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"Discorso sulla disuguaglianza", Rousseau, Appunti di Storia Della Filosofia

Discorso sull'origine della disuguaglianza - Rousseau. Scritto in occasione di un concorso bandito dall'Accademia di Digione nel 1754 sul tema: «Qual è l'origine dell'ineguaglianza tra gli uomini e se essa è autorizzata dalla legge naturale », il Discorso fu pubblicato ad Amsterdam nel 1755.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 06/05/2020

Hajara11
Hajara11 🇮🇹

4.5

(46)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica "Discorso sulla disuguaglianza", Rousseau e più Appunti in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! DISCORSO SULL’INUGUAGLIANZA DI ROUSSEAU Prefazione La più utile e la meno progredita delle conoscenze umane è la conoscenza dell'uomo—> l'uomo deve conoscere se stesso. Per conoscere l'origine della disuguaglianza tra gli uomini bisogna prima conoscere gli uomini stessi, e per far ciò bisogna conoscere l'uomo naturale, scavando attraverso tutti i detriti accumulatisi, tutti i cambiamenti che la sua costituzione originaria ha subìto, separando ciò che è proprio della sua essenza da ciò che gli è derivato dalle circostanze e dai progressi. Rousseau fa un paragone con Glauco, pescatore che dopo aver mangiato una pianta che rendeva immortali, saltando in mare divenne un dio marino (Platone nel X libro della Repubblica riprende tale immagine in riferimento all'immortalità dell'anima); la vita infondo al mare ha però profondamente sfigurato il suo corpo—> l'essenza originaria dell'anima umana è stata alterata non dal contatto con la natura (come nel mito platonico), ma dall'allontanamento dallo stato di natura. Infatti secondo Rousseau, l'anima umana è stata alterata con la vita in società dall'acquisto di una quantità di conoscenze ed errori, dai mutamenti della costituzione del suo corpo e dall'urto continuo con le passioni, che hanno mutato il suo aspetto in modo tale da renderlo pressoché irriconoscibile. Il progresso è ciò che allontana l'uomo dalla sua condizione originaria e facendogli accumulare nuove conoscenze lo allontana da quella più importante. Gli uomini sono per natura uguali tra loro, noi dobbiamo capire come erano e che cosa li ha diversificati. Queste considerazioni vengono presentate da Rousseau come semplici congetture. Il suo obiettivo è cercare di distinguere ciò che vi è di originario da ciò che vi è di artificiale nella natura attuale dell’uomo e conoscere bene lo stato di natura, che non esiste più, e probabilmente non è nemmeno mai esistito (non è un'impresa storica la sua)—> ciò è tuttavia importante per valutare bene circa lo stato presente dell'uomo. L'origine non è dunque una realtà storica ma un punto di osservazione della realtà presente. E' questa ignoranza sulla natura umana che getta tanta incertezza e oscurità sulla definizione di diritto naturale. Gli antichi e i moderni hanno una concezione diversa di diritto naturale: - antichi: concezione descrittiva della legge naturale—> rapporti generali stabiliti dalla natura fra tutti gli esseri animati (legge che quindi assoggetta sia gli uomini che gli animali, non c'è scelta né libertà) per la loro comune conservazione. Obiezione: una legge è tale se vi è la possibilità di fare altrimenti. - moderni: concezione prescrittiva della legge naturale—> regola prescritta ad un essere morale, libero e quindi intelligente nei suoi rapporti con gli altri esseri, l'uomo. Obiezione: di difficile comprensione. Le definizioni del diritto naturale che si trovano nei libri, oltre al difetto di essere diverse tra loro, hanno quello di essere ricavate da conoscenze che non appartengono per natura agli uomini. Finché non conosceremo l'uomo naturale non sarà possibile determinare il diritto naturale. Tutto ciò che possiamo vedere chiaramente su questa legge, per essere legge, implica una scelta (quindi la possibilità di fare altrimenti), e per essere naturale, deve essere immediatamente comprensibile. Decide perciò di lasciare da parte i libri, meditando solo sulle prime e più semplici operazioni dell'anima umana— > così facendo ha colto due princìpi anteriori alla ragione (elementari, immediati in ogni uomo): 1. benessere e autoconservazione 2. ripugnanza naturale nel vedere morire o soffrire qualunque essere sensibile (compassione, pietà) Questi principi prescindono dalla ragione e dalla socievolezza. In questo modo non si è costretti a fare dell'uomo un filosofo prima ancora di averne fatto un uomo: i suoi doveri verso gli altri non gli sono indicati soltanto dai tardivi insegnamenti della saggezza. Poiché tali leggi prescindono dalla ragione e derivano dalla sensibilità, al diritto naturale partecipano anche gli animali: non faccio male al mio simile non perché è un essere ragionevole, ma in quanto è un essere sensibile. Se guardiamo alla società essa rivela solo la violenza dei potenti e l'oppressione dei deboli—> si tratta di relazioni esteriori prodotte dal caso, chiamate debolezza e potenza, ricchezza e povertà. Le istituzioni umane sembrano al primo sguardo fondate su un mucchio di sabbie mobili—> bisogna rimuovere la polvere e la sabbia per arrivare alle fondamenta. Discorso Distingue due tipi di disuguaglianza - fisica/naturale: basata sulle differenza di età, salute, forza corporea, qualità dell'anima - morale/politica: deriva da una convenzione stabilita o almeno approvata dagli uomini, che consiste nei diversi privilegi (essere più ricchi, onorati, potenti rispetto ad altri)—> tali privilegi non sono giustificati da qualità naturali. Oggetto del discorso: indicare nel progresso delle cose il momento in cui la natura fu sottomessa alla legge e spiegare per quale serie di miracoli il più forte ha potuto acconciarsi a servire il più debole e il popolo a comprarsi una pace teorica a prezzo di una felicità reale. Critica ai filosofi precedenti, che per esaminare i fondamenti della società hanno sentito il bisogno di risalire allo stato di natura, senza arrivarci davvero: - Grozio: immagina che nello stato di natura ci sia già il giusto e l'ingiusto - Locke: immagina che nello stato di natura vi sia la proprietà - Hobbes: dando al più forte l'autorità sui più deboli, ha fatto nascere subito il governo, senza - in lui la distanza tra le semplici sensazioni e la conoscenza è minima, ed il suo sviluppo successivo ha ingrandito questa distanza mediante l'aiuto della comunicazione e il pungolo della necessità. - La nascita del linguaggio Anche a immaginare come fanno alcuni pensatori (erroneamente secondo Rousseau) un uomo naturale abile nel pensare, in possesso di idee astratte con cui forma regole di giustizia ed ordine, come potrebbe determinare il progresso se questa metafisica non può venire comunicata e se il genere umano vive sparso nei boschi? L'uomo di natura è solitario, gli uomini vivono sparsi senza fissa dimora e si incontrano molto raramente, perciò non hanno la possibilità di perfezionarsi a vicenda, non si riconoscono né si parlano. La parola e la grammatica sviluppano le idee dell'intelletto, ne facilitano le operazioni, ma affinché le lingue si formassero e si diffondessero sono serviti secoli e secoli, e migliaia di anni perché l'intelletto potesse svolgere le operazioni che gli competono. L'origine delle lingue pone alcune difficoltà perché non si capisce quale potesse essere stata la necessità di tale invenzione in quanto l’uomo viveva solitario e con i suoi simili non aveva relazioni quasi di nessun tipo. Non si può dire che il linguaggio verbale si è sviluppato nell'ambito delle relazioni familiari perché significherebbe sovrapporre l'idea della famiglia tratta dalla società allo stato di natura. Ognuno viveva per conto proprio, non vi erano posti stabili per alloggiare e vivere, né proprietà di ogni sorta, vi erano continui spostamenti e anche le unioni tra maschi e femmine avvenivano in occasione di incontri casuali sotto la spinta del desiderio del momento. La relazione in cui possiamo ipotizzare l'invenzione di una lingua per un qualche bisogno di comunicazione è quello tra madre e figlio: questo ha più necessità di comunicare alla madre i propri bisogni, ma una volta cresciuto il bambino lasciava la madre e, perdendo anche la capacità di riconoscersi tra loro, svolgendo una vita nomade e vagabonda, la lingua non aveva tempo per consolidarsi. Lasciando da parte l'indagine sulla necessità di una lingua nello stato di natura, supponendo che questa fosse divenuta per un qualche motivo necessaria, riflette su come avesse potuto stabilirsi. Qui sorge una più grande difficoltà, perché se gli uomini hanno avuto bisogno delle parole per iniziare a pensare, hanno anche avuto bisogno di saper pensare per trovare la parola. Possiamo immaginare che le prime parole esprimessero idee relative ad oggetti sensibili che potevano essere indicati con il gesto o con la voce, ma il problema resta invece per quelle che esprimevano idee astratte. Il primo linguaggio dell'uomo deve essere stato il grido usato in caso di pericolo, non molto usato nel corso della vita ordinaria. Quando le idee degli uomini cominciarono ad estendersi e a moltiplicarsi e fra gli uomini si stabilì una più stretta relazione, cercarono segni più numerosi e un linguaggio più ricco: moltiplicarono le inflessioni della voce e vi aggiunsero i gesti che per loro natura sono più espressivi. | gesti tuttavia, essendo limitati agli oggetti visibili, vennero sostituiti dalle articolazioni della voce sulla base del comune consenso, cosa che sembra che abbia avuto bisogno essa stessa della parola. All'inizio una parola aveva il significato di una frase intera, poi si sono iniziati a distinguere nomi, aggettivi e verbi (il primo doveva essere infinito presente); la nozione di aggettivo deve essere stata molto laboriosa in quanto astratta, e le astrazioni sono operazioni faticose. All'inizio ogni oggetto aveva un nome particolare al di là dei generi e delle specie, in quanto la prima idea che deriva da due cose è che non siano la stessa. Superare questa numerosissima nomenclatura non deve essere stato facile, in quanto per poter disporre le cose sotto denominazioni comuni e generiche bisogna conoscerne le proprietà e le differenze, quindi servivano osservazioni e definizioni. E' anche vero però che le idee generali possono entrare nel pensiero solo con l'aiuto delle parole, perché l'intelletto le coglie solo mediante i discorsi: per avere delle idee generali serve pronunciare delle proposizioni generali, quindi bisogna parlare, perché la mente cammina solo mediante il discorso, dal momento che l'immaginazione in questo caso non è d'aiuto (se provo ad immaginare l'idea di triangolo, immaginerò solo un triangolo particolare diverso da un altro). Quando i primi grammatici inventarono i primi generi e specie, ne fecero troppo pochi per non aver esaminato gli esseri in tutte le loro differenze—> sarebbero occorse più esperienze. Sfuggirono loro anche le classi primitive e le nozioni più generali (materia, sostanza, spirito, figura, movimento—> sono puramente metafisiche). Rousseau lascia a questo punto la riflessione sull'origine della lingua fermandosi all'inizio del lungo cammino che questa ha dovuto compiere per esprimere tutti i pensieri dell'uomo e assumere una forma costante, così da essere parlata pubblicamente nella società. Il cammino per trovare numeri, parole astratte, tempi verbali, particelle e tutti gli elementi che costituiscono la logica del discorso, è stato lunghissimo. Tralascia la questione se sia stata necessaria una società per costruire le lingue, o al contrario se esistessero lingue già stabilite perché si costituisse una società. - Trova difficile spiegare il perché nello stato di natura un uomo abbia mai avuto bisogno di un altro uomo e, anche se ci fosse stato, per quale motivo l’altro uomo avrebbe dovuto soddisfarlo. Infatti la condizione dell'uomo di natura è tutt'altro che miserabile. Facendo un confronto tra il vivere nello stato di natura e il vivere in società, quello che risulta più facilmente insopportabile è quello in società, basta vedere il gran numero di individui che si lamenta della propria esistenza, al punto che alcuni arrivano anche a darsi la morte. Le facoltà possedute in potenza dall'uomo naturale si sono potute sviluppare solo nelle occasioni in cui egli ha potuto esercitarle senza che queste prima del tempo gli fossero superflue o di peso; nello stato di natura l'uomo aveva tutto ciò che gli serviva per vivere nell'istinto, la ragione, invece, è tutto ciò che serve nella società. - Considerando che in questa condizione naturale l'uomo non aveva nessuna relazione morale con i suoi simili, né conosceva doveri, si può pensare che fosse al di là del bene e del male, nonconoscendo né vizi né virtù. Rispetto a questo è giusto sospendere il giudizio e verificare preliminarmente se nella società civile il progresso delle conoscenze non compensi l'uomo del male che fa all’altro portando a una sempre maggiore conoscenza del bene che dovrebbe fare, o se non sarebbe più felice non dovendo né temere il male né sperare del bene da parte di nessuno. Rispetto a questo tema Rousseau si confronta polemicamente con Hobbes: 1) egli sostiene che l'uomo, in quanto non possiede alcuna idea di bontà, è naturalmente cattivo, vizioso perché non conosce la virtù e si appropria di cose di cui necessità negandole agli altri, credendosi proprietario di tutto l'universo. L'uomo naturale non ha cura solo della propria conservazione, ma sente il bisogno di soddisfare una gran quantità di passioni che sono frutto della società, creando una situazione tale per cui le leggi sono risultate necessarie. Rousseau, invece, crede che lo stato di natura sia quella condizione in cui la preoccupazione della nostra conservazione reca meno danni agli altri, quindi è la più propizia alla pace; il fatto è che il motivo stesso che impedisce all'uomo naturale di usare la ragione è lo stesso che gli impedisce di abusare delle sue facoltà (se non usa la ragione non può nemmeno abusare delle sue facoltà). Dunque non si può dire che l'uomo di natura sia cattivo perché non sa cosa significhi essere buoni, in quanto ciò che impedisce di fare il male non è né lo sviluppo dell‘intelligenza né la legge, ma la calma delle passioni (eccitate nel vivere in società) e l'ignoranza del vizio (che giova di più che la conoscenza della virtù). 2) un'altra cosa che è sfuggita a Hobbes è un carattere fondamentale dell'uomo, cioè la pietà, che tempera la ferocia che egli ha per il proprio benessere (o per il proprio amor proprio) con una ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile. Si tratta di una virtù che precede l'uso di qualsiasi riflessione ed è propria anche di altri animali. Questo è il puro moto della natura, forza che anche i costumi più corrotti durano fatica a distruggere. Mandeville si è accorto che con tutta la loro morale gli uomini sarebbero dei mostri se la natura non avesse dato loro la pietà in appoggio alla ragione: ma non ha visto che è solo dalla pietà che derivano tutte le virtù sociali (generosità, umanità, clemenza), che sono pietà verso i deboli e verso la specie umana in generale. Anche la benevolenza e l'amicizia sono effetti di una pietà costante, fissata su un oggetto particolare: desiderare che uno non soffra è desiderare che sia felice. La compassione è quel sentimento che ci fa identificare in colui che soffre e questa identificazione è più stretta nello stato di natura. Infatti la ragione genera egoismo, lo allontana da ciò che può procurargli stato di natura. Si procede adesso con l'analisi di quella lenta successione di avvenimenti e conoscenze. || primo sentimento dell'uomo fu quello della sua esistenza e la sua prima cura fu la sua conservazione. Tutto il necessario gli era fornito dai prodotti della terra che l'istinto lo spingeva ad usare. Tra i vari appetiti c'era quello che gli faceva perpetuare la specie, senza l'accompagnarsi di alcun sentimento del cuore, per cui, una volta esaurito il bisogno, i due sessi restavano estranei come anche il figlio lo diventava per la madre una volta che poteva fare a meno di lei. Tale fu all'origine la condizione dell'uomo: limitata alle pure sensazioni. Si presentarono però delle difficoltà: l'altezza degli alberi, la concorrenza di altri animali per il cibo, la minaccia di altri alla propria vita. L'uomo fu così costretto a sviluppare le proprie capacità fisiche per poter sopravvivere (agilità, velocità, forza). Il genere umano pian piano aumentava. Le differenze di terreni, climi, stagioni, lo costrinsero a differenziare i suoi modi di vita e le annate sterili, gli inverni rigidi, le estati torride (natura maligna) lo costrinsero a una nuova industria, così che vicino ai corsi d'acqua l'uomo inventò amo e lenza, nelle foreste arco e frecce, In seguito ad un qualche evento fortunato venne scoperto anche il fuoco che, una volta imparato a riprodurlo, venne usato per scaldare e cuocere i cibi. Questa ripetuta applicazione di cose differenti a se stesso e delle une alle altre generò nello spirito dell'uomo la percezione di certi rapporti: nacque una sorta di ragione strumentale, il confronto, concetti di comparazione che gli permisero di prendere le precauzioni più necessarie alla sua sicurezza. L'uomo divenne consapevole che il confrontare, il prevedere, gli sono peculiari e aumentò la sua superiorità sugli altri animali, che generò il primo moto di orgoglio: con trappole, strumenti per la caccia ecc, divenne padrone delle sue prede e flagello per i suoi nemici. Osservando i suoi simili scopre l'altro come uguale, ma da questa scoperta non deriva nessuna emozione, solo calcolo e riflessione su come sfruttare al meglio gli altri che divengono per lui dei mezzi. Adottò delle regole di condotta verso di loro e a vantaggio della propria sicurezza e del proprio benessere. Così distingueva le occasioni in cui poteva contare sull'aiuto degli altri per un interesse comune da quelle in cui era meglio diffidare di loro. Nel primo caso si univa a loro in gruppo, nel secondo ognuno per sé cercava il proprio vantaggio con la forza se ne era capace, altrimenti con astuzia. Si affermò una prima grossolana idea di impegni reciproci e del vantaggio che si poteva avere nel rispettarli. Questi rapporti tra uomini non richiedevano una raffinata forma di linguaggio, ma gridi, gesti e rumori imitativi erano sufficienti a costituire una lingua universale. Questi primi progressi fatti dall'uomo di natura lo misero nelle condizioni di farne degli altri più rapidi. Più si sviluppava la mente, più si perfezionava l'industria—> si inventarono asce fatte con pietre taglienti che servirono per tagliare la legna, scavare la terra e fare capanne di rami, che in seguito si pensò di rivestire di argilla e di fango. Ci fu allora la prima rivoluzione: l'istituzione e la distinzione delle famiglie, che introdusse una specie di proprietà e forse già liti e lotte per impadronirsi delle diverse dimore, in cui mariti, mogli e figli abitavano insieme. L'abitudine a vivere insieme diede origine ai più dolci sentimenti: l'amore coniugale e l'amore paterno. La famiglia era una sorta di piccola società in cui si iniziarono a dividere i compiti tra i sessi, ragione per cui le donne restavano a casa a badare ai figli mentre gli uomini uscivano a procurare il cibo. La vita dell'uomo divenne più molle rispetto a quella selvaggia dell'inizio e ciò, se da un lato gli fece perdere gran parte della ferocia e del vigore che prima lo contraddistinguevano, dall'altro facilitò la vita associata, che permetteva di avere più forze per difendersi dalle bestie feroci. Avendo molto tempo libero, gli uomini lo impiegarono per procurarsi maggiori agi e comodità, e questo fu la prima fonte dei mali in quanto, oltre a perdere ulteriore vigore nel corpo e nello spirito, persero anche tutto il piacere che le comodità avrebbero potuto fornire, in quanto divennero dei veri e propri bisogni, così che l'esserne privati era molto più doloroso di quanto fosse piacevoli possederli. Con il vivere in famiglia il linguaggio si era molto perfezionato, anche con il concorso di diverse cause particolari, ed alla fine era divenuto necessario. Da gruppi che vivevano in stretto contatto si formò il linguaggio diffuso poi agli altri uomini con cui quelli entravano in contatto. Gli uomini, che fino a quel momento erravano nei boschi, presa più stabile dimora si riuniscono in gruppi diversi, formano in ciascuna regione una nazione particolare, unita nei costumi e nel carattere, non ancora in virtù di leggi e regolamenti, ma per avere lo stesso tipo di vita e di alimentazione. Gli uomini, vivendo in comunità, acquistarono idee di merito e di bellezza da cui nascono i sentimenti di preferenza. Nacque così il sentimento amoroso, un sentimento tenero e dolce che alla minima opposizione diventa furore impetuoso e nasce anche la gelosia. Nacque nelle comunità il costume di danzare e ballare, che diventarono le occupazioni di uomini e donne oziosi. Si crea un contesto in cui si guardano gli altri e si desidera essere guardati, ammirati, stimati. Il più bello, il più forte, il più eloquente era quello che era tenuto più in considerazione dagli altri, e questo fu il primo passo verso la disuguaglianza e il vizio, perché da queste prime preferenze nacquero la vanità, il disprezzo, la vergogna e l'invidia. Nata l'idea di stima, ognuno pretese di averne diritto e diventò impossibile mancare impunemente di considerazione verso nessuno (il non essere riconosciuti porta all'ira). Da ciò derivarono i primi doveri della civiltà, e ogni torto volontario diventò un oltraggio perché, insieme al male sofferto per l'ingiuria, l'offeso vi scorgeva il disprezzo della sua persona, disprezzo che doveva essere colpito in proporzione alla stima che si aveva di se stessi. Vennero così realizzate vendette terribili e gli uomini divennero sanguinari e crudeli. Nello stato di natura l'uomo era guidato solo dall’istinto di autoconservazione e mosso dalla pietà nei confronti degli altri esseri sensibili, quindi non è per natura crudele e sanguinario (come Hobbes ha concluso) e non è vero che per diventare più mite ha bisogno della civiltà. La moralità cominciò a introdursi nelle azioni umane: ognuno, prima delle leggi, era giudice di se stesso. Benché gli uomini fossero diventati meno tolleranti e la pietà naturale avesse già subìto qualche alterazione, questo periodo di sviluppo delle facoltà umane, tenendo il giusto mezzo tra l'indolenza dello stato primitivo e l'impetuosa attività del nostro amor proprio, era l'epoca più felice e duratura. Questa condizione era la meno soggetta a rivoluzioni, la migliore per l'uomo; questa è la vera giovinezza del mondo e tutti gli ulteriori progressi sono stati in apparenza dei passi verso la perfezione dell'individuo, mentre in realtà portarono verso la decrepitezza della specie. Finché gli uomini non si applicarono a opere che necessitavano della collaborazione di più individui accontentandosi delle cose semplici che fino ad allora avevano realizzato, vissero sani, liberi, buoni e felici, continuando a godere dei vantaggi di rapporti indipendenti. Ma quando un uomo ebbe bisogno dell'aiuto dell'altro, da quel momento l'uguaglianza sparì e comparve la proprietà; il lavoro divenne necessario, le foreste divennero campagne lavorate con il sudore degli uomini. Questa grande rivoluzione nacque dall'invenzione di due arti: la metallurgia e l'agricolura. Non sappiamo come gli uomini siano arrivati ad utilizzare il ferro, come abbiano scoperto di poterlo fondere (probabilmente l'hanno capito dall'eruzione di un vulcano). Per auanto riguarda l'agricoltura, se ne conobbe il principio molto prima di stabilirne la pratica; solo molto tardi però l'industria umana riprodusse i modi in cui la natura generava i vegetali perché - gli alberi, insieme alla caccia e alla pesca, provvedevano al loro sostentamento - ignoravano l'uso del grano e non avevano gli strumenti adatti per coltivarlo - erano incapaci di prevedere i bisogni avvenire - non avevano modo di impedire che altri si appropriassero del frutto del loro lavoro. Divenuti sempre più industriosi, cominciarono dapprima a coltivare legumi e radici per poi arrivare al grano, che richiede una coltivazione su vasta scala, dunque strumenti adeguati. NB: per dedicarsi all'agricoltura bisogna rassegnarsi a perdere qualcosa all'inizio in vista di un forte guadagno successivo, precauzione molto lontana dalla mentalità dell'uomo selvaggio, che non aveva il senso del futuro. Per far sì che gli uomini si dedicassero all'agricoltura, fu necessaria l'invenzione di altre arti. Per fondere il ferro servivano uomini, e questi hanno bisogno di altri che gli procurino il cibo. Più aumentava il numero di operai, meno uomini si occupavano del sostentamento, ma, dal momento che agli uni occorrevano derrate in cambio di ferro, gli altri scoprirono il modo di impiegare il ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacque da un lato l'aratura e l'agricoltura, dall'altro l'arte di lavorare i metalli e di moltiplicarne gli usi. Alla coltivazione delle terre seguì necessariamente la loro spartizione, e dal riconoscimento della proprietà derivarono le prime norme di giustizia. Gli uomini cominciarono a guardare all'avvenire: rendendosi conto di avere tutti qualche bene da perdere, nessuno si sottraeva al timore di subire delle rappresaglie dei torti che poteva arrecare ad altri. L'idea di proprietà deriva dall'idea di lavoro, perché solo con il lavoro il coltivatore acquista il diritto sul prodotto della terra lavorata. Nasce una nuova forma di diritto, il diritto di proprietà, molto più forte o l'unione dei deboli. R. espone le ragioni per cui la sua spiegazione della nascita della società civile è più ragionevole: i 1) non esiste il diritto di conquista come base per acquisire solidamente il possesso di ciò che è conquistato, così che conquistatore e popolo sottomesso restano in un perenne stato di guerra, a meno che il capo non sia scelto direttamente dal popolo. E'chiaro che su queste basi di violenza non può nascere alcuna vera società politica né legge, ma vige ancora solo il diritto del più R. espone qui uno dei punti essenziali della sua teoria contrattualistica: il rapporto di forza, come quello tra conquistatore e conquistato, è sempre uno stato di guerra, anche se latente, e quindi su di esso non si può fondare alcun diritto, se per diritto intendiamo un rapporto morale, che, come tale, può fondarsi solo sulla libera decisione di una volontà libera. 2) Le parole forte e debole sono equivoche nel secondo caso. Nell'intervallo tra la nascita della proprietà e l'istituzione della comunità politica con le sue leggi, i termini da usare non sono “debole” e “forte”, ma “povero” e “ricco”, dato che l'unica manifestazione di forza consisteva nell’appropriarsi degli averi di un altro, dunque era il possesso o meno a qualificare l'individuo. it 3) Sono stati i ricchi a fondare la società civile, dal momento che erano gli unici a poter trovare vantaggiosa la cosa: prima erano molto più vulnerabili, non avevano garanzie a difesa dei propri possessi. | poveri, certo, non avrebbero mai potuto avere tale idea, dal momento che così sono stati privati dell'unico bene che avevano, cioè la libertà, ed è ragionevole credere che non se ne siano voluti disfare volontariamente. Sk Lo stato è nato come un'istituzione viziosa, ed il tempo non è servito a correggerne i difetti della costituzione, semmai a metterli in evidenza: invece di ricostruire tutto l’edificio sono state poste delle toppe qua e là, così non si venne mai a capo dei problemi. Agli inizi, la società si ridusse ad alcune convenzioni generali che tutti i privati si impegnavano ad osservare e di cui la comunità si rendeva garante verso ciascuno di loro. Una simile costituzione era però molto debole poiché i trasgressori delle leggi non erano facilmente puniti dato che il solo testimone e giudice era il pubblico. Alla fine sorse la necessità di istituire le cariche pubbliche e la magistratura: il pericoloso fardello dell'autorità pubblica veniva affidato a degli individui e ad altri la cura di far osservare le leggi. Critica al dispotismo: 1) non è ragionevole supporre che i popoli si siano sottoposti ad un padrone assoluto senza alcuna possibilità di tornare indietro, intendendo quindi, la schiavitù come il primo e unico mezzo per garantire la comune sicurezza. | popoli si sono dati dei capi per salvaguardare la loro libertà non per perderla, perciò è contrario al buon senso porsi sotto un capo consegnandoli le sole cose (la libertà) per salvaguardare le quali si era ritenuto necessario avere un capo; costui in cambio di questa concessione non avrebbe nessun contraccambio per i suoi sudditi, che si ritrovano nella stessa condizione in cui si troverebbero se la loro libertà l'avessero persa per opera di un nemico. L'uomo civile piega la testa e si sottomette, perché perduta la libertà non ne conosce più il gusto; pace e quiete è ciò che è stato in cambio di questa perdita di libertà (Tacito: “Chiamano pace una miseranda schiavitù").—> critica a Hobbes e alla sua teoria sullo stabilimento volontario della tirannide. ik: 2) R. poi fa un confronto tra l'autorità paterna del capo e il despota: la prima cura il benessere del suddito come il padre si preoccupa di quello del figlio, che una volta cresciuto, ormai indipendente, gli deve rispetto ma non obbedienza, dal momento che per legge di natura il padre non è il padrone del figlio indipendente. Nel caso del despota, costui possiede i suoi sudditi con tutti i loro beni e non possono aspettarsi da lui alcunché se non la grazia che lasci loro le loro stesse ricchezze.—> critica a Filmer, che nel Patriarca sostiene l'assolutismo, ponendo a base della sua dottrina l'idea che i monarchi derivano il loro potere per discendenza diretta dai primi padri (i patriarchi), i quali avevano poteri assoluti sui figli o stabilimento volontario della tirannide, dunque, non ha alcuna validità, come un contratto in cui si disponga tutto a favore di una parte e tutto a sfavore di quella che vi si obbligasse. Il dispotismo comporta la rinuncia del nostro bene più prezioso, la libertà, rassegnandosi a commettere i delitti che altrimenti ci proibirebbe per compiacere un padrone feroce e terribile; esso causa il degrado della nostra natura ci pone al livello delle bestie e ci fa offendere l’autore del nostro essere. st» 3) Critica a Pufendorf, il quale sostiene che, come si trasferiscono ad altri i propri beni attraverso convenzioni e contratti, si può rinunciare alla propria libertà a favore di qualcuno, Il suo però è un pessimo ragionamento. Il bene da me alienato mi diventa cosa del tutto estranea e il cui abuso mi è indifferente, ma mi importa che si abusi della mia libertà, e non posso, senza rendermi colpevole del male che sarò forzato a fare, espormi a diventare lo strumento di un delitto. Per il diritto di proprietà un uomo può disporre dei propri averi come più gli piace, ma non può fare altrettanto dei doni essenziali della natura come la vita e la libertà, di cui a ciascuno è permesso di godere e di cui è dubbio che si abbia il diritto di spogliarsi. Togliendosi uno di questi, si degrada il proprio essere, lo distrugge, facendo offesa alla natura e alla ragione. La libertà non è un diritto ereditario, bensì un dono che viene dalla natura: gli uomini nascono liberi. In sintesi i governi non sono iniziati con il potere arbitrario, il quale non ne è altro che la corruzione, il termine estremo, che finisce per ricondurli a quella legge del più forte di cui in origine furono il rimedio; ma anche se fossero cominciati così, quel potere, essendo per natura illegittimo, non è potuto servire di base alle leggi della società. I governi sono nati sulla base di un contratto tra popolo e capi da esso scelti: entrambe le parti si obbligano a osservare la legge. Il popolo è formato da tutte le volontà, quindi è come se fosse una sola e tutto ciò su cui questa volontà si esprime è legge fondamentale dello stato: una di esse regola la scelta e il potere dei magistrati che vigilano sulla costituzione (non possono però mutarla). | ministri hanno delle prerogative che li compensano dal lavoro faticoso derivato dal mantenimento di una buona amministrazione. | magistrati devono esercitare i loro poteri di salvaguardia solo nell'interesse comune non proprio. | magistrati erano i più interessati alla conservazione delle leggi fondamentali perché sono quelle su cui si fonda anche la loro legittimità, senza di esse lo stato sarebbe tornato allo stato di natura. st A garanzia del rispetto del contratto serve un’autorità superiore che costringa le parti a rispettare i loro obblighi reciproci, altrimenti esse sarebbero i soli giudici a decidere delle loro controversie e ciascuna di esse sarebbe disposta a revocarlo qualora si accorgesse che l’altra parte ne infrange le condizioni oppure se queste ultime cessassero di convenirgli. Come il magistrato può revocare il proprio ufficio, così anche il popolo dovrebbe avere il diritto di revocare la propria dipendenza, ma possiamo immaginare le gravi conseguenze che potrebbe avere un tale potere: dissensi e disordini. Sulla base di questa revocabilità del contratto tra capo e popolo, questo avrebbe il diritto di cambiare governo qualora si accorgesse che questo viola il contratto volgendo i poteri di cui è stato investito a proprio vantaggio anziché per il bene pubblico. Se però ammettiamo il principio teologico, questo diritto non esiste più, perché se l'autorità non deriva più da un patto stretto con il popolo, bensì da Dio, è chiaro che il popolo non può destituire il proprio governo. Un tale principio può garantire la pace evitando gli orrori delle guerre civili, ma può garantire anche libertà e uguaglianza? R. per evitare la censura da parte delle autorità tira via, e torna a seguire il filo logico della propria trattazione puramente razionale (che implicitamente rigetta l'origine divina del potere). Esamina l'origine delle diverse forme di governo: quello monarchico nasce dallo spiccare di un solo individuo per virtù, potenza o ricchezze; oligarchico se invece a spiccare è stato un gruppo ristretto di individui; quello democratico qualora ci siano meno sproporzioni di capacità e ricchezze, mantenendo un'amministrazione comune. La forma democratica è per R. la migliore—=> i cittadini di uno stato democratico sono sottomessi solo alle leggi, gli altri ben presto obbedirono a dei padroni. | cittadini vollero conservare la loro libertà, i sudditi pensarono soltanto a toglierla ai loro vicini, non potendo tollerare che altri godessero di un bene di cui essi non godevano. Da un lato ci furono ricchezze e conquiste, dall'altra felicità e virtù. In tutte le forme di governo le magistrature erano elettive e gli individui che le ricoprivano venivano scelti per ricchezza o per età. Tuttavia, ben presto si ricadeva nel caos delle guerre civili, in quanto sorgevano fazioni e partiti rivali che si contendevano a loro dire per la felicità dello stato. L'ambizione degli uomini politici spesso faceva sì che le cariche divenissero ereditarie, così il popolo avvezzo al giogo e desideroso solo di pace e tranquillità accettava tale condizione di ulteriore servaggio.
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