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Disciplinare il lusso, Sintesi del corso di Storia

Riassunto delle leggi suntuarie

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 17/10/2019

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chiara-di-gennaro-1 🇮🇹

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Scarica Disciplinare il lusso e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! DISCIPLINARE IL LUSSO EMILIA-ROMAGNA La legislazione suntuaria è l’insieme delle norme concepite e varate nel corso di oltre sei secoli (XIII-XVIII), in Italia come in molte altre parti d’Europa. Questo corpo di leggi si presta a essere usato come uno specchio della società. Vi si può cogliere il progetto dei legislatori e vi si possono scorgere tracce delle resistenze di chi era invitato alla moderazione e sottoposto al disciplinamento. Questo specchio riflette anche le modificazioni della lingua. A Bologna l’ultimo provvedimento in latino è il testo delle provvisioni del 1474. Al centro del discorso complessivo ci sono i concetti di ordine e gerarchia, rappresentati e rafforzati sia dagli apparati esteriori sia dalle regole da conoscere e da rispettare non solo abbigliandosi ma anche nel partecipare a banchetti o a cerimonie. In pieno ‘200 i compilatori dei corpi statuari ritenevano di poter dominare individualismi e privilegi personali e di poter guidare la società urbana stabilendo come essa dovesse apparire esteriormente e come ci si dovesse comportare in occasioni socialmente significative. La legge suntuaria è uno strumento politico per rinforzare una gerarchia, per renderla riconoscibile e per comunicarla. Il principio gerarchico e la necessità di distinguere all’interno di un sistema ordinato per gradi costituiscono gli elementi della normativa suntuaria. Si coglie con chiarezza in questo specchio il timore dell’indistinto a partire dalla necessità di percepire immediatamente la differenza sessuale, con i severi divieti di travestimento, fino ad arrivare a un’autentica ossessione distintiva. Una raccolta di leggi suntuarie serve anche a datare nuovi termini e la realtà alla quale essi si riferiscono. Il complesso sistema di vesti regolate serve anche a sistemare il bilancio comunale. La disobbedienza portava almeno un vantaggio, ovvero la normativa bolognese cioè una multa da applicare ai trasgressori. Le norme suntuarie emanate nel 1401 intimavano ai cittadini di denunciare le vesti proibite confezionate prima di quell’anno e di provvedere alla loro riconoscibilità tramite l’applicazione di un bollo. Grazie a ciò esse avrebbero potuto essere indossate. Nel giro di 2 giorni ne vennero denunciate più di 200. Una lista di capi d’abbigliamento, un po’ diversa da quella bolognese era prevista a Faenza, dove venne richiesta la consegna nelle mani degli anziani dell’elenco delle vesti, non più di tre a testa, delle quali le donne intendevano servirsi. A Modena nel 1549 si stabilisce una progressione della multa: la prima volta 15 scudi d’oro, la seconda 25, la terza 35 e il “perdere la roba”. Le multe si configuravano così come una sorta di tassa sul lusso a beneficio della politica sociale cittadina. Le norme vietavano anche di possedere, non solo di sfoggiare, quanto illegittimo per la categoria di appartenenza. L’idea di lusso comporta in sé il senso di squilibrio e quindi si riferisce a una situazione patologica alla quale contrapporre a fini di riequilibrio e di sanità. Stare alle regole era un impegno e un sacrificio, ma essere previsti in un corpo di regole era anche un privilegio, un riconoscimento di appartenenza alla città. Da tutto ciò emerge anche la conferma della centralità dell’uomo all’in terno della famiglia. Le donne erano l’oggetto privilegiato di attento se non esclusivo esame e di limitazioni. Esse non possono non aver colto che la legislazione suntuaria comportava delimitazioni soprattutto ai loro danni, infatti tardarono a reagire. A fronte del fatto che le norme relative a vesti o ornamenti colpivano più loro che gli uomini, si registrarono sul finire del Medioevo interessanti forme di reazione femminile. Le donne di Cesena, in risposta alle limitazioni del 1575, scrissero un documento di protesta nel quale si lamentavano di essere prive di dignità. Il materiale della raccolta emiliano-romagnola lascia appena intravedere un’altra resistenza alla normativa, diversa da quella femminile. Si tratta di quella degli artigiani. Essi erano tenuti a farsi giudici delle richieste dei loro clienti contro ogni loro interesse. Non potevano cioè eseguire un capo che non fosse adeguato alla condizione del cliente, pena il pagamento di multa. A Bologna già nel 1335 ai sarti che non rispettavano i divieti erano minacciate multe di 10 lire; 20 anni prima a Reggio la multa fissata ammontava a 25 lire per la donna che non rispettasse le norme e a 10 per i sarti. Queste norme servono anche a stabilire chi appartiene alla città e chi no. La seta divenne un elemento distintivo per distinguere gli abitanti dai forestieri. Queste leggi si offrono come mezzo per imporre un ordine, per renderlo riconoscibile e per comunicarlo. UMBRIA La normativa suntuaria umbra fino a metà del ‘300 è in genere di stampo “popolare”, e per ciò stesso orientata a disciplinare verso il basso. Un primo passo in direzione diversa è visibile nella previsione di aree di privilegio, ma per personaggi di spicco; un secondo passo sarà l’inclusione delle mogli di quelli; infine verrà fatto il passo decisivo verso “categorie dall’estetica differenziata”. In questo panorama, non sarà inutile spendere qualche parola su Gubbio, il cui statuto, risalente al 1338, prevede 3 gradi (militari, dottori, giudici) ed esclude fin da quest’epoca dalle proibizioni le mogli dei primi e, parzialmente, quelle dei medici e giudici. La riforma è redatta all’indomani della presa di possesso da parte di Antonio da Montefeltro, con cui si chiude una lunga fase di vita del comune eugubino, formalmente retto a regime popolare dalla famiglia Gabrielli. Una sorta di condanna si abbatte sulle nobili coniugate con appartenenti al ceto popolare, mentre mantengono posizioni di privilegio le giovani discendenti da quelle famiglie nobili che non favorivano l’ascesa dei Gabrielli. La magistratura degli 8 arbitrium habentes in tema di disciplinamento del lusso farà il suo onesto lavoro annullando ogni distinzione cetuale, livella tutto verso il basso e incamera la metà delle pene pecuniarie, in decisiva controtendenza rispetto a modelli signorili talvolta definiti più permissivi. Quello che conta in età tarda è che l’ornato garantisca attraverso regole e classificazioni il rispetto delle categorie sociali. VENETO La riflessione storiografica sulla legislazione suntuaria delle città venete ha conosciuto un fiorire di studi tra il XIX e il XX secolo. Il compito del gruppo di lavoro che sta raccogliendo le leggi suntuarie del veneto è agevolato dal discreto numero di pubblicazioni esistenti. Esso inoltre si trova a doversi confrontare con uno Stato che era unificato sotto il dominio di Venezia fin dall’inizio del ‘400. Naturalmente, il predominio della capitale della Repubblica non desta stupore, considerando la sua consistenza demografica e la sua importanza come uno dei principali centri del consumo di lusso in Europa. Le altre grandi e medie città del Veneto erano dotate di una legislazione autonoma, che tuttavia fu scarsa nell’epoca di indipendenza da Venezia. Le leggi emanate dalle varie città venete potevano influenzarsi a vicenda. Non era infatti frequente il richiamo al modello costituito dai decreti veneziani, alla base di quelli padovani del 1488 e del 1504. Inoltre, le decisioni in materia suntuaria dei consigli cittadini erano prese sempre alla presenza del podestà veneziano e dovevano in seguito essere ratificate dal Senato di Venezia, che in alcune occasioni preferì respingerle al mittente. Fu quando accadde alla legge proposta dai deputati ad utilia e approvata nel consiglio cittadino di Padova nel 1459, che fu inviata a Venezia per la conferma ma che non vene mai accettata. Lo stesso regolamento fu approvato dal Senato di Venezia poco dopo, nel 1460, probabilmente perché nella nuova versione si permetteva di possedere due vesti di seta a tutte le donne di Padova e del distretto, senza alcuna discriminazione di status. La legislazione suntuaria di Venezia, al contrario di quella di altre aree italiane, era valida solitamente per ogni residente della città senza distinzione d ceto. D’altra parte, le divisioni sociali erano ben più nette a Venezia, e ancor di più a partire dai primi decenni del XV secolo. A partire dagli 60 del ‘400 le leggi suntuarie di Venezia e delle città venete non fanno più alcuna distinzione tra gruppi sociali o professionali, equiparando tutti gli abitanti (ma non i forestieri). Senza dubbio molti decreti furono emanati sulla base di scrupoli morali. La preoccupazione per un possibile castigo divino è visibile nelle leggi degli anni 50 del ‘400. Accanto all’ansia per una possibile punizione soprannaturale, prevaleva spesso una motivazione legata alla conservazione della ricchezza dei cittadini. Una forte preoccupazione economica per le spese eccessive era già presente in una delibera del Maggior Consiglio veneziano del 1334. La decisione di investire in beni di lusso poteva essere però non statuti si riferiscono al periodo in cui le comunità erano obbligate a presentare per il controllo una copia del proprio statuto ai regolatori; tale controllo era passato in epoca granducale dai regolatori ai 4 conservatori dello Stato senese. In quasi tutti gli statuti le norme che regolavano la pietà verso i defunti, il lutto, la partecipazione in masse alle processioni e ai funerali e il comportamento delle donne durante le esequie e in genere in chiesa. Nello statuto trecentesco in volgare di Magliano in Toscana, è presente il divieto alle donne di partecipare ai funerali in chiesa, a meno che non si trattasse di una defunta, in onore della quale era consentita la presenza di 4 donne. Altre norme che riguardassero le donne: regolare le eccessive dimostrazioni di lutto, era vietato abbandonarsi a pianti durante il funerale e la messa funebre, vietato seguire il morto, era proibito il cordoglio in pubblico, vietato seguire il funerale. L’assenza o la scarsità di norme suntuarie nei vari statuti locali possono dunque essere l’indizio di un mediocre livello socio-economico, ma possono anche essere ricondotte a una completa ricezione della legislazione senese, o anche alla circostanza della conservazione di statuti successivi alla sottomissione a Siena. Per San Gimignano è documentata una precocissima legislazione suntuaria, che è addirittura anteriore a quella senese. Così lo statuto in latino del 1314 di San Gimignano contiene diverse norme suntuarie, anche in questo caso testimonianza della vitalità sociale e giuridica di questo Comune. ‘intensità della vita cittadina si riflette nei testi normativi al punto da prescrivere precisi comportamenti agli stessi preti officianti, e di lusso nell’abbigliamento, campo in cui fu promulgato il 30 agosto 1331 un nucleo di leggi, analoghe a quelle senesi del giugno 1330. In genere le norme suntuarie si riferiscono a una ricchezza opulenta che qualificò anche piccoli centri urbani dell’Europa a partire dalla metà del ‘200, quando la gente iniziò a praticare il lusso, che significava proprietà ma anche esibizione. EBREI Il 18 maggio 1418 si riunivano a Forlì i rappresentati delle comunità ebraiche di rito italiano e al termine dei lavori pubblicavano una lunga serie di disposizioni a carattere suntuario. Il regolamento si occupava di una varietà di temi, che non dovevano risultare affatto estranei al modo di vivere degli ebrei nell’Italia rinascimentale. Le motivazioni della normativa suntuaria non lasciava adito a dubbi quanto alle sue finalità e i risultati non sembravano essere molto diversi: lo scialo e la pompa eccessivi erano da evitarsi per ragioni di decenza morale, perché colpivano perniciosamente nella tasca perché consentivano agli ebrei in vena di arrampicate sociali di dare eccessivamente all’occhio. I disciplinati erano uomini e donne che avrebbero dovuto mostrare un’immagine di modestia e di austerità nel loro apparire all’esterno, nelle strade, durante le gite di piacere e al mercato. Soprattutto quando si trattava di vestiario, i legislatori rabbinici intendevano essere assai precisi, onde evitare errori nella scelta pudica della moda da adottare. Le guide spirituali delle comunità ebraiche intendevano con le leggi suntuarie indirizzare verso comportamenti più modesti e morigerati. Le leggi suntuarie risalgono agli inizi del ‘400 e on ebraico rimarranno formulate fino agli esordi del ‘600, erano rivolte a porre limiti, almeno sulla carta. Si intendeva frenare e disciplinare, procurando nello stesso tempo che il lusso e l’esibizione continuassero a rimanere simboli legittimi della classe privilegiata, che si trovava ai vertici della società ebraica. Le ordinanze contendevano un dettagliato elenco dei capi di vestiario messi al bando, in particolare la seta, i gioielli e l’oreficeria. Si passava poi ai pranzi di matrimonio e ai ricevimenti per nascite e circoncisioni, in occasione dei quali un severo controllo andava esercitato sulle lise degli invitati e delle vivande. Anche nelle leggi suntuarie, andate in vigore nel ghetto di Venezia nel 1622, i funerali, costosi e chiassosi, rimanevano una vera e propria ossessione, tanto da esigere misure dure e senza compromessi. Si doveva porre fine all’abuso dei dispendiosi cortei funebri. Per il resto bisognava evitare con ogni mezzo che alla sepoltura si precipitasse una folla di donne vocianti e lugubri. In fine gli elogi funebri dovevano essere limitati. A Roma le prime prammatiche pervenuteci risalgono agli esordi del ‘600, in esse venivano disciplinati i conviti di nozze e di circoncisioni, mentre si vietava ai membri della comunità di spostarsi in carrozza per le strade di Roma, di giorno e di notte. Si proibiva alle donne di indossare capelli finti, parrucche e acconciature posticce. Anche la clamorosa partecipazione delle donne ai funerali era censurata e proibita. A Roma i guanti erano considerati simbolo di distinzione e privilegio e li indossavano il vescovo e i prelati durante i pontificali. Non sorprende quindi che fossero rigorosamente vietati alla popolazione del ghetto. Ma anche in questo caso esistevano le eccezioni. Al ceto dei banchieri e ai rabbini era consentito portare oi guanti quando apparivano in pubblico e in particolare nei giorni del carnevale. L’interpretazione delle leggi suntuarie come strumento persecutorio e discriminatorio è qui del tutto esplicita. Agli ebrei i Comuni avrebbero concesso di esibire pubblicamente le loro ricchezze. Questo per rendere l’immagine dell’ebreo ancora più destabile e ripugnante. È un fatto che glie ebrei compaiono assai raramente nelle leggi suntuarie generali e quasi sempre in connessione con l’obbligo di portare un segno sugli abiti o un cappello, di vario colore, veletti e orecchini a cerchio per le donne. Ma al di là dell’obbligo del segno, non mancano i casi in cui gli ebrei sono ricordati nelle disposizioni suntuarie comunali. Le donne appartenenti alle famiglie dei banchieri erano autorizzate a indossare abiti di panno di qualsiasi colore, oltre che vesti di velluto. Quanto ai gioielli era permesso loro di infilarsi alle dita 3 anelli. Le altre donne ebree potevano vesti con maniche di velluto e 2 anelli alle dita. Quindi per ridimensionare le pretese e ambizioni di scalata sociale delle famiglie ebraiche più ricche la gerarchia rabbinica era sollecitata a muoversi, promulgando ordinanze suntuarie del tutto analoghe a quelle cristiane. Di fatto queste iniziative risultavano inutili e sterili. SPAGNA Dal secolo XIII appaiono per la prima volta nei registri delle Cortes leggi suntuarie per la Castiglia e per la Corono d’Aragona che limitavano l’eccesso. Tale legislazione suntuaria cercava di mantenere l’ordine gerarchico della società. È ben noto che erano presenti in Spagna minoranze religiose e che fino a un certo punto era difficile distinguere gli ebrei dai mussulmani o dai cristiani. Perciò le leggi suntuarie si occuparono di regolamentare in maniera differenziata uso, forme e colori dei vestiti tanto per i cristiani quanto per gli ebrei e i mussulmani. Allo stesso tempo, tali ordinanze dettavano anche norme restrittive riguardo a cerimoniali di ogni genere e alle pratiche caritative col fine di distinguere il nobile dal borghese e il cristiano da chi non era battezzato. La spesa in oggetti e beni di lusso trovò dunque una giustificazione nel mondo medievale, dominato dalla morale cristiana, poiché fu percepita come una delle vie per realizzare un disegno divino. Un settore della Chiesa si schierò contro questi atteggiamenti sociali che giustificavano l’uso dei lussi. Il mondo religioso medievale si divide così in 2 settori. A partire dal XIII secolo le monarchie ispaniche elaborarono una serie di norme per contenere e proibire i lussi. La legislazione suntuaria agì dunque come correttrice degli eccessi del consumo. Perciò ogni componente della scala gerarchica avrebbe dovuto limitarsi a quegli elementi estetici che le erano propri e che costituivano elementi identificativi. In generale, le fonti che c’informano su quest’attività normativa sono varie. Fra tutte queste fonti, è la legislazione reale quella che ci permette di avvicinarci maggiormente alla mentalità della classe che esercitava il potere nel Medioevo. Le assemblee di Cortes più rappresentative nelle quali si dettarono disposizioni sul lusso ebbero luogo dal XIII secolo a Siviglia e a Valladolid, e in esse ci si occupò di ridurre gli eccessi nel consumo di alimenti e nelle vesti troppo lussuose; più tardi si decise di limitare l’eccesso di sontuosità e di ostentazione nelle nozze, e contemporaneamente si trattarono temi relativi alle comunità mussulmane. In altre Cortes si legiferò sul numero di commensali che dovevano prendere parte ai banchetti offerti al monarca. Le ricerche attutali sulle leggi suntuarie in Spagna sono, in generale ancora in fase iniziale. Nel regno di Castiglia e Leòn, le leggi suntuarie disciplinano e delimitano certe forme di ostentazione da parte di determinati gruppi, favorendo le differenze sociali. Gli studi sulla legislazione suntuaria nella Corona aragonese sono molto scarsi. Nel corso del regno di Giovanni I non fu dettata alcuna legge di carattere suntuario, e ciò forse perché in quel periodo il monarca e la corte in generale non poterono esagerare in pompe e lussi. È ben noto che fu precisamente nel corso del XIII secolo che l’Europa cominciò ad avere difficoltà a mantenere il suo ritmo di crescita e si insinuarono le prime crisi sociali ed economiche, moltiplicatesi nel secolo successivo. Le ordinanze di Cervera volevano evitare gli eccessi nel consumo e cercare un equilibrio tra l’uomo e i beni materiali senza allontanarlo dalla retta via indicata dalla Chiesa. Con queste leggi non solo si proibivano o si dosavano alcuni oggetti ma si disciplinava anche il lutto e si incentivava l’uso di determinati colori. È certo che la legislazione suntuaria era funzionale agli interessi della classe dirigente e di quanti appartenevano all’area del potere, per portare a termine i loro programmi politici in momenti di regressione economica. FRANCIA Nel contesto della legislazione suntuaria europea il caso francese è tre quelli meno studiati. Per quanto riguarda la legislazione reale, si deve ricorrere alle grosse raccolte di ordinanze reali, che benché incomplete e non sempre corrette possono essere tuttavia arricchite e completate con le singole pubblicazioni ufficiali di leggi a partire del XVI secolo. Per quanto riguarda la legislazione comunale, non disponiamo di una raccolta di testi così articolata. In questo caso, la ricerca scientifica è dovuta ricorrere alle singole e sparpagliate edizioni di testi. In Francia il periodo storico di maggiore intensità legislativa nell’emanazione di leggi suntuarie comunali si colloca prima della metà del XIV secolo, quindi prima della cosiddetta “peste nera”. Fino a Luigi XII furono ben pochi i re che emanarono ordinamenti santuari. Per quanto riguarda i contenuti della legislazione suntuaria francese, occorre distinguere tra i testi sull’abbigliamento e quelli sul lusso in particolari festività. Da una suddivisione delle leggi comunali per contenuto, risulta un numero complessivo di 145 disposizioni testuali, solo un quarto era dedicato all’abbigliamento, 40 testi trattano le feste, 35 le nozze, 25 i lutti e i funerali e i restanti 10 si occupano dei regali in determinate occasioni. Solamente nel XIII secolo e all’inizio del XIV si possono trovare leggi che si occupano dettagliatamente del lusso nell’alimentazione. I primi esempi di leggi comunali francesi risalgono agli anni 1205 e 1227, quando furono emanate a Tolosa e Montpellier. Nel primo caso si trattava di una legge sull’ordinamenti funerario, nel secondo invece nel 1227 Montpellier emanò una vera e propria legge suntuaria, che si occupa di abbigliamento, matrimoni e feste relative alla nascita. A differenza dei Comuni, nei quali i magistrati della citta redigevano leggi suntuarie, la procedura nel caso della legislazione reale potrebbe apparire più trasparente. In realtà non è così. A prima vista si potrebbe partire dal presupposto in base al quale sarebbero esistite 3 fasi nel processo legislativo: il re delibera le leggi, le invia alla corte suprema dove vengono registrate, per poi passare ai Parlamenti provinciali, dove vengono nuovamente registrate. Questo percorso spesso contrasta con la realtà. È difficile comprendere a prima vista il significato di questo insolito processo. Allo spreco esagerato bisognava porre un rimedio. Nell’ordinanza sull’abbigliamento emessa nel 1365 dal Consiglio comunale di Montpellier si evoca la possibilità di punizioni divine come la guerra, la povertà e la malattia. Una questione importante riguarda il modo in cui le leggi suntuarie interpretavano i confini tra la sfera privata e quella pubblica. Le fonti indicano che in Francia la differenziazione ebbe inizio molto presto. Nella legislazione reale la differenziazione tra spazio privato e pubblico pare fosse ben presente. Dal punto di vista degli organi esecutivi il divieto di ispezioni nelle case, chiese, ostelli rappresentava un problema. È significativo che nel XVI e XVII secolo si diffuse la pratica che vedeva gli organi esecutivi appostarsi all’entrata degli edifici per cogliere possibili trasgressori. Nel 1275 fu emanata un’ordinanza sull’abbigliamento delle donne, secondo cui anche gli uomini dovevano confermare con giuramento che avrebbero sorvegliato le donne nell’osservanza di tale legge. Infine, tutti gli abitanti della città furono obbligati a denunciare le eventuali trasgressioni del suddetto regolamento. Esse venivano poi punite con multe, punizioni fisiche o pene detentive. Nel momento in cui un legislatore stabiliva confini precisi e dettagliati entro cui poteva manifestare il lusso, essi non potevano essere oltrepassati se la compressione della domanda aveva su alcune attività produttive e commerciali interne. Sarti, orefici, calzolai rappresentavano normalmente categorie non troppo numerose né dotate di grande peso economico-sociale. Forse è anche per questo che il loro scontento e la loro opposizione ai provvedimenti suntuari hanno lasciato scarse testimonianze. A Siena il 10 maggio 1300 i sarti rivolsero al Consiglio generale una supplica nella quale chiedevano la revisione della disposizione che limitava la quantità di stoffa da utilizzare per confezionare capi come la tunica e il mantello. Gli artigiani lamentavano come la norma in questione fosse ingiusta, in quanto non considerava né la diversità delle taglie femminili, né il fatto che non tutti presentavano la stessa altezza. La risposta fu negativa in quanto la prescrizione fu ribadita nel 1030-10. Resta il fatto che proibire determinati beni o servizi non significava distruggere il mercato, ma orientarlo verso altre produzioni che non necessariamente erano meno ricche o meno redditizie. Nel caso di industrie di peso le leggi suntuarie potevano rappresentare una spinta in più per le esportazioni. Di fatto la moda divenne più stravagante, forse per aggirare i divieti e evitare di incorrere nelle sanzioni i produttori furono stimolati a continui cambiamenti, rendendo più attraente l’offerta. STORIA DEL COSTUME, STORIA DELL’ARTE E NORME SUNTUARIE Il collegamento fra la storia dell'arte e le leggi suntuarie passa attraverso la storia del costume. Il costo di un abito femminile o maschile in seta, ricamato con filo d'oro, poteva raggiungere fra 5 e 600 cifre esorbitanti, mentre un semplice abito in lana costituiva un investimento per le classi più povere. Il valore era determinato essenzialmente dal costo delle materie prime. Da questa situazione scaturì nei confronti dell’abbigliamento un atteggiamento ispirato a un’estrema parsimonia. Gli abili non venivano conservati se non in abiti cortesi e in particolari occasioni. Era inoltre Prassi comune vendere gli abiti in assenza di eredi o per realizzare somme di denaro, si può arrivare quindi alla direzione che la preziosità dei tessuti anziché favorire la loro conservazione ha causato la loro rovina. Chi si accosta alla storia del costume devi affrontare l'argomento facendo ricorso fonti disparate, quali l'analisi dei dipinti, con particolare attenzione ai ritratti e alle scene di genere, le ricerche d’archivio, le leggi suntuarie e la poesia. La pittura può essere viziata dall'intenzione di deformare la realtà o dal desiderio del pittore o del committente di dare vita a una rappresentazione idealizzata. Diversa è l'importanza dei ritratti che costituiscono di solito una fonte primaria per la conoscenza della storia del costume. Le leggi suntuarie possono rappresentare una chiave di lettura per approfondire la conoscenza delle fogge, dell'uso dei gioielli e della loro integrazione con gli abiti alla moda; sono uno strumento indispensabile per il lessico relativo all’abbigliamento. Le leggi suntuarie, mirate ad arginare il lusso eccessivo, non sembra siano state molto osservate e il loro tentativo pare sia stato vano. Genova è stata forse una delle prime città italiane a stendere una normativa in materia suntuaria, essendosi dotata di questo strumento ni dal XII secolo. In quel secolo l’obiettivo principale dei divieti erano le perle: forse la pietra preziosa più carica di significati simbolici. A partire dal ‘300 le perle e le gemme non furono più esclusivamente destinate a decorare i gioielli ma vennero profuse sugli indumenti e persino sugli oggetti di uso corrente. L’attenzione riservata allo sfoggio di oreficerie nel ‘400 e nei primi decenni del secolo successivo era ampliamente motivata dalla moda di quel periodo, quando i gioielli erano parte integrante del decoro delle vesti. I dipinti mostrano dottori della Chiesa con mitrie tempestate di gemme e piviali stretti sul petto da fermagli d’oro, con gemme e perle. Se questo accadeva sul fronte ecclesiastico, la situazione fra i civili abbienti era talmente esacerbata da rendere necessaria una legge, promulgata nel 1449, da cui ricaviamo il quadro di quello che era di moda e di ciò che i legislatori cercavano di evitare, ovvero limitare la distribuzione delle perle e delle pietre preziose negli abiti. Tale legge proibiva anche di decorare i coprispalla. Le maniche erano un punto privilegiato della veste ed erano decorate con pietre preziose. L’ideale di eleganza lanciato dalla corte spagnola alla metà del ‘500 poteva essere austero e castigato, ma non era certo semplice e insensibile alle lusinghe del lusso. Naturalmente, gli eccessi del lusso “alla spagnola” non sfuggirono ai severi censori che sfornarono leggi molto articolate, mirate a sconfiggere il lusso a tutto campo. Il primo attacco contro questi simboli eccellenti della vanità e delle spese suntuarie fu sferrato nel 1571, ma fu abbastanza moderato. La prammatica del 1582 proibiva di portare ogni qualità d’oro, argento, perle, pietre preziose e ricami, mentre consentiva l’uso di bracciali semplici o in oro o con una mappa. Con “muschio” si definivano sostanze naturali che emettevano profumo e alle quali si riconosceva la prerogativa di disinfettare l’aria. Esso poteva essere usato in forma grezza da inserire all’interno degli appositi contenitori che potevano essere dei pendagli da collo o degli orecchini. Gli uomini per lo più erano denunciati per la ricchezza con cui erano ricamate le loro vesti, ma anche perché portavano bottoni di oro massiccio o perché avevano collane d’oro al collo oppure se portavano al dito più di un anello con pietra preziosa. Non si può quindi rilevare come le accuse più numerose contro l’uso smodato di oreficerie fossero sporte contro le donne, che evidentemente preferivano seguire i dettami della moda piuttosto che quelli delle prammatiche. L'affermazione senza mezzi termini della moda francese ebbe conseguenze rimarchevoli sulla storia dell’oreficeria. La più grande novità introdotta e stato un tipo d'abito che si distingueva dai precedenti perché era una veste intera, anziché composta dall’abbinamento e sovrapposizione di diversi capi. A Genova l’integrazione dei gioielli con l'abbigliamento non fu priva di conseguenze ed espose questi preziosi ai capricci delle mode e delle loro sempre più ravvicinate variazioni. I gioielli non brillavano più sul petto ma si disponevano sulle spalle delle nuove vesti. Le leggi suntuarie sembrano aver colto immediatamente le novità che erano nell’aria e i pericoli che ne potevano derivare. Per arginare i danni ne furono emanate parecchie in rapida successione che cercarono di circoscrivere l’uso dei gioielli. Nonostante tutte queste normative, non sembra che le eleganti genovesi fossero disposte a rinunciare alle allettanti novità. I senatori ne formularono una veramente molto rigida nel 1723, essa vietava qualsiasi tipo di gioiello legato o sciolto tanto vero quanto falso. I gioielli falsi, di cui le prammatiche cercavano di limitare il dilagante successo, facevano parte dei corredi più eleganti fin dal ‘600 e nel corso di quel secolo si cominciarono a pubblicare ricette per la loro produzione in ogni nazione. Nel caso delle maniche ad esempio, le leggi suntuarie emanate nel 1571 forniscono interessanti informazioni. Le maniche risultano differenziate fra quelle che non si indossano, che non possono essere di maggior larghezza di 61 cm. Le 2 maniche erano differenziate in alcuni casi per l’uso di tessuti diversi. Per quanto riguarda la forma, le maniche aderenti al braccio hanno una certa ampiezza all’altezza del gomito e si stringono verso il polso, mentre le amiche pendenti sono di 2 tipi: corte e chiuse al polso oppure lunghe, terminanti a punta e aperte. Le leggi suntuarie arricchiscono di dettagli le nostre conoscenze anche relativamente a altre componenti dell’abbigliamento, in particolare quando si soffermano sull’ampiezza delle guarnizioni consentite o sui colori concessi o vietati. L’abito da parata era composto oltre che dalle maniche e dal giuppone, anche da faldette e busto. Quest’ultimo, indossato sopra la camicia e un corpetto dello stesso tessuto delle faldette. La guarnizione, in velluto o oro, richiedeva l’impiego di grandi quantità di materiali. La parte inferiore della veste era chiamata falde o faldette, ornate da fili di galloni che correvano lungo l’orlo inferiore e salivano verso la vita sulla parte anteriore. Per quanto concerne l’uso dei colori, in generale le leggi suntuarie, testimoniano una varietà ben più ampia di quanto si potrebbe pensare sulla base dei ritratti, che per lo più raffigurano dame in nero, bianco, rosso o verde. La legge suntuaria del 1582 proibiva alle donne di indossare abiti di seta tranne “teletta nera, raso nero, bianco, giallo, verde, turchino o morello, e non misti”. Nel 1594 vennero fatte alcune concessioni, in particolare riguardo l’uso del velluto, che fino ad allora era vietato. Altre informazioni lessicali di grande interesse sono relative agli anni intorno alla metà del XVII secolo. Per l’abbigliamento maschile vengono imposti alcuni abiti. Già nel 1641 per l’imitare l’abuso della variazione delle vesti, si proponeva di stabilire un modello di abito sia per le donne che per gli uomini. Per gli uomini ci sono 4 proposte: abito alla moda, alla francese, alla Carasena (calzoni larghi e casacca lunga in pelle di daino) e alla spagnola (calzoni stretti e casacca). Per le donne c’era meno scelta poiché i modelli erano 2: alla spagnola e alla francese (un abito stravagante e bizzarro). TRA STORIA GIURIDICA E STORIA COSTITUZIONALE: FUNZIONI DELLA LEGISLAZIONE SUNTUARIA LE LEGGI SUNTUARIE E LA STORIA SOCIALE La storia sociale è stata finora poco sensibile alle leggi suntuarie in quanto oggetto di ricerca specifico, tema singolo e separato da altre questioni storiografiche. In Italia l’interesse per la legislazione suntuaria assume un andamento carsico, addensandosi tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 in una serie di contributi molto noti. Gli oggetti, gli abiti e gli ornamenti vanno studiati a partire dalle relazioni, dalla rete degli scambi sociali in cui si muovono. È lo scambio fra chi vende e chi compra a produrre il valore di quell’oggetto stesso. L’attribuzione del valore commerciale, in denaro, non appartiene alla sola dimensione economica, ma alla rete complessa e mutevole degli usi sociali. Su queste basi si fonda l’inizio di una ricerca sul consumo incentrato sulla comunicazione. Le fogge, i tessuti, i colori distribuiti per ceto, età, genere, cittadinanza, costituiscono il linguaggio immediatamente visibile dell’appartenenza e della distanza. È un codice della comunicazione sociale che prevede regole evidenti e minuziose di inclusione e di esclusione. Materializzandosi negli abiti, i segni della distinzione sociale diventano qualità concrete, visibili, manipolabili. Una prima questione è dunque quella della costruzione delle identità sociali legate alle apparenze: la distinzione produce distanza e complica le norme comportamentali che servono a distinguere e a distinguersi. Le leggi suntuarie strutturano una riconoscibilità individuale e collettiva in senso gerarchico: identificazione e distinzione vanno di pari passo. Da un lato le leggi suntuarie rappresentano processi di trasformazione difficilmente governabili, dall’altro forniscono una fonte largamente inutilizzata europea del tardo Medioevo e della prima Età moderna. La storia sociale dei colori apre uno spiraglio di grande suggestione, i colori ammessi o proibiti rimandano a contrassegni di visibilità sociale e familiare spesso risalente all’età classica. Come il colore, anche l’abito da lavoro è poco studiato e del resto scarsamente presente nella legislazione suntuaria, perché non è oggetto di ostentazione e perché il mestiere non rientra fra i criteri di costruzione dell’identità. L’emergere della moda e di un sistema della moda è fenomeno relativamente recente e il periodo di maggior normazione è quello del basso Medioevo e della prima Età moderna. La produzione europea di leggi suntuarie viene spiegata ponendo in primo piano il consumo di lusso quale caratteristica centrale delle economie urbane dell’Età moderna. Il progressivo affermarsi di una gerarchia sociale basata sul potere, si traduce in un mutamento dell’ordine simbolico a sua volta evidente nel mutamento di stile degli abiti. Il consumo di ostentazione e la domanda di beni di lusso stanno alla base del capitalismo commerciale: la competizione per il consumo di ostentazione e non il conflitto garantisce la mobilità dei ceti mercantili e della nobiltà di toga in Europa. La novità dell’analisi socioeconomica sulle origini del capitalismo europeo sta nel porre il consumo di beni di lusso nelle corti e fra le élite europee come prerequisito della rivoluzione tecnologica alla base dello sviluppo capitalistico occidentale. Sia nelle società europee premoderne sia in quelle etnologiche le leggi suntuarie vigenti sono forme di controllo della domanda rigide, gerarchiche, orientate all’esclusione e all’individualizzazione di soglie misurabili dello status e del rango. I beni di lusso si differenziano da quelli di prima necessità essenzialmente per l’uso retorico e sociale a cui vengono destinati. Nel contesto storiografico italiano la questione del controllo della domanda e del consumo di beni si è tradotta nella categoria di disciplinamento sociale.
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