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Dispensa di TEORIA E TECNICHE DELLA COMPOSIZIONE DRAMMATICA, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto della dispensa di "Teoria e tecniche della composizione drammatica" (A.A. 2020-2021); a cura di G. Guccini.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Dispensa di TEORIA E TECNICHE DELLA COMPOSIZIONE DRAMMATICA e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! I PARTE “SCRITTURA SCENICA” E FENOMENO REGISTICO 1.1 La regia e le dinamiche tradizionali dello spettacolo teatrale L’avvento del teatro di regia ha comportato una serie di fratture nelle dinamiche tradizionali della rappresentazione teatrale, che individuavano nello spettacolo l’esito di una sinergia tra il testo e l’ensemble degli attori. L’ensemble, in questa concezione di lunga durata, doveva replicare e integrare con gli strumenti della rappresentazione scenica il processo imitativo svolto dall’autore nei riguardi della rappresentazione drammatica e dei personaggi, i cui modelli comportamentali, verbali, e di pensiero erano ricavati dal mondo reale. La realtà è dunque il cardine concettuale ed empirico delle drammaturgie tradizionali. Tuttavia, per quanto il testo possa rifarsi a elementi di realtà, ciò che procede dal lavoro degli attori è comunque la diversa realtà del teatro: finzionale, se riferita alle azioni imitate dal testo; vera e autentica, se considerata in quanto celebrazione collettiva di avvenimenti pregnanti per la comunità e nodo relazionale fra autore/ensemble/pubblico. Dunque, durante il processo compositivo, l’autore fa riferimento sia alle realtà del sociale sia a quelle del contesto teatrale, elaborando così un esito testuale che, attivato dal lavoro scenico dell’ensemble, costituisce una nuova realtà teatrale, a sua volta suscettibile di percezioni e riprese imitative. Fra le realtà in entrata e le realtà in uscita si evidenziano così diverse possibilità d’interazione l’autore, ad esempio, può modificare i riferimenti scenici innestandovi imitazioni dirette del reale e influendo così sulle modalità attoriali (come accade spesso nei teatri di Goldoni e Ibsen); oppure, solo gli attori che rivedono alla luce delle proprie competenze e capacità poetiche e artistiche la configurazione scenica del personaggio, dando vita a diverse modalità imitative e a diversi stili di recitazione (si pensi all’influenza esercitata da Eleonora Duse sulla drammaturgia simbolista). Il concetto di imitazione: fin dalle origini storiche, la drammaturgia testuale sviluppa forme di mediazione e relazione tra realtà del mondo sociale, il patrimonio narrativo condiviso dalla collettività culturale che partecipa allo spettacolo e le specifiche realtà della scena. Il concetto che descrive il funzionamento di questa peculiare dinamica della composizione drammatica – per cui le realtà direttamente osservate si intrecciano a quelle dell’immaginario originando realtà ulteriori – è appunto la nozione aristotelica di mimesi, di imitazione. Secondo Aristotele, l’imitazione risiede in tre cose: nel che cosa, nel con che cosa e nel come, e questo comporta che l’imitazione si rivolge a oggetti diversi che tratta con strumenti altrettanto distinti. L’avvento della regia sovverte la drammaturgia tradizionale (realtà esterna + realtà teatrale = nuova realtà teatrale). Innanzitutto, il regista espropria l’attore del controllo diretto sulla realtà del teatro, sostituendo la sinergia fra il testo e l’ensemble con un processo creativo di secondo grado che si risolve in progetti dettagliati e inventivi, che riscrivono scenicamente il dramma. Si innesca così una dinamica che individua forme di “scrittura scenica” sempre più autonome e che finiranno per soppiantare la scrittura testuale e il ruolo stesso dell’autore: - Le forme di scrittura scenica realizzate a partire dal testo , veicolando gli intenti dell’autore all’interno di un progetto spettacolare di secondo grado (ad esempio, il piano di regia di Stanislavskij per il Gabbiano di Cechov), che integra, sviluppa e sostituisce le indicazioni didascaliche. - Le forme di scrittura scenica che rilanciano dialetticamente gli esiti della scrittura testuale , trasportandone i contenuti nel sistema segnico parallelo dello spettacolo realizzato (connessione processuale e dialettica di scrittura testuale e “scrittura scenica” Brecht). - Le forme di scrittura scenica che si sostituiscono decisamente al testo , utilizzandolo in quando oggetto culturale da decostruire ( Bene, Grotowski, Barba, Kantor). - Le forme di scrittura scenica che suscitano testualità in uscita suscettibili di autonome letture e fruizioni (per es.  Laboratorio Teatro Settimo, Marco Martinelli e il Teatro delle Albe, Emma Dante). 1.2 La sinergia autore/ensemble Nel caso in cui il drammaturgo conosca i propri attori, può influire sulla realtà della scena attivando diverse modalità d’interazione: - Le indicazioni dirette e i modelli di intonazione forniti attraverso la lettura del testo; - La scrittura stessa, che include battute e situazioni trovate durante le prove e che può riflettere e interpretare in forma di parte le personalità degli artisti; - La scelta dell’argomento, dell’individuazione dei personaggi e lo svolgimento della vicenda, già al momento della concezione drammatica. Il drammaturgo quindi, scrivendo la parte del personaggio, attiva virtualmente la recitazione del suo destinatario scenico e modella su questa comportamenti, pensieri, parole. Distinzione di Siro Ferrone fra - DRAMATURGIA PREVENTIVA, che progetta lo spettacolo prefigurandone soluzioni ed esiti. - DRAMMATURGIA CONSUNTIVA, che formalizza testualmente elementi emersi nel corso del processo teatrale.  Riprendendo questa distinzione, si può dire che la composizione della parte elabora dati consuntivi pervenendo a un testo preventivo. dimensione scenica – che si costella di componenti visuali – svolge un ruolo di intervento che non può essere assolto da nessun altro elemento linguistico: quello di definire uno spazio autentico, in grado di sostenere ed accompagnare la credibilità dell’azione e del personaggio (che, calato in un contesto scenico preciso, sente di avere un appoggio concreto) esemplare in questo senso, l’insalata che Teresa Raquin pulisce nell’omonimo dramma di Zola: l’oggetto funziona da catalizzatore della tensione drammatica, è un autonomo veicolo di senso. Consente cioè di concentrare l’attenzione in maniera visiva sullo squallore di un’esistenza priva di slanci, di sogni, e fatta di piccole, tristi incombenze, le quali non vengono espresse verbalmente ma direttamente mostrate allo spettatore. L’oggetto, insomma, non sta lì per essere visto ma per essere agito, collabora alla definizione di un senso. Allo stesso discorso appartiene la scelta dei costumi da parte di Craig, il quale ipotizza un legame analogico tra il costume e il personaggio: è un modo per intuire qualcosa del personaggio ancor prima che parli o si muova. In altre parole, tali elementi – prima marginali – cominciano ad essere parte integrante e imprescindibile alla scrittura complessiva dello spettacolo. A voler seguire quanto sostiene Marotti, è solo a partire dalla riforma proposta da Craig e da Appia che è possibile parlare propriamente di regia, la quale rappresenterebbe – dal punto di vista storico – una soglia epocale2 e – dal punto di vista più specificamente linguistico – l’introduzione della prospettiva di un’arte non imitativa. Per Marotti, dunque, affinché si possa parlare compiutamente di regia è necessario che la dimensione scenica abbia conquistato quella autonomia artistica che hanno per primi messo in gioco Craig e Appia3. In questi termini, la regia andrebbe quasi a coincidere con la scrittura scenica. 1.4 Konstantin Stanislavskij Sistema pedagogico stanislavskijano Prima dell’avvento della regia, l’attore affrontava il personaggio confrontandolo all’insieme delle parti che definivano il ruolo drammatico di sua competenza: il tiranno, il padre nobile, il promiscuo, il comico, l’attor giovane, il primo attore. Stanislavskij scardina questo tipo di abilità recitativa, istituendo piuttosto un rapporto diretto fra l’attore e il personaggio/persona: è un esito che richiede la costituzione di un’entità intermedia, che risulta appunto dall’integrazione fra la persona dell’attore e il personaggio/persona l’attore, ponendosi difronte al personaggio con una disposizione allo studio che non dà nulla per scontato o acquisito, deve individuare nel proprio vissuto immagini e sensazioni che corrispondono a quelle provate dal personaggio/persona. 2 Corrispondente, nella sfera teatrale, a quanto accade in letteratura nel passaggio tra Naturalismo e Simbolismo e in pittura tra Impressionismo e Cubismo. 3 Questo comporta la necessità di scorporare dal discorso esperienze come quelle di Meininger o di Antoine, le quali finiscono con l’essere considerate come fenomeni che non riguarderebbero la regia in senso pieno, pur creandone, per molti aspetti, le premesse. Il sistema pedagogico stanislavskijano, pur fondandosi su una molteplicità di esercizi, è tutt’altro che statico e disposto a decantarsi in soluzioni definitive: non a caso Stanislavskij espone il suo sistema romanzandolo in forma diaristica, anteponendo in questo modo i valori esperienziali a quelli normativi e permettendo al partecipante di essere incluso nell’organismo non maniera predeterminata, ma diretta e dialettica. D’altra parte, il sistema prevede la messa in crisi dei propri apparati scientifici ed empirici, inducendoli nell’incarnazione di un personaggio che presuppone, fra le implicazioni della parte scritta, la presenza di una memoria, di una psiche, di un inconscio. Certo è che nel sistema di Stanislavskij la costituzione di una dimensione inconscia, che sfugge in quanto tale al dominio della ragione, deve comunque essere realizzata e pervasa da una logica totalizzante, in modo che l’incarnazione geniale della parte si risolva nell’attuazione di concezioni lucidamente costruite. L’obiettivo centrale è dunque la “ creatività sulla scena ”, che viene conseguita attraverso la partecipazione completa di tutte le attività fisiche e interiori. In questo modo, la creatività sulla scena, suscitata artificialmente, si concretizza in una sorta di ispirazione permanente che elude i falsi sentieri della tradizione. Stanislavskij e le regie cechoviane I suoi piani di regia per i drammi di Cechov occupano una posizione particolare nei riguardi del sistema4, in quanto gli spettacoli cechoviani di Stanislavskij mostrano le radici dei successivi sviluppi pedagogici.  Breve riferimento alla drammaturgia cechoviana La drammaturgia cechoviana pone al centro la decadenza e l’inerzia dell’alta borghesia, la quale si riconosceva nel modello aristocratico e non condivideva la mentalità della nuova borghesia commerciale i suoi personaggi sono pertanto tratti dalla borghesia artistica (Gabbiano), dalla borghesia degli apparati istituzionali (Le tre sorelle) e soprattutto dalla grande proprietà terriera ridotta a fantasma di sé stessa (Zio Vania e Il giardino dei ciliegi). Si tratta di una drammaturgia palesemente riferita a realtà riconoscibili dal pubblico borghese, ma affinché si evolvesse in esperienze sceniche fu comunque necessaria la mediazione registica di Stanislavskij. Le prime opere di Cechov5, infatti, furono clamorosi insuccessi, incapaci di rivelare al pubblico la vicinanza tra i contenuti drammatici e le trasformazioni storiche. Così Stanislavskij – sondando una dinamica poi teorizzata e inclusa nel sistema – ripercorse la traiettoria creativa dell’autore dai germi dell’opera alla concezione delle parti sceniche in questo modo, Stanislavskij ricava – per via induttiva e deduttiva – elementi implicati dalla scrittura ma non da questa esplicitati, e aggrega i dettagli così acquisiti in partiture sonore, visive e interpretative, che mobilitano gli spazi e che forniscono all’attore innumerevoli punti di appoggio. Stanislavskij, quindi, non contraddice il testo ma lo inquadra in situazioni e sequenze che tendono ad esplicitarne gli elementi sottesi, soltanto allusi o lasciati nel vago. 4 Questi, infatti, precedono l’apertura del primo Studio del Teatro d’Arte di Mosca (1913) e l’inizio delle attività pedagogiche di Stanislavskij che, all’epoca delle regie cechoviane, era ancora un regista dittatore. 5 Tra cui il Gabbiano. In questo modo Stanislavskij – a differenza di quanto succedeva nei teatri professionali, dove gli attori principali “creavano” la parte nel corso delle prove, convogliando in un flusso unitario intuizioni estemporanee e ispirazioni isolate – predetermina la concezione del personaggio e le modalità con cui questa deve essere attuata. A tal fine, si rendono necessari concreti elementi oggettuali in grado di incanalare inevitabilmente la linea interpretativa dell’attore in quella direzione specifica di gesti e sequenze.  Per la prima volta con Stanislavskij, la “creazione” della parte rientra nelle competenze del regista 6 che, come appare con evidenza nei progetti scenici per Cechov, esplicita i decorsi interiori del personaggio traducendoli in minuziosi incastri di micro-azioni . Brano di Lorenzo Mango in cui viene analizzata la progettazione scenica di Stanislavskij per un dialogo del Gabbiano* Mango evidenzia come Stanislavskij sia tutt’altro che succube delle indicazioni dell’autore e aggiunga numerosi dettagli ed elementi, che riequilibrano la scena intorno a punti culminanti diversi da quelli previsti dall’opera letteraria. Si vede inoltre come la “scrittura scenica” stanislavskijana si realizza a discapito dell’autonomia dell’attore e pianifichi linee che, nel programmare gli accadimenti esteriori, esprimono quelli interiori. Dunque, nel lavoro di Stanislavskij sono due le modalità che entrano in gioco: da un lato, vengono esplicitate possibilità implicate ma non nominate dal testo; dall’altro, riunisce i dettagli aggiunti in partiture interpretative che “creano” la parte, relegando l’attore ai compiti di attento esecutore e generoso elargitore di stati emozionali7. Secondo la visione stanislavskijana vi sono due tipi di realtà: quella esteriore – degli ambienti e delle ritualità sociali – e quelle interiori. Le prime si traducono in costruzioni illusive (interni borghesi, campagne echeggianti di ronzii, versi animali, campanelli ecc.), le seconde in incarnazioni attoriali altrettanto illusive. Ma non si tratta di livelli distinti, poiché i dettagli materiali delle prime servono a definire l’articolazione delle seconde. *Come già osservato, Stanislavskij realizza, con i suoi appunti di regia, delle “partiture sceniche” poiché, sebbene questi si sviluppano all’interno della didascalia originale del testo, la dilatano e la rendono portatrice di un orizzonte proprio: un esempio è il terzo atto del Gabbiano, e in particolare l’incontro tra Arkàdina e Trepliòv, subito dopo il tentato suicidio di questo madre e figlio sono a confronto in una sequenza dall’intenso pathos drammatico che esplode in un attacco di furia reciproca e si stempera poi in un pianto riconciliatore. Cechov costruisce l’andamento drammatico della situazione facendo emergere, in maniera sottile, tutto l’intrico emotivo che lega i due personaggi. Stani interviene articolando in maniera più compiuta e più qualificata sul piano espressivo le annotazioni sceniche di Cechov. Al teatro di Cechov, Stani 6 Nelle prassi tradizionali, questa era attribuita ai primi interpreti, in genere attori di prestigio che fornivano il modello recitativo agli artisti secondari. 7 Probabilmente, se Stanislavskij non avesse esplorato da regista dittatore le possibilità della creazione interpretativa della parte, non avrebbe nemmeno sentito l’esigenza di un nuovo sistema pedagogico che gli consentisse di condividere e sviluppare con la collettività degli attori le dinamiche e i principi individualmente esperiti. 2. Performance immedesimate da un lato, designano l’irrigidimento in termini conformistici del dramma musicale wagneriano, del teatro lirico, del dramma aristotelico, della drammaturgia romantica e naturalista e, dall’altro, individuano – proprio attraverso la scelta di questi obiettivi polemici – i contesti d’insediamento del nascente teatro epico (che, per l’autore, non deve solamente imporsi come modalità ma anche sostituirsi alla cultura aristotelica del dramma). 3. Performance politiche connette atto teatrale e intervento nel sociale, evidenziando i due aspetti coesistenti nel teatro brechtiano: l’uno recitativo, l’altro storicistico.  queste tre tipologie s’intersecano nella strategia brechtiana. Dunque, Brecht inquadra la sua opera nel divenire del mondo sociale e per questo elabora una drammaturgia formativa e pedagogica, che insegni allo spettatore a percepire la realtà come trasformabile di qui, la scelta di rivolgere polemica contro il modello aristotelico, che tende ad esaurirsi in percezioni estetiche ed emozionali (a differenza del teatro epico, che si prolunga nella coscienza politica dello spettatore). Per questa ragione Brecht mette in scena attori che agiscono e che, a differenza dei personaggi artisticamente espressi (che sono esperienze estetiche), sono proprio identità iscritte fra le dinamiche del mondo sociale. *Leggi “Scritti teatrali” di Brecht (1975), sulla dispensa. La riflessione di Brecht attraverso il diario di lavoro Il 30 luglio del 1940 Brecht si trova in Finlandia, ospite della scrittrice Wuolijoki. Brecht descrive questa donna in una pagina del suo diario, focalizzandosi in particolar modo sui suoi comportamenti narrativi: la definisce una donna che, quando racconta le astuzie della gente semplice e le stupidaggini commesse dalla gente raffinata, si ammanta di un’aria bella e saggia, accompagnando i discorsi sui personaggi con movimenti epici, fluenti, come se battesse il tempo per una musica che solamente lei può sentire. Non meno significativo è l’appunto di Brecht su un movimento che compie la Wuolijoki quando racconta le sue magnifiche storie, ovvero il tracciare con le mani un otto orizzontale, facendo partire il movimento dal polso. È un esempio di gestualità epica, quella che accompagna i racconti fatti in situazioni di relazionalità quotidiana. * La Wuolijoki è un personaggio importante a lei si deve il tema di uno dei testi più importanti di Brecht: Il signor Puntile e il suo servo Matti: un’opera in cui il protagonista, Puntile, è umanissimo da ubriaco, mentre, da sobrio, è dominato dalla logica padronale. Inizialmente, Brecht e la scrittrice lavorano insieme al testo, ma poi il drammaturgo utilizza la storia per elaborare idee sul teatro epico, suscitando perplessità nella scrittrice, la quale, pur non si riconoscendosi nelle modalità della drammaturgia epica, diventa uno dei suoi modelli. Questo piccolo paradosso riflette bene la tendenza di Brecht ad assimilare elementi di realtà senza però elaborarli in maniera realistica, imitativa o riproduttiva. *Sia nel Diario di lavoro che nei testi teorici il drammaturgo raccomanda agli attori di familiarizzarsi con il gestus epico osservando i racconti delle persone per strada10 i comportamenti narrativi osservati dal vero sono un modello imprescindibile della gestualità epica, così fondamentale nella drammaturgia brechtiana.  Come afferma Benjamin, il gestus è centrale nel teatro epico, proprio in virtù del fatto che non è falsificabile, ma oggettivo; si svolge e si conclude con una dinamica esatta e si presta ad essere precisato in senso semantico. Il gestus , dunque, è un’unita sintagmatica e comunicativa che, assunta da registi e attori, fonda la “scrittura scenica” dello spettacolo. Il gestus assume una funzione relazionale fra scena e platea non esprime il personaggio (non è una funzione estetica), bensì consente all'attore di mettere in scena il senso della parte. L'aspetto drammatico non può ovviamente contenere gli elementi concreti della recitazione, ma può suggerirli: per questa ragione, i personaggi brechtiani raccontano continuamente pensieri e punti di vista; in loro, il bisogno di proiettare significati alimenta il repertorio gestuale, incardinando la funzione attore alla funzione personaggio. Doppio livello comunicativo carattere orizzontale (tra personaggio e personaggio) e carattere verticale (tra attore e spettatore). La presenza di questo doppio livello è dovuta principalmente alla tendenza di Brecht di focalizzarsi sulle singole battute più che sui racconti da narrare, e viene evidenziata – al livello della scrittura drammatica – dalle frequenti antifrasi (per cui un fatto viene chiamato con il nome del suo contrario, come, ad esempio, la libertà al culmine della schiavitù o dell’onore al culmine del disonore). In questo modo, viene intessuto una sorta di allentamento al pensiero dialettico, per cui le cose non sono come sembrano e acquistano valori diversi e contrapposti a seconda degli scenari logici in cui vengono inquadrate. Esempi di antifrasi: da Madre Courage e i suoi figli capo dell’armeria: «perché non mi fido di lui: siamo amici»; oppure, da Il signor Puntila e il suo servo Matti «se uno scemo non fa carriera vuol dire che il diavolo ci mette la coda».  il modo di esprimersi dei personaggi brechtiani è popolare sia per la scelta dei termini che per il frequente ricorso a modi sentenziosi ed espressioni gergali. Spesso, come è proprio delle culture popolari, i concetti sono resi con esemplificazioni materiali che li strutturano in forma di proverbio («da canaglie ci si sente meglio»). Ma proprio della cultura popolare è anche fondere gesto e parola , segno verbale e azione corporea, sicché il modo di esprimersi dei personaggi brechtiani richiama il gestus dell’attore. Il 2 agosto 1940 Brecht continua a ragionare sul teatro epico e riflette sulle distinzioni fra dramma epico e dramma aristotelico la prima riflessione completa di Brecht sui rapporti tra le due tipologie drammatiche è la Presentazione, scritta fra il 1930 e il 1938, a Ascesa e caduta della città di Mahagonny. Ora, nel 1940, Brecht aggiunge un ulteriore tassello, e afferma che nel teatro aristotelico recitazione e trama non sono 10 Per es. succede un incidente: una persona racconta quell’incidente e, per l'attore, diventa estremamente importante capire che cosa fa, come lo fa e perché. destinati a riprodurre ciò che accade nella vita, ma a far realizzare un'esperienza teatrale ben determinata e con precisi effetti catartici. - Teatro di tipo aristotelico non veicola elementi e dinamiche della concreta realtà sociale, ma affronta percorsi espressivi di autore e attore al fine di suscitare effetti emozionali nello spettatore. - Teatro di tipo epico fa interagire la realtà del teatro con le dinamiche della vita reale e della Storia, trattando la mimesi drammatica come uno strumento di analisi (e non puramente d'espressione) degli avvenimenti imitati, che vengono così dialetticamente e continuamente rapportati ai loro referenti reali. Brecht VS Stanislavskij La contrapposizione (teatro epico/ aristotelico) è cristallina e fa meglio capire perché, in quegli anni, Brecht provi un’ostilità fortissima nei confronti di Stanislavskij. - Stanislavskij  l'atto teatrale è dato dall’immedesimazione dell’attore nel personaggio e dalla ricezione estetica e passiva di questa stessa immedesimazione che, negandosi al contraddittorio, escludeva l'attivazione di prospettive critiche e dialettiche aperte. In altri termini, Stanislavskij voleva assolutamente evitare che l’artificio teatrale venisse in qualche modo svelato allo spettatore; c’è la ricerca di un’incarnazione perfettamente realizzata. - Brecht  esattamente agli antipodi, mirava a esplicitare i meccanismi dell’interpretazione e della messa in scena, per cui la rappresentazione non è asservita o illusoria (non si cerca l’effetto della perfetta incarnazione), ma è dialettica , aperta al contraddittorio, mostra le fluttuazioni dell’attore all’interno e all’esterno dell’ altro da sé , allena lo spettatore a leggere i “segni dell’esistente” . Spiegando il concetto attraverso un parallelismo metaforico, potremmo dire che mentre il teatro naturalista di Stanislavskij imposta una specie di ping-pong emozionale tra l’attore immedesimato e lo spettatore, che si trasmettono l’un l’altro sensazioni e stati d’animo, il teatro epico di Brecht assomiglia a una battuta di caccia volta a stanare –attraverso i meccanismi teatrali– i meccanismi del divenire storico e delle interazioni sociali. - L’ attore straniato , quindi (a differenza dell’attore immedesimato) disgrega l’unitarietà estetica e formale dell’interpretazione, rendendosi percepibile – attraverso l’effetto di straniamento – in quanto identità umana che si serve del recitare per comunicare e commentare i nessi causali degli avvenimenti La CAUSALITA’ è centrale nel teatro epico. (ATTORE STRANIATO CAUSE) - L’assertività emotiva dell’attore immedesimato impedisce infatti la percezione dell’elemento causale: lo spettatore, reagendo all’espressione scenica del dolore, della disperazione, non pensa perché si sia prodotta la catastrofe, quale causa l’abbia suscitata, ma percepisce i suoi effetti, con compiacimento estetico. (ATTORE IMMEDESIMATO EFFETTI) Brecht era certo che Madre Courage avrebbe colpito il pubblico e al contempo trasmesso i valori e la carica innovativa del teatro epico e della recitazione straniata. Interprete della parte era infatti Helen Weigel, attrice straordinaria e anima organizzativa del Berliner, oltre che moglie del drammaturgo e sua compagna negli anni dell'esilio. Il sottotitolo di Madre Courage e suoi figli è molto importante: Cronache della Guerra dei trent’anni forma cronachistica , che espone gli eventi nella loro concretezza e immediatezza : li mostra, li cita, non li piega all’esigenza di ricavarne contenuti espressivi fortemente idealizzati. Madre Courage si divide in quadri  non c’è, come è proprio del dramma epico, una successione di scene che procedono organicamente l’una dall’altra: ogni quadro è preceduto da un testo che ne descrive l’argomento e che viene riportato su dei cartelli (la funzione principale è quella di spiegare allo spettatore in quale posizione si trova il nuovo quadro rispetto al precedente). In Madre Courage, Brecht fornisce agli attori diversi pretesti di individuazione gestuale: ad esempio, nella prima didascalia, i due personaggi sono “tremanti al freddo”; inoltre, mentre raccontano i propri problemi l’uno all’altro, ricorrono a esempi concreti, paragoni, metafore e antifrasi, il loro lessico è basso, realistico e verosimile e anche l’atteggiamento gioca un ruolo fondamentale ad esempio, nella prima scena, il tono del Reclutatore è rancoroso contro chi gli sfugge e lamentoso per la fatica che gli tocca fare; il Brigadiere condivide con il Reclutatore il freddo, le antifrasi, il linguaggio popolare, ma il suo atteggiamento/tono è totalmente diverso: sentenzioso, nostalgico normativo, poiché nelle sue coordinate di valore la guerra è il bene, mentre ciò che la ostacola è il male12. Inoltre, Roland Barthes commenta i gesti che caratterizzano i due personaggi il Reclutatore parla indicando con l’indice teso – quasi stesse rimproverando coloro che si sottraggono all’arruolamento – mentre il Brigadiere tiene gli occhi chiusi – come se stesse vagheggiando la civiltà della guerra di cui esalta i benefici. Si tratta di un testo difficile da recitare se l’attore si lascia prendere dal tono colloquiale, dalla popolaresca efficacia delle immagini, dalla convinzione mostrata dal personaggio nell’esporre le proprie idee, e non comprende, per contro, la sottesa dinamica comunicativa con il pubblico, il testo epico frana miseramente, cade a pezzi. L’attore della drammaturgia epica deve necessariamente comprendere tutti i livelli semantici del testo in un certo senso, l’attore qui è tanto più epicamente convincente quanto più induce a credere come vero il contrario di quello che il personaggio asserisce, senza perciò tradire la verosimiglianza del personaggio stesso. Tornando, a questo punto, alle divergenze fra attore immedesimato e attore straniato se il primo esprime la verità del personaggio, il secondo induce lo spettatore a valutare criticamente la veridicità di quanto viene affermato; l’attore che si immedesima nel personaggio tende a racchiudere la comunicazione con il pubblico nella trasmissione emozionale del personaggio stesso, mentre l’attore straniato irretisce lo 12 Il Brigadiere anticipa al pubblico un tratto fondamentale di Madre Courage: l’assuefazione alla guerra. spettatore in una dialettica di urticanti contraddizioni (che riguardano la realtà drammatica quanto il mondo reale). Nella drammaturgia brechtiana, le parti brevi – come il Reclutatore e il Brigadiere – recano messaggi critici di nevralgica importanza e per tale ragione, a proposito di Brecht, la nozione di “personaggio minore” è impropria queste non si limitano a svolgere funzioni connettive o di sfondo, ma esplicitano i pregiudizi diffusi nelle classi sociali a cui appartengono. Lo spettacolo si conclude con un’immagine che sintetizza il senso del dramma: Madre Courage ha perso tutti i suoi figli ma non ha ricavato alcun insegnamento da queste terribili esperienze di vita e, ottusamente, continua a seguire gli eserciti in guerra, sola col suo carretto.  Brecht non priva Madre Courage di umanità , non ne neutralizza la capacità di suscitare reazioni empatiche, anzi, accentua i contrasti in tutte le direzioni e con tutti i mezzi (all’incapacità di capire fa corrispondere una colorita capacità di esprimersi, alla viscerale identificazione di sé con il commercio un’emotività potente, all’unilateralità degli intenti una vivace mobilità relazionale); è un personaggio non tanto malvagio da meritare le sue sventure, né tanto buono da rendere completamente immeritata la propria sorte di conseguenza, il personaggio corre il rischio di deludere gli obiettivi dialettici del teatro epico e di inserirsi nel filone del pathos tragico, affermandosi in quanto oggetto di percezioni emozionali ed estetiche. In un certo senso, il Brecht di Madre Courage gioca spregiudicatamente con il fuoco: egli attizza l’emozione per accendere pensieri critici e allargare lo stato di coscienza del pubblico all’individuazione delle dinamiche storiche (al che, la priorità dell’uomo sugli interessi viene letta in chiave positiva, mentre la priorità degli interessi sull’uomo in chiave negativa). Due momenti centrali: - L’urlo muto di Madre Courage difronte al cadavere del primo figlio (terzo quadro) la sua potenza scaturisce dal trasferimento del suono al gesto (è probabile che per questa scena Brecht si sia ispirato alla Guernica di Picasso , realizzando sulla scena il suono del silenzio assoluto). - Il suo rifiuto di soccorrere dei contadini feriti (quinto quadro) Roland Barthes – Sul teatro (*sette fotografie-modello di Madre Courage) In questo saggio, Barthes ci parla in particolare di sette fotografie che sono state scattate da Pic durante la seconda rappresentazione di Madre Courage a Parigi nel 1957, da parte del Berliner Ensemble.  Secondo Barthes, la fotografia rivela proprio ciò che sfugge durante la rappresentazione: il dettaglio , che è lo spazio in cui risiede il significato (aspetto di vitale importanza dal momento che quello di Brecht è un teatro della significazione). Barthes è convinto che le fotografie di Pic possano contribuire in qualche modo a chiarificare il concetto brechtiano di straniamento che tanto ha irritato la critica, la quale si basa soprattutto su un pregiudizio antintellettualistico: si teme cioè che lo spettacolo s’impoverisca e divenga freddo. Ma – specifica Barthes – chiunque abbia visto il Berliner Ensemble o abbia osservato con attenzione le fotografie di Pic, si renderà perfettamente conto che mantenere un distacco non significa recitare di meno  mantenere il distacco vuol dire, infatti, interrompere il circuito tra l’attore e il suo pathos e, di contro, ristabilire un nuovo circuito tra il ruolo e l’argomento (vuol dire, per l’attore, significare la pièce e non più sé stesso nella pièce).  relativamente a questo nuovo legame, Barthes seleziona sette fotografie di Madre Courage scattate durante l’azione del primo quadro, dalle quali emerge il dettaglio del gesto, portatore di un significato politico (per creare straniamento occorre un punto d’appoggio: il senso). 1. Il dito alzato  tra gli sfruttatori e gli sfruttati c’è una classe intermedia, quella degli “agenti”, che riuniscono in sé una doppia alienazione: quello dello schiavo e quella del padrone. Il padrone puro può essere cinico (come lo è, in Madre Courage, il Capitano); lo schiavo puro può essere consapevole, ma lo schiavo-padrone non può essere né cinico né consapevole. L’agente è l’uomo della giustificazione: discute molto per giustificare sia il male che subisce che il male che fa, ha sempre un alibi da qui, il ricorso frequente a due operazioni linguistiche in particolare: - Aforisma  che dà all’oppressione individuale (rimediabile) la garanzia di una generalità immutabile (e quindi, irrimediabile); - Antifrasi  chiamare un fatto con il nome del suo contrario (parlare di onore, di libertà, di ordine, al culmine del disonore, della schiavitù, del disordine). A tal proposito, significativa è la scena del Brigadiere e del Reclutatore (sottoufficiali), mentre attendono su un sentiero gelato il passaggio della selvaggina. Il Reclutatore è disilluso: con un dito filosofico, indica al Brigadiere le difficoltà del mestiere. Il Brigadiere è nostalgico: la pace è caos e già da troppo tempo si vive senza guerra. 2. La carretta tirata  Madre Courage è una venditrice e la sua è un’economia di accaparramento: acquista al miglior prezzo nel pieno della tregua, rivende al prezzo più alto nel pieno del conflitto. È ciò che s’intende per profitto di guerra, ma il guadagno di Madre Courage è modesto e precario: non ha dietro di sé alcun apparato statale, non è lei a condurre la guerra e quindi non è in grado di prevederla, di acquistare al momento giusto, di vendere al momento giusto. Al pari dei sottoufficiali che stanno per arrestarla e toglierle uno dei suoi figli, Madre Courage vive una duplice alienazione: come sfruttatrice e come sfruttata, è colpevole e insieme vittima. Tutta la vita di Madre Courage si gioca proprio al livello del suo ruolo di venditrice; anche la sua famiglia è una cooperativa, ciascuno svolge una funzione ben definita. Certamente, in Madre Courage c’è un profondo senso di maternità , che però non si disgiunge mai dal senso di vera dirigente d’impresa: quando perde uno dei suoi figli, lei agisce in termini pratici e professionali (pensa a come dover suddividere il lavoro, alla riassegnazione delle responsabilità e sostanza brechtiana è fortemente dialettica; non accetta di esistere se non essendo nominata, e non dalla parola umana, ma dall’atto umano. Gli oggetti  facendo riferimento a Madre Courage, gli oggetti appartengono a due categorie sostanziali: - Il cuoio  il regno del cuoio, che è quello dei soldati, comprende le materie inalterabili: il metallo, il tessuto rigido, le corazze, gli elmi, i chiodi. Non si tratta di materiali pregiati o forti, perché l’ordine rappresentato non è quello della forza, ma quello della resistenza. - La tela  il regno della tela, invece, è quello dei poveri e comprende tutte le sostanze destinate all’azione disgregante del tempo: stoffe, feltri, stuoie, sacchi. Tutto qui tende a logorarsi. In mezzo a questi due ordini, c’è una sostanza condivisa dai soldati e dai poveri, perché è la base della vita elementare il legno (tavoli, scodelle, ripari, ruote, ceppi, sgabelli). Non si tratta, però, di materiali simbolici, perché attraverso una costruzione minuziosa il drammaturgo produce una vera e propria materia artificiale, che è la degradazione non vi è l’idea di degrado, ma il degrado stesso. - Foto n.2  Madre Courage sparge polvere sul viso della figlia per imbruttirla; il movimento delle mani di Kattrin è infantile, è quello di una bambina che non vuole farsi lavare dalla madre. Qui, la fotografia porta alla luce un rapporto umano . - Foto n.3  Madre Courage ha dovuto trattenere il proprio dolore, per fingere di non riconoscere il cadavere di suo figlio; appena i soldati se ne vanno, lei scoppia di dolore in un urlo muto. Nell’immagine ripresa da Pic, vi sono due elementi su cui cade l’attenzione: la schiena del cappellano che si allontana – per pudore e impotenza – e la schiena curva di Madre Courage, che si ritrae raccogliendo in sé tutto il suo dolore. Qui, la fotografia mette in luce una storia .  Queste due scene fanno capire come un elemento marginale può divenire il responsabile del senso dell’immagine. Il dettaglio brechtiano è come un quadro nel quadro. Madre Courage è un mondo pieno di piccole cose, c’è in Brecht una morale del dettaglio: è un’arma contro la metafisica, contro il mito dell’infinito e dell’ineffabile, cioè dell’insignificante. È attraverso il piccolo che Brecht trova la sua grandezza. II PARTE SCRITTURA SCENICA E AVANGUARDIE NEGLI ANNI ’60 E ‘70 2.1 La tecnica decostruttiva Negli anni Settanta, la nozione di “scrittura scenica” designa modalità antitetiche rispetto al teatro di rappresentazione e alle pratiche della regia interpretativa. Lo spettacolo viene concepito come l’elaborazione linguistica delle sue funzioni costitutive: spazio, attore, suoni, immagini, elementi verbali.  La scena è una pagina bianca tridimensionale  Lo spettacolo è prodotto da un atto creativo diretto, senza mediazione testuale  La produzione di senso si svolge nell’hic et nunc dell’evento La scrittura scenica delle postavanguardie è autoreferenziale. Lorenzo Mango – La scrittura scenica Una volta che il testo letterario non è più considerato come una priorità, vi sono due conseguenze: - Esso non è più il portatore unico e privilegiato del progetto drammatico, che spetta perciò al testo spettacolare  per progetto drammatico si intende l’azione agita nella sua relazione con l’azione raccontata. Infatti, nel nuovo quadro di riferimento, lo spettacolo viene pensato come un insieme di azioni che si relazionano ad un racconto, piuttosto che come un racconto diviso per scene. Progetto drammatico e progetto scenico finiscono col coincidere. - Va ridefinito il suo rapporto con lo spettacolo. C’è, in un certo senso, un processo di trasduzione inversa dalla scena alla pagina (il testo letterario allora non esiste più come “unico”, ma è sempre molteplice). Ruffini distingue tra collocazione in scena e messa in scena: - Nella collocazione in scena, tipica del Rinascimento, i diversi elementi del linguaggio sono accostati l’uno all’altro secondo un procedimento paratattico. Non vi è, in questo caso, la sintesi di un senso (e quindi di un testo) scenico, bensì la produzione di materiali linguistici di accompagnamento al fatto drammatico. - La messa in scena, invece, consiste in un processo di “messa in senso”, ovvero in un meccanismo di riscrittura che si fonda, principalmente, sulla scena: cosa possibile, questa, solo a partire dalla regia, perché è solo con essa che le componenti sceniche diventano protagoniste. Il testo spettacolare della regia si configura perciò come una costruzione semantica che assorbe e risignifica il testo letterario; è l’esito formale del processo operativo attuato dalla scrittura scenica (attraverso cui gli elementi linguistici della scena, una volta definita e acquisita la loro autonomia, si configurano come modalità costitutive di un linguaggio specificatamente teatrale) vi è testo spettacolare solo in presenza di scrittura scenica. Dunque, con la scrittura scenica c’è una predilezione nei confronti degli elementi scenici a discapito di quelli verbali, cosa che porta a un nuovo assetto categoriale del teatro. Ma la questione fondamentale non consiste tanto nella presenza o meno di un testo letterario e nemmeno nella presenza dello svilimento verbale dello spettacolo, quanto nel fatto che la drammaturgia passa dalla parola alla scena, che è di più che dalla pagina alla scena. Messa in questi termini, infatti, la questione non riguarda più solo un passaggio di funzioni tra scrittore e regista, o più in generale da una progettualità letteraria a una scenica, quanto il fatto che la produzione di senso drammatico non è più centrata sulla parola (e quindi, sulla dimensione verbale del testo-copione) quanto sugli elementi scenici , i quali non solo non hanno più un ruolo subalterno, ma dimostrano di possedere una propria e specifica capacità semantica. Allora prendiamo per buona la definizione di Pavis, per cui la scrittura scenica è la scena che “significa ” e lo fa indipendentemente dal testo letterario, divenendo così, a pieno titolo, testo essa stessa. Dunque, il materiale letterario perde il suo statuto di originalità: viene tagliato, sezionato, rimontato. E’, insomma, un’altra cosa da tutti i punti di vista, eppure è sempre lo stesso continuando a far riferimento a un sé stesso primario, facendo sì che ogni scrittura di scena sia una riscrittura: non c’ Amleto, per quanto deformato o riscritto, che non resti anche l’Amleto originario. Il testo non è più luogo di definizione o di individuazione, ma è un “mare sconfinato”, potenzialità di ogni accadere simbolico (Bene). La drammaturgia, la costruzione dell’azione, si compie altrove, e precisamente nel momento in cui il teatro, direttamente come scena, assorbe la parola, la deglutisce, la coinvolge in una riscrittura totale. Grotowski (punto di vista simile a Bene): «Il teatro è anche un incontro fra gente creativa. Sono io, regista, che vengo messo a confronto con un attore [...] entrambi poi veniamo messi a confronto con il testo. Ebbene, noi non siamo in grado di esporre il testo in senso oggettivo, poiché solo testi molto deboli ci offrono un’unica possibilità d’interpretazione: tutti i grandi testi si presentano a noi come un abisso».  Per Grotowski, regista e attore avviano un processo creativo di scambio, di lavoro sul sé, per poi immergere questa esperienza (che si è compiuta totalmente in scena) nel “mare infinito” del testo. Ma perché questa esperienza abbia un senso è necessaria la presenza di un testo forte, un testo-abisso di cui non sia possibile scorgere il fondo, che non sia riducibile allo schema di un senso drammatico fissato una volta e per sempre. Il testo-abisso , per Grotowski, è ciò che dilata (e non individua) i limiti del dicibile teatrale: esso perde la sua pretesa di produrre un’unica chiave di lettura del teatro, di contenere il teatro in sé stesso. Ancora una volta, si tratta di un testo cui è sottratta la sua drammaturgia. Ciò che accade, in teatro, non è illustrazione di quanto è scritto ma ha una sua autonoma sfera di significazione, la quale assorbe in sé le parole del testo facendole convergere in un testo nuovo, che è un testo scenico, dotato di una sua drammaturgia. Prendiamo un esempio: l’Antigone di Grotowski l’approccio al testo NON è di tipo rappresentativo: si tratta di entrare nelle sue motivazioni, di natura etica ed umana; di esprimere con i corpi quello che è il sottotesto delle parole . Mentre la pura restituzione del testo si traduce in un’azione convenzionale, quella del sottotesto impone di esplorare altre direzioni: di attraversare la gioia, il tremore, la paura, la rabbia, le forze psichiche, la sconfitta, la resistenza, l’orrore... tutto quello che è sempre presente sotto le parole (il sottotesto) ed è il corpo che deve rappresentarlo. Parola e corpo dal teatro di Antigone è cancellata qualunque altra cosa: non c’è scena, né costumi, né luci, né musica. Tutto è risolto nell’essere qui e ora l’attore nel suo confronto col testo, nel suo impiegare il corpo come macchina espressiva e di significazione. III PARTE LA SCRITTURA SCENICA NELLA SVOLTA DEGLI ANNI ’80 Da queste modalità compositive risulta uno spettacolo che è esito di un processo relazionale collettivo, in cui vengono definiti progressivamente gli elementi della performance e il loro intreccio formale alle spalle di questa concezione vi sono i metodi del teatro di gruppo, in cui il processo di composizione è significativo tanto quanto l’esito spettacolare. Da qui, il ricalibrare la polarità processo/prodotto: mentre i gruppi degli anni Settanta ricavavano dal training dell’attore materiali che – montanti e drammaticamente connotati dal regista – costituivano lo spettacolo, negli anni Ottanta si opta per il meccanismo inverso si ricava dal lavoro intorno allo spettacolo i percorsi formativi dell’autore. Su questa base, si è diffuso il ricorso alle improvvisazioni singole e di gruppo. Attivandola, gli attori e registi hanno sperimentato come il lavoro sul ‘tipo’ incanali istinti mimetici, pulsioni transfert, realizzando all' impronta azioni con parole che, montate fra loro o rielaborate a parte dal regista drammaturgo, sviluppano eventi di contenuto narrativo. Il momento di massima evidenziazione di queste modalità è stato il teatro dei Comici dell'Arte. III. 3 Il ritorno del parlante: condizione essenziale della Nuova Drammaturgia epica Parlando, noi comunichiamo un pensiero che completiamo nel comunicarlo verbalmente. Quasi mai il pensiero preesiste, definito e compiuto, alla sua esplicitazione. Questo può essere il caso di una interrogazione o di una dichiarazione politica, dove però lo studente e il politico espongono pensieri precedentemente formulati. E quindi, più che pensare, ricordano pensieri. Invece, nel momento in cui si discute o si espone in libertà una riflessione, il parlante stesso ricava varianti e soluzioni impreviste. Perciò, dire che diciamo un pensiero è un'espressione impropria, perché in realtà quasi sempre pensiamo e parliamo nello stesso momento. Il parlante veicola dunque la sottile relazione fra il pensiero e le parole.  la sua reintroduzione nelle dinamiche dell’innovazione teatrale degli anni Ottanta ha riattivato – in forme rigenerate – le funzioni tradizionali ( il personaggio, il testo, l'autore ) e promosso l'emancipazione e lo sviluppo di altre funzioni del teatro ( il narratore, l'attore/persona, il dramaturg ). Affinché il parlante orienti i testi drammatici in contesti di processualità teatrale, non occorre che assuma identità di personaggio (come voleva Stanislavskij), poiché le condizioni che conducono alla parte drammatica sono più semplici ed essenziali, si tratta del comportamento e della situazione. Ma la sostituzione della scena con una situazione e quella del personaggio con un comportamento non comportano una semplificazione del linguaggio drammatico (anzi, i temi e riferimenti letterari affrontate dalle compagnie drammaturghe sono penetranti, complessi, anticipatori). La maggior linearità della situazione rispetto alle scene drammatiche e quella del comportamento rispetto al personaggio rispondono piuttosto all' esigenza di comporre tracciati funzionali allo sviluppo e all' intreccio di percorsi individuali e collettivi. In altri termini, la scena scritta e il personaggio sono esiti di un processo di composizione che si rivolge alla scena per vedere rappresentati propri esiti testuali; la situazione e il comportamento, invece, sono elementi di un processo in fieri collettivamente svolto dall’ensemble  In quest'ultimo caso il focus degli intenti compositivi non è il testo drammatico, ma l'attore che, nel costruire la propria linea di azione, alimenta e suggerisce la composizione della parte. Sicché il testo risulta dal montaggio e dall’elaborazione delle indicazioni emanate dai singoli attori, la cui funzione predominante non è quindi interpretare un personaggio, ma ricavare dal lavoro su sé stessi presenze dinamiche e significative, che rilanciano al pubblico i riferimenti assorbiti in itinere durante il processo della composizione teatrale. Le scansioni fondamentali di questo procedimento sono: - La composizione da parte di ogni attore di una sequenza performativa memorizzata sia al livello della partitura fisica che a quello della partitura mentale, e organizzata intorno ai materiali ricavati dalla ricerca collettiva circa gli argomenti dello spettacolo; - Il montaggio registico di queste sequenze, al fine di formare un intreccio di azioni nello spazio; - Il lavoro sui testi che affianca al montaggio orizzontale delle azioni il montaggio verticale degli elementi fonici.  Anche in questo caso, il testo viene aggregato in itinere , perciò non figura – nel processo compositivo dello spettacolo – come elemento preventivo (in entrata) ma come elemento consuntivo, ovvero definito in uscita assieme allo spettacolo stesso.
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