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Dispensa di Storia moderna, Dispense di Storia Moderna

Dispensa del corso di Storia moderna con il contenuto delle slide delle lezioni

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 21/11/2023

s.c.ech
s.c.ech 🇮🇹

4.3

(6)

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Dispensa di Storia moderna e più Dispense in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 1 Storia moderna ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Prima parte 1. Metodi storiografici e introduzione all’età moderna Che cos’è la “storia”? Prima di affrontare il nostro studio sull’età moderna, è necessario fare alcuni importanti chiarimenti relativi alla disciplina con cui avremo a che fare: la STORIA. Prima di tutto, cos’è la storia? La parola “storia” presenta alcune ambiguità nella lingua italiana e nel suo utilizzo odierno: con questo termine ci si può infatti riferire sia a una forma di conoscenza del passato che al passato propriamente detto. Non a caso, gli antichi si riferivano a questi due aspetti con espressioni diverse: historia rerum gestarum (disciplina di racconto e conoscenza del passato) e res gestae (avvenimenti, l’accaduto). Anche se nel linguaggio colloquiale ci si riferisce a entrambi come “storia”, bisogna dunque più propriamente fare una dovuta distinzione tra ciò che è il passato in sé e ciò che invece è la storiografia, che ha come oggetto il passato e si occupa di fornirne una ricostruzione. Più precisamente, il termine “storia” può indicare: - il passato (qualunque cosa che sia di fatto successa nel passato; lo svolgimento delle vicende umane nel corso del tempo); - lo sforzo universale compiuto dall’uomo nel corso del tempo per descrivere, ricostruire, narrare, conservare e interpretare il passato (in inglese story); - il tentativo di fare ciò in una forma erudita, in conformità a precise regole (cioè a una METODOLOGIA) che vengono definite per stabilire un fatto, interpretare una testimonianza, trattare una fonte di documentazione (“storia” come disciplina, la storiografia propriamente detta) (in inglese history). Interessi fondamentali della storia come disciplina di studio e ricerca (storiografia) L’uomo ha sviluppato nel tempo degli interessi principali nello studio della storia come disciplina: - la società e il comportamento dell’uomo al suo interno (dunque non l’uomo isolato ma gli uomini) nel passato. La differenza della storia con altre discipline che studiano il passato (geologi, biologi etc.) è la necessità di testimonianze (“fonti”) attendibili attraverso le quali poter ricostruire il passato, in assenza delle quali quest’operazione è pressocché impossibile. - il cambiamento nel tempo. La storia si occupa della società, come abbiamo detto, ma presenta questa differenza fondamentale con le altre scienze sociali: la storia è anche un racconto di un movimento nel tempo e nello spazio (le coordinate fondamentali in cui emergono i fatti). È il racconto di una società in movimento, in cambiamento e in evoluzione nel tempo e nello spazio. Ritorneremo su questo aspetto fondamentale fra poco. - il particolare e l’unico, cioè spiegare l’esperienza umana nel suo continuo movimento mettendo in risalto le differenze e le trasformazioni. Si applica alle particolari, uniche e diverse esperienze umane nelle società del passato. La dimensione temporale della storia 2 Porre attenzione ai processi di cambiamento nel tempo: è questo, come dicevamo, che differenza la storiografia (cioè la storia come disciplina) dalle altre scienze sociali, che sempre si occupano dell’uomo. È come se lo storico avesse un “quarto occhio”, cioè un’attenzione particolare alla dimensione del tempo, al divenire, ai cambiamenti nel tempo, attento a ricercare i meccanismi che permettono di fissare le coordinate spazio-temporali di un fenomeno. La storia dunque studia le società, sì, ma studia le società in evoluzione e come cambiano nel tempo. La storia è il racconto, la narrazione di un MOVIMENTO NEL TEMPO. Per questo motivo avere una buona conoscenza cronologica dei fatti è importante per orientarsi nello studio storiografico, cercando però di evitare di cadere nel rischio di un eccessivo meccanicismo causa/effetto. La dimensione temporale della storia: la pluralità dei tempi storici legata alle concezioni socio-culturali Proprio per la sua importanza, è necessario riflettere sui vari aspetti della dimensione temporale della storia. Prima di tutto, l’uomo non ha sempre misurato il tempo allo stesso modo. Non esiste pertanto un tempo unico, ma una pluralità di tempi storici, spesso prodotta dalla coscienza culturale e dalla percezione che l’umanità ha avuto del tempo nelle varie epoche. Il modo stesso di percepire il tempo, dunque, è frutto di un’evoluzione e dipende dal contesto socio-culturale. Alcuni esempi: il tempo del contadino non era lo stesso del monaco o del mercante; nel corso della storia l’anno è stato misurato in modi diversi, secondo calendari che ancora oggi non coincidono; ecc. Possiamo perciò concludere che la concezione del tempo è frutto essa stessa di un processo di costruzione storica. Facciamo un esempio molto significativo per i nostri studi sull’età moderna. Come vedremo, fra Medioevo ed età moderna avvengono numerosi e importanti cambiamenti, ma la trasformazione forse più significativa è proprio il passaggio da una concezione qualitativa ad una quantitativa del ritmo della vita e dello scorrere dei giorni. Per gran parte della storia umana il senso del tempo era rimasto associato a una serie di fenomeni naturali (il ciclo della vita, il ciclo delle stagioni, alternanza del giorno e la notte); una delle novità più importanti dell’età moderna è dunque l’affermazione di una visione sempre più quantitativa dello scorrere del tempo fondata sull’adozione sempre più diffusa di un sistema di conteggio astratto. Si assiste all’introduzione del mese come unità di conto più familiare (calendari, almanacchi) e alla sua suddivisione in giorni collocati in una sequenza numerica. Il calendario inizia a prendere corpo nelle sue articolazioni sempre più dettagliate, diventando uno strumento sempre più diffuso per orientarsi nel tempo e per svolgere certe attività. La Chiesa svolge un ruolo cruciale nel rendere più familiare una visione quantitativa del tempo, associando il numero dei giorni al nome dei Santi; diventa così consuetudine ricorrere ai Santi e alle festività religiose per identificare dei punti nel corso dell’anno. In quest’ambito importantissima è la riforma del calendario giuliano operata da papa Gregorio XIII (1582): essa rappresenta non solo una riforma tecnico-scientifica, ma anche un atto politico per manifestare la potenza, il prestigio e la centralità della chiesa post Concilio di Trento, che ha il controllo anche sul tempo. Allo stesso modo, la diffusione degli orologi a partire dal XIV secolo, in particolare quelli collocati sugli edifici pubblici (chiese, campanili, torri, palazzi del governo), diviene un tipico segno di dominio attraverso la misurazione del tempo e anche di esercizio del potere (il tempo artificiale degli orologi pubblici diventa segno di dominio della autorità sul tempo). La dimensione temporale della storia: la pluralità dei tempi storici relativa ai singoli fenomeni 5 ricostruzione di questa memoria; questa ricostruzione, però, avviene sempre in modo indiretto ed è sempre soggettiva. Spieghiamoci meglio. La storia come forma di conoscenza indiretta e soggettiva del passato Non può esistere un racconto oggettivo del passato. Partiamo da un presupposto: la memoria umana, sia individuale che di gruppo, di per sé non è mai oggettiva, perché sempre selettiva (ricorda solo alcuni fatti e non altri) ed egocentrica (è incentrata sull’io, che sia esso l’individuo o la società). Se perdessimo la nostra memoria, inevitabilmente non ci riconosceremmo più, e avremmo bisogno di qualcuno che ci aiuti a recuperarla narrandoci il nostro passato. Questo passato ricostruito, filtrato dalla memoria altrui, non sarà però mai esattamente come lo si era vissuto, percepito e memorizzato. Lo storico ha esattamente questo compito, come se dovesse ricostruire i ricordi di uno smemorato, occupandosi però di recuperare una memoria non soggettiva ma collettiva. Questo perché il passato non esiste più: non possiamo osservare i fatti del passato, ma soltanto le tracce che essi hanno lasciato. Queste tracce del passato sono i documenti (resti, testimonianze, quadri, ecc.); tutto ciò che rimane del passato diventa documento. I documenti diventano FONTI quando vengono interrogati criticamente dallo storico per avere ricostruire il passato e per fornirne un’interpretazione critica. Sulle fonti si basa la ricerca storica come disciplina moderna, con un suo metodo. La storia, dunque, è una forma mediata di conoscenza: è una conoscenza indiretta del passato attraverso la conoscenza diretta delle fonti. Il passato non solo non può mai essere ricostruito in modo diretto, ma, come dicevamo, neanche in modo oggettivo. Lo storico non è e non può essere un testimone diretto dei fatti del passato, ma un loro interprete critico. In quanto interprete, la sua lettura del passato non può essere oggettiva: ogni interpretazione è soggettiva. Inoltre, i documenti su cui basa la propria ricostruzione forniscono solo informazioni parziali e mantengono la soggettività di chi li ha prodotti. Esiste perciò un duplice livello di soggettività: quello dei documenti e quello dello storico che li usa e li interpreta. Non è possibile fare storia senza interpretazioni e senza documenti, ovviamente, in quanto non si può osservare direttamente il passato. Il racconto (soggettivo) che gli storici offrono del passato è di conseguenza sempre frutto di una conoscenza indiretta e soggettiva. Ecco dunque il problema: non può esistere una racconto oggettivo e al 100% autentico del passato. Ci possono essere, però, interpretazioni più affidabili ed altre meno. La storia può dunque essere considerata una scienza? La risposta è sì: essa non può dimostrare, ma comunque convincere e argomentare. La storia è, come la definisce M. Bloch, la “scienza degli uomini nel tempo”. I fatti storici La storia (anche quella dei manuali che più tende ad apparire come una ricostruzione oggettiva) è dunque un’operazione soggettiva, per vari motivi, come abbiamo visto, e anche perché implica una attribuzione di significato agli eventi e ai processi del passato da parte di una/più soggettività. Ogni singolo autore, ogni gruppo di storici accomunato da un’impostazione metodologica e culturale, ogni generazione di studiosi pone delle domande ai fatti del passato, li seleziona in funzione di tali domande, li dispone in un ordine, elabora delle gerarchie di rilevanza dei fatti e fornisce delle risposte. Cerca cioè di comprendere il significato degli eventi, li spiega e li interpreta. 6 Non tutti i fatti del passato sono del resto fatti storici. Perché lo divengano, occorre che uno studioso attribuisca loro un rilievo e un significato per comprendere lo svolgimento della storia. Chiedeva lo storico inglese Edward Hallett Carr: “Perché la battaglia di Hastings del 1066 è più importante di tanti altri fatti d’arme? E perché il passaggio compiuto da Cesare di un fiumiciattolo come il Rubicone è un fatto storico, mentre il passaggio del Rubicone compiuto prima o dopo di allora da milioni di altri individui non ci interessa minimamente?” La risposta è: “L’esser considerato un fatto storico dipende, quindi, da un problema di interpretazione”. Il lavoro dello storico La ricostruzione dello storico dev’essere operata basandosi su una critica delle fonti, che avviene attraverso un metodo filologico. In generale, l’attendibilità di una fonte è tanto maggiore quanto minore è l’intenzionalità con cui è stata prodotta. È necessaria poi la comparazione, cioè il confronto delle fonti: ogni fonte va confrontata con altre analoghe di origine differente e/o con altre diverse della medesima origine in modo da valutare appieno l’intenzionalità che è alla base della loro produzione. Il discorso storico si svolge su almeno due piani distinti (anche se nel testo sono spesso fusi e intrecciati): - La descrizione o narrazione nella quale si espongono i fatti: si “fanno parlare” i documenti; - L’analisi o interpretazione nei quali lo storico espone la proprie considerazioni sull’accadimento storico. Ogni genere storiografico implica un’organizzazione del discorso storico diversa e quindi uno stile narrativo differente. Ciò presuppone una conoscenza delle tecniche narrative. In ultima analisi, lo storico aspira alla veridicità, cioè a far riconoscere il suo testo come veritiero e quindi storico. Per realizzare questo obiettivo, può supportare la sua interpretazione con prove (con i documenti e con la razionalità delle argomentazioni), mostrando che si tratta di una possibile verità (anche se di una verità relativa che può essere transitoria). Lo storico deve credere e far credere che ciò che dice è plausibile e la verità (attività di persuasione e non assoluta). In sostanza, i compiti dello storico sono: - inseguire costantemente la “verità”; - raccogliere le fonti senza alcuna esclusione a priori; - verificare le fonti e contestualizzarle; - interpretare le fonti; - creare una gerarchia delle fonti; - stabilire i fatti e renderli comprensibili procedendo a una loro periodizzazione. Le fonti: tipologie, raccolta e verifica Le fonti, fondamentali nel lavoro di ricostruzione del passato, vengono cominciate a studiare con la nascita della filologia umanistica. Esse si distinguono in due tipi fondamentali: - Fonti primarie: prodotte nel periodo del passato oggetto di studio - Fonti di archivio - Indagini e rapporti ufficiali - Cronache e diari - Fonti familiari e personali - Documenti di polemica e mezzi di informazione - Archeologia, archeologia industriale… (resti materiali) - Fonti letterarie e artistiche 7 - Altre fonti - Fonti secondarie: interpretazione di un dato periodo del passato scritta successivamente da uno storico Le fonti possono inoltre essere sia scritte che non scritte. Gli storici dell’età moderna lavorano prevalentemente sulle fonti scritte, che possono essere di vari tipi: - Di origine privata - diari, memorie - registrazioni - norme interne - epigrafi (lapidi-cippi) - attestati di doni, elargizioni - lettere - avvisi - materiali d’uso (es. libri di conto, liste della spesa) - assegnazioni di compiti - Di origine pubblica - opere letterarie - registrazioni - leggi - epigrafi (lapidi-cippi) - diplomi - lettere - avvisi - regolamenti attuativi - materiali d’uso (es. schede censimento) - sentenze - Di origine privata ma di destinazione e valore pubblici - interviste(trascrizioni) - atti di compravendita - epigrafi (lapidi-cippi) - lettere (es. lettere diplomatiche) Non tutto il lavoro degli storici si basa sulle fonti scritte, che comunque rappresentano il supporto maggiore. La storia non si fa solo con i documenti scritti: sono spesso utilizzate infatti anche fonti non scritte, come le arti figurative o il paesaggio. Le fonti monografiche sono di un’importanza da non sottovalutare, in quanto forniscono informazioni storiche preziosi che spesso non si trovano scritte. Lo storico, all’inizio della ricerca, si crea un repertorio delle fonti esistenti (cioè una base documentaria) relative al tema che vuole studiare senza alcuna esclusione a priori, attraverso: 1. Lo spoglio della bibliografia sull’argomento 2. Lo spoglio degli archivi 3. La raccolta di nuove testimonianze Le fonti sono solo in minima parte un elemento “oggettivo”, per quanto detto precedentemente ma anche perché sono sempre rappresentazione e non realtà. Possono poi essere intenzionali oppure casuali, e abbiamo già parlato prima del rapporto tra autenticità ed intenzionalità. Infine, possono essere lacunose o addirittura false. Il corretto rapporto con le fonti sta alla base del lavoro delle storico. Un primo passo nel rapporto con le fonti è quindi quello della verifica dell’autenticità tramite un’analisi accurata del materiale su cui la fonte è scritta, dei contenuti, della forma, della scrittura. La verifica si attua con gli strumenti forniti da diverse discipline umanistiche e non: - filologia - chimica 10 Proporre una periodizzazione significa sostenere la rilevanza di certi fenomeni storici usati come limiti della periodizzazione (ex. 1492, 476, ecc.) e identificare caratteristiche omogenee e durature che concorrono alla definizione di intere epoche. Le “epoche” così identificate non devono esser considerate rigidamente definite in termini cronologici e soprattutto, ripetiamolo, non devono essere intese come “effettivamente esistite”, ma come modalità di lettura del passato. Nel corso della storia, il passato è stato scansionato in modi diversi. Sant’Agostino proponeva una scissione in sei età basandosi sulla ricostruzione storica proposta dalla Bibbia; Marx scandiva la storia in fasi socio-economiche (comunismo primitivo; schiavismo; feudalesimo; capitalismo; socialismo); ecc. La periodizzazione più usata dalla storiografia occidentale è la seguente: - Preistoria; - Età della pietra; - Età del bronzo; - Età del ferro; - Antichità; - Medioevo; - Prima età moderna; - Età moderna; - Età contemporanea. Il Medioevo Per capire cosa gli storici intendono con “modernità” è fondamentale fare prima qualche accenno all’età medievale. Quella di “medioevo” (cioè “età di mezzo”) è una definizione cronologica e “relativamente” neutra, ma in realtà dai contenuti negativi. È infatti un concetto che nasce con l’Umanesimo e il Rinascimento per indicare quei secoli “di mezzo” tra la grande età antica e il momento della “rinascita” dei suoi valori (da cui il termine “Rinascimento”) e caratterizzati da: - estraneità ai valori del mondo moderno (assenza di “modernità”); - decadenza rispetto al mondo degli antichi; - disordine, barbarie. Tale valenza negativa si aggrava con la Riforma protestante: il Medioevo diviene l’età dell’oscuro cattolicesimo, in cui la Chiesa è trionfante. Un’ulteriore condanna viene dall’Illuminismo. Si ha poi un recupero col romanticismo che però, nei suoi aspetti più nazionalistici, entra in crisi dopo la Seconda guerra mondiale. Gli eventi discriminanti dell’età medievale sono: - 476 Caduta dell’Impero Romano d’Occidente; - 406 Caduta del limes; - 410 Sacco di Roma; - 568-69 Invasione Longobarda (limitatamente all’Italia); - IX secolo Ripresa del commercio su lunga distanza; - XI secolo Rinascita della città; - X-XI secolo Movimento di riforma della Chiesa; - XI secolo Ripresa degli studi giuridici; - 1216 morte di Innocenzo III; - 1348 Peste nera; - 1453 Caduta di Costantinopoli; - 1492 Scoperta dell’America. La nuova visione del Medioevo Oggi la visione del Medioevo è profondamente trasformata. 11 Innanzitutto si è giunti a una negazione della sua omogeneità (dopotutto, si tratta di ben 1000 anni!), che ha portato alla consapevolezza del fatto che in realtà IL MEDIOEVO NON ESISTE. Ci sono infatti vari elementi di continuità sia con l’età antica (è stata messa molto in discussione l’importanza discriminante del V secolo) che con l’età moderna. La periodizzazione interna (variabile a seconda dell’area europea studiata) è comunque importante per orientarsi (soprattutto avendo detto che non si tratta di un periodo omogeneo): - Tarda antichità; - Alto Medioevo (o “Medioevo dei castelli”); - Pieno Medioevo; - Basso (o Tardo) Medioevo. I secoli caratterizzanti e dotati di caratteri omogenei risultano essere soprattutto quelli tra il X e XIII secolo (Pieno Medioevo), ove si riconosce la genesi di alcuni dei caratteri fondamentali dell’Europa occidentale: - emersione di un’area omogenea avente come nucleo generatore l’Europa occidentale e cristiana; - fusione dell’elemento germanico con l’elemento romano; - elaborazione della cultura religiosa e dell’organizzazione istituzionale della Chiesa (costruzione della Chiesa cattolica, Riforma gregoriana, Canonistica, Teocrazia); - emersione delle forme originali dell’organizzazione politica, sociale ed economica: rapporto vassallatico-beneficiario, signoria rurale, comune, corporazioni, signoria cittadina, stati regionali; - sviluppo del commercio a lunga distanza, dell’organizzazione del credito, della produzione su larga scala. Questa fase ascendente trova una fase di rottura con la crisi del Trecento; anzi: sono proprio le innovazioni di questi secoli a favorire la diffusione della peste (sovraffollamento della città, commercio a lunga distanza, ecc.). La “modernità” e l’età moderna Già dalla definizione di “Medioevo”, pur di parte, possiamo dedurre che tra XIV e XV secolo debbano esserci stati profondi mutamenti dal punto di vista sociale, culturale, economico, politico, tanto da portare gli intellettuali dell’epoca a percepire una divisione netta tra il loro tempo e i secoli precedenti. Ancora oggi la storiografia tende a parlare di “ETÀ MODERNA”, con le dovute precauzioni. Abbiamo infatti detto che quella tra Medioevo ed età moderna non è una separazione traumatica, ma che anzi il Tardo Medioevo e la prima età moderna presentano evidenti elementi di continuità. A partire dal XV secolo, però, cominciano a maturare cambiamenti talmente incisivi, sviluppatisi poi nel lungo termine, da aver portato gli storici alla definizione del concetto di “età moderna” come momento di grande cambiamento e come categoria periodizzante per racchiudere questo periodo storico. Ma dove deriva l’aggettivazione di “moderno”? Il termine “moderno” è in realtà abbastanza ambiguo. Ha infatti il significato neutrale di “recente”, ma nel corso dei secoli si è andato a caricare di forti valenze ideologiche, finendo per indicare qualcosa di nuovo, di diverso. In questo senso, il termine implica un giudizio decisamente positivo nel senso di progresso. Il concetto di “modernità” deriva da un’auto-percezione degli intellettuali europei del Quattro- Cinquecento, rafforzata dagli intellettuali della Riforma. Se ne vedono alcuni punti fondamentali di riferimento: 12 - nella rivendicazione di individualità; - nella libertà di pensiero individuale; - nella libertà di critica; - nell’esame filologico dei testi antichi; - nel rapporto personale con il divino. Attenzione! Queste caratteristiche sono ben riconoscibili anche nel Tardo Medioevo, non nascono nel XV secolo! Sono inoltre frutto di una visione in cui interagiscono culturalismo e ottimismo: questi intellettuali si sentivano infatti portatori di qualcosa di “nuovo”, di un progresso. In quest’ottica costituiscono eventi discriminanti: - 1453 Caduta di Costantinopoli. Conseguenza: gli intellettuali dell’Impero d’Oriente emigrano in Occidente portando con sé testi greci, che portano alla nascita della filologia e alla riscoperta di autori greci quali, sopra tra tutti, Platone. - 1450 Invenzione della stampa a caratteri mobili. Elemento che rivoluziona non solo la cultura, ma anche la storia. Si evolvono i mezzi di comunicazione, le idee circolano di più e in modo diverso, ecc. - 1492 Scoperta dell’America. Conseguenza: una visione della storia non più eurocentrica; la scoperta di un vero e proprio nuovo mondo, di nuovi modi di pensare, di nuove culture. Sono queste le tre date fondamentali a segnare il passaggio dall’età medievale a quella moderna, non solo dal punto di vista culturale (come abbiamo appena visto), ma anche dal punto di vista sociale, economico e politico (come vediamo adesso). Per questo vi è stato attribuito un valore periodizzante. Se ci poniamo in un’ottica geopolitica-economica, l’età moderna è caratterizzata dall’accentuazione dei seguenti caratteri (a partire dal XV secolo e in particolare grazie ai tre eventi discriminanti detti prima): - Conquista dell’intero pianeta da parte dell’Europa e la crisi del modello eurocentrico; - Nascita di un nuovo modello economico, che diverrà prevalente con la rivoluzione industriale e con lo svilupparsi, successivamente, del consumismo di massa: il capitalismo; - Evoluzione di un’economia di mercato a livello mondiale; - Globalizzazione, un processo molto lungo che inizia con le prime esplorazioni portoghesi del Quattrocento; - Cambiamenti in quello che, sin dal Neolitico fino alla rivoluzione industriale, rimane lo strumento fondamentale dell’economia: la terra. - Soppressione degli usi civici e affermazione dell’individualismo agrario. Comincia ad affermarsi il concetto moderno di proprietà privata; le coltivazioni comuni tendono sempre di più a sparire. La terra ad andare in mano a chi ha le capacità economiche di acquistarle; - Sottrazione al locale di parte della produzione (allargamento dei mercati). Per secoli l’agricoltura è stata di sussistenza, ma con lo sviluppo delle città e l’allargamento dei mercati la coltivazione agraria tende ad essere sempre più indirizzata alla vendita e quindi al profitto; - Nascita della “borghesia”. Lo sviluppo delle città, che riprende verso la metà del Quattrocento dopo la crisi del Trecento, porta allo sviluppo di un ceto medio cittadino sempre più legato al commercio e al consumo. Insomma, si tratta di un periodo di straordinario cambiamento, che pone le basi per lo sviluppo successivo (ad esempio, la rivoluzione industriale trova le sue fondamenta in queste trasformazioni). Periodizzazione classica dell’età moderna 15 Origini moderne della critica storica Le basi di una visione critica della storia, in realtà, cominciano ad essere gettate già prima del Novecento. In particolare, proprio la storiografia rinascimentale (strano a dirsi eh?) è la prima portatrice di tendenze innovatrici da questo punto di vista: - L’Umanesimo e la neonata filologia (disciplina delle edizioni critiche del testo) promuovono lo spirito d’indagine, che influenza la nascita del metodo scientifico e del razionalismo (quindi la tendenza a dimostrare la verità dei discorsi); la “curiosità” perde connotati negativi e diviene invece una facoltà “positiva”; - La progressiva laicizzazione promuove spiegazioni critiche e conoscenze scientifiche (ex. storiografia politica di Machiavelli e Guicciardini); - L’uso sempre maggiore delle fonti porta a un affinamento dei metodi storiografici e delle tecniche di ricerca; - Le raccolte documentarie diventano sempre più consistenti fra XVI e XVIII secolo; - Nascono discipline come la diplomatica e la paleografia. La storiografia illuminista porta a un’ulteriore rivoluzione: - Entra in crisi il principio di autorità (ipse dixit) e della tradizione: i criteri di accertamento della verità storica mediante l’uso delle fonti si affermano come unica testimonianza autorevole sul passato; - Viene superata definitivamente la concezione cristiana/provvidenziale della storia e del mondo come cammino dell’umanità verso la Salvezza (storia come historia Salutis), che vedeva nell’avvento di Cristo il principale momento periodizzante; - La storia viene interpretata e giudicata con parametri umani e razionali: il cammino verso la civiltà e il progresso; - Nasce la storia come “disciplina”, in quanto dotata di una “scientificità” in rapporto alle fonti. Il carattere intimamente progressista, di cui è già precursore l’Illuminismo, viene fissato dalla storiografia liberale, democratica e laica dell’800 (il “Secolo della Storia”, come già accennato). L’età moderna viene interpretata come fine del “vecchio” e inizio del “nuovo”, in particolare come: - fine della stagnazione e inizio dello sviluppo; - fine delle superstizioni e inizio dell’età della ragione; - fine dell’autoritarismo dogmatico e inizio delle libertà civili e intellettuali. Critiche alla periodizzazione classica (“progressista”) dell’età moderna Le prime critiche a questa periodizzazione “progressista” dell’età moderna iniziano ad emergere già nell’Ottocento, grazie alle tendenze romantico-irrazionaliste, portatrici di nostalgie conservatrici contro la modernità (anti illuminismo e anti laicismo). Si afferma così il concetto del “bel mondo perduto” distrutto dalla modernità (con una conseguente rivalutazione dell’età medievale), caratterizzato da: - Natura incontaminata; - Autorità indiscussa fondata sulla sacralità del potere; - Giustificazione delle sofferenze in vista di un fine superiore/salvifico. Le tragedie del XX secolo, come accennato, portano a una definitiva crisi della visione eurocentrica e progressista della storia e all’affermazione del relativismo storiografico (e così del ruolo delle scienze sociali). Si affermano, poi, una prospettiva di Global History (fine anni ‘80) e nuovi interessi e campi 16 per la ricerca storica (basti pensare, ad esempio, al successo della storia quantitativa e/o seriale, grazie anche alla introduzione dei computer). Cambiano di conseguenza i termini del rapporto con: - Il passato e in particolare il Medioevo (termine ad quem). - Cominciano ad essere sottolineate le persistenze e le continuità culturali, politiche ed economiche (ex. la “sacralità del potere”, il feudalesimo) di un “lungo Medioevo”. Questo grazia anche all’affermazione del concetto della “lunga durata”/lento mutamento (e di conseguenze dell’influenza delle scienze sociali su nuove tematiche storiche) e all’influenza della visione marxista della storia, che sottolinea la presenza di una “lunga continuità pre-capitalistica”. - Il mondo contemporaneo (termine a quo). - Ci si comincia a chiedere se le cosiddette “rivoluzioni” hanno avuto veramente una portata “rivoluzionaria” e, se sì, in che senso. Si riflette in particolare sulla Rivoluzione industriale (spazio/tempo del suo impatto) e sulla Rivoluzione francese (segna il trionfo politico della borghesia in ascesa? La fine del sistema feudale? ecc.). Insomma, la modernità e la contemporaneità perdono i loro connotati positivi di “progresso”, mentre il Medioevo perde i suoi connotati negativi di “età barbarica”. Comincia dunque ad affermarsi una visione sempre più “neutrale” della storia, non basata su interpretazioni di parte e sulla logica del progresso (che, ribadiamolo, porta a denigrare gli eventi passati in vista di un migliore presente). Attenzione però: ovviamente questa neutralità non può essere assoluta, dato il carattere soggettivo della conoscenza storica. Temi che danno coerenza all’età moderna Tutto ciò che abbiamo detto non deve farci pensare che non si possa comunque parlare di un’“età moderna”. Come abbiamo detto, le periodizzazioni sono strumenti pericolosi, ma comunque schematizzazioni necessarie per studiare, comprendere e interpretare la storia. Ci sono vari temi che danno coerenza ai secoli che vanno dal XIV/XV al XVIII/XIX e che ci portano dunque a categorizzarli come un unico periodo storico (con le dovute precauzioni, ovviamente), ormai per tradizione (e non per altro) definito “età moderna”: - Società: aumento della popolazione che pone pressione sulla ricerca di nuove risorse in grado di sostentare questa crescita. Cresce la popolazione, dunque cresce la domanda; cresce così però anche l’inflazione, che porta a un aumento dei prezzi e di conseguenza della povertà (si sviluppa il fenomeno del pauperismo). - Economia: si avvia un’economia-mondo, un polo di scambi commerciali che trova il suo centro più dinamico in Europa. - Cultura: un “lungo Rinascimento” che cambia la natura e la circolazione del sapere. Grazie alla stampa, infatti, il sapere si diffonde molto più facilmente. Ciò porta a un cambiamento anche nel ruolo dell’intellettuale. Più in generale, si può dire che si passa da un sapere ricevuto, basato sull’autorità antica (ipse dixit), a un sapere basato sulla sperimentazione e sull’esperienza: l’autorità degli antichi va in frantumi portando allo sviluppo del metodo scientifico. Inoltre, dal punto di vista culturale, si crea una frazione sempre maggiore tra le tradizioni popolari (il folklore) e il potere sempre più pervasivo esercitato dagli Stati sul popolo, con l’obiettivo di disciplinare i comportamenti e le manifestazioni della cultura popolare (ex. Concilio di Trento, in generale la Controriforma; roghi delle “streghe”, repressione della “magia popolare”, ecc.). 17 - Politica: processo di sviluppo degli Stati europei e l’emergere di un sistema imperialistico (ogni potenza possiede colonie nel nuovo mondo). Processo di centralizzazione del potere: lo Stato è sempre più centralizzato e burocratico; nascono le grandi capitali, dove si concentrano gli edifici del potere. Si allarga inoltre la scala delle guerre, che spesso sono a carattere internazionale/continentale. Questi caratteri omogenei sembrano cambiare nel corso del Settecento, in particolare a causa delle rivoluzioni politiche (americana, 1776; francese, 1789) e della sempre maggiore industrializzazione e urbanizzazione. È certamente fondamentale riflettere su ciò che cambia; è però ugualmente necessario pensare a ciò che NON CAMBIA o che cambia molto lentamente (d’altronde, abbiamo parlato proprio prima dell’importanza delle “strutture” all’interno della storia). Ad esempio, nel corso dell’età moderna, come durante il Medioevo, si continua ad avere un’aspettativa di vita molto bassa; la società rimane prevalentemente povera, in quanto le condizioni materiali d’esistenza non cambiano granché; tendono poi a non cambiare le organizzazioni della società, basate sulle gerarchie di rango, di età e di genere (la società rimane profondamente PATRIARCALE). I fattori della modernità Prima, parlando dei caratteri omogenei dell’età moderna, abbiamo fatto riferimento a 4 diversi aspetti: SOCIETÀ, ECONOMIA, CULTURA e POLITICA. Per studiare qualsiasi società (del passato o del presente), infatti, lo storico deve tener conto di questi 4 elementi fondamentali: - ECONOMIA - Dall’economia dipendono le condizioni materiali di una società. - Conoscere quali sono le basi economiche; quali i rapporti di proprietà prevalenti; quali le forme e i modi di produzione; quali le dinamiche economiche in atto (sviluppo, espansione, crisi) nelle varie fasi storiche. - SOCIETÀ - Strettamente connesso all’economia. - Quale fondamento hanno le gerarchie sociali; la natura di queste gerarchie (economica, militare, giuridica, religiosa); quali sono le forme della mobilità sociale; quali sono le dinamiche e i conflitti nelle varie fasi storiche. - POLITICA - Quali sono i modelli prevalenti del potere politico; quali le forme di governo più diffuse; quali sono i fondamenti teorici e giuridici del potere; come si esercita il potere sul territorio. - CULTURA - Quali sono i modelli culturali prevalenti di un’epoca; quali i luoghi e le forme di elaborazione delle conoscenze; quali le figure intellettuali di riferimento; il livello di diffusione dei saperi e il grado di alfabetismo. Analizzando questi 4 fattori, dunque, lo storico può farsi un quadro generale di ogni società. Anche se l’abbiamo già accennato, vediamo ora, nel particolare, nell’età moderna cosa caratterizza nel lungo periodo (cioè cosa non cambia) questi 4 fattori: - ECONOMIA: Economia preindustriale L’economia dell’età moderna rimane, nel lungo periodo, un’economia pre-industriale, fondata su base prevalentemente agricola (il settore agricolo vede impegnato tra il 70% e il 90% della popolazione 20 - Nascita degli Stati moderni; - Nascita del “capitalismo”; - Invenzione della stampa; - Rivoluzione militare. Nel corso dei nostri studi sull’età moderna analizzeremo tutti questi fattori nel dettaglio. Facciamoci però prima un’idea di cosa andremo ad affrontare, introducendo brevemente ognuno di questi temi. I fattori di cambiamento: le scoperte geografiche (1492 - XVI secolo) Con “scoperte geografiche” (definizione fortemente eurocentrica, perché è l’Europa a “scoprire” posti che prima non conosceva ma che erano ben noti, ovviamente, alle popolazioni che ci vivevano) si intende non solo scoperta del continente americano: si tratta infatti di un processo che ha inizio ben prima del 1492, già nel 1415 con l’arrivo dei portoghesi in Marocco e l’avvio dell’esplorazione dell’Africa. La scoperta di questi territori da parte dell’Europa porta alla mondializzazione della storia e dell’economia e allo spostamento dal Mediterraneo all’Atlantico del baricentro di quella che è stata definita una “economia-mondo il cui motore è atlantico/occidentale” (I. Wallerstein). Le conseguenze delle nuove scoperte geografiche non si limitano però solo a questo. La scoperta che il mondo fino all’ora conosciuto (ecumene euro-asiatica-nordafricana) era solo una piccola parte della creazione di Dio comportò la prima grande crisi della coscienza europea. Questa crisi di identità della cultura europea porta gli intellettuali a riflettere su nuovi questioni, come la validità delle Sacre Scritture, la natura delle popolazioni del Nuovo Mondo e la loro essenza più o meno umana (sì, si sono chiesti se gli indigeni fossero esseri umani o no). Importanti cambiamenti furono determinati anche dalle novità nel mondo vegetale e animale: la scoperta della molteplicità e diversità della biosfera comportò un enorme sforzo di catalogazione da parte degli studiosi. L’arrivo di nuovi prodotti e generi alimentari (ex. patate, mais, caffè, ecc.) produrranno nel lungo periodo un mutamento profondo del regime alimentare delle popolazioni europee (caratterizzato fino ad allora da un monofagismo cerealitico) e una rivoluzione dei consumi. Si tratta di un processo lungo, dato che questi nuovi prodotti non furono subito accettati e consumati dagli europei. Un’altra conseguenza importante fu lo sfruttamento intensivo dei metalli preziosi. Dal Nuovo Mondo cominciarono ad arrivare quantità esorbitanti di oro (cercato in maniera quasi spasmodica: febbre dell’oro, mito del El dorado, ecc.), argento (che i mercanti usavano per gli scambi con l’Oriente, in quanto lì ve ne era grande domanda) e altri metalli preziosi. Ciò provocò profondi squilibri nell’economia europea: l’improvviso ed enorme afflusso di metalli preziosi non portò a un arricchimento, ma a un aumento vertiginoso dell’inflazione e dunque dei prezzi dei prodotti di prima necessità, in particolare nella Spagna di Filippo II (emerge il problema del pauperismo). Infine, la scoperta delle nuove terre portò all’avvio di una delle pagine più terribili della storia dell’umanità: la deportazione forzata di milioni di uomini africani nel Nuovo Mondo (tratta atlantica degli schiavi; mercato schiavistico). I fattori di cambiamento: rottura dell’unità cristiana Come le scoperte geografiche, anche la rottura dell’unità cristiana ebbe una portata epocale. Essa fu provocata dalla Riforma protestante (1517-1555, anno della pace di Augusta: cuius regio, eius religio) e dalla grave crisi del Papato e della Chiesa di Roma ed ebbe grandi effetti su gran parte della popolazione europea, in quanto la religione era un aspetto fondamentale della vita di tutti i giorni. 21 Questa divisione produsse una stagione di profondi conflitti religiosi, ma anche la scoperta (contrastata) della possibilità di un pluralismo religioso all’interno del Cristianesimo: accanto al cattolicesimo emergono e si affermano diversi modi di vivere e testimoniare il Cristianesimo. La Chiesa cattolica manterrà una struttura verticistica e piramidale rafforzando il carattere monarchico assoluto del Papato; ci sono addirittura storici che sostengono che il modello dell’assolutismo moderno sia stato fornito proprio dalla Chiesa. Le Chiese protestanti (luterana, calvinista, anglicana), invece, affermeranno un modello presbiteriano fondato sui pastori e sui Sinodi (assemblee elettive dei fedeli). Tuttavia, dopo una prima fase di instabilità e di sperimentazione organizzativa, anche nelle chiese protestanti si affermerà una ortodossia confessionale, cioè un irrigidimento dottrinale delle singole Chiese (stabilimento di rigidi confini della “vera” interpretazione delle Sacre Scritture). Un ruolo importante cominciano ad avere, da questo punto di vista, i “catechismi”. I fattori di cambiamento: nascita degli Stati moderni Come abbiamo già detto varie volte, si assiste, durante l’età moderna, a un processo di centralizzazione del potere (espresso culturalmente da una cultura di corte), che porta alla nascita degli Stati moderni. Tutti gli Stati moderni sono: - Dotati di confini precisi; - Difesi da eserciti permanenti; - Amministrati da una rete di burocrati e funzionari permanenti; - Mantenuti grazie ad un sistema fiscale di prelievo del denaro sempre più efficace, capillare ed omogeneo; - Governati da sovrani dotati di poteri sempre più ampi e assoluti e tesi ad affermare il proprio potere al di sopra di quello degli organi rappresentativi dei ceti e dei territori (gli Stati Generali in Francia, le Diete nell’Impero, le Cortes in Spagna, il Parlamento in Inghilterra), che comunque continuano ad esistere e ad operare seppure con un ruolo sempre più limitato rispetto al passato. I fattori di cambiamento: nascita del “capitalismo” Durante l’età moderna si assiste a una lunga trasformazione dell’economia europea da agricola a commerciale e industriale (inizialmente ravvisabile solo nei paesi più sviluppati, primo fra tutti l’Inghilterra) e alla nascita di un’economia di mercato internazionale (una sorta di proto- globalizzazione); insomma inizia a svilupparsi un’economia di tipo capitalistico. Le grandi trasformazioni economiche dell’età moderna vanno comprese considerando alcuni fattori importanti che favorirono i cambiamenti: - L’aumento demografico; - L’aumento dei prezzi; - L’aumento della circolazione di metalli preziosi e delle transazioni monetarie; - Allargamento dei mercati/sviluppo dei consumi; - L’urbanizzazione; - Lo sviluppo della manifattura. I fattori di cambiamento: invenzione della stampa L’invenzione della stampa a caratteri mobili nella metà del XV secolo provocò un profondo impatto sotto vari punti di vista; c’è un “prima” della stampa e un “dopo”. I suoi effetti più “rivoluzionari” non 22 sono però fin da subito ravvisabili, ma dilatati nel tempo: per questo gli storici parlano della stampa come di una “lunga rivoluzione”. Con la diffusione della stampa, aumenta la possibilità di ricorrere alla pagina scritta, diminuiscono i prezzi di produzione di un volume (rispetto alle tecniche degli amanuensi) e i libri sono più facilmente riproducibili. Le opere circolano dunque in maggiore quantità e sono accessibili a una più vasta fetta di persone; anche per questo i libri cambiano di formato, diventando tascabili. Le idee, quindi, iniziano a circolare molto più facilmente e velocemente. In questo senso, le nuove potenzialità rappresentate dal libro a stampa e poi dai periodici sono ben evidenziate dall’uso della propaganda in occasione dei più importanti conflitti di questo periodo (Riforma, guerre di religione, rivoluzioni inglesi del ‘600, Illuminismo e rivoluzioni del ‘700). Rapidamente (e questo è il cambiamento più repentino causato dall’invenzione della stampa) si afferma una vera e propria industria editoriale ed epigrafica. Infine, si afferma anche una nuova figura di intellettuale laico (che non deve più sottoporre le proprie opere alla censura degli amanuensi) e si assiste alla progressiva professionalizzazione dei letterati: grazie alla sempre più fiorente industria editoriale, quella dello scrittore diventa, con il tempo, una vera e propria professione, cioè si comincia a “scrivere per vivere” (cosa possibile solo grazie alle sempre maggiori opportunità di produzione in serie dei libri). Il letterato si distacca sempre di più dalla figura del mecenate, in quanto può sostenersi grazie al mercato delle sue opere. I fattori di cambiamento: la rivoluzione militare Con l’invenzione della polvere da sparo, tra Quattrocento e Cinquecento (periodo delle guerre d’Italia) si trasformano progressivamente e completamente i modi di fare la guerra, tant’è che alcuni studiosi parlano di una vera e propria “rivoluzione militare”: entra in crisi l’esercito tradizionale. La tattica diventa fondamentale: per questo acquisiscono una sempre maggiore centralità l’artiglieria (cannoni, pistole, ecc.) e la fanteria. Cambia inoltre la struttura e la fisionomia delle flotte marittime e si affermano tipologie di navi da guerra. La guerra diventa dunque sempre più vorace di risorse e di uomini: per questo gli eserciti tendono ad aumentare di dimensioni, diventando sempre più costosi. Le grandi monarchie europee diventano dunque le sole in grado di sostenere, per tempi prolungati, i costi di un esercito, che tende perciò a diventare permanente (d’altronde avevamo già detto che ogni grande potenza moderna ha un esercito permanente). Si assiste di conseguenza a una crisi della cavalleria pesante, che si accompagna a una crisi sociale del ruolo della antica nobiltà feudale e guerriera. Questa crisi è ravvisabile anche nell’uso di nuove tecniche costruttive, che comportano un cambiamento della struttura e della fisionomia delle città con la comparsa di nuovi modelli di fortificazioni adeguati a sostenere l’urto delle artiglierie: le alte e sottili mura dei castelli medievali non possono più assolvere un ruolo di difesa, in quanto troppo deboli di fronte alla potenza dei nuovi cannoni, e vengono sostituite dalle fortificazioni “all’italiana” (così definite perché vi erano specializzati soprattutto architetti italiani), caratterizzate da mura basse e molto larghe e da bastioni per rispondere all’attacco. La rivoluzione militare, dunque, è segno anche di profondi cambiamenti nella società e nello Stato. Il guerriero medievale, coperto di ferro e montato su cavallo, era espressione di un ordine sociale che riservava la professione della guerra solo ai signori feudali, in grado di trarre dai propri possedimenti le risorse e gli uomini necessari. L’ascesa della fanteria e dell’artiglieria, che si accompagna a un generale aumento della dimensione degli eserciti che diventano permanenti, manifesta invece la nuova ascesa finanziaria e accentrata dello Stato, relegando a un ruolo accessorio la nobiltà, sia per la difesa che per l’attacco. 25 arricchisce la storia delle idee di concetti nuovi come l’impatto culturale in termini di tirature, mercati, pratiche di lettura ecc. Le fonti a stampa sono dunque una risorsa preziosa anche per studiare la storia sociale dei “media”. La stampa, come abbiamo già detto, fu una rivoluzione di lungo periodo, ma la sua affermazione fu estremamente rapida, e anche se i suoi effetti più importanti cominciarono a manifestarsi solo col passare del tempo se ne colse comunque presto il carattere “rivoluzionario”, come inizio di un’epoca nuova (pensa ad autori come Montaigne, Bacon, ecc.). Bisogna inoltre sottolineare che la stampa non fu un “agente indipendente”, nel senso che la sua rivoluzione non è da attribuire solo all’innovazione tecnologica (il torchio tipografico): un’importanza fondamentale ebbero anche le condizioni sociali e culturali (pensa ad esempio al grave ritardo nell’Europa dell’Est e nel mondo islamico dell’arrivo della stampa). Quali furono le conseguenze più importanti dell’invenzione della stampa? Le conseguenze pratiche per la ricerca della conoscenza dopo l’esplosione della stampa furono il moltiplicarsi dei libri, con conseguente ampliamento delle biblioteche, e lo sviluppo di nuovi metodi per il reperimento e la gestione delle informazioni. A lungo termine, le conseguenze principali di quella che è stata definita “cultura della stampa” (cioè il rapporto fra la nuova invenzione e i mutamenti culturali nel lungo periodo) furono la tendenza sempre maggiore a standardizzare e conservare un sapere che era stato molto più fluido nell’età della diffusione orale o manoscritta, l’aver favorito (secondo alcuni storici) lo spirito critico rendendo più ampiamente accessibili visioni molteplici dello stesso argomento (ampiezza delle letture) e l’aver influenzato i linguaggi di comunicazione (affermazione del volgare, comunicazione visiva, ecc.). Infine, la stampa favorì progressivamente una maggiore diffusione dell’alfabetismo, che a sua volta favorì una sempre maggior diffusione della documentazione scritta: da qui l’uso crescente, in età moderna, della scrittura per formulare e registrare decisioni (importanza dell’elaborazione delle informazioni). Le fonti pubbliche in età moderna Le fonti pubbliche in età moderna vengono prodotte da istituzioni che esistevano anche in precedenza, cioè lo “Stato” e la Chiesa, ma aumentano notevolmente. Questo perché cresce il potere di queste istituzioni sul territorio: per esercitare il controllo e il governo aumenta dunque il bisogno di “conoscenza”. L’esigenza di conoscere per governare produce dunque un enorme aumento della documentazione scritta, che permette di studiare i processi di modernizzazione delle istituzioni e di accentramento del potere (sviluppo dello Stato e della Chiesa come istituzioni sempre più centralizzate, dotate di apparati burocratici) e lascia agli storici un crescente patrimonio di informazioni dirette accumulate nel corso di questi processi di modernizzazione e di conoscenza. Un esempio: la demografia storica Un esempio di quanto appena detto è dato dalla “demografia storica”, che si occupa di studiare le fonti quantitative che forniscono dati relativi al movimento della popolazione. Questi dati permettono di ricostruire l’andamento demografico di una popolazione nel corso del tempo e soprattutto consentono di indagare le ragioni di quel movimento attraverso l’elaborazione di serie di cifre relative alle nascite, ai matrimoni, alle morti e ai fenomeni migratori; servono cioè a comprendere 26 gli aspetti del modello demografico di una società valutando il modo in cui i singoli elementi (natalità, nuzialità, mortalità) interagivano. Le fonti per ricostruire il movimento della popolazione: i registri parrocchiali Nella storiografia del XX secolo si assiste a un grande sviluppo degli studi di demografia storica grazie alle ricerche sulle fonti conservate negli archivi ecclesiastici. Dal XVI secolo circa fino al XIX, infatti, le principali fonti della demografia storica sono i registri parrocchiali (lo stato civile si affermerà solo nel XIX secolo). I registri parrocchiali, la cui tenuta da parte dei parroci fu promossa nel Concilio di Trento, esprimevano la volontà delle autorità religiose di esercitare un controllo sui fedeli attraverso la registrazione dei passaggi fondamentali della vita personale di ciascun individuo attraverso i sacramenti (battesimi, matrimoni, morti) e di controllare/conoscere/censire lo stato della popolazione (gli Status Animarum o “Stati delle anime”) nelle visite annuali del periodo quaresimale per la benedizione pasquale delle case dei fedeli. Fino al XIX secolo, dunque, furono i parroci ad effettuare registrazioni dei fenomeni demografici che avvenivano nelle loro parrocchie. Le stesse autorità civili si rivolgevano ai parroci per avere informazioni sulle persone. Di solito negli archivi parrocchiali si possono reperire i seguenti registri: - Battesimi; - Matrimoni; - Sepolture/decessi; - Lo stato delle anime (censimento della popolazione redatto di solito nel periodo pasquale). Dalle fonti dei registri parrocchiali possono essere effettuate ricerche anagrafiche, che possono essere quantitative, individuali o qualitative. Le fonti per ricostruire il movimento della popolazione: la tecnica di ricostruzione delle famiglie La tecnica di ricostruzione delle famiglie si è affermata nell’ambito della storia seriale e quantitativa con l’iniziale obiettivo di studiare la corrispondenza fra crisi alimentari e mortalità a partire dalle serie dei decessi. Successivamente, a partire dalla fine degli anni ‘50 prima in Francia, con l’affermazione dei calcolatori elettronici, ha riguardato più in generale gli studi sul movimento della popolazione. La ricostruzione delle famiglie trova la sua fonte principale di informazioni e dati sempre dai registri parrocchiali, ovviamente, da dove si ricavano i dati demografici riguardanti ciascun individuo che consentono di ricostruire progressivamente il comportamento demografico della famiglia: età del matrimonio, numero dei figli, durata media della vita, tipologia e composizione della famiglia, ecc. L’uso del computer è stato decisivo per ricostruire, a partire da questi dati, informazioni essenziali non solo sul movimento della popolazione in certe aree, ma anche sul modello demografico di Antico Regime, sulle strutture familiari, sui comportamenti sociali. Informazioni di solito ricavabili dai registri parrocchiali Nei registri dei battesimi si possono solitamente ricavare le seguenti informazioni: - Data di battesimo; - Data di nascita; - Sesso (spesso è desumibile solo dal nome); - Nome del bambino; - Nome e cognome del padre; - Nome (e talvolta cognome) della madre; - (talvolta) Nome dei nonni; 27 - Indicazione dell’eventuale illegittimità; - Luogo di domicilio dei genitori; - Professione del padre (non prima del XIX secolo); - Padrino e madrina del battezzato. Nei registri dei matrimoni: - Date delle pubblicazioni; - Data del matrimonio; - Nome, paternità, maternità dei due sposi; - Età degli sposi (quasi mai prima del XIX secolo); - Professione degli sposi (non prima del XIX secolo); - Luogo di residenza degli sposi (il matrimonio è celebrato di norma nella parrocchia della sposa); - Stato civile al matrimonio (più frequentemente per la donna, talvolta con l’indicazione del nome e cognome del coniuge precedente); - Testimoni degli sposi; - Eventuali dispense per consanguineità o affinità. Nei registri delle sepolture: - Data di sepoltura; - Data di morte; - Nome e cognome del defunto; - Sesso; - Età alla morte; - Stato civile del defunto (più frequentemente per la donna, talvolta con l’indicazione delle generalità del coniuge); - Paternità (e talvolta maternità) del defunto, soprattutto per i bambini, i giovani, e per le donne nubili; - Luogo di residenza del defunto (se questi non risiedeva nella parrocchia dove viene sepolto); - Professione (non prima del XIX secolo); - Causa del decesso (sporadicamente, per morti accidentali, o talvolta in occasione di particolari epidemie). I censimenti fiscali Altri esempi di fonti create dall’opera di un’istituzione al fine di acquisire dati o prendere provvedimenti necessari all’azione di governo sono i censimenti fiscali, attraverso cui lo Stato tenta di censire/conoscere la ricchezza e le risorse del territorio su cui esercita il potere ed ha giurisdizione. Tali fonti permettono, indirettamente, di studiare e documentare l’ampliamento dei poteri che Stato e Chiesa esercitano sul territorio (la nascita della stato moderno, la maggiore presenza territoriale delle chiese moderne rispetto a quella medievale, la spinta dell’evangelizzazione cristiana fuori di Europa, ecc.). Direttamente invece permettono: - Un’analisi della storia economica; - Una ricostruzione delle vicende familiari e patrimoniali; - Tentativi di ricostruire complessivamente la vita di una società regionale. Un esempio importante, sotto questo punto di vista, è rappresentato dal catasto fiorentino del 1427. Il catasto fiorentino del 1427: una fonte medievale passata al computer Un esempio importante dell’avvio dell’uso dei computer per lo studio delle fonti storiche si realizzò ai tempi dell’informatica dei mainframe (schede perforate), quando fu realizzata un’edizione elettronica del catasto fiorentino del 1427 in un progetto di ricerca internazionale sulla storia della famiglia e sulla 30 - Nel caso dei censimenti ecclesiastici (gli Status Animarum), per verificare l’adempimento dei cosiddetti “doveri Pasquali” (confessione/eucarestia). Conoscere lo scopo/obiettivo del censimento determina una prima possibilità di sapere ciò che veniva registrato e ciò che invece veniva omesso. I censimenti fiscali, ad esempio, contano generalmente i “fuochi” (cioè le famiglie), omettendo gli esenti dalle tasse (es. ecclesiastici, per privilegio, o i poveri senza capacità contributiva); quelli per la distribuzione di generi alimentari e di consumo (pane) contano invece “le bocche”, cioè i possibili consumatori (escludono ad es. i bambini non svezzati); quelli Ecclesiastici contano invece le “anime” (escludono ad es. i non cattolici o anche i fanciulli pre- comunione). Bisogna sottolineare che i censimenti non sempre erano bene accetti dalla popolazione: spesso si incontravano dunque resistenze e reticenze nelle dichiarazioni. Inoltre, si trattava di atti amministrativi che non erano politicamente neutri: come abbiamo già detto, infatti, la conoscenza è un presupposto dell’esercizio di un potere. I censimenti non si limitavano poi a contare/enumerare la popolazione, ma anche a classificarla secondo categorie e stereotipi collettivi. Principalmente, il sistema di classificazione si organizzava secondo semplici contrapposizioni binarie: maschi/femmine; adulti/bambini; ricchi/poveri. Altre volte la classificazione avveniva in base alla condizione sociale (ad es. a Venezia si annotavano le famiglie dei “nobili”, “cittadini”, “artigiani”) e al mestiere; alcune volte la registrazione del mestiere serviva per ovviare alla mancanza dei cognomi. Parlando di mestiere vale inoltre la pena di evidenziare la difficoltà, nell’Europa pre-industriale, di catalogare le professioni per l’accentuata multi-professionalità che caratterizzava i lavoratori soprattutto nelle fasce più povere della popolazione; il lavoro femminile, inoltre, rappresenta una realtà estremamente sfuggente e sottostimata nelle fonti enumerative. Altre volte ancora nella classificazione a prevalere è l’interesse per i poveri, in particolare a partire dal XVI secolo quando il problema del “pauperismo” emerse come un grave problema sociale in Europa. Nei conteggi, infine, potevano essere inseriti e compresi anche gli animali (ad es. nella tassa sul sale) oppure oggetti inanimati (armi, gondole, carrozze, parrucche, ecc.). Studiare l’andamento della popolazione e i suoi fattori Abbiamo dunque visto che tipo di studi di carattere economico e sociale si possono fare su documenti anagrafici e censimenti. Concentriamoci ora sull’aspetto più strettamente demografico. Attraverso questi documenti, infatti, come già anticipavamo, siamo in grado di ottenere dati che ci consentono di analizzare l’andamento della popolazione nel corso della storia e soprattutto di analizzare le ragioni di questo andamento, attraverso la relazione tra fattori quali natalità e mortalità, che dipendono a loro volta da altri fattori dati dal contesto sociale, culturale ed economico. Andamento della popolazione mondiale L’ammontare della popolazione mondiale è legata sempre a stime, soprattutto per le epoche più lontane. Il dato certo è che il grosso della popolazione (circa l’80%) del globo viveva nel XVII secolo concentrata fra l’Asia meridionale, il Medio oriente e l’Europa (quello che definiamo il “Vecchio mondo”), insomma nelle grandi aree agrarie del continente euroasiatico dove era più agevole disporre della fonte energetica principale: il cibo. In queste zone c’era dunque un’economia agraria sviluppata in grado di supportare la crescita della popolazione. 31 Andamento della popolazione europea Concentreremo la nostra attenzione, ovviamente, sulla popolazione europea. Facciamo prima di tutto un quadro generale dell’andamento della popolazione europea dal X secolo (pieno Medioevo) fino ai giorni nostri, per poi analizzare quali fattori hanno influenzato questo movimento. Rispetto alla Cina, in Europa i censimenti iniziarono ad apparire nel XV secolo ma rimasero molto rari fino al Settecento. Per questo le testimonianze sull’ammontare della popolazione sono spesso indirette e le cifre talora imprecise o poco affidabili. Sappiamo però che fra l’alto Medioevo e il XIX secolo la popolazione europea fu pari a circa un quinto della popolazione mondiale (le stime oscillano fra il 17 e il 20%). Solo nel 1900 raggiunse il 25% del totale complessivo. Dal X al XVIII secolo la popolazione europea conobbe una crescita. Il suo incremento fu tuttavia più modesto e più lento rispetto alle epoche lontane della rivoluzione agraria e certamente rispetto a quello che seguì la rivoluzione industriale (che conosce una vera e propria esplosione demografica): fra XI e XVIII secolo, infatti, la popolazione europea si limitò più o meno a raddoppiare. Soprattutto, non si trattò di una crescita costante: ci furono fasi di crescita che si alternarono a fasi di crisi/decrescita. Le epoche di crescita demografica (sempre piuttosto lenta) furono soprattutto il tardo Medioevo e l’età moderna. Alla metà del Trecento avvenne la prima catastrofe demografica, preannunciata già da numerose carestie ma esplosa con la diffusione della peste nera (1347-49): scomparve 1/3 circa della popolazione europea (ca 2,5 milioni di morti) nel giro di pochissimi anni. La peste rimase endemica, ripresentandosi periodicamente (ma mai con gli stessi effetti devastanti di quella del Trecento) in Europa fino alla fine del Seicento. Dopo la crisi demografica causata dalla comparsa della peste, ci fu un periodo di forte ripresa nel Cinquecento (crescita del 30%), che però si smorzò notevolmente nel Seicento (12% circa) a causa di una crisi demografica che interessò varie zone europee. Dalla metà del Settecento (fino ai giorni nostri) c’è poi stata una crescita demografica che non si è più interrotta. Nascita Cristo 1650 1750 Africa 30 50 104 America 10 13 18 Asia 150 250-300 500 Europa 35 100 145 Oceania 1,5 2 3 226,5 415-465 770 Popolazione mondiale per continenti (in milioni di individui) Popolazione europea (in milioni di individui) 0 50 100 150 200 250 700 1000 1300 1400 1500 1600 1700 1800 Epoca n u m e ro Biraben Serie2 32 Si può dunque scomporre l’evoluzione demografica della popolazione europea secondo la seguente schematizzazione: - Espansione dal X alla metà del XIV secolo; - Contrazione dalla metà del XIV alla metà del XV secolo; - Espansione dalla metà del XV alla fine del XVI secolo, ai primi decenni del XVII secolo (il “lungo Cinquecento”); - Contrazione e crescita bloccata nel XVII secolo; - Nuova e decisa ripresa dalla metà del XVIII secolo ai giorni nostri. Questi valori generali, ovviamente, nascondono velocità e casi diversi nelle varie aree dell’Europa. Gli uomini. Il modello demografico Come abbiamo visto, la crescita della popolazione europea dal X secolo in poi fu molto lenta e caratterizzata da fasi demografiche diverse. Ma quali sono i meccanismi dietro queste fasi di crescita e di decrescita? Quali furono le resistenze che frenarono la corsa verso un accrescimento più consistente? Per capirlo bisogna rifarsi a vari fattori. Tra questi fattori bisogna inserire il potenziale biotico, termine con cui i biologi indicano la capacità di crescere di una determinata popolazione nelle specie animali. Questa crescita non è mai illimitata, ma sempre condizionata da vari elementi, tra cui: - Influenze ambientali, che possono avere effetto frenante (affollamento, disponibilità di cibo, ecc.); - Equilibrio fra disponibilità energetiche ambientali e ampiezza di una determinata specie animale. È impossibile sottrarsi da questi vincoli, anche per l’uomo. Nel caso delle popolazioni umane, però, le resistenze alla crescita non si limitano a queste e sono assai numerose e complesse. Oltre a quelli ambientali, influiscono infatti anche fattori di tipo politico, economico, sociale, culturale, ecc. Questi fattori determinano la natalità e la mortalità di una popolazione, i due elementi principali che agiscono sull’andamento della popolazione. Mortalità e natalità di una popolazione Possiamo escludere che i fenomeni migratori abbiano avuto effetti rilevanti sulla demografia dell’Europa nel Medioevo e nell’età moderna, in quanto hanno avuto più effetti di redistribuzione della popolazione (all’interno). Escluse le migrazioni, come anticipavamo rimangono in gioco la mortalità e la natalità a determinare il movimento della popolazione. Per studiare il movimento di una popolazione nel tempo, è dunque utile calcolare il tasso di natalità e il tasso di mortalità di una popolazione. Ciò può essere fatto attraverso precise formule: - Tasso di natalità (x 1.000 abitanti): 𝒏(𝒙) = [𝑵(𝒙) 𝑷 (𝒙)] ∙ 𝟏𝟎𝟎𝟎⁄ Dove: - 𝑛(𝑥) = tasso di natalità dell’anno x (espresso in nascite per mille abitanti) - 𝑁(𝑥) = numero dei nati nell’anno x - 𝑃 (𝑥) = popolazione nell’anno x - Tasso di mortalità (x 1.000 abitanti): 𝒎(𝒙) = [𝑴(𝒙) 𝑷 (𝒙)] ∙ 𝟏𝟎𝟎𝟎⁄ Dove: 35 In quest’illustrazione ritroviamo tutti e quattro i fattori complici degli aumenti improvvisi di mortalità: “fame e povertà”, cioè carestie; “gran freddo e nudità”, cioè clima; “guerra per tutto”; “malanni e morte”, cioè epidemie. Popolazione e risorse: la teoria malthusiana Parlando di fattori di crescita/decrescita di una popolazione, è interessante analizzare gli studi di Thomas Robert Malthus (1766-1834), che nella sua opera An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society (1798) evidenziò due ritmi di crescita diversi per la popolazione e per le risorse: - Popolazione: crescita geometrica (1, 2, 4, 8, 16, 32,…); - Risorse: crescita aritmetica (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8,…). Questo vuol dire che, secondo la teoria malthusiana, la crescita della popolazione sarà sempre meno sostenibile: dato che le risorse crescono più lentamente della popolazione, si arriverà a un punto di crisi in cui la popolazione sarà maggiore delle risorse disponibili. Ovviamente l’interpretazione di Malthus si basava su un modello economico agricolo: non era ancora a conoscenza delle grandi potenzialità del sistema industriale. I freni repressivi Quando la popolazione aumenta troppo, per riportarla a livelli sostenibili agiscono naturalmente quelli che Malthus definisce “freni repressivi”. Il sistema malthusiano dei freni repressivi può essere rappresentato come segue: 36 Come possiamo ben vedere, è tutto un circolo (quello che menzionavamo poco prima): quando la popolazione aumenta troppo rispetto alle risorse, agiscono vari fattori “repressivi” in modo consequenziale che la fanno diminuire riportandola a livelli sostenibili; una volta che la popolazione diminuisce, essa tende poi naturalmente ad aumentare; quando aumenta troppo, si ritorna alla situazione di inizio. Altri freni repressivi sono i 4 menzionati più volte precedentemente, in particolare la guerra e le epidemie. Le guerre, per svariati motivi, portavano a un aumento incredibile della mortalità. Inoltre, le guerre dell’età moderna sono note per essere state particolarmente devastanti. Le principali malattie epidemiche nell’età moderna furono: - La peste: si presentò ad ondate dal XIV al XVII secolo, per poi scomparire dall’Europa occidentale nel XVIII sec. Produceva un’altissima mortalità repentina. - Il tifo (endemica), il vaiolo (endemica), la sifilide (endemica), influenze e febbri (a ondate). A differenza della peste, queste malattie producevano un’altissima mortalità nel lungo periodo. Alcune tra le pestilenze più gravi dell’età moderna furono: - Londra: 1603, 1625, 1665 = 200.000 morti; - Amsterdam: 1624, 1636, 1655 e 1664 = 10/20% della pop. morta; - Europa atlantica: 1596-1603 = 1 milione di morti; - Francia: 1600 - 1670 = 2-3 milioni di morti; - Italia: 1576-77 (al nord); 1630-31 (al centro nord); 1656-57 (al centro-sud) (a Napoli e Genova perisce circa la metà della popolazione). Le ultime gravi pestilenze furono a Marsiglia (1720-21) e a Messina (1743); dopodiché, la peste scomparve del tutto dalla scena europea. Sul perché esiste ancora un accesso dibattito storiografico. Non si riscontra, infatti, né un significativo progresso medico, né un miglioramento dell’igiene, e la presenza di politiche più efficaci per il contenimento delle epidemie comunque non spiega la scomparsa improvvisa della peste. L’ipotesi più accreditata è legata a un’evoluzione biologica dei ratti: il ratto europeo è stato cioè mano a mano sostituito dal ratto norvegicus (ancora oggi presente), più resistente alla trasmissione del vacillo. La natalità come freno repressivo Fino ad ora abbiamo parlato principalmente di cosa influenza la mortalità, ma come abbiamo detto più volte e visto anche nel “sistema dei freni repressivi” malthusiano, la natalità gioca un ruolo fondamentale nel determinare l’andamento di una popolazione. Concentriamoci allora su cosa determina l’aumento/la diminuzione della natalità. Nel mantenere la popolazione in equilibrio con le risorse la mortalità agiva come freno principale, ma in realtà anche la natalità vi contribuiva, pur in assenza di pratiche anticoncezionali. Vediamo in che modo. In natura il potenziale biotico di una certa popolazione può essere condizionato dall’età in cui avviene il primo accoppiamento. In pratica, se l’arco di tempo in cui viene sfruttata la capacità riproduttiva della popolazione femminile è più breve, il numero di figli sarà più basso di quello che avrebbe potuto essere. Nelle popolazioni umane le cose sono più complesse per l’intervento di fattori culturali e sociali. L’età al matrimonio, in questo caso, costituisce una variabile fondamentale nello sviluppo demografico. 37 Un’elevata età al matrimonio riduce infatti il periodo fertile della vita di una donna e dunque limita il numero dei figli (fra un figlio e l’altro di solito intercorrono 2 o 3 anni). L’influenza dell’età al matrimonio sulla demografia è possibile solo se le pratiche anticoncezionali e la natalità illegittima non sono elevate, come nel caso dell’età moderna: il controllo delle nascite (cioè l’allungamento degli intervalli intergenesici) era quasi inesistente o affidato a pratiche rudimentali come l’allattamento prolungato o indotto dalle cattive condizioni di vita e di alimentazione (provocando nelle donne l’amenorrea); anche la natalità illegittima rimase tutto sommato molto limitata (si calcola il 2-3% della natalità complessiva). Un fattore importante era invece legato all’assenza di matrimonio di percentuali consistenti della popolazione che non si sposava: - Per motivi religiosi (2-3%); - Per motivi economici e sociali (le fasce di nubilato e celibato definitivo potevano essere molto rilevanti). In definitiva, insieme alla peste, l’età ritardata al matrimonio fu il fattore che più influenzò la demografia europea pre-industriale. Fra XVI e XVIII secolo in Europa (pur con molte differenze) tende a mantenersi intorno ai 25 anni (poco meno per le donne, poco più per gli uomini), con molte differenze rispetto ad esempio al mondo asiatico. Freni preventivi relativi alla famiglia La famiglia può dunque rappresentare un freno preventivo; d’altronde si tratta di un organismo estremamente elastico, che si adegua alle condizioni lavorative, economiche, sociali, ecc. La famiglia può agire come fattore preventivo: - Nel caso di matrimonio ritardato, che implica una minore fertilità delle donne; - Nel caso di celibato/nubilato; - A seconda delle tipologie. Le principali tipologie familiari sono: - Solitari; - Co-residenti (senza nuclei coniugali): conviventi senza legami coniugali o parentali (ex. preti con servi, con concubine, ecc.); - Nucleare (la più diffusa): una coppia sposata con figli; - Allargata: nucleo coniugale con figli e con la convivenza di parenti; - Multipla o estesa: convivenza di più nuclei familiari disposti in senso verticale o orizzontale; - Senza struttura: aggregato domestico senza legami di parentela. 40 In secondo luogo, si assiste a un’espansione delle grandi città, soprattutto delle capitali. Si affermano sistemi di città veri e propri che si affermano a scapito dei centri minori assumendo maggiori funzioni politiche e amministrative. Si tratta ovviamente di un fenomeno che va di pari passo con quello della centralizzazione dello Stato. Le fonti diplomatiche Chiudiamo il discorso demografico e torniamo a parlare delle fonti. Un altro tipo di fonte è rappresentato dalle fonti diplomatiche, che ci raccontano i rapporti tra gli Stati e quindi la politica estera. Queste fonti crescono in maniera considerevole durante l’età moderna. Ciò non dovrebbe stupirci: centralizzandosi e burocratizzandosi lo Stato, aumentano anche i documenti diplomatici. La pratica diplomatica e la figura dell’ambasciatore nascono nelle corti rinascimentali italiane del XV secolo. Il ruolo dell’ambasciata nei più importanti centri di potere che si vengono affermando in età moderna tende ad essere sempre più stabile e definito. Gli ambasciatori diventano figure chiave: sono al centro di reti informative essenziali e dunque sono terminali per la raccolta di notizie e informazioni che trasmettono in patria; inoltre sono i primi interpreti all’estero della politica nazionale, con proprie funzioni cerimoniali che saranno sempre più definite e complesse in termini di residenza, precedenze, linguaggi. Questo fermento politico, infatti, è alla base della nascita dell’arte diplomatica. Le fonti diplomatiche sono essenziali nell’affermazione degli Stati territoriali, delle monarchie nazionali, della Chiesa universale e nello sviluppo dei rapporti internazionali (con la fine della guerra dei Trenta anni a metà XVII secolo nascono ovunque in tutte le corti europee le ambasciate permanenti). Le fonti diplomatiche sono dunque fondamentali per la storia politica e per questo sono state fra le prime ad interessare gli storici. Un esempio è rappresentato dalle relazioni degli ambasciatori veneti al Senato: questi ambasciatori venivano mandati nelle varie corti europee e dovevano poi scrivere una relazione sulla loro visita, da leggere in Senato. In queste relazioni descrivevano come funzionava la società, come lavorava il regnante, ecc. Abbiamo di questi documenti dal XV al XVIII secolo; essi furono poi raccolti e sistemati a partire dal XIX secolo. Politica interna e fonti Come possiamo vedere dalla tabella, la vera trasformazione avviene tra Cinquecento e Seicento. Durante il Settecento si assiste poi a un ulteriore aumento. Ma come sostenere questa crescita, dato che corrisponde anche a una crescita dei consumi? L’aumento della popolazione urbana in età moderna trova appunto il suo presupposto in un aumento dei commerci, soprattutto internazionali (non è un caso che le flotti aumentino in questo periodo). 41 Per quanto riguarda invece le fonti sulla politica interna? Beh, il discorso ovviamente è lo stesso: la dinamica di “modernizzazione” avviata dallo Stato e dalla Chiesa per controllare sempre più e meglio dal centro la vita dei sudditi e il proprio territorio (centralizzazione del potere) significò un enorme aumento della documentazione scritta (come abbiamo potuto già ben vedere) e in particolare delle carte burocratiche. Il potenziamento degli uffici amministrativi e la nascita della burocrazia significarono dunque una moltiplicazione della documentazione. Esempi importanti: - La Madrid di Filippo II e la necessità di governare dalla Spagna un dominio enorme di dimensione intercontinentale. Filippo II ereditò un enorme impero dal padre Carlo V, che controllava da Madrid (a differenza del predecessore che andava direttamente nei territori); per questo era immerso da giorno a notte da fogli e documenti: doveva trasmettere gli ordini, ecc. Ciò gli valse il nomignolo de “El Rey Papelero”, ossia “Il re scartoffia”; - L’Inquisizione Romana, che tra Cinquecento e Seicento rappresentò l’unico tribunale unitario e competente sull’intera penisola italiana. Fino ad alcuni decenni fa si conoscevano solo le carte degli uffici periferici; l’apertura degli archivi centrali ha permesso di iniziare a studiare le strutture e il funzionamento del tribunale e con esso il rafforzamento dell’apparato della Chiesa Cattolica. Secondo le ultime tendenze della storiografia e basandosi su queste fonti, l’immagine di una sovranità forte e pervasiva già nella prima età moderna è stata molto ridimensionata ed attenuata: è da intendersi piuttosto come una dialettica sempre più serrata fra poteri centrali/poteri locali. Le fonti istituzionali e la lettura locale Alcuni documenti istituzionali, cioè prodotti da Stato e Chiesa, possono essere letti con un’ottica centrata sul locale. Un esempio tipico sono gli atti notarili che sono il frutto dell’attività di ufficiali pubblici che operano (con il sigillo statale o ecclesiastico) nel registrare le transazioni fra diversi soggetti (privati e pubblici). Essi arricchiscono l’ottica istituzionale dei documenti pubblici di governo (dello Stato e delle Chiese) di informazioni concrete e individualizzate. È infatti possibile trarre dall’attività dei notai una notevole gamma di informazioni: - Testamenti e volontà post mortem (in una società dove l’eredità è al centro del suo funzionamento, questi documenti sono fondamentali); - Transazioni commerciali e finanziarie; - Contratti matrimoniali/divisioni patrimoniali; - Rapporti di produzione/contratti agrari. Si tratta tuttavia di fonti piuttosto ardue da utilizzare: - in termini paleografici: sono spesso di difficile lettura e l’uso del latino non facilita il compito; - in termini storiografici: a causa del carattere intrinseco della fonte spesso disomogenea e sparsa e del suo essere frutto dell’attività dei notai e del loro rapporto con la clientela, è difficile farne un uso seriale. Altri esempi di documenti istituzionali utilizzati anche con un’ottica locale sono le richieste di committenza e le visite pastorali promosse a partire dal Concilio di Trento. Quest’ultime in particolare esaminano la situazione religiosa, morale e materiale delle parrocchie di una diocesi (numero degli abitanti, stato delle fabbriche e degli arredi religiosi, opere d’arte, grado di istruzione dei parroci e dei fedeli, ecc.). 42 Solitamente ogni notaio si distingue con un suo sigillo particolare: Le fonti non scritte Sebbene l’uso delle fonti scritte sia prevalente nella storiografia moderna, informazioni preziose possono essere ricavate anche dalle fonti non scritte; all’uso delle fonti non scritte, in particolare, si devono in gran parte le acquisizioni operate dalla storiografia in unione alle scienze sociali. Le fonti non scritte non solo danno una maggiore attenzione alle lunghe continuità (dilatazione dei tempi storici), ma consentono anche un ampliamento degli orizzonti della ricerca verso nuove tematiche, come: - Ambiente; - Demografia e famiglia; - Mentalità; - Vita sociale. Un esempio può essere rappresentato dalle persistenze e dai mutamenti nella lingua, intendendo la lingua stessa come un documento storico della massima importanza (ex. l’evoluzione di significato di un termine come Rivoluzione). Una lingua nel suo insieme può costituire una fonte complessa e rivelatrice sulla storia del popolo che la parla (ad esempio il patrimonio lessicale italiano). Anche gli oggetti possono racchiudere testimonianze preziose sul passato, in quanto conservano una memoria profonda di elementi strutturali e persistenti e dunque sono fonti essenziali per lo studio della cultura materiale (luoghi della vita e del lavoro) e per ricostruire le pratiche dell’abitare, del mangiare, del vestire, del fare la guerra, ecc. In particolare, gli oggetti materiali sono: - Una testimonianza diretta di persistenze e cambiamenti; - Una testimonianza indiretta di altri fenomeni storici (ex. la forma dei confessionali voluta da san Carlo Borromeo; i resti delle fortificazioni, di armi e armature per la storia militare). Anche l’ambiente può essere letto come una fonte storica, in quanto ci fornisce informazioni su: - La storia urbana; - La storia del paesaggio; - La storia del clima; ecc. Come si ricostruisce l’ambiente del passato 45 Basti pensare alle opere pittoriche di William Hogarth (1697-1764), in cui è possibile leggere l’incipiente affermazione di un’ideologia e di uno stile di vita borghesi attraverso la critica e la denuncia dei costumi leggeri e cinici dell’aristocrazia straniera (francese). La stessa cifra stilistica (realismo/quotidianità ai limiti del grottesco) costituiva una polemica presa di posizione contro il classicismo aulico e magniloquente degli artisti suoi contemporanei, epigoni imitatori di italiani e francesi. I romanzi di Samuel Richardson (“Pamela”, 1740) e di Henry Fielding (“Tom Jones”, 1746) si muovono su registri espressivi e ideologici paralleli a quelli di Hogarth. Essi costituiscono una fonte storica per 3 aspetti: - Il contenuto informativo dei libri (ad esempio sulla logica del matrimonio d’amore e dell’affettività domestica); - Il loro genere e stile (romanzo), caratterizzato da una destinazione più popolare, per un pubblico più vasto; - Il contesto sociologico della loro produzione e diffusione: un pubblico più vasto rivela che quella dello scrittore inizia a divenire una professione non più legata al mecenatismo di corte e privati. Come possiamo ben capire, questi sono tutti importanti indicatori della trasformazione della società inglese del Settecento. Le fonti private Attraverso le fonti figurative e letterarie abbiamo la possibilità di accedere ad una dimensione più privata e intima della vita del passato, alla storia delle relazioni sociali e della famiglia, ma anche attraverso le fonti private o intime, cioè quelle conservate negli archivi familiari. Alcuni archivi rimangono privati, altri divengono pubblici dopo un versamento agli archivi pubblici per la loro conservazione; in ogni caso sono comunque notificati alle rispettive Soprintendenze Archivistiche. Gli archivi familiari contengono: - Carte di amministrazione dei beni, dei patrimoni e di gestione degli affari; - Atti notarili; - Documenti di altro tipo, solitamente di carattere più intimo (fonti epistolari e autobiografiche), come: libri di ricordi; ricordanze familiari; storie genealogiche; diari personali; lettere. 46 I limiti e i pericoli dell’utilizzo delle fonti private sono il problema della soggettività, la rappresentatività degli autori e delle famiglie e i tempi della scrittura. È dunque necessario tenere conto delle reticenze, delle convenzioni, dei codici espressivi che riguardano queste fonti. Alcuni esempi di utilizzo delle fonti private sono: - Lettere scritte da donne (nobildonne, monache, alcune volte anche letterate nell’Italia fra Quattrocento e Seicento). Esse illustrano: rapporti familiari e coniugali, il ruolo dei confessori, anche alcune vicende della diplomazia, della politica e della vita delle corti, ecc. Da esse emerge la cultura e la specificità della scrittura femminile, la sua faticosa emancipazione dal controllo maschile. - Documentazione diaristica ed epistolare delle famiglie aristocratiche inglesi nel ‘700, che documentano il diffondersi di nuove idee e pratiche della famiglia moderna (il matrimonio per inclinazione, la confidenza domestica fra coniugi, l’interessamento dei genitori per i figli, il declino del baliatico, ecc..). Un altro limite delle fonti private è dato dal fatto che esse documentano prevalentemente le classi alte, cioè coloro che per censo, posizione sociale, cultura e ruolo avevano accesso alla scrittura. I ceti bassi, che rappresentavano la maggioranza della popolazione, ci hanno lasciato un numero infinitamente più scarso di documenti e testimonianze personali (cioè prodotte da loro). Le fonti giudiziarie Sul mondo popolare, dunque, le principali fonti sono state prodotte per restituire la loro voce attraverso una qualche forma di mediazione. Un contributo importante è venuto dall’antropologia culturale, con il ricorso all’uso critico di fonti folkloriche (raccolte di proverbi, canzoni popolari, memoria di riti e costumi tradizionali, ecc.), che sono tuttavia difficilmente databili. La fonte principale cui si fa ricorso per ricostruire nel modo più possibile individualizzato la vita dei ceti popolari è quella giudiziaria. Esempi sono: - Inchieste di polizia; - Inquisizioni dei tribunali; - Verbali di interrogatori; - Atti di processi. Le carte processuali, in particolare, sono fonti che sono state molto utilizzate per studiare temi come la cultura e le credenze popolari, i rapporti fra i sessi e la vita privata (es. processi matrimoniali) e le mentalità e i comportamenti popolari. Insomma, contengono un immenso “arsenale” di racconti di vita a tutti i livelli di ceto, età e culture. Per loro natura le fonti giudiziarie sono testimonianze del reale molto mirate (la controversia, il conflitto, il disordine), ma hanno il pregio di correggere visioni troppo “istituzionali” basate su fonti normative, statutarie, legislative. Fuori d’Europa Fino ad ora abbiamo parlato di documentazione prodotta in Europa. E fuori dal Vecchio Continente? In via preliminare possiamo operare una fondamentale partizione fra società che accedevano alla scrittura (società in tutto e per tutto paragonabili a quelle europee), come gli imperi asiatici e 47 mediorientali, e società che non conoscevano la scrittura o usavano metodi di scrittura molto particolari, come le civiltà pre-colombiane e africane. Sulle seconde, a partire dal XVI secolo, abbiamo soprattutto documenti e fonti prodotti dagli europei in seguito all’incontro, alla scoperta e alla conquista dei nuovi territori. Quando gli europei scoprirono queste popolazioni, come già detto, ci fu un vero e proprio cortocircuito culturale; ci si cominciò ad interessare a queste nuove popolazioni da conquistare ed evangelizzare, popolazioni di cui inoltre non c’era traccia nelle Sacre Scritture. Si inizia ad analizzare il loro modo di vivere, di cui la stampa moltiplica e diffonde illustrazioni: Si tenta anche di ricostruire la storia di queste civiltà; un esempio è la Historia de los indios de la nueva España (che parla degli Atzechi, i quali vivevano nella “nuova Spagna”, cioè in Messico). Un altro testo importante da ricordare è il Popol Vuh, anche chiamato la “Bibbia K’iche’”, che raccoglie miti e leggende della tradizione dei Maya, che vivevano nell’odierno Guatemala. Queste storie erano state scritte con i pittogrammi dei Maya, che gli europei poi proibirono insieme alla lingua (K’iche’). Nonostante ciò, i Maya continuarono a trascriverle nella loro lingua pittorica. Questi manoscritti furono poi trovati e trascritti in spagnolo da un frate domenicano agli inizi del XVIII secolo. Tornando al discorso principale: da questo ne deriva il fatto che tutto ciò che sappiamo di queste popolazioni inizia dal Cinquecento ed è mediato dagli europei, che hanno però mantenuto a lungo un pregiudizio di superiorità sui cosiddetti “popoli senza storia” (come li definisce Hegel) via via sottomessi; manca, in questi documenti, la “visione dei vinti”, come dice lo storico francese Nathan Wachtel. Di fatto per studiare tali società si fa ricorso fondamentalmente a: - Fonti archeologiche; - Fonti linguistiche; - Fonti figurative (molte di queste popolazioni, soprattutto quelle pre-colombiane, usavano scritture pittografiche). È inoltre fondamentale lo studio del grande patrimonio della tradizione conservata e trasmessa in forma orale. Questo tipo di studio utilizza procedimenti simili allo studio delle fonti folkloriche usate per studiare la cultura popolare europea e la chiave etno-storica che vede un fecondo incontro fra antropologia e storia. 50 La stampa si diffuse mano a mano in tutta Europa, grazie alla semplicità e all’esiguo costo delle attrezzature per stampare. Dal punto di vista economico, il passaggio dal manoscritto al libro comportò un crollo dei prezzi senza precedenti: ad es. nel caso di Venezia (inizio XVI sec.), un manoscritto lussuoso costava ventisei ducati, uno economico dai quattro ai quattordici ducati, mentre un’edizione a stampa di un libro si aggirava attorno a un ducato. Ciò permise un ampliamento del pubblico fruitore: la stampa rese dunque disponibili alla lettura testi accessibili anche mercanti e borghesi, gente di più bassa estrazione (rispetto a quella che fino ad allora aveva detenuto il “primato” nella cultura del manoscritto). La stampa: una “lunga” rivoluzione Riprendiamo alcuni concetti che abbiamo già introdotto parlando della stampa. La stampa fu una “rivoluzione” di lungo periodo, come già accennato, provocando un progressivo cambiamento antropologico e culturale; la sua affermazione, però, fu estremamente rapida. Come dice il sociologo canadese Marshall McLuhan, la differenza tra l’uomo della stampa e l’uomo della cultura scribale è quasi grande quanto quella tra il letterato e il non letterato (“the difference between the man of print and the man of scribal culture is nearly as great as that between the non-literate and the literate”). Inoltre, la stampa inoltre non fu un “agente indipendente”: i suoi effetti rivoluzioni, che si vedono nel lungo periodo, non sono ascrivibili solo all’innovazione tecnologica, ma anche agli effetti culturali e sociali. Il contesto socio-culturale è di per sé un presupposto fondamentale per la diffusione della stampa: vedi il grave ritardo nell’Europa dell’Est e nel mondo islamico. Vari intellettuali colsero presto il carattere “rivoluzionario” della stampa, come Francis Bacon nella sua Nuova Scienza. Non mancarono ovviamente atteggiamenti/valutazioni negative, in particolare da parte di amanuensi, clero e alcuni governi. La critica dei primi non sorprende, ma in realtà neanche quella degli altri: infatti, la diffusione della stampa comportò un aumento dei testi, che come già visto divennero accessibili da una più vasta fetta di popolazione, e quindi una maggiore circolazione delle idee. L’esplosione della stampa comportò conseguenze pratiche per la ricerca della conoscenza: - Il moltiplicarsi dei libri e dunque ampliamento delle biblioteche; - L’affermazione di nuovi metodi per il reperimento e la gestione delle informazioni. Ci sono poi varie conseguenze a lungo termine della “cultura della stampa”, come: - La tendenza a standardizzare e conservare un sapere che era stato molto più fluido nell’età della diffusione orale o manoscritta; - Favorisce lo spirito critico, rendendo più ampiamente accessibili visioni molteplici dello stesso argomento (ci sono più testi che parlano dello stesso argomento, fornendo punti di vista diversi); - Influenza i linguaggi di comunicazione (affermazione del volgare, maggiore diffusione della comunicazione visiva, ecc.); - Favorisce progressivamente una maggiore diffusione dell’alfabetismo. Ciò non avviene ovunque, e dove avviene, avviene con ritmi diversi (ad esempio è maggiore, ovviamente, nei Paesi protestanti). La maggiore alfabetizzazione favorì a sua volta una sempre maggior diffusione della documentazione scritta, dunque uso crescente della scrittura per formulare e registrare decisioni (importanza dell’elaborazione delle informazioni). Il concetto di “rivoluzione lunga” 51 I termini “rivoluzione” e “lunga” sono apparentemente in contraddizione: infatti “rivoluzione” indica solitamente un cambiamento repentino. Questo cambiamento, nel caso della stampa, avviene però nel lungo periodo; ciò non ne limita la portata rivoluzionaria. La stampa è una “rivoluzione lunga” perché: - I mutamenti avvennero almeno lungo 3 secoli; - L’adattamento a questo nuovo medium fu graduale (come vedremo parlando della formule editoriali e delle abitudini di lettura). L’azione della stampa va considerata, al pari di altri media, come un catalizzatore che favorisce (ma non ne è all’origine) il mutamento sociale. Il sistema dei media e le vie di comunicazione Come dicevamo, la stampa e gli altri media vanno considerati come un sistema, un repertorio di risorse interdipendenti in continuo mutamento a causa dei progressi tecnologici. C’è una divisione dei compiti fra media diversi; inoltre, vecchi e nuovi media possono coesistere: possono competere, farsi eco, essere complementari. È anche molto importante la relazione dei media con il sistema dei trasporti, molto più fondamentale in passato che ora: le informazioni e la comunicazione, infatti, facevano parte del sistema del trasporto fisico, non come oggi che l’informazione è simultanea. I flussi dell’informazione seguivano dunque i flussi commerciali. Fra XVI-XVII secolo c’è una crescente consapevolezza del problema delle vie fisiche di comunicazione (strade; vie d’acqua); nel 1837, infine, l’invenzione del telegrafo elettrico spezzò il legame fra trasporto e comunicazione dei messaggi. La comunicazione era un elemento vitale per la sopravvivenza degli stati (arrivo/ritorno degli ordini), soprattutto i più grandi. Basti pensare all’impero di Carlo V (imperatore itinerante/creazione del sistema postale), ereditato poi da Filippo II: quella che si prefiggeva el Rey papelero era però un’impresa colossale; i ritardi del governo spagnolo erano infatti legati ai problemi di comunicazione. Per questo motivo gli imperi dell’età moderna soprattutto furono imperi marittimi: il trasporto marittimo era più veloce. Nel ‘700 migliorarono ad esempio le comunicazioni fra Europa e America: si “restrinse l’Atlantico”. La comunicazione orale 52 La cultura europea non può essere caratterizzata con un unico medium, per quanto importante. L’oralità, ad esempio, rimane un linguaggio di comunicazione estremamente importante per tutta l’età moderna. Alcuni esempi: - Predicazione religiosa; - Università; - Canzoni e ballate; - Le “voci” che circolano (spesso manipolate e fatte trapelare). La cultura orale non va considerata un “residuo” del passato, ma come un medium in mutamento che caratterizza nuovi luoghi della sociabilità, come: - Accademie, società scientifiche, salotti, clubs; - Le borse di commercio; - Taverne, bagni pubblici, caffè; - Comunità di comunicazione orale immaginaria (Spectator Club, il Caffè di Milano, ecc.) La comunicazione scritta La scrittura aumenta fortemente in età moderna, lasciando agli storici una grande documentazione. Nel caso della comunicazione scritta, bisogna tenere in conto alcuni fattori. Prima di tutto, era molto importante contesto in cui si apprendeva la “scrittura” (il cui insegnamento era spesso separato dalla “lettura”), quindi non bisogna mai trascurare questo dettaglio. L’alfabetizzazione, inoltre, dipende dal contesto commerciale e dal contesto religioso (soprattutto in area protestante). L’alfabetismo rimane molto “ristretto”, ma in età moderna tende a diffondersi. Le conseguenze furono: - Sociali: nascono professioni legate alla scrittura; - Culturali: ostacola l’“amnesia strutturale” delle culture orali; - Politiche: diffusione della documentazione scritta nel processo amministrativo; burocrazia e controllo a distanza (esercizio del potere = aumento documentazione); scrittura nelle rivendicazioni politiche della gente comune. Attenzione: il medium “scrittura” non va identificato unicamente con la scrittura a mano. Non bisogna, ad esempio, dimenticarsi dell’importanza delle iscrizioni, spesso rese universali grazie all’uso del latino. I linguaggi della comunicazione scritta e orale Attraverso quali linguaggi si comunicava in passato? Nella società pre-tipografica del Medioevo, la comunicazione scritta avviene in latino; quella orale, invece, avviene in dialetto locale, che ancora non trova spazio nei testi scritti. Nella società tipografica moderna si assiste invece a un affermarsi delle lingue volgari nazionali anche a scopi letterari. La stampa aiuta, come già si diceva, questo processo standardizzazione/codificazione lingue volgari (ex. Lutero). Il francese sostituisce il latino in ambito politico (1539) e come lingua della diplomazia fra Seicento e Settecento, mentre in campo universitario il latino rimane la lingua internazionale fino al Settecento. Il declino del latino come lingua dotta internazionale fu un processo assai lento che si realizzò solo nel corso del XVIII secolo. La comunicazione visiva e le immagini stampate 55 Gli autori era distribuiti in 2 categorie: - Intera produzione proibita; - Vietate solo alcune opere. Cominciarono allora ad esserci operazioni di “espurgazione” dei testi: si modificavano cioè i testi prima della stampa in modo che non venissero proibiti dall’Indice. Ovviamente non era solo la Chiesa a censurare, anzi: in alcuni monarchie c’era addirittura quasi una competizione tra censura laica e censura religiosa (ex. Francia). La comunicazione clandestina L’efficacia del sistema censorio non va sopravvalutata: poteva infatti avere effetti “collaterali”, conseguenze impreviste rispetto alle intenzioni delle autorità, come suscitare interesse per i libri proibiti (o interi generi come la “pornografia”) o dare luogo a forme di “comunicazione clandestina”. La comunicazione clandestina poteva utilizzare: - Linguaggi cifrati e codici quando si trattava di comunicazione orale e manoscritta; - Pubblicazioni clandestine a stampa, che sfruttavano strumenti quali: - Anonimato o pseudonimi che celavano gli autori; - Identità dissimulata anche per gli stampatori (luogo di pubblicazione fittizio o falso); - Stampa all’estero con trasporto clandestino dei materiali; - Contrabbando di libri nelle area di confine; - Dissimulazione e occultamento dei veri contenuti di un libro (mediante tecniche metaforiche e allegoriche). Un esempio è la figura del leone nelle favole di De La Fontaine, che rappresenta in realtà Luigi XIV. L’offerta di libri: il mercato Se stampare era pericoloso, poteva però anche essere molto redditizio con la crescita della produzione e del mercato. Un grande ruolo, in questo caso, è rivestito dai best-sellers. Mano a mano cominciano inoltre a comparire varie forme di pubblicità per vendere i testi a stampa, come: - Cataloghi dei libri; - Le fiere con ruolo promozionale (ex. Fiera di Francoforte); 56 - La promozione libraria all’interno dei libri stessi; - Comparsa della pubblicità stampata sui giornali. Di pari passo, come risposta alla crescita dei consumi e alla rivoluzione della stampa, si fa sempre più vivo il problema del plagio: il testo è infatti di proprietà più dell’editore che dell’autore, dunque l’editore può approvarne le copie mentre l’autore non ha detto in merito. Si rafforza allora l’idea di “proprietà intellettuale” e si affermano pratiche nuove per tutelarla, come la fissazione dell’identità dell’autore attraverso ritratti e biografie. È in Inghilterra che la paternità intellettuale comincia ad essere tutelata da precisi atti legislativi, come il Copyright Act del 1709; il copyright internazionale arriva molto più tardi, con la Convenzione di Berna del 1887. L’allargamento del mercato librario in età moderna può essere letto in 3 fasi, o meglio in 3 città che si succedono il primato editoriale: - Venezia nel Cinquecento. Come già detto, Venezia era una città cosmopolita, centro dei rapporti tra Occidente e Oriente e per questo frequentata da mercanti di tutta Europa. L’irrigidimento dell’ortodossia e il peso dell’Inquisizione fanno però perdere a Venezia il primato; - Amsterdam nel Seicento. Trovandosi a Amsterdam, la “Venezia del Nord”, una tolleranza e una libertà religiosa sconosciuta nel resto d’Europa, nel Seicento l’editoria europea trova nella città olandese il suo centro principale. Amsterdam perde poi il suo primato a causa del declino del mercato olandese; - Londra nel Settecento. Le migliori condizioni politiche (l’Inghilterra è ormai una monarchia parlamentare) portano Londra ad essere il principale centro editoriale europeo nel Settecento. Qui viene pubblicato ogni genere di letteratura, anche quella di intrattenimento. In questo processo di allargamento del mercato editoriale bisogna inserire anche la diffusione dei giornali. Essi nascono ad Amsterdam nel ‘600 in ambito mercantile, cioè dall’esigenza dei mercanti olandesi di essere informati su cosa succede nelle altre parti del mondo. Sono dunque un nuovo mezzo che esemplifica nel modo migliore la commercializzazione dell’informazione. Tendono poi a diventare periodici e a diffondersi in tutta Europa. La storia della lettura Secondo gli storici, grazie all’avvento della stampa, fra il 1500 e il 1800 anche gli stili di lettura si sono modificati, influendo così sul formato e le caratteristiche tipografiche dei libri. Sono stati individuati 5 principali tipi di lettura: - La lettura critica, che emerge con l’aumento dell’offerta dei libri (favorisce la comparazione tra testi). Non sempre però la lettura è critica; - La lettura pericolosa; - La lettura creativa; - La lettura ampia: si passa dal lettore “intensivo” al lettore “ampio” con il proliferare dell’offerta; - La lettura privata: la maggiore disponibilità di libri e la maggiore alfabetizzazione favorisce la transizione dalla lettura pubblica alla lettura privata. Nel considerare le attitudini di lettura è preferibile distinguere a seconda del ceto sociale e secondo le situazioni che favorivano letture a voce alta piuttosto che letture private. Infine, in età moderna le applicazioni della lettura erano estremamente varie, anche se possiamo distinguere due categorie principali: - L’informazione; - L’istruzione morale. 57 Solo lentamente, grazie all’allargamento del mercato e in particolare a partire dal Settecento, si affermò un terzo genere di libro orientato al puro intrattenimento. Una lettura della “rivoluzione” della stampa Nell’analisi dell’avvento della stampa e del suo impatto sociale, culturale, politico e religioso sulla società occidentale, si sono confrontati due approcci storiografici diversi: - Contestualista. Considera il contesto in cui si afferma la stampa, cioè i suoi usi nel contesto sociale e culturale, ed è critico sul concetto di “rivoluzione”. Questo tipo di approccio offre contributi importanti sul breve periodo/in spazi circoscritti; - Rivoluzionario. Privilegia l’aspetto rivoluzionario, di cambiamento della stampa, ed è meno attento al contesto (decontestualizza). L’approccio rivoluzionario offre riflessioni importanti sul lungo periodo e sui mutamenti. Ma quali sono questi mutamenti che la stampa causa nel lungo periodo? Ne abbiamo già visti vari. Rivediamo i principali e alcuni di cui non abbiamo ancora parlato: - Prima di tutto, la stampa favorì la relativa fissità dei testi e dunque una maggiore fissità del sapere; - Si sviluppò un concetto relativamente nuovo di scrivere, che chiamiamo “letteratura”. Parallelamente nacque anche l’idea di “autore” e di conseguenze l’idea di una versione corretta e autorizzata di un testo; - Ci fu una partecipazione più diretta degli imprenditori al processo di diffusione delle conoscenze. Quest’imprenditorialità editoriale favorì, nella fase di allargamento dell’offerta, la pubblicità economica e la pubblicità politica (cioè la propaganda); - Il materiale stampato divenne sempre più presente nella vita quotidiana (libri, manifesti, moduli prestampati). Nel Settecento la stampa era ormai parte della vita di tutti i giorni, anche grazie ai quotidiani/periodici (nel 1792 in Inghilterra furono vendute 15 milioni di copie). La Riforma e la stampa La stampa accompagnò tutti i principali conflitti ideologici dell’età moderna. Il primo grande conflitto ideologico in cui il materiale stampato giocò un ruolo rilevante fu quello aperto dalla Riforma luterana. Nei primi anni del movimento, gli accesi dibattiti sulle funzioni e i poteri del papa e della Chiesa e sulla natura della religione diedero un contributo importante al formarsi di una opinione pubblica. I protestanti della prima generazione (1520-40) si appoggiarono infatti ad una vera e propria “offensiva mediatica” per comunicare i propri messaggi e per indebolire la chiesa cattolica. I riformatori si rivolgevano a tutti i cristiani, per questo usavano vari linguaggi per comunicare: Erasmo scriveva in latino, rivolgendosi al pubblico dotto di tutta Europa, mentre Lutero scriveva in volgare, rivolgendosi a un più ampio pubblico (ristretto però al mondo germanico). La partecipazione del “popolo” alla Riforma fu dunque nello stesso tempo causa e conseguenza dell’intervento dei mezzi di comunicazione: l’invenzione della stampa mise in crisi il monopolio della informazione della Chiesa medievale. Lutero era ben consapevole della grandezza di questo strumento, come si evince da questa sua citazione: “La stampa è l’ultimo dono di Dio, e il più grande. Per mezzo suo difatti, Dio vuol far conoscere la causa della vera religione a tutta la terra, fino ai confini del mondo”. D’altronde, grazie al nuovo medium, Lutero non poté esser messo a tacere come gli eretici del Medioevo: i suoi scritti sarebbero infatti sopravvissuti ed erano disponibili in grandi quantità e ad un prezzo relativamente basso. 60 Moor (1644) fu un episodio di grande interesse per la propaganda puritana del tempo, come dimostra questa rappresentazione. Vi fu una massiccia produzione di materiale a stampa, soprattutto di pamphlet e di giornali (nel periodo 1640-63 un libraio raccolse quasi 15.000 libelli e più di 7.000 giornali): lo scoppio della guerra civile coincise infatti con l’esplosione dei giornali inglesi. Durante la guerra civile si assiste inoltre a un’estensione della sfera pubblica: in questo periodo i messaggi sui fatti di attualità circolano anche con altri mezzi oltre alla stampa, che fu comunque fondamentale. In presenza di un caso così esemplare, viene naturale chiedersi: come contribuirono i media e i loro messaggi a cambiare le idee e la mentalità? Si tratta di una questione complessa: c’è infatti “banalizzazione” delle questioni politiche da parte dei mezzi di informazione, che però al tempo stesso aiutarono la politica nazionale a fare il suo ingresso nella vita quotidiana. La diffusione delle notizie contribuì infatti a costruire una cultura politica nazionale: non solo si creò una sfera politica pubblica, ma sorse anche una sfera pubblica popolare. La restaurazione di Carlo II Stuart (1660) significò il tentativo di tornare ad una sistema mediatico chiuso; tuttavia i mezzi di comunicazione ebbero ruoli rilevanti nelle crisi che poi portarono alla “Gloriosa Rivoluzione” e alla nascita della monarchia parlamentare (1688). Il Licensing Act (1695) pose fine al sistema di censura: ciò determinò l’ampia produzione di libelli politici e la nascita di una stampa periodica non ufficiale. Quest’ultima, in particolare, trasformò la sfera pubblica temporanea/congiunturale (creata da dibattiti di relativamente breve durata) in permanente: la politica entrò nella vita quotidiana della popolazione. La sfera pubblica permanente nasce infatti grazie alla permanenza del ricordo dei precedenti storici nel materiale stampato (la memoria delle rivolte del passato), che contribuisce alla creazione di una “tradizione della rivoluzione” in cui numerosi protagonisti erano consapevoli dell’azione di chi li aveva preceduti (modelli di riferimento precedenti). Il Settecento e i “Lumi” In Francia l’affermazione dell’assolutismo e il lungo regno di Luigi XIV (1660-1715) significarono uno stretto controllo dei media. Il grande cambiamento avvenne nel Settecento con il movimento culturale dell’Illuminismo, le cui parole chiave furono: ragione (contrapposta a fede, tradizione, superstizione, pregiudizio); spirito critico; progresso; pubblico. L’esplosione di materiale a stampa fu il contesto del celebre dibattito sulla libertà di stampa. Il poeta puritano John Milton, autore del celeberrimo poema Paradise Lost (“Paradiso perduto”, 1667), pubblicò l’Areopagitica (1644), che era una difesa della libertà di stampare senza licenza contro l’ordinanza sulla stampa del Parlamento: qui Milton critica di ogni tipo di censura e associa la censura al cattolicesimo romano (il Purgatorio dell’Indice). Un estratto dall’Areopagitica: “uccidere un buon libro è quasi lo stesso che uccidere un uomo e in un certo senso è ancor peggio: perché chi uccide un uomo uccide una creatura dotata di ragione, fatta ad immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa. Distrugge la pupilla di quell’immagine divina” 61 Gli illuministi sono fautori delle riforme più che della rivoluzione e si vedevano come educatori: i media erano dunque strumenti indispensabili. Nel movimento ebbero un ruolo fondamentale i pensatori francesi; i philosophes operavano all’interno di un sistema in cui la censura funzionava ancora e la comunicazione politica passava attraverso svariati mezzi (cultura orale, corrispondenze manoscritte, alcuni generi artistici, gli studi storici, ecc.). La Rivoluzione francese Il coinvolgimento del “popolo” nella Rivoluzione del 1789 fu nello stesso tempo causa e conseguenza del coinvolgimento dei media. Lo stesso discorso vale anche per la Rivoluzione americana, dove ad esempio la stampa ebbe un ruolo assai rilevante. I rapporti della Rivoluzione francese con l’Illuminismo sono molteplici: l’esistenza di una opinione pubblica cui rivolgersi si deve anche all’intervento dei philosophes; non scordiamo poi gli appelli alla ragione e gli appelli ai diritti universali dell’uomo. Possiamo dire che la rivoluzione continuò l’Illuminismo, ma con altri mezzi. Il programma rivoluzionario era più radicale: il sistema sarebbe stato cambiato, non riformato. La rivoluzione non fu solo una risposta ai problemi economici e sociali del decennio precedente Uno dei veicoli più importanti per la circolazione delle idee politiche fu la Encyclopédie (uscita fra il 1751 e il 1772), i cui fautori principali furono Denis Diderot e Jean-Baptiste d’Alembert. L’Encyclopédie conobbe l’intervento di numerosi intellettuali e fu un evento di grande importanza nella storia della comunicazione. Quella dell’Encyclopédie fu una grande impresa culturale ed anche editoriale. Ecco alcuni numeri: - 35 volumi: 22 di testo (71.818 articoli) e 13 di illustrazioni (2.885 tavole); - 6 edizioni uscite fra il 1751 e il 1779 (ed. originale 1751 – 1772); - Tiratura complessiva: 24.000 copie (più della metà vendute fuori della Francia); - Giro d’affari: oltre 12 milioni di lire francesi. I media ebbero un ruolo 62 (interpretazioni storiografiche più diffuse), ma anche un momento di elaborazione di un mondo e di una società nuovi e diversi. Il potere della stampa non deve tuttavia essere sopravvalutato. In un contesto di diffuso analfabetismo, è necessario considerare il contributo di tutte le parti del sistema della comunicazioni, come: - la comunicazione orale, attraverso gli intensi dibattiti, i discorsi pubblici, la circolazione delle voci pubbliche (che diventa più importante del solito) e anche la nascita di una nuova retorica nazionale su nuove parole chiave; - la comunicazione visiva, sia distruttiva che costruttiva, che avviene secondo nuovi linguaggi stilistici, produzione di stampe per estendere il dibattito politico anche agli analfabeti e nella decorazione di oggetti di uso quotidiano; - la spettacolarizzazione della rivoluzione, che diventa un “teatro politico permanente”, attraverso gli spettacoli drammatici delle esecuzioni e le feste pubbliche; queste ultime in particolare manifestano il processo di secolarizzazione in corso, cioè il trasferimento di sacralità dalla Chiesa allo Stato. La mobilitazione consapevole dei media allo scopo di cambiare le idee vigenti può essere definita, per la prima vera e propria volta, come propaganda. Si trattava di una parola nuova che si riferiva ad un fenomeno nuovo: il tentativo consapevole di plasmare le opinioni. I media francesi ebbero infatti un ruolo indispensabile sia nella distruzione delle tradizioni sia nell’invenzione di nuove tradizioni, creando una nuova cultura politica senza Chiesa e senza Re. L’espressione “Opinion Publique” entrò nell’uso normale, così come il termine “propaganda”. Anche nella Francia di Napoleone vi fu il tentativo di tornare alla situazione mediatica precedente, impossibile però per la forza dei media (celebre il motto di Napoleone sulla pericolosità dei giornali). Infine, gli stimoli forniti dallo sviluppo scientifico riguardarono anche i sistemi e le vie di comunicazione: fu approntato, ad esempio, un sistema semaforico per la trasmissione dei messaggi (Claude Chappe, 1792). ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Seconda parte 4. Il moderno “Leviatano”: lo Stato “moderno” e l’accentramento del potere Un altro grande tema che caratterizza l’età moderna è il processo di centralizzazione del potere nei vari paesi europei, che getta le basi per la nascita degli “Stati moderni”. Vediamo nel particolare di cosa si tratta e come si sviluppa questo processo nel corso del tempo. 65 - Declino del legame di fedeltà individuale: il potere sovrano diventa impersonale e perde il suo carattere “patrimoniale”; - Desacralizzazione della sovranità regia. Fu un processo lento e molto contrastato per la presenza di forme composite nell’esercizio dei poteri, cioè la convivenza di molteplici giurisdizioni diverse, che determinano la pluralità del diritto (privilegi ecc.) e una natura spesso contrattuale della sovranità, con la conseguente coesistenza spesso conflittuale di poteri forti concorrenti (nobiltà, clero, parlamenti, ecc.). Concezione patrimoniale del potere sovrano Abbiamo parlato prima di concezione patrimoniale del potere sovrano. Approfondiamo quest’aspetto. Secondo questa concezione, tipica dell’età medievale, il sovrano non esercita una funzione astratta e impersonale di governo (come nello Stato moderno), ma si occupa di gestire un potere patrimoniale e dunque personale. Il sovrano si sentiva investito di diritti di proprietà sui suoi domini e voleva farli valere per sé e per i suoi eredi come avrebbe fatto per qualsiasi altro tipo di bene appartenente al suo patrimonio. Tutta l’organizzazione burocratico-statale (molto ridotta) rispondeva a questo principio; le risorse per far funzionare l’apparato amministrativo (soprattutto per finanziare le guerre) dovevano provenire in primis dai possedimenti privati della corona e solo in un secondo momento si poteva chiedere ai sudditi di contribuire mediante donazioni/tassazioni straordinarie. Gli individui preposti agli uffici pubblici erano piuttosto al servizio personale del sovrano (e dai suoi proventi riscuotevano). Alle ragioni dinastico-patrimoniali si aggiungevano inoltre quelle dell’onore tipiche della cultura cavalleresca. Questa concezione viene superata durante l’età moderna: il potere del sovrano non è più patrimoniale (quindi legato a un possedimento concreto) e dunque personale, ma astratto e impersonale. Il diritto non viene dal possedimento e neanche più dalla legittimazione divina (desacralizzazione della figura sovrana). Il processo di “disciplinamento”: il controllo della società attraverso la religione Anche la Riforma, come si era già accennato, ha giocato un ruolo importante nell’affermazione degli Stati moderni. In particolare, i mutamenti avvenuti nella società dopo il XVI secolo e la crisi dell’unità religiosa in Europa hanno permesso ai sovrani di esercitare un maggiore controllo della società. Vediamo come. Questo fenomeno è definito come processo di “disciplinamento”, una categoria storiografica affermatasi alla fine del ‘900 che nasce per studiare le conseguenze della Riforma e della Controriforma negli Stati europei, puntando ad individuare più gli aspetti simili che le divergenze (nei modelli istituzionali, nelle relazioni sociali, nella pratica legislativa, nel sistema di relazioni fra Stato e Chiesa), tra cui, come dicevamo, il generale e decisivo aumento della presenza e successo dell’azione dei poteri costituiti, tanto laici che ecclesiastici, a governare e regolare ambiti sempre più larghi della vita delle popolazioni. In particolare, cerca di spiegare la penetrante azione disciplinatrice sulle masse popolari da parte della Chiesa (Controriforma) in rapporto con il contemporaneo sforzo delle autorità politiche per imporre il controllo dello Stato. Come conseguenza, ad esempio, muta nel tempo il concetto e la condizione di “marginalità” (categorie marginali: poveri, eretici, streghe, ammalati, vagabondi, banditi → non dimentichiamo che in età moderna il problema del pauperismo si fa sempre più serio). Le marginalità 66 sono anche di tipo culturale e religioso, legate alle culture del popolo (i riti agrari, il “mondo alla rovescia”, il carnevale). Il processo di “disciplinamento” e lo Stato “confessionale” In questo quadro di crisi e frantumazione dei credi religiosi, le scelte operate dagli Stati sono varie (ma neanche tanto). In alcuni casi venne realizzata di fatto una forma di convivenza civile basata su un’ampia tolleranza religiosa (il caso più noto è quello già menzionato della Repubblica Olandese); in altri casi furono lasciati limitati spazi di tolleranza più o meno regolamentati verso altre confessioni (ad esempio l’Inghilterra anglicana di Elisabetta I o la Francia cattolica di Enrico IV). In generale, però, la scelta più frequente fu un’altra: una rigida imposizione ai sudditi della fede religiosa professata dai principi, secondo il paradigma del cuius regio eius religio (istituito dalla pace di Augusta nel 1555), una scelta e una pratica che talvolta comportò dei prezzi altissimi (pensa al caso della “Reconquista” del Regno di Spagna). Il modello prevalente fu dunque quello dell’intolleranza, della negazione di ogni libertà religiosa, dell’imposizione del conformismo: in pratica lo “Stato confessionale”, diffuso sia in area cattolica, sia in area protestante. Ora, nell’interesse dei nostri studi, viene naturale porsi alcune domande, come: - Quali furono le caratteristiche comuni di questa pratica politica? - Quali furono le motivazioni concrete che spinsero gli stati ad adottare una politica confessionale? Analizziamo dunque questi aspetti. Lo Stato “confessionale”: caratteristiche comuni La scelta confessionale comportava sempre una dichiarata avversione nei confronti di ogni pacifismo: posti in chiaro i fondamenti della fede, ogni tentativo di accordarsi con chi la pensava diversamente diventava un vero e proprio tradimento. I timori dei due grandi nemici della “vera religione”, cioè la “superstizione” e l’“eresia”, imponevano un crescente controllo: per questo i fondamenti della fede ed il complesso di norme su di essi costruito dovevano essere spiegate ai ceti dirigenti ed inculcate bene alle masse popolari. Da qui il ricorso a schiere di predicatori, maestri, teologi, missionari, parroci, pastori, vescovi (la cui ortodossia doveva essere accertata preventivamente con molta attenzione). In questo quadro assunsero inoltre particolare importanza la scuola ed i processi educativi/di formazione, che divennero basati più sull’assunzione di nozioni religiose che non sullo sviluppo delle capacità di analisi critica. Allo stesso tempo bisognava impedire la propaganda di ogni idea eterodossa, attivando strumenti di censura sui mezzi di comunicazione. Non sono questi gli unici strumenti usati per imporre la nuova disciplina alle masse, per indottrinare uomini e donne di diversa estrazione sociale e geografica: è, ad esempio, interessante l’uso e l’evoluzione della lingua, attraverso l’uso di forme espressive comuni e comprensibili (al di là delle varianti dialettali) e l’imposizione del “marchio” indelebile del nome proprio particolare con il battesimo. Lo Stato: la scelta “confessionale” La scelta confessionale degli stati moderni è una questione assai complessa. La storiografia liberale italiana di tradizione laicista aveva parlato di una sorta di asservimento dello Stato nei confronti della Chiesa, avendo perso lo Stato la sua identità laicale per farsi strumento del Papato o di una specifica fede religiosa. 67 In realtà la scelta confessionale poteva garantire non pochi vantaggi. Prima di tutto, questa delimitazione religiosa, questo “confine”, contribuiva a rafforzare la stessa identità di un corpo politico, tanto all’esterno che all’interno delle frontiere. Inoltre, far propria una specifica fede, difenderla e imporla ai propri sudditi, significava proteggere una Chiesa ma allo stesso tempo esercitare anche un effettivo controllo e non di rado utilizzare direttamente le immense risorse patrimoniali ed umane accumulate da questa Chiesa (vero sia a proposito delle grandi monarchie, sia nelle minori entità statali). Ad esempio, la nomina pontificia dei vescovi era sempre il frutto o di una scelta esplicita dei sovrani cattolici o di trattative fra potere politico e potere religioso; i principi, dunque, col tempo riuscirono a far coincidere i confini dei propri stati con quelli delle circoscrizioni diocesane (perché i sudditi non dipendessero da vescovi “forestieri”). La “confessualizzazione” dello Stato sembra dunque costituire una tappa nella formazione dello Stato moderno, anzi una prima fase di “disciplinamento sociale” nel processo comune di costruzione di grandi gruppi socio-politici compatti, con alcune differenze di intensità fra Chiesa cattolica e Chiese riformate. L’affermazione degli Stati moderni Il processo di “disciplinamento” è solo una tappa della complessa e lunga affermazione degli Stati moderni in Europa. Questo processo, in realtà, si svolge in modo differente (secondo modalità e tempi diversi) nelle varie zone del continente, secondo questa diversificazione: - In Europa occidentale si assiste, già a partire dal XV secolo, al consolidamento di forti e moderne monarchie dinastico-territoriali (Inghilterra, Francia, ecc.); - Nell’Europa nord-orientale si trovano grandi stati con la permanenza di strutture feudali (Polonia, Ungheria, Russia*, ecc.); - Nell’Europa centrale si assiste a una tendenza “centrifuga” rispetto al processo di accentramento che avviene negli altri stati: questa zona è infatti caratterizzata dalla presenza di numerosi piccoli stati regionali politicamente deboli, in particolare nella penisola italiana, che sarà per questo bersaglio della grandi monarchie occidentali in espansione tra XV e XVI secolo. ---------- * ricorda che almeno nei primi secoli dell’età moderna l’Impero russo è sostanzialmente estraneo alle vicende interne all’Europa (per questo non è evidenziato in cartina) 70 Attenzione: la cartina mostra anche il regno della Navarra, che però verrà annesso solo nel 1512 (ne parleremo dopo) Il Portogallo conosce, nel XIV secolo, numerose e complesse vicende, che porteranno all’indipendenza dal confinante regno di Castiglia. Dopo la morte del re di Portogallo Ferdinando I (re dal 1367), nel 1383 si avvia una profonda crisi dinastica e gravi problemi di successione di cui approfitta il re di Castiglia Giovanni I per invadere il Portogallo. Il regno ha necessità di una forte leadership per fronteggiare le mire espansionistiche della Castiglia: nel 1385, dunque, le Cortes portoghesi affidarono la corona al Gran Maestro dell’Ordine di Aviz proclamato re di Portogallo con il nome di Giovanni I. Il regno di nuovo compatto e l’alleanza con l’Inghilterra permettono al giovane re di sconfiggere sonoramente gli avversari castigliani nella decisiva battaglia di Aljubarotta (1385) che afferma da quel momento l’indipendenza del Portogallo. Nel maggio del 1386 il Trattato di Windsor conferma l’alleanza che era sorta nella guerra fra i regni di Inghilterra e Portogallo, rinsaldata con il matrimonio tra Giovanni I e la figlia del Duca di Lancaster, Filippa di Lancaster. Il re persegue il compito di rendere stabile il regno dal punto di vista politico. In economia promuove la ricostruzione e il potenziamento della flotta, sviluppando in primo luogo il commercio con l’Inghilterra lungo le coste dell’Atlantico: l’alleanza anglo-portoghese è dunque un momento di svolta fondamentale per la crescita del commercio marittimo portoghese, fondato sulle scarse risorse del territorio lusitano. Il principe Enrico detto il Navigatore, figlio di re Giovanni, diviene Maestro dell’Ordine di Aviz ed è il promotore e l’organizzatore dei primi viaggi di esplorazione, scoprendo ed occupando Madera e le Azzorre (dove si impianta la canna da zucchero). Nel 1435 i portoghesi doppiano Capo Bojador e si spingono fino alla Guinea. Nel 1455 ottengono da papa Niccolò V il monopolio dell’esplorazione dell’Africa e proseguono l’esplorazione della costa occidentale, installandovi empori fortificati. Tra 1474 e 1479, il Portogallo combatte la sua guerra finale con la Castiglia. Nel 1474, la morte del sovrano castigliano Enrico IV apre una nuova crisi dinastica. Ci sono due eredi, Isabella di Castiglia e Giovanna, figlia del re del Portogallo Edoardo Aviz; il Portogallo appoggia dunque la proclamazione di Giovanna. Il 13 dicembre 1474 viene proclamata regina Isabella, avviando una guerra civile all’interno della Castiglia e il conflitto armato con il Portogallo, che si conclude con il Trattato di Alcaçovas (1479). Il trattato riconosce la sovranità della Castiglia sulle Isole Canarie, mentre al Portogallo riconosce il monopolio del controllo su tutte le altre isole dell’Atlantico e sul commercio dell’Africa occidentale e della Guinea. Ben presto riprendono le esplorazioni geografiche. Nel 1487 il navigatore Bartolomeo Diaz doppia la punta meridionale dell’Africa e risale per un breve tratto la costa orientale. Successivamente, Cristoforo Colombo propone inutilmente al re Giovanni II di finanziare il suo progetto di “buscare l’Oriente per l’Occidente” (ovvero raggiungere India, Cina e Giappone per via marittima). Trova invece l’appoggio 71 di Isabella di Castiglia e nell’agosto 1492 salpa da Palos con una caracca e due caravelle (Niña, Pinta e Santa Maria) e un equipaggio di 120 uomini. Il resto è storia. Situazione europea nel XV secolo: l’Impero germanico L’Impero germanico conosce importanti cambiamenti verso la metà del secolo: nel 1438 sono annesse le corone di Austria, Ungheria e Boemia, e nel 1439 avviene il cambio dinastico dai Lussemburgo agli Asburgo (che domineranno fino al 1806). Tuttavia, l’Impero, che doveva richiamare antiche e importanti tradizioni, non riusciva certamente ad eguagliare la grandezza degli esempi precedenti: rimaneva infatti un ammasso ingovernabile di popoli e lingue diversi sparsi in diverse entità territoriali (Stati territoriali, principati, città indipendenti, feudi “immediati”, cioè soggetti direttamente all’autorità imperiale) che occupavano gran parte dell’attuale Germania e la Boemia. Questi territori sono autonomi ma riconoscono (almeno teoricamente) l’alta sovranità dell’imperatore, che ha potere di indirizzo e di coordinamento all’interno dell’impero; ciò costituisce una fondamentale risorsa di legittimazione giuridica e politica, anche se a questa autorità universale non corrispondeva in genere ad una forza politica-militare dell’imperatore (almeno fino a Carlo V, quando parve avverarsi il sogno, o l’incubo, della rinascita imperiale). L’imperatore deve la propria dignità imperiale alla Dieta ristretta/elettorale, composta da 7 grandi elettori: 4 laici (re di Boemia e principi di Sassonia, di Brandeburgo e del Palatino) e 3 ecclesiastici (arcivescovi di Magonza, di Treviri e di Colonia). La Dieta ristretta costituisce uno dei tre collegi (collegio dei Principi elettori) della Dieta imperiale (allargata a tutti gli “ordini dell’Impero”), che costituisce il Reichstag; gli altri due collegi sono quello dei principi e quello delle città libere ed imperiali. Situazione europea nel XV secolo: la penisola italiana Nel XV secolo, la situazione nella penisola italiana è molto instabile, a causa delle continue tensioni tra i numerosi, piccoli e deboli staterelli regionali. Di quest’instabilità e fragilità interna approfitteranno presto le grandi monarchie in espansione. In questi anni, i principali staterelli protagonisti dello scenario politico italiano sono: - Repubblica di Venezia; - Ducato di Milano; - Repubblica di Firenze; - Regno di Napoli; - Papato. Le prime conflittualità sorgono già nel 1402, quando, con la morte di Gian Galeazzo Visconti, il ducato di Milano si disgrega. Ne approfittano Firenze, per espandersi in Toscana (occupazione di Pisa nel 1412), e Venezia, che avvia l’espansione nell’entroterra (Veneto orientale, Friuli, Istria e Cadore). Il regno di Napoli è invece indebolito dalle lotte dinastiche, finché nel 1442 viene acquisito da Alfonso V il Magnanimo di Aragona che lo riunisce temporaneamente al regno di Sicilia, già aragonese. Alla sua morte il regno di Napoli viene dato al figlio Ferrante e la Sicilia viene invece accorpata al regno di Aragona dove sale al trono il fratello di Alfonso, Giovanni. Il ducato di Milano riprende vigore con Filippo Maria Visconti, che ottiene il controllo di Genova e poi occupa Forlì, per contrastare l’espansione veneziana. Viene però sconfitto a Maclodio nel 1427 e con la pace di Ferrara (1433) cede Bergamo e Brescia ai veneziani e perde il controllo di Genova, che si dichiara libera. Negli stessi anni si afferma a Firenze il banchiere Cosimo de’ Medici che si allea con Venezia e Alfonso di Aragona contro Milano, ma poi rovescia le alleanze e dal 1450 si allea con Milano, dove si insedia Francesco Sforza. 72 Le tensioni trovano una pausa temporanea grazia alla pace di Lodi (1454), favorita dal papa Niccolò V; la pace sancisce l’equilibrio politico in Italia per un quarantennio. Protagonista di questa fase politica è il celeberrimo Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico (succeduto a Cosimo nel 1479), il quale promuove un’alleanza fra Firenze, Milano e Napoli per contrastare le mire espansionistiche di Venezia e dei due papi succeduti a Niccolò V (Sisto IV della Rovere e Innocenzo VIII). Fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1492 (anno della scomparsa anche di Innocenzo III, a cui succede il ben noto Alessandro VI Borgia), Lorenzo il Magnifico agisce, con abilità e prestigio, come “ago della bilancia” dell’equilibrio italiano. Scomparso lui, le tensioni riprendono, fomentate in particolare dalle mire espansionistiche di Venezia e di Milano. Entrambe le potenze sono pronte a invocare l’aiuto di potenze straniere pur di raggiungere i propri fini, commettendo però un gravissimo errore: gli costerà infatti caro l’aver sottovalutato le nuove dimensioni politico-militari delle grandi monarchie e il non aver tenuto sufficiente conto della fragilità interna della penisola italiana, che diverrà oggetto di contesa tra le grandi potenze e dovrà dunque rinunciare (per secoli) alla propria indipendenza. La prima fase delle guerre d’Italia (1494 – 1516) Così hanno inizio le guerre d’Italia, combattute tra le grandi potenze per ottenere l’egemonia nel territorio italiano. Le guerre d’Italia possono essere suddivise in due fasi. La prima occupa il periodo che va dal 1494 al 1516 e può essere così scandita: 1. Prima guerra d’Italia (1494 – 1498): Carlo VIII e la conquista del Regno di Napoli. Il re di Francia Carlo VIII intendeva far valere sul Regno di Napoli i diritti che gli derivavano dalla discendenza angioina. Chiamato in Italia da Ludovico il Moro, Carlo VIII ne approfitta per scendere nella penisola e occupare, senza praticamente incontrare resistenza, il regno di Napoli. Solo allora gli Stati italiani si rendono conto del comune pericolo che il regno francese rappresenta per la penisola: temendo lo strapotere di Carlo, a fine marzo viene dunque stipulata una Lega in funzione antifrancese che comprende la Repubblica di Venezia, Milano, Firenze, lo Stato pontificio, la Spagna e l’Impero. L’esercito francese viene cacciato dal regno di Napoli da parte delle truppe della Lega, formate prevalentemente da soldati spagnoli e veneziani. L’impresa di Carlo VIII si chiudeva con un nulla di fatto, ma aveva comunque mostrato la fragilità dell’assetto politico italiano e aperto la via a successive invasioni. 75 In Germania, come vedremo, Carlo V si trova subito a fare conti con il problema luterano, ma dopo il 1520 la sua attenzione è assorbita soprattutto dalle questioni italiane. Carlo mira infatti a conquistare il ducato di Milano, vitale collegamento tra i territori spagnoli e quelli germanici essendogli precluso il transito per la Francia; ecco dunque che riprendono le ostilità tra le potenze straniere in territorio italiano. Inizia così la seconda fase delle guerre d’Italia, o meglio la fase delle guerre franco-asburgiche in quanto la Francia (dominata dai Valois) e l’Impero di Carlo V d’Asburgo ne sono protagonisti. La scansione temporale è ancora più complessa della prima: 4. Quarta guerra d’Italia (1521 – 1526) (battaglia di Pavia) Le truppe di Carlo scendono a Milano nel 1521, che viene subito fatta evacuare dai francesi. Nel 1524 Francesco I cerca di rientrare a Milano, ma viene sconfitto a Pavia (1525). Portato in Spagna come prigioniero, Francesco I, per riottenere la libertà, è costretto a firmare l’oneroso trattato di Madrid (1526) con cui si impegna non solo a rinunciare per sempre al Milanese, ma anche a consegnare all’imperatore la Borgogna. 5. Quinta guerra d’Italia (1526 – 1530) detta della Lega di Cognac (Sacco di Roma) Francesco I però non rispetta i patti e organizza la lega di Cognac nel 1526 alla quale aderisce, oltre a Venezia, a Firenze e all’Inghilterra di Enrico VIII, anche il papa Clemente VII (della famiglia dei Medici). I francesi, però, tardano a intervenire in Italia, e nei primi mesi del 1527 circa 12.000 lanzichenecchi, quasi tutti di fede luterana, al servizio di Carlo V discendono la penisola senza incontrare resistenza. Ai primi di maggio i lanzi sono sotto le mura di Roma e, rimasti senza capi in seguito alla morte del conestabile di Borbone, entrano nella città eterna e la sottopongono a un orribile saccheggio. Il pontefice trova rifugio in Castel Sant’Angelo, dove rimane per diversi mesi in stato d’assedio. L’episodio fu interpretato da molti e presentato dalla stessa propaganda imperiale come un giudizio di Dio sulla Chiesa corrotta. In seguito al sacco di Roma, i fiorentini approfittano della disgrazia del pontefice per sollevarsi contro la signoria dei Medici e ristabilire un governo repubblicano. Nel 1529 Carlo V e Francesco I firmano la pace di Cambrai, che sancisce il ritorno dei Medici a Firenze e il dominio spagnolo su Genova e Milano dopo la morte del duca Francesco Sforza. A Milano viene insediato Francesco II Sforza, col patto che alla sua morte il Ducato sarebbe stato riunito ai domini imperiali. 6. Sesta guerra d’Italia (1535 – 1537) 7. Settima guerra d’Italia (1542 – 1544) Francesco I cerca di approfittare, in due occasioni diverse, delle difficoltà dell’imperatore, impegnato nel Mediterraneo contro i turchi e in Germania contro i protestanti, per riaccendere la guerra in Italia. La prima volta nel 1535 quando, dopo la morte di Francesco II Sforza, i francesi occupano la Savoia, in risposta alla presa di possesso di Milano da parte imperiale, e una seconda volta nel 1542. In entrambi i casi le ostilità hanno termine con la riconferma della situazione esistente. 8. Ottava guerra d’Italia (1551 – 1559) (Pace Cateau-Cambresis) (predominio asburgico-iberico) Le ostilità vengono riprese dal figlio di Francesco, Enrico II, nuovo re di Francia. Enrico II sposta il teatro dello scontro in Germania, dove appoggia i luterani. Nel 1555 viene firmata da Carlo V e i principi tedeschi la già menzionata pace di Augusta, che sancisce la divisione confessionale su base territoriale secondo il principio cuius regio, eius religio. Approfondiremo questa guerra parlando della Riforma protestante (in quanto ad essa strettamente connessa). Nel 1556 l’imperatore Carlo V abdica e si ritira in un monastero, dove morirà nel 1558. Prima di abdicare, Carlo V spartisce l’Impero tra i suoi due eredi, lasciando i territori ereditari degli Asburgo e i regni di Boemia e Ungheria al fratello Ferdinando 76 Dopo la battaglia di San Quintino (1557) vinta dagli spagnoli, la pace di Cateau-Cambrésis regola i rapporti tra Spagna e la Francia di Enrico II sancendo il dominio spagnolo sull’Italia (ducato di Milano, regno di Napoli, Sardegna e Sicilia). L’Europa alla vigilia della Rivoluzione francese L’Europa alla vigilia della Rivoluzione francese si presentava in questo modo: - La Francia aveva raggiunto il picco massimo della riforma assolutistica con Luigi XIV e i suoi successori; - L’Inghilterra anche aveva raggiunto una maturità stabile dal punto di vista politico, in seguito alle lotte intestine del Seicento e la nascita della monarchia parlamentare; - L’Italia era ancora sotto il dominio delle potenze straniere (nel 1814 nel Nord al dominio spagnolo si sarebbe succeduto quello asburgico); - La Spagna e l’Impero asburgico indebolivano le proprie strutture interne. Insomma, alla fine del Settecento le principali monarchie, quelle che avevano raggiunto il punto più maturo del processo di “modernizzazione” dello stato, erano Francia e Inghilterra. L’apparente “stabilità” non sarebbe però durata molto in Francia e nel resto d’Europa (esclusa l’Inghilterra): la Rivoluzione francese avrebbe sconvolto il panorama europeo, aprendo a una nuova fase che, per certi versi, ha inaugurato l’età contemporanea (la Rivoluzione è infatti precursore delle lotte d’indipendenza che segnano, secondo molti storici, l’inizio della “contemporaneità”). ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Seconda parte 5. Dalla guerra cavalleresca all’esercito moderno: la rivoluzione militare 77 Abbiamo già parlato di come il numero di guerre aumenti in età moderna e come l’aspetto militare sia fortemente legato all’affermazione degli Stati moderni. Non c’è da stupirsi, dunque, che il modo di fare la guerra e le caratteristiche degli eserciti cambino profondamente in questi secoli. È questa “rivoluzione militare” a costituire un altro dei temi che segnano l’età moderna. Vediamo allora di cosa si tratta. I principali mutamenti Tra Quattrocento e Cinquecento (periodo delle guerre d’Italia) si assiste a profondi mutamenti nel campo dell’arte della guerra e della tecnologia militare europea. Sono i vari i fattori di cambiamento che hanno portato gli storici a parlare di una vera e propria “rivoluzione militare” (come dicevamo prima): - Introduzione dell’artiglieria e sviluppo della tecnologia militare (navi; cannoni, pistole → polvere da sparo); - Ascesa delle fanterie, già importante nelle grandi guerre feudali del XV secolo, che comportò il declino della cavalleria feudale; - Nuove tecniche costruttive e cambiamenti significativi nell’architettura militare (ex. fortificazioni all’italiana, bastioni); - Generale aumento degli eserciti, che diventano permanenti; - Aumento dei costi di guerra; - Sviluppo di un vero e proprio mercato della guerra; - Maggiore impatto della guerra sulla società: c’era infatti bisogno di molte più risorse (materiali e umane) per sostenere guerre così durature ed eserciti permanenti. Quest’evoluzione è legata, oltre agli sviluppi tecnologici, è legata all’affermazione delle grandi monarchie europee, le sole in grado di sostenere i costi di guerre prolungate, di eserciti permanenti e di nuovi strumenti di guerra, non più alla portata dei signori feudali e delle piccole entità statali. L’affinamento della tecnologia militare, l’ascesa delle fanterie, lo sviluppo dell’architettura militare A rappresentare una vera e propria svolta fu la scoperta della polvere da sparo. Già nota in Cina, fu importata in Europa fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. La polvere da sparo era composta da salnitro (nitrato di potassio), zolfo e carbone di legna nel rapporto di 4-1-1 quando serviva per i cannoni e di 6-1-1 quando era impiegata per gli archibugi. Il salnitro, però, in natura non era poi così abbondante, mentre ne servivano larghi quantitativi: per scagliare una palla di cannone erano necessari 10 kg di polvere da sparo, cioè circa 6,5 kg di salnitro. Le necessità belliche del Cinquecento fecero sì che il prodotto venisse ottenuto artificialmente. Il procedimento era il seguente: si mescolavano residui organici azotati (in prevalenza escrementi di ovini) con della terra e poi si aggiungevano urina e calce, filtrando il composto con acqua, sottoponendolo infine a ripetute distillazioni. Come diretta conseguenza, nel corso del Trecento viene introdotta nelle guerre l’artiglieria. Da allora si inizia una lenta evoluzione, dalle primitive bombarde, larghe di bocca e molto corte, capaci di lanciare solo palle di pietra lungo una traiettoria quasi circolare, ai primi veri e propri cannoni della seconda metà del Quattrocento. Da arma buona soprattutto per operazioni d’assedio (anche se resterà tale assai a lungo), essa diventa un complesso di batterie mobili, grazie al loro affusto, atte a lanciare palle di bronzo con una gittata quasi rettilinea, d’una ben maggiore forza d’urto. Si afferma anche l’uso di armi da fuoco personali e a mano, prima archibugi, poi moschetti e pistole. Altri nuovi strumenti sono la balestra genovese e l’arco a lunga gittata inglese. Lo sviluppo della tecnologia militare è fortemente legato all’ascesa delle fanterie. Ve lo immaginate un cavaliere appesantito con armature di ferro usare un fucile? C’era bisogno di armature ben più leggere e meno ingombranti per potere sostenere questo sviluppo tecnologico. 80 mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nell’ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussono responsi oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano a essere preda di qualunque gli assaltava […] Ma quello che è peggio è che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine” (Dell’arte della guerra, Firenze 1519) Oltre a Machiavelli, si mosse su questa linea Francesco Guicciardini (1483-1540), nel quadro di un esame delle condizioni dell’Italia investita, tra la fine del secolo XV e i primi decenni del XVI, dalle lotte tra Francia e Spagna per il predominio europeo. Nella sua Storia d’Italia Guicciardini delinea, con grande senso pratico, il significato innovativo, dal punto di vista militare, della venuta di re Carlo di Francia in Italia. Ecco un passo: “Perché all’età nostra ha avuto molte varietà il governo della guerra: conciossiaché, innanzi che Carlo re di Francia passasse in Italia, sostenendosi la guerra molto più co’ cavalli di armadura grave che co’ fanti, ed essendo le macchine che si usavano contro alle terre incomodissime a condurre e a maneggiare, se bene tra gli eserciti si commettevano spesso le battaglie, piccolissime erano le uccisioni, rarissimo il sangue che vi si spargeva, e le terre assaltate tanto facilmente si difendevano (non per la perizia della difesa ma per la imperizia dell’offesa) che non era alcuna terra così piccola o così debole che non sostenesse per molti dì gli eserciti grandi degli inimici. [...] Ma sopravvenendo il re Carlo in Italia, il terrore di nuove nazioni, la ferocia de’ fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra tutto il furore delle artiglierie, empié di tanto spavento tutta Italia che a chi non era potente a resistere alla campagna niuna speranza di difendersi rimaneva. [...]” (Francesco Guicciardini, Storia d’Italia, 1537- 40, VI, Einaudi, 1971, III) Un altro passo significativo di Guicciardini sul nuovo modo di fare guerra, tratto dai suoi Ricordi: “Nacquono le guerre subite e violentissime, spacciando ed acquistando in meno tempo uno regno che prima non si faceva una villa; le espugnazione delle città velocissime e condotte a fine non in mesi ma in dí ed ore, e’ fatti d’arme fierissimi e sanguinosissimi. Ed in effetto gli stati si cominciorono a conservare, a rovinare, a dare ed a tôrre non co’ disegni e nello scrittoio come pel passato, ma alla campagna e colle arme in mano” (Francesco Guicciardini, Ricordi) Testimonianze letterarie della nuova guerra: il tramonto della “cavalleria” Furono numerosi i letterati in grado di cogliere questo profondo cambiamento nel fare guerra, delineando nel particolare il declino della cavalleria. Tra questi ci sono Erasmo da Rotterdam, Ludovico Ariosto, Miguel de Cervantes. Riportiamo un passo di Cervantes come esempio: “Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere, e che senza saper né come né da dove, nel pieno del vigore e dell’impeto che anima e accende i forti petti, arrivi una palla sbandata (sparata da chi forse fuggi, al bagliore di fuoco prodotto dalla maledetta macchina), e recida e dia fine in un istante ai sentimenti e alla vita d’uno che avrebbe meritato di averla per lunghi secoli. E quindi, considerando ciò, sto per dire che mi duole nell’anima d’aver abbracciato questa professione di cavaliere errante in un’età cosi odiosa qual è quella che oggi viviamo; perché sebbene a me non ci sia pericolo che faccia paura, ciò nonostante, mi esaspera il pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada, per tutto quanto il mondo conosciuto. Ma faccia 81 il cielo ciò che crederà, che se riesco nel mio proposito, sarò maggiormente stimato, per aver affrontato ben maggiori pericoli che non quelli ai quali si esposero i cavalieri erranti dei passati secoli” (M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. it. V. Bodini, Einaudi, 1972, voI, I, cap. 38, p. 431) Testimonianze artistiche dei cambiamenti della guerra Anche gli artisti, ovviamente, ebbero la sensibilità di cogliere e rappresentare i cambiamenti della guerra. Alcuni esempi (il primo quadro è un Paolo Uccello): Un artista che molto ebbe a che fare con la guerra fu Leonardo da Vinci, con una certa ambiguità: da un lato egli riteneva la guerra una “pazzia bestialissima”, dall’altro agiva come architetto e inventore militare al servizio dei principi. La “rivoluzione” militare: la lettura di Geoffrey Parker Lo storico britannico Geoffrey Parker, nella sua opera The Military Revolution, 1500–1800: Military Innovation and the Rise of the West (2a ed. 1996), dà una chiara lettura di questi fenomeni di cambiamento. Secondo Parker, si può parlare di una vera e propria rivoluzione militare, intendendo così una serie di cambiamenti rilevanti nel modo in cui si prepara e si conduce la guerra che segnano una svolta epocale. I seguenti fattori sono chiaramente individuabili e sono quelli che abbiamo già evidenziato, più alcuni non ancora menzionati: - Cresce quantitativamente l’esercito, secondo un fattore che sovente passa da n a 10n: nel corso del XVII secolo vi sono in Europa 10-12 milioni di soldati; - La composizione dell’esercito cambia: la cavalleria perde importanza e cambia ruolo. Diventa infatti arma tattica, subendo un mutamento di carattere qualitativo (leggera); - Le componenti sociali cambiano: i nobili non sono più cavalieri ma fanti, d’alto grado, così come i contadini (hidalgos); 82 - Aumenta la potenza degli eserciti: con il passaggio dall’archibugio al fucile (precisione e potenze di fuoco) e con la loro grande diffusione, subendo un cambiamento strategico che riguarda anche le artiglierie da campo (in Francia nel 1540, 500.000 libbre di polvere, 275 cannoni); - Si modificano le tecniche di difesa: l’ingegneria propone la trace italienne; - Un nuovo ruolo è affidato all’addestramento militare: non serve più solo la forza e la robustezza (esercito del 1300) ma anche la disciplina; - Massiccio aumento del costo della guerra: l’esercito inoltre diventa permanente; - Cresce del peso fiscale del militare sul bilancio statale (fino al 75-85%) e di conseguenza viene creato un sistema di tassazione permanente all’interno degli stati. Secondo Parker le maggiori innovazioni sono introdotte dalle Province Unite. Un fattore importante di cui non abbiamo parlato ma a cui Parker presta molta attenzione riguarda l’addestramento militare. Con la rivoluzione militare, infatti, la disciplina e la gerarchizzazione sono introdotte nell’esercito: l’ordine acquista importanza e la coordinazione tra i vari reggimenti e tra gli uomini è fondamentale. Nascono le accademie militari (la prima nel 1616 a Siegen, nell’Impero asburgico) e proliferano i trattati sulle tecniche della guerra, subitaneamente tradotti in tutte le lingue europee (in Russia c’è però una scarsa diffusione). Il soldato è dunque molto più tecnicizzato e disciplinato che in passato: Parker parla di una “industrializzazione del comportamento militare”. Un altro aspetto importante messo in evidenza da Parker è quello sociale. La composizione sociale dell’esercito, infatti, cambia inevitabilmente: da un lato per il declino del ruolo dei nobili feudali nella guerra, dall’altro per l’aumento degli eserciti che porta alla necessità di reclutare più risorse umane. Per questo vengono, ad esempio, introdotte iniziative di carattere sociale per il reclutamento di uomini e marinai (ad esempio in Francia il censimento ad opera di Colbert nel 1668 - 1670 di tutte le genti di mare della costa atlantica). Grazia alle innovazioni tecniche, inoltre, si sviluppa la guerra navale: da qui la necessità di disporre di infrastrutture (porti, cantieri, ecc.) adeguate all’uso ma molto costose (un altro motivo per l’aumento dei costi di guerra). Nel Medioevo infatti l’idea di nave militare non esiste: essa è introdotta solo nella seconda metà del Seicento e lo stesso vale per l’idea di porto militare. In sintesi, Parker individua 7 fattori chiave di trasformazione fra 1500 – 1800: 1. Una trasformazione organica segnata dal passaggio dagli eserciti temporanei agli eserciti permanenti e di grandi dimensioni; 2. Una trasformazione tattica che vede prevalere la fanteria sulla cavalleria dopo l’introduzione delle armi da fuoco; 3. Un mutamento strategico derivante dalla necessità di retribuire, alimentare e spostare sul territorio masse crescenti di uomini in armi. Da qui i legami sempre più stretti fra guerra, politica e diplomazia; 4. Un’accresciuta importanza del militare in seno alla società, soprattutto in rapporto allo Stato e alla finanza; 5. Il ruolo della tecnologia applicata alla guerra; 6. La funzione dell’architettura militare, in grado di ridisegnare il volto delle città fortificate; 7. Il nuovo ruolo della marina militare decisivo nell’espansione coloniale delle grandi potenze europee. Ci sono però alcune critiche che si possono muovere all’opera di Parker: - L’autore rivolge una scarsa attenzione all’interazione tra lo sviluppo degli eserciti e quello dello Stato moderno; 85 Nei primi decenni del Cinquecento si verificò nel cuore dell’Europa un evento destinato a segnare in modo indelebile tutta la storia moderna europea. La crisi istituzionale e morale della Chiesa rinascimentale provocò movimenti e molteplici istanze (ideologiche e sociali) che reclamavano una “riforma” della Chiesa: il ritorno alle origini del cristianesimo e la restaurazione dell’antica Chiesa degli apostoli. Si determinò dunque una aperta rottura dell’unità del cristianesimo occidentale e sorsero nuove chiese in concorrenza con la chiesa romana e papale: da qui la differenza con il “Grande Scisma d’Oriente” dell’XI secolo. La lacerazione confessionale interna può spiegare le efferate crudeltà e la dura ferocia dei tanti conflitti di religione che insanguinarono l’Europa sin dall’inizio della Riforma. È anche vero che sovrani e governi utilizzarono in maniera spregiudicata le motivazioni di carattere religioso (ripensa a Enrico II con Carlo V e alla pace di Augusta), sia per attuare all’interno della propria compagine statale strategie di disciplinata sottomissione della società civile al potere pubblico in fase di rafforzamento (“confessionalismo”) sia per affermare l’identità e l’autonomia del proprio Stato in concorrenza con gli altri. I mali della Chiesa Tracciamo prima di tutto un background del contesto in cui si affermò la Riforma, iniziando dalla situazione della Chiesa di Roma alla vigilia del Rinascimento. Il papato tra XIV e XV secolo si trovava in una situazione critica. La Chiesa aveva ormai consolidato il proprio potere temporale, creando uno Stato pontificio, ma dovette far fronte a due grandi problemi che misero in crisi la sua autorità: in primo luogo lo Scisma d’Occidente, che, nello scontro tra papi e antipapi, mise in crisi l’autorità papale per quasi quarant’anni (1378 – 1415); in seconda istanza, le contese per il primato tra il papato e i concili di Costanza e di Basilea. La Chiesa era poi dilaniata da numerosi problemi interni: - Prima di tutto, la corruzione dei costumi ecclesiastici, derivata dal legame tra potere religioso e potere secolare. Gli interessi politici e mondani prevalsero sempre di più rispetto a quelli pastorali; - L’assenteismo del clero. Si era progressivamente lacerata la rete territoriale della giurisdizione spirituale del clero sui fedeli: diocesi, pievi, parrocchie spesso sopravvivevano come semplici ripartizioni e non come uffici veramente funzionanti; - Il drenaggio di risorse verso Roma, che contribuì alla trasformazione urbanistica di Roma “Capitale” ma privò gli altri territori dello Stato pontificio di mezzi; - Gli stessi ordini mendicanti vissero una crisi, che iniziarono ad essere sottoposti a vari tentativi di riforma per riportare le famiglie conventuali all’“osservanza” delle regole iniziali. Culti e credenze della religiosità popolare La Chiesa, dunque, interessata a proteggere il proprio potere temporale, non esercitava quel controllo pervasivo che l’avrebbe caratterizzata poco dopo: alle soglie dell’età moderna la religiosità popolare era così una miscela di elementi assai diversi. È importante parlarne soprattutto per capire il ruolo che avrebbero poi avuto, di lì a poco, la Controriforma e il confessionalismo nell’imporre una rigida ortodossia, con lo scopo di evitare la nascita di nuovi movimenti religiosi (obiettivo principale della Chiesa) e di realizzare uno stretto controllo della società (obiettivo principale dello Stato). Prima di tutto, sopravvivevano le antiche religioni pre-cristiane, sia come credenze sia come riti. Anche nelle stesse grandi festività cristiane non mancavano rituali pagani e antichi costumi, così come nelle tappe fondamentali dell’esistenza, seppure segnate da sacramenti (battesimo, matrimonio, estrema 86 unzione). Si manifestavano così i limiti della cristianizzazione medievale che pure aveva elaborato alcune forme di controllo (libri di battesimi, obbligo della comunione annuale) che tuttavia l’assenteismo del clero aveva progressivamente vanificato. Il cristianesimo delle origini era spesso sceso a compromessi con la mentalità popolare; ad esempio, la Chiesa ufficiale nel corso del Medioevo aveva accettato la nascita di due particolari mondi dell’Aldilà: il Limbo e il Purgatorio. Inoltre, la religiosità popolare aveva avuto il suo fulcro non tanto nella fede in Gesù, quanto nel culto della Madonna e dei Santi, intercessori presso Dio sia per sollecitare la salvezza eterna, sia per sollecitare interventi risolutori e taumaturgici nelle stesse faccende terrene. Anche i resti umani e gli oggetti di Gesù, della Madonna e dei Santi (le loro «reliquie») erano impregnati del potere di intercessione ed erano anch’essi oggetti di culto (ai limiti, a volte, dell’adorazione sacrilega); le stesse immagini sacre assolvevano alle stesse funzioni. La crescita di forme di fanatismo, conseguente all’indebolirsi del controllo della gerarchia episcopale sulla religiosità popolare, fece sviluppare anche alcune tendenze più ferocemente avverse ad ogni diversità, come l’intolleranza anti-semita, l’ossessione delle streghe, ecc. Era dunque cresciuto il “bisogno del sacro” da parte delle popolazioni in un mondo profondamente insicuro e di fronte a una Chiesa in crisi: da qui il successo delle predicazioni (veri e propri spettacoli di massa; ex. Savonarola) e i confini spesso incerti fra pratiche religiose e pratiche magiche. Nuove esigenze di riforma della Chiesa e di spiritualità interiore. Il preludio della Riforma L’attesa di una riforma della Chiesa, che la riportasse alla purezza e alla povertà delle origini, da tempo era dunque presente nelle coscienze dei fedeli. L’esigenza di una riforma della Chiesa era sentita dal popolo quanto dagli intellettuali, animati da una volontà che si potrebbe definire “umanistica” di ristabilire l’autenticità del messaggio cristiano attraverso lo studio diretto dei testi sacri. Il bisogno diffuso in tutta Europa di una religiosità più intensa, di una vita più conforme alle massime evangeliche, è testimoniato dal successo delle rivolte sociali religiose (come quella di Savonarola) e di movimenti come la Devotio moderna nelle Fiandre e nei paesi renani, ispirata all’opera De imitatione Christi del mistico tedesco Tommaso da Kempis (1380 ca – 1471). La Devotio moderna cercò di rispondere alle ansie spirituali di molti fedeli e si diffuse in alcune associazioni di laici dedite all’istruzione dei giovani note come i “Fratelli della vita comune”. Essa si fondava sull’imitazione personale delle virtù di Cristo, sulla preghiera, sulla meditazione, sul rapporto diretto con le sacre scritture, sull’ascetismo e sulla ricerca della interiorità come via alla perfezione (unione intima con la divinità). Nella radicalizzazione della divisione fra le confessioni cristiane, la Devotio sopravvisse come richiamo all’unità religiosa e all’auto-riforma individuale Erasmo da Rotterdam e l’evangelismo cristiano La Devotio influenzò fortemente non solo molti dei primi riformatori cinquecenteschi, ma anche numerosi umanisti e studiosi delle sacre scritture. Non esiste infatti solo un Umanesimo laico, ma anche un Umanesimo cristiano; non bisogna dimenticare che l’invenzione della stampa permise una maggiore diffusione della Bibbia e degli scritti religiosi. Tra gli esponenti più significativi di quest’indirizzo si può ricordare l’inglese Thomas More (Tommaso Moro), l’autore della celebre Utopia (1516), descrizione di una società immaginaria basata sull’amore tra gli uomini e sulla comunione dei beni. Il rappresentante più autorevole dell’Umanesimo cristiano, però, fu l’olandese Erasmo da Rotterdam (1469 ca. – 1536). Nella sua produzione, Erasmo seppe unire l’amore per la filologia con la religiosità della Devotio moderna tipica della sua patria. Il collegamento fra questi due aspetti fondamentali del suo pensiero fu una capacità di osservare la realtà alla luce di 87 una critica sottile e vigile, ma non pessimistica. Da filologo propendeva inoltre per un’interpretazione “morale” del messaggio cristiano e non per un’interpretazione letterale e rigorosa della Bibbia. Secondo Erasmo, per tornare allo spirito originario del cristianesimo è necessario epurare le Sacre Scritture da tutte le incrostazioni e gli errori introdottivi da secoli di ignoranza e superstizioni (da combattere con l’istruzione). Egli propone il valore di una fede vissuta interiormente senza mediazioni sacerdotali, grazie alla quale ogni fedele può instaurare un rapporto diretto con Dio. Nelle sue opere è anche presente una mordace polemica nei confronti della corruzione imperante nella corte pontificia e contro tutte le manifestazioni esteriori del culto. Forse il contributo maggiore di Erasmo fu la sua edizione critica del testo greco e latino del Nuovo Testamento (1516), che servirà a Lutero per la sua traduzione della Bibbia in tedesco. Il cristianesimo di Erasmo era tuttavia un ideale di vita pratica piuttosto che un insieme di dogmi, e, da fautore del primato della pace e della concordia sull’esasperazione delle controversie religiose, egli non volle mai separarsi ufficialmente dal cattolicesimo romano. Nonostante ciò, le sue opere verranno messe nell’Indice dalla Chiesa di Roma: nel clima della Controriforma non vi sarà più posto per la sua proposta di un cristianesimo ragionevole, di una riforma religiosa e morale ispirata al Vangelo. L’eredità erasmiana rivivrà semmai nella cultura europea del tardo Seicento e del Settecento, quando i conflitti religiosi avranno perso la loro asprezza. Il fallimento riforma dall’alto Prima dello scoppio della Riforma luterana, ci furono da parte della Chiesa dei tentativi di riforma, che però furono destinati a fallire. Un esempio: nel 1513, i nobili veneziani e monaci eremiti camaldolesi Vincenzo Querini e Tommaso Giustiniani indirizzarono al neoeletto papa Leone X un libello (Libellus ad Leonem X) in cui proponevano un articolato progetto di austere e rigorose riforme ecclesiastiche; si cercò di realizzare queste riforme con il Quinto Concilio Lateranense (1512-1517): alle parole ed agli impegni, però, non seguirono fatti concreti. La situazione era ormai troppo grave, i mal della Chiesa troppo radicati, e ci sarebbe potuto essere un cambiamento solo attraverso un intervento radicale (che fosse pacifico come voluto da Erasmo o, come fu, conflittuale come voluto da Lutero). La dottrina luterana Questi principi alla base della dottrina luterana sono: Il grande protagonista della Riforma fu, ovviamente, Martin Lutero (Martin Luther). Lutero era nato nel 1483 ad Eisleben, cittadina della Turingia, una regione interna della Germania dove dominava una religiosità ancora medievale, coi suoi toni cupi e i suoi terrori del diavolo e del peccato. Nel 1505 ebbe una crisi religiosa e decise di farsi monaco. Per dare una risposta ai propri dubbi religiosi si dedicò gli studi teologici; conseguito il grado di dottore, nel 1513 intraprese l’insegnamento teologico a Wittenberg, in Sassonia. È in questo periodo che teorizza i principi di quella che sarà una nuova dottrina cristiana, che prenderà il nome di dottrina luterana o protestante. 90 - Non bisogna poi dimenticare le motivazioni sociali: il conflitto religioso diventa infatti pretesto anche di numerose rivolte sociali (come d’altronde era già accaduto, pensa sempre al caso di Savonarola). Vedremo presto qualche esempio; - Infine, si aggiunge anche un fattore culturale: la Riforma, infatti, come abbiamo già spesso detto, non sarebbe mai nata se le tesi di Lutero non fossero state diffuse attraverso la stampa. Conseguenze politiche e sociali della predicazione luterana: la guerra dei contadini La “libertà del cristiano”, che Lutero interpretava solo come religiosa e interiore (grazie alla fede e alle scritture), in certi ambienti fu invece interpretata in senso politico e sociale. Un primo esempio è rappresentato dalla rivolta dei cavalieri, a cui abbiamo già accennato, ma l’esito più sanguinoso e drammatico fu quello della guerra dei contadini. Nelle campagne furono soprattutto i motivi evangelici dell’uguaglianza tra gli uomini e della polemica contro i ricchi e i grandi della terra a fare colpo e a rafforzare il movimento di rivolta. Fin dal 1520 alcuni seguaci di Lutero cominciarono ad aizzare le folle non solo contro il clero e le istituzioni romane, ma anche contro tutte le ingiustizie e tutte le forme di oppressione: riforma religiosa e riforma sociale erano infatti strettamente congiunte per questi predicatori, che si proponevano di instaurare sulla terra il regno di Dio, basato sulla fratellanza e sui principi del Vangelo. Tra questi era il “profeto” di Zwickau, Thomas Müntzer (1488 ca – 1525), un parroco visionario che, dopo aver peregrinato da una città all’altra, stabili a Mühlhausen, in Turingia; qui nella primavera del 1525 si pose alla testa di una sollevazione popolare che diede vita a un governo cittadino basato sull’uguaglianza universale e sulla comunione dei beni. Già da parecchi mesi, ormai, infuriava in varie regioni della Germania uno stato di ribellione noto come guerra dei Contadini. Dai focolai iniziali, accesi nel 1524 in Svevia e lungo il Reno, la rivolta dilagò rapidamente verso molte regioni della Germania. Gli insorti non erano spinti tanto dalla miseria (era diffusa in quelle regioni la piccola e media proprietà contadina), quanto dalla volontà di ristabilire gli “antichi diritti” contro le recenti usurpazioni dei signori (in molti casi ecclesiastici) che tendevano ad accrescere i prelievi feudali e a impadronirsi dei beni e delle risorse comuni, di difendere l’autonomia della comunità di villaggio, di realizzare la morale evangelica. Il carattere in fondo moderato delle loro rivendica- zioni economiche, ma anche il loro utopismo e millenarismo religioso trovano conferma nei “Dodici articoli dei Contadini” pubblicati nel febbraio 1525 a Memmingen e fatti propri da gran parte del movimento. Nei Dodici articoli, le rivendicazioni sociali si affiancavano a quelle di tipo religioso: - Abolizione della servitù della gleba; - Ripristino dei diritti usurpati delle comunità rurali; - Terre comuni per il pascolo, uso dei boschi, diritti di caccia e pesca; - Nomina dei propri pastori religiosi; - Richiami al messaggio di uguaglianza e di liberazione presente elle Sacre Scritture. Alla sollevazione presero parte, spesso con parole d’ordine più radicali, anche gli strati inferiori di molte città. Un esempio è la rivolta guidata da Michael Gaysmair che all’inizio del 1526 redasse una “Costituzione tirolese” di orientamento radicale in cui si proponeva un regime di tipo comunistico. Il ruolo di non contadini, in particolare dei predicatori, fu essenziale nel guidare il movimento che coinvolse le comunità di villaggio. L’unione fu trovata non tanto e non solo nella protesta sociale quanto in una ideologia e in una legittimazione universali che si richiamavano alla “legge Divina” nella breccia aperta dalla predicazione luterana e nell’egualitarismo contenuto nei messaggi evangelici. Le violenze e i saccheggi perpetrati dai rivoltosi e il pericolo di un sovvertimento delle gerarchie sociali indussero i principi, i prelati, la nobiltà e i ceti urbani superiori a serrare le file e ad armarsi per stroncare 91 il movimento, indebolito dalla mancanza di unità delle bande contadi e, che operavano ciascuna nel proprio territorio. Decisiva fu la sconfitta subita dagli insorti a Frankenhausen, in Turingia, il 15 maggio 1525; Thomas Müntzer, che aveva preso parte alla battaglia, venne catturato e messo a morte dopo atroci torture. La repressione fu durissima. Almeno centomila, secondo i calcoli più attendibili, furono i contadini e i popolani massacrati durante e dopo gli scontri. Lo stesso Lutero, in uno scritto pubblicato nel maggio 1525 e intitolato Contro le bande brigantesche e assassine dei contadini aveva esortato i principi e i signori a colpire, scannare e massacrare in pubblico o in segreto i sediziosi. La condanna della ribellione aperta era in fondo coerente con la visione ancora medievale che Lutero aveva dell’autorità di principi e magistrati, istituita da Dio per mantenere l’ordine e reprimere i malvagi, e con la netta distinzione che egli operava tra la libertà interiore del cristiano e il suo dovere esteriore di obbedienza ai superiori e alle leggi. Il movimento e le sue rivendicazioni non fallirono dappertutto nonostante la sconfitta militare e i massacri. In alcune realtà i contadini ottennero contratti scritti, come in Alta Svevia, dove furono soppresse alcune decime e ridotti gli obblighi di lavoro. I conflitti in Germania tra i principi protestanti e Carlo V Come anticipato, molti principi abbracciarono la Riforma protestante allo scopo di liberarsi dal peso dell’autorità imperiale. Sebbene avesse messo al bando Lutero mediante il già richiamato editto di Worms, l’imperatore Carlo V si dimostrò piuttosto restio ad impiegare la forza nella risoluzione del conflitto con i protestanti. Anzi, egli rimase a lungo fiducioso nella possibilità che un concilio universale appianasse le divergenze in materia di fede: a tale scopo, l’imperatore convocò nel 1530 una Dieta nella città imperiale di Augusta. Qui Filippo Melantone redasse una professione di fede, la prima esposizione ufficiale dei principi del protestantesimo luterano (la Confessio Augustana), a cui aderì la maggior parte delle città e dei principi riformati. Ogni possibile accordo, al di là degli auspici dell’imperatore, fu frenato dall’intransigenza dei teologi cattolici cui ne fu affidato l’esame. Carlo V intimò ai protestanti di sottomettersi; per tutta risposta, essi stipularono un’alleanza difensiva, la Lega di Smalcalda (1531). Il conflitto andò avanti negli anni successivi, e neppure la schiacciante vittoria riportata da Carlo V sulla Lega di Smalcalda a Mühlberg nel 1547 riuscì a porgli termine, tanto più che il nuovo re di Francia Enrico II, come già abbiamo avuto modo di dire, allacciò subito contatti con i protestanti tedeschi e con il sultano turco per mettere in difficoltà l’Asburgo. Nell’autunno del 1551 fu stipulato un accordo segreto in base al quale Enrico II avrebbe garantito il suo appoggio diplomatico e militare ai principi protestanti in cambio dell’acquisto dei vescovati di Metz, Toul e Verdun. Carlo V fu colto alla sprovvista dalla ripresa delle ostilità, che però a parte inizialmente non ebbero molto rilievo, anche perché ai principi tedeschi stava a cuore, più che la vittoria della Francia, un’intesa con l’imperatore che salvaguardasse la loro autonomia politica e religiosa. Le trattative in merito furono condotte dal fratello di Carlo V, Ferdinando, e sfociarono nella già menzionata pace di Augusta (25 settembre 1555). Con essa venne riconosciuta l’esistenza in Germania di due diverse fedi religiose, quella cattolica e quella luterana: mentre nelle città imperiali era ammessa la loro convivenza, i principi territoriali potevano imporre il proprio credo ai sudditi, i quali non avevano altra scelta se non convertirsi o emigrare (cuius regio, eius religio). La pace di Augusta sanciva così al tempo stesso la scissione religiosa della Germania e un grave indebolimento dell’autorità imperiale. I veri vincitori della lunga lotta erano i principi, non solo luterani ma anche cattolici (ben presto rafforzati, questi ultimi, dalla Controriforma), che consolidarono il proprio potere all’interno dei rispettivi territori e conferirono gradualmente ai propri Stati quel volto 92 insieme paternalistico e poliziesco che avrebbe a lungo caratterizzato la vita della Germania. A causa di questa disfatta, che segnò la fine del suo sogno di realizzare un unico impero cattolico, come sappiamo Carlo V abdicherà. La Chiesa luterana Il ruolo tenuto dai principi nella difesa della Riforma e nella repressione dei movimenti rivoluzionari ebbe uno sbocco naturale nell’organizzazione delle chiese riformate. La nascita di una Chiesa luterana non deve stupirci: d’altronde, uno degli obiettivi principali dei principi protestanti era quello di esercitare un controllo maggiore attraverso la religione (oltre che di ottenere maggiore indipendenza dall’imperatore cattolico). Nonostante le simpatie di Lutero verso un tipo di “Chiesa invisibile” (cioè dei giusti scelti da Dio), egli collaborò con il già menzionato Melantone nella costruzione di una nuova organizzazione ecclesiastica territoriale. Ciascun principe ebbe il ruolo di vigilare sulla chiesa del suo dominio, controllando l’ordinamento, la gestione e l’integrità della fede (una sorta di “vescovo esterno”). In queste funzioni sarebbe stato coadiuvato da un “Concistoro” da lui nominato e formato di giuristi e teologi; più sotto stavano i “sovrintendenti”; alla base i “pastori” incaricati dell’istruzione religiosa, della predicazione e delle pratiche di culto. Ben presto però i “sovrintendenti” furono sostituiti da nuovi “vescovi”, che avevano funzioni anche di “visitatori” e di controllo sui pastori. La Chiesa luterana assunse quindi un duplice aspetto: - Una chiesa statale, legata e subordinata al potere politico territoriale; - Una chiesa episcopale, cioè gerarchizzata e non comunitaria. Gli sviluppi dottrinari della Riforma: anabattismo Dal luteranesimo si svilupparono altre dottrine protestanti (cioè in contrasto con l’insegnamento della Chiesa cattolica), che riscossero anch’esse discreto successo. Tra queste, le più importanti sono l’anabattismo, il zwinglianismo e il calvinismo. Vediamo in cosa consistono, iniziano dall’anabattismo. La corrente più radicale della Riforma sopravvisse alla disfatta dei contadini e di Müntzer soprattutto grazie all’azione dei gruppi anabattisti. Questo termine, che significa “ribattezzatori”, si riferisce all’uso di somministrare il battesimo agli adulti, giacché secondo costoro solo l’adesione consapevole del soggetto rendeva valido il sacramento. Dalla Svizzera, questa dottrina si propagò lungo il Reno fino ai Paesi Bassi e trovò seguaci in varie parti della Germania e nel Regno di Boemia. I gruppi anabattisti: - Avevano una base popolare; - Disconoscevano le autorità terrene (ed erano dunque contrari al controllo dello stato sulla chiesa); - Riconoscevano solo la legge delle Sacre Scritture; - Erano contrari alla proprietà terrena e miravano a formare comunità basate sulla fratellanza, sull’aiuto reciproco e sulla comunione dei beni; - Credevano nell’illuminazione diretta da parte dello Spirito Santo. Nonostante le persecuzioni di cui furono oggetto, essi rimasero per lo più costanti nel rifiuto della violenza. Nel febbraio 1534, però, gli anabattisti provenienti dall’Olanda che si erano stanziati a Münster, in Vestfalia, si impadronirono del governo della città e vi imposero con la forza le proprie regole, introducendo oltre alla comunione dei beni anche la poligamia. Per sedici mesi resistettero all’assedio del principe vescovo e delle forze sia luterane sia cattoliche accorse in suo aiuto; la 95 Un altro importante aspetto della dottrina calvinista è la stretta connessione tra vita religiosa e istituzioni politiche. La vera Chiesa, per Calvino, è una Chiesa non “invisibile”, come voleva Lutero, ma “visibile”, una congregazione di fedeli legati dalla comune pratica del culto e dalla comune appartenenza a uno Stato o una città. La Chiesa, dunque, è formata unicamente dagli eletti, i soli che possono realizzare sulla terra il regno del Signore subordinando la vita politica alle istanze della religione. Le autorità ecclesiastiche sono di conseguenza anche autorità civili: non esiste distinzione tra potere temporale e potere religioso. Inoltre, Calvino rifiuta il modello episcopale, e nella sua opera Ordinanze ecclesiastiche (1541) illustra un nuovo modello di Chiesa in cui non esiste una gerarchia ecclesiastica basata sul sacramento dell’ordine (che d’altronde rifiutava), ma solo una suddivisione di compiti tra: - Pastori, che predicano e amministrano i sacramenti; - Dottori, che insegnano nelle scuole e formano i pastori; - Anziani, che vigilano sul comportamento dei fedeli; - Diaconi, con compiti amministrativi e di cura per i poveri. L’organo supremo della Chiesa è il Concistoro, formato dai dodici anziani e da un numero minore di pastori. A partire dal 1541, Calvino consolidò a Ginevra la sua Riforma, forgiando la società ginevrina come quella che sempre più doveva apparire come una “repubblica di santi”. Nella città così riformata venne introdotta una disciplina ferrea, che comportava per esempio la proibizione delle osterie, dei balli, dei nomi di battesimo non contenuti nella Bibbia, e prevedeva pene severe (compreso il rogo) per ogni infrazione alla dottrina e alla morale. I recalcitranti e i dissidenti, dopo scontri anche armati, vennero costretti ad andarsene, e venne in compenso incoraggiata l’immigrazione di profughi per motivi religiosi dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna. L’istituzione di un’Accademia per la formazione dei pastori contribuì a fare di Ginevra il centro d’irradiazione di una fede intransigente ed eroica, pronta al martirio e alla ribellione per affermare la gloria del Dio sovrano e instaurare il “governo dei santi”. Le principali aree europee di diffusione del calvinismo furono la Francia (ugonotti), i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e l’Europa orientale (Polonia, Boemia, Ungheria) e non a caso in molti di questi Paesi esso avrà parte importante nello scoppio di moti rivoluzionari. Riassunto: le confessioni protestanti Il “protestantesimo” è una branca del cristianesimo moderno, sorta nel XVI secolo e in particolare a partire dalla pubblicazione delle 95 tesi di Lutero. La caratteristica che accomuna tutte le dottrine protestanti è il porsi in aperto contrasto con la Chiesa cattolica. Le principali confessioni protestanti sono: - La teologia luterana - Solo la fede nella promessa di Dio è efficace per la salvezza; - Le opere non mutano la volontà di Dio, ma devono essere compiute per amore del prossimo; - Sacerdozio universale; - Libero esame della Parola rivelata. - La teologia calvinista - La predestinazione divina divide la società umana in eletti e dannati; - Nella fede e nelle opere l’uomo ricerca i segni della sua elezione; - Il lavoro è servizio di dio per la costruzione di una società di uomini giusti. 96 Accanto alle due principali confessioni si svilupparono molte confessioni autonome, che finirono per diventare vere e proprie sette religiose. Esse invocarono il principio della libertà di coscienza in materia di fede. La Riforma in Inghilterra In Inghilterra (come nei Paesi scandinavi, di cui però non tratteremo), i mutamenti in campo religioso sono inscindibilmente legati al processo di costruzione di un’unità nazionale e di un forte potere monarchico. Nel 1528 il re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor (succeduto a Enrico VII nel 1509), alleato della Francia nella Lega di Cognac contro l’imperatore, chiese al pontefice l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona, zia di Carlo V, che non gli aveva dato il sospirato erede maschio. Clemente VII non si sentì di accogliere la domanda e allora Enrico, per ragioni dinastiche e di rafforzamento del potere regio, ma pungolato anche dall’infatuazione per una dama di corte, Anna Bolena, decise di fare da sé. Nel 1529 convocò un Parlamento da cui ottenne non solo l’annullamento del matrimonio, ma anche la rottura di tutti i vincoli di dipendenza da Roma e l’approvazione nel 1534 dell’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo” della Chiesa d’Inghilterra. Artefice principale dello “scisma anglicano” era stato il potente primo segretario di Enrico VIII, Thomas Cromwell. Caduto in disgrazia, Cromwell fu accusato di tradimento e giustiziato nel 1540 (la stessa sorte toccò ad Anna Bolena, la seconda delle sei mogli di Enrico VIII). Dal punto di vista religioso, la vera riforma ebbe luogo durante il breve regno di Edoardo VI (1547- 1553), nato dalla terza moglie di Enrico VIII, Jane Seymour. La dottrina calvinista si diffuse allora largamente in Inghilterra e ispirò la redazione di un Libro di preghiere comuni e la formulazione dei Quarantadue articoli di fede. Invano Maria Tudor, che succedette a Edoardo e sposò il re di Spagna Filippo II, si sforzò di riportare l’Inghilterra alla fede cattolica con numerose condanne a morte inflitte ai protestanti, che le meritarono il soprannome di Maria la Sanguinaria. Dopo la sua morte, sotto il regno di Elisabetta I assumerà una forma definitiva la Chiesa anglicana, separata da Roma e soggetta all’autorità del sovrano. La religione e lo Stato moderno Come evidenzia il caso inglese ma anche quello dei principi tedeschi, il processo di affermazione degli Stati moderni si legò inevitabilmente alla Riforma protestante. D’altronde, in un mondo che concepiva una solida coerenza tra autorità politica e religiosa, la frantumazione politica dell’Europa in stati territoriali doveva accompagnata dalla divisione religiosa. Carlo V fu l’ultimo imperatore a tentare la restaurazione dell’impero universale, che doveva riunire tutto il mondo cattolico sotto un unico potere. Il suo progetto, come abbiamo visto, fallì per l’opposizione della monarchia francese e per la Riforma protestante. Dopo la fine del regno di Carlo V, la geografia delle religioni in Europa era più o meno questa: 97 “Riforma cattolica” o “Controriforma”? Con il termine “Controriforma” si designa un complesso insieme di movimenti, istituzioni e iniziative messe in atto tra Cinquecento e Seicento nella Chiesa cattolica romana, sia in risposta al dilagare della Riforma protestante (al fine di arginarne la diffusione e riconquistare territori sottratti al controllo romano), sia come conseguenza delle esigenze di riforma interna e rinnovamento religioso emerse già a partire dai concili del XV secolo. Il concetto di “Controriforma”, coniato in Germania alla metà degli anni Settanta del XVIII secolo, tuttavia, è uno dei più dibattuti dalla storiografia degli ultimi due secoli. Gli studiosi cattolici del XIX secolo, cogliendone l’implicita connotazione negativa volta a sottolineare la volontà di reazione e di conservazione rispetto alla “Riforma protestante”, gli contrapposero quello di “Riforma cattolica”, ritenuto invece più adatto a valorizzare il carattere di autonomo movimento di rinnovamento nato all’interno della Chiesa romana stessa, soprattutto in Italia e Spagna. Si può dire che le due definizioni tengano conto, distintamente, delle due diverse anime che in questo periodo si contrapposero e convissero in ambito cattolico: - Spinte repressive e intransigenti in contrapposizione ai protestanti e alle eresie in genere (“Controriforma”); - Rinnovamento spirituale, disciplinare e organizzativo della Chiesa (“Riforma cattolica”). Quello che è certo è che sia la Riforma protestante sia la Controriforma si verificarono in un periodo in cui, in tutta Europa, i fedeli avvertivano un’acuta necessità di rinnovamento religioso. Il Concilio di Trento Nonostante lo spirito di rinnovamento che animava dall’interno la Chiesa cattolica (presente già da tempo ma fattosi più vivo con la Riforma protestante), incarnato soprattutto dalla nascita di nuovi ordini religiosi (come quello dei gesuiti) e dalla riforma dei vecchi, non si può negare l’assunzione da parte della Chiesa di Roma di un atteggiamento più repressivo, duro e intransigente verso l’esterno, cioè nei confronti delle dottrine protestanti e delle “eresie”. Questa tendenza è ben incarnata dal noto Concilio di Trento. Di fronte alla sempre maggiore diffusione della Riforma protestante, si fece sempre più viva l’esigenza della convocazione di un concilio ecumenico (esteso cioè a tutta la cristianità), sollecitata dall’imperatore (per esigenze di pacificazione con i principi tedeschi) ma prima rifiutata da Clemente VII e poi procrastinata da Paolo III Farnese, che voleva assicurarsene lo stretto controllo. Paolo III annunciò infine la convocazione del concilio per l’anno successivo, secondo i seguenti obiettivi:
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