Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Discorso sull'origine della disuguaglianza di J-J. Rousseau, Appunti di Filosofia Politica

Appunti sul Discorso sull'origine della disuguaglianza di J-J. Rousseau

Tipologia: Appunti

2019/2020
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 08/01/2020

1011010110
1011010110 🇿🇼

4.4

(37)

10 documenti

1 / 15

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Discorso sull'origine della disuguaglianza di J-J. Rousseau e più Appunti in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! Discorso sull’origine della disuguaglianza di Jean-Jacques Rousseau Introduzione: Il secondo dei discorsi di Rousseau non venne accolto dalla schiera di accademici di Digione con l’entusiasmo del primo; la lettura stessa del testo venne sospesa “par sa longueur et sa mauvaise tradition” . Va in effetti notato che l’autore, reso ormai celebre dal Discorso sulle scienze e sulle arti, non 1 si curò affatto delle consuetudini stilistiche e finì così col trascurare l’elogio dei giudici, pratica alla quale si era adeguato per la stesura del primo; addirittura Rousseau s’immagina altri giudici e un altro uditorio, dipingendosi “nel Liceo di Atene […] avendo i Platone e i Senocrate per giudici e il genere umano per uditore”. L’opera intera, con l’aggiunta di note e di una dedica al consiglio generale di Ginevra, fu pubblicata l’anno seguente ad Amsterdam. Nelle Confessioni Rousseau racconta di essersi ritirato nella foresta di Saint Germain a riflettere sul tema dell’opera: “Tuffato nella foresta vi cercavo, vi trovavo l’immagine dei primi tempi, dei quali tracciavo fieramente la storia”. Questa ricostruzione restituisce appieno, come nota Luporini, il clima affettivo e nostalgico che accompagna l’intero svilupparsi dell’opera nel suo tentativo di indagare l’origine e le fattezze dell’uomo primordiale. Aspra fu la critica di Voltaire (sebbene Rousseau avesse perfettamente esplicitato di non avere alcuna intenzione di tornare a vivere nelle foreste con le belve) a questa visione primitivista dell’uomo: “Non si è mai impiegato tanto ingegno a volerci rendere bestie; leggendo la vostra opera viene voglia di camminare a quattro zampe” . 2 Interesse principale del discorso la ricerca di una fondazione il più possibile rigorosa ed accettabile del ragionamento riguardo lo stato di natura; Rousseau sottolinea polemicamente come tutti coloro i quali si siano interrogati su tale questione, in un modo o nell’altro, abbiano compiuto il medesimo errore: essi hanno finito con l’attribuire all’uomo naturale, sempre che sia esistito, caratteristiche quali bisogni, passioni, idee tipiche e proprie dell’uomo civile. Questo pensiero, che rappresenta il nucleo ed il punto di partenza del discorso, è ancora una volta sottolineato dal motto sul frontespizio: “Non in depravatis, sed in his quae bene secundum naturam se habent, considerandum est quid sit naturale” . Questo errore metodologico, comune ai più, non è puramente teorico nella misura in 3 cui - per Rousseau - l’esito comune di tali teorie (vedi Hobbes e Locke) è quello di portare avanti una giustificazione per lo stato attuale delle cose. Poste così le cose persistono comunque notevoli problemi perché sia possibile scovare la verità - ovunque essa risieda - relativa a questo stato le cui origini si perdono nel tempo; innanzitutto ci si scontra con l’evidente assenza di documentazione relativa a quella che è la nascita dell’uomo per come lo intendiamo oggi, in secondo luogo con la mancanza di una metodologia adeguata per tentare una ricostruzione sperimentale. Viste tali mancanze non rimane che affidarsi alla più pura delle congetture razionali; quelli che difatti Rousseau propone nel discorso non sono che “ragionamenti ipotetici e condizionali […] simili a quelli che fanno quotidianamente i nostri fisici sulla formazione del mondo”. “Per rimontare allo stato di natura non è dunque sufficiente spogliare l’uomo - come hanno fatto coloro che hanno finora trattato dei fondamenti della società - soltanto delle acquisizioni politiche, sociali e culturali (mettendo magari in evidenza la miseria e l’infelicità di questo stato), ma anche “di tutte le facoltà artificiali che egli non ha potuto acquisire se non attraverso lunghi progressi”” . L’uomo che dunque viene presentato da 4 Rousseau è sì “tutto considerato, organizzato nel modo più vantaggioso a tutti gli altri” animali ma, proprio come questi, egli si preoccupa principalmente della propria conservazione, unico bisogno realmente riconducibile all’uomo primordiale (se non si contano quelli che riguardano la conservazione dell’intera specie). Da questa condizione ancestrale l’uomo non riesce a sfuggire Per la sua lungaggine e cattiva tradizione.1 Tale la risposta nella lettera di ringraziamento per l’invio di una copia omaggio da parte dell’autore.2 “Non nelle cose depravate, ma in quelle ben disposte secondo natura, dobbiamo esaminare ciò che è 3 naturale”. (Aristotele, Politica, I, 5, 1254a). Dall’introduzione di Luporini ai discorsi di Rousseau; p.21-22.4 1 nemmeno dando ascolto a quelle due qualità che lo distinguono - secondo Rousseau - dagli altri animali: libertà e perfettibilità; una sorta di risarcimento naturale all’evidente mancanza di istinto presente nell’uomo se confrontato con gli altri esseri viventi. Le funzioni dunque alle quali si può ricondurre l’esistenza primordiale dell’uomo sono puramente ed essenzialmente animali. L’uomo che Rousseau dipinge, disperso nell’enormità della fertile terra primigenia, al contrario di quanto asseriva Locke, non ha istinti sociali sviluppati neppure a livello di nucleo famigliare. Da questa assenza di sentimenti sociali però non si devono far derivare, come si potrebbe pensare e come voleva Hobbes, tendenze aggressive e sete di potere nei confronti degli altri uomini; tali sentimenti non sono in effetti primigeni né tanto meno naturalmente propri dell’individuo, ma sorgono proprio in relazione al processo di socializzazione; nel raro caso, afferma Rousseau, dell’incontro con il proprio simile, l’uomo naturale è spinto unicamente dal proprio istinto di conservazione (o “amor di sé) e dalla pietà verso tutti gli esseri viventi (altra caratteristica tipica dell’essere umano che, assieme alla libertà e alla perfettibilità, ne determina la natura). Il concetto di pietà quale affezione originaria è tanto interessante quanto determinante: essa fornisce all’uomo, non potendo pretendere - come hanno fatto i più - che egli riconosca una sorta di legge naturale, una linea guida comportamentale minima esprimibile secondo il motto: “Fa’ il tuo bene con il minor male possibile degli altri”. I rapporti tra gli uomini appaiono dunque, seppur non mossi dalla socievolezza, tutt’altro che aggressivi e mossi dalla sete di potere. L’uomo naturale è dunque in definitiva un individuo le cui conoscenze e passioni sono ridotte al minimo, perché tale è il grado richiesto dalla situazione in cui vive, un individuo solitario, autosufficiente e ben adattato all’ambiente. Per il quale la disuguaglianza (tanto naturale quanto sociale) non ha alcun peso: in primo luogo in quanto è proprio il processo di socializzazione che accentua la disuguaglianza naturale e porta all’istituzione di quella convenzionale e, in seconda istanza, perché essa non ha alcun effetto in un contesto a-sociale e pre-sociale e dunque non ha alcuna ragione d’essere. La condizione naturale dell’uomo, poste così le cose, sarebbe benissimo potuta rimanere inalterata nei secoli poiché nessuna ragione poteva giustificare il suo superamento. Questo invece accadde grazie ad un “fortuito concorso di parecchie cause esterne che avrebbero potuto non sorgere mai” le quali attivarono nell’uomo quella forza, fino ad allora rimasta celata nelle tenebre, che Rousseau chiama perfettibilità. Questa concezione di un superamento di per sé non necessario di quello che Starobinski chiama grado zero dell’umanità rappresenta un punto di originalità di Rousseau rispetto ad altri autori; Questi immagina difatti uno stato di natura “in sé conchiuso e immune da quelle carenze interne che facevano richiedere un immediato passaggio allo stato civile” . 5 Il fortuito concorso di parecchie cause, come lo si è definito, mette in moto un processo che porta all’acquisizione di una dimensione più specificamente umana ma, al contempo, rende l’uomo malvagio; egli non nasce crudele bensì tale diviene a causa della socializzazione. Questa visione in una certa misura assolve la natura, e sotto le sue vesti Dio in persona, da ogni responsabilità nei confronti del sorgere del male nel mondo; non a caso si è parlato della soluzione di Rousseau al problema della teodicea . Assolvendo la natura e dio, la responsabilità dell’esistenza del male viene 6 fatta ricadere direttamente sulla società e questo comporta un prezzo, come sottolinea Luporini, “giacché l’animalità del primitivo stesso finisce per configurare l’acquisizione di ciò che è propriamente umano come un processo di autocreazione di cui è protagonista l’umanità” . 7 Momento decisivo in quel processo che dallo stato di natura porta all’attuale civiltà è rappresentato dall’istituzione della proprietà privata, la cui drammaticità è resa appieno dalla capacità retorica di Rousseau. L’istituzione della proprietà privata rappresenta il fondamento della cosiddetta società civile e porta con sé conseguenze drammatiche, quest’avvenimento non rappresenta però un fenomeno indipendente ma è il risultato di un determinato processo come ci tiene a sottolineare Rousseau. Egli ripercorre difatti i vari passi che l’umanità ha dovuto compiere prestando particolare attenzione ai segnali anticipatori della disuguaglianza e dell’ostilità nei confronti degli altri uomini. Così, in quest’ottica, la pretesa superiorità dell’uomo sugli altri animali diviene il pretesto per istituire un Dall’introduzione di Luporini; p. 24.5 Termine coniato da Leibniz per riassumere il problema della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla 6 giustificazione della divinità e del suo operato. Ibidem.7 2 un’ombra immensa sulle reali fattezze del diritto naturale, in quanto esso è in ogni sua forma un’idea relativa proprio alla nostra natura (vedi critica ad Hobbes e Locke nell’introduzione, teorie come giustificazione dello stato attuale delle cose). Segue un’aspra critica alla concezione moderna di legge naturale e in particolare alle idee avanzate, rispetto a questa tematica, dai due più grandi rappresentanti della tradizione giusnaturalista (Locke e Hobbes, vedi il testo critico). Rousseau afferma che i moderni intendono la legge come una regola prescritta ad un essere morale, dunque intelligente e libero, considerato in un contesto sociale e così facendo finiscono con il limitare al solo e - si vuole - unico animale dotato di ragione il privilegio di cogliere la legge naturale. “Ma, definendo questa legge ognuno a modo suo, tutti la fondano su principi così metafisici, che anche fra noi ben pochi sono in grado di comprenderli, ben lungi dal poter trovarli da sé. Di modo che tutte le definizioni di questi sapienti, del resto in perpetua contraddizione fra loro, s’accordan solo in questo punto, che è impossibile intendere la legge di natura, e per conseguenza obbedirla, senz’essere un eminente ragionatore e un profondo metafisico: ciò che significa precisamente che gli uomini han dovuto usare, per la fondazione della società, poteri intellettuali, che si sviluppan solo a gran stento e in ben pochi uomini nel seno della società stessa”. Il grande difetto per quanto riguarda tutte le definizioni di legge naturale sta principalmente nel fatto che, oltre a non essere mai uniformi l’una con l’altra, tutte assieme presuppongono una quantità di conoscenza assai lontane da quelle alle quali l’uomo naturale - ammesso che sia esistito - ha accesso . Occorre a questo punto che si faccia qualche passo avanti 10 sulla questione, due termini sono necessari affinché sia possibile a tutti gli effetti parlare di legge naturale: primariamente è necessario che la volontà di colui che è obbligato possa sottoporvisi con conoscenza (Beccaria) ma, non meno importante, che questa obbligazione parli “con la voce della natura”. Rousseau procede a questo punto lasciando da parte tutti i libri scientifici che poco possono aiutare colui che tenta di vedere l’uomo quale è naturalmente e guarda dritto in se stesso al fine di scorgere le più semplici operazioni dell’anima umana; due sono i principi che muovono l’animo umano ancor prima della ragione: l’uno interessa il nostro benessere e ci spinge alla conservazione, l’altro ci porta a mal sopportare il veder soffrire o perire qualsivoglia essere sensibile. É dal concorso e dalla combinazione di questi due principi - in quanto comuni a tutti gli uomini - che nascono tutte le nostre cosiddette leggi naturali; in questo modo, dice Rousseau, “non si è obbligati a fare dell’uomo un filosofo prima di farne un uomo”, non sarà perché risponde ad una qualche legge morale superiore che l’uomo di natura non farà del male al suo simile o ad altri esseri sensibili, ma per semplice compassione e ripugnanza nei confronti del dolore (a patto che non sia spinto a fare ciò dal suo spirito di conservazione). Molto importante è il parlare di R. di esseri sensibili e non, come fanno i moderni, razionali, ciò fa sì che anche gli animali, seppur non propriamente razionali, debbano sottostare al diritto naturale e che noi si abbia, nei loro confronti, dei doveri: “Sembra infatti che, se io sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché egli è un essere ragionevole, quanto perché è un essere sensibile, qualità che, essendo comune alla bestia e all’uomo, deve almeno dare alla prima il diritto di non essere maltrattata inutilmente dal secondo”. Lo studio dell’uomo, ciò che l’autore si accinge a fare, è necessario affinché si rendano visibili le basi incrollabili della società e si impari a rispettarle; sebbene a prima vista la società umana non sembra mostrare altro che la violenza degli uomini potenti e l’oppressione dei deboli, debolezza e potenza, ricchezza e povertà, ecco che invece essa ha delle fondamenta che consistono in ciò che l’uomo è prima di ogni razionalizzazione, in ciò che primariamente muove il suo animo: conservazione di sé e compassione. Questione: Quale è l’origine della disuguaglianza fra gli uomini e se essa è autorizzata dalla legge naturale É bene per iniziare fare una prima distinzione: vi sono di fatto due disuguaglianze fra gli uomini l’una è naturale (differenze di età, salute, forza e dell’animo), l’altra la possiamo definire politica o morale, in quanto istituita per convenzione - o quanto meno permessa - dal consenso degli uomini; Come per Montesquieu così anche per Rousseau è necessario che la legge di natura sia alla portata di 10 uomini pre-sociali. 5 quest’ultima, che istituisce i privilegi dei quali alcuni uomini godono a danno degli altri, è quella della quale ci occuperemo; ricercare l’origine della prima infatti non consisterebbe in altro che nel dare una definizione della parola “naturale”. Lo scopo del discorso è ben chiaro: “segnare nel corso delle cose il momento in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; per spiegare per quale concatenazione di prodigi il più forte abbia potuto risolversi a servire il più debole, e il popolo a comperare una quiete immaginaria a prezzo d’una felicità reale”. La critica ai precedenti “teorici dello stato di natura” si fa pungente poiché, come dice Rousseau, volendo tutti fondare l’origine della società in esso nessuno vi è arrivato; alcuni hanno attribuito all'uomo in questo stato la nazione del giusto e dell’ingiusto, altri hanno parlato di proprietà, tanto i primi quanto i secondi senza spiegare come queste nozioni si siano sviluppate in seno all’uomo naturale né come potessero essergli utili. Tutti infine hanno parlato di avidità, oppressione, desiderio, orgoglio non facendo altro che, tentando di toccare l’uomo di natura, dipingere l’uomo civile. Non sembra essere andata diversamente nemmeno secondo la tradizione cristiana, avendo dato Dio in persona al primo uomo intelligenza e precetti. Prima di procedere alla trattazione vera e propria Rousseau ci tiene a sottolineare che ciò che verrà letto non deve essere assunto in nessuna maniera come verità storica ma piuttosto come ragionamenti ipotetici e condizionali. “O uomo, quale che sia il tuo paese, quale che siano le tue opinioni, ascolta: ecco la tua storia, quale ho creduto leggerla, non nei libri dei tuoi simili, che son menzogneri, ma nella natura, che non mente mai. Tutto ciò che verrà da lei sarà vero; non ci sarà di falso se non quello che io vi avrò mescolato di mio senza volerlo.” Prima parte Rousseau nel considerare l’uomo di natura lo vede quale è oggi ergersi su due gambe usufruendo delle mani e degli occhi così come noi facciamo tutti i giorni, spoglio solo di ciò di “soprannaturale” e artificiale abbia potuto acquistare seguendo un lungo cammino; appare così un animale piuttosto debole e poco agile se comparato agli altri, ma non per questo meno ben organizzato visti i suoi bisogni ridotti. Quest’uomo, temprato dalla natura che, come a Sparta, lascia vivere solo coloro che sono in grado di affrontare le più grandi difficoltà non è né intrepido, sempre pronto ad assalire e combattere come credeva Hobbes, né tantomeno insicuro e impaurito, bensì ben presto dovendo in ogni caso misurarsi con gli altri esseri, si accorge di poterli battere in destrezza tanto quanto loro possono nei suoi confronti grazie alla forza ed impara a non temerli più di quanto loro non abbiano in timore lui stesso. I più grandi nemici contro i quali nessuna destrezza può sopravvivere rimangono solo le infermità naturali, la vecchiaia, le malattie e la morte. In questo l’uomo non sembra differire delle altre specie, ciò con un solo vantaggio: portando sempre il figlio con sé la madre è molto più facilitata nel nutrirlo e nell’assisterlo e a ciò non si deve aggiungere, come svantaggio, un’infanzia più lunga, anche più lunga è la vita se paragonata a quella di altri animali. La mancanza della medicina non sembra creare, agli occhi di Rousseau, un problema; le malattie sono proprie più che altro dell’uomo civilizzato, questo a cagion del suo stile di vita innaturale, da un lato dedito ai piaceri più dissoluti ed alle pietanze più ricercate, dall’altro caratterizzato dall’eccesso di lavoro e dalla mancanza di cibo per i più poveri: “ecco le funeste prove che la maggior parte dei nostri mali sono opera nostra, e che noi li avremmo evitati quasi tutti, conservando la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria, che ci era prescritta dalla natura”. Avendo quindi poche fonti di mali, o comunque non più di quelle che hanno tutti gli altri animali, l’uomo non necessita di rimedi né, tanto meno, di medici. Non dobbiamo, anche in questo caso, confondere l’uomo selvaggio con quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, la natura tratta con ugual predilezione tutti gli animali lasciati alle sue cure, e così come gli animali che abbiamo reso domestici se comparati agli stessi ma selvaggi sembrano essere privi di forza, così doveva essere anche per l’uomo lasciato vivere secondo natura, e tutti gli sforzi che facciamo sia per curare noi che i nostri animali, sebbene sembrino recar giovamento, in realtà non fanno che indebolirci: “diventando socievole e schiavo, diventa debole, timoroso, strisciante: e la sua maniera di vivere molle ed effemminata finisce per snervare a un tempo la sua forza e coraggio”, e questa condizione sembra essere ancor più aggravata negli uomini che non negli animali addomesticati, essendo che i primi si permettono maggior vantaggi e lussi. 6 Le mancanze alle quali sempre ci troviamo intenti a riflettere quando si parla dell’uomo naturale, siano la nudità o la mancanza di abitazione, sono nella realtà dei fatti occasioni date all’uomo di temprare il proprio carattere ed il proprio fisico che manifestano l’inutilità di ciò che maggiormente riteniamo necessario: “Il primo che si fece abiti e una casa diede con ciò a se stesso cose poco necessarie, poiché ne aveva fatto a meno sino ad allora”. Essendo sempre vicino al pericolo l’uomo naturale dorme di gusto molto più di quanto non faccia oggi (dormendo, come gli animali, ogni volta che non si da’ a pensare) ma sempre col sonno leggero; le qualità che avrà maggiormente sviluppare saranno quelle che si renderanno utili alla sua sopravvivenza, dunque quelle che hanno per oggetto principale l’assalto e la difesa. Tutte le altre capacità, nell’uomo civile tanto sviluppate, che si perfezionano con la mollezza e la sensualità, saranno nell’uomo di natura a dir poco rozze. Passiamo ora da considerazioni fisiche a quelle di carattere morale, si lasci passare il termine. Ecco che l’uomo inizia a discostarsi dagli altri animali, ciò che lo distingue è propriamente la sua libertà, caratteristica che può pagare a caro prezzo poiché, se gli animali non sono in grado di fare altro che rispondere alla natura e di conseguenza una mucca potrebbe anche morire di fame di fronte ad un piatto di carne (come questo si possono trovare molti altri esempi), ecco che l’uomo è in grado di scegliere come comportarsi e ciò, sebbene lo possa aiutare in molte situazioni, in altrettante può portarlo a recarsi gravi danni, in grado com’è di allontanarsi dalla regola che la natura gli ha prescritto. Il libero arbitrio è propriamente l’unica qualità dell’animo umano che lo distingue da qualsivoglia animale, viene così meno il primato della ragione umana poiché, come scrive Rousseau, avendo gli animali i sensi essi hanno anche idee e sono in grado di combinarle fra loro, non vi è sotto questo rispetto grande differenza fra l’uomo e la bestia: “La natura comanda a ogni animale, la bestia obbedisce. L’uomo prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di resistere; e nella coscienza di questa libertà, sopra tutto, si mostra la spiritualità della sua anima”. Vi è poi una seconda peculiarità tutta umana che R. chiama “perfettibilità”: la capacità, propria dell’uomo, di perfezionarsi nel tempo e secondo necessità. Questa spiega come l’uomo sia il solo soggetto a divenir imbecille. Come il carattere di libero arbitrio anche questa facoltà nasconde delle problematiche, grazie ad essa l’uomo si trae fuori da quella condizione naturale in cui la Provvidenza l’aveva sapientemente posto. Essa col suo operato ha fatto sbocciare nei secoli tanto l’intelligenza quanto i suoi errori e i suoi vizi. L’uomo sarà in grado, inizialmente, di percepire e sentire, ciò lo accomuna a tutti gli animali; a queste prime e più semplici operazioni si aggiungeranno col tempo il voler ed il non volere, il desiderare ed il temere, segno della sua peculiarità. Dobbiamo molto anche alle nostre passioni senza le quali mai si sarebbe perfezionata la nostra ragione, è quanto mai lampante che noi conosciamo e ragioniamo per desiderio, per amore, né mai si darebbe tanta pena di ragionare e conoscere chi non abbia nel suo animo grandi passioni. Le passioni dell’uomo selvaggio saranno oltremodo semplici, essendo infatti che esse nascono dai nostri bisogni ed essendo questi in lui limitati alla mera sopravvivenza: cibo, donna e riparo, altrettanto esigue saranno le cose che l’uomo naturale si darà la pena di temere: la fame ed il dolore (non la morte!). Posto in questa condizione tutto sembra allontanare dall’uomo selvaggio il desiderio di essere tale, la sua immaginazione non gli dipinge nulla al di fuori di quello che già ha o può procurarsi e lo stesso vale per il suo cuore, i suoi bisogni sono facilmente soddisfatti; “la sua anima si abbandona al solo sentimento dell’esistenza attuale senza idea dell’avvenire, per quanto prossimo; i suoi disegni limitati al pari delle sue vedute, si estendono appena sino al termine della giornata”. Comprendere come da questo stato di natura l’uomo si sia tratto fino a divenir tale e quale è oggi è quanto mai arduo, molti casi fortuiti devono essere intervenuti per apprendere quelle che oggi sono le più banali operazioni, come accendere un fuoco o coltivare la terra affinché produca il necessario, innumerevoli volte inoltre i nostri antenati devono aver fallito ed altrettante volte ciò che avevano scoperto deve essere morto con loro. Ma supponiamo che sia arrivato un momento nella storia dell’uomo che esso si era tanto moltiplicato che le sole produzioni naturali non bastavano a sfamarne la prole, e che per qualche supposizione fortuita essi abbiano, vinto l’odio per il lavoro continuo, imparato a fabbricarsi i primi utensili e a lavorare la terra, e via via abbiano coltivato le conoscenze più complesse a riguardo; rimane comunque molto difficile comprendere cosa abbia spinto l’uomo, che prima godeva di pace e tranquillità, sopportare la fatica del lavoro, della produzione agricola. “In una parola, come questa condizione potrà indurre gli uomini a coltivar la terra, finché questa non sarà divisa fra loro, ossia finché lo stato di natura non sarà distrutto?”. 7 “Ma quand’anche la natura ostentasse, nella distribuzione dei suoi doni, tante preferenze quante si pretende, che vantaggio i più favoriti trarrebbero dal danno degli altri, in uno stato di cose che non ammetterebbe quasi relazioni di sorta tra loro? Là, dove non c'è amore, a che servirà la bellezza? Che serve lo spirito a gente che non parla, e l’astuzia a chi non ha affari? Sento ripetere sempre che i più forti opprimeranno i più deboli. Ma mi si spieghi che mai si voglia dire con questa parola oppressione. Gli uni domineranno con violenza, gli altri gemeranno, asserviti a tutti i loro capricci. Ecco precisamente ciò che osservo fra noi; ma non veggo come ciò potrebbe dirsi degli uomini selvaggi, cui anzi si stenterebbe oltre modo a fargli intendere che cosa siano servitù e dominio. Un uomo potrà bensì impadronirsi dei frutti che un altro abbia colti, della selvaggina che abbia ucciso, dell’antro che gli servisse d’asilo; ma come verrà mai a capo di farsene obbedire? E quali potranno essere le catene della dipendenza, fra uomini che nulla posseggono? Se mi si scaccia da un albero, sono libero di andare a un altro; se mi si tormenta in un luogo, chi mi impedirà di passare altrove? Si trovi un uomo di forza tanto superiore alla mia, e per giunta tanto depravato, pigro e feroce, da costringermi a provvedere alla sua sussistenza mentre egli resti ozioso; bisogna che si decida a non perdermi di vista un istante […]; ossia è obbligato ad esporsi volontariamente a fatica molto maggiore di quella che vuole evitare”. Parte seconda “Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovo persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno””. La seconda parte, nucleo centrale del discorso, si apre con una potente forma retorica; ecco che si inizia a delineare la causa ultima e fondante della società così come noi la intendiamo; questa si forma soltanto grazie all’istituzione della proprietà privata e, attraverso di essa, a sua volta si struttura. É però chiaro che un’idea complessa e altresì lontana dall’istinto naturale, quale quella di proprietà, deve aver avuto un genesi altrettanto tortuosa in quanto dipende da innumerevoli idee anteriori e non può essere, come si suol dire, spuntata tutta d’un tratto nell’animo umano. Il primo sentimento che l’uomo sperimenta, come abbiamo visto nella prima sezione, è quello della propria esistenza, a questo si aggiunge immediatamente la cura (amor di sé) per la propria conservazione; per soddisfare tale istinto bastavano i frutti che la terra offriva, disinteressata e naturalmente, all’uomo così come agli altri animali; i rapporti tra individui erano a dir poco sporadici se non addirittura assenti, fatta eccezione per quelli volti a perpetuare la specie, soddisfatti i bisogni venivano meno anche i rapporti, lo stesso dicasi del legame madre figlio, vincola di pura necessità. Le cose, col tempo, debbono aver iniziato a complicarsi, si presentarono le prime difficoltà e bisognò che l’uomo facesse appello a tutte le sue facoltà perché riuscisse a superarle, imparò così a utilizzare le prime e più semplici armi, come pietre e bastoni, per difendersi, e via via divenne sempre più abile; la situazione si complicò ulteriormente quando il genere umano iniziò ad estendersi notevolmente, a ciò si deve aggiungere che le differenze naturali, di terreni così come di climi, devono aver portato ad altrettante differenze nei modi di vivere, nuove e sempre maggiori difficoltà si presentarono all’uomo che, determinato, trovava nuovi modi per superarle e resistere; così “annate sterili, inverni lunghi e rudi, estati ardenti, che consumano tutto, li costrinsero a nuove industriosità. Lungo il mare e i fiumi inventarono la lenza e l’amo, e divennero pescatori e mangiatori di pesce. Nelle foreste si fecero archi e frecce, e diventarono cacciatori e guerrieri. Nei paesi freddi si coprivano delle pelli delle bestie che avevano uccise. Il fulmine, un vulcano, o qualche caso fortunato fece conoscere loro il fuoco, nuovo soccorso contro il rigore dell’inverno: impararono a conservare questo elemento, poi a riprodurlo, e infine a preparare con esso le carni, che prima divoravano crude”. Via via che le sue capacità manuali si sviluppavano altrettanto doveva accadere a quelle intellettuali, gli uomini iniziarono così ad aver percezioni di rapporti che probabilmente prima ignoravano, ciò facilitò in lui una riflessione, una sorta di prudenza che gli mostrava le precauzioni più necessarie alla propria sicurezza. Lo sviluppo delle proprie capacità intellettuali deve sicuramente aver aumentato la “superiorità” sugli altri animali, e questo a sua volta deve averlo reso in un qualche modo orgoglioso di sé e “considerandosi già al primo grado come specie, si preparava da lungi a pretendervi come individuo”. Le 10 accresciute capacità intellettuali devono, col tempo, aver reso evidente quello che era un legame fino allora rimasto in ombra, quello con i propri simili: l’uomo si iniziò ad accorgere di conformità tra lui e gli altri, nel loro modo di pensare, di comportarsi, che prima gli erano pressoché ignote. E questa verità scoperta tutta d’un tratto dovette rimanere col tempo ben impressa nel suo spirito tanto da portarlo ad un presentimento non meno felice e sicuro: in un ambiente impervio poteva fare affidamento sui suoi simili, così come loro su di lui; si accorse che era meglio mantenere una determinata forma di condotta nei loro confronti, e questo per reciproco vantaggio e sicurezza. Ecco che in tale maniera si inizia a formare, tra uomini che prima ignoravano qualsiasi forma di congettura a riguardo, una qualche rozza idea di impegno reciproco e del vantaggio materiale che tale impegno poteva produrre. A ciò non si deve fare l’obiezione data dal fatto che una qualche forma di linguaggio doveva essere necessaria, si stavano iniziando a porre le basi per la sua necessità, ciò è ovvio, man mano che i rapporti si facevano via via sempre più complessi, ma fino a questo punto bastavano pochi e rozzi suoni, come capita di vedere tra quegli animali che si imbrancano più o meno nella stessa maniera. Con il progresso degli ingegni si assecondavano anche delle prime comodità fino ad allora ignote, si trovò il modo di costruirsi delle prime e rudimentali capanne, così da non doversi più accontentare dei più fortuiti ripari. Ciò porto, come sottolinea Rousseau, ad una prima grande rivoluzione che generò l’istituzione e la distinzione delle famiglie, introducendo una prima sottile forma di proprietà e con essa, molto probabilmente, nacquero le prime contese. L’abitudine di vivere insieme, questa nuova e più felice condizione, fece nascere anche i più dolci sentimenti dell’animo umano: l’amor coniugale e quello paterno. Si istituirono in concomitanza a ciò anche le prime distinzione nelle maniere di vivere fra i due sessi che fino ad allora ne avevano avuta una sola, e con ciò si iniziò a perdere, un poco alla volta, l’antico vigore. Vista la limitatezza dei loro bisogni e la sempre maggior facilità a provvedervi, gli uomini iniziarono a permettersi sempre più agi e questo, come sottolinea categoricamente Rousseau, fu il primo giogo che gli esseri umani s’imposero senza pensarci, la prima fonte dei mali delle nostre società. Le comodità si trasformarono col tempo in veri e propri bisogni e si dovette procedere con l’inventarne sempre di nuove e maggiori, “ne divenne più crudele la privazione che dolce il possesso; e s’era infelici nel perderle, senz’essere felici nell’averle”. Lo stato di natura così come lo descrive Rousseau inizia a lasciare il posto ad una nuova condizione, tutto cambia faccia; gli uomini iniziano lentamente ad accostarsi l’un l’altro prendendo sede stabile, fondando così piccoli nuclei sociali accomunati non già da leggi o istituzioni bensì da un comune modo di vivere. All’interno di una vita sociale le affezioni del nostro animo si complicano e strutturano, i bisogni aumentano, l’unione sessuale puramente fisica lascia sempre più il posto ad una non meno dolce dettata non più unicamente dall’esigenza; gli uomini iniziano così ad acquistare idee di merito e di bellezza che portano a preferenze. Con l’amore (morale) si sveglia anche la più forte gelosia, il furore impetuoso dell’animo, il voltafaccia della più dolce delle passioni. La vita con i propri simili porta l’uomo a considerare gli altri e ciò fa sorgere subitamente in lui il desiderio di essere a sua volta considerato, inizia così ad essere presa in conto la stima che gli altri nutrono per noi: “chi cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più destro o il più eloquente divenne il più stimato; ed ecco il primo passo verso la disuguaglianza e verso il vizio insieme: da queste prime preferenze nacquero da un lato la vanità e il disprezzo, dall’altro la vergogna e l’invidia; e il ribollimento, generato da questi nuovi fermenti, produsse infine composti funesti alla felicità e all’innocenza”. Ecco dunque con la vita in società, di fronte all’occhio dell’Altro che sorgono i primi segni di una disuguaglianza fino ad allora assente. Quando alla fine gli uomini, ormai abituati a vivere vicini l’un l’altro, cominciarono ad apprezzarsi a vicenda, ecco che l’idea di stima si formò nei loro animi così che tutti pretesero ugualmente di avervi diritto, nessuno escluso; si complicano così maggiormente i rapporti, nacquero i primi doveri di civiltà, i torti e gli oltraggi si fecero strada fra le comunità e le vendette divennero col tempo sempre più temibili, punendo infatti ognuno “le attestazioni di disprezzo in modo proporzionato alla stima che faceva di se stesso” diventammo sanguinari e crudeli. É questo secondo Rousseau che hanno descritto, presi dalla fretta e dalla convinzione di aver finalmente trovato lo stato di natura, coloro i quali hanno affermato che l’uomo è naturalmente crudele, che abbia bisogno della civiltà per addolcirsi, ben lungi dal vedere che proprio quella civiltà l’aveva reso una bestia molti non si sono resi conto che “non v’è essere più dolce di lui nel suo stato primitivo, quando, posto dalla natura ad eguale distanza dalla stupidità dei bruti e dall’intelligenza funesta dell’uomo civile, e limitato ugualmente dall’istinto e 11 dalla ragione a difendersi dal male che lo minacci, è trattenuto in virtù della pietà naturale dal far lui stesso male ad alcuno, senz’esservi spinto da nulla, neanche dopo averne ricevuto”. In questo stato non più naturale ma non ancora civile si inizia ad introdurre la moralità nelle azioni umane, ognuno è, vista la mancanza delle leggi, al contempo giudice e vendicatore dei torti ricevuti, e “toccava al terrore della vendetta di tener luogo del freno delle leggi”. Sebbene l’uomo fosse diventato meno tollerante e la pietà naturale avesse già sofferto qualche alterazione, questa è secondo Rousseau l’epoca più felice del genere umano, essendo il “giusto mezzo” tra l’indolenza dell’uomo primitivo e l’eccessiva attività del nostro amor proprio nell’epoca moderna, la meno soggetta a rivoluzioni e di conseguenza la più durevole, l’uomo, insomma, era fatto per restarci. Come dice l’autore da quest’epoca l’uomo deve esserne uscito dopo un tempo difficile a determinarsi per un qualche caso funesto; la metallurgia e l’agricoltura furono le due arti che produssero tale rivoluzione: “per il filosofo sono il ferro e il grano gli autori della civilizzazione degli uomini e della perdizione del genere umano. Così l’uno come l’altro erano sconosciuti ai selvaggi d’America, che per ciò sono rimasti sempre tali”. Queste due invenzioni umane si compensano a vicenda, dato che c’era bisogno di molti uomini per fondere e forgiare il ferro ve n’era altrettanto bisogno nei campi per nutrire quelli e questi aumentavano con quelli, quelli con questi: “come bisognarono agli uni derrate in cambio del ferro, gli altri trovarono infine il segreto d’impiegar il ferro per la moltiplicazione delle derrate. Quindi nacquero da una parte l’aratura e l’agricoltura, dall’altra l’arte di lavorar i metalli e di moltiplicarne gli usi”. L’agricoltura portò necessariamente con sé la proprietà privata poiché dalla lavorazione della terra ne derivò col tempo la spartizione, e da questa prima proprietà, una volta riconosciuta, le prime leggi, la giustizia. In ciò Rousseau sembra prendere molto da Locke per il quale la proprietà privata non poteva non fondarsi su altro che sul lavoro, non avendo altro da metterci l’uomo per far proprie le cose. A questa situazione si aggiunse la diversificazione degli ingegni, nulla sarebbe cambiato, per esempio, se l’uso del ferro e la consumazione delle produzioni si fossero sempre ugualmente bilanciate, ma i più forti iniziarono a lavorare maggiormente, i più svegli riuscivano a trarre maggior guadagno dal proprio lavoro come il più ingegnoso a far meno fatica. Così si iniziarono a creare i primi divari fra gli uomini, lavorando ugualmente gli uni producevano di più mentre gli altri stentavano a vivere; “Così la disuguaglianza naturale si svolge insensibilmente con quella di combinazione; e le differenze degli uomini, sviluppate da quelle delle circostanze, si rendono più sensibili, più permanenti nei loro effetti”. Poste così le cose, dice Rousseau, è facile immaginare il resto. Ma guardiamo più affondo questo nuovo stato di cose; all’interno di questo nuovo contesto sociale nasce, come si è già accennato, la necessità dell’apparire in un determinato modo, l’uomo in poche parole, di fronte allo sguardo dei suoi simili al quale da’ sempre maggior importanza, si rende conto della necessità di possedere determinate qualità, si pensi alla bellezza, all’intelligenza, alla forza e molte altre, poiché solo attraverso di esse si può attirare l’attenzione dei propri simili; col tempo ci si rese sempre più conto che queste qualità, fino ad allora di poco conto, in un certo senso fin ad allora non propriamente esistite, era bene possederle o fingerle, insomma: l’essere e l’apparire divennero due cose ben distinte da una che era, si rendeva utile per la prima volta apparire diversi da ciò che realmente si è e con questa distinzione nacquero la maggioranza dei nostri vizi, “il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi che ne sono il corteo”. Da libero ed indipendente che era nella sua condizione naturale, ecco l’uomo asservito ad una molteplicità di bisogni, o creduti tali, di relazioni che stenta a comprendere fino a fondo, assoggettato a tutta la natura e, ancor più, ai propri simili, “di cui diventa in un certo senso lo schiavo, anche diventandone il padrone”. Le prime ricchezze, prima che si inventassero dei segni rappresentativi di esse, non potevano che consistere in terre ed animali, ecco i solo beni reali che gli uomini potessero possedere. Ma quando queste proprietà iniziarono ad estendersi e a moltiplicarsi i loro proprietari, eccole toccarsi l’un l’altra, così che nessuno potesse arricchirsi maggiormente se non a danno altrui. E quelli che di fronte a questi sconvolgimenti fino ad allora impensabili non avevano voluto cambiare eccoli ora obbligati a ricevere la sussistenza dalle mani dei ricchi; ecco nascere, per gli uni e per gli altri, la dominazione e la servitù. A quella che era un tempo l’uguaglianza naturale, toccata solo dalle disuguaglianze fisiche che la natura distribuiva innocentemente al momento della nascita, ecco subentrare un orribile disordine: “le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi”. Eccolo qui lo stato di guerra al cui la neonata società lascia spazio. 12
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved