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Dispensa di Diritto Processuale Civile - Aggiornata 2020 (formato word), Dispense di Diritto Processuale Civile

Il testo, redatto dall'avv. Davide Angelini, racchiude tutta la disciplina aggiornata al 2020 del diritto processuale civile: dalle nozioni e princìpi fondamentali al processo di cognizione di primo grado; dalle impugnazioni al processo di esecuzione e ai procedimenti speciali, compreso processo del lavoro e arbitrato.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 17/01/2022

theangel1974
theangel1974 🇮🇹

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Scarica Dispensa di Diritto Processuale Civile - Aggiornata 2020 (formato word) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! DAVIDE ANGELINI ELEMENTI ESSENZIALI DI DIRITTO PROCESSUALE CIVILE DAVIDE ANGELINI Elementi essenziali di DIRITTO PROCESSUALE CIVILE INDICE PARTE PRIMA - NOZIONI GENERALI 5 CAP IL L'ATTIVITA' GIURISDIZIONALE 5 CAP Il IL RAPPORTO GIURIDICO PROCESSUALE 6 CAP IH. LA NORMA PROCESSUALE 7 CAP N L'AZIONE PROCESSUALE 8 1 Elementi soggettivi ed oggettivi dell'azione processuale 9 2. Tipi di azione processuale 10 CAP V. I PRESUPPOSTI PROCESSUALI 13 CAP VI. LE CONDIZIONI DELL'AZIONE 15 PARTE SECONDA - | SOGGETTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE: IL GIUDICE 16 CAP L LA GIURISDIZIONE 16 CAP Il IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE 19 1 Le tre ipotesi di difetto di giurisdizione 19 2. Il regolamento di — giurisdizione 23 3. Altre decisioni sulle questioni di giurisdizione 24 4. La translatio iudicii 25 CAP IH. LA COMPETENZA 25 1 La competenza per materia e per valore 27 2. La competenza per territorio 29 CAP IM L'INCOMPETENZA 31 1 Il regolamento di competenza 32 2. I conflitti di competenza 34 CAP V LA CONNESSIONE E GLI SPOSTAMENTI DELLA —COMPETENZA 35 CAP VI. LITISPENDENZA E CONTINENZA 166 4. Pluralità di parti nelle impugnazioni e pluralità di impugnazioni 168 5. Impugnazione avverso sentenze non definitive - Effetto espansivo delle sentenze 170 CAP Il L'APPELLO 173 1 Caratteri e regole generali 173 2. Forma e contenuto dell'atto d'appello - Divieto di ius novorum 174 3. Acquiescenza, inammissibilità, improcedibilità - Il “filtro” dell'appello 176 4. Trattazione ed eventuale sospensiva (inibitoria) 178 5. Decisione 180 6. Provvedimenti del giudice d'appello 181 CAP IH. IL RICORSO PER CASSAZIONE 184 1 Caratteri e regole generali 184 2. Il procedimento: ricorso, controricorso e ricorso incidentale 187 3. La fase di decisione avanti la Cassazione 190 4. Provvedimenti della Cassazione 193 5. Particolarità 194 6. Il giudizio di rinvio 195 CAP IV. REVOCAZIONE E OPPOSIZIONE DI TERZO 199 1. Revocazione 199 2. Opposizione di terzo 202 PARTE SETTIMA = IL PROCESSO DI ESECUZIONE 207 CAP IL TITOLO ESECUTIVO E PRECETTO 207 CAP Il L'ESPROPRIAZIONE FORZATA E IL PIGNORAMENTO 211 1 Il pignoramento 211 2. L'intervento dei creditori 215 3. Vendita, assegnazione e distribuzione del ricavato 217 CAP Il L'ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO IL DEBITORE 219 CAP N L'ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO TERZI 223 CAP V. L'ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE 226 CAP VI. FORME SPECIALI DI ESPROPRIAZIONE 233 1 Espropriazione di beni indivisi 233 2. Espropriazione contro il terzo proprietario 234 CAP VII. L'ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA 235 1 Esecuzione per consegna 235 2. Esecuzione degli obblighi di fare e 236 CAP VIII LE OPPOSIZIONI 238 1 Opposizione all'esecuzione 238 2. Opposizione agli atti 240 3. Opposizione 241 CAP IX. SOSPENSIONE ED ESTINZIONE NEL PROCESSO ESECUTIVO 242 PARTE OTTAVA - I PROCEDIMENTI 245 CAP IL IL PROCEDIMENTO PER INGIUNZIONE 247 CAP Il IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI 252 CAP IH. I PROCEDIMENTI CAUTELARI 258 1 Nozioni generali e disposizioni comuni ai procedimenti cautelari 258 2. Sequestro giudiziario, sequestro conservativo e sequestro liberatorio 263 3. Denuncia di nuova opera e di danno 266 4. Procedimenti di istruzione 267 5. Provvedimenti d'urgenza ex art. 268 CAP IV. I PROCEDIMENTI POSSESSORI 269 CAP V IL PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE 271 CAP VI. ALTRI PROCEDIMENTI 274 1. Procedimenti in camera di consiglio - Volontaria. giurisdizione 274 2. Separazione 277 3. Interdizione, inabilitazione, amministrazione di 283 CAP VII IL PROCESSO DEL 288 CAP VIII. MEDIAZIONE E NEGOZIAZIONE 302 CAP IX L'ARBITRATO 307 VLUVLUVLIOVOLIVTDVHLIVILDOTENIOLDTETHLTOROLIILDOLIONHLTHLDOLDKTOLDOLDOrIOLKrAKTOTHLIAAILKKLKHROLTHLTKLIOrIoLKtDOtOKtKLKOrEKtoTtKrEKToKKLtoKKto1KLKHKoL ttt tto tKrtottrttrtrttrttte (c) Davide Angelini dispense giuridiche 2020 PARTE PRIMA Nozioni generali Cap L'ATTIVITA' GIURISDIZIONALE L'ordinamento giuridico produce norme che disciplinano i rapporti tra i soggetti dell'ordinamento stesso. Ciò, tuttavia, non basta per rendere l'ordinamento effettivo e durevole nel tempo; occorre che sia prediposto un sistema che consenta di far rispettare le norme o, come si dice, di ius dicere, ossia di pronunciare il diritto nei casi in cui questo non sia chiaro o vi siano contrasti, e di farlo valere coattivamente. Ogni soggetto dell'ordinamento può avere una sua visione o dare una sua interpretazione del diritto stesso e, quando si trova in contrasto con altri soggetti, si crea una contraddizione che va risolta: l'ordinamento giuridico è stato violato o presenta elementi dubbi, per cui necessita di essere ristabilito e confermato. Ogni soggetto dell'ordinamento ha pertanto diritto di richiedere allo stesso la tutela di una propria posizione giuridica, e ciò è consacrato nella nostra Carta costituzionale all'art. 24, ai sensi del quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Vedremo nel capitolo sulla giurisdizione (Parte seconda, Cap. 1) la differenza tra tutela di diritti soggettivi e tutela di interessi legittimi. La soluzione della contraddizione, e il ristabilimento dell'ordinamento giuridico violato, non possono essere compiuti dalle parti stesse in contesa, ma occorre l'intervento di un organo dell'ordinamento stesso che sia terzo e imparziale, e che possa ius dicere: il giudice. Negli ordinamenti giuridici di maggiori dimensioni, come ad esempio lo Stato, l'attività dello ius dicere è affidato al potere giudiziario, ossia a un apparato autonomo e indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato (legislativo ed esecutivo) e composto da magistrati professionali. Secondo il princìpio illuministico della seprazione dei poteri, infatti: - il potere legislativo pone in essere le norme giuridiche; - il potere esecutivo amministra la cosa pubblica nell'interesse della collettività; - il potere giudiziario fa rispettare le norme giuridiche accertando il diritto e ristabilendo l'ordinamento giuridico violato anche, se del caso, applicando sanzioni o autorizzando l'uso della forza. La giurisdizione così intesa costituisce, come vedremo più avanti, quella potestà pubblica con cui lo Stato provvede alla tutela dei diritti contesi tra Vedremo anche che il fine del processo non è solo l'affermazione o negazione del diritto per mezzo della sentenza del giudice, ma altresì la certezza e incontrovertibilità di tale pronuncia definita giudicato (o cosa giudicata). Il giudicato conferisce certezza a un diritto affermato o negato, in quanto questo non può più essere oggetto di un nuovo processo tra le stesse parti e per gli stessi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi (princìpio del ne bis in idem). Cap. IV - L'AZIONE PROCESSUALE 1. ELEMENTI SOGGETTIVI ED OGGETTIVI DELL'AZIONE PROCESSUALE Abbiamo visto che l'attività giurisdizionale è predisposta per la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi dei soggetti dell'ordinamento giuridico, e che l'azione processuale è il mezzo con cui, all'esito di un processo, si giunge tramite il giudice allo iuris dicere e ad apprestare la tutela giuridica. A seconda del tipo di tutela giuridica richiesta si hanno diversi tipi di azione processuale, cui scaturirà un provvedimento finale, la sentenza, basato proprio sul differente tipo di tutela richiesto. Dunque, è dall'esercizio dell'azione o, meglio, è dalla domanda di quel soggetto che vedremo chiamarsi attore che si determina il tipo di azione e il diritto ad un certo tipo di provvedimento sul merito. Vedremo anche che tale diritto al provvedimento sul merito non è assoluto, nel senso che il giudice ha sì il dovere di pronunciarsi, ma potrà farlo anche solo e unicamente sul processo, eventualmente bloccandolo nel caso manchino dei requisiti legalmente richiesti (i “presupposti processuali” e le “condizioni dell'azione”, v. Capp.Ve VI). Ma prima di analizzare i diversi tipi di azione dobbiamo prima domandarci: come si determina il tipo di azione processuale a partire dalla domanda, e quali elementi presenta la domanda in riferimento all'azione processuale? L'azione processuale è composta da elementi soggettivi ed elementi oggettivi. Gli elementi soggettivi sono costituiti dalle parti del processo: da una parte c'è chi domanda la tutela (l'attore), e dall'altra c'è chi resiste alla domanda (il convenuto). Il giudice è soggetto del rapporto giuridico processuale, ma rimane, nell'azione 10 processuale, un elemento terzo ed imparziale, volto uncamente a pronunciare la tutela giurisdizionale. É tuttavia pur vero che dal tipo di azione si determinerà anche il tipo di giudice che potrà conoscere di quell'azione (e si parlerà di “giurisdizione” e di “competenza”, v. Parte seconda, Capp. le III). Gli elementi oggettivi dell'azione processuale sono rappresentati dal petitum e dalla causa petendi. Il petitum è a sua volta diviso in petitum mediato e petitum immediato. Quest'ultimo è il tipo di provvedimento che viene chiesto al giudice in relazione all'azione: una pronuncia di mero accertamento di un proprio diritto contestato da altri, oppure una pronuncia di condanna a una prestazione, oppure ancora una pronuncia costitutiva di un rapporto (o estintiva dello stesso). Il petitum mediato è invece il cd “bene della vita” che viene chiesto dall'attore al convenuto tramite la pronuncia del giudice (ad es. una somma di denaro, la consegna di un bene, la cessazione di turbative, etc.). La causa petendi è la “ragione della domanda”, ossia l'insieme dei fatti costitutivi e/o lesivi del diritto (o dell'interesse legittimo) affermati dall'attore (ad es. in un'azione di risarcimento danni la causa petendi è l'incidente stradale da cui tale diritto al risarcimento scaturisce). Non vanno confuse con la causa petendi le “ragioni di diritto" che stanno alla base dei fatti costitutivi e/o lesivi lamentati: le norme di diritto (ad es. articoli del codice civile) vengono spesso enunciate a sostegno delle proprie affermazioni, ma il giudice non è vincolato a tali enunciazioni di diritto ed è libero di ricavare dai fatti costitutivi allegati (e provati) dall'attore, nonchè dai fatti modificativi, impeditivi ed estintivi allegati (e provati) dal convenuto, le norme giuridiche che ritiene più opportune e adeguate (principio iura novit curia). 2. TIPI DI AZIONE PROCESSUALE Le azioni processuali che postulano un'accertamento pieno dei fatti costitutivi e/o lesivi affermati dall'attore, nonché dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi affermati dal convenuto (ad esempio, la prescrizione del diritto attoreo, il perimento della cosa oggetto del giudizio, la mancanza di legittimazione in capo al convenuto, etc.), vengono definite azioni di cognizione. Vedremo che l'allegazione di fatti modificativi, impeditivi ed estintivi ad opera del convenuto 11 prende il nome di eccezione, e che il convenuto potrà spingersi a chiedere a sua volta un provvedimento contro l'attore, ossia una richiesta di condanna dello stesso per il tramite di una domanda che viene definita riconvenzionale. Le azioni di cognizione sono a loro volta suddivise in: - azioni di mero accertamento; - azioni di condanna; - azioni costitutive. Se l'attore vuol far valere in giudizio un suo diritto, potrà anzitutto decidere di esperire una semplice azione di mero accertamento. Questa azione mira unicamente ad accertare e dichiarare, tramite la pronuncia del giudice, l'esistenza del diritto affermato dall'attore (ad esempio il diritto di proprietà su una cosa), o l'inesistenza del diritto vantato dal convenuto (ad es. l'attore ha interesse a far valere l'inesistenza del diritto di usufrutto, vantato dal convenuto, a carico di un bene di sua proprietà); in quest'ultima ipotesi si parla anche di azione di accertamento negativo. Se l'attore avesse invece necessità di ottenere non solo il riconoscimento di un diritto, ma altresì una prestazione da parte del convenuto (ad esempio il pagamento di una somma, la restituzione di una cosa, la demolizione di una costruzione, etc.), il provvedimento che chiederà al giudice non sarà di mero accertamento, bensì di condanna. L'azione processuale, in tal caso, viene definita proprio azione di condanna. In altri casi ancora, il diritto dell'attore può consistere nella creazione o nell'estinzione di un rapporto giuridico sostanziale (ad esempio la stipula di un contratto, l'annullamento o la risoluzione del contratto stesso), diritto che può essere realizzato con la sentenza del giudice la quale, per l'appunto, viene definita costitutiva (mentre quella al termine dell'azione di mero accertamento viene definita dichiarativa). L'azione finalizzata a una pronuncia costituiva è, quindi, azione costitutiva. Tale tipo di azione può essere l'unico mezzo con cui l'attore può ottenere l'attuazione del suo diritto alla costituzione o estinzione di un rapporto giuridico sostanziale, ed allora l'azione verrà definita azione costitutiva necessaria (ad esempio, l'annullamento di un contratto può essere ottenuto solo con la pronuncia del giudice). Quando, invece, tale intervento del giudice non è necessario, ma l'interesse a 12 parti, e segue una procedura snella che nasce e si conclude davanti al tribunale in composizione collegiale e in camera di consiglio, con provvedimenti modificabili e revocabili in qualsiasi tempo (la loro permanenza, si dice, segue la regola “rebus sic stantibus", ossia “stando così le cose”). Cap. V - I PRESUPPOSTI PROCESSUALI Perchè un giudice possa giungere ad una pronuncia “sul merito” (ossia sulla fondatezza o meno dei diritti fatti valere dalle parti per mezzo del processo), e non fermarsi ad una proununcia solo “sul processo” (0, come si suol dire, ad una pronuncia di “rito”), occorre che l'azione processuale sia stata correttamente incardinata, ossia che sussitano, prima della proposizione della domanda, alcuni requisiti. Tralasciando l'ipotesi di scuola della richiesta di tutela giurisidzionale rivolta a chi giudice proprio non è (nel qual caso l'azione processuale e il processo semplicemente non esistono), i requisiti necessari che devono sussistere prima della proposizione della domanda, affinchè un giudice possa giungere a pronunciarsi nel merito, sono definiti presupposti processuali, e sono: - giurisdizione; - competenza; - legittimazione processuale. Se manca anche solo uno di questi requisiti, il giudice deve emettere una pronuncia di rito che ferma il processo (i presupposti processuali vengono anche definiti requisiti di validità ulteriore, o di procedibilità della domanda). La giurisdizione è la potestà pubblica con cui lo Stato provvede alla tutela di posizioni giuridiche in contesa tra soggetti del diritto. Tale tutela viene fornita da organi dello Stato ad esito di una serie concatenata di atti definita “processo”. La competenza è la frazione di (piena) giurisdizione assegnata previamente dalla legge ad un ufficio giudiziario nel caso di una determinata controversia. Tale ufficio giudiziario è individuato secondo un criterio verticale (per materia e/o per valore), onde determinare quale fra più giudici diversi (es. giudice di pace, tribunale), all'interno dello stesso ordine giurisdizionale, ha competenza, e secondo un criterio orrizzontale (per territorio), per determinare quale fra più 15 giudici dello stesso tipo (ad es. fra più tribunali) ha concretamente la competenza. Il giudice competente è predeterminato rispetto al fatto oggetto della controversia, secondo il princìpio costituzionale della precostituzione del giudice naturale determinato dalla legge (art. 25 Cost.). La legittimazione processuale (o /egitimatio ad processum) attiene invece alle parti e non al giudice. Consiste nella capacità di un soggetto di stare in giudizio. Alcuni identificano la legittimazione processuale con la capacità processuale, ossia con la capacità d'agire applicata al processo, ma non è esatto. L'art. 75 c.p.c. sostiene infatti che non possono stare in giudizio i soggetti che non hanno_il libero esercizio dei diritti. Ciò significa che non possono stare in giudizio non solo gli incapaci d'agire, ma anche coloro che, pur avendo capacità d'agire, non possono stare in giudizio in quanto non hanno il libero esercizio dei diritti (ad es. i falliti). Beninteso, tali soggetti non possono stare in giudizio da soli, ma possono ricevere la tutela giurisdizionale come tutti, purchè rappresentati, assistiti o autorizzati secondo le disposizioni di legge (ad es. il minore può stare in giudizio per mezzo dei genitori, il tutore può stare in giudizio per alcuni processi se previamente autorizzato dal tribunale, l'inabilitato se assistito dal curatore, etc.). Cap. V - LE CONDIZIONI DELL'AZIONE Una volta accertata la sussistenza dei presupposti processuali, perchè il giudice possa giungere ad una pronuncia sul merito, e non fermarsi ad una pronuncia sul processo, occorre la sussistenza di altri requisiti denominati condizioni dell'azione (o condizioni di “ipotetica accoglibilità”). Tali condizioni costituiscono, in particolare, requisiti intrinseci della domanda: devono permanere sino alla pronuncia sul merito e sono: - la possibilità giuridica, ossia che la questione portata all'esame del giudice per mezzo dell'azione processuale sia disciplinata da norme giuridiche; - l'interesse ad agire, ossia che il soggetto che agisce (o resiste) in 16 giudizio affermi un diritto contestato da altri, oppure lamenti la lesione di un diritto, oppure ancora neghi un diritto altrui che influisce su una posizione giuridica propria. In pratica, chi agisce in giudizio senza avere un diritto in contesa non ha interesse ad agire. - La legittimazione ad agire (o /egitimatio ad causam) è la coincidenza formale tra colui che agisce in giudizio (l'attore) e colui che si afferma titolare di un proprio diritto per cui viene chiesta tutela; specularmente, dal lato passivo è la coincidenza formale tra colui che resiste in giudizio (il convenuto) e colui che nega la titolarità del diritto affermato da altri. Se un soggetto agisce non per un diritto proprio, ma per un diritto altrui, difetta di legittimazione ad agire, salvi i casi eccezionali di sostituzione processuale (v. Parte terza, Cap. V), ossia di quei casi che consentono a un soggetto di agire in giudizio per la tutela di diritti altrui (ad. es, nell'azione surrogatoria il creditore agisce per un diritto del debitore). Anche le condizioni dell'azione devono sussistere affinchè il giudice possa giungere ad una pronucia nel merito; tuttavia, mentre i presupposti processuali è sufficiente che sussistano prima della proposizione della domanda (tranne la legittimazione processuale, che deve permanere per tutto il processo), le condizioni dell'azione devono permanere per tutta la durata del processo, sino alla pronuncia nel merito. Se, ad esempio, venisse meno nel corso del processo l'interesse ad agire, ad esempio perchè il diritto leso è stato spontaneamente ristabilito, il processo dovrebbe arrestarsi con una pronuncia di rito. PARTE SECONDA | soggetti del diritto processuale civile: il giudice Cap. | - LA GIURISDIZIONE Il codice di procedura civile apre il suo Libro primo sulle disposizioni generali con i Titoli I, II, e IIIl dedicati ai soggetti del rapporto giuridico processuale, vale a dire il giudice (e i suoi ausiliari), il pubblico ministero, le parti e i loro difensori. 17 ordinaria presso le Corti d'appello); - quella costituzionale: è esecitata dalla Corte costituzionale nei giudizi di legittimità di leggi e atti aventi forza di legge, nonché nei giudizi sulle accuse al Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla costituzione. La nostra Costituzione vieta l'istituzione di nuovi giudici speciali, nonché di giudici straordinari (cioè di quelli creati ad hoc per giudicare fatti o persone solo per un determinato periodo di tempo, e dopo la commissione di certi fatti). Permette unicamente la creazione di sezioni specializzate presso la magistratura ordinaria. Oltre al già menzionato tribunale regionale delle acque pubbliche, altre sezioni specializzate sono costituite dal tribunale per i minorenni, dal tribunale di sorveglianza presso il giudice penale e dalle sezioni agrarie. AI vertice della giurisdizione, ordinaria e speciale, troviamo la Corte di Cassazione che, oltre a esercitare funzioni di giudice di impugnazione per motivi di solo diritto (cd giurisdizione di legittimità), esercita anche la funzione nomofilattica, ossia di uniformizzazione dell'interpretazione del diritto tramite l'emissione di massime giurisprudenziali che, seppur non vincolanti, rivestono un precedente autorevole. Abbiamo detto che ciascuna giurisdizione costituisce un ordine all'interno del generale potere giurisdizionale. Gli ordini maggiori sono quelli di giurisdizione ordinaria e di giurisdizione speciale. All'interno del primo ordine abbiamo un'ulteriore suddivisione in giurisdizione civile e giurisdizione penale; all'interno del secondo ordine abbiamo giurisdizione amministrativa, giurisdizione contabile, giurisdizione militare, etc. | conflitti tra i diversi ordini di giurisdizione determinano, per l'appunto, questioni di giurisdizione, mentre i conflitti che concernono giudici appartenenti allo stesso ordine giurisdizionale non vengono risolte dalle norme sulla giurisdizione, bensì da quelle sulla competenza. Il tema della mancanza di giurisdizione in capo al giudice adìto viene rubricato all'art. 37 c.p.c. quale “difetto di giurisdizione”. 20 Cap. Il - IL DIFETTO DI GIURISDIZIONE 1. LE TRE IPOTESI DI DIFETTO DI GIURISDIZIONE Il difetto di giurisdizione consiste nella mancanza, in capo al giudice adìto, considerato in quanto appartenente a un certo ordine giurisdizionale, del potere di giudicare una determinata controversia che spetta, invece, al giudice di un ordine diverso. Il momento determinante per radicare la giurisdizione in capo a un giudice (come anche la competenza) è dato, ai sensi dell'art. 5 c.p.c., da quello della proposizione della domanda. Si fa così riferimento alla situazione di fatto e alla legge vigente al momento in cui inizia a pendere la lite (princìpio della perpetuatio iurisdictionis), a nulla rilevando mutamenti successivi. La sussistenza o meno della giurisdizione in capo al giudice adìto può dar luogo alle questioni di giurisdizione, che devono essere dallo stesso giudice decise preliminarmente al merito, in quanto la giurisdizione è il primo dei presupposti processuali. Tecnicamente si dice che la giurisdizione, assieme agli altri presupposti processuali, costituisce questione pregiudiziale di rito: difettando la giurisdizione, il processo non può giungere a una pronuncia sul merito, ma fermarsi solo ad una sul rito. La questione di giurisdizione (o, meglio, il difetto di giurisdizione) costituisce eccezione in senso ampio di rito, che può essere sollevata dalle parti, o anche rilevata d'ufficio dal giudice, in qualsiasi stato e grado del processo (art. 37 Partendo dall'assunto che nell'ambito civile la giurisdizione spetta di regola al giudice ordinario (art. 1 c.p.c.) e che, pertanto, il difetto di giurisdizione attiene alla sussistenza di limiti alla giurisdizione del giudice ordinario, abbiamo i seguenti casi di difetto di giurisdizione del giudice ordinario civile: 1) in favore dei giudici speciali (art. 37 c.p.c.); 2) in favore dei giudici stranieri (art. 11 L. 218/95); 3) in favore della Pubblica Amministrazione (art. 37 c.p.c.). 1) In favore dei giudici speciali 21 Nel primo caso, il difetto di giurisdizione sussiste in quanto, per determinate materie o determinati settori, il riparto di giurisdizione legalmente previsto dispone che la giurisdizione spetti a giudici speciali quali quello amministrativo, quello contabile, quello militare, etc. (v. sopra). Il riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici speciali rispecchia il diverso riparto di tutela di situazioni giuridiche soggettive: in tema di diritti soggettivi la giurisdizione spetta generalmente al giudice ordinario civile; in tema di interessi legittimi (e oggi, in certi settori, anche in tema di diritti soggettivi) ai giudici speciali. Quando la pubblica amministrazione è parte in causa quale convenuta, si verte solitamente in tema di interessi legittimi (a meno che la P.A. venga convenuta quale parte di un rapporto di diritto privato). Conseguenza di ciò è che avrà giurisdizione e potrà conoscere della causa il giudice amministrativo, unico af avere il potere di annullare, ed entro certi limiti modificare, gli atti amministrativi della PA. La giurisdizione spetta invece ad altri giudici speciali con riferimento a particolari settori individuati dalla legge (contabilità pubblica, tributi, etc.). 2) In favore dei giudici stranieri Nel secondo caso, il limite alla giurisdizione del giudice ordinario è un vero e proprio limite alla giurisdizione del giudice italiano, in quanto sussiste quella del giudice di un altro Stato. Per determinare se il giudice italiano abbia o meno giurisdizione dobbiamo rifarci anzitutto alle disposizioni della L. 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato e processuale, che valgono come disciplina generale, derogata tuttavia da diverse normative speciali, soprattutto convenzioni internazionali e regolamenti comunitari, che in certe materie determinano un diverso riparto di giursidizione. Il diritto internazionale privato e processuale si occupa di quelle situazioni che presentano elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento e, quindi, collegamenti con ordinamenti stranieri. Può quindi esservi giurisdizione di un giudice diverso da quello italiano, che dovrà applicare la legge di un dato ordinamento, anche se del caso diverso dal suo, individuato in ragione di criteri di collegamento (ad es. in una determinata materia e ai sensi della normativa esistente e dei criteri di collegamento, la giurisdizione può spettare al giudice francese, che dovrà applicare la legge tedesca). Ai sensi dell'art. 3 della L. 218/1995 la giurisdizione del giudice italiano sussiste allorchè il convenuto è domiciliato o residente in Italia, o vi ha un 22 stato e grado del processo, ma esiste uno strumento preventivo (e_non di impugnazione) volto a risolvere in via definitiva, e alla radice, qualsiasi questione di giurisdizione: il regolamento di giurisdizione (art. 41 c.p.c.). Col regolamento di giurisdizione le parti del processo (solo loro, e non il giudice) si rivolgono, per la decisione sulla questione di giurisdizione, alla Corte di Cassazione (a sezioni unite), affinchè queste decidano una volta per tutte, con ordinanza, quale giudice abbia giurisdizione. Tale rimessione, ai sensi dell'art. 41, primo comma, c.p.c., può essere chiesta però solo sino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado. “Decisa nel merito” non significa letteralmente che il giudice abbia pronunciato una sentenza definitiva che decide il giudizio, accogliendo o rigettando il merito della controversia tra le parti, bensì qualsiasi provvedimento del giudice di tipo decisorio, anche su_ giurisdizione e competenza (questa per lo meno è l'interpetazione giurisprudenziale). Nel caso in cui le parti esperiscano il regolamento di giurisdizione, il processo in corso non si sospende automaticamente, ma occorre una valutazione da parte del giudice, che può sospendere il giudizio laddove l'istanza _non_ sia palesemente inammissibile, o la questione di giurisdizione non_ sia manifestamente infondata. Il procedimento per regolamento di giurisdizione segue le regole tipiche del procedimento per Cassazione di tipo camerale (v. Parte sesta, Cap. Ill), e termina con ordinanza con cui la Corte determina se il giudice a quo abbia giurisidizione e, in caso negativo, quale sia il giudice ad avere giurisdizione (sulla cd transaltio iudicii, v. sotto). > Il regolamento di giurisdizione su istanza della P.A. - In un caso, da molti definito anacronistico, il regolamento di giurisdizione, ai sensi dell'art. 41, 2° comma, c.p.c., può essere richiesto autonomamente dalla P.A. che non è parte in causa, in qualsiasi stato e grado del processo, fino a che la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato. Si tratta di quel caso sopra visto in cui sussiste il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della P.A. che non è parte in causa (conflitto di attribuzione). La richiesta viene avanzata tramite il Prefetto che, peraltro, non svolge direttamente istanza di regolamento di giurisdizione alla Corte, bensì fa richiesta alle parti sollecitandole all'esperimento del regolamento dinanzi alla Corte. 3. ALTRE DECISIONI SULLE QUESTIONI DI GIURISDIZIONE Al di fuori del mezzo preventivo qual è il regolamento di giurisdizione (e su cui 25 la Cassazione pronuncia ordinanza), le questioni di giurisdizione (sollevate dalle parti o d'ufficio in qualsiasi stato e grado del processo) vengono decise dal giudice con sentenza, e possono essere impugnate nei modi ordinari (ossia con appello e ricorso per Cassazione, che in tal caso decide con sentenza). Ricordiamo, infatti, che sulle questioni di giurisdizione il giudice può pronunciarsi anche d'ufficio, ex art. 37 c.p.c., in qualsiasi stato e grado del processo, con sentenza che può essere definitiva (pensiamo alla sentenza con cui il giudice nega la propria giurisdizione e, dunque, chiude il processo), o anche non definitiva (la sentenza con cui il giudice afferma la propria giurisdizione, a seguito di questione di giurisdizione sollevata dalle parti, facendo proseguire, con separata ordinanza, il processo). La sentenza non definitiva che si pronuncia sulla giurisdizione, al pari di quella definitiva, va impugnata nei termini con l'appello e poi con ricorso per Cassazione. In caso contrario diventerà incontrovertibile per via del giudicato sul punto, e la questione di giurisdizione non potrà più essere sollevata nemmeno col regolamento di giurisdizione. Si ricorda, a tal proposito, che il potenziale concorso avanti la Suprema Corte tra il regolamento di giurisdizione (strumento preventivo) e il ricorso per Cassazione (strumento di impugnazione) è evitato dal fatto che l'utilizzo del regolamento è precluso nel caso in cui vi sia già stata una pronuncia decisoria in primo grado, anche se solo sulla giurisdizione. Va rammentato, infine, che tra giudici ordinari e giudici speciali, o tra giudici speciali, possono sorgere i cosiddetti conflitti di giurisdizione, positivi se entrambi i giudici affermano la propria giurisdizione, negativi se entrambi la negano. | conflitti possono poi essere reali se entrambi i giudici si sono già pronunciati sulla giurisdizione, virtuali se non si sono ancora pronunciati entrambi, ma uno solo: in tale ultimo caso, il giudice che ancora non si è pronunciato può sollevare d'ufficio la questione di giurisdizione dinanzi alle sezioni unite della Cassazione (art. 362 c.p.c.), evitando, così, il conflitto reale. 4. LA TRANSLATIO IUDICII A seguito della riforma del 2009 è ora disposto che il giudice o la Corte di Cassazione, investiti delle questioni di giurisdizione, se rilevano il difetto di giurisdizione del giudice della causa in corso debbano indicare il giudice che ha giurisdizione, a cui trasferire la causa (cd translatio iudicii) mediante la cd 26 “riassunzione” della causa. Sono le parti ad essere onerate di effettuare la riassunzione della causa davanti a tale giudice, entro 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che ha deciso sulla giurisdizione (o dalla comunicazione dell'ordinanza della Cassazione all'esito del regolamento di giurisdizione), pena l'estinzione del processo. Stesso onere di riassunzione spetta alle parti nel caso in cui sia confermata la giurisdizione del giudice della causa in corso, che abbia però sospeso il giudizio in attesa della pronuncia della Corte di Cassazione sul regolamento di giurisdizione. Le pronunce della Cassazione, in ogni caso, sopravvivono anche in caso di eventuale estinzione del processo a quo, qualora ne dovesse poi sorgere un altro per lo stesso oggetto e tra le stesse parti; vincolano, cioè, tutti i giudici e le parti nel caso di nuovo processo (cd efficacia panprocessuale o esterna delle pronunce della Cassazione sulla giurisdizione). Cap. Ill - LA COMPETENZA Abbiamo visto che per poter svolgere l'attività di tutela giurisdizionale, gli organi dello Stato a ciò deputati devono possedere titolo di giurisdizione. All'interno del potere giudiziario (o potere giurisdizionale) il titolo di giurisdizione viene distribuito tra diversi ordini, e abbiamo così la giurisdizione ordinaria, amministrativa, contabile, etc. Ora, per individuare all'interno di ciascun ordine giurisdizionale quale giudice (o ufficio giudiziario) abbia in concreto il potere di esercitare. l'attività giurisdizionale, dobbiamo rifarci al concetto di competenza. La competenza può essere definita come la frazione di giurisdizione che spetta a ciascun giudice/ufficio giudiziario di uno stesso ordine. Precisiamo subito che per frazione non s'intende che il potere giurisdizionale è frazionato o limitato tra i vari giudici, ma costituisce una frazione di piena giurisdizione: il giudice individuato ai sensi della disciplina che esamineremo sulla competenza ha pertanto tutti i poteri tipici dell'attività giurisdizionale. | criteri per distribuire la competenza tra i vari uffici giudizari sono due: quello verticale e quello orizzontale. 27 attribuisce le cause di competenza del tribunale allo stesso in composizione collegiale nei seguenti casi: a) cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero (v. art. 70 c.p.c.); b) cause in materia fallimentare (sentenza dichiarativa di fallimento, giudizio sul reclamo, omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo); c) cause di impugnazione di delibere assembleari di società e consorzi, nonché cause di responsabilità nei confronti degli organi amministrativi, dei direttori generali e dei liquidatori degli stessi enti; d) cause devolute alle sezioni specializzate (ad es. quelle agrarie, quelle in materia di acque pubbliche in primo grado, quelle del tribunale dei minorenni); e) cause affidate ai procedimenti in camera di consiglio; f) cause di class action proposte dai consumatori e previste dal codice del consumo (d.lgs 206/2005). Le materie non comprese nell'elenco sono attribuite, ai sensi dell'art. 5Oter c.p.c., al tribunale in composizione monocratica (ossia al giudice unico di tribunale istituito col D. lgs. 51/1998). Si rammenta che la suddivisione del lavoro tra tribunale collegiale e monocratico costituisce solo una questione interna all'ufficio giudiziario (comunque di rilievo, dato che può esservi anche nullità della sentenza per violazione delle citate norme), e non una questione di competenza. Il codice, con riferimento alla competenza per valore, detta poi una serie di disposizioni atte a determinare il valore della controversia. A livello generale, e ai sensi dell'art. 10 c.p.c., il valore si determina dalla domanda. Più domande proposte nello stesso processo contro lo stesso soggetto si sommano tra loro, e gli interessi scaduti, le spese e i danni si sommano col capitale. Altri criteri di determinazione del valore: - (art. 11 c.p.c.) in caso di obbligazioni parziarie, in cui le prestazioni sono determinate per quote, il valore si determina dall'intera obbligazione, anche se non tutte le parti partecipano al giudizio; - (art. 14 c.p.c.) nelle cause relative a somme di denaro o a beni mobili, il valore si determina in base al valore dichiarato dall'attore (in mancanza, il valore si presume entro la competenza del giudice adìto). Se il convenuto non contesta tale valore, lo stesso rimane fissato nei limiti di competenza del giudice adìto; - (art. 17 c.p.c.) il valore delle cause di opposizione all'esecuzione forzata si determina sulla base del credito per cui si procede. 30 2. LA COMPETENZA PER TERRITORIO Una volta individuato, sulla scorta del criterio verticale, quale giudice tra quelli di tipo diverso ha competenza, occorre individuare quale tra più giudici dello stesso tipo, dislocati sul territorio nazionale, abbia concretamente ompetenza. A ciò soccorre il secondo criterio di competenza: il criterio orrizzontale o della competenza per territorio. Anche in questo caso l'individuazione del giudice competente è stata fatta a priori dal legislatore sulla base di un particolare collegamento tra le parti e/o l'oggetto della causa col giudice di un certo luogo. Avremo così diversi fori di competenza territoriale (foro=luogo in cui ha sede il giudice con competenza), alcuni dei quali generali, altri facoltativi, altri ancora esclusivi e inderogabili. Ai sensi dell'art. 18 c.p.c. il foro generale delle persone fisiche è quello del luogo in cui il convenuto ha residenza, domicilio o dimora. Nel caso in cui il convenuto non abbia sul territorio della Repubblica né residenza, né domicilio, né dimora, il foro è quello della residenza dell'attore. Il foro generale delle persone giuridiche (art. 19 c.p.c.) è quello della loro sede legale, oppure del luogo in cui le stese hanno uno stabilimento o un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l'oggetto della domanda. Il foro generale degli enti senza personalità giuridica, ossia associazioni non riconosciute, società di persone e comitati, è quello del luogo in cui l'ente svolge la sua attività in modo continuativo. Il codice procede poi ad elencare una serie di fori speciali facoltativi oppure esclusivi, questi ultimi a volte derogabili dalle parti e a volte inderogabili, nel qual caso essi prevalgono sempre sia sui fori generali che su quelli facoltativi. Abbiamo cosi: 1) il foro (facoltativo) delle cause relative a rapporti di obbligazione. È competente il giudice del luogo in cui è sorta l'obbligazione oppure in cui la stessa deve essere eseguita (art. 20 c.p.c.); 2) il foro delle cause relative a diritti reali (esclusivo derogabile) e ad azioni possessorie (esclusivo inderogabile), che individua il giudice competente in quello del luogo in cui rispettivamente si trova il bene, o è avvenuto il fatto denunciato (art. 21 c.p.c.); 3) il foro (esclusivo derogabile) delle cause ereditarie, che è quello del luogo in cui si è aperta la successione (art. 22 c.p.c.); 4) il foro (facoltativo) delle cause tra soci, tra condòmini e tra condòmini e condominio, che è quello del luogo in cui ha sede la società o in cui si trova il condominio (art. 23 c.p.c.); 31 5) il foro (esclusivo inderogabile) dello Stato (art. 25 c.p.c.), che è quello del luogo in cui ha sede l'ufficio dell'avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie (ad es. se il giudice competente fosse, secondo le regole ordinarie, il giudice di Monza, il distretto in questione sarebbe quello della Corte d'appello di Milano; in tale distretto, l'ufficio dell'avvocatura dello Stato si trova nel comune capoluogo del distretto, vale a dire a Milano; dunque, competente è il giudice di Milano); il foro (esclusivo inderogable) dell'esecuzione forzata (art. 26 c.p.c.), che è quello del luogo in cui le cose si trovano in caso di esecuzione mobiliare e immobiliare; in caso di esecuzione su autoveicoli, motoveicoli e rimorchi è competente il giudice del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore; per l'esecuzione degli obblighi di fare e di non fare è competente il giudice del luogo in cui l'obbligo deve essere adempiuto; Il foro (esclusivo inderogable) dell'espropriazione di crediti (art. 26bis c.p.c.) che è quello del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, a meno che il debitore sia una delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 413 c.p.c. (rapporti di lavoro con le P.A.); in tal caso è competente il giudice del luogo di residenza, domiclio, dimora o sede del terzo debitore; Il foro (facoltativo) stabilito per accordo delle parti (artt. 28 e 29 c.p.c.); in questo caso la competenza prevista secondo le regole sopra dette viene derogata dalle parti mediante accordo scritto che deve riferirsi a uno o più affari determinati (tale clausola derogatoria della competenza, qualora indichi un particolare ufficio giudiziario in via esclusiva, consiste in una clausola vessatoria ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. e, pertanto, richiede la specifica approvazione per iscritto a pena di nullità). L'accordo derogatorio della competenza può riferirsi solo alla competenza territoriale derogabile, e non a quella inderogabile per legge, come nel caso delle cause in cui è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero, in quelle di esecuzione forzata, di opposizione alla stessa, in quelle cautelari e possessorie, e in altre determinate dalla legge (ad es. il foro dello Stato). 9) Il foro (facoltativo) del domicilio eletto per uno o più affari determinati (art. 30 c.p.c.). 6 7 8 Cap. IV - L'INNOMPETENZA Come abbiamo detto, la competenza costituisce uno dei presupposti processuali che deve sussistere al momento della proposizione della domanda, pena l'impossibilità per il giudice di pervenire ad una pronuncia sul merito, cui si sostituirà una pronuncia solo sul processo. Il rilievo dell'incompetenza è affidato alle parti nonché, in quasi tutti i casi, pure al giudice d'ufficio, ma comunque entro stretti termini di preclusione (preclusione significa che un'attività processuale non può più essere svolta perchè è scaduto un termine o non è stata prima compiuta altra attività 32 A seguito dell'istanza, il fascicolo d'ufficio deve essere trasmesso dalla cancelleria del giudice a quo a quella della Cassazione, e il giudice a quo deve sospendere il processo in attesa della decisione sul regolamento. Il ricorso notificato deve essere depositato in cancelleria, unitamernte ai documenti necessari, entro 20 giorni dall'ultima notificazione eseguita. Il procedimento dinanzi alla Corte di Cassazione è quello in camera di consiglio che analizzeremo nel capitolo dedicato alle impugnazioni dinanzi alla Corte (Parte sesta, Cap. III). Tale procedimento si concluderà con l'emissione di un'ordinanza con cui la Corte indicherà (salvo che il ricorso sia dichiarato inammissibile) il giudice competente. A decorrere dalla comunicazione dell'ordinanza della Corte, le parti hanno 3 mesi di tempo (o il diverso termine eventualmente fissato nell'ordinanza) per riassumere la causa davanti al giudice dichiarato competente, ai sensi dell'art. 50 c.p.c., pena l'estinzione del processo (nel qual caso, come abbiamo detto, la determinazione della Corte sulla competenza rimane comunque fissata e incontestabile anche in un eventuale successivo giudizio per lo stesso oggetto e tra le stesse parti). Qualora il giudice della causa in corso si sia invece pronunciato non solo sulla competenza ma anche sul merito, oppure solo sul merito (affermando così, implicitamente, la propria competenza), le parti avranno davanti a sé due vie per impugnare il provvedimento: quella ordinaria (appello e, successivamente, ricorso per Cassazione), oppure quella del regolamento facoltativo di competenza (art. 43 c.p.c.), dinanzi alla Suprema Corte. Stavolta il ricorso per regolamento di competenza è uno strumento facoltativo, in quanto le parti hanno una scelta, e non un obbligo. Se, poi, alcune di esse esperiscono subito il regolamento, le altre parti potranno impugnare la pronuncia del giudice a quo coi mezzi ordinari, ma solo ne/ merito e solo dopo che la Corte si è pronunciata sul regolamento. Infatti, una volta presentata l'istanza per regolamento, il termine per impugnare nel merito viene interrotto e riprende a decorrere dalla comunicazione dell'ordinanza della Superma Corte (art. 43, 3° comma, c.p.c.). Se, invece, è stata presentata subito impugnazione coi mezzi ordinari, le altre parti potranno esperire il regolamento di competenza entro 30 giorni dalla 35 notificazione dell'impugnazione ordinaria, il che comporterà la sospensione necessaria (v. Parte quinta, Cap. X) di tale procedimento di impugnazione, sino alla decisione della Suprema Corte (artt. 43, 3° comma, e 48 c.p.c.). 2. | CONFLITTI DI COMPETENZA Qualora il giudice della causa in corso dichiari la propria incompetenza, la causa deve essere riassunta avanti il giudice indicato dal primo come competente entro il termine indicato nell'ordinanza o, in mancanza, entro 3 mesi dalla comunicazione dell'ordinanza stessa (art. 50 c.p.c.), pena l'estinzione del processo. Le parti, invece che operare la riassunzione, possono optare per impugnare nei termini la decisione del giudice a quo, nei modi e neti termini che abbiamo indicato nel paragrafo precedente. In mancanza di impugnazione, e in caso di riassunzione della causa avanti al giudice indicato come competente, diverse sono le iniziative che quest'ultimo può prendere a seconda che l'incompetenza dichiarata dal primo giudice sia: - per materia o per territorio inderogabile; - per valore o per territorio derogabile. Nel primo caso (incompetenza per materia o per territorio inderogabile), qualora il giudice ad quem si ritenga a sua volta incompetente, si realizza un conflitto virtuale negativo di competenza, ed egli non potrà pronunciare a sua volta la propria incompetenza, bensì richiedere d'ufficio il regolamento di competenza (art. 45 c.p.c.). Nel secondo caso (incompetenza per valore o per territorio derogabile), qualora il giudice ad quem si ritenga a sua volta incompetente, non dovrà esperire d'ufficio il regolamento di competenza, ma potrà dichiararsi a sua volta incompetente (conflitto reale negativo di competenza), e indicare un terzo giudice come competente. Cosa avviene nel caso di mancata impugnazione di una pronuncia di incompetenza e di mancata riassunzione della causa avanti al giudice dichiarato competente? La mancata riassunzione comporta l'estinzione del processo, ma diversa è l'efficacia che la pronuncia di incompetenza esplica in un eventuale nuovo processo che venisse instaurato tra le stesse parti e per lo stesso oggetto. Abbiamo infatti già detto che in tale nuovo processo le pronunce della Cassazione mantengono la propria efficacia (efficacia panprocessuale); le pronunce di incompetenza del giudice a quo, invece, non sopravvivono all'estinzione, e perdono efficacia (efficacia endoprocessuale). 36 Cap. V _- LA CONNESSIONE E GLI SPOSTAMENTI DELLA COMPETENZA Può accadere che vengano incardinate due o più azioni giudiziarie che presentano tra loro elementi in comune: è questo il fenomeno della connessione. Tralasciando per il momento il particolare caso della totale comunanza di tutti gli elementi delle azioni (ed allora le cause sono identiche), che prende il nome di litispendenza, dobbiamo ora precisare che per connessione si intende la comunanza tra due o più azioni giudiziarie che presentano anche solo parzialmente gli stessi elementi soggettivi e/o oggettivi. Abbiamo infatti già detto a suo tempo che un'azione processuale è costituita da elementi soggettivi, vale a dire da uno o più soggetti che chiedono la tutela giurisdizionale (attori) e da uno o più soggetti che resistono a tale richiesta (convenuti), nonché da elementi oggettivi, quali il petitum (mediato e immediato) e la causa petendi. Si ha connessione soggettiva quando due o più cause presentano soggetti in comune; si ha connessione oggettiva quando la comunanza tra le cause riguarda l'oggetto (la causa petendi eo il petitum). Nel primo caso, la comunanza soggettiva fa conseguire il cumulo delle domande proposte (cumulo oggettivo), in quanto l'attore potrebbe proporre nei diversi processi diverse domande a carico dello stesso convenuto. Viceversa, nel caso in cui la comunanza nelle cause riguardi l'oggetto, ne conseguirà il cumulo dei soggetti chiamati nei diversi processi (cumulo soggettivo); per lo stesso fatto possono (o devono, in caso di litisconsorzio necessario, v. Parte terza, Cap. III) infatti essere chiamati in giudizio, od agire in giudizio, più soggetti (pensiamo al caso dell'azione di impugnazione di una delibera dell'assemblea condominiale effettuata da diversi condòmini in diverse azioni giudiziarie). Nel più dei casi la connessione si presenta allo stesso tempo oggettiva e soggettiva, almeno parzialmente, sino a giungere al caso estremo della perfetta coincidenza di tutti gli elementi delle azioni (cause identiche=litispendenza). Il fenomeno della connessione può riguardare il momento iniziale del processo, ed allora l'attore può scegliere (a meno che ci si trovi in una situazione di 37 giudice della causa principale. La dottrina e la giurisprudenza tradizionali solgono indicare due tipi di chiamata in garanzia: quella propria ‘e quella impropria. La prima forma di garanzia sussiste in caso di identità del titolo, o di connessione oggettiva, tra il rapporto creditore-debitore (di cui alla domanda principale) e quello garante-garantito (di cui alla domanda ‘accessoria di garanzia), e ciò sia direttamente contemplato da una norma giuridica. Nella garanzia propria le ‘cause sono inscindibili e sussiste necessarietà del litisconsorzio, anche nei giudizi di impugnazione (v. Parte sesta, Cap. I). La seconda forma di garanzia sussiste allorchè il rapporto di cui alla domanda principale presenta titolo diverso di quello di cui alla domanda di garanzia, oppure qualora vi sia connessione col titolo, ma solo in via occasionale o di fatto. In questo caso le domande sono scindibili e il litisconsorzio è solo facoltativo. Sempre per la dottrina e la giurisprudenza tradizionali, la garanzia di cui parla l'art. 32 c.p.c. sarebbe solo quella ‘propria. Tuttavia, una recente pronuncia della Cassazione a Sezioni unite (sent. 4 dicembre 2015, n. 24707) ha chiarito che pur confermando la differenza tra le due forme di garanzia, tale diversità attiene più che altro a un modo di classificare le diverse fattispecie, mentre la loro disciplina deve rimanere unitaria, anche con riferimento alla natura del litisconsorzio, che è necessario in entrambe le ipotesi. - L'art. 33 c.p.c. verte in tema di connessione oggettiva pura, ossia di sola comunanza del petitum e/o della causa petendi, il che determina unicamente il cumulo soggettivo. Dal punto di vista della competenza territoriale, la possibilità di chiamare da subito più convenuti nello stesso processo consente all'attore di scegliere uno qualsiasi dei vari fori generali dei convenuti stessi, e quindi di scegliere uno tra più giudici, tutti territorialmente competenti. - L'art. 34 c.p.c. sulla pregiudizialità dispone che qualora per volontà delle parti, o per legge, una causa non possa essere decisa nel merito senza che sia stata prima risolta una questione pregidiziale, con una pronuncia avente efficacia di giudicato, il giudice della causa in corso decide sulla pregiudiziale se competente (per valore/materia) anche per questa, altrimenti rimette tutta la causa davanti al giudice superiore, fissando un termine perentorio per la riassunzione avanti a questo. Ad esempio, se è proposta davanti al giudice di pace domanda per il pagamento di una somma di € 2.000 in adempimento di un contratto, e l'altra eccepisce l'annullabilità del contratto stesso perchè stipulato da un interdetto, la pregiudiziale concerne lo status di interdetto, materia di competenza del tribunale (peraltro in composizione collegiale ex art. 50bis c.p.c.). Il giudice di pace, nel caso in esame, non è competente per la pregiudiziale, motivo per cui rimetterà l'intera causa davanti al tribunale. Se la causa pregiudiziale fosse invece già in corso davanti ad altro giudice, il giudice della causa principale dovrebbe sospendere il processo in attesa della decisione sulla pregiudiziale (sospensione necessaria, v. Parte quinta, Cap. X). 40 > Attenzione! L'istituto della rimessione davanti al giudice superiore di cause connesse, così come la proposizione delle stesse, già nel momento iniziale, davanti al giudice superiore, costituiscono una scelta e non un obbligo, tanto per le parti (art. 40, sesto comma, c.p.c.), quanto per il giudice, a meno che non sia diversamente specificato dalla legge (come, ad es., nell'ipotesi ex art. 40, settimo comma, c.p.c., secondo cui il giudice di pace deve rilevare la connessione di cui agli artt. 31,32,34,35 e 36 c.p.c. in favore del giudice superiore, ma non oltre la prima udienza). Per ragioni processuali, infatti, le cause connesse ben potrebbero rimanere assegnate a distinti uffici giudiziari, così come cause proposte simultaneamente potrebbero in seguito venire separate, sempre per ragioni processuali. ‘A sostegno dell'assunto sopra evidenziato riportiamo un esempio in cui il giudice di pace non è tenuto a rimettere tutta la causa al giudice superiore, ma a tenere le cause connesse separate. Si tratta dell'ipotesi in cui viene proposta, nel corso di un giudizio davanti al giudice di pace, domanda di querela di falso (che è di competenza del tribunale collegiale). Il giudice di pace, ai sensi dell'art. 313 c.p.c., sospende il processo in corso e rimette le parti avanti al tribunale, ma solo per la querela di falso. - L'art. 35 c.p.c. tratta dell'eccezione di compensazione, che si presenta quando alla domanda attorea di pagamento di una somma di denaro, il convenuto eccepisca la compensazione di tale credito con un proprio controcredito. Se il giudice adìto è competente (per valore/materia) per entrambe le cause nulla quaestio. Se, invece, non è competente per l'eccezione di compensazione, ha due possibilità: 1) qualora il credito principale sia fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, può separare le due domande, decidendo intanto il merito della domanda principale (con una sentenza di condanna con riserva), rimettendo le parti per la decisione sull'eccezione di compensazione davanti al giudice superiore; 2) se, invece, il credito principale è fondato su titolo controverso o non facilmente accertabile, il giudice adìto rimette entrambe le domande davanti al giudice superiore, fissando un termine perentorio per la riassunzione avanti a questo. L'art. 36 c.p.c. tratta della domanda riconvenzionale, che è quella domanda esperita dal convenuto nei confronti dell'attore, e che comporta un allargamento dell'oggetto del processo. Non ogni domanda riconvenzionale è ammissibile, ma solo quella connessa col titolo della domanda attorea (petitum o causa petendi) o col titolo già appartenente al processo sotto forma di eccezione. 41 Prendendo l'esempio dell'eccezione di compensazione visto sopra, sarà pertanto una domanda riconvenzionale la richiesta svolta dal convenuto di condanna dell'attore al pagamento della differenza in suo favore di quanto risultante dopo aver operato la compensazione: la riconvenzionale è infatti fondata sulla eccezione di compensazione già appartenente al processo. Il legislatore ci dice (lettura combinata degli artt. 34, 35 e 36) che qualora il giudice della domanda principale non sia competente anche per la domanda riconvenzionale, le scelte possibili sono due (come nel caso dell'eccezione di compensazione): 1) l'attribuzione dell'intera causa al giudice superiore; 2) la separazione della domanda principale (che verrà decisa dal giudice inferiore con sentenza di condanna con riserva) da quella riconvenzionale (che verrà decisa dal giudice superiore). Precisiamo che la competenza (verticale) per la riconvenzionale si determina dalla materia della stessa o dal suo valore autonomo, non dal quello che si ottiene sommando la stessa con la domanda principale (come avviene, invece, per l'accessorietà, la garanzia e nel caso di cumulo oggettivo). Sino ad ora abbiamo esaminato ipotesi di connessione che possono far scegliere all'attore di instaurare da subito un simultaneo processo, e davanti a quale giudice (artt. 31 e 33 c.p.c.). Abbiamo anche esaminato ipotesi nelle quali la connessione si verifica, a seguito degli atti introduttivi (anche del convenuto), nel momento iniziale di quel processo e davanti a quel giudice (artt. 32,34,35 e 36 c.p.c.). Ma cosa avviene se più cause connesse vengono proposte non nel momento iniziale del processo, ma in tempi diversi davanti allo stesso giudice? E cosa avviene qualora tali domande vengano invece proposte in tempi diversi davanti a giudici diversi? Le risposte a tali quesiti ci vengono fornite dagli artt. 40 e 274 c.p.c. L'art. 274 c.p.c. dispone cosa avviene qualora più cause connesse siano proposte in tempi diversi davanti allo stesso giudice (stesso ufficio giudiziario). In una prima ipotesi (primo comma del citato articolo), qualora si tratti dello stesso giudice persona fisica, questi può ordinare, anche d'ufficio, la riunione. Ai sensi del secondo comma dell'art. 274 c.p.c., qualora si tratti, invece, di diversi giudici/persone fisiche, appartenenti però allo stesso ufficio giudiziario 42 successivamente rilevare in modo autonomo (o su eccezione di parte), e nei termini di legge, la propria eventuale incompetenza per valore, materia o territorio. Ciò non di meno, il secondo giudice deve comunque “eliminare” (con la sua cancellazione dal ruolo) la causa identica incardinata davanti a lui. Rammentiamo che, come ogni altra pronuncia resa solo sulla competenza, anche quella sulla litispendenza è impugnabile unicamente con regolamento necessario di competenza. Se le cause identiche vengono proposte in tempi diversi davanti allo stesso giudice persona fisica, l'art 273, 1° comma, c.p.c. dispone che questi, anche d'ufficio, ne ordini (obbligatoriamente) la riunione. Nel caso in cui, invece, le cause identiche pendano davanti a diversi giudici dello stesso ufficio giudiziario, il secondo comma dell'art. 273 c.p.c. dispone che il giudice (o il presidente di sezione, se l'ufficio giudiziario ha più sezioni) ne riferisca al presidente dell'ufficio giudiziario il quale, sentite le parti, ordina (obbligatoriamente) con decreto la riunione, determinando la sezione o designando il giudice davanti al quale il procedimento deve proseguire. Un particolare sottotipo di litispendenza è la continenza, che si presenta quando una causa contiene l'altra per maggiore ampiezza del petitum mediato, ferma restando l'identità di tutti gli altri elementi soggettivi e oggettivi. Ad esempio, in una domanda viene chiesta la restituzione di tutte le rate di un mutuo, mentre nell'altra solo una rata. La regola dettata per la continenza è quella di cui all'art. 39, 2° comma, c.p.c., secondo il quale se il giudice preventivamente adìto è competente per entrambe le cause, il giudice successivamente adìto dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice preventivamente adìto. In caso contrario, cioè se è solo il giudice successivamente adìto a essere competente per entrambe le cause, la continenza e i provvedimenti annessi vengono pronunciati dal primo giudice. Si ricorda che la prevenzione è determinata dalla data della notifica della citazione, o del deposito del ricorso in cancelleria. Cap. VII - I PRINCIPI DELL'ATTIVITA' DEL GIUDICE 45 I princìpi dell'attività giurisdizionale vengono enunciati in parte nel codice di rito e in parte nel codice civile, senza dimenticare, ovviamente, le fonti costituzionali. Occorre considerare che l'attività giurisdizionale si pone in stretta relazione con la domanda di tutela giurisdizionale, o princìpio della domanda (artt. 2907 c.c. e 99 c.p.c.), secondo il quale il giudice non agisce d'ufficio, ma solo su impulso di parte. Tale attività giurisdizionale, poi, non è (del tutto) libera nemmeno dopo che è stata presentata la domanda, in quanto viene delimitata proprio dall'oggetto della domanda stessa (e dalle relative eccezioni), in ossequio al princìpio dispositivo generale (combinato degli artt. 2697 e 2907 c.c., 99, 112 e 115 c.p.c.) In base al princìpio dispositivo generale, il giudice non può pronunciarsi se non nei limiti di quanto dalle parti allegato e provato. Dunque, tale princìpio ci dice, da un lato, che sta nella disponibilità delle parti (ossia è onere a carico delle parti ex art. 2697 c.c.) l'oggetto del processo, vale a dire l'allegazione dei fatti costitutivi, lesivi, impeditivi, modificativi ed estintivi, nonché la loro prova e, dall'altro, che il giudice non può pronunciarsi se non relativamente all'oggetto del processo come circoscritto dalle parti. Il legislatore ci dice anche che il giudice deve pronunciarsi su tutta la domanda e_le relative eccezioni, ma non oltre i limiti di esse (princìpio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, art. 112 c.p.c.) incorrendo, altrimenti, nelle violazioni rispettivamente di omessa petizione e di ultrapetizione, entrambe ragioni di nullità della pronuncia. Nel pronunciarsi sulla domanda e sulle eccezioni, il giudice può porre a fondamento della sua decisione, salvo casi particolari, solo le prove offerte dalle parti (princìpio dispositivo delle prove, art. 115 c.p.c., corollario del princìpio dispositivo generale), nonché i fatti non specificamente contestati dalle parti, i fatti notori e le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (fatti pacifici, fatti notori e massime di esperienza). Il giudice può anche valersi dello stumento delle presunzioni, semplici e legali (v. Parte quinta, Cap. IV), che fanno risalire da un fatto noto (o provato) un fatto ignoto tramite un collegamento secondo l'id quod prelumque accidit (nel caso delle presunzioni semplici), o dispensano la parte dall'onere della prova di un 46 certo fatto (nel caso delle presunzioni legali). Con riferimento alle prove offerte dalle parti, l'art. 116 c.p.c. dispone che il giudice le valuta secondo il suo prudente apprezzamento (princìpio di libera valutazione delle prove), salvo che le stesse abbiano valore di prova legale, e allora la valutazione è vincolata a quanto determinato dalla legge. Inoltre, dal contegno delle parti nel processo, dalle loro risposte rese nell'interrogatorio libero o dal loro rifiuto a renderle, o dal rifiuto a consentire ispezioni, il giudice può trarre degli indizi definiti “argomenti di prova". Il giudice pronuncia la sua decisione secondo diritto, ossia ponendo a sup fondamento le norme giuridiche sostanziali e processuali vigenti nell'ordinamento giuridico, a meno che la legge non gli consenta di pronunciarsi secondo equità (princìpio della pronuncia secondo diritto, art. 113, 1° comma, c.p.c.). L'equità è la cosiddetta “giustizia del caso singolo”, in cui non vengono poste a fondamento della decisione norme giuridiche, bensì criteri di giustizia personali e soggettivi del giudice, secondo le sue convinzioni. Ai sensi dell'art. 113, 2° comma, c.p.c., il Giudice di pace pronuncia secondo equità le cause di valore sino a € 1.100 mentre, ai sensi dell'art. 114 c.p.c., sia i giudici di primo che di secondo grado pronunciano secondo equità se le parti ne fanno concorde richiesta, e la causa concerne diritti disponibili. Vedremo nel capitolo dedicato all'appello (Parte sesta, Cap. Il) che, a seconda che si rientri nell'uno o nell'altro caso, possono sussistere limiti all'appellabilità delle sentenze. Correlato ai princìpi dell'attività del giudice è il princìpio del contraddittorio, ai sensi del quale il giudice non può validamente pronunciarsi su alcuna domanda se la parte contro cui è proposta non è stata regolarmente citata o non è comparsa (art. 101 c.p.c.). Questa parte deve cioè essere stata posta in grado di partecipare al processo, a nulla rilevando che, effettivamente, la stessa poi vi partecipi attivamente o meno (v. procedimento in contumacia, Parte quinta, Cap. X). Il princìpio del contraddittorio è altresì un princìpio di portata costituzionale, essendo alla base del cd “giusto processo”, così come il princìpio di terzietà e imparzialità del giudice (art. 111, 2° comma, Cost.). 47 giudice, emessi fuori udienza, alle parti del processo (art. 58 c.p.c.). Gli atti del cancelliere consistenti, dunque, nella registrazione, custodia e documentazione di proprie attività o di quelle di organi giudiziari o delle parti, sono di tipo certificatorio e, pertanto, attribuiscono a tali attività pubblica fede fino a querela di falso. Ciascuna cancelleria svolge pertanto funzioni burocratico-amministrative in relazione alle attività dei soggetti del processo. Negli uffici giudiziari di maggiori dimensioni vi sono più sezioni, ciascuna delle quali comprende un proprio ufficio di cancelleria e più giudici. L'ufficiale giudiziario è, come il cancelliere, organo complementare dell'ufficio giudiziario. Le sue funzioni sono: 1) di notificazione di atti giudiziari; 2) di assistenza del giudice alle udienze (oggi desueta); 3) di attendere ad altre incombenze che la legge gli attribuisce (es. intimazione ai testimoni e intimazione di sfratto, pur collegate all'attività notificatoria); 4) di attività di esecuzione materiale, quale organo esecutivo nel processo esecutivo (ad es. esegue il pignoramento mobiliare e il rilascio di immobili). Nel compiere le loro funzioni, tanto l'Ufficiale giudiziario quanto il cancelliere attribuiscono pubblica fede a quanto dagli stessi compiuto, o che è avvenuto in loro presenza, tramite la redazione del processo verbale (ad es. la relazione di notifica, il verbale di pignoramento mobiliare o di rilascio di immobile). Il consulente tecnico d'ufficio (C.T.U.) è un professionista esperto in determinati campi, dotato di specifiche competenze tecniche, e che può assistere il giudice in singoli atti o per tutto il processo (art. 61, 1° comma, C.p.c.). I consulenti tecnici sono iscritti in appositi albi tenuti presso le cancellerie, e il giudice li sceglie tra gli iscritti in tali albi (artt. 61, 2° comma, e 63 c.p.c.). Non sempre il giudice ha necessità di ricorrere a un consulente tecnico, in quanto potrebbe anche essere egli stesso esperto in determinate materie. Più pesso, però, accade che egli non sia dotato di specifiche competenze 50 tecniche e che, pertanto, si avvalga di tecnici cui affida delle indagini o richieste di chiarimenti tramite i cd “quesiti”. I consulenti tecnici incaricati riferiscono dei risultati delle loro indagini solitamente tramite relazioni tecniche scritte (perizie), oppure forniscono pareri e chiarimenti, anche in udienza o in camera di consiglio (artt. 62, 194 e 195 C.p.c.). II compenso del consulente tecnico viene determinato dal giudice con provvedimento di liquidazione. Quando viene nominato un consulente tecnico d'ufficio, ciascuna delle parti ha diritto di nominare propri consulenti (consulenti tecnici di parte, o C.T.P.) che collaborano col consulente del giudice, facendo ovviamente valere il punto di vista, ancorchè “tecnico”, della parte che li ha nominati. Essi partecipano alle udienze e alle camere di consiglio a cui è invitato il CTU (art. 201 c.p.c.). Il custode è il soggetto cui viene affidata la custodia e, a volte, l'amministrazione dei beni sottoposti a pignoramento o a sequestro (art. 65 c.p.c.). La sua nomina avviene per atto del giudice o dell'ufficiale giudiziario. È previsto che il giudice possa avvalersi di altri ausiliari, alcuni dei quali sono esperti in settori o arti (sovrapponibili, però, alla figura del consulente tecnico), quali l'interprete, il traduttore, lo stimatore. Altri coadiuvano operazioni nell'ambito del processo come, ad esempio, il ruolo dell'Istituto Vendite Giudiziarie (IVG) nel processo esecutivo, così come quello, nello stesso processo esecutivo, del professionista incaricato della vendita (notaio, commercialista, avvocato). PARTE TERZA | soggetti del diritto processuale civile: le parti 51 Cap. | - L'ATTORE E LA DOMANDA GIUDIZIALE Il processo civile è tale se sono presenti almeno due parti tra loro in contraddizione. L'attore è il primo soggetto processuale che dobbiamo considerare, in quanto egli è, come suggerisce la definizione, colui che prende l'iniziativa e agisce (è actor) chiedendo la tutela giurisdizionale. Il processo civile ruota attorno al fulcro rappresentato dalla domanda dell'attore rivolta al giudice. È tale domanda che determina, una volta notificata al convenuto, la pendenza della lite e, quindi, l'“ufficialità” della controversia avanti l'autorità giudiziaria, nonché la qualità di “parte” del processo di attore e convenuto. È la notifica di tale domanda che comporta altresì l'interruzione della prescrizione ed evita le decadenze (tranne nei casi in cui il procedimento viene azionato con ricorso, nel qual caso vale il deposito in cancelleria). È il contenuto di tale domanda che radica la giurisdizione e la competenza, nonché il thema probandum e il thema decidendum su cui il giudice dovrà poi basare la propria pronuncia. Abbiamo visto che, ai sensi del princìpio della domanda e del princìpio dispositivo, la domanda stessa, intesa come richiesta di tutela giurisdizionale, è nella disponibilità dell'attore. E sempre il princìpio dispositivo ci dice che è l'attore che propone la domanda ad avere l'onere di provare i fatti su cui la sua domanda si fonda, ossia i fatti costitutivi e/o lesivi del diritto dallo stesso affermati. Il princìpio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. ci dice poi che il giudice deve pronunciarsi sulla domanda dell'attore (o meglio, su tutta la domanda), pena il vizio di omessa petizione, ma non oltre i limiti della stessa, pena il vizio di u/trapetizione. Vedremo nel capitolo dedicato agli atti introduttivi del processo di cognizione (Parte quinta, Cap. Il) che la domanda dell'attore è generalmente contenuta in un atto definito atto di citazione (altri tipi di procedimento possono introdursi, come abbiamo sopra accennato, con ricorso). Tale atto deve contenere, oltre agli elementi identificativi delle parti, l'oggetto vero e proprio, vale a dire il petitum (mediato ed immediato) e la causa petendi. 52 difensivo fatti modificativi, impeditivi o estintivi delle pretese attoree. Tali fatti vengono definiti eccezioni (in senso proprio). Esempio di fatto modificativo può essere la modifca intervenuta in un contratto; esempio di fatto impeditivo) può essere l'esistenza, in un contratto, di una condizione sospensiva non ancora avverata; esempio di fatto] estintivo può essere l'avvenuto pagamento. Le eccezioni in senso proprio possono poi distinguersi in eccezioni di rito (o processuali), se si riferiscono a presupposti processuali (giurisdizione, competenza, legittimazione processuale) o a condizioni dell'azione (interesse ad agire, legittimazione ad agire), e in eccezioni di merito (o sostanziali), se attengono alla sfera del merito della domanda attorea e, quindi, al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (prescrizione, decadenza, compensazione, pagamento, annullamento o nullità del contratto, etc.). A seconda dei soggetti che possono opporle vi sono poi eccezioni in senso stretto, che possono essere opposte solo dalle parti (es. prescrizione), ed eccezioni in senso ampio (o in senso lato), che possono essere rilevate anche dal giudice d'ufficio (es. nullità contrattuale o nullità dell'atto di citazione). L'eccezione in senso stretto, proprio perchè nella disponibilità delle parti, è soggetta all'onere probatorio da parte di colui che la oppone. Così, se il convenuto fa delle eccezioni, ha l'onere di provare i fatti a loro fondamento (sempre per il princìpio dell'onere della prova, art. 2697 c.c.). L'eccezione è uno strumento che non amplia l'oggetto della domanda attorea iniziale; si rimane, infatti, all'interno dei suoi confini. Impone tuttavia al giudice la valutazione di elementi aggiuntivi che potrebbero comportare il rigetto della domanda attorea. Il giudice, sempre per il princìpio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, deve pertanto pronunciarsi non solo su tutta la domanda attorea, ma anche su tutte le eccezioni formulate dal convenuto e dalle altre parti (compreso l'attore, come vedremo nella Parte quinta, Cap. III). Il convenuto, nella sua strategia difensiva, potrebbe spingersi addirittura oltre: potrebbe proporre lui stesso una domanda non limitata al mero accertamento (negativo) di quanto affermato dall'attore, bensì a sua volta finalizzata alla condanna dell'attore. Trattasi, nella fattispecie, della domanda riconvenzionale, strumento con cui il convenuto amplia (qui sì) l'oggetto del 55 processo, andando oltre ai confini delimitati dalla domanda attorea, inserendo nuovi e ulteriori fatti costitutivi e/o lesivi di un diritto di cui, però, è stavolta titolare (affermato) il convenuto. Certo, quest'ultimo non può chiedere qualsiasi cosa, perchè se è pur vero che il processo è l'occasione per riunire più questioni tra gli stessi soggetti (v. il tema della connessione, Parte seconda, Cap. V), ciò potrebbe anche ingolfare il processo stesso, appesantirlio e rallentarne lo svolgimento. Anche per questioni di economia processuale, pertanto, il legislatore ha fissato dei limiti all'introduzione di domande riconvenzionali: le stesse sono ammesse solo se si trovano in connessione col titolo dedotto in giudizio dall'attore, vale a dire con la causa petendi attorea, oppure col titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione (art. 36 c.p.c.). Un esempio del primo tipo può essere quella del convenuto-conduttore di immobile che, oltre a chiedere il rigetto della domanda dell'attore-locatore di pagamento di canoni di locazione arretrati, chiede la condanna dell'attore di rimborsargli le spese sostenute per riparazioni straordinarie. Il titolo su cui si basa la domanda riconvenzionale del convenuto è lo stesso dedotto in giudizio dall'attore, ossia il rapporto di locazione. Un esempio del secondo tipo può essere quello del convenuto che, chiamato in giudizio per un pagamento, oppone all'attore, quale eccezione, l'esistenza di un proprio controcredito che ha determinato la compensazione legale con quanto chiesto in giudizio dall'attore (cd eccezione di compensazione) e, dunque, chiede in via riconvenzionale la condanna dell'attore a pagargli la parte di controcredito non coperta dalla compensazione. Il titolo su cui il convenuto basa la sua riconvenzionale è la stessa eccezione di compensazione appartenente al processo. L'allargamento dell'oggetto del processo dovuto alla domanda riconvenzionale potrebbe comportare, come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla connessione, lo sforamento della competenza per valore, e le soluzioni offerte dall'art. 36 c.p.c. Per completezza va detto che non è solo il convenuto a poter svolgere domanda riconvenzionale: anche l'attore può, sulla base e in reazione alla domanda riconvenzionale del convenuto, proporre a sua volta una domanda riconvenzionale definita, per l'appunto, riconvenzionale della riconvenzionale (riconventio riconventionis). Ci sono dei termini di preclusione molto precisi oltre i quali le parti non possono più proporre domande riconvenzionali: il convenuto ha l'onere di proporla nella comparsa di risposta, da depositare entro e non oltre 20 giorni prima della prima udienza fissata in citazione; l'attore, sulla base della domanda riconvnzionale svolta dal convenuto, può proporre la sua nella prima difesa 56 successiva e, quindi, o in prima udienza o, al più tardi, nella prima memoria ex art. 183, 6° comma, c.p.c. (v. Parte quinta, Cap. III). Cap. Ill - IL LITISCONSORZIO Il litisconsorzio è quel fenomeno processuale (che abbiamo già incontrato parlando di connessione nella Parte seconda, Cap. V) ai sensi del quale più parti partecipano o sono chiamate a partecipare al processo, e ciò può avvenire o dal lato attivo (litisconsorzio attivo), nel caso vi siano (o vi debbano essere) più attori, o dal lato passivo (/itisconsorzio passivo), nel caso vi siano (o vi debbano essere) più convenuti, o da entrambi i lati (/itisconsorzio misto). La partecipazione di più parti può avvenire sin dall'inizio, e allora il litisconsorzio si dice iniziale, oppure a processo in corso, e allora viene detto successivo. LITISCONSORZIO NECESSARIO Molto importante è la distinzione tra litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo. Nel primo caso la partecipazione di più parti al processo è generalmente dettata dalla contitolarità (affermata) del diritto sostanziale fatto valere in giudizio, tanto che non è possibile per il giudice pronunciarsi se non nei confronti di più parti (art. 102 c.p.c.) che, pertanto, devono tutte agire o essere convenute nel medesimo giudizio. È ciò che si verifica, ad esempio, nel caso del giudizio di divisione, a cui devono partecipare tutti i membri della comunione. La necessarietà del litisconsorzio costituisce un insopprimibile esigenza del contraddittorio, il cui mancato rispetto può essere rilevato dal giudice d'ufficio in_ ogni stato e grado del processo. Una volta rilevato il difetto del contraddittorio, il giudice ordina alla parte già costituita più diligente di provvedere all'integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio, pena la cancellazione della causa dal ruolo e l'immediata estinzione del processo. A questo punto occorre precisare che non sempre la contitolarità del diritto sostanziale fatto valere in giudizio comporta la necessità del litisconsorzio: basti pensare al caso dei condebitori in solido i quali, pur rivestendo la 57 ab origine: il giudice dispone infatti la cancellazione della causa dal ruolo, ma il processo non si estingue immediatamente, bensì solo nel caso di sua mancata riassunzione entro 3 mesi. Il litisconsorzio facoltativo è iniziale quando l'attore propone sin dall'inizio più domande nei confronti di più soggetti nello stesso processo. È successivo quando si presenta in seguito a intervento volontario del terzo, oppure in conseguenza della sua chiamata in causa da parte di una delle parti. Anche il litisconsorzio necessario iniziale può realizzarsi mediante l'intervento volontario del terzo o per chiamata in causa. Tuttavia, mentre il terzo chiamato in giudizio e il terzo interveniente volontario nel litisconsorzio necessario non subiscono preclusioni, in quanto sono fatti salvi i loro diritti processuali, il terzo che interviene volontariamente in caso di litisconsorzio facoltativo subisce le preclusioni di legge. Ricordiamo, infatti, che in caso di litisconsorzio facoltativo l'intervento del terzo (come quella del contumace, del resto) può avvenire sino all'udienza di precisazione delle conclusioni, e il terzo entra nel processo nello stato in cui esso si trova, incorrendo, eventualmente, nelle preclusioni maturate (salvo l'istituto della rimessione in termini). Cap. IV - L'INTERVENTO DEI TERZI Abbiamo visto sopra come l'intervento del terzo nel giudizio in corso tra altre parti determini il sorgere di un litisconsorzio facoltativo, o possa costituire integrazione del contraddittorio nel caso di litisconsorzio necessario. La partecipazione del terzo al giudizio è quindi dovuta alla sussistenza di una comunanza con la lite insorta tra le altre parti, determinata da ragioni di connessione oggettiva. L'intervento può essere volontario o coatto. L'intervento volontario avviene per mera scelta da parte del terzo di partecipare a un processo insorto tra altri, e ciò può avvenire sia per integrare spontaneamente il contraddittorio nel caso di litisconsorzio necessario, sia allorchè il terzo ritenga semplicemente che sussista una connessione oggettiva con la lite in corso, andando così a costituire un litisconsorzio facoltativo successivo. L'INTERVENTO VOLONTARIO (art. 105 c.p.c.) può essere di tre tipi: 60 - Intervento principale, o ad excludendum in questo caso il terzo, intervenendo, fa valere un diritto proprio (affermato) incompatibile con quello di tutte le altre parti. Ad esempio, in una causa di rivendicazione insorta tra Tizio e Caio sulla proprietà di un bene, interviene Sempronio che fa valere il suo diritto di proprietà. - Intervento adesivo autonomo, o litisconsortile In questo caso il terzo fa valere un diritto proprio soltanto contro alcune parti, appoggiando conseguentemente quella di altre parti. Ad esempio, il socio di una società per azioni che fa valere il proprio autonomo diritto all'impugnazione della delibera assembleare, sostenendo l'iniziativa presa da altri soci contro la medesima delibera. - Intervento adesivo dipendente In questo caso il terzo non fa valere un diritto proprio, bensì si limita ad appoggiare una delle parti sostenendone le ragioni. L'interesse può essere dettato semplicemente dal volersi tutelare contro gli effetti riflessi di una pronuncia inter alios. ‘Ad esempio, in una causa che il locatore svolge nei confronti del conduttore per ottenere il rilascio dell'immobile, il terzo subconduttore ha interesse ad appoggiare la posizione del conduttore, temendo di subire gli effetti riflessi della pronuncia contro lo stesso. Mentre negli altri due tipi di intervento volontario il terzo mantiene una posizione autonoma, che ne fonda l'autonomo potere di impulso processuale in caso di inattività delle altre parti (al fine di evitare l'estinzione del processo) e di impugnazione, nel caso di intervento adesivo dipendente la sua posizione è del tutto subordinata a quella della parte che egli sostiene, subendone le stesse sorti in caso di estinzione del processo, e non potendo svolgere autonoma impugnazione alla sentenza. L'INTERVENTO COATTO può avvenire o a istanza di parte (art. 106 c.p.c.) o per ordine del giudice (iussu iudicis)(art. 107 c.p.c.). - L'intervento a istanza di parte può avvenire su iniziativa del convenuto, che chiede al giudice di poter chiamare in giudizio il terzo cui reputa comune la causa, o dal quale pretende essere garantito. La richiesta deve essere fatta nella comparsa di risposta da depositarsi, a pena di preclusione, entro 20 giorni antecedenti la prima udienza. Il giudice rinvierà 6l conseguentemente tale udienza onde consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di comparizione. Può darsi che l'interesse a chiamare in causa un terzo spetti anche all'attore, in seguito alle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta. In tal caso l'attore avrà l'onere di chiedere al giudice, in prima udienza, di essere previamente autorizzato a chiamare in causa il terzo. Discusso è se egli possa operare tale richiesta anche entro il termine concesso per la prima memoria ex art. 183, 6° comma, c.p.c. (v. Parte quinta, Cap. III). Ad ogni modo, il giudice, se concede l'autorizzazione, fissa una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, sempre nel rispetto dei termini a comparire. In questo caso, il terzo fa salvi tutti i diritti e non incorre in preclusioni, in quanto la prima udienza non ha ancora proceduto alla trattazione, posticipata all'entrata in giudizio del terzo. - L'intervento per ordine del giudice (o iussu iudicis) può avvenire in quanto il giudice, sulla base delle allegazioni fornite dalle parti, ritiene la causa comune al terzo per ragioni di connessione, per cui ordina alla parte più diligente di citare il terzo in giudizio entro un termine perentorio. L'ordine del giudice determina la nascita di un litisconsorzio necessario successivo. In caso di mancata ottemperanza a tale ordine, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue se non viene riassunto nel termine di 3 mesi. Come vediamo, la “sanzione” in questo caso è meno grave rispetto alla mancata integrazione del contraddittorio nel caso di litisconsorzio necessario iniziale, cui consegue la cancellazione della causa dal ruolo e l'immediata estinzione del processo. In tutti i casi di intervento, il terzo si costituisce depositando in cancelleria una comparsa con la procura, i documenti e il proprio fascicolo. Nel caso di intervento volontario, il terzo può intervenire solo fino all'udienza di precisazione delle conclusioni (tranne che ciò avvenga per integrare il contraddittorio in caso di litisconsorzio necessario), e si trova il processo nello stato in cui è giunto, con tutte le preclusioni maturate. 62 più i titolari del diritto sostanziale oggetto della causa, in quanto lo sono ora divenuti il legatario e l'acquirente quali successori (e sostituiti). Tuttavia, abbiamo visto che questi ultimi potrebbero anche rimanere inerti e non intervenire in giudizio. Il processo proseguirebbe, intanto, da o nei confronti dell'erede universale e dell'alienante, entrambi quali sostituti processuali. > Attenzione! Precisiamo che la successione di cui si parla in questo capitolo, proprio perchè è definita successione a titolo particolare nel diritto controverso, non va confusa con la successione universale nel processo che avviene in caso di morte della parte durante la lite (o in caso di fusione tra enti con estinzione dell'ente originario), e che analizzeremo nella Parte quinta, al Cap. X. In caso di successione universale nel processo la causa è proseguita o riassunta da o nei confronti degli eredi universali (o del nuovo ente), che subentrano nell'identica posizione processuale del de cuius (o dell'ente originario), e non si verifica alcuna sostituzione processuale. Nel caso dell'azione surrogatoria il creditore agisce in proprio per far valere un diritto altrui: quello del suo debitore. È pertanto un sostituto processuale, mentre il debitore sostituito, costituendosi in giudizio, può portare all'estromissione del creditore sostituto. Notiamo che non rientra tra i casi di sostituzione processuale quello dell'obbligato, che pure può essere estromesso: in questo caso, infatti, non si verifica alcuna sostituzione processuale, dal momento che la causa, anche in caso di estromissione del debitore-obbligato, prosegue tra i due creditori originari in contrasto, senza il subentro di alcuno nella posizione processuale del debitore-obbligato. Da ultimo, sempre in tema di sostituzione processuale, va fatto un breve cenno alla posizione che riveste il pubblico ministero nell'ambito del processo civile. Sappiamo, infatti (come vedremo al Cap. VIII), che il PM. può anche agire nell'ambito civile in veste di attore, promuovendo azioni specialmente laddove vi siano interessi da tutelare di soggetti incapaci o di persone giuridiche. Per alcuni in dottrina la sua costituirebbe una forma particolare di sostituzione processuale la quale, tuttavia, come nel caso del creditore nell'azione surrogatoria, non prevede che la sentenza faccia stato anche nei suoi confronti. Cap. VI - LE PARTI E I LORO DIFENSORI 1. CAPACITA' DI STARE IN GIUDIZIO, RAPPRESENTANZA E ASSISTENZA Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le parti del processo, nei loro minimi termini, sono costituite da colui che propone la domanda giudiziale (l'attore) e da colui contro il quale tale domanda è proposta (il convenuto). 65 Da un punto di vista generale, ogni soggetto di diritto può essere titolare di posizioni giuridiche attive o passive (cd capacità giuridica) che, nel processo, viene definita capacità di essere parte. Tutti i soggetti di diritto possono dunque essere attributari di effetti processuali, ivi compresi quelli della sentenza. Abbiamo invece detto, nel capitolo sui presupposti processuali, discorrendo della legittimazione processuale (o capacità processuale), che questa consiste nella capacità della parte di stare in giudizio, grossomodo coincidente con la capacità d'agire di diritto sostanziale applicata al processo (se è vero che gli incapaci di agire non hanno il libero esercizio dei diritti, vi sono soggetti che, pur capaci di agire, non hanno pure il libero esercizio dei diritti, come ad esempio i falliti). LA RAPPRESENTANZA LEGALE E L'ASSISTENZA DEGLI INCAPACI Cosa succede quando un soggetto di diritto, pur potendo essere parte di un processo, non ha il libero esercizio dei diritti? Di sicuro non può, da solo, essere parte attiva nel compiere e ricevere atti del processo, non avendo la capacità processuale. Tali soggetti potranno pertanto agire o resistere in giudizio solo per il tramite di altri soggetti che sostituiscono o integrano la loro volontà: i rappresentanti legali (es. genitori, tutori) e gli assistenti (curatore). Il rappresentante legale è colui che sostituisce in toto il soggetto rappresentato, totalmente incapace (o perchè minore di età, o perchè interdetto), e tale potere di rappresentanza viene conferito direttamente dalla legge (cd procura ex lege). Qualora l'incapacità sia solo parziale, si hanno le forme meno gravi dell'inabilitazione, dell'emancipazione e dell'amministrazione di sostegno: nei primi due casi il soggetto potrà stare in giudizio assistito dal curatore, nell'ultimo caso l'amministratore di sostegno, a seconda del contenuto del decreto di nomina da parte del giudice tutelare, avrà un potere di sostituzione (rappresentanza) o di assistenza in ragione della maggiore o minore autonomia dell'amministrato. LA RAPPRESENTANZA VOLONTARIA AI di fuori della rappresentanza legale, le parti possono decidere di farsi 66 rappresentare volontariamente nel processo da altro soggetto detto procuratore, ma ci sono dei limiti: può essere procuratore della parte nel processo solo chi è già suo procuratore nel campo del diritto sostanziale, e ciò o per affari specifici e determinati (procuratore speciale), o per tutti gli affari (procuratore generale). La parte che intende valersi di tale tipo di rappresentanza, detta rappresentanza volontaria, deve conferire al soggetto che starà in giudizio al suo posto, ai sensi dell'art. 77 c.p.c., apposita procura per iscritto (eccezioni sono costituite dal procuratore generale di diritto sostanziale che non ha residenza o domicilio in Italia, e dall'institore dell'imprenditore commerciale, che è già titolare di una procura generale ex /ege sia di diritto sostanziale che di diritto processuale). PARTE IN SENSO FORMALE E PARTE IN SENSO PROCESSUALE Le parti su cui ricadono gli effetti processuali, tra cui quelli della sentenza, sono le parti “originarie” (compresi gli incapaci), cioè quelle che possono essere parte del processo: vengono a tale scopo definite parti in senso formale. Coloro, invece, che agiscono in nome e per conto della parte in senso formale tramite la rappresentanza (legale o volontaria) sono definite parti in senso processuale. Vedremo nel capitolo dedicato all'udienza di prima comparizione e trattazione (Parte quinta, Cap. III) che in tale frangente il giudice istruttore verifica in primo luogo l'integrità e regolarità del contraddittorio e, in special modo, la capacità delle parti di stare in giudizio, le quali devono eventualmente essere debitamente rappresentate, assistite, autorizzate. A proposito di tale ultimo presupposto, l'autorizzazione è un atto prodromico alla facoltà che taluno possa stare in giudizio al posto di qualcun altro in certe situazioni, come, ad esempio, nel caso del tutore, che può agire o resistere in giudizio per taluni atti solo previa autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale. LA RAPPRESENTANZA ORGANICA DEGLI ENTI Nel caso degli amministratori delle persone giuridiche (e dei presidenti degli enti di fatto), costoro agiscono quali organi dell'ente e non quali veri e propri rappresentanti. 67 atti del processo sino alla nomina di nuovo difensore. La procura consente all'avvocato di esercitare i poteri su tutto il territorio nazionale (e quindi anche extra districtum) e non, come avveniva un tempo, solo nella circoscrizione relativa all'Ordine degli avvocati di appartenenza. Rammentiamo a tal proposito che l'avvocato, per poter esercitare lo jus postulandi, deve iscriversi nell'albo dell'Ordine degli avvocati del circondario del tribunale dove ha il domicilio professionale e, in apposito elenco (consultabile dalla pubblica amministrazione), l'avvocato deve indicare l'indirizzo di posta elettronica certificata e il codice fiscale. Cap. VII - IL REGIME DELLE SPESE E DEI DANNI PROCESSUALI Il principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico in tema di ripartizione delle spese processuali è quello della soccombenza, secondo cui è la parte soccombente nel giudizio a essere tenuta a pagare le spese di lite sostenute dalla parte vittoriosa. Questo vale sia per le cd “spese vive” o “borsuali” (ad es. marche da bollo, spese postali, contributo unificato, etc.), sia per i compensi per l'opera professionale svolta dal difensore. Ciò viene affermato all'art. 91 c.p.c. secondo cui il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui (e a volte anche in caso di decreto o di ordinanza aventi contenuto decisorio e che chiudono il processo, o una fase di esso), condanna la parte soccombente al rimborso delle spese in favore dell'altra parte, e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari (oggi definiti compensi) di difesa. Il principio della soccombenza prevede alcune eccezioni. Anzitutto, è possibile che il giudice decida di compensare le spese, ossia di porle in tutto o in parte a carico di chi le ha anticipate (in pratica, ognuno paga il proprio avvocato, in misura totale o parziale). Questo lo può fare ai sensi dell'art. 92, 2° comma, c.p.c., che dispone: “se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento giurisprudenziale rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”. Aggiunge il 3° comma del citato articolo che “se /e parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, 70 salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”. Normalmente, la parte soccombente effettua il rimborso direttamente alla parte vittoriosa. Tuttavia, il difensore (con procura) della parte vittoriosa può chiedere che il giudice, nello stesso provvedimento con cui condanna alle spese, disponga la distrazione in suo favore (cioè un pagamento “diretto”) dei compensi non ancora riscossi dalla parte assistita e le spese che dichiara di aver anticipato (art. 93 c.p.c.), non passando, dunque, per il tramite della parte assistita. Novità introdotta nel 2009 è quella della condanna alle spese della parte vittoriosa. È questa un'eccezione particolare, proprio perchè costituisce deroga a un principio cardine del nostro ordinamento qual è quello della soccombenza (è pertanto considerata norma eccezionale, non estensibile per analogia). Ai sensi dell'art. 91, 2° periodo, c.p.c., infatti, se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proprosta conciliativa dallo stesso proposta nel corso del giudizio (v. art. 185bis c.p.c.), condanna la parte (pur vittoriosa) che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta, al pagamento delle spese maturate dopo la formulazione della proposta (ma può anche disporne la compensazione ex art. 92 c.p.c.). Il giudice può infine condannare una parte, indipendentemente dalla soccombenza, a rimborsare all'altra spese pur non ripetibili per la compiuta trasgressione del dovere di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c. Tutto quanto sino ad ora visto riguarda le spese processuali. Tuttavia, all'esito del processo il giudice può condannare la parte soccombente anche al pagamento di somme di carattere risarcitorio, e ciò nei casi previsti all'art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità aggravata. Tale norma prevede tre distinte ipotesi: - la 17 ipotesi consiste nella cosiddetta /ite temeraria. Se risulta che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, può condannarla, oltre alle spese, al risarcimento dei danni liquidati anche d'ufficio. - La 2° ipotesi prevede il caso di esercizio, da parte del creditore, di azioni esecutive o cautelari, oppure di trascrizione di domande giudiziali o di 71 iscrizione di ipoteche giudiziali, senza /a normale prudenza (trattasi di colpa lieve e non di dolo o colpa grave), quando il giudice abbia accertato l'inesistenza del diritto vantato dal creditore. In tali casi, il giudice stesso, su istanza della parte danneggiata, condanna il creditore al risarcimento dei danni liquidati anche d'ufficio. - La 3° e ultima ipotesi è stata introdotta dalla novella del 2009, e costituisce norma di chiusura. É previsto, infatti, che il giudice in_ogni caso, quando pronuncia sulle spese a norma dell'art. 91 c.p.c., può anche d'ufficio (senza dunque la necessaria istanza di parte, come invece nelle prime due ipotesi) condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma (risarcitoria) equitativamente determinata. Norma finale è quella di cui all'art. 97 c.p.c. secondo cui se più sono i soccombenti, il giudice condanna ciascuno di essi alle spese e ai danni in proporzione del rispettivo interesse nella causa, e può anche pronunciare condanna solidale di tutte o di alcune di esse, quando hanno interesse comune. IL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO Ai sensi dell'art. 74, 2° comma, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è assicurato il patrocinio nel processo civile (ma anche penale, amministrativo, tributario e contabile) per la difesa del cittadino non abbiente, quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate. L'ammissione al gratuito patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo, e per tutte le eventuali procedure comunque connesse (art. 75, 1° comma, D.P.R. cit.). Per essere ammesso al gratuito patrocinio, il soggetto e la sua famiglia convivente complessivamente intesa, devono essere titolari di un reddito imponibile non superiore a_€ 11.369,24. Può essere presentata domanda di ammissione al gratuito patrocinio in ogni stato e grado del processo con istanza sottoscritta personalmente dalla parte (autenticata dal difensore), e presentata o al giudice della causa in corso o, prima della causa, al Consiglio dell'ordine del distretto di Corte d'appello in cui si trova il giudice competente. Ai sensi dell'art. 81 D.P.R. cit. chi è ammesso al patrocinio deve nominare un 72 Nel caso del P.M. interveniente facoltativo, egli può intervenire in ogni altra causa in cui ravvisi un pubblico interesse (art. 70, 3° comma, c.p.c.). É questa una disposizione di chiusura del sistema. La diversa attribuzione di funzioni comporta differenti conseguenze in tema di domande e impugnazioni che il PM. può svolgere. Mentre, infatti, il PM. attore (e quello che poteva essere attore) ha un generale e completo potere di proporre domande, conclusioni e impugnazioni in modo del tutto autonomo rispetto a quello delle parti, il PM. solo interveniente ha un generale potere di sorveglianza su come è condotto il procedimento dalle parti: può produrre documenti e dedurre prove, ma può prendere conclusioni solo nei limiti delle domande proposte dalle parti (può quindi solo chiedere o l'accoglimento o il rigetto, totale o parziale, delle domande altrui). Inoltre, non può proporre impugnazioni che non siano proposte dalle parti, tranne che nelle cause matrimoniali diverse dalla separazione personale dei coniugi (quindi divorzio oppure nullità del matrimonio). Qualora il P.M. non sia stato sentito nelle cause in cui è obbligatorio il suo intervento, la sentenza è affetta da nullità insanabile rilevabile d'ufficio, e può essere impugnata anche con la revocazione straordinaria (v. Parte sesta, Cap. IV). PARTE QUARTA Gli atti processuali Cap. | - IN GENERALE Il Titolo VI (artt. 121-162) del Libro primo del codice di procedura civile contiene le norme fondamentali relative agli atti del processo. Sappiamo che il processo non è altro che una serie coordinata di atti che, partendo dal primo, ossia dalla domanda di tutela giurisdizionale, conduce, al termine di una sequenza organizzata in uno schema prestabilito dal legislatore, all'ultimo atto che è la sentenza del giudice. Riprendendo quanto detto all'inizio di questo lavoro, i soggetti del processo esercitano nel processo dei poteri conferiti dalla legge. L'esercizio dei poteri è 75 costituito dagli atti processuali i quali, a loro volta, conferiscono nuovi poteri che introducono nuovi atti, e così via sino alla sentenza del giudice, che è pur essa un atto. L'atto processuale è, pertanto, l'esercizio di un potere processuale con cui i soggetti del processo costituiscono, svolgono, modificano od estinguono un rapporto giuridico processuale. Ricordiamo che i soggetti del processo sono le parti e il giudice (oltre agli ausiliari di quest'ultimo, quali il cancelliere e l'ufficiale giudiziario). Per ciascuno di questi soggetti sono stabilite particolari categorie di atti (quelli del giudice vengono chiamati provvedimenti) che seguono il principio della strumentalità delle forme rispetto allo sopo oggettivo perseguito. Ciò significa che la forma degli atti non è fine a sé stessa (il che farebbe cadere nel bieco formalismo), ma serve per raggiungere un determinato obiettivo nel processo. Ad esempio, il legislatore prescrive il contenuto formale dell'atto di citazione, il quale ha lo scopo di far conoscere al convenuto quale sia il diritto vantato dall'attore o la lesione del diritto di cui egli si duole, le ragioni giuridiche a sostegno di quanto lamentato nonché il tipo di provvedimento che viene chiesto al giudice. Nella stragrande maggioranza dei casi, è il legislatore a indicare la forma da seguire più adatta a conseguire lo scopo oggettivo cui l'atto mira. Il principio della strumentalità delle forme, detto anche della congruità delle forme, si integra (e non si contrappone) col principio di libertà delle forme. Ciò significa che laddove il legislatore non abbia predisposto una particolare forma da seguire (cd forma /egale), l'atto può essere compiuto nella forma (libera) più idonea al raggiungimento del suo scopo (art. 121 c.p.c.). È lo scopo da raggiungere l'obiettivo fondamentale, non come esso sia ottenuto (se, cioè, seguendo la forma /egale, oppure seguendo una forma libera). Riprenderemo questi concetti trattando del tema della nullità degli atti processuali. Cap. Il - GLI ATTI DELLE PARTI L'art. 125, 1° comma, c.p.c. elenca una serie di atti tipici posti in essere dalle parti. Anticipiamo che la norma non esaurisce i tipi di atto utilizzati nel processo, ma ne indica grossomodo quelli fondamentali e più ricorrenti. Tali atti 76 sono: la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso e il precetto. Tutti gli atti ivi menzionati devono indicare: a) l'ufficio giudiziario, b) le parti, c) l'oggetto, d) le ragioni della domanda, e) le conclusioni. Devono essere sottoscritti dalla parte che sta in giudizio personalmente oppure, negli altri casi, dal difensore con procura. Gli atti introduttivi del giudizio con cui viene esercitata la domanda giudiziale possono assumere la forma dell'atto di citazione oppure del ricorso. Il tipo di rito processuale, predeterminato dal legislatore a seconda dell'oggetto della domanda giurisdizionale e del tipo di tutela richiesto, stabilisce con quale atto vada introdotta la domanda giudiziale. Il rito ordinario di cognizione si introduce con citazione; riti speciali si introducono, salvo sia diversamente stabilito dalla legge, con ricorso (es. processo del lavoro, procedimenti per separazione e divorzio, procedimento di ingiunzione, procedimenti cautelari). L'atto introduttivo del procedimento d'appello segue la forma stabilita per l'atto introduttivo in primo grado (cd “ultrattività” del rito), mentre in Cassazione la domanda va sempre presentata con ricorso. Citazione e ricorso non si distinguono per il contenuto-oggetto della domanda (in entrambi deve esservi il petitum e la causa petendi), bensì per come è strutturata (e se sussiste) la vocatio in ius e per quale iter è richiesto per introdurre il giudizio. La citazione deve contenere tutti gli elementi della vocatio in ius che, come vedremo meglio nel capitolo dedicato agli atti introduttivi del processo di cognizione (Parte quinta, Cap. Il), sono: l'indicazione dell'ufficio giudiziario, le generalità delle parti, l'indicazione della prima udienza, l'invito a costituirsi entro un termine con l'avvertimento delle decadenze in cui si incorre in caso di mancata costituzione nei termini. Inoltre, la citazione introduce il giudizio per effetto della sua notificazione al convenuto, notificazione che, una volta eseguita regolarmente, determina la pendenza della lite, ossia l'instaurazione del contraddittorio. 77 pregiudiziale di rito, consentendo la prosecuzione del processo (es. sentenze interlocutorie con cui si afferma la giurisdizione), oppure sua una questione pregiudiziale di merito con efficacia di giudicato (es. una questione di status), anche in tal caso consentendo la prosecuzione del processo. Rientrano tra le sentenze non definitive anche quelle che accolgono o respingono solo alcune domande, proseguendo il processo in merito alle altre domande per cui è necessaria ulteriore istruttoria (es. è non definitiva la sentenza che accoglie la domanda sull'an, proseguendo il processo sul quantum). La sentenza non definitiva consente dunque la prosecuzione del processo (per mezzo di separata ordinanza con cui vengono presi i provvedimenti necessari alla prosecuzione del giudizio), ma è autonomamente impugnabile senza necessità di attendere la sentenza definitiva (v. Parte sesta, Cap. 1) A seconda del tipo di azione esperita da chi domanda la tutela giurisdizionale avremo un corrispondente tipo di sentenza. Ad azioni di mero accertamento, di condanna e costitutive seguiranno sentenze di mero accertamento, di condanna e costitutive (ovviamente in caso di accoglimento della domanda). In caso di sentenza di condanna generica, il giudice afferma la sussistenza della lesione a un diritto lamentata dall'attore e la responsabilità del convenuto; tale responsabilità porta a una condanna unicamente sull'an debeatur, senza la parte relativa al quantum debeatur, ossia al sacrificio economico imposto al convenuto. Abbiamo appena visto sopra che una sentenza sull'an potrebbe essere anche una! sentenza non definitiva, qualora il processo prosegua con riferimento al quantum. La sentenza di condanna! generica è invece definitiva allorchè la domanda sia stata ab origine unicamente di condanna generica. Dal punto di vista formale, la sentenza deve contenere degli elementi, alcuni dei quali posti a pena di mera irregolarità, altri più pregnanti e la cui inosservanza può essere motivo di nullità, se non addirittura di inesistenza. Ai sensi dell'art. 132 c.p.c. la sentenza è pronunciata “in nome del Popolo italiano”, reca l'intestazione “Repubblica italiana” e deve contenere: 1) l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata (ossia dell'ufficio giudiziario e il nome del o dei giudici che hanno reso la decisione); 2) l'indicazione delle parti e dei loro difensori; 3) le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; 4) la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione (è la parte motiva, ossia la ricostruzione dell'iter logico-giuridico che ha portato alla decisione, in riferimento a tutte le domande ed eccezioni oggetto della causa); 5) il dispositivo, (ossia la decisione sul petitum anticipata da “p.q.m”, vale a dire “per questi motivi..."), la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice (in caso di sentenza emessa da giudice 80 collegiale, la stessa è sottoscritta dal presidente del collegio e dal giudice estensore). La sentenza è resa pubblica mediante il deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata (art. 133, 1° comma, c.p.c.). Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la propria firma, dandone poi comunicazione, entro 5 giorni, alle parti con biglietto di cancelleria (oggi ciò avviene in via telematica). Vedremo nel capitolo dedicato alla nullità degli atti in quali casi la sentenza può essere affetta da nullità, e in quali detta nullità sia o meno sanabile. L'ordinanza è il tipo di provvedimento con cui il giudice regola lo svolgimento del processo, risolvendo questioni relative all'iter processuale che richiedono il contraddittorio tra le parti. L'ordinanza è generalmente di contenuto meramente ordinatorio sul processo, e non decisorio: può essere modificata e revocata in qualsiasi momento dal giudice che l'ha emessa e richiede una succinta motivazione (art. 134, 1° comma, c.p.c.). Esempi tipici di ordinanza sono quelle con cui il giudice rinvia l'udienza ad altra data o fissa una nuova udienza; quelle con cui ammette le prove richieste dalle parti; quelle con cui dichiara l'interruzione del processo; quelle con cui dichiara il mutamento di rito e la prosecuzione del giudizio col diverso rito, etc. Essendo un provvedimento di tipo ordinatorio, modificabile e revocabile, l'ordinanza non presenta in genere idoneità al giudicato, né una sua definitività. Se emessa in udienza è raccolta in un processo verbale, mentre se è emessa fuori udienza è scritta in calce al processo verbale stesso oppure su foglio separato (art. 134, 1° comma, c.p.c.), e viene poi comunicata alle parti dalla cancelleria (art. 134, 2° e 3° comma, c.p.c.). Vi sono eccezionalmente anche ordinanze che presentano un contenuto decisorio e una potenziale idoneità 186quater c,p.c. (v. Parte quinta, Cap. IX), nonché le ordinanze di convalida di sfratto e di rilascio di immobile (v. Parte ottava, Cap. II). Le ordinanze non sono revocabili e modificabili se la legge esclude espressamente per esse l'impugnabilità (es. ordinanza sulla ricusazione del giudice), oppure prevede uno specifico mezzo di impugnazione (solitamente il 81 reclamo, come ad es. in caso di provvedimenti cautelari). In caso di giudizio avanti al tribunale collegiale le ordinanze, se emesse dal giudice istruttore, non sono direttamente impugnabili avanti al collegio; in mancanza di loro revoca o modifica, le doglianze avverso le stesse potranno essere fatte valere unicamente con l'impugnazione della sentenza. É invece direttamente impugnabile avanti al collegio (con reclamo) solo l'ordinanza con cui il giudice istruttore dichiara l'estinzione del processo (v. Parte quinta, Cap. X). In tal caso, essendo previsto uno specifico mezzo di impugnazione, l'ordinanza in questione non rientra tra quelle revocabili e modificabili. Il decreto è il tipo di provvedimento con cui il giudice regola lo svolgimento del processo, ma, diversamente dall'ordinanza, non deve essere motivato (salvo nei casi previsti dalla legge, art. 135, 4° comma, c.p.c.) e prescinde dal contraddittorio (viene emesso inaudita altera parte). Ha solitamente contenuto ordinatorio, ed esempi di questo genere sono il decreto di fissazione della prima udienza in caso di ricorso e il decreto di anticipazione della prima udienza fissata in citazione. Viene emesso d'ufficio oppure su istanza della parte. Se è pronunciato su ricorso il decreto viene steso in calce allo stesso, mentre in caso di istanza verbale se ne redige processo verbale (art. 135, 2° e 3° comma, c.p.c.). Il decreto non è generalmente modificabile o revocabile (lo è, ad esempio, il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare), ma può comunque essere oggetto di specifici mezzi di impugnazione o gravame. Vi sono esempi di decreti con contenuto decisorio aventi potenziale idoneità alla definitività come, ad esempio, il decreto ingiuntivo: se non viene opposto, questo diviene definitivo. Cap. IV - GLI ATTI DEGLI AUSILIARI DEL GIUDICE Atti dei soggetti ausiliari del giudice possono essere: - le comunicazioni di fatti relativi al processo rese ai soggetti del processo stesso, nonchè i processi verbali, propri del cancelliere; - gli atti di esecuzione (es. verbale di pignoramento mobiliare, verbale di rilascio di immobile) e le notificazioni da parte degli ufficiali giudiziari. 82 all'efficacia della notifica), l'ufficiale giudiziario compie queste tre operazioni: 1) deposita la copia dell'atto nella casa comunale; 2) affigge avviso del deposito in busta chiusa alla porta dell'abitazione, o dell'ufficio, o dell'azienda; 3) dà notiza al destinatario del tentativo di notifica con raccomandata con avviso di ricevimento (art. 140 c.p.c.). La notificazione si perfeziona (ossia si ha per eseguita ed è efficace) col ricevimento della raccomandata da parte del destinatario o, in ogni caso, decorsi 10 giorni di giacenza della relativa spedizione (Corte Cost., sent. 14 gennaio 2010, n. 3). - Notifica nel domicilio eletto (art. 141 c.p.c.). La notificazione di atti a chi ha eletto domicilio presso una persona o un ufficio va fatta mediante consegna di copia a questa persona o al capo dell'ufficio in qualità di domiciliatario, nel luogo indicato nell'elezione di domicilio (art. 141 c.p.c.). - Notifica a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nello Stato (art. 142 c.p.c.). Se la notificazione va fatta a persona che non ha residenza, dimora e domicilio nello Stato italiano, e non vi è un procuratore ex art. 77 c.p.c., l'atto è notificato mediante spedizione al destinatario della copia dell'atto per raccomandata, e consegna di altra copia al pubblico ministero, che ne cura la trasmissione al Ministro degli affari esteri per la consegna alla persona del destinatario (a meno che via siano specifiche convenzioni internazionali in vigore)(art. 142 c.p.c.). - Notifica a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti (art. 143 c.p.c.). In caso di residenza, dimora e domicilio sconosciuti, e in mancanza di un procuratore ex art. 77 c.p.c., la notificazione va eseguita mediante deposito di copia dell'atto nella casa comunale dell'ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario (art. 143, 1° comma, c.p.c.). Se non sono noti nemmeno questi luoghi, l'ufficiale giudiziario consegna copia dell'atto al pubblico ministero (art. 143, 2° comma, c.p.c.). Sia nel caso di cui all'art. 143 che in quello di cui all'art. 142 c.p.c., la notificazione si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compite la formalità prescritte (art. 143, 3° comma, c.p.c.). - Notifica a persone giuridiche ed enti (art. 145 c.p.c.). Ai sensi dell'art. 145 c.pc.. la notificazione alle persone giuridiche (associazioni riconosciute, fondazioni, società di capitali) si esegue nella loro sede legale mediante consegna di copia dell'atto al rappresentante legale o alla persona indicata di ricevere le notifiche o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa, oppure al portiere dello stabile in cui è la sede. Nel caso di enti privi di personalità giuridica (associazioni non riconosciute, comitati, società di persone), la notificazione si esegue, nella sede dove svolgono attività in modo continuativo, secondo le modalità sopra viste per le persone giuridiche. In entrambi i casi (persone giuridiche ed enti privi di personalità giuridica) la notificazione può anche essere 85 eseguita, a norma degli artt. 138, 139 , 140, 141 e 143 c.p.c., alla persona fisica che rappresenta l'ente, qualora nell'atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino residenza, domicilio o dimora abituale. - Notifica a militari in attività di servizio (art. 146 c.p.c.). Se il destinatario è militare in attività di servizio, e la notificazione non è eseguita a mani proprie, osservate le disposizioni di cui all'art. 139 c.p.c. si consegna una copia al pubblico ministero, che ne cura l'invio al comandante del corpo al quale il militare appartiene. - Notifica a mezzo del servizio postale (art. 149 c.p.c.). Se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi anche a mezzo del servizio postale. In tal caso l'ufficiale giudiziario scrive la relazione di notifica sull'originale e sulla copia dell'atto, facendo menzione dell'ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia in piego raccomandato con avviso di ricevimento, che viene poi allegato all'originale quando viene recapitato al notificante (art. 149 c.p.c.). La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha legale conoscenza dell'atto (data di sottoscrizione del ricevimento, oppure del ritiro presso l'ufficio postale, oppure ancora decorsi 10 giorni di giacenza presso l'ufficio postale) (art. 149, 3° comma, c.p.c. e art. 1L. 20 nov. 1982, n. 890). - Notifica per pubblici proclami (art. 150 c.p.c.). Quando la notificazione nei modi ordinari è alquanto difficile per il rilevante numero di destinatari o per la difficoltà a identificarli tutti, il capo dell'ufficio giudiziario presso cui si procede può, su istanza di parte, e sentito il pubblico ministero, autorizzare la notificazione per pubblici proclami (art. 150, 1° comma, c.p.c.). Copia dell'atto è allora depositata nella casa comunale del luogo in cui ha sede l'ufficio giudiziario davanti al quale si procede, e un estratto di esso è inserito nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. La notifica si ha per avvenuta quando l'ufficiale giudiziario deposita una copia dell'atto, con la relazione di notifica e i documenti giustificativi dell'attività svolta, nella cancelleria del giudice (no giudice di pace) avanti il quale si procede (art. 150, 3° comma, c.p.c.). Cap. V - LA NULLITA' DEGLI ATTI PROCESSUALI Abbiamo anticipato nel capitolo | di questa parte che nel nostro ordinamento vige per gli atti processuali il princìpio della congruità (o strumentalità) delle forme, nel senso che gli atti processuali devono presentare dei requisiti che li rendano idonei al raggiungimento dello scopo oggettivo per il quale vengono compiuti (ad esempio, lo scopo oggettivo dell'atto di citazione e far conoscere al convenuto l'instaurazione della causa e il contenuto della controversia). Il legislatore, nell'indicare e disciplinare gli atti processuali e la loro 86 concatenazione nel processo, sceglie sia il momento nel quale questi atti devono essere compiuti, sia i requisiti formali che questi devono avere. Ciò significa che, normalmente, è il legislatore in primis a dettare quali siano le forme che gli atti devono avere per il raggiungimento dello scopo; qualora non lo facesse (il che è molto raro), i soggetti del processo sarebbero liberi di scegliere una qualsiasi forma per gli atti, purchè questa li renda idonei a raggiungere lo scopo obiettivo per il quale vengono compiuti (è per questo che a suo tempo dicemmo che la libertà delle forme non si contrappone alla strumentalità delle forme, ma in certi casi si integra con essa). Fatta questa necessaria premessa, entriamo ora nel vivo dell'argomento relativo all'invalidità degli atti processuali o, meglio, alla nullità, dato che questa è l'unica forma di invalidità espressamente indicata nel Capo III del Libro primo sulle disposizioni generali del codice di procedura civile. Le altre forme di patologia degli atti processuali, quali l'inesistenza e l'irregolarità, che vedremo più avanti, sono di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. Vedremo anche che, nelle sue diverse sfumature, alcune ipotesi di nullità, per la loro sanabilità e il limitato numero di soggetti che possono farla valere, si avvicinano più all'annullabilità di diritto comune. L'art. 156 c.p.c. dispone tre regole fondamentali sulla nullità degli atti: - alcomma 1 afferma che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”. - Al comma 2 afferma che “può tuttavia essere pronunciata - la nullità - quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabi per il raggiungimento dello scopo”. - AI comma 3 afferma, infine, che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. Quanto esposto al primo e al secondo comma può sembrare in contraddizione, ma occorre ben centrare la questione. AI primo comma il legislatore ci dice che la legge generalmente prescrive delle forme per gli atti processuali; in tal caso, non può essere pronunciata la nullità degli stessi, se tale nullità non è prevista espressamente dalla legge stessa. AI secondo comma. viene affermato che se la legge non prevede 87 Dunque, anche la nullità insanabile, alla fine, col giudicato, viene sanata. Ma non sempre il giudicato può consentire di “sanare” un vizio della sentenza, in special modo quando il vizio è molto grave. È per questo motivo che parte della dottrina ha suddiviso le nullità in: sanabili, insanabili, veramente insanabili. Per altra parte della dottrina, il vizio che alcuni rilevano come motivo di nullità veramente insanabile è in realtà talmente grave da costituire ipotesi di inesistenza (v. oltre). Il 2° comma dell'art. 161 c.p.c. dispone che la nullità può essere fatta valere sempre, a prescindere dal giudicato, quando la sentenza manchi della sottoscrizione del giudice. È questa un'ipotesi che la dottrina fa rientrare tra i motivi di nullità veramente insanabile o, addirittura, di inesistenza, che non permette neppure la sanatoria operata dal giudicato. La nullità veramente insanabile (o inesistenza) può dunque essere fatta valere da chiunque abbia interesse, in qualsiasi momento, anche con un giudizio autonomo (che gli antichi romani chiamavano actio nullitatis), o con un'eccezione (exceptio nullitatis). ‘Altri casi che possono essere fatti rientrare tra le nullità veramente insanabili, o nell'inesistenza, sono: - l'atto di citazione e la sentenza orali; - la sentenza emessa da chi non è giudice, oppure priva di dispositivo; - la notificazione priva della sottoscrizione dell'ufficiale giudiziario, o effettuata da chi non è ufficiale giudiziario. L'art. 160 c.p.c. riguarda la nullità del tipico atto dell'ufficiale giudiziario: la notificazione. Questa è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata copia dell'atto, o se vi è assoluta incertezza sulla persona che ha ricevuto la copia o sulla data della notifica (salva la sanatoria per il raggiungimento dello scopo o per il mancato rilievo della nullità nella prima difesa successiva alla notifica o alla notizia della stessa). A chiusura del Capo Ill del Libro primo del codice di rito dedicato alle nullità degli atti processuali, l'art. 162 c.p.c. dispone che il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione (ossia ripetizione) degli atti, ovviamente depurati dal vizio che li ha inficiati di nullità. 90 Se da un lato abbiamo assistito all'elaborazione, da parte di dottrina e giurisprudenza, della categoria dell'inesistenza quale conseguenza di un vizio talmente grave da escludere l'esistenza stessa di un atto, dall'altro è stata elaborata, sempre dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la forma di invalidità più lieve degli atti processuali che è l'irregolarità. Questa non comporta conseguenze rilevanti: al massimo è prevista una sanzione pecuniaria, oppure l'obbligo di regolarizzare la posizione entro un termine, oppure ancora, in caso di errore materiale o di calcolo, la correzione materiale (anche la sentenza che presenti, ad esempio, un nominativo errato di un giudice che ha comunque partecipato e sottoscritto il provvedimento, oppure il codice fiscale errato di una parte, non può ritenersi certamente nulla, ma sottoponibile al procedimento di correzione delle sentenze). Chiudiamo l'argomento parlando degli atti per i quali è maturata una decadenza o altra preclusione. Quando un atto non è compiuto nei termini perentori stabiliti dalla legge, o nella giusta sequenza di atti stabilita dal legislatore, la conseguenza è la decadenza o altra preclusione dal compimento dell'atto. La preclusione costituisce una barriera nella concatenzazione degli atti, superata la quale, se un atto è compiuto ugualmente, la conseguenza è quella dell'inefficacia dell'atto. É meglio definirla inefficacia piuttosto che nullità, dato che il giudice può eccezionalemente rimettere in termini la parte che è incorsa nella preclusione, e consentirle di compiere ugualmente l'atto. Cap. VI - | TERMINI PROCESSUALI Il tempo riveste grande importanza nel mondo giuridico e, dunque, anche nel diritto processuale. La serie concatenata di atti che caratterizza il processo richiede il rispetto di momenti temporali detti termini. Mentre il contatto che periodicamente si viene a instaurare, nel corso del processo, tra il giudice e le parti viene definita udienza, il termine costituisce il momento entro il quale, o a partire dal quale, si può o si deve compiere efficacemente un atto processuale. Ai sensi dell'art. 152, 1° comma, c.p.c., i termini legali sono quelli stabiliti dalla legge, la quale legge può consentire che anche il giudice fissi dei termini (termini giudiziari). Sono termini iniziali (detti anche dilatori) quelli che, prima della loro scadenza, impediscono il compimento di attività processuale; ciò vale a dire che si può compiere un atto solo una volta scaduto il termine (ad esempio, una volta notificato al debitore l'atto di precetto, è precluso al creditore compiere 91 atti di esecuzione prima che sia decorso il termine di 10 giorni dalla notifica). Termini finali sono quelli entro i quali deve essere compiuto un atto, vale a dire prima o sino alla scadenza (ad esempio, una volta notificato l'atto di citazione l'attore ha l'onere di costituirsi nel termine di 10 giorni dalla notifica: lo può dunque fare sino al decimo giorno, che è il giorno di scadenza). | termini ordinatori sono quelli la cui inosservanza non comporta alcuna preclusione e possono essere abbreviati o prorogati (art. 154 c.p.c.): sono ad esempio ordinatori i termini assegnati al giudice per il deposito della sentenza. Sono invece perentori i termini che prevedono, in caso di inosservanza, la decadenza dal poter compiere l'atto processuale che, se ugualmente compiuto, è inefficace. Ad esempio, l'atto d'appello va notificato entro 6 mesi dalla pubblicazione in cancelleria della sentenza di primo grado. In mancanza, la conseguenza è la decadenza dall'impugnazione, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. | termini perentori non sono abbreviabili né prorogabili, ma è possibile unicamente la rimessione in termini concessa dal giudice alla parte che dimostri di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile (art. 153 c.p.c.): una volta rimessa in termini, la parte può compiere efficacemente l'atto processuale. Il legislatore ha disposto che i termini siano normalmente ordinatori, salvo siano espressamente previsti dalla legge, o dal giudice (è pur sempre la legge a consentirglielo), come perentori (art. 152, 2° comma, c.p.c.). Con riferimento al calcolo, i termini si computano ad anni, mesi, giorni, ore. Per il computo dei termini a mesi o ad anni si osserva il calendario comune. Nel computo dei termini a giorni e ad ore non si contano il giorno o l'ora iniziali (dies a quo), mentre si calcola il giorno di scadenza (dies ad quem) (art. 155, 1° comma, c.p.c.). Questa è la regola generale. Vi è un'eccezione ed è relativa ai cosiddetti termini liberi (ad esempio i termini di comparizione in favore del convenuto): in questo caso non si calcola nemmeno il dies ad quem. Facendo un esempio, se l'udienza di comparizione è stata fissata al 31 maggio, la notifica deve avvenire entro il 1° di marzo: per rispettare i 90 giorni liberi di comparizione previsti dalla legge non si calcola infatti nè il dies a quo (31 maggio), né il dies ad quem (2 marzo). I termini sono liberi solo se espressamente indicato dalla legge (e solo dalla legge, non anche dal giudice). 92 corrispondono a gruppi di attività funzionali al procedere del giudizio, a partire dalla domanda iniziale sino (se non vi sono intoppi) alla sentenza di merito. La prima fase viene detta fase introduttiva in quanto attiene agli atti introduttivi del processo a partire dalla richiesta di tutela giurisdizionale contenuta nella domanda, proseguendo con la nomina del giudice istruttore e gli (eventuali) atti di difesa del convenuto. Prima però di analizzare nello specifico gli atti che delineano la fase introduttiva, va premesso che nel corso dell'ultimo decennio sono state previste dal legislatore norme e procedimenti extra-giurisdizionali volti a deflazionare il carico giudiziario. In particolare, stiamo parlando degli istituti della mediazione e della negoziazione assistita (v. Parte ottava, Cap. VIII), introdotta la prima col D. lgs n. 28/2010 (in seguito alla declaratoria di parziale incostituzionalità del 2012 modificato col D.L. n. 69/2013, convertito nella L. n. 98/2013) e la seconda col D.L. n. 132/2014 (convertito nella L. n. 162/2014), che caratterizzano, per i motivi che vedremo, una fase precedente a quella introduttiva vera e propria e che, pertanto, possiamo definire fase pre-introduttiva. La mediazione rappresenta un metodo di risoluzione delle controversie avanti un organo non giurisdizionale, il mediatore, per tentare di giungere a una conciliazione prima e in via alternativa rispetto al giudizio. Il tentativo di mediazione è previsto dalla legge come obbligatorio in queste materie: condominio, diritti reali, divisione, successioni, patti di famiglia, locazioni e comodato, affitto di azienda, contratti assicurativi, bancari e finanziari, risarcimento danni derivanti da responsabilità medica, risarcimento danni derivanti da diffamazione a mezzo stampa. L'esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale: ciò significa che, in mancanza di esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, il giudice, alla prima udienza, deve sospendere il processo mandando le parti ad esperire entro un termine perentorio tale tentativo. Nelle altre materie le parti possono comunque esperire un tentativo facoltativo di mediazione, per il quale sono previsti benefici fiscali. Oltre alla mediazione è stata prevista, col D.L. n.132/2014 (convertito nella L. n. 162/2014), la convenzione di negoziazione assistita con uno o più 95 avvocati, obbligatoria su alcune materie, ed anche in tal caso condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Tali materie sono: i/ risarcimento danni provocato dalla circolazione di veicoli (sinistri stradali), il pagamento di somme di denaro non superiori a € 50.000, le controversie in materia di trasporto (tale ultima previsione è stata aggiunta dalla L. n.190/2014). L'avvocato, all'atto del conferimento dell'incarico, deve esporre al cliente la doverosità del tentativo di mediazione nelle materie citate e la facoltà di esperirlo negli altri casi e dei benefici fiscali annessi. Deve altresì informare il cliente dei casi di in cui la convenzione di negoziazione assistita è obbligatoria e di quando è facoltativa. Tale informativa va documentata e inserita nel fascicolo di causa (solitamente si inserisce tutta questa parte nella procura alle liti). La mancanza di detta informativa costituisce motivo di nullità dell'incarico professionale. Cap. Il - FASE INTRODUTTIVA Tanto premesso con riferimento a quella che potremmo definire fase pre- introduttiva, veniamo ora alla disamina della fase introduttiva (o fase preparatoria), partendo dalla domanda di tutela giurisdizionale. Abbiamo a suo tempo sostenuto che la domanda introduttiva di un giudizio, a seconda del rito prescritto, possa essere contenuta in un atto di citazione oppure in un ricorso. Trattandosi ora di esaminare il procedimento di cognizione con “rito ordinario”, l'atto introduttivo del giudizio è rappresentato dall'atto di citazione. 1. L'ATTO DI CITAZIONE L'atto di citazione costituisce un atto doppiamente recettizio: è infatti diretto a due soggetti del processo, che sono il convenuto e il giudice. Ai sensi dell'art. 163 c.p.c. la citazione contiene due gruppi di elementi fondamentali per l'introduzione dell'azione giudiziale: il primo gruppo viene definta vocatio in ius, mentre il secondo gruppo editio actionis. Costituisce vocatio in ius la “chiamata in giudizio” del convenuto. Nella citazione la vocatio è rappresentata dai nn. 1,2,6 e 7 del secondo comma dell'art. 163 c.p.c., i quali dispongono che la citazione debba contenere: 96 - l'indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta (n. 1 del secondo comma dell'art. 163 c.p.c.); - il nome, il cognome, la residenza e il codice fiscale dell'attore (o degli attori) e del convenuto (o dei convenuti), nonché delle persone che li rappresentano o li assistono (n. 2); - il nome e cognome del procuratore (dell'attore) e l'indicazione della procura, se è già stata rilasciata (n. 6); - l'indicazione del giorno dell'udienza di comparizione; l'invito al convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni (o 10 in caso di abbreviazione dei termini) prima dell'udienza indicata in citazione, ai sensi e nelle forme stabilite dall'art. 166 c.p.c. (che vedremo più avanti) e a comparire, nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'art. 168bis c.p.c., con l'avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c. (n. 7). Sono elementi della editio actionis : - la determinazione della cosa oggetto della domanda (petitum mediato)(n. BI - l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda (causa petendi), con le relative conclusioni (petitum mediato ed immediato) (n. 4); - l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e, in particolare, dei documenti che offre in comunicazione (n. 5). La mancanza o l'assoluta incertezza su anche uno solo degli elementi della citazione sopra visti determina la nullità dell'atto, con le conseguenze che vedremo poc'anzi. Terminiamo la disamina della citazione precisando che nel fissare l'udienza, e nel compiere la notificazione dell'atto, l'attore deve rispettare i termini di comparizione del convenuto, ossia quelli che la legge prevede a sua difesa. Tali termini, stabiliti dall'art. 163bis c.p.c., sono di almeno 90 giorni liberi che devono intercorrere tra il giorno della (effettuata) notificazione e quello dell'udienza fissata in citazione (150 giorni se la notificazione non va fatta in Italia, bensì all'estero). Ricordiamo che la (regolare) notificazione dell'atto di citazione determina la 97
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