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Dispensa di Diritto Costituzionale II, Sintesi del corso di Diritto Costituzionale

Dispensa completamente sostitutiva di Diritto costituzionale II sugli ultimi 5 capitoli del manuale D'Amico, Arconzo "Lezioni di diritto costituzionale"

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 08/06/2023

lucreziaponi
lucreziaponi 🇮🇹

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Scarica Dispensa di Diritto Costituzionale II e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! Diritto costituzionale II F. Biondi DIRITTO COSTITUZIONALE II CAPITOLO V 2 1. La formazione del Governo 2 2. Composizione e funzioni del Governo 3 3. La responsabilità politica e giuridica del Governo 5 4. La pubblica amministrazione 7 CAPITOLO VI 7 1. Il mandato presidenziale 7 2. Gli atti del Presidente della Repubblica 9 3. La controfirma e la responsabilità del Presidente della Repubblica 11 CAPITOLO VII 12 1. Il potere giurisdizionale 12 2. L’autonomia della Magistratura e il CSM 13 3. L’indipendenza e l’imparzialità 14 4. Il regime di responsabilità del magistrato 15 CAPITOLO VIII 16 1. L’organizzazione degli enti regionali 16 2. Le competenze degli enti regionali e degli enti locali 18 CAPITOLO IX 19 1. I modelli di giustizia costituzionale 19 2. La Corte Costituzionale 20 3. Il giudizio sulle leggi in via incidentale 21 4. Le decisioni della Corte nel giudizio in via incidentale 23 5. Gli altri giudizi sulle leggi 25 6. Conflitti di attribuzione e ulteriori competenze della Corte 25 7. La Corte costituzionale e le Corti sovranazionali 27 CAPITOLO X 27 1. Il percorso verso la tutela dei diritti 27 2. Il fondamento dei diritti nella Costituzione italiana 28 3. I diritti di libertà 30 4. I diritti a esercizio collettivo 32 5. I diritti politici 33 6. I diritti sociali 34 7. I diritti attinenti la sfera economica 35 8. I doveri 35 Pagina di 1 35 Diritto costituzionale II F. Biondi CAPITOLO V 1. La formazione del Governo INTRODUZIONE La Costituzione dedica solo gli artt. 92-96 del Titolo III Parte II alla disciplina e all’organizzazione del Governo, ma intervengono la prassi, le convenzioni e consuetudini costituzionali, e la legge n. 400/1988 a specificare l’ordinamento della Presidenza del Consiglio e l’individuazione dei Ministeri. Stando alla Costituzione, il Governo è l’organo costituzionale che determina, insieme al Parlamento, l’indirizzo politico del Paese e che ha la titolarità di molteplici funzioni amministrative. LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE E LA PRASSI L’art. 92, comma 2, Cost. sancisce che il Presidente della Repubblica nomini il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i ministri: tale potere di nomina è esercitato dal Presidente della Repubblica decorsi i 5 anni della durata ordinaria della legislatura a seguito delle elezioni delle nuove Camere, ma è frequente che debba ricorrervi anche durante il corso della legislatura, quando il Governo in carica presenta le proprie dimissioni in occasione delle cosiddette crisi di governo. Il Presidente della Repubblica, prima di nominare il Presidente del Consiglio, deve compiere una serie di attività non disciplinate dalla Costituzione, ma dalla prassi consolidata che assume rango di consuetudine costituzionale. Il procedimento si articola in momenti diversi: 1. Il Presidente svolge le consultazioni, durante le quali incontra i Presidenti dei gruppi parlamentari, i Presidenti delle Camere, gli ex Presidenti della Repubblica e qualunque altra personalità sia da interpellare secondo la sua discrezione. In caso di particolare incertezza potrà svolgere anche due o più cicli di consultazioni per arrivare a determinare se sia possibile individuare un soggetto capace di formare un Governo in grado di ottenere il sostegno di una maggioranza parlamentare. 2. Se le consultazioni non permettono di individuare un candidato, il Presidente può attribuire un mandato esplorativo o un pre-incarico: il mandato esplorativo con portata più o meno circoscritta viene affidato a una personalità super partes, di solito Presidente della Camera o del Senato, che ha il compito di vagliare la situazione politica conferendo con le forze parlamentari per verificare l’esistenza del candidato alla formazione del Governo; il pre-incarico viene affidato, invece, a colui cui il Presidente ipotizza di affidare il ruolo per verificare che sia effettivamente in grado di ottenere la maggioranza. La scelta tra mandato esplorativo e pre-incarico è determinata dalla situazione politica del momento: se al termine di questa fase non sarà stato individuato il soggetto, il Presidente della Repubblica dovrà sciogliere le Camere per evitare che si formino governi privi della fiducia iniziale, altrimenti procederà a conferire al soggetto scelto l'incarico di formazione del Governo. 3. Viene quindi conferito l'incarico, assegnato oralmente, al candidato che accetta con riserva, la quale è sciolta positivamente solo quando l'incaricato riesce ad aggregare consenso su un programma e una lista di ministri da proporre al Presidente, con l’aspettativa di ricevere la fiducia del Parlamento. 4. Sciolta positivamente la riserva, il Presidente della Repubblica nomina con decreto il Presidente del Consiglio, che controfirma il decreto, e i ministri da questo proposti: secondo la Costituzione la scelta delle singole personalità spetta al Presidente del Consiglio, che può, però, talvolta essere vincolato dalla volontà dei partiti per la concessione della fiducia. In merito alla scelta dei ministri la dottrina si divide: secondo alcuni il Presidente della Repubblica non potrebbe essere considerato sostanzialmente responsabile della composizione della compagine ministeriale perché non ritengono egli possa porre il veto per ragioni politiche, altri lo considerano, invece, sostanzialmente responsabile perché tenuto a porre il veto qualora le idee politiche possano ledere interessi costituzionalmente fondati. 5. Il processo di formazione del Governo si conclude con il giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica da parte del Presidente del Consiglio e dei ministri. In astratto, non avendo ancora ottenuto la fiducia, il Governo dovrebbe limitarsi agli atti di ordinaria amministrazione, ma nella pratica è complesso distinguerli dagli atti di esercizio di indirizzo politico. 6. Entro 10 giorni dalla formazione, il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia: la mozione di fiducia è votata da ciascuna Camera dopo il discorso programmatico del Presidente del Consiglio. RUOLO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Il procedimento di formazione del Governo a carico del Presidente della Repubblica è particolarmente flessibile, per l'assenza di precise indicazioni nelle norme costituzionali, ed elastico, rispetto allo scenario politico del momento. Il Capo dello Stato si è spesso trovato a utilizzare poteri molto penetranti nella formazione dei governi: ricordiamo i Governi del Presidente, nella formazione dei quali il Capo dello Stato ha ricoperto un ruolo cardinale, e quelle situazioni in cui il Presidente della Repubblica ha posto specifiche condizioni al Presidente del Consiglio riguardo la maggioranza da sostenere o gli obiettivi da perseguire. Nella formazione dei governi nel contesto proporzionale con multipartitismo estremo caratteristico del nostro ordinamento dal 1948-1992, in situazioni di forte incertezza a seguito delle elezioni o in occasione Pagina di 2 35 Diritto costituzionale II F. Biondi Nel contesto bipolare (1994-2013) i Presidente del Consiglio ad essere eletti erano i leader del partito più importante tra quelli di coalizione che aveva registrato maggior consenso popolare. Inoltre, con la personalizzazione dei partiti e l’inserimento nelle schede dei nomi dei candidati alla carica di Presidente, si è giunti a ritenere che questi detenessero il potere anche giuridico di influenzare le decisioni del Consiglio e dei ministri. Oltre al decreto legislativo n. 303/1999, maggiori poteri sono stati attribuiti al Presidente del Consiglio con il ruolo che l’art. 15 del Trattato di Lisbona gli conferisce all’interno del Consiglio Europeo. Il contesto della XVII e XVIII legislatura testimoniano la flessibilità delle regole circa i rapporti tra Presidente del Consiglio e ministri. Letta → PdC senza particolari poteri Alle elezioni del 2013 mancava un vincitore, nessuna delle coalizioni presentatesi era in grado di sostenere un Governo, quindi, con Letta si forma un esecutivo “di larghe intese” appoggiato della maggior parte delle forze politiche parlamentari: il Presidente del Consiglio era una personalità che durante la campagna elettorale non aveva assunto il ruolo di leader e i ministri vennero scelti tra gli esponenti delle forze politiche che sostenevano il Governo. Gli effetti delle precedenti legislature che avevano attribuito al Presidente una posizione di supremazia sui ministri sembrano svanire. Renzi → PdC con grandi poteri Nella prima fase del Governo Renzi, che aveva ricevuto consenso politico elevato, egli è riuscito a influenzare la politica dell'intero Governo e l'attività dei ministri, fino a indurre le dimissioni dei ministri Lupi e Guidi. Conte I → PdC senza particolari poteri All’elezione del Governo Conte I, i due partiti di maggioranza avevano costituito il programma di Governo senza interpellare il Presidente e quest’ultimo non aveva avuto nemmeno troppo margine di manovra nella proposta dei ministri: era quindi una figura tecnica. Conte II → PdC con maggiori poteri La centralità del ruolo del Presidente si è dimostrata nella gestione della pandemia, nonostante la fragilità della maggioranza a suo sostegno ne abbia determinato le dimissioni. Draghi → PdC con particolari poteri Il Governo Draghi è un esecutivo di “larghe intese”, quindi appoggiato da quasi tutte le forze politiche di maggioranza, ma l’indiscussa autorevolezza del Presidente gli conferiscono grande rilievo come guida. Quindi nel rapporto tra Presidente del Consiglio e ministri va considerata concreta situazione politica esistente: molto dipende degli equilibri interni alla coalizione di Governo e dalla specifica personalità del Presidente del Consiglio, del quale i poteri di direzione della politica generale, di coordinamento e promozione dell'attività ministeriale devono essere bilanciati dal potere sostanziale molto forte dei ministri, che consente loro di rispondere alle direttive del partito cui appartengono, più che al Presidente stesso. Tuttavia, di recente, il legislatore aveva delegato il Governo ad adottare decreti legislativi a modifica della l.n. 400 /1988 per rafforzare la posizione del Presidente del Consiglio, ma ciò non ha avuto seguito dal momento che alla delega non è seguito alcun decreto legislativo. 3. La responsabilità politica e giuridica del Governo MOZIONE DI FIDUCIA INIZIALE L’art. 94 Cost. prevede che, affinché il Governo possa entrare nella pienezza delle sue funzioni, esso debba ottenere la fiducia, entro 10 giorni dal giuramento, da parte di entrambe le Camere: approvando la mozione di fiducia, le Camere dimostrano appoggio all'indirizzo politico che il Governo intende svolgere. La fiducia è l'elemento che qualifica la nostra forma di governo come parlamentare, tanto che il venir meno di essa da parte di anche una sola Camere, determina l'obbligo per il Governo di rassegnare le dimissioni. Per la Costituzione, la mozione di fiducia iniziale deve essere votata per appello nominale e occorre che sia motivata. Nella prassi, il Presidente del Consiglio, entro 10 giorni dal giuramento, si presenta all’una e all'altra Camera per esporre il suo programma di governo con le dichiarazioni programmatiche e, al termine del dibattito, il Parlamento vota la mozione motivata dall'adesione alle dichiarazioni programmatiche con appello nominale, il quale garantisce la massima trasparenza rispetto alla scelta del singolo parlamentare di concedere o meno la fiducia QUESTIONE DI FIDUCIA Il permanere della fiducia tra Parlamento e Governo può essere oggetto di verifica nel corso della legislatura: il Governo, infatti, può chiedere al Parlamento di votare sulla questione di fiducia, un istituto della prassi formalizzato nei regolamenti parlamentari con cui il Governo chiede al Parlamento di approvare un atto che ritiene fondamentale per proseguire il mandato. La permanenza in carica del Governo dipende, quindi, unicamente dalla capacità della maggioranza parlamentare di assicurare un voto favorevole sulla questione di fiducia: se la fiducia non viene approvata, il Governo è obbligato a rassegnare le dimissioni. La questione di fiducia può essere posta su qualsiasi deliberazione delle Camere, eccetto le delibere sul funzionamento interno delle Camere stesse, e anche la questione di fiducia è votata per appello nominale, e il voto favorevole alla fiducia impedisce il voto su proposte alternative a quelle presentate dal Governo. Nella prassi, si è ricorsi a tale strumento quando l’approvazione di un provvedimento era in bilico per un non generalizzato consenso tra i parlamentari o per velocizzare l’approvazione di un determinato provvedimento. Pagina di 5 35 Diritto costituzionale II F. Biondi MOZIONE DI SFIDUCIA AL GOVERNO L’art. 94 Cost. disciplina come il Parlamento può porre fine al Governo in corso con l’approvazione di almeno una delle Camere della mozione di sfiducia. La Costituzione richiede per quest’ultima il consenso di un numero minimo di parlamentari, ossia un decimo di senatori o deputati, e prevede che debba decorrere un termine di 3 giorni dal momento della presentazione al voto di sfiducia. Ciò per consentire un’opportuna ponderazione e per evitare “assalti alla diligenza”: essendo la mozione di sfiducia approvata a maggioranza dei presenti, il preavviso consente ai parlamentari di prenderne conoscenza e presentarsi al voto. Inoltre, la mozione di sfiducia deve essere motivata e votata per appello nominale perché ciascun parlamentare sia responsabile della propria decisione. MOZIONE DI SFIDUCIA AL SINGOLO MINISTRO È ammessa la mozione di sfiducia individuale verso un singolo ministro, affermata con la sent. 7/1996 della Corte costituzionale, quando il Senato approvava una mozione di sfiducia verso il ministro Mancuso. Non essendo esplicitamente prevista dalla Costituzione, il ministro propose ricorso alla Corte sia contro il Senato sia contro il Presidente del Consiglio che lo aveva sollevato dall’incarico e sostituito. La sua difesa si fondava sugli artt. 92 e 94 Cost. che mostrano il Governo come un insieme di organi ai quali la fiducia è accordata o revocata nella sua interezza, non ai singoli componenti. Tuttavia, la Corte ha valorizzato le norme che attribuiscono responsabilità ai singoli ministri per gli atti dei loro ministeri, evidenziando come la sfiducia individuale ne sia conseguenza. CRISI DI GOVERNO Quando il Governo si dimette, spontaneamente o costretto da voto del Parlamento, si apre la crisi di Governo. Si distinguono nella prassi: 1. Crisi parlamentari, determinate dall’approvazione di una mozione di sfiducia di una Camera o dal voto contrario sulla questione di fiducia posta dal Governo: in entrambi i casi il Governo è giuridicamente obbligato a presentare le dimissioni al Presidente della Repubblica. Le crisi di governo dovute a un esplicito voto parlamentare si sono presentate solo in due casi: durante il Governo Prodi I nel 1998 e il Governo Prodi II nel 2008 con voto contrario sulla questione di fiducia. 2. Crisi extra parlamentari, determinate dalle dimissioni spontanee del Presidente del Consiglio spesso per il venir meno della maggioranza parlamentare che sosteneva il Governo in carica. Tuttavia può accadere anche per impedimento fisico, venir meno del sostegno politico di una delle forze di maggioranza o per ragioni personali. Non si parla di crisi di governo quando la fine del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento è determinato dalla naturale scadenza della legislatura. L’insorgere della crisi di governo richiede l’intervento del Capo dello Stato che può risolverla in due modi: 1. Se le forze politiche lo consentono, il Presidente della Repubblica nominerà un nuovo Presidente del Consiglio e si formerà un nuovo Governo. 2. Se le forze politiche non sono in grado di formare una maggioranza a sostegno di un nuovo Governo, il Presidente della Repubblica non può fare altro che sciogliere le Camere indicendo nuove elezioni: lo scioglimento anticipato, però, è una decisione che il Presidente prende solo in caso di assoluta impossibilità di crearsi una maggioranza capace di dare e sostenere la fiducia al nuovo Governo. RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E DEI MINISTRI Il Presidente del Consiglio è responsabile della politica generale del Governo, mentre i ministri hanno una responsabilità collegiale per gli atti adottati dal Consiglio dei ministri e una responsabilità individuale per gli atti dei loro ministeri. La responsabilità è, quindi, di tipo politico e il Governo è tenuto a rendere conto delle proprie azioni al Parlamento che può sanzionare in modo definitivo l’esecutivo. I membri del Governo sono sottoposti anche a una responsabilità di tipo giuridico: l’art. 28 Cost. sancisce, infatti, che funzionari e dipendenti dello Stato siano responsabili, secondo la legge penale e civile, degli atti compiuti in violazione di diritti e saranno chiamati a risponderne come qualsiasi altro soggetto. L’esecutivo è soggetto anche alla responsabilità penale per gli atti commessi nell’esercizio delle funzioni: l’art. 96 Cost. dispone che il Presidente del Consiglio e i ministri, anche se cessati dalla carica, siano sottoposti per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato o della Camera. Prima della revisione costituzionale operata dalla l. cost. n. 1/1989 che attribuì tali reati alla giurisdizione dei giudici ordinari, Presidente del Consiglio e ministri erano giudicati dalla Corte costituzionale, ma solo se il Parlamento in seduta comune li avesse posti in stato di accusa. Qualora siano riscontrati comportamenti integranti reati ministeriali, il Tribunale dei ministri, ossia uno speciale collegio giudiziario, svolge le indagini preliminari e, se necessario, trasmette la notizia al Procuratore della Repubblica; quest'ultimo dovrà investire della questione la Camera di appartenenza e, se questa non si oppone, il processo continuerà regolarmente, altrimenti, il processo terminerà con archiviazione per mancanza di procedibilità. Il diniego di autorizzazione è concesso solo nei casi in cui Pagina di 6 35 Diritto costituzionale II F. Biondi l'Assemblea reputi a maggioranza assoluta e con valutazione insindacabile che l'indagato abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante: tale formula, però, lascia ampio spazio di definizione dell’interesse pubblico rilevante che raramente porta le Camere a concedere l’autorizzazione. 4. La pubblica amministrazione MINISTRI COME VERTICI DELLE AMMINISTRAZIONI CENTRALI DELLO STATO I ministri con portafoglio hanno una duplice funzione: in quanto membri del Governo, determinano l’indirizzo politico nell’ambito del Consiglio dei ministri, e, in quanto organi apicali dei ministeri, sono responsabili dell'attuazione dell'indirizzo politico e degli atti posti in essere dai propri ministeri. I ministeri sono delle strutture organizzative rilevanti nella pubblica amministrazione: essi svolgono tutte le funzioni amministrative che spettano allo Stato non assegnate ad altri enti pubblici. Per pubblica amministrazione si intende ogni articolazione dello Stato, inteso come comprensivo anche delle articolazioni regionali e territoriali, deputata a provvedere alla concreta realizzazione degli interessi pubblici determinati dalle leggi: quindi, la pubblica amministrazione realizza quegli obiettivi individuati dal legislatore che lo Stato si propone di perseguire. PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE La Costituzione richiede che organizzazione e attività della pubblica amministrazione siano regolate dalla legge per rispettare i criteri di imparzialità e buon andamento. L’imparzialità richiama il principio di uguaglianza: la pubblica amministrazione, infatti, deve garantire uguale trattamento a tutti soggetti, quindi ogni decisione amministrativa deve trovare fondamento nella legge. Necessaria imparzialità si rinviene anche nell’art. 98 Cost. per cui gli impiegati della pubblica amministrazione devono essere al servizio esclusivo della Nazione: di conseguenza, un pubblico impiegato che assuma la carica di parlamentare potrà ottenere avanzamenti di carriera solo se determinati da scatti automatici dovuti all’anzianità, per evitare che il mandato parlamentare lo avvantaggi nel pubblico impiego. Infine, per evitare commistioni tra politica e pubblica amministrazione, la legge limita il diritto di iscrizione ai partiti politici, quindi l’affiliazione dei pubblici impiegati a chi ne potrebbe influenzare l’operato. Il buon andamento richiede che la pubblica amministrazione agisca per conseguire obiettivi posti secondo efficienza, economicità ed efficacia. In quest’ottica, per essere assunti bisogna vincere un concorso pubblico, un metodo di selezione che evita assunzioni di favore e garantisce l'accesso di persone qualificate. LE AUTORITÀ INDIPENDENTI Negli anni ’90 vennero istituiti organi peculiari rispetto al tradizionale modo di concepire il ruolo della pubblica amministrazione: si tratta delle Autorità Amministrative Indipendenti, enti dotati di ampi poteri di regolazione, vigilanza e controllo di settori della vita economica (ex. telecomunicazioni, trasporti, energia), o a tutela di specifici diritti, libertà o interessi (ex. diritto di sciopero, prevenzione della corruzione). Tali autorità, a differenza di tutte le altre amministrazioni pubbliche, sono dotate di ampi poteri di normazione e sanzionatori, che trovano fondamento nella legge. CAPITOLO VI 1. Il mandato presidenziale PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Art. 87 Cost.: Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità della Nazione. È un organo monocratico, quindi la sua figura deve confrontarsi con le diverse prassi seguite dai singoli Presidenti che si sono succeduti nella storia. Il Presidente della Repubblica trova ampio spazio nella Costituzione: la sua figura è delineata negli artt. 83 - 91 e poi negli artt. 59, 62, 73, 74, 92, 93, 104, 126, 135. 1946 - 1948 De Nicola 1948 - 1955 Einaudi 1955 - 1962 Gronchi 1962 - 1964 Segni 1964 - 1971 Saragat 1971 - 1978 Leone 1978- 1985 Pertini 1985 - 1992 Cossiga 1992 - 1999 Scalfaro 1999 - 2006 Ciampi 2006 - 2013 Napolitano I 2013 - 2015 Napolitano II 2015 - 2022 Mattarella I 2022 - in carica Mattarella II Il Presidente della Repubblica ha il ruolo di garante della Costituzione e di rappresentante dell’unità nazionale: egli non è avulso dalla scena politica e istituzionale, anzi, vi si trova al centro per indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma assecondando il loro funzionamento. Il Presidente è collocato dalla Costituzione fuori dai tradizionali poteri dello Stato e al di sopra di tutte le parti politiche, ma, soprattutto nei periodi in cui i partiti si dimostrano incapaci di dare stabilità istituzionale, è il Presidente della Repubblica a ergersi a protagonista nella risoluzione della situazione. Il Presidente della Repubblica è, quindi, rappresentante dell’unità nazionale, ossia dell’unità costituzionale, essendo i valori della Nazione quelli contenuti nella Costituzione: dunque egli garantisce attraverso Pagina di 7 35 Diritto costituzionale II F. Biondi 7. Indizione del referendum popolare (art. 87 co. 6): nei casi previsti dalla Costituzione, il Capo dello Stato ha il potere di convocare i cittadini al voto sul referendum abrogativo, costituzionale o consultivo. 8. Nomina di cinque senatori a vita (art. 59): il Presidente può nominare personalità che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario come senatori a vita, fermo restando che il totale di questi non possa superare i cinque in tutto. Ricordiamo tra i senatori a vita: Montale, Bobbio, Agnelli, Levi Montalcini. Attuali sono: Monti, Cattaneo, Piano, Rubbia e Segre. 9. Scioglimento delle Camere (art. 88): il Presidente della Repubblica, dopo aver consultato i Presidenti delle Camere che esprimeranno un parere obbligatorio non vincolante, può sciogliere le Camere. Si tratta di un atto dovuto se adottato al termine fisiologico della legislatura, ma spesso ciò avviene prima della fine del mandato: quando le forze politiche in Parlamento manifestano l’impossibilità di formare una maggioranza in grado dare fiducia a un Governo o quando ciò costituisce l’unico strumento per uscire da una situazione di stallo e consentire all’ordinamento di riprendere a funzionare, allora il Presidente scioglie anticipatamente le Camere. Negli ultimi 6 mesi del suo mandato, salvo che coincidano in tutto o in parte con gli ultimi 6 mesi della legislatura, il Presidente non può sciogliere le Camere durante il semestre bianco, per evitare che un Presidente al termine del proprio mandato adotti una decisione tanto rilevante. Inoltre, sebbene non sia mai accaduto, costituzionalmente al Presidente è concesso sciogliere anche una sola Camera. 2. ATTI PRESIDENZIALI RICONDUCIBILI AL POTERE ESECUTIVO 1. Nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri (art. 92). 2. Emanazione dei decreti aventi forza di legge e dei regolamenti (art. 87 co. 5): il Presidente emana gli atti aventi forza di legge e i regolamenti governativi. Come per la promulgazione, il Presidente può rifiutarsi di procedere all’emanazione se riscontra violazioni del dettato costituzionale, e, nella prassi, tali casi si sono presentati; tuttavia, si ricorda la pratica della moral suasion nei confronti del Governo. 3. Nomina, nei casi indicati dalla legge, dei funzionari dello Stato (art. 87 co. 7): il Presidente può nominare i funzionari di grado più elevato (ex. sottosegretari di Stato, gli ufficiali delle Forze Armate), ma l’individuazione dei soggetti da nominare e la relativa proposta sono di competenza del Governo. 4. Accreditamento e ricevimento dei rappresentanti diplomatici (art. 87 co. 8): espressione del potere estero del Presidente che rappresenta il Paese a livello internazionale. Con tali poteri, il Presidente attribuisce la qualità di diplomatici agli agenti italiani e riconosce come tali i diplomatici stranieri. 5. Ratifica dei trattati internazionali previa, quando occorre, autorizzazione delle Camere (art. 87 co. 8): espressione del potere estero del Capo dello Stato, chiamato a effettuare tutte le formalità successive alla stipulazione dei trattati internazionali conclusi dall’Italia. 6. Detiene il comando delle Forze Armate (art. 87 co. 9): un ruolo simbolico e onorifico, ma non si esclude che, in casi del tutto eccezionali, il Presidente possa impartire ordini alle truppe militari. 7. Presiede il Consiglio supremo di difesa (art. 87 co. 9): organismo con funzioni consultive su temi di difesa e sicurezza nazionale. Si compone del Presidente del Consiglio dei ministri, da alcuni ministri e dal Capo di Stato maggiore della difesa. 8. Dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere (art. 87 co. 9): funzione connessa al potere estero e al Presidente come rappresentante della Nazione. La dichiarazione presidenziale ha efficacia internazionale, mentre quella delle Camere, seppur presupposto necessario, solo interna. 9. Conferimento delle onorificenze della Repubblica (art. 87 co. 12): il Presidente attribuisce le decorazioni al valore a chi si è distinto per meriti o capacità particolari. 3. ATTI PRESIDENZIALI RICONDUCIBILI AL POTERE GIUDIZIARIO 1. Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 87 co. 10): il Presidente presiede il CSM, di cui è, quindi, membro di diritto. Tuttavia, il suo ruolo nel CSM, seppur sia nella quotidianità sostituito dal Vicepresidente, non è meramente simbolico, in quanto, oltre ad essere informato sulle tematiche trattate dal CSM, il Presidente può anche intervenire per esercitare poteri di impulso, di supervisione e di rinvio qualora rilevi irregolarità formali nelle procedure. 2. Concessione della grazia e commutazione delle pene (art. 87 co. 11): il Presidente può esercitare i poteri di clemenza su singole persone: con la grazia estingue la pena inflitta al condannato con la sentenza definitiva, e con la commutazione trasforma quella irrogata in una pena diversa. La Corte costituzionale specifica che la grazia sia uno strumento da sfruttare solo in caso di eccezionali esigenze di natura umanitaria, essendo pur sempre una deroga al principio di legalità e di uguaglianza. Nella prassi riconosciamo, però, che siano da tenere conto anche più generali valutazioni di carattere politico. ALTRE FUNZIONI PRESIDENZIALI Funzioni che si collocano al di fuori della classificazione appena illustrata. Pagina di 10 35 Diritto costituzionale II F. Biondi 1. Nomina di cinque giudici costituzionali (art. 135): il Presidente nomina un terzo dei membri della Corte costituzionale, tentando di bilanciare le scelte del Parlamento e quelle delle supreme magistrature. 2. Scioglimento dei Consigli regionali e rimozione dei Presidenti delle Giunte regionali (art. 126): il Presidente può sciogliere/rimuovere gli organi regionali citati per atti contrari alla Costituzione, gravi violazioni della legge o ragioni di sicurezza nazionale. Il provvedimento presidenziale deve essere adottato dopo un parere della commissione parlamentare per le questioni regionali su proposta governativa: è un potere di controllo statale su organi regionali finora mai esercitato. 3. Potere di esternazione libero: potere non costituzionalmente espresso, ma di sempre più frequente uso. I Presidenti si sono spesso schierati nel dibattito politico-istituzionale influenzando l’opinione pubblica. 4. Dimissioni: il Presidente può porre volontariamente fine al proprio mandato prima del termine previsto. 3. La controfirma e la responsabilità del Presidente della Repubblica ATTI PRESIDENZIALI IN BASE AL SOGGETTO CHE NE DECIDE IL CONTENUTO: La seconda classificazione, che si basa sulla effettiva paternità degli atti presidenziali, presuppone il fatto che nessun atto del Presidente sia valido se non controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità (art. 89 Cost). In base, quindi, al titolare sostanziale dell’atto presidenziale, Presidente della Repubblica o Ministro controfirmante, gli atti sopra citati possono rientrare in alcune categorie: a. Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali (atti presidenziali in senso stretto): atti la cui iniziativa è imputabile al solo Presidente perché è lui a decidere se adottarli e a stabilirne i contenuti. - convocazione straordinaria delle Camere - nomina di cinque senatori a vita - promulgazione e rinvio della legge - invio di messaggi alle Camere - concessione della grazia - nomina di cinque giudici costituzionali - dimissioni b. Atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi: atti presidenziali i cui contenuti sono determinati esclusivamente dal Governo, ma sui quali il Presidente può svolgere un controllo di conformità a Costituzione potendo rifiutare di adottare l’atto illegittimo. - emanazione di decreti legge, decreti legislativi e regolamenti - autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge di iniziativa governativa alle Camere - nomina degli altri funzionari di Stato - ratifica dei trattati internazionali - accreditamento dei rappresentanti diplomatici - conferimento delle onorificenze - atti assunti al comando delle forze armate c. Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi: atti il cui contenuto nasce dall’incontro delle volontà di Governo e Presidente della Repubblica. - nomina del Presidente del Consiglio, non avviene senza consenso del Presidente del Consiglio in carica d. Atti dovuti: atti la cui esecuzione è imposta dalla Costituzione, senza discrezionalità riguardo l’adozione o i contenuti: - promulgazione in caso di riapprovazione della legge - scioglimento delle Camere al termine della legislatura - indizione delle elezioni delle nuove Camere e. Atti di incerta classificazione: atti difficilmente riconducibili a una sola categoria. - scioglimento anticipato delle Camere (atti sostanzialmente presidenziali o sostanzialmente governativi) - la nomina dei ministri (atti complessi o sostanzialmente governativi) - lo scioglimento dei Consigli regionali (atti complessi o sostanzialmente governativi) - atti adottati dal Presidente come Presidente di organai collegiali, CSM e Consiglio Supremo di Difesa (atti la cui paternità non risale a Governo né al Presidente, ma al collegio di cui quest’ultimo è parte) CONTROFIRMA MINISTERIALE Si è detto che l’art. 89 Cost. stabilisce che gli atti presidenziali non possano mai essere adottati in assenza di un controllo da parte dell'esecutivo: la controfirma di un componente del Governo è, quindi, un requisito di validità degli atti presidenziali. La Costituzione individua i ministri proponenti, precisando che non tutti gli atti siano sostanzialmente decisi dal Presidente, e che quindi egli non ne sia responsabile. L’art. 90 Cost., infatti, specifica che il Presidente della Repubblica non sia responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione: dunque, la sottrazione di responsabilità dal Capo dello Stato ne comporta l’assunzione in capo al ministro controfirmante. La Corte costituzionale ha chiarito che la controfirma non ha sempre lo stesso valore e che svolge funzioni diverse a seconda dell'atto di cui è requisito di validità, in relazione agli atti non imputabili all’esecutivo. La controfirma ha valore sostanziale, quindi rappresentativo della responsabilità del potere esecutivo, quando l’atto sottoposto sia di tipo governativo ed espressione delle potestà proprie dell’esecutivo. La controfirma ha valore formale, quindi di rendere meramente valido l’atto, quando questo sia espressione di poteri propri del Presidente della Repubblica: non essendoci un ministro proponente, in questi casi il ministro Pagina di 11 35 Diritto costituzionale II F. Biondi che controfirma è quello competente in materia. Per gli atti complessi, la controfirma ha la funzione di attestare che l’atto sia frutto dell’incontro della volontà dei due organi, quindi è apposta dal Presidente del Consiglio. Infine, le dimissioni, gli atti compiuti dal Presidente in qualità di componente di organi collegiali (ex. CSM), i messaggi orali e i regolamenti presidenziali che attengono esclusivamente all’organizzazione della Presidenza della Repubblica, non richiedono la controfirma ministeriale. RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA La Costituzione mira a consentire al Capo dello Stato di svolgere le sue funzioni in autonomia e libertà: per questo il Presidente è esonerato da responsabilità politica relativa agli atti da esso compiuti. Egli conserva, tuttavia, responsabilità giuridica per i casi previsti nell’art 90 co. 1 Cost: alto tradimento e attentato alla Costituzione. Tali situazioni si verificano quando il Presidente pone in essere comportamenti diretti a sovvertire le istituzioni costituzionali o a violare la Costituzione per mettere a repentaglio l’ordinamento (ex. spionaggio politico e militare). In questi casi, il Presidente è soggetto a giudizio d’accusa in due fasi: 1. Fase politica: messa in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune con voto a maggioranza assoluta previa fase istruttoria svolta da un Comitato costituito dai membri delle Giunte per le immunità del Senato e della Camera. Questo Comitato può disporre di intercettazioni, misure cautelari limitative della libertà personale per la propria indagine, al termine della quale può: - Procedere all’archiviazione, se ritiene infondate le accuse, o dichiarare la propria incompetenza per i casi non previsti dall’art. 90 Cost. - Presentare una relazione sulla messa in stato di accusa con le conclusioni favorevoli o contrarie all’accusa stessa cui è giunto. In quest’ultimo caso, il Parlamento in seduta comune procede alla votazione: la messa in stato di accusa deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti. 2. Fase giurisdizionale: se si procede con la messa in stato di accusa, questa fase si svolge davanti alla Corte costituzionale. Per quanto riguarda i reati commessi al di fuori delle sue funzioni, il Capo dello Stato è assoggettato alla medesima responsabilità penale gravante sui cittadini. La Corte ha però chiarito in merito che le indagini riguardo a eventuali reati extra-funzionali devono avvenire con mezzi non invasivi, tali da non ledere la sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente. CAPITOLO VII 1. Il potere giurisdizionale LA GIURISDIZIONE E I SUOI COROLLARI L’art. 101 del Titolo IV Cost. dedicato alla Magistratura afferma che la giustizia sia amministrata in nome del popolo dai magistrati, soggetti soltanto alla legge: la funzione giurisdizionale, dunque, origina nella sovranità popolare non per un rapporto di rappresentanza, ma di subordinazione indiretta del magistrato alla volontà popolare per come sostanziata dalle leggi. Per il principio di separazione dei poteri, inoltre, la Magistratura è un ordine protetto da possibili ingerenze esterne: i magistrati, infatti, devono essere indipendenti, quindi non soggetti a influenze di altri soggetti o poteri che non sia il diritto, e imparziali, quindi super partes, indifferenti agli interessi in discussione nel processo. Essi devono applicare il diritto astratto (ius dicere) alle fattispecie concrete, le quali sono definite da una pronuncia motivata che si impone tra le parti ed è definitiva e incontrovertibile. Tale funzione necessita, quindi, di garanzie a tutela del diritto di difesa, il quale è reso effettivo dal fatto che a rispondere alla domanda di giustizia di un individuo sia un giudice indipendente e imparziale. Sussistono, però, ulteriori corollari a tutela del diritto di difesa: in primo luogo, che il giudizio sia assegnato a un giudice naturale precostituito per legge, quindi che il legislatore affidi a priori tale compito, per garantirne l’imparzialità; infine, sussiste un insieme di garanzie di un giusto processo, quindi la parità tra le parti in ogni fase del processo e la ragionevole durata di quest’ultimo, al fine di evitare lungaggini processuali che potrebbero compromettere la tutela delle parti. L’ATTIVITÀ INTERPRETATIVA DEI GIUDICI In uno Stato di diritto con poche e chiare leggi, l’attività di applicazione del diritto demandata ai giudici appare neutrale e meccanica, ma nel contesto di ordinamenti giuridici complessi e caratterizzati dalla stratificazione di precetti normativi quasi mai univoci, tale attività implica una discrezionalità valutativa. L’attività interpretativa dei giudici, però, non è libera: essi sono guidati da criteri imposti dall’ordinamento e devono rispettare il limite del testo della legge a cui sottostanno, non essendo competenza della Magistratura l’attività creativa di diritto (in situazioni di affanno dei partiti, però, essa compensa le carenze della politica). GIURISDIZIONE ORDINARIA La giurisdizione ordinaria è affidata ai magistrati ordinari, i quali hanno come organo referente il CSM. La magistratura ordinaria può essere giudicante, cui appartengono i giudici, o requirente, cui appartengono i pubblici ministeri: Pagina di 12 35 Diritto costituzionale II F. Biondi Cost. che afferma che i p.m. abbiano l'obbligo di esercitare l'azione penale: quindi, ricevuta una notitia criminis, il pubblico ministero è tenuto a dare impulso al processo penale, senza spazio di discrezionalità. Tuttavia, l’indipendenza del p.m. non è la medesima di quella garantita al giudice: in proposito, l’art. 108 Cost. precisa che ad assicurare l’indipendenza del p.m. debba essere la legge. È, quindi, consentito al legislatore temperare l'indipendenza del p.m. per soddisfare esigenze di imparzialità e uguaglianza, potenzialmente incise dalle attività dei magistrati inquirenti durante le indagini. Quindi ad essere indipendente è l'ufficio della procura, e non i singoli pubblici ministeri che vi operano, i quali possono dover rispondere alle direttive del procuratore capo a garanzia dell'uniformità nell'esercizio della funzione. IMPARZIALITÀ DEL MAGISTRATO L’art. 111 Cost. richiede che ogni processo si svolga di fronte a un giudice terzo e imparziale: quindi, deve essere posto ad assoluta equidistanza dalle parti e non deve sussistere né un interesse personale all’esito della controversia né un pregiudizio nella formulazione della decisione. Istituti a garanzia della sua imparzialità: 1. Incompatibilità, quando il magistrato si trovi in una delle condizioni previste per legge. 2. Astensione, obbligatoria nei casi stabiliti per legge. 3. Ricusazione, su istanza di parte quando il magistrato non si sia astenuto di sua iniziativa. 4. Rimessione del processo, su richiesta di parte quando si verifichino situazioni che turbino il processo, pregiudicando la sicurezza o l’incolumità pubblica di chi partecipa. L’art. 111 Cost. si riferisce soltanto ai giudici, ma i pubblici ministeri sono tenuti all’imparzialità, mentre non hanno obbligo di terzietà. 4. Il regime di responsabilità del magistrato RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO I magistrati possono essere chiamati a rispondere di come concretamente esercitino la funzione giurisdizionale in un processo: sarebbe inaccettabile lasciare senza tutela chi abbia subito un pregiudizio in ragione del comportamento del magistrato, ma è altrettanto essenziale che il legislatore non ne comprometta l’indipendenza. La consapevolezza di poter essere sottoposto a giudizio di responsabilità potrebbe condizionare il libero convincimento del magistrato e influenzarne le valutazioni, andando a nuocere i diritti di chi è sottoposto alla sua giurisdizione. Con l'osservanza di alcune garanzie, il magistrato può, quindi, essere chiamato a rispondere di una responsabilità civile, di una responsabilità disciplinare, e, senza alcun ostacolo, di una responsabilità penale. Sui magistrati non grava, invece, alcuna responsabilità politica non essendo giudici e pubblici ministeri rappresentanti del popolo in alcun modo. RESPONSABILITÀ CIVILE I magistrati possono incorrere in responsabilità civile, quindi essere condannati a risarcire i danni dovuti all’adozione di un proprio provvedimento: quali funzionari dello Stato, infatti, i magistrati rispondono secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti. Per bilanciare i diritti del soggetto leso e l’indipendenza e imparzialità della Magistratura, il legislatore, con la nuova disciplina legislativa l.n. 18/2015, impone che le richieste di risarcimento siano rivolte allo Stato che, eseguite le debite valutazioni, potrà rivalersi nei confronti del magistrato. Con l’orientamento della Corte di Giustizia è ora rifiutata l’esclusione della responsabilità civile nei casi di errata interpretazione di norme UE. La nuova disciplina ha, inoltre, stabilito che in caso di colpa grave lo Stato dovrà rispondere del danno dal magistrato anche quando sia riscontrabile, pure in assenza di negligenza inescusabile, una violazione manifesta della legge e del diritto UE. Per preservare l’indipendenza del magistrato, però, lo Stato potrà rivalersi su quest’ultimo solo in presenza dolo o negligenza inescusabile. È stata anche soppressa l’udienza di filtro, in cui era valutata l’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno. RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE I magistrati, ordinari e speciali, possono incorrere in responsabilità disciplinare nell’esercizio delle funzioni o al di fuori qualora commettano una violazione accertata dal CSM di uno dei doveri loro attribuiti dalla legge. Il CSM provvederà, poi, a irrogare sanzioni come ammonimento, censura, sospensione delle funzioni o rimozione dal ruolo di magistrato. Con la riforma dell’ordinamento giudiziario, a tutela del magistrato gli obblighi disciplinari sono stati tipizzati: attraverso la predeterminazione delle fattispecie di illecito, rispetto alla precedente forma generica, sono stati così ristretti i margini di discrezionalità del CSM. Il poter d’impulso ad azionare il procedimento disciplinare è demandato al Ministro di Giustizia, per non lasciare che i magistrati operino in un isolamento corporativo avendo le loro azioni ricadute sull’intero ordinamento, e al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, p.m. durante in procedimento. A presidio, però, dell’indipendenza della Magistratura, è il CSM l’organo demandato a gestire il procedimento disciplinare e a valutare le eventuali responsabilità del magistrato stesso. Pagina di 15 35 Diritto costituzionale II F. Biondi DIRITTO DI DIFESA E GARANZIE DEL PROCESSO A tutela giurisdizionale dei diritti sono poste diverse garanzie: 1. Diritto di difesa (art. 24 Cost.): tutti possono agire in giudizio per la tutela di diritti e interessi legittimi, senza limitazione a particolari categorie di atti, precisando che la difesa sia un diritto inviolabile, quindi non passibile di revisione costituzionale o procedimenti internazionali. Un’ostacolo all’esercizio di tale diritto è il costo della tutela giurisdizionale dei diritti, su cui interviene l’istituzione del patrocinio gratuito a spese dello Stato per i non abbienti in virtù del principio solidaristico. 2. Diritto al giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.): corollario del diritto di difesa che implica che l’ufficio giudiziario competente per materia sia individuato prima dell’insorgere della controversia in base a criteri generali prefissati, a garanzia dell’imparzialità del giudice. 3. Garanzie del giusto processo (art. 111 Cost.): garanzia del diritto al contraddittorio in condizioni di parità tra le parti, del diritto a un giudice terzo e imparziale e a una ragionevole durata del processo, motivo di sanzioni per l’Italia da parte dalla CEDU, su cui è intervenuta la Legge Pinto, per veder pronunciata una sentenza in termini non eccessivi. 4. Garanzia di un provvedimento giudiziale motivato, per consentire di impugnare il provvedimento ritenuto ingiusto dinanzi a un organo giurisdizionale di grado superiore. L’obbligo di motivazione è funzionale al ricorso in cassazione per motivi di legittimità. 5. Principio del contraddittorio nella formazione della prova: principio a garanzia del giusto processo penale, derogabile solo su consenso dell’imputato per ragionevoli motivi. Al penale sono dedicati: - Principio di legalità (art. 25 Cost.): nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso: tale principio postula la necessaria determinatezza della norma penale, caratterizzata come irretroattiva e tassativa. - Carattere personale della responsabilità penale (art. 27 co. 1 Cost.): vieta che si possa rispondere penalmente per fatto altrui, richiedendo un rapporto causale tra condotta ed evento antigiuridico e di consapevolezza, oggettivo e soggettivo, tra reo e condotta tenuta. - Presunzione di non colpevolezza (art. 27 co. 2 Cost.): stabilisce che l’imputato non sia considerato colpevole fino alla condanna definitiva e che, implicitamente, non stia a lui provare la propria innocenza, ma all’accusa la colpevolezza. - Finalità rieducativa della pena (art. 27 co. 3 Cost.): la pena, proporzionata alla gravità del reato commesso, deve avere come finalità primaria il reinserimento, a fine pena, del reo in società. CAPITOLO VIII 1. L’organizzazione degli enti regionali ORGANIZZAZIONE DECENTRATA DELLO STATO ITALIANO L’organizzazione regionale italiana è stata oggetto di un’opera di revisione tra 1999 e 2001, che ne ha profondamente modificato l’impianto originario. In Assemblea costituente, le forze politiche più inclini a un assetto centralizzato dello Stato erano in minoranza rispetto a chi spingeva per accostare all’apparato statale centrale delle entità territoriali dotate di autonomia. Quando si trattò di individuare il modello da adottare, furono fissati il principio di unità e indivisibilità della Repubblica e il fatto che essa riconosce e promuove le autonomie locali e attua, nei servizi che dipendono dallo Stato, il più ampio decentramento amministrativo. Una soluzione mediana coerente col testo originario che già riconosceva come entità facenti parte della Repubblica Comuni, Province e Regioni. La scelta della nostra Costituzione è stata di istituire uno Stato regionale, contrassegnato da un limitato decentramento politico, ma fondato sull’idea che esistano interessi regionalmente localizzati da affidare alla cura di enti di corrispondente estensione territoriale, oltre a quelli unitari infrazionabili di responsabilità dell'autorità sovrana dello Stato. La distinzione tra Stato federale e Stato regionale dovrebbero tener conto di quali poteri la Costituzione di un ordinamento assegni alle articolazioni territoriali: alle 20 Regioni italiane è attribuita un’autonomia in forme diverse che si tratti di Regioni a Statuto ordinario o Regioni a Statuto speciale (Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige, Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia). Queste ultime, che per ragioni storiche godono di maggiore autonomia esplicitata in Statuti speciali adottati con legge costituzionale, si differenziano dalle altre 15 Regioni che hanno autonomia più limitata. Nel 1948, le Regioni si vedevano riconosciute autonomia e funzioni alquanto limitate: le Regioni ordinarie potevano definire solo l’organizzazione interna e la disciplina sull’iniziativa di referendum regionale; lo Statuto doveva essere deliberato dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta e approvato con legge della Repubblica; la potestà legislativa regionale ricopriva un limitato ambito di materie, nelle quali esercitavano solo funzioni amministrative; l’autonomia finanziaria era molto circoscritta. Benché presenti nel testo costituzionale, le Regioni iniziarono a operare solo nel 1970 con la l.n. 108/1968, che regolava le elezioni dei Consigli regionali che si svolsero per la prima volta nel giugno 1970. La loro effettiva attivazione era stata osteggiata dalle maggiori forze politiche che temevano un proprio indebolimento in caso di risultati elettorali regionali contrari a quelli nazionali. Affinché le Regioni potessero Pagina di 16 35 Diritto costituzionale II F. Biondi effettivamente operare, occorreva, però, regolare il trasferimento alle Regioni stesse delle funzioni amministrative e il passaggio di funzionari e impiegati statali alle dipendenze regionali. A tale scopo, lo Stato ottemperò prima con il d.lgs. 1/1972, poi con il d.lgs. 616/1977. Di recente, con la Riforma Bassanini, lo Stato implementò il ruolo delle Regioni e degli altri enti locali, permettendo alle prime di gestire settori molto più ampi di amministrazione, con la sola eccezione degli ambiti trattenuti dalla competenza statale: questa tendenza al potenziamento dei livelli di governo decentrato ha trovato una formalizzazione nelle riforme del 1999 e 2001. - Legge costituzionale n. 1/1999: ha introdotto nell'organizzazione istituzionale delle Regioni il potere di stabilire in autonomia con i propri Statuti i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento, nonché la forma di governo regionale. - Legge costituzionale n. 3/2001: ha ampliato le competenze legislative regionali. Laddove Costituzione del 1948 elencava agli ambiti di competenza regionale lasciando allo Stato una generalizzata competenza legislativa, la riforma del 2001 ha circoscritto le competenze esclusive statali e quelle di competenza concorrente, delegando la competenza in tutte le altre materie alle Regioni. Inoltre, ha formalizzato il principio di sussidiarietà in materia amministrativa, attribuendo le funzioni amministrative all'ente territoriale più prossimo ai cittadini, ovvero il Comune, salvo siano conferite a livello più alto. Infine, l'autonomia finanziaria è stata ampliata mediante l’eliminazione di alcuni vincoli. Tuttavia, la riforma costituzionale del 2001 ha dato origine a numerose incertezze che hanno richiesto l’intervento della Corte costituzionale a chiarire dubbi interpretativi: emerge un’interpretazione riduttiva delle funzioni regionali rispetto quello che il testo della riforma lasciava inizialmente intendere. Attualmente, le Regioni a Statuto ordinario si vedono costituzionalmente garantito: - Autonomia statutaria in ambito organizzativo e istituzionale, che si esplica nel potere di scegliere, attraverso il proprio Statuto, la propria forma di Governo. - Potestà normativa, necessaria a determinare il proprio indirizzo politico. - Funzione amministrativa, attraverso cui dare attuazione alle scelte legislative. - Autonomia finanziaria per dotarsi dei mezzi necessari a perseguire i propri fini. - Possibilità di attivare un procedimento per ottenere dallo Stato il riconoscimento di ulteriore autonomia in specifiche materie elencate all’art. 116 Cost.: un procedimento su iniziativa della Regione che ad oggi non si è ancora realizzato, ma alcune di esse lo hanno attivato. ORGANI REGIONALI Organi regionali costituzionalmente previsti: - Consiglio regionale - Giunta regionale - Presidente della Regione - Consiglio delle autonomie locali, aggiunto con la riforma del 2001, previsto ora dall’art. 123 Cost. Il Consiglio regionale è l'organo rappresentativo della comunità regionale: è eletto direttamente dai cittadini della Regione, quindi è espressione del principio di sovranità popolare, e ha una durata di 5 anni. I Consigli regionali, i cui membri godono dell'insindacabilità per i voti e le opinioni espresse, detengono il potere di approvare le leggi regionali e compete loro anche una funzione di indirizzo e controllo nei confronti della Giunta, in virtù della facoltà loro concessa di sfiduciare il Presidente della Giunta. Il numero massimo di consiglieri regionali è è calcolato in rapporto col numero di abitanti: la regione più popolosa, la Lombardia, ne possiede 80, mentre, quelle con meno abitanti, possono averne massimo 20. Il sistema di elezione dei Consigli regionali è definito da ciascuna Regione: con la l.n. 165/2004 è stato imposto al legislatore regionale di conformarsi a criteri di ineleggibilità e incompatibilità dei consiglieri. Oltre a questi ultimi, le regole elettorali regionali devono anche garantire il principio del libero mandato, assicurare la formazione di stabili maggioranze e la rappresentanza delle minoranze, e promuovere pari opportunità nell'accesso alle cariche elettive. La Giunta regionale è l'organo esecutivo composto da Presidente della Giunta e un numero di assessori fissati dallo Statuto. Il Presidente della Giunta rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta, promulga leggi ed emana regolamenti regionali: se eletto a suffragio universale, inoltre, ha il potere di nominare e revocare gli assessori e, per la sua forte legittimazione democratica, può incidere sull’indirizzo politico della Regione influendo sulla sorte del sorte del Consiglio stesso. Il Consiglio delle autonomie locali (CAL) è l’organo di consultazione permanente tra la Regione e gli enti locali del territorio in virtù di una leale collaborazione nei rapporti infraregionali, che assicura gli enti regionali minori la rappresentanza dei propri interessi nei rapporti con la Regione. FORMA DI GOVERNO REGIONALE Originariamente, la Costituzione prevedeva per le Regioni la forma di governo parlamentare, in cui Presidente della Giunta e assessori erano eletti dal Consiglio tra i suoi membri: così, al Consiglio competeva Pagina di 17 35 Diritto costituzionale II F. Biondi arbitrario e iniquo del legislativo. Il modello europeo affida a un solo organo ad hoc, non appartenente al potere giudiziario, il compito di accertare le difformità costituzionali delle leggi e la facoltà di annullarle con effetti erga omnes per il futuro se dichiarate incostituzionali. 2. La Corte Costituzionale MODELLO ITALIANO DI GIUDIZIO SULLE LEGGI In Italia, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, non esisteva controllo di costituzionalità delle leggi, in quanto la legge ordinaria derogava allo Statuto Albertino, che, quindi, era flessibile (primato della legge). L’Assemblea Costituente discusse sull’introduzione di un controllo di costituzionalità delle leggi come strumento di tutela delle libertà costituzionali: dovendo quindi costruire un sindacato di costituzionalità diffuso o accentrato, in Assemblea prevalse quest’ultimo modello, quindi per l'istituzione di una Corte costituzionale come organo ad hoc esterno al potere giudiziario. Fu quindi necessario esaminare le modalità attraverso le quali l’organo potesse essere investito della questione di costituzionalità. Forme di accesso: 1. In via incidentale: la questione di legittimità sorge nel corso di un giudizio concreto e la relativa decisione ha effetti solo per il giudizio in questione, salvo richiesta di alcuni soggetti qualificati. 2. Per azione diretta del singolo: un giudizio in via principale e astratto legittima il cittadino ad agire nei confronti della legge incostituzionale entro un termine da definire. 3. Su azione di alcuni soggetti: questione sollevata da parte di alcuni soggetti qualificati dal progetto Patricolo presentato in Seconda Sottocommissione. 4. In via principale (art. 127 Cost.), che riguarda i rapporti tra Stato e Regione. Inizialmente era previsto il ricorso dello Stato in via preventiva durante l’iter di approvazione della legge, mentre le Regioni potevano sollevare questione di legittimità su legge statale o regionale solo in via successiva. Dopo la riforma del 2001, il giudizio in via principale prevede condizioni di parità fra Stato e Regioni nell'instaurazione del giudizio: in entrambi i casi, quest’ultimo è successivo all'entrata in vigore della legge e il ricorso deve essere presentato entro 60 giorni dalla pubblicazione. Il sistema di giustizia costituzionale, quindi, prevede che i giudizi sulle leggi siano instaurati in via incidentale e in via principale, limitandone l'accesso, però, nel secondo caso, a Stato e Regioni. Il partito comunista si opponeva all’azione diretta del cittadino qualunque temendo che chiunque, quindi, potesse mettere in discussione il Parlamento, votato dal popolo, ma all’art. 137 è stata poi approvata la legge dell’Assemblea che introduceva la forma di accesso incidentale. Tuttavia, l’accesso in via incidentale mostra un modello accentrato solo in apparenza: l’iniziativa, infatti, è diffusa, perché ogni giudice può sollevare questione di legittimità. Questo elemento di diffusione inserito nel sistema prevalentemente accentrato rende quello italiano un sistema a sindacato di costituzionalità misto. FUNZIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE Ai sensi dell’art. 134 Cost., alla Corte spettano diverse attribuzioni: 1. Controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. 2. Giudizio sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, fra Stato e Regioni o fra Regioni e Province autonome, nei quali la Corte deve decidere a quale potere o ente spetti l’attribuzione contestata. 3. Giudizio di accusa nei confronti del Presidente della Repubblica, a seguito della messa in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune. 4. Giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo di leggi e di atti con forza di legge statale: funzione non prevista dalla Costituzione, ma introdotta con la l.n. 1/1953. COMPOSIZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE I membri della Corte sono scelti dai tre diversi poteri dello Stato al fine di tradurre le competenze peculiari dell’organo, che hanno le caratteristiche di un’autorità chiamata a decidere nell’ambito di un processo costituzionale e, al contempo, di un organo politico, essendo la legge, atto politico per eccellenza, l’oggetto della sua giurisdizione. La composizione della Corte e i requisiti per la nomina garantiscono la professionalità e mirano a escludere che i giudici siano mera espressione di forze politiche. L’art. 135 Cost., stabilisce che i 15 giudici costituzionali sono nominati: - Per 1/3 dal Presidente della Repubblica con atto controfirmato dal Presidente del Consiglio. - Per 1/3 dal Parlamento in seduta comune a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti nei primi tre scrutini e successivamente con la maggioranza dei tre quinti dei componenti. - Per 1/3 dalle supreme magistrature, ordinarie e amministrative, in tre distinti collegi elettorali a maggioranza assoluta, con eventuale ballottaggio tra i candidati, in numero doppio dei giudici da eleggere, che abbiano riportato il maggior numero di voti al primo turno. I giudici della Corte costituzionale sono scelti tra i magistrati, anche a riposo, delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrativa, tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra gli avvocati dopo vent'anni di esercizio, per garantirne professionalità e competenza. Pagina di 20 35 Diritto costituzionale II F. Biondi A garanzia dell'indipendenza dei giudici: - Durata ampia del mandato di 9 anni con due correttivi: gradualità del rinnovo del collegio dal momento che non tutti i giudici cessano il mandato contemporaneamente, e il divieto di rielezione. - Inamovibilità: non possono essere rimossi né sospesi dal loro incarico, se non con approvazione della stessa Corte a maggioranza dei due terzi dei presenti, per sopravvenuta incapacità o per gravi mancanze. - Inviolabilità: in carica, godono dell’inviolabilità personale e domiciliare, che potrà essere sottoposta a limitazioni solo con autorizzazione della Corte. - Insindacabilità: opinioni e voti espressi nell’esercizio delle funzioni non sono perseguibili né sindacabili. - Attribuzione di una retribuzione mensile non inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria. A garanzia dell’organo: - Autonomia finanziaria, amministrativa e regolamentare. - Potere di verifica dei titoli di ammissione dei propri membri, a maggioranza assoluta. La Corte costituzionale elegge al proprio interno un Presidente: carica di 3 anni, rieleggibile, cui compete l’organizzazione dei lavori e l’assegnazione delle cause ai singoli giudici. Per il principio di collegialità, ogni decisione è discussa e adottata dal plenum in base alla relazione e alla decisione esposta dal giudice relatore, che viene letta e approvata dal collegio: l'ordinamento non prevede che i giudici contrari possano redigere una motivazione dissenziente o concorrente; tuttavia, una forma di dissenso, si rileva nei casi in cui il giudice relatore non rediga la sentenza perché, trovatosi in minoranza, non ha condiviso la decisione della maggioranza né si è sentito di scriverne la motivazione. Nei giudizi di accusa contro il Presidente della Repubblica, la Corte è integrata da 16 giudici tratti a storte da un elenco di cittadini aventi i requisiti di eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni 9 anni. 3. Il giudizio sulle leggi in via incidentale NOZIONE DI GIUDICE E DI GIUDIZIO La questione di legittimità deve sorgere nell’applicazione concreta della legge: spetta al giudice rimettente rivolgersi alla Corte previa verifica della sussistenza delle condizioni di proponibilità della questione di legittimità costituzionale, ossia rilevanza della questione e non manifesta infondatezza. La legittimazione a sollevare la questione spetta all’autorità giurisdizionale nel corso di un giudizio. L’autorità giurisdizionale, quindi il giudice, è l’organo dell’ordinamento giudiziario chiamato a prendere una decisione imparziale, in contraddittorio tra le parti interessate. Il giudizio, invece, è qualsiasi sede, anche non contenziosa, in cui l’organo giudicante prenda decisioni facendo obiettiva applicazione di norme giuridiche. Inizialmente, per consentire l’accesso al sindacato del maggior numero di questioni possibili, la Corte riteneva sufficiente anche uno solo dei due requisiti: la questione era ammissibile se sollevata in qualsiasi procedimento qualificabile come giudizio, anche davanti a organi di per sé non giudiziari (criterio oggettivo), sia in qualsiasi procedimento, anche non giurisdizionale, davanti a un giudice (criterio soggettivo). Dopo gli anni ’80, però, l’aumento del contenzioso di fronte alla Corte spinse a un maggior rigore: infatti, ai fini dell’ammissibilità della questione, divennero necessari entrambi i requisiti, pur riconoscendo delle deroghe (ex. arbitri rituali, Commissione giurisdizionale). RILEVANZA DELLA QUESTIONE Il giudice può sollevare la questione di legittimità se il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di costituzionalità: il requisito di rilevanza della questione trova fondamento nella legge ordinaria, sebbene sia implicito nella logica incidentale del sindacato. Rilevanza: nesso di pregiudizialità intercorrente tra il giudizio a quo, nel quale sorge la questione di legittimità costituzionale, e il giudizio di costituzionalità per cui il primo non può proseguire senza la risoluzione della questione di costituzionalità. Una questione è, quindi, rilevante quando i dubbi di costituzionalità investono una norma che il giudice deve applicare per definire un giudizio pendente, o quando la decisione della Corte sulla fondatezza di tali dubbi influisce sulla decisione del giudice remittente. Alla fine degli anni ’80, a causa dell'aumento del contenzioso il controllo circa la rilevanza era particolarmente rigoroso, attualmente, invece, è richiesta sia la sussistenza della rilevanza, sia la presenza di una motivazione in punto di rilevanza: la Corte può, quindi, dichiarare inammissibile una questione perché irrilevante o perché il giudice abbia omesso di motivare la rilevanza o l'abbia fatto in modo non adeguato. Inoltre, una questione è inammissibile causa irrilevanza anche per difetto di attualità: attuale è la questione che investe la norma che il giudice competente di quella fase processuale deve applicare; viceversa prematura è la questione sollevata da un giudice che non deve applicare in quella fase di competenza la norma, che potrà trovare applicazione successivamente a opera di un giudice diverso; infine, tardiva è la questione sollevata dal giudice che abbia già fatto applicazione della norma della cui legittimità dubita. Negli Pagina di 21 35 Diritto costituzionale II F. Biondi ultimi due casi, la questione è irrilevante perché la decisione della Corte non sarebbe idonea a produrre alcuna influenza nell'ambito del giudizio principale. Qualora sopravvengano, successivamente alla rimessione della questione, fatti o eventi nuovi, che possano incidere sulla permanenza della rilevanza della questione, se gli eventi sopravvenuti interessano il processo a quo, la Corte non pronuncia l’inammissibilità per sopravvenuta irrilevanza, essendo il giudizio di rilevanza soddisfatto al momento della rimessione alla Corte. Se, invece, interessano il sistema normativo generale, quindi se si presentano di fronte al ius superveniens, la Corte rimette gli atti al giudice a quo, perché proceda a una nuova valutazione in punto di rilevanza, a seguito della quale, potrà sollevare nuovamente la questione se la riterrà nuovamente rilevante. NON MANIFESTA INFONDATEZZA Un altro requisito per sollevare la questione di costituzionalità è la non manifesta infondatezza: si tratta di un filtro di merito posto allo scopo di prevenire che l'incidente di costituzionalità sia utilizzato dalle parti del giudizio a quo con meri scopi dilatori, e che la Corte si trovi a giudicare questioni del tutto infondate. La doppia negazione si riferisce al dubbio che la norma sia incostituzionale: non è necessario che il giudice sia convinto della fondatezza né che sia persuaso del contrario, ma soltanto che esistano oggettive ragioni di incertezza della compatibilità costituzionale della norma. Nella valutazione, il giudice esplicherà un sommario giudizio di merito, limitandosi a rilevare il dubbio, altrimenti invaderebbe la giurisdizione esclusiva della Corte di dichiarare la fondatezza o meno delle questioni di costituzionalità. La Corte controlla che il giudice abbia valutato tale requisito attraverso la motivazione contenuta nell’ordinanza di rimessione e analizzando le motivazioni che il giudice deve dare della decisione opposta, con cui respinge l'eccezione di illegittimità costituzionale per manifesta irrilevanza o infondatezza. INTERPRETAZIONE CONFORME A COSTITUZIONE La Corte costituzionale ha poi individuato un altro requisito, ossia l’interpretazione conforme a Costituzione (interpretazione adeguatrice). Nella giurisprudenza è sempre stato affermato il principio per cui, tra due possibili interpretazioni, sia da applicare l’unica compatibile con la Costituzione: compito dei giudici sarebbe ancor più valorizzato per il principio secondo cui le leggi non si dichiarano illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali. Quindi la Corte richiede che sia applicato il tentativo di interpretazione conforme, senza il quale la questione viene dichiarata inammissibile. Tuttavia, a partire dal 2019, la Corte ha rivalutato tale requisito, riqualificando se stessa come unico interprete della Costituzione, richiedendo ai giudici di valutare solo la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione. ORDINANZA DI RIMESSIONE: NORMA OGGETTO, NORMA PARAMETRO E TIPOLOGIA DEI VIZI Verificate la rilevanza e la non manifesta infondatezza, il giudice redige un’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, che deve contenere: 1. Indicazione dell’autorità procedente e del giudizio nell’ambito del quale la questione è stata sollevata. 2. Riferimento alla controversia nell’ambito della quale sorge la questione. 3. Indicazione del soggetto che ha prospettato il dubbio per stabilire se la relativa questione sia sollevata d’ufficio o su istanza di parte. 4. Motivazione in punto di rilevanza della questione. 5. Motivazione in punto di non manifesta infondatezza della questione. 6. Soluzione chiesta alla Corte costituzionale. 7. Il dispositivo contenente la decisione di rimettere la questione dinanzi alla Corte, la dichiarazione della sua irrilevanza e non manifesta infondatezza e la dichiarazione di sospensione del giudizio in corso. L’ordinanza di rimessione è l’atto introduttivo del giudizio di costituzionalità nel quale viene definito il thema decidendum, ovvero l’oggetto sul quale la Corte è chiamata a pronunciarsi: se il dubbio concerne solo parte del contenuto normativo, allora la questione sarà sollevata solo rispetto alla determinata parte. Il modo in cui il giudice imposta la questione, quindi, è determinante ai fini della decisione della Corte, che può anche operare delle correzioni che amplino l’oggetto del giudizio o sollevando questioni di legittimità collegate a quella oggetto. La questione di legittimità costituzionale è costituita dalla norma oggetto, ossia la norma rispetto alla quale si prospetta il dubbio di conformità alla Costituzione, e dalla norma parametro, ossia la norma della Costituzione che si assume violata. Le norme oggetto passibili di giudizio della Corte sono le leggi, gli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni e le leggi costituzionali; mentre sono esclusi gli atti normativi subordinati alla legge, il cui controllo di legittimità spetta al giudice comune, e i regolamenti parlamentari. L'oggetto della questione di legittimità riguarda le norme che si ricavano dalle disposizioni attraverso l’interpretazione, poiché, nell’ordinanza, il giudice a quo deve indicare la norma della cui costituzionalità Pagina di 22 35 Diritto costituzionale II F. Biondi al legislatore introdurla e ai giudici ricavarla. In realtà, la manipolazione operata dalla Corte è a rime obbligate: la Corte non crea nuove norme, ma si limita a ricavarle dal sistema costituzionale per evitare vuoti legislativi (horror vacui) e supplire alle carenze della politica nella promozione dei diritti fondamentali. - Rinvio dell’udienza a data fissa: per lasciare al legislatore la prima parola sui casi che presentano una pluralità di soluzioni additive, ma preservando il diritto di intervenire per inerzia del legislatore, la Corte dispone con ordinanza il rinvio di un anno dell’udienza pubblica su un atto che ritiene incostituzionale. Concede, così, del tempo al legislatore per intervenire, anche se, spesso, la Corte ha dovuto sfruttare il potere di dichiarare comunque incostituzionale la norma oggetto dell’udienza per mancato intervento. - Sentenze additive di principio: la Corte dichiara l'illegittimità della disposizione nella parte in cui non rispetta un principio costituzionale, limitandosi a fissare un principio generale che dovrà essere attuato soltanto mediante l'intervento del legislatore. Rispetto alle sentenze additive classiche, quindi, la Corte non stabilisce il contenuto normativo da aggiungere alla norma impugnata, ma individua soltanto i principi che dovranno ispirare il legislatore in un secondo momento. 5. Gli altri giudizi sulle leggi GIUDIZIO IN VIA PRINCIPALE Con il giudizio in via principale, la Corte decide della questione astratta, senza che essa sia posta in una sede di concreta applicazione. La legittimazione (legitimatio ad causam) a fare ricorso in via principale è riservata a Stato e Regioni (+ Province autonome di Trento e Bolzano), rappresentati in sede processuale, rispettivamente da Presidente del Consiglio e Presidente della Giunta regionale. Originariamente, i termini per l’impugnazione delle leggi statali erano differenti da quelli stabiliti per le leggi regionali, tuttavia, ad oggi la situazione è stata parificata: entrambe possono essere impugnate solo successivamente alla loro entrata in vigore, entro 60 giorni dalla pubblicazione. Un requisito essenziale per l’ammissibilità della questione di legittimità in via principale è l’interesse al ricorso, che consiste nell'utilità della pronuncia della Corte nei confronti della situazione giuridica fatta valere dal ricorrente. La sussistenza di tale requisito può essere apprezzata alla luce dei medesimi vizi che possono essere denunciati nei rispettivi ricorsi: in ragione della diversa posizione che i due enti occupano nell’ordinamento, lo Stato può denunciare la violazione di qualsiasi norma costituzionale da parte della legge regionale, mentre le Regioni possono denunciare solo la lesione delle proprie competenze legislative. Nel ricorso non possono mancare le disposizioni censurate e i parametri costituzionali, corrispondenti alla delibera della parte che decide l’impugnazione, pena inammissibilità; d’altra parte, invece, le motivazioni a sostegno del ricorso possono mancare, dovendole poi precisare l’Avvocatura dello Stato di fronte alla Corte nell’atto introduttivo. Con riguardo ai profili processuali, il giudizio in via principale è un processo di parti: è promosso su impulso di una parte e si può estinguere per rinuncia del ricorrente. La Corte può, inoltre, dichiarare la cessazione della materia del contendere qualora verifichi circostanze che incidono su esistenza o efficacia dell'atto impugnato. I giudizi in via principale non ammettono l’intervento di terzi diversi dai titolari delle attribuzioni legislative in contestazione e, in pendenza di giudizio, è possibile la sospensione dell’atto impugnato con ordinanza motivata quando l’esecuzione arrecherebbe grave pregiudizio. Le decisioni possono essere di inammissibilità, di infondatezza o di accoglimento, meno comuni sono le sentenze manipolative. CONTROLLO DEGLI STATUTI REGIONALI Alla Corte costituzionale compete il controllo sugli Statuti e sulle leggi statutarie delle Regioni ordinarie. La legittimazione a fare ricorso è riservata al Governo, il quale può intervenire dopo la doppia approvazione da parte del Consiglio regionale ed entro 30 giorni dalla pubblicazione (termine per l’eventuale svolgimento del referendum popolare); qualora il vizio sopraggiunga solo dopo la scadenza dei termini previsti, il Governo può utilizzare il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni. Il ricorso deve contenere l’indicazione delle norme costituzionali violate e la motivazione sulle ragioni. Il Governo può dedurre qualsiasi vizio di legittimità: ha particolare rilievo l’armonia con la Costituzione, quindi il puntale rispetto delle disposizioni costituzionali. 6. Conflitti di attribuzione e ulteriori competenze della Corte CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE FRA POTERI DELLO STATO I giudizi sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato (conflitti interorganici) sono affidati alla Corte costituzionale dall’art. 134 Cost. per mantenete in ordine la separazione dei poteri che compongono lo Stato e garantire il rispetto delle competenze che la Costituzione attribuisce a questi. La legittimazione è attribuita genericamente dall’art. 134 Cost. ai poteri dello Stato, in particolare agli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono: ci si riferisce a: - Poteri classici (esecutivo, legislativo, giudiziario). - Poteri cui la Costituzione attribuisce specifiche competenze (ex. Presidente Della Repubblica, CSM). Pagina di 25 35 Diritto costituzionale II F. Biondi - Poteri estranei allo Stato-apparato che esercitino poteri che rientrano nello svolgimento di più ampie funzioni (ex. promotori del referendum abrogativo) Quindi, non rientrano tra i soggetti legittimati a prendere parte ai conflitti interorganici i partiti politici, i singoli cittadini, gli enti locali o le associazioni dei consumatori. La l.n. 87/1953 introduce la distinzione tra poteri-organo, poteri che si esauriscono in un solo organo (ex. Presidente della Repubblica), dagli organi-potere, poteri che si estrinsecano in più organi (ex. potere giudiziario, composto da tutti gli organi che esercitano la funzione giudiziaria): tutti gli organi abilitati a dichiarare in via definitiva la volontà del singolo potere cui appartengono possono sollevare un conflitto di attribuzione. Così, il Presidente della Repubblica può tutelare le proprie competenze tramite la sua persona, mentre nel potere esecutivo soltanto il Consiglio dei ministri può dichiarare definitivamente la volontà di tale potere per il Governo. L'oggetto del conflitto è la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali, che la Corte risolve dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni in contestazione e, qualora sia stato emanato, annullando l’atto viziato da incompetenza: quindi, un potere dello Stato può sollevare un conflitto di attribuzione qualora ritenga che un altro potere abbia emanato un atto lesivo delle competenze ad esso attribuite e la Corte dovrà verificare se quell’atto o comportamento abbia effettivamente leso le competenze che la Costituzione ha conferito al potere ricorrente. Il parametro del conflitto è la norma costituzionale attributiva della specifica competenza. I conflitti di attribuzione si distinguono in due tipologie: 1. Conflitti da usurpazione (vindicatio potestatis), in cui il potere ricorrente ritiene che un altro potere abbia esercitato una competenza a sé esclusivamente riservata: riguarda la spettanza dell’attribuzione. 2. Conflitti da interferenza (o da menomazione), in cui il ricorrente non rivendica la titolarità dell'attribuzione, ma censura le modalità con cui la competenza di un altro potere è stata esercitata, poiché tali modalità sarebbero lesive delle proprie competenze: riguarda il modo in cui un altro potere ha esercitato le proprie competenze. Il giudizio per conflitto di attribuzioni rispetto agli altri giudizi di competenza della Corte, è caratterizzato dall’assenza di termini di decadenza per instaurare il ricorso, essendo sufficiente la permanenza dell'interesse da parte del ricorrente. Il giudizio si svolge in due fasi: 1. Fase di delibazione dell’ammissibilità, che si svolge senza contraddittorio in Camera di Consiglio: la Corte effettua un primo controllo sull'ammissibilità del conflitto, verificando la sussistenza dei profili soggettivi, che le parti siano poteri dello Stato, e oggettivi, che il conflitto riguardi attribuzione dei poteri dello Stato. In caso negativo, pronuncia l’inammissibilità, altrimenti si apre la seconda fase. 2. La Corte dispone l'ammissibilità del conflitto e invita a notificare il ricorso nel termine indicato dalla stessa: una volta notificato, il ricorrente deve depositare il ricorso in cancelleria entro 30 giorni dall'ultima notificazione pena improcedibilità del conflitto, che comporta l'impossibilità di riproporre la questione. Entro i 20 giorni dal termine per il deposito, le parti possono costituirsi in giudizio, quindi verrà fissata l'udienza pubblica, alla quale possono partecipare solo gli organi dei poteri in conflitto (eccetto qualora l’esito del giudizio possa pregiudicare la posizione di un privato). La decisione, presa in Camera di Consiglio poi pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, può essere di inammissibilità o improcedibilità, può estinguere il processo a causa della rinuncia al ricorso da parte del resistente, oppure dichiarare il potere al quale spettino le attribuzioni in contestazione e, qualora la decisione accolga il ricorso, l'atto impugnato sarà annullato. CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA STATO E REGIONI E TRA REGIONI I conflitti di attribuzione possono sorgere anche tra Regioni e tra Stato e Regioni (conflitti tra enti o conflitti intersoggettivi). La legittimazione è attribuita alle Regioni, allo Stato e alle Province autonome di Trento e Bolzano. Come nel giudizio in via principale, il ricorso, che dovrà coincidere con la delibera dell'organo politico, deve essere preceduto da quest’ultima. L’organo legittimato a rappresentare in giudizio lo Stato è il Presidente del Consiglio, difeso dall’Avvocatura dello Stato, e quello legittimato a rappresentare le Regioni è il Presidente della Giunta regionale o provinciale. Con il conflitto tra enti si risolvono le controversie relative alla competenza di determinate funzioni, eccetto quelle legislative, per le quali opera il giudizio in via principale: quindi qualsiasi atto statale o regionale, può essere oggetto di conflitto intersoggettivo, ma sono sindacabili solo quando ledono la altrui sfera di attribuzioni. Non possono, invece, essere oggetto dei conflitti di attribuzione gli atti meramente consequenziali, ossia confermativi, riproduttivi, esplicativi o esecutivi. Come i conflitti interorganici, anche quelli intersoggettivi si dividono tra conflitti da usurpazione, sulla spettanza della competenza, e conflitti da menomazione, sulle modalità d'esercizio delle competenze attribuite. Pagina di 26 35 Diritto costituzionale II F. Biondi I parametri sono, invece, le norme costituzionali attributive di competenze e quelle di legge ordinaria che integrano le norme costituzionali o, persino, il principio di leale collaborazione, principio di rango costituzionale ricavato dalla giurisprudenza e idoneo a regolare in modo dinamico rapporti. È essenziale la presenza di un interesse attuale e concreto al conflitto: la Corte deve tentare di eliminare la violazione delle competenze dell'ente ricorrente, mentre non è ammissibile che il ricorrente lamenti che l’atto impugnato sia solo un'erronea applicazione della legge, senza una reale violazione della Costituzione. Quanto agli aspetti processuali, il giudizio va promosso con un ricorso da notificare alla controparte entro 60 giorni dall’avvenuta conoscenza dell'atto da impugnare e, entro 20 giorni dall'ultima notificazione, il ricorso, indicante oggetto e parametro, deve essere depositato presso la cancelleria della Corte. Come per il giudizio in via principale, pur essere chiesta la sospensione e non è consentita la partecipazione al giudizio da parte di terzi a meno che non siano coinvolti in modo immediato nell’oggetto del conflitto. La decisione può essere di inammissibilità, di cessazione della materia del contendere o sentenza che dichiari a quale ente spettino le competenze contestate ed, eventualmente, annullare l’atto viziato da incompetenza. GIUDIZI SULLE ACCUSE NEI CONFRONTI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA La Corte costituzionale è deputata anche a giudicare i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione commessi dal Presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni: eletti tra i suoi componenti i commissari che sostengano l’accusa di fronte alla Corte, il Parlamento riunito in seduta comune delibera la messa in stato d’accusa del Presidente approvata a maggioranza assoluta. In attesa del giudizio, la Corte, in questo caso integrata da 16 ulteriori membri estratti a sorte, può sospendere la carica del Presidente. Il processo si svolge secondo le norme del codice di procedura penale vigente, quindi la sentenza di condanna determina anche le sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto dalla legge. La sentenza della Corte è definitiva, non essendo ammessi mezzi di impugnazione; tuttavia la condanna può essere sottoposta a revisione se, successivamente, sopravvengono nuovi elementi di prova che rendano evidente che il fatto non sussiste o che il condannato non lo ha commesso. GIUDIZIO DI AMMISSIBILITÀ DEL REFERENDUM ABROGATIVO (RINVIO) È competenza della Corte giudicare se le richieste di referendum abrogativo siano ammissibili ai sensi dell’art. 75 Cost. su tutti agli aspetti sostanziali e processuali. 7. La Corte costituzionale e le Corti sovranazionali RAPPORTI CON LE CORTI SOVRANAZIONALI Il carattere internazionalista del nostro ordinamento mostra effetti sopratutto nel rapporto tra la Corte costituzionale con la Corte di Giustizia dell’UE e la CEDU. Il primato del diritto dell'UE su quello interno ha sottratto al giudice costituzionale, affidandolo al giudice comune, il compito di accertare e risolvere i contrasti tra il diritto nazionale e il diritto dell’UE: infatti, ravvisato un contrasto tra norme di diritto interno e del diritto dell'UE, il giudice comune risolverà il conflitto con la disapplicazione della norma nazionale. Diversamente accade se sollevata questione di legittimità costituzionale, dove sarà la Corte a giudicare la compatibilità tra la legge nazionale e le norme del diritto del’UE, eventualmente ricorrendo all’istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: si tratta di porre all’organo europeo il dubbio relativo alla corretta interpretazione di una fonte del diritto dell’UE. I ricorsi a questo istituto sono stati molto rari; di recente il caso Taricco del 2017 ha insistito su principio di legalità e ruolo dei contro-limiti, l’applicabilità nei rapporti tra il diritto interno e dell’UE e l’individuazione del soggetto deputato a disporne l’attivazione. Grande importanza ha poi assunto la giurisprudenza costituzionale sviluppatasi in relazione ai rapporti tra la Corte costituzionale e la CEDU; il rapporto tra questi trova fondamento nelle sentenze gemelle della Corte, che ha chiarito spetti al giudice comune, in caso di contrasto, un primo tentativo di interpretazione adeguatrice e, se necessario, rimettere la questione di legittimità della norma nazionale per mancato rispetto dell’art. 117 Cost.: si esclude, quindi, la disapplicazione della norma nazionale ad opera del giudice comune. Riguardo gli effetti delle sentenze della CEDU e il ruolo del giudice comune, la sent. n. 49/2015 attribuiva a questi ultimi l'obbligo di dare esecuzione alla giurisprudenza della CEDU solo se consolidata: con questa pronuncia, la Corte ha reso incerta l'applicazione del diritto convenzionale poiché il giudice comune non sottostarebbe più ad alcun obbligo di interpretazione conforme né di rimessione della questione alla Corte. CAPITOLO X 1. Il percorso verso la tutela dei diritti DALLO STATO LIBERALE ALLO STATO SOCIALE Sussiste una stretta correlazione tra la forma di Stato, intesa come rapporto tra governanti e governati, e la disciplina dei diritti del cittadino, tra autorità e libertà. Nello Stato liberale ottocentesco, i diritti hanno accezione negativa e sono, quindi, concepiti come sfere di autonomia individuale tutelata dalle interferenze dei pubblici poteri. La valenza negativa dei diritti ottocenteschi poggia sulla nozione del principio di Pagina di 27 35 Diritto costituzionale II F. Biondi PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA Il principio di ragionevolezza deriva dal principio di uguaglianza formale: quest’ultimo è da ritenersi violato quando la legge, senza un ragionevole motivo, tratti diversamente situazioni analoghe o viceversa. Nonostante la discrezionalità del legislatore circa la disciplina da adottare, ragioni di coerenza gli impongono di operare con scelte ragionevoli, quindi di non escludere da una disciplina fattispecie assimilabili e di non includervi fattispecie che presentino aspetti di differenziazione. Per evitare tale violazione, la Corte paragona la fattispecie in esame al tertium comparationis: per farlo, deve individuare la ratio legis da cui si deducono le finalità del legislatore. Il principio di ragionevolezza è un divieto per il legislatore di differenziare la disciplina di fattispecie diverse o viceversa e richiede l’uso di mezzi idonei e proporzionati allo scopo. PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA SOSTANZIALE Il principio di eguaglianza sostanziale completa quello di eguaglianza formale richiedendo alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che limitino di fatto l'eguale godimento dei diritti da parte di tutti i cittadini per mezzo di interventi legislativi differenziati in favore delle categorie più svantaggiate: lo strumento più potente secondo la Corte costituzionale sono le azioni positive, usate legislatore per migliorare quelle condizioni che rendono taluni soggetti arretrati rispetto ad altri e garantire, così, pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico. Essendo strumenti di diritto volutamente diseguale, sussistono dei limiti per evitare che si verifichino discriminazioni alla rovescia, quindi nei confronti dei gruppi dominanti: si tratta del carattere temporaneo e del divieto imposto al legislatore di sfruttare questi mezzi per attribuire direttamente il risultato ai soggetti deboli. Tale principio, infine, sta alla base del riconoscimento costituzionale dei diritti sociali e si collega alle norme costituzionali che rimandano espressamente a un intervento statale per la loro effettiva concretizzazione. Il principio di uguaglianza e non discriminazione ha valenza anche nel diritto UE, che individua sei motivi di discriminazione soggetti a divieto: razza, sesso, etnia, religione, disabilità, età e orientamento sessuale. LO STATUTO COSTITUZIONALE DELLE PERSONE STRANIERE Alcune previsioni costituzionali in tema di diritti fondamentali sono indirizzate esclusivamente ai cittadini, coloro che appartengono a uno Stato nazionale: in Italia, la cittadinanza si acquista in quanto discendenti di padre o madre titolari della suddetta, per nascita su suolo italiano o per altre condizioni, come il diritto d’asilo, garantito a qualunque straniero cui sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche. La maggior parte delle norme costituzionali in materia di diritti fondamentali sono pacificamente interpretate come rivolte a tutti gli individui, ciò nonostante il legislatore può applicare trattamenti diversificati a patto che lo status di straniero non ne sia di per sé la causa. 3. I diritti di libertà LIBERTÀ PERSONALE All’art. 13 Cost. è sancita l’inviolabilità della libertà personale, intesa innanzitutto come libertà fisica di disporre del proprio corpo: la garanzia habeas corpus nasce come il diritto dei detenuti di essere tradotti davanti al giudice perché questo possa verificare la legittimità dell’arresto. Oggi si intende l’impossibilità per le autorità pubbliche di porre un soggetto in stato d’arresto senza rispettare le garanzie di legge e tutte le limitazioni alla libertà fisica e le menomazioni della libertà morale, quando costituiscano un assoggettamento totale all’altrui potere. La tutela della libertà personale è garantita dalla riserva di legge e dalla riserva di giurisdizione: secondo l’art. 13 Cost., qualsiasi restrizione della libertà personale richiede un atto motivato dell'autorità giudiziaria nei soli casi previsti per legge. La riserva di legge è assoluta e non ammette limitazioni alla libertà personale da fonti subordinate alla legge. La riserva di giurisdizione impone che solo il giudice possa disporre la limitazione della libertà personale nei casi previsti per legge con provvedimento motivato, affinché la persona colpita possa verificare il rispetto della legge ed, eventualmente, attivarsi per esercitare il proprio diritto di difesa: infatti, tutte le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale possono essere oggetto di ricorso in Cassazione. Una parziale deroga alla riserva di giurisdizione consente l'adozione di provvedimenti restrittivi provvisori da parte dell'autorità di pubblica sicurezza nelle ipotesi di arresto in flagranza di reato e di fermo di indiziato di delitto previste per legge: in questi casi, i provvedimenti devono essere comunicati dall'autorità di pubblica sicurezza entro 48 ore all'autorità giudiziaria, che li convaliderà nelle successive 48 ore, pena la revoca delle misure provvisorie che restano prive di ogni effetto. Inoltre, l’art. 13 Cost. comprende l’obbligo di punire ogni violenza fisica o morale nei confronti delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale, e i limiti massimi della custodia cautelare per legge. L’art. 27 Cost., invece, esclude che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, in virtù della funzione rieducativa della pena, e la pena di morte. Pagina di 30 35 Diritto costituzionale II F. Biondi LIBERTÀ DI DOMICILIO All’art. 14 Cost. è sancita l’inviolabilità della libertà di domicilio, inteso come la proiezione spaziale della persona, ossia un qualsiasi spazio delimitato dall'ambiente esterno, anche con segni facilmente superabili, di cui la persona disponga legittimamente. Da tale diritto discendono il ius excludendi alios, ossia il diritto di impedire l’accesso di terzi al proprio domicilio, e il diritto alla riservatezza su quanto si verifica nel domicilio. A tutela dell'inviolabilità vi sono gli istituti della riserva assoluta di legge, che stabilisce che le misure limitative di libertà di domicilio (ispezioni, perquisizioni e sequestri) siano ammesse nei soli casi previsti dalla legge, e della riserva di giurisdizione, che consente la limitazione del domicilio secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. L’art. 14 co.3 Cost. ammette un’eccezione alla riserva di giurisdizione consentendo, previa autorizzazione del giudice, accertamenti e ispezioni per motivi di sanità, incolumità pubblica, fini economici o fiscali regolati da leggi speciali, cioè leggi le cui norme non possono essere applicate oltre i casi e i tempi previsti. LIBERTÀ DI CORRISPONDENZA E COMUNICAZIONE L’art. 15 Cost. tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione effettuata con qualsiasi mezzo: è tutelato ogni scambio di comunicazione interpersonale, indipendentemente dal contenuto, che si svolge tra destinatari previamente individuati (≠ art. 21 Cost. rivolto a una pluralità indeterminata di soggetti). L’art. 15 Cost. tutela la libertà di comunicare e la segretezza della stessa, a patto che la comunicazione sia effettuata con modalità idonee a renderla segreta, altrimenti soggetti terzi potrebbero apprenderne il contenuto pur senza poterlo rivelare ad altri: la segretezza delle comunicazioni si estende ai privati cittadini e ai pubblici poteri. Tuttavia, un problema consiste nella possibilità del destinatario di divulgare a terzi il contenuto della comunicazione a lui indirizzata, infatti sull’argomento la dottrina si divide: c’è chi sostiene che la norma imponga ai destinatari la segretezza delle comunicazioni ricevute, e chi ritiene che il destinatario sia libero di gestire la stessa, non tenuto al rispetto della riservatezza. Gli strumenti di tutela sono sempre riserva di legge e riserva di giurisdizione: la norma ammette limitazioni alla libertà in esame solo se disposte a seguito di atto motivato dell'autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite per legge. A differenza della libertà personale e di domicilio, la libertà di comunicazione non ammette eccezioni né l’adozione di provvedimenti provvisori. LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE, SOGGIORNO, ESPATRIO ED EMIGRAZIONE L’art. 16 Cost. tutela la libertà di ogni cittadino di circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo limitazioni stabilite per legge per motivi di sanità o sicurezza (mai motivi politici), e di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo obblighi di legge. Si tratta della libertà di circolazione, quindi di muoversi liberamente nel territorio nazionale, e della libertà di soggiorno, quindi di stabilire altrettanto liberamente la residenza, la dimora o il domicilio. Gli strumenti di tutela della libertà di circolazione e soggiorno non è assistita dalla riserva di giurisdizione, ma soltanto dalla riserva di legge rinforzata per contenuto che consente la limitazione solo in via generale per motivi di sanità o di sicurezza, come i cordoni sanitari, provvedimenti che prevengono o impediscono un pericolo di contagio o propagazione di malattie infettive. L’art. 16 co.2 Cost. riconosce la libertà di espatrio, ossia il diritto del cittadino di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi: qualora l’espatrio si verifichi per ragioni economiche o lavorative sarà tutelato dall’art. 35 Cost. che garantisce la libertà di emigrazione, con stabilimento nello Stato estero. A tutelare la libertà di espatrio vige solo la riserva di legge, quella di emigrazione, invece, è tutelata dalla riserva rinforzata di legge. LIBERTÀ DI RELIGIONE L’art. 19 Cost. tutela la libertà di religione, ossia il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma o di non credere affatto. Tale libertà si compone di tre facoltà: 1. Professare una fede 2. Farne propaganda 3. Esercitarne il culto La libertà di religione, nel rispetto del buon costume, è riconosciuta nella sua dimensione individuale, quindi come estesa a tutti con divieto di discriminazione per motivi religiosi, sia in quella collettiva, nel divieto per il legislatore di introdurre limitazioni fiscali di carattere ecclesiastico o religioso di un’associazione, essendo tutte le confessioni religiose ugualmente libere davanti alla legge. I rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono regolati, col cattolicesimo, sulla base del principio concordatario (art. 7 Cost.), mentre con le altre, sulla base di intese con le relative rappresentanze. Ciò come frutto dell’evoluzione nel passaggio dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana: il primo Pagina di 31 35 Diritto costituzionale II F. Biondi riconosceva il cattolicesimo come unica religione di Stato, la seconda, invece, si ispira al principio di laicità. Quest’ultimo, ricavabile da più disposizioni costituzionali, implica la non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, bensì la garanzia dello stesso per la salvaguardia della libertà di religione, in un regime di pluralismo confessionale e culturale. Nell’art. 19 Cost. si rinviene anche la libertà di coscienza, ossia la libertà del singolo di formarsi le proprie convinzioni religiose, etiche, ideologiche e filosofiche e di determinarsi conformemente ad esse. La libertà di coscienza manca di un esplicito riconoscimento costituzionale, ma è intervenuta la Corte a ricavare il diritto alla libertà di coscienza in via interpretativa dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili. A tutela di quest’ultima, il legislatore ha previsto che il singolo possa osservare il proprio imperativo morale in luogo di obblighi giuridicamente imposti: si tratta del diritto all'obiezione di coscienza. LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO L’art 21 Cost. tutela la libertà di manifestazione del proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Tale diritto è rivolto a tutti e l’indeterminatezza del destinatario è ciò che differenzia tale libertà da quella di corrispondenza e di comunicazione (art. 15 Cost.). La libertà di manifestazione del pensiero si estende al diritto di critica e al diritto di cronaca e di informazione con l’unico limite espressamente riconosciuto del buon costume. Per buon costume si intendono le circostanze di tempo e luogo conformi ai diritti costituzionalmente rilevanti: è un concetto che si presta a evolvere, ma certamente comprende la sfera attinente al pudore sessuale. È implicito che il diritto di parola debba bilanciare gli altri dettami costituzionali, tra cui, soprattutto, il diritto all’onore. L’art. 21 Cost. descrive anche il regime di diffusione del pensiero mediante la stampa, che, al tempo, rappresentava il più importante mezzo di manifestazione: essa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure, limitazioni tipiche dei regimi totalitari, ma è consentito il sequestro, se preceduto da un atto motivato dell'autorità giudiziaria e nel caso di delitti previsti dalla legge sulla stampa. In caso di assoluta urgenza, è consentito il sequestro della stampa periodica a opera di ufficiali di polizia giudiziaria, che devono farne denuncia all’autorità giudiziaria, perché provveda al giudizio di convalida del provvedimento in 24 ore. Le garanzie costituzionali poste dall’art. 21 Cost. valgono anche nei confronti di ogni altro mezzo di diffusione, dunque tanto internet quando il sistema radiotelevisivo. Benché non espressamente menzionato, dal diritto di manifestazione del pensiero discende anche il diritto all’informazione, nella sua dimensione passiva di essere informati in modo imparziale, quanto in quella attiva di informare in modo imparziale. 4. I diritti a esercizio collettivo Le libertà collettive, il cui godimento comporta l’esercizio congiunto del diritto da parte di una pluralità di individui, comprende la libertà di riunione e la libertà di associazione, sindacale o politica. LIBERTÀ DI RIUNIONE L’art. 17 Cost. tutela la libertà di riunione, per cui i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senza armi: per riunione si intendono gli incontri volontari di più soggetti, nel medesimo luogo, per il perseguimento di uno scopo comune, diverso dall’assembramento, ossia l'occasionale ritrovo di più persone. Perché la riunione sia tutelata, deve essere pacifica e senza armi a garanzia della sicurezza e dell'incolumità delle persone: per arma si intendono le armi proprie, cioè gli strumenti usualmente adoperati per offendere, e le armi improprie, cioè strumenti non ordinariamente usati a tale scopo, ma utilizzabili per l'offesa. L’art. 17 Cost. diversifica la disciplina delle riunioni a seconda del luogo di svolgimento: 1. Luogo privato, disponibile a uso esclusivo di privati. 2. Luogo aperto al pubblico, il cui ingresso è libero ma subordinato a specifiche condizioni. 3. Luogo pubblico in cui ciascuno può liberamente circolare. Per l'organizzazione di queste riunioni deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle per motivi di sicurezza o incolumità pubblica. I promotori devono darne avviso almeno tre giorni prima al Questore pena ammenda o arresto: il preavviso consente all’autorità di verificare i presupposti di sicurezza pubblica e di predisporre l’opportuna vigilanza, non si tratta di un’autorizzazione, tanto che la riunione potrà svolgersi anche senza tale comunicazione, ma i promotori incorreranno nella sanzione sopra descritta. LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE L’art. 18 Cost. tutela la libertà di associazione, per cui i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini non vietati ai singoli dalla legge penali: per associazione si intende qualsiasi formazione sociale (non naturale) costituita volontariamente con una struttura organizzativa stabile per il conseguimento di uno scopo comune. La stabilità della struttura organizzativa, nonché la non necessaria compresenza in uno stesso luogo, consentono di distinguere l’associazione dalla riunione. La libertà di associazione è riconosciuta in senso positivo, quindi di aderire ad una o più associazioni, sia in senso negativo, quindi di non aderire e di revocare la propria adesione: alla dimensione passiva sussistono delle eccezioni, quali gli ordini professionali, cui il professionista è tenuto ad aderire per esercitare l'attività. Pagina di 32 35
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