmo leggere nello slogan “generare parentele, non popolazioni!” tutto il suo potenziale, spingendoci fino a piegarlo esplicitamente in senso anticapitalista, antipatriarcale, antinazionalista. La chiamo decrescita ri/ produttiva e spero che una sua condivisione possa dar modo al contempo a Gaia, Chthulu e tutte le altre divinità di organizzarsi per la giustizia multispecie, a noi postumane e cyborg, precarie e di passaggio su questa Terra manomessa, di spezzare le catene del biocontrollo. Capitolo Terzo – per la fine del biocapitale Autodeterminazione e parentele postumane. Convissuto radicato 4: Gambe chiuse, porti aperti! Grazie al razzismo è possibile introdurre una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire: la morte delle razze inferiori è ciò che rende la vita più sana. Le governamentalità biopolitiche occidentali per continuare a esercitarsi si servono dell’attivazione di discorsi e dispositivi razzisti, senza entrare in contraddizione. La governamentalità biopolitica in Occidente non deve per forza uccidere, può anche limitarsi a lasciar morire. Cosa accade quando respingiamo le barche se non questo? E accade da troppo tempo. Ricorderete la nave Pinar nel 2009, ricorderete Esceth, la donna nigeriana morta annegata nel Canale di Sicilia. Esceth era incinta. Ma la sua vita e la vita che desiderava riprodurre non valevano l’intervento del governo maltese né di quello italiano (entrambi covi di antiabortisti). Sono passati dieci anni, dieci anni in cui i governi europei hanno lasciato morire, ancora e ancora. Il 16 agosto 2018 una nave soccorre 190 persone, di cui 37 minori, nelle acque internazionali al largo dell’isola di Malta. Il governo italiano aspettava fosse Malta a intervenire perché l’imbarcazione era nella zona di soccorso maltese. Malta, tuttavia, non ha firmato le convenzioni internazionali e non interviene nei soccorsi di imbarcazioni in difficoltà che avvengono nella sua zona di competenza. Così interviene la guardia costiera italiana, ma il 20 agosto, al momento dell’approdo nel porto di Catania, il comandante Kothmeir riceve l’ordine di non far scendere le/i migranti dalla nave. Per il tribunale dei ministri c’è stata “la precisa volontà del Ministero dell’Interno” di privare della libertà individuale le persone a bordo della Diciotti. Il 19 marzo 2018 la nave Mare Jonio salva quarantanove migranti, di cui dodici bambini, a circa 77 km dalle coste libiche: il gommone imbarca acqua, è a rischio naufragio. La nave decide di prestare soccorso immediato e dirigersi verso la costa nazionale. Il Ministro dell’Interno, però, pretende che la nave non attracchi in nessun porto italiano. La nave approda lo stesso a Lampedusa, il cui sindaco non chiude il porto, le/i migranti sbarcano ma la nave è messa sotto sequestro. Parlando di persone minori su queste barche e rispetto alle persone che ricorrono alla fecondazione assistita preferiamo la tecnofinzione all’affido di minori migranti. Abbiamo bisogno di credere che ci sia un po’ di natura, un po’ della nostra biologia per diventare genitori? Perché altrimenti dovremmo scegliere gameti che veicolano nei loro codici genetici fenotipi a noi simili invece di adottare? O forse non è solo il fenotipo che ci interessa? A interessare è l’aleatoria possibilità, aleatoria come il biocapitalismo finanziario trainato dalle scienze della vita, di mettere al mondo un determinato tipo di individuo, in primis sano e normodotato. A interessare è la possibilità di mettere al mondo figli con peculiarità che li rendano performanti e produttivi. Meglio che l’embrione sia intelligente, colto, brillante, con spiccate capacità che non sono qualità ereditabili. Perché i genitori intenzionali desiderano il figlio sano & colto contro ogni evidenza scientifica? La maggioranza di coloro che impiegano le tecniche di fecondazione assistita sono eterosessuali bianche/i che hanno deciso, pur ricorrendo agli ultimi ritrovati della scienza, di formare la più classica e basilare forma di organizzazione dello Stato-nazione: la famiglia nucleare. Donne nordeuropee o nordamericane medio- abbienti comprano nei mercati della riproduzione del Sud-est del mondo oociti e uteri da donne senza redditi fissi o inoccupate, riproducendo il fenotipo della nazione bianca. In Europa, gli oociti più richiesti sono quelli delle donne dei paesi dell’est, bionde e occhi azzurri nella fascia d’età compresa tra i venti e i trentacinque anni. Sono le donne est-europee a vendere oociti a basso costo e in condizioni poco sicure, sono est-europee anche le tate-colf-badanti che migrano per assolvere al deficit di lavoro di cura e riproduzione determinato dalle scelte “emancipatorie” delle cittadine medio-abbienti dei paesi occidentali. I mercati della riproduzione e della cura seguono le asimmetriche geografie della ricchezza e le strutturali diseguaglianze transnazionali: la riproduzione della whiteness rappresenta il mercato più redditizio. È questo desiderio di bianchezza a determinare la geopolitica della fertilità esternalizzata. Le stesse pazienti italiane desiderano oociti con fenotipo simile al proprio. Ciò è provato dal Documento di indirizzo seguito alla sentenza n. 162/2014 della Consulta, che autorizza la selezione del colore della pelle della donatrice: In considerazione del fatto che la fecondazione eterologa si pone per la coppia come un progetto riproduttivo di genitorialità per mezzo dell’ottenimento di una gravidanza, il centro deve ragionevolmente assicurare la compatibilità delle principali caratteristiche fenotipiche del donatore con quelle della coppia riceventi. E di questa ossessiva ricerca del fenotipo più simile al proprio è prova il fatto che le agenzie di gameti che rispondono alla domanda dei genitori intenzionali lo fanno offrendo la possibilità di scegliere tra numerose opzioni: colore di occhi e capelli, l’elenco è così lungo che è meglio riportare. Mi spingo a dire che le politiche razziste dello Stato-nazione si nutrono di questo tipo di desideri, quando non tentano di indurli esplicitamente. Tuttavia, non ci obbliga nessuno a scegliere di riprodurre biotecnologicamente sempre e solo ciò che ci somiglia, o ciò che ha più valore sul mercato. Ci invitano a farlo o scoraggiano altre scelte genitoriali, ma l’obbligo ancora non c’è. Potremmo sottrarci, potremmo adottare. Difficile con la legge italiana? Quasi impossibile, tanto quanto ricorrere alle tecniche di fecondazione e/o adottare se sei trans, lesbica o single. Perché non affiancare alla lotta per l’accesso alle nuove tecnologie riproduttive anche lotte per la riscrittura di leggi e procedure per affido e adozione? Da ecofemminista e antirazzista desidero un cambiamento etico- politico. Non posso fare a meno di chiedermi quanto potrebbe cambiare il mondo se cambiasse il nostro modo di riprodurlo. Il desiderio di avere figli potrebbe non coincidere con la sua concretizzazione capitalista: mio figlio biotecnologico; da chi li ha presi gli occhi; sei tutta tua madre! Il desiderio di avere figli potrebbe essere solo uno tra i modi di chiamare il desiderio di entrare in una relazione di cura con il mondo. Molte amiche femministe mi hanno insegnato che la maternità è desiderio di apertura, sperimentazione del divenire altro che fa perdere contezza della finitudine del corpo proprietario. Sono consapevole di quanto sia scomoda la soluzione proposta da Haraway: generate parentele, non bambini! Vedo in questo suo slogan sintetizzate troppe questioni complesse. Proviamo a scioglierle con un po’ di prove microfono. Uno-due-uno prova microfono: generare parentele, non popolazioni! Questa prova microfono la dedico ai razzisti, a coloro che gioiscono a saperci indifferenti all’indifferenza in cui crescono troppi bambini già nati, perché non sono cittadini, sono migranti. La dedico agli antiabortisti che si accaniscono sui diritti di chi non è mai nati dimenticando per scelta che ci sono milioni di nati che non hanno accesso ad alcun diritto. La dedico alle/agli ossessionate/i dalla riproduzione biologica, guarda caso spesso eterosessuali bianche/i e occidentali che preferiscono produrre una nuova vita (a loro ascrivibile) che prendersi cura dell’umani che è già (o questo umani è un po’ meno umani perché non è bianco, non è europeo and so on?). Dunque, uno slogan antirazzista e femminista all’altezza di tempi/spazi/sfide, il primo punto dell’agenda politica per la decrescita ri/produttiva, per me potrebbe essere: Gambe chiuse! Porti aperti! Non so voi, ma io rivendico la sottrazione: vulva sottratta alla nazione, alla religione, al capitale, alla scienza, vulva che non intende procreare “al servizio della politica nazionalista”, vulva dedita piuttosto ai piaceri della disfunzionalità, a compostare, tramare, ibridare. Allo sciopero degli uteri occorre affiancare la generazione di parentele, solo così potremmo inquinare la purezza dell’etnia nazionale. Ci sono mezzi e vie molto concrete, neppure troppo ostiche, per non generare popolazioni ma parentele. Penso all’affido familiare, che certo non è l’adozione, ma permetterebbe di far decrescere il numero di migranti minori non accompagnati che vivono nei centri di accoglienza: il 94%. Convissuto radicato 5: Parentele postumane per la rigenerazione del pianeta! Dal momento che la sopravvivenza della Terra è legata alla sua rigenerazione, e che questa è messa a dura prova dalla nostra cieca insistenza sulla riproduzione dell’umano, il nostro secondo punto/slogan è: Generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta! Per generare parentele postumane, noi abitanti urbanizzati dei paesi ricchi non dobbiamo recarci in pellegrinaggio in terre lontane. I luoghi in cui sfruttiamo la maggior parte degli animali non umani si trovano poco fuori i centri delle nostre città. I macelli in cui stipiamo e uccidiamo le nostre cugine mucche sono a portata di passeggiata. Quale immenso gesto di cura transpecie sarebbe quello di rompere quelle gabbie, di lasciarli correre via liberi? Prendersi cura non vuol dire solo nutrire/rigenerare in relazioni di prossimità e dipendenza su base individuale/familiare. Prendersi cura è lasciar andare in relazioni di libertà e intra-azione su base collettiva/cooperativa. Il nostro convissuto radicato – riassunto nel generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta! – insiste sul fatto che qui nessuna si augura l’estinzione, anche perché quella umana non è all’orizzonte, la sesta estinzione riguarda più anfibi e oranghi che esseri umani. Per quanto sedotta dallo slogan iniziale – Generate parentele! Non bambini! – duole ammettere che da solo lo sciopero riproduttivo girerebbe a vuoto e anche le parentele postumane rischiano di venire reiscritte in flussi finanziari. Se nel giro di vent’anni diminuissero le nascite ma le emissioni di carbonio no, perché magari non diminuirebbero i viaggi in aereo? Ci sono troppe altre variabili, etica ed economia in primis. Il nostro stesso attivismo si farà compostista allora, proverà a muoversi su tutti e tre piani: chiuderemo le gambe, apriremo i porti, ci alleeremo alle altre specie, produrremo di meno e soprattutto produrremo diverso. La ricchezza come lusso per pochi sopravvissuti non mi interessa. Mi affascina di più il “di meno per tutti. Ritornello speculativo 3: Decrescita ri/produttiva Non possiamo attendere fiduciose che le macchine sollevino le persone umane dal lavoro, pagato e non, e che al contempo risparmino alla Terra il lavoro di rigenerazione che quotidianamente performa per la riproduzione della specie sapiens, perché le macchine bisognerà pur produrle e sempre di una qualche materia saranno composte. Non sono una scettica della completa automazione perché nutro preoccupazioni per la perdita del fattore umano, anche se sarebbe legittimo avanzare delle domande di natura politico-economica, chiedersi quale sarebbe il salario erogato alle persone umane nella fase di transizione come nel post. Abbiamo invisibilizzato e individualizzato riproduzione sociale e biologica, trascurandole come ambiti di analisi e intervento politico, fino quando il neoliberismo non ha suggerito di mettere a valore il privato, il personale. Il marxismo cieco alle differenze di genere è stato meno capace del neoliberalismo di contestualizzare l’importanza della riproduzione. Per questo uso l’espressione decrescita ri/produttiva, perché considero la produzione parte della riproduzione. Occorre sempre ribadire che tutta la riproduzione è produzione (e viceversa), perché è a partire da questo rimosso che il capitalismo ha gerarchizzato il vivente umano e non, è a partire da esso che ci arroghiamo il privilegio di estrarre risorse e restituire rifiuti. Guardiamo un po’ più da vicino questo rimosso e analizziamo le sue conseguenze, non solo per le persone umane, ma per la Terra tutta. Non c’è solo la nascita e il lavoro di cura non può neppure essere ridotto al lavoro domestico. La riproduzione sociale è qualcosa di più complesso: è riproduzione della specie, riproduzione della forza lavoro, riproduzione di legami e risorse necessarie a cura e affetti. Quanto sono cambiati questi tre ambiti fondamentali delle nostre vite dall’irrompere delle nuove tecnologie? Noi ragioniamo nell’era del neoliberismo post-welfare, che ha tentato di capitalizzare in modo più complessivo la vita della nazione, riconfigurando le istituzioni della riproduzione sociale e biologica. Il settore in cui le donne trovano maggiormente impiego, anche quando ci spostiamo sul piano del lavoro formale, rimane quello terziario, che nasce con l’esternalizzazione del lavoro riproduttivo. Le donne continuano ad assistere, trasformare gli alimenti, lavare e stirare: ma lo fanno in case di cura, ristoranti, lavanderie. Se consideriamo gli ambiti della formazione e dell’educazione notiamo subito che le donne sono maggiormente impiegate nei ruoli più prossimi alla cura, sono insegnanti di scuole primarie e secondarie e faticano ad affermarsi in università e centri di ricerca. La famiglia eterosessuale, sicuramente attraversata da cambiamenti, rimane la base di articolazione della governamentalità occidentale. Laddove le lotte delle femministe e le scelte delle donne hanno contribuito al procrastinamento della maternità, le nuove tecnologie riproduttive sono assurte a strumento per garantire la riproduzione della famiglia eterosessuale e il connesso mercato della fertilità. I mercati della fertilità non sono trainati dall’innovazione scientifica prodotta dal ricercatore (il supposto lavoro intellettuale e immateriale), ma si nutrono del desiderio di donne e uomini occidentali di avere figli a loro biotecnologicamente legati e impiegano un particolare tipo di manodopera “manodopera riproduttiva e rigenerativa”, lavoro clinico, quello Le diatomee, inizio e fine e dunque forse motore del ciclo, queste minuscolissime amazzoni che trasportano fosforo, azoto e potassio, arrivano morte stecchite sul suolo della foresta fluviale ma sanno che di questa loro morte la loro specie vivrà. Le diatomee vivono e muoiono con la Foresta Amazzonica e con la Dancalia, ma i loro scheletri devono percorrere ancora molti chilometri prima di ricongiungersi ai corpi delle loro sorelle vive. In questo ciclo, vive o morte che siano, le diatomee garantiscono la rigenerazione della vita sul pianeta, arrivando a produrre dal 20% all’85% dell’ossigeno. L’Amazzonia è simpoiesi. Gli alberi delle foreste pluviali assorbono molta anidride carbonica, ma in questo compito, diventato sempre più arduo da quando i sapiens hanno aumentato in maniera esorbitante le emissioni, sono sostenuti da queste alghe unicellulari. Si contano quasi 70mila specie di diatomee (fossili compresi), ma non sono poi tanto sicura sia utile classificarle per specie. Le diatomee sono simili alle piante, hanno la clorofilla e tutte le carte in regola per la fotosintesi, ma sono anche simili ad animali, o meglio, queste alghette poliedriche sono compostiste: una potente combinazione di geni presenti in animali, piante e batteri. Abitano sia le acque dolci che quelle salate, ma ovunque preferiscono stare a galla, in cerca di sole, necessario per la fotosintesi. Si nutrono della silice presente nell’acqua così da divenire più pesanti e accelerare la loro discesa sui fondali, dove depositano carbonio. Con il riscaldamento globale però le acque diventano più acide e c’è meno silice: scarseggia il cibo per queste amazzoni in miniatura che diventano sempre più leggere delle loro compagne di cento anni fa. Mi chiedo se alle balene e ai protozoi saranno comunque utili queste diatomee smagrite e un po’ indebolite. Perché le diatomee rigenerano noi producendo più di un quarto dell’ossigeno che respiriamo ma sono, come il resto del plancton, nutriente essenziale alla base della sopravvivenza di interi ecosistemi, marini, di acqua dolce, soprattutto terrestri. L’amazzone diatomea tiene dentro la sua vita e le sue morte migliaia di altre specie, mentre l’uomo tiene dentro la sua vita, la morte di troppe altre specie. Mi spiego meglio. La desertificazione della foresta amazzonica ha una causa precisa: il neocolonialismo capitalista che con l’imposizione delle monoculture ha espropriato e ancora espropria terra e popoli nativi al fine di rigenerare, di riprodurre una sola cosa: l’umano e il suo profitto. Sappiamo che i popoli nativi non beneficiano in alcun modo di incendi e deforestazione, sappiamo che la maggior parte dei prodotti delle monoculture è destinato a mercati esteri. Fig. 9. Amazzone Diatomea, collage di Giulia Cerioli, 2020. Capitolo 4 Verso la cura postumana: Fuori controllo. L’economia della catastrofe ha una storia che precede la mia nascita: generazione postnucleare la mia, più abituata all’imprevedibilità di un attentato terroristico che al preannunciato incrinarsi di rapporti internazionali, in qualche modo collocabili nello spazio-tempo. Per noi l’incidente fatale ha a che fare con il disastro ecologico dalle conseguenze non arginabili, con la malattia e lo scalpitare di virus incattiviti dal sistema ri/produttivo biocapitalista. Il sistema immunitario biocapitalista non può accettarlo, quando l’utero della Terra genera mostri esso pare darsi come compito precipuo quello di controllare e gestire la popolazione umana. Il biocapitale ha radici profonde, ci toccherà lavorare sui nostri sé, decostruire il sistema immunitario cartesiano che ancora li separa dal tutto. Erroneamente, crediamo che la salute sia un qualcosa di riconducibile ai singoli individui umani, l’abbiamo privatizzata e rateizzata, facciamo quanto in nostro potere (economico) per conservarla (e dunque vivere) sempre più a lungo. Ma la salute umana non è interrelata a quella di tutte le altre creature terrestri? Nei corpi dei sapiens pare ci siano centinaia di batteri, tanti quanti le cellule. Non siamo gli unici abitanti della vita e della Terra che ci ritroviamo sotto i piedi. Non siamo neppure più utili dei virus alla salute terreste. Quel post che è humus. La biologia considera i virus come ottavo regno da poco perché, ancora intrisa di vitalismo antropocentrista, non riesce a classificarli come vere e proprie forme di vita, vi si riferisce con l’espressione “entità biologiche” e li spiega come ibridi in bilico tra vivente e non vivente, parassiti perché per vivere e riprodursi hanno bisogno di un organismo che li ospiti. Perché non abbiamo mai pensato alla specie sapiens in questi termini? La riteniamo autopoietica? Vero è che la specie sapiens non ha bisogno, come i virus, di un singolo organismo per vivere e riprodursi: necessita di interi ecosistemi, è il pianeta tutto a ospitarla. Haraway ci ricorda che i virus sono organismi “capaci di cambiare il mondo.” La specie sapiens lo è? Lo chiedo perché temo non dovremmo difenderci/curarci solo da Cov-2/3/, quanto dall’iperproduttivismo capitalista e dalla recessione che si profila all’orizzonte. Vi invito a pensare a chi davvero paga le misure emergenziali prese in nome dell’immunità della popolazione. Se le scuole chiudono le/ gli studenti dove stanno? A casa, no? E a casa chi c’è? Avanti mamme/zie/sorelle/badanti/tate/nonne, si tratta di curare la società, chi deve farlo se non voi che l’avete sempre fatto? Nell’emergenza saranno più palesi le contraddizioni che il capitale si trascina dietro? E noi, come possiamo r/esistere? Occuperemo le piazze tutte le volte che potremmo, ma mentre entriamo/usciamo/torniamo in quarantena, in questo costante alternarsi di chiusura/apertura della vita sociale/ comune/pubblica, una consapevolezza comincia a circolare: non si è mai trattato solo di occupare le piazze, si è sempre trattato di metamorfosi di abitudini e comportamenti che ci rendano corpi indisposti, inappropriati. Alla giustizia multispecie serve un’estetica dell’esistenza che sia etica e politica. Le nostre vite sono le strade da occupare per lo sciopero ri/produttivo, i nostri desideri la materia da plasmare per la decrescita ri/produttiva. La nostalgia per il cielo terso del primo mese di quarantena non ci ha convinte? In nome del virus, lo Stato- nazione non ha fatto l’unica cosa che andava fatta: fermare la produzione e investire tutto su cura e riproduzione. Farla finita con la famiglia, amare l’humus oltre l’umano, oltre i confini di generi e Stati, generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta: questo vuol dire etica postumana. E siccome quest’etica postumana è anche una politica transfemminista, guardiamoci dal ricadere nell’essenzialismo, dal riporre l’ago nelle mani delle donne che dovrebbero, da sole, ricucire il mondo. No, la cura è terreno conflittuale e affare comune e se rivaluteremo il suo posto nel mondo lo faremo a partire dal ribaltamento operato dalle epistemologie femministe. Nessuno spazio alle dicotomie umano-non umano, lavoro materiale-lavoro immateriale, lavoro di cura-lavoro intellettuale. La ricerca comune delle terze vie è la sfida eco/trans/cyborgfemminista ai tempi del neoliberismo: riusciremo a redistribuire il lavoro riproduttivo/materiale/di cura/affettivo/sessuale a non pensarlo più in opposizione e gerarchicamente inferiore al lavoro produttivo/intellettuale/ immateriale/culturale/cognitivo? Riusciremo a redistribuire la cura in senso non essenzializzante e specista, cioè in senso degenere e postumanista? Harding suggerisce: ci riusciremo solo quando supereremo la divisione sessuale del lavoro, solo quando il lavoro di cura, per lei sempre emozionale e intellettuale, sarà “percepito come attività desiderabile da tutti gli uomini”, solo allora il lavoro intellettuale, per lei sempre anche manuale, sarà “percepito come attività desiderabile da tutte le donne” Come si fa a raggiungere l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva, a chiudere le gambe e aprire i porti? Si fa seguendo le suggestioni di movimenti e collettivi transfemministi e antirazzisti, con rivendicazioni e negoziazioni, percorsi di autogestione e autoformazione collettiva della salute, con la promozione della cultura della non prevaricazione, con la rivendicazione di piena libertà di movimento, pieno riconoscimento delle genitorialità non biologiche e non eteronormate, con il reddito di autodeterminazione. E ancora, come si fa a generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta? Un altro modo per tessere parentele postumane, di sicuro ascrivibile a politiche più classicamente oppositive ma nondimeno necessarie, è quello di opporsi all’estrattivismo, alla deforestazione, alle monoculture e agli allevamenti industriali, alla privatizzazione di saperi e ricerca, alla messa a valore della vita biologica umana e non. E questo è possibile localmente a partire dai territori che viviamo, globalmente sostenendo le lotte che molte comunità ecoattiviste conducono altrove per la decarbonizzazione dell’economia, contrastando la stipula di trattati e accordi che penalizzano i paesi in via di sviluppo. Lottare contro il capitalismo e il neo- imperialismo significa resistere a politiche locali che hanno effetti non solo nei territori di volta in volta interessati.
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