Scarica dispensa diritto costituzionale e più Dispense in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! diritto costituzionale riassunto del manuale ‘lezioni di diritto costituziona’ - d’amico, arconzo, leone professore angiolini 1 CAP. 1 - LO STATO COSTITUZIONALE SEZ. I - INTRODUZIONE 1. LO STATO Lo Stato è la principale organizzazione della vita collettiva in quanto fornisce i principali servizi pubblici e produce le norme giuridiche che regolano la vita delle persone. Il diritto costituzionale si occupa dello studio delle norme dettate dallo Stato, dei diritti e dei doveri degli individui che lo compongono, dell’organizzazione dell’apparato statale e delle modalità stesse di produzione del diritto. Lo Stato è l’unica organizzazione ad appartenenza necessaria, di cui cioè ogni individuo fa necessariamente parte. Un’altra caratteristica dello Stato è la sua natura autoritaria, infatti l’individuo si trova in una posizione subordinata rispetto allo Stato e non può prescindere dal rispettarne le regole. L’osservanza delle regole non è mai affidata al comportamento spontaneo dei cittadini: lo Stato, infatti, assume su di sé il monopolio dell’uso della forza e fa rispettare le regole attraverso apparati indipendenti. Lo Stato, inoltre, si fa garante di altri ordinamenti e presta la propria forza per far rispettare l’osservanza di patti e dei rapporti che intercorrono tra i privati. Lo Stato da questo punto di vista esercita una forza, presta la propria forza e vieta che altri usino la propria forza contro la collettività. La concezione di Stato moderno nasce assieme al concetto fondamentale di sovranità. La sovranità ha una rilevanza sia interna che esterna. La prima consiste nel fatto che lo Stato esclude che, senza il suo consenso, si manifestino altri poteri capaci di imporsi con l’uso della forza sui cittadini. L’articolo 1 della Costituzione stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nei limiti previsti dalla Costituzione stessa. La sovranità esterna, invece, fa sì che lo Stato si possa considerare l’entità superiore che è autonoma e indipendente e può entrare in contatto con altre entità autonome e indipendenti a loro volta. Questo concetto, però, è stato molto modificato nel corso degli scorsi decenni. Infatti, si sono costituite molte entità sovranazionali che hanno portato i singoli Stati a rinunciare a parte della loro sovranità. Un esempio è l’Unione Europea che ha portato gli Stati a rinunciare alla loro sovranità monetaria per introdurre una moneta unica. Lo Stato italiano ha dovuto procedere ha dovuto procedere a effettuare modificazioni con conseguenti e progressive cessioni di sovranità. Questo è reso possibile in virtù dell’articolo 11 che stabilisce che in condizioni di parità con gli altri Stati sono concesse le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. 2. DAL PRIMATO DELLA LEGGE AL PRIMATO DELLA COSTITUZIONE Per tutto l’800 e fino alla Grande Guerra in Europa è esistito un modello di Stato chiamato liberale fondato sul primato della legge che ha visto l’affermarsi di Parlamenti volti a limitare il potere del sovrano. Quindi, la novità introdotta dallo Stato liberale consiste nell’introduzione di un parlamento eletto dei cittadini dapprima a suffragio censitario e poi man mano allargato a un numero via via maggiore di cittadini. La legge era concepita come la più alta espressione della libertà e dal momento che nasceva col presupposto di limitare l’autorità del sovrano, essa non aveva limiti. La legge, quindi, secondo questa visione, concedeva della libertà e i giudici ne garantivano l’applicazione. Il primato della legge si traduceva nell’importanza riconosciuta ai codici che erano visti come strumenti volti a sistematizzare l’ordinamento giuridico. In questa concezione di Stato, la Costituzione era al pari della legge e non aveva alcun potere sovraordinato. Si può parlare perciò di Costituzioni flessibili. Nell’800 veniva perseguito il principio di eguaglianza formale di tutti i cittadini e questo si traduceva nell’introduzione di leggi il più possibile generali ed astratte. La generalità comporta l’eguale applicazione della legge nei confronti di tutti i cittadini, mentre l’astrattezza prevede che la norma non si 2 “personale” e cioè il diritto a non subire un arresto arbitrario, il cosiddetto habeas corpus. Nel 1689, poi, vengono riconosciuti i diritti del Parlamento e per la prima volta si separano i poteri di quest’ultimo da quelli del re. Mentre, in Francia e in America, con i principi sanciti dalle rivoluzioni liberali che hanno portato alla stesura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e del Bill of Rights, si può affermare che nasce il modello di Stato liberale che caratterizza l’esperienza degli stati europei dell’800. Con il modello liberale si introduce per la prima volta lo status di cittadino e non più di suddito. A tutti i cittadini vengono riconosciuti i diritti naturali e innati che l’istituzione politica non può negare, ma anzi si deve impegnare a salvaguardare. Questi tre diritti fondamentali sono: la libertà personale, il diritto di proprietà e alla sicurezza. L’altro cambiamento fondamentale riguarda la concezione del potere che non è più di origine divina ma trova legittimazione nel popolo che esercita tale potere mediante il diritto di voto. Un’altra caratteristica riguarda la divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziale. Secondo questa visione, teorizzata da Montesquieu, ogni potere aveva il compito di limitare l’altro. Il potere legislativo, però, nello stato liberale non conosceva limiti, ma questo verrà superato nella concezione dello stato moderno, cioè quello costituzionale. Lo Stato liberale, però, pur cominciando a garantire dei diritti a tutti i cittadini, perseguiva soltanto il principio di uguaglianza in senso formale: a tutti i cittadini venivano garantiti gli stessi diritti indipendentemente dalle loro condizioni e senza occuparsi dell’effettivo godimento di questi diritti. Le libertà concesse ai cittadini, infatti, sono libertà da e non libertà di, in questo senso si parla di libertà intese in senso “negativo” perché si realizzano con l’astensione da parte dello Stato nella vita dei cittadini. Lo Stato liberale nasce anche come stato di diritto: in esso cioè i poteri supremi sono sottoposti al diritto ed a un controllo giuridico. Il principio di legalità secondo cui la legge è fonte di obblighi sia per i cittadini che per lo Stato nasce nello Stato liberale. La crisi dello Stato liberale, che porta alla costituzione dello Stato sociale, comincia quando si cominciano a notare delle discrepanze tra uguaglianza formale e sostanziale. Il Parlamento dello Stato liberale, infatti, era espressione di pochi cittadini, i quali godevano del diritto di voto in base al reddito e al ceto sociale. Le leggi risultavano essere coerenti ma l’uguaglianza riservata ai pochi non durò a lungo. Inoltre, erano escluse dal diritto di voto tutte le donne a cui verrà riconosciuto il diritto di voto solo nel ‘900. 7. FORME DI STATO: LO STATO SOCIALE Nella seconda metà dell’800 comincia a delinearsi il formarsi di una nuova classe sociale: il proletariato. Questa classe sociale si organizza in partiti e sindacati che rivendicano un’eguaglianza in senso sostanziale. In primis, riuscì ad ottenere l’ampliamento del suffragio. In Italia tutti gli uomini poterono votare a seguito della riforma Giolitti del 1912. Con l’ampliamento del suffragio cominciò anche una forte spinta per la tutela di diritti diversi e ulteriori rispetto ai diritti tipici dello Stato liberale. Questi nuovi diritti necessitano dell’intervento dello Stato, il quale diventa un soggetto attivo nei processi economici e politici. Il nuovo stato, infatti, utilizza la spesa pubblica per creare nuove condizioni di benessere: provvede a distribuire la ricchezza, istituisce la previdenza e assistenza sociale, il diritto all’istruzione, la sanità pubblica ecc. Il ruolo dello stato diviene, quindi, dinamico e va a completare l’esperienza liberale ponendo, non solo la proclamazione astratta dei diritti, ma anche la loro concreta attuazione. La vera rivoluzione riguarda la trasformazione del principio di eguaglianza che viene sancito all’articolo 3 della Costituzione. Essa stabilisce, infatti, che tutti i cittadini sono uguali senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione ecc. ma al contempo sancisce che lo stato ha il compito di rimuovere le condizioni di fatto che, limitando di fatto la libertà e 5 l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Quindi, accanto al principio di uguaglianza formale si trova affermato anche il principio di uguaglianza in senso sostanziale. Nello Stato Sociale si trasforma anche la legge che diviene frutto di compromessi di tutte le classi sociali dello Stato. In un certo senso perde, quindi, di generalità e astrattezza perché vengono introdotte delle leggi speciali che si riferiscono solo ad alcune categorie di persone e le leggi provvedimento che sono volte a provvedere direttamente ed esaurirsi con una o poche applicazioni circoscritte al caso concreto. Anche lo Stato Sociale sta, però, vivendo un momento di crisi dovuto al costo che ha garantire i diritti sociali nei confronti di tutti. In rari casi, infatti, la spesa per le prestazioni concernenti i diritti e il prelievo statale a livello fiscale corrispondono. Non in tutti i casi, però, la degenerazione del modello liberale ha portato allo Stato Sociale, infatti, in molti casi si è arrivati all’opposto del modello liberale in cui le libertà del singolo venivano assoggettate al volere statale. Si tratta delle esperienze dei regimi totalitari in cui si perde il pluralismo partitico in favore di un unico partito e in cui i cittadini perdono di fatto le loro libertà. 8. FORME DI STATO NELLA DIVISIONE TERRITORIALE DEL POTERE Esistono tre principali forme di Stato in base alla distribuzione del potere nel territorio: lo Stato centrale, lo stato regionale e lo stato federale. Generalmente la suddivisione del potere sul territorio non è correlata al rapporto tra governati e governanti (divisione orizzontale). Lo Stato Centrale è connotato dall’assenza di una qualsivoglia articolazione del potere nel territorio, è privo di istituzioni territoriali rappresentative delle comunità locali. L’apparato amministrativo può dislocarsi nelle diverse aree geografiche, però, si tratta di un decentramento meramente burocratico e non politico. Allo Stato Centrale vi si contrappone lo Stato Federale in cui il decentramento politico è massimo. Perché uno Stato possa dirsi federale, in esso devono affiancarsi uno Stato centrale ed altre entità territoriali, denominate Stati membri che rappresentano politicamente le comunità locali. Lo Stato federale può nascere secondo un processo aggregativo (Stati Uniti) o disgregativo (Germania). Gli Stati membri devono essere autonomi, ma non sovrani, tanto è vero che lo Stato federale è dotato di una Costituzione posta al vertice dell’ordinamento giuridico, oltre che delle Costituzioni degli Stati membri che sono subordinate alla Costituzione Federale. Un’altra costante dello Stato federale è il bicameralismo parlamentare: una camera è rappresentativa dei cittadini di tutto il territorio e una seconda camera costituisce emanazione degli Stati membri in cui vengono rappresentati i singoli stati. Il decentramento politico dello Stato è assicurato nella Costituzione della Federazione la quale è modificabile solo con il consenso dei singoli Stati. È, inoltre, presente una Corte costituzionale il cui compito è quello di far rispettare il testo costituzionale nel caso di conflitti fra Stato Federale e Stati membri. Infine, lo Stato regionale può essere definito come uno stato unitario in cui operano enti territoriali intermedi dotati di autonomia politica. Un esempio di Stato regionale è proprio lo Stato italiano. Si è di fronte a uno Stato regionale se l’ente regionale è previsto dalla Costituzione e condivide la potestà legislativa con lo Stato Centrale. Ma allo stesso tempo non partecipano al processo di revisione costituzionale e non sono dotate di una Costituzione propria ma solo di uno Statuto. Non sono nemmeno rappresentate in Parlamento che rimane espressione della volontà popolare. Negli ultimi anni le differenze tra Stato Federale e Regionale si stanno via via assottigliando e sarebbe preferibile limitarsi a distinguere tra Stato accentrato e Stato articolato in cui è previsto un decentramento politico in misura variabile. 6 9. FORME DI GOVERNO: ASPETTI GENERALI Per forma di governo si intende il modo in cui il potere è distribuito e organizzato fra i diversi organi statali: la forma di governo è quindi il mezzo con cui lo Stato si prefigge di raggiungere determinati fini. La principale distinzione si ha tra monarchia e repubblica: da un lato la monarchia prevede che ci sia un capo dello Stato non rappresentativo né elettivo, la carica dura tutta la vita e il governo è autocratico. Dall’altro la repubblica prevede un capo dello Stato elettivo e rappresentativo (direttamente o indirettamente con un’elezione di secondo grado come in Italia); la carica ha durata limitata. Il Presidente della Repubblica opera, di solito, in uno Stato democratico, dove la fonte di legittimazione del potere risiede nel popolo. Questa contrapposizione non vale sempre, infatti, esistono monarchie elettive o repubbliche autoritarie. Un’altra distinzione riguarda le forme di governo pure e miste. Nelle forme pure si identificano regimi nei quali un solo organo dello Stato detiene il monopolio del potere politico. Nelle forme miste, molte delle quali presenti ancora oggi, il potere è ripartito in più organi costituzionali. 10. MONARCHIA COSTITUZIONALE È la prima forma di governo che nasce come espressione dello Stato liberale. Il potere è ripartito tra due organi: il Re e il Parlamento. Spesso questa ripartizione trova il suo fondamento in una Carta costituzionale concessa dal Re che ha lo stesso valore di una legge ordinaria e può essere modificata dal legislatore. Il Re ha il potere esecutivo e giudiziario, mentre le Camere hanno il potere legislativo. Re e Parlamento si fronteggiano senza un Governo: i ministri sono nominati dal Re che può anche revocarli perché non esiste un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Il Monarca in questa fase ha ancora molto potere su di sé perché può decidere di sciogliere le Camere elette dal popolo. Successivamente, però, si arriva gradualmente all’emersione di un Governo più indipendente dal monarca, le cui sorti dipendono dal gradimento del Parlamento. Quindi, si può affermare che nel corso dell’800 la monarchia costituzionale si è evoluta nella forma di governo parlamentare. Così avviene in Inghilterra e anche in Italia durante il governo di Cavour. 11. FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE La caratteristica principale di questa forma di governo è il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento che insieme sono detentori dell’indirizzo politico del Paese. Questa forma di governo può trovare sfogo sia in un contesto repubblicano che in un contesto monarchico: nel primo caso il Presidente della Repubblica e nel secondo il Re assumono un ruolo esterno ai poteri statali e di garanzia dell’equilibrio fra i poteri e in posizione di neutralità. Essi non partecipano all’indirizzo politico ma sono necessari in particolari momenti soprattutto durante le crisi istituzionali. Le attuali forme di governo parlamentari sono molto diverse tra loro: la loro conformazione dipende in larga misura dall’assetto dei partiti politici, il quale, a sua volta è condizionato dai sistemi elettorali. Il sistema maggioritario tende a semplificare riducendo il numero dei partiti rappresentati. In alcuni casi si giunge a casi di bipartitismo come nel caso dell’Inghilterra: questo comporta la possibilità di alternanza fra le forze politiche al Governo e determina un effetto indiretto del voto dei cittadini sul Governo. Il sistema proporzionale prevede una maggiore presenza di partiti in Parlamento e quindi una migliore rappresentazione della volontà popolare. Il modello tedesco è di tipo proporzionale e prevede una clausola di sbarramento per cui i partiti che ottengono meno del 5% non vengano rappresentati. In questo caso si parla di multipartitismo temperato. Il numero di partiti, infatti, non ha mai 7 de Gasperi, assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, mentre Re Umberto II lasciò l’Italia. 16. ASSEMBLEA COSTITUENTE E APPROVAZIONE DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA L’Assemblea era costituita da: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Comunista, Unione democratica nazionale, Uomo Qualunque, Partito Repubblicano e Blocco Nazionale delle libertà. I primi adempimenti furono l’elezione del Presidente Giuseppe Saragat, poi sostituito da Terracini e del Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, il quale assunse il primo Gennaio del 1948 il titolo di Presidente della Repubblica. Il 15 Luglio del 1946 venne decisa la nomina di una commissione ad hoc con il compito di elaborare un Progetto di Costituzione da presentare all’Assemblea. Questa composta da 75 membri a sua volta divisa in tre sottocommissioni: diritti e doveri dei cittadini, ordinamento costituzionale dello Stato, rapporti economici e sociali. Il Progetto venne presentato il 31 Gennaio 1947. Dopo la discussione e la votazione in aula degli articoli, il Comitato procedette all’ulteriore coordinamento delle disposizioni approvate e presentò il testo definitivo del progetto all’Assemblea che lo approvò a scrutinio segreto il 22 dicembre. SEZ. IV - COSTITUZIONE REPUBBLICANA 17. CARATTERISTICHE DELLA COSTITUZIONE ITALIANA La Costituzione italiana viene promulgata dal Capo provvisorio di Stato il 27 dicembre 1947 e entra in vigore il primo gennaio dell’anno successivo. La Costituzione italiana, a differenza dello Statuto Albertino e delle altre costituzioni dell’800, è rigida. Questo signficia che non può essere modificata da fonti di rango inferiore. Inoltre, la Costituzione è elastica, in quanto suscettibile di legittimare e orientare indirizzi politici di diversa natura. Proprio in virtù dell’elasticità consegue la longevità della Costituzione che si configura come un quadro di riferimento entro cui è consentito lo sviluppo di differenti realtà sociali e politiche. Il divario tra disposizioni e realtà che l’elasticità consente di ridurre demanda al legislatore la scelta dell’interpretazione cui dare seguito. In alcuni casi però il legislatore non interviene e rimangono inattuate alcune disposizioni del disegno costituzionale. La Costituzione italiana è lunga, non ci sono poche regole sommarie sullo Stato e sui diritti, ma si sviluppano discipline articolate. La Costituzione, inoltre, consta di norme ad efficacia diretta, cioè suscettibili di immediata applicazione (norme precettive) e di norme che per produrre effetti concreti avrebbero avuto bisogno di più tempo e dell’opera attuativa ed integrativa del legislatore (norme programmatiche). In questo senso si dice che la Costituzione ha una valenza programmatica perché non si limita a disciplinare l’organizzazione dello Stato, i rapporti fra i poteri e coi cittadini, bensì stabilisce indirizzi economici e sociali e dei pubblici poteri. La Costituzione ha una natura compromissoria tra tutti i partiti politici che l’hanno redatta perciò al suo interno esistono disposizioni non immediatamente operative ma non per questo meno vincolanti sul piano giuridico. Ad esempio, i diritti sociali richiedono per il loro effettivo esercizio interventi da parte dello Stato. Il legislatore è tenuto ad attuare il “programma” stabilito dalla Costituzione. La distinzione tra norme precettive e programmatiche non incide sul rilievo e sull’efficacia di queste ultime. Infatti, proprio con la prima sentenza della Corte costituzionale del 1956, i giudici hanno stabilito che tutte le disposizioni costituzionali fossero immediatamente utilizzabili quale parametro di costituzionalità. Inoltre, in alcuni casi i diritti affermati nella Costituzione hanno trovato applicazione anche in assenza di leggi che regolassero il diritto. Un esempio è il diritto allo sciopero che pur non avendo leggi che lo regolano non viene negato ai lavoratori. Quindi, l’efficacia delle norme programmatiche si evince 10 in più direzioni: orientano l’interpretazione delle leggi, forniscono direttive vincolanti al legislatore e possono fondare la rivendicazione di un diritto. 18. CARDINI DELLA COSTITUZIONE L’architettura della Costituzione prevede una prima parte di principi fondamentali, successivamente considera l’individuo, enunciandone i diritti come singolo e poi nelle formazioni sociali in cui è inserito, infine disciplina i vari poteri dello Stato e la Corte costituzionale che è l’organo di garanzia dell’intero sistema costituzionale. La Costituzione è così suddivisa: - Principi Fondamentali (artt 1- 12) - Parte I – Diritti e Doveri dei Cittadini (artt. 13 -54) suddivisa in quattro titoli: Rapporti Civili, Rapporti Etico-Sociali, Rapporti Economici, Rapporti Politici. - Parte II – Ordinamento della Repubblica (artt. 55 – 139) suddivisa in sei titoli: Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, Regioni, Province, Comuni, Garanzie Costituzionali. - Disposizioni Finali e Transitorie. I principi fondamentali hanno valore normativo e costituiscono il nucleo intangibile della Costituzione. Sono immodificabili, infatti, non possono essere cambiati nemmeno col processo di revisione costituzionale. Si tratta, inoltre, di linee guida per l’interpretazione del testo costituzionale. Il primo principio che viene riconosciuto è quello personalista. L’uomo si trova al centro dell’impianto costituzionale e gli vengono garantiti diritti inviolabili sia come individuo sia come parte di formazioni sociali. In questa prospettiva devono essere richiamati i continui richiami all’inviolabilità e alla dignità della persona che si rinvengono in numerosi articoli. All’individuo, però, non vengono concessi solo diritti. Il cittadino, infatti, ha anche dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (principio solidaristico) che consentono limitazioni alla posizione soggettiva del singolo in ragione delle esigenze altrui. 19. PRINCIPI FONDAMENTALI - Principio lavorista La Costituzione attribuisce forte centralità al principio lavorista. LAVORO: realizzazione della persona, la quale contribuisce allo sviluppo della società (art. 4) Sono infatti presenti disposizioni costituzionali che orientano l’azione legislativa allo scopo di un’equa distribuzione di ricchezze e di beni (art. 42, 44, 53). Possono legarsi anche altre disposizioni a tutela della parità di genere, sulla donna lavoratrice (art. 37), sulle pari opportunità nell’accesso a uffici pubblici e cariche elettive (art. 51) + art. 117 comma 9 -> ‘ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive’ - Principio pluralista Principio pluralista: attenzione per le formazioni sociali -> oltre all’individuo, la presenza di organizzazioni sociali come tutela e mezzo indispensabile per questo Le organizzazioni sociali sono autonomi nei confronti dei pubblici poteri ma è ammessa un’intromissione alla vita interna per la tutela dell’individuo e la protezione di diritti fondamentali. 11 Rispetto del principio di eguaglianza e parità anche fra le formazioni sociali, non privilegiandone alcune su altre. Lo Stato può comunque produrre norme su accordi tra queste e i pubblici poteri (artt. 7,8,39). - Principio democratico La struttura dei pubblici poteri è improntata sul principio democratico. Secondo il principio democratico, gli organi titolari dell’indirizzo politico sono strumenti della volontà popolare e devono trovare legittimazione diretta o indiretta nel popolo -> art. 1 ‘la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione’. - Separazione dei poteri La democraticità del sistema è attuata dalla Costituzione mediante alla costruzione di un meccanismo di pesi e contrappesi, in funzione di garanzia del singolo nei confronti del potere stesso. In aderenza al solo principio democratico sarebbe plausibile l’attribuzione dell’intero indirizzo politico a unico soggetto, purché eletto dal popolo (democrazia plebiscitaria). Principio del governo delle leggi e non degli uomini secondo cui bisogna moderare il potere (motivo della nascita delle Costituzioni) -> attraverso la separazione dei poteri, attribuendo a ciascuno una propria sfera di competenza. - Principio garantistico Il principio garantistico prevale su quello democratico con riguardo al potere giudiziario e alla Corte costituzionale, la cui funzione di garanzia del sistema costituzionale e dei diritti del singolo potrebbe venire compromessa dall’applicazione radicale del principio democratico. Giurisdizione = indipendenza dagli altri poteri - Principio internazionalista Il principio internazionalista consente l’apertura dell’ordinamento verso valori e fini esterni, in funzione di garanzia sia dei diritti del cittadino e dello straniero sia del carattere democratico dello Stato. Artt. 10, 11 -> questi articoli traducono tale principio, riconoscendo l’apertura dell’ordinamento verso il diritto internazionale generale sia verso il diritto internazionale pattizio, che era rappresentato in particolare dal trattato istitutivo delle Nazioni Unite (tale apertura si è rivelata funzionale all’adesione dell’Italia all’EU. CAP. 2 - LE FONTI DEL DIRITTO SEZ. I - LE FONTI 1. LE MODALITÀ DI PRODUZIONE DELLE NORME GIURIDICHE Le norme giuridiche sono regole vincolanti che disciplinano comportamenti e rapporti nella società. Nel loro insieme formano l’ordinamento giuridico che è in continuo mutamento in virtù del costante sviluppo della società. Le norme giuridiche vengono prodotte dalle cosiddette fonti del diritto che si articola in due filoni: le fonti di produzione e le fonti sulla produzione del diritto. Le prime sono quelle che immettono nell’ordinamento le norme. Quindi possono essere definiti fonti di produzione del diritto tutti quegli atti o fatti cui l’ordinamento riconosce l’idoneità a produrre e modificare norme giuridiche. Le fonti sulla produzione, invece, hanno un ruolo strumentale, perché stabiliscono come si produce il diritto. Quindi, si tratta di fonti che indicano l’autorità, il procedimento e l’atto con il quale le fonti di produzione possono essere create. Dettano anch’esse regole vincolanti. Da questo ragionamento consegue che le fonti sulla produzione del diritto prevalgono sempre sulle fonti di produzione. Quindi, secondo il criterio gerarchico, una fonte di produzione del 12 leggi in senso materiale. Le prime hanno solo forza legislativa, le altre portano innovazioni giuridiche. Si ritengono rientranti nella prima categoria le leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali. Tutte le caratteristiche finora elencate non sono necessarie, ma meramente tendenziali. Infatti, l’ordinamento non attribuisce valenza decisiva a elementi sostanziali, ma a criteri di carattere formale. Quindi, siamo di fronte a una norma giuridica solo se è veicolata da un atto adottato secondo quanto stabilito dall’ordinamento stesso in un’apposita fonte sulla produzione o se la norma deriva da un fatto a cui l’ordinamento riconduce l’idoneità a produrre diritto. Nella storia, infatti, ci sono sempre state delle eccezioni che si sono accentuate con l’avvento dello Stato Sociale. Il fenomeno si spiega in ragione del nuovo modo di intendere lo Stato che è chiamato a garantire l’uguaglianza sostanziale con interventi mirati che si propongono di livellare le disuguaglianze consentendo anche ai soggetti svantaggiati di fruire dei diritti. Si tratta di una forma di attenuazione delle qualità di generalità e astrattezza tipiche delle norme giuridiche da considerarsi legittima. Questa tendenza può, però, dare luogo a casi problematici di produzione normativa. Infatti, esistono, le cosiddette leggi-provvedimento che si rivolgono a un determinato numero di soggetti o disciplinano situazioni che si verificano una tantum. Queste leggi rappresentano il massimo allontanamento dal modello della legge quale generale ed astratta. In questi casi è molto più probabile che venga violato il principio di eguaglianza. Eppure, l’approvazione di leggi provvedimento non è preclusa, infatti nell’articolo 70 della Costituzione non è richiesto alcun elemento di carattere sostanziale atto a qualificare una legge. Quindi, la legge può attrarre nella sua sfera di disciplina contenuti particolari e concreti. Tuttavia, proprio in virtù del rischio di discriminazione insito nelle leggi-provvedimento, vengono sottoposte dalla Corte costituzionale a uno stretto scrutinio di costituzionalità. Queste leggi risultano essere conformi se rispettano il principio di ragionevolezza, cioè abbiano fondate giustificazioni risultanti dagli obiettivi che le hanno ispirate. Quando, invece, si cerca di aggirare il principio di eguaglianza e imparzialità vengono dichiarate incostituzionali. Un’ulteriore limitazione di queste leggi è il rispetto della funzione giurisdizionale. Non è consentito, quindi, risolvere alcune controversie giudiziarie tramite legge quando la sentenza sia già passata in giudicato. Questo lederebbe il principio di separazione dei poteri soprattutto a danno del potere giudiziario. Quindi, se da un lato la pendenza del giudizio non costituisce di per sé un limite per il legislatore, essa può assumere rilievo ai fini del sindacato di ragionevolezza, qualora si dimostri che la norma è stata approvata al solo fine di incidere sull’esito del giudizio. 5. VALIDITÀ, FORZA ED EFFICACIA DELLE NORME GIURIDICHE La validità di un atto è la caratteristica propria di un atto privo di vizi, in quanto posto in conformità alle norme giuridiche ad esso sovraordinate. Il vizio può essere formale se riguarda il procedimento di adozione stabilito dalla relativa fonte sulla produzione. Il vizio, invece, è sostanziale se la norma è in contrasto con il contenuto precettivo di disposizioni di rango superiore. L’efficacia di un atto, invece, si rinviene nella sua capacità di produrre effetti giuridici. Una norma, quindi, può essere valida ma non efficace. Questo avviene ad esempio nel periodo di vacatio legis. L’efficacia delle norme può subire parziali limitazioni, come avviene nel caso dell’abrogazione, che incide ma non annulla totalmente gli effetti di una norma giuridica. Il concetto di forza riguarda l’intensità degli effetti giuridici prodotti. La forza dipende dal livello gerarchico su cui la norma è posta e che si esprime in rapporto alle altre fonti del diritto. È, infatti, detta forza attiva l’idoneità della fonte di abrogare, modificare o 15 derogare altre fonti del diritto. È detta, invece, forza passiva, la capacità della stessa di resistere all’abrogazione, alla modifica e alla deroga da parte di altre. SEZ. III - L’INTERPRETAZIONE 6. LA DISTINZIONE TRA DISPOSIZIONE E NORMA Il passaggio dalla fonte alla norma non è diretto; a mediarne il rapporto vi è la disposizione. Quest’ultima è l’enunciato linguistico scritto, adottato dall’organo che manifesta la volontà normativa. La norma, invece, è il significato che dalla disposizione si ricava, quindi, è la vera e propria regola giuridica da applicare. L’attribuzione del significato corretto è l’attività di interpretazione. Infatti, da ogni formula linguistica è possibile astrattamente ricavare significati diversi e, dunque, norme diverse. Gli operatori devono, quindi, adottare degli strumenti, detti criteri interpretativi volti ad applicare la disposizione al caso concreto. Il compito di interpretare la disposizione assume particolare rilievo quando a provvedervi sono i giudici che, nel caso di controversie, sono chiamati dall’ordinamento a stabilire la norma da applicare al caso concreto. In ogni caso, le interpretazioni dei giudici non possono mai essere considerate come produttive di diritto, come, invece, avviene nei paesi di Common Law. Ciascun giudice, può, quindi discostarsi dai precedenti e di proporre della stessa disposizione una diversa lettura. Va, però, segnalato che c’è una tendenza dei giudici a uniformarsi agli indirizzi interpretativi prevalenti e soprattutto la particolare influenza esercitata dal precedente giudiziario espresso dalla Corte di Cassazione che è chiamata ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge. 7. I CRITERI ERMENEUTICI L’articolo 12 delle Preleggi elenca una serie di criteri che gli interpreti devono usare nell’applicazione del diritto: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Tra i vari criteri applicabili non esiste una vera e propria gerarchia. L’analisi della pratica interpretativa dimostra infatti che, a seconda dei casi, i giudici ricorrono all’uno o all’altro criterio. In ogni caso, l’interpretazione che deve prendere mosse dal testo di legge non potrà mai spingersi fino al punto di alterare l’oggettivo tenore. - Interpretazione letterale → è quella che fa perno sul significato proprio delle parole. L’interprete deve attribuire alle parole che compongono la disposizione il senso che esse hanno nel linguaggio comune o nel linguaggio tecnico-giuridico, dovendo preferire il secondo significato nel caso la parola sia presente in entrambi i linguaggi. Un esempio è la normativa sul cosiddetto Daspo. Ci si è chiesti cosa intenda il legislatore per manifestazione sportiva e se, in particolare, un corteo cominciato allo stadio e poi proseguito nelle vie cittadini possa violare la norma. È opinione della Corte di Cassazione che “vada privilegiata un’interpretazione letterale e non eccessivamente estensiva della richiamata disposizione, considerando che la legge sul Daspo si riferisce chiaramente al divieto di accedere a luoghi in cui effettivamente si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate”. - Interpretazione sistematica → è il criterio che si ricava leggendo l’articolo 12 delle Preleggi, dal riferimento alla “connessione tra le parole”. L’interprete deve, quindi, leggere la disposizione tenendo conto dell’intero sistema normativo e allargando la propria visione all’intero contesto in cui la disposizione si inserisce. L’articolo 12 16 si riferisce specificatamente alla connessione tra le parole della stessa disposizione. È pacifico, però, che il riferimento alla connessione vada esteso anche ai rapporti tra diverse disposizioni. Quindi, l’interprete dovrà porre attenzione all’intero ordinamento e, in particolare, a tutte quelle norme che si occupano di materie analoghe o comunque rilevanti. Un esempio di questo tipo di interpretazione si rinviene nel caso in cui il legislatore volle dare un sostegno ai danneggiati dall’alluvione del 1994 in Piemonte e per farlo estese loro alcuni contributi stanziati in occasione di un altro evento catastrofico. Si pose la questione riguardante le pubbliche amministrazioni. La Corte di Cassazione sancì che le pa non dovevano essere beneficiarie dei contribuiti in quanto in altre normative precedenti non risultavano tali. La Corte ha stabilito, facendo riferimento al complesso delle disposizioni che concernono gli interventi straordinari intervenuti per fronteggiare le calamità naturali, che la disposizione oggetto di interpretazione dovesse essere intesa come unicamente riferita alla categoria dei “soggetti privati” con la conseguente esclusione delle pubbliche amministrazioni. - Interpretazione conforme a Costituzione → Questo tipo di interpretazione può essere considerata una particolare applicazione del criterio sistematico, infatti anch’essa fa riferimento alla disposizione inserita in un preciso sistema giuridico. La specificità di questo criterio consiste nel fatto che ad essere messe in connessione sono fonti normative poste su ordini gerarchici differenti. In questo caso l’interprete dovrà favorire l’interpretazione conforme alla norma di grado gerarchico superiore. Con l’entrata in vigore della Costituzione si è via via affermato il principio secondo cui gli operatori del diritto devono esperire un tentativo di interpretazione conforme a Costituzione. Devono, quindi, privilegiare una lettura tra le possibili che eviti l’insorgere di antinomia. La Corte di Cassazione ha affermato, inoltre che questo tipo di interpretazione deve cedere il passo se si rivela “incompatibile con il disposto letterale della disposizione. Un esempio di interpretazione conforme è quella che stata fatta equiparando lo status di internato a quella di detenuto per osservare il principio di uguaglianza. In questo modo entrambi possono presentare istanza di riduzione della pena qualora vengano detenuti in condizioni disumane. - Intenzione del legislatore e ratio legis → l’articolo 12 delle Preleggi fa un chiaro riferimento all’intenzione del legislatore. Quindi quando si fa un’interpretazione bisogna sempre tenere conto delle ragioni che hanno mosso il legislatore ad approvare quel testo normativo. In alcuni casi, è necessario distinguere la volontà originaria del legislatore storico (interpretazione storica) dalla oggettiva volontà della legge (ratio legis) che, con il passare del tempo, astrae e allontana dall’intento che il legislatore perseguiva nel momento in cui approvava la legge. Per rinvenire l’intenzione del legislatore storico è utile fare riferimento ai lavori preparatori. Mentre per individuare la ratio legis occorre astrarsi dalle specifiche circostanze che avevano indotto il legislatore ad elaborare le disposizioni e ricercare il fine perseguito dalla norma. In presenza di contrasto tra le due interpretazioni si preferisce seguire la ratio legis in quanto più idonea a modellare la disposizione rendendola adeguata al mutamento delle esigenze storico-sociali. Un esempio di interpretazione storica riguarda la normativa che dichiara che è nullo un provvedimento qualora manchi la sottoscrizione del giudice. Nel caso in cui la firma non sia leggibile la Corte di Cassazione ha stabilito che il provvedimento rimane valido affermando che, come si evince dalla lettura del dibattito svoltosi in Parlamento, quando il legislatore ha inteso configurare le ipotesi di nullità di un atto lo ha fatto con la volontà di restringerne 17 Quest’antinomia viene risolta sul piano interpretativo mediante il ricorso al criterio di specialità. Le due disposizioni rimarranno entrambe valide ed efficaci nell’ordinamento, però una sola di esse verrà applicata allo specifico caso preso in considerazione, mentre quella scartata potrà trovare applicazione in altre situazioni. Il criterio di specialità si applica per risolvere antinomie apparenti fra disposizioni diverse, gli altri criteri interpretativi intervengono invece a dirimere una sorta di antinomia interna alla stessa disposizione. 9. APPLICAZIONE DEL CRITERIO GERARCHICO Il criterio da utilizzare qualora si accerti un contrasto fra due disposizioni di grado diverso è proprio quello gerarchico, che impone di preferire la disposizione che, tra le due, è posta a livello più elevato nella gerarchia delle fonti. La prevalenza della fonte superiore comporta l’invalidità della fonte subordinata. Quest’ultima, proprio perché in contrasto con la fonte sovraordinata, potrà essere annullata. Se il contrasto si presenta tra una fonte superprimaria e una primaria sarà la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità della norma di grado primario secondo quanto previsto dagli articoli 134 e ss. della Costituzione. In caso di contrasto tra una fonte primaria e una secondaria occorre procedere a una distinzione a seconda dell’autorità giurisdizionale che si trovi di fronte all’antinomia: se si tratta di un giudice amministrativo si avrà l’annullamento della fonte secondaria. Il giudice ordinario, invece, non avendo il potere di procedere all’annullamento della norma secondaria, dovrà limitarsi a disapplicarla nel caso concreto. La dichiarazione di illegittimità costituzionale e l’annullamento delle fonti secondarie hanno efficacia erga omnes ed ex tunc. Essi determinano infatti l’espulsione dall’ordinamento della norma invalida, che non potrà più essere da nessuno e in nessun caso applicata. Ma comunque non verranno intaccati i rapporti giuridici pur regolati dalla norma invalida ma ormai esauriti. Nel caso della disapplicazione da parte del giudice ordinario si hanno effetti inter partes, cioè limitati al giudizio in cui la norma sia stata ritenuta illegittima; ciò significa che la disposizione conserva validità e che potrebbe essere applicata in altri rapporti giuridici. 10. PRINCIPIO DI LEGALITÀ E PRINCIPIO DI COSTITUZIONALITÀ Il principio gerarchico si esplica nel principio di legalità e in quello di costituzionalità. La nostra Costituzione è rigida e non ammette deroghe da parte delle leggi ordinarie, quindi il legislatore ordinario è tenuto a rispettarla proprio in virtù della posizione sovraordinata rispetto alla legge. Il primato della fonte costituzionale si estrinseca nella regola per cui essa non può essere modificata o derogata mediante l’adozione di una fonte primaria, ma solo seguendo un procedimento aggravato. Inoltre, a garanzia del rispetto della Costituzione, è previsto un controllo di costituzionalità sulle leggi, nonché sugli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. Questo controllo, demandato, alla Corte costituzionale può comportare l’annullamento delle leggi e degli atti aventi forza di legge che si pongano in contrasto con la Costituzione e con le altre leggi Costituzionali. A un secondo livello il principio gerarchico è incarnato dal principio di legalità che è antecedente a quello di costituzionalità perché nasce nello stato ottocentesco in cui la legge era la fonte senza limitazioni. In forza di tale principio ogni esercizio del pubblico potere deve trovare nella legge il proprio limite e il proprio fondamento. Dal principio di legalità discendono due corollari. Il primo è il divieto delle fonti normative e degli atti amministrativi di disporre in violazione della legge (preferenza della legge). In questa prospettiva, il principio di legalità postula la soggezione alla legge anche degli atti adottati nell’ambito dell’attività giurisdizionale. Il principio di legalità è poi espressione dell’esigenza della previa legge, da intendersi nel senso che il potere pubblico, per 20 potersi legittimamente manifestare attraverso fonti secondarie deve essere stato preventivamente autorizzato da una fonte normativa primaria. Questo principio non è espressamente scritto nella Costituzione ma lo si desume dalla lettura degli articoli 3, 70, 97, 101 e 113. La sottoposizione alla legge previene un uso arbitrario e, dunque, discriminatorio del potere pubblico. La necessità che, nell’emanare tali atti, le diverse articolazioni della pa si conformino alla legge costituisce perciò garanzia che anche il provvedimento incidente sulla posizione del singolo abbia a fondamento una regola capace di applicarsi a situazioni analoghe e non sia frutto di una decisione ah hoc potenzialmente foriera di una discriminazione. Quest’esigenza è affermata nell’articolo 97 (imparzialità della pubblica amministrazione). A garanzia del rispetto di questi principi l’articolo 113 conferisce a ciascuno il potere di ricorrere contro atti della pubblica amministrazione contrari alla legge. Un’esplicitazione del principio di legalità è contenuta nell’articolo 4 delle Preleggi secondo cui i regolamenti governativi non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi. La giustificazione costituzionale di questa subordinazione tra fonti sta nel fatto che la legge è atto normativo prodotto dal Parlamento. Non è, quindi, ammessa la presenza di un potere normativo autonomo della pubblica amministrazione che non trovi il proprio limite e fondamento nella legge. A questo punto è necessario chiedersi se il principio di legalità come necessità di una previa legge debba ritenersi soddisfatto con una mera legge che si limiti ad autorizzare l’emanazione di un atto regolamentare o amministrativo (legalità in senso formale), o se sia necessario che la legge che la legge determini anche i principi cui l’attività pubblica si deve conformare (principio di legalità in senso sostanziale). Il principio di legalità, in assenza di indicazioni specifiche da parte della Costituzione, sembrerebbe da intendersi in senso formale. Solo quando la Costituzione richiede espressamente che una certa materia sia disciplinata dalla legge (riserva di legge), il principio di legalità sembrerebbe da intendersi in senso sostanziale. In questi casi infatti non solo è necessaria una legge che abiliti la pubblica amministrazione ad intervenire, ma il legislatore è obbligato dalla Costituzione a fissare i limiti del potere pubblico attraverso l’indicazione dei principi idonei a dirigerne l’attività. La questione, però, rimane controversa vista anche la sentenza della Corte costituzionale n. 115 del 2011 che apparentemente fa intendere la necessità del principio di legalità in senso sostanziale. [vedi sentenza] 11. RISERVA DI LEGGE Attraverso la previsione di una riserva di legge, la Costituzione prescrive che una certa materia sia disciplinata dalla legge con esclusione o limitazione delle fonti ad essa subordinate. Con la presenza di una riserva di legge si conferisce al legislatore un potere non rinunciabile, non potendo questo decidere di autorizzare esso stesso fonti secondarie ad intervenire in sua vece. La previsione di un simile istituto risponde ad esigenze di garanzia per i cittadini. Alcune riserve di leggi sono presenti nell’articolo 13 in materia di limitazione della libertà personale, nell’articolo 14 in materia di limitazione delle libertà di domicilio, nell’articolo 15, 16, 21 e 25. Esistono varie ragioni per cui sono presenti le riserve di legge: in primo luogo, si tratta della considerazione per cui è il Parlamento l’organo rappresentativo di tutti i cittadini, quindi, le leggi sono approvate all’esito di un confronto fra tutte le forze politiche che sono espressione della volontà popolare. Queste stesse garanzie non sussistono invece quando un atto normativo è approvato dal Governo in cui risiede solo la maggioranza, che non potrà quindi discutere il contenuto dell’atto con le forze politiche di opposizione. In secondo luogo, è necessario considerare che il procedimento legislativo si caratterizza per la sua trasparenza: i lavori del Parlamento sono pubblici. 21 Ciò comporta che sia massima la possibilità degli elettori di verificare le responsabilità degli eletti. Le sedute del Governo non sono, invece, oggetto di pubblicazione. Gli atti legislativi adottati dal Parlamento sono assoggettabili al controllo di costituzionalità rimesso alla Corte costituzionale. Quando la Costituzione prevede una riserva di legge per sapere se essa richiede l’intervento della legge statale o regionale bisogna guardare all’ambito di competenza materiale in cui ricade la riserva. Se siamo in presenza di una materia che può essere disciplinata solo dallo Stato l’atto legislativo dovrà essere, quindi, statale. La questione delle riserve di legge è valida anche per gli atti aventi forza di legge. Nell’adozione di un decreto-legge o di un decreto legislativo, infatti, la volontà del Parlamento non è completamente estromessa. Allo stesso tempo va ricordato che il nostro ordinamento può arrivare a mettere in discussione la ratio della riserva di legge come era intesa in origine. L’unico caso eccezionale è quello in cui la Costituzione fa espresso richiamo all’atto normativo emanato dal Parlamento o dalle Camere. In questi casi si parla di riserva di legge formale. Un esempio di essa è quello contenuto nell’articolo 80 della Costituzione secondo cui “le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”. Le riserve di legge si distinguono in riserve di legge assolute e riserve di legge relative. È compito dell’interprete verificare se, a seconda delle espressioni utilizzate, la disposizione costituzionale di volta in volta tratti di una riserva assoluta o relativa. Le riserve di legge assolute richiedono che l’intera materia sia disciplinata dalla legge. Ne consegue l’estromissione totale delle fonti subordinate, poiché la materia in considerazione potrà trovare la propria fonte di disciplina in atti normativi diversi dalle fonti primarie. Un esempio di riserva di legge assoluta è costituito dall’articolo 13 Cost. ai sensi del quale non è ammessa alcuna forma di limitazione della libertà personale “se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. È evidente come la disciplina della materia si esaurisca nella determinazione dei casi e dei modi per i quali è ammessa una limitazione della libertà personale; la norma non lascia margini di intervento ad altre fonti del diritto. In via del tutto eccezionale e solo per alcune tipologie di regolamenti, la giurisprudenza costituzionale ne ha ammesso l’adozione anche in ambiti coperti da riserva di legge assoluta. Si tratta dei regolamenti tecnici di natura strettamente esecutivi, tali perché non responsabili di integrare in alcun modo le scelte di contenuto dettate dal legislatore. Un esempio è l’elenco delle sostanze stupefacenti o delle dosi giornaliere ai fini delle relative fattispecie penali. Le riserve di legge relative si hanno, invece, quando la Costituzione si limita a richiedere che la legge determini i principi fondamentali della materia, permettendo che la disciplina sia integrata e dettagliata da atti normativi ad essa subordinati. Esempi di riserva di legge relativa sono rinvenibili nell’articolo 23 Cost. secondo cui “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, nonché nell’articolo 97 Cost. secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge”. In entrambi i casi è pacifico che residui un certo margine di intervento del potere parlamentare. L’altra distinzione in materia di riserve di legge riguarda quelle semplici e quelle rinforzate. In quest’ultimo caso la Costituzione, oltre a riservare la disciplina di una certa materia alla legge, obbliga il legislatore al rispetto di ulteriori vincoli di contenuto o di procedimento. Una riserva di legge rinforzata per contenuto è quella presente nell’articolo 16 Cost. che in materia di libertà di circolazione, ammette solo le “limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivo di sanità o sicurezza”. Non solo dunque, 22 La Corte costituzionale sottopone le norme retroattive a un rigoroso scrutinio di ragionevolezza, dichiarandole illegittime nell’ipotesi in cui la scelta del legislatore di estendere al passato gli effetti di una disciplina nuova non corrisponda a specifiche esigenze di rilievo costituzionale, come il riconoscimento di un diritto. La Corte ha affermato, inoltre, che le leggi retroattive devono fondarsi su “motivi imperativi di interesse generale”. La retroattività è connaturata alle leggi di interpretazione autentica emanate dal legislatore: esse vengono infatti adottate con l’obiettivo di obbligare gli operatori giuridici ad applicare, in un determinato senso, una disposizione anteriore. L’interpretazione così imposta fa corpo unico con la disposizione sin dalla sua entrata in vigore e dovrà essere fatta rivalere anche nei giudizi pendenti. Può accadere che il legislatore, però, anziché limitarsi ad assegnare alla disposizione interpretata un significato rientrante tra le possibili varianti interpretative introduca una norma del tutto differente, quindi nuova rispetto al precetto normativo che si vorrebbe soltanto interpretare. In questi casi, l’erroneità della qualificazione di legge di interpretazione autentica viene considerata un indice di manifesta irragionevolezza della legge stessa dalla Corte costituzionale che potrebbe condurre ad una dichiarazione di illegittimità a meno che l’intervento normativo si basa su rilevanti giustificazioni connesse alla tutela di interessi costituzionali. In materia penale, invece, è sancito direttamente a livello costituzionale il principio di irretroattività per quanto riguarda le leggi che introducono un nuovo reato o che aggravino la sanzione per un reato già previsto. Queste leggi penali, dette in malam partem, laddove dispongano anche per il passato sono dichiarate incostituzionali ai sensi dell’articolo 25 Cost. secondo cui “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. La necessità di assicurare il fondamentale principio di colpevolezza, nonché la funzione preventiva della pena (art. 27), escludono che un individuo sia sottoponibile alle gravi conseguenze che derivano dalla commissione di un reato, se al momento in cui ha compiuto il fatto, non poteva essere a conoscenza della rilevanza penale dello stesso. Il principio di irretroattività si pone quale essenziale strumento di garanzia del cittadino ed è espressivo dell’esigenza di calcolabilità delle conseguenze penali della propria condotta quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione. Vale il discorso opposto per le leggi penali che aboliscono una fattispecie di reato o che introducono un regime sanzionatorio più favorevole al reo (leggi in bonam partem). In questi casi, infatti, si applica la regola della retroattività al fine di evitare che taluno possa trovarsi a sopportare gravose conseguenze sulla base di una norma che non corrisponde alla volontà dell’ordinamento. Il fondamento di questo principio si trova nell’articolo 3 della Costituzione. Tale principio, però, non è inderogabile. Il legislatore può, dunque, introdurre deroghe al principio di irretroattività delle norme penali più miti, purchè sorrette da ragionevoli giustificazioni. [vedi articolo 2 Codice penale – limiti alla regola della retroattività] 15. RISOLUZIONE DELLE ANTINOMIE APPARENTE: CRITERIO DI SPECIALITÀ Le antinomie apparenti si risolvono con una tecnica interpretativa che non comporta alcuna conseguenza sulla validità e sull’efficacia della norma che non verrà applicata al caso concreto. Si tratta del criterio di specialità che impone di preferire, tra due norme poste sullo stesso piano gerarchico e che siano in rapporto di genere e specie, la norma speciale rispetto a quella generale. Il giudice dovrà limitarsi a non applicare la norma inconferente per il caso concreto, senza che ciò comporti ripercussioni sulla sua vigenza. 25 Un esempio è la fattispecie dell’omicidio del consenziente prevista nell’articolo 579 del Codice penale. Se il legislatore non avesse previsto una disposizione ad hoc l’autore del reato sarebbe punibile ai sensi dell’articolo 575 Codice penale. Poiché il legislatore ha deciso di adottare una norma specificamente dedicata a quest’ipotesi che infatti aggiunge un elemento di specialità rispetto alla previsione di carattere generale dell’omicidio, l’autore dell’omicidio del consenziente ne risponderà ai sensi dell’articolo 579 c.p. L’articolo 575 non perderà comunque di efficacia e validità. Va, inoltre, precisato che questo principio che è espressamente contenuto nell’articolo 15 del Codice penale, esso può essere ritenuto una tecnica interpretativa passibile di applicazione in qualsiasi settore dell’ordinamento. CAP. 3 - LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO SEZ. I - LE FONTI SUPERPRIMARIE 1. COSTITUZIONE All’origine della Costituzione si situerebbe il potere costituente che era nelle mani di coloro che hanno redatto il testo normativo. La Costituzione rappresenta il vertice del sistema e quindi, è ad un tempo fonte di legittimazione e limitazione di ogni autorità da essa abilitata ad operare. Il potere fu conferito ai costituenti tramite il decreto luogotenenziale n.151 del 1944 ai sensi del quale “dopo la liberazione le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà un’assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione”. Coerentemente all’idea che la Costituzione avrebbe determinato l’evaporazione del potere costituente, l’articolo 4 del decreto legislativo luogotenenziale n.98 del 1946 stabilì poi che l’Assemblea costituente sarebbe stata sciolta il giorno dell’entrata in vigore della Costituzione e non oltre otto mesi dopo la sua prima riunione. L’unica conclusione possibile, quindi, è che il fondamento della Costituzione, più che di natura giuridico-formale, è di matrice storico-materiale; esso è cioè rintracciabile nell’accordo intercorso tra forze politiche che, al termine della guerra, si impegnarono solidalmente nella costruzione di un nuovo ordine democratico. La Costituzione italiana è rigida e per questo si differenzia dalle Costituzioni ottocentesche, per modificarla, infatti, occorre un procedimento aggravato. La sua superiorità rispetto alle altre fonti del diritto sarebbe infatti illusoria se fosse possibile modificarla attraverso l’iter di approvazione delle leggi ordinarie. Così come lo sarebbe altrettanto se il legislatore non avesse previsto un rimedio alla violazione, da parte del legislatore ordinario, delle norme costituzionali. La rigidità della Costituzione, dunque, è data sia dal procedimento aggravato che richiede una maggior riflessione e un ampio consenso, sia dalla presenza nel sistema di un’autorità deputata a garantire il rispetto della Costituzione che è la Corte costituzionale. Con la prima sentenza del 1956 la Corte ha, inoltre, chiarito il rapporto con le norme di rango legislativo approvate prima del 1948. La Corte dichiarando incostituzionale una norma del tulps ha sancito che indipendentemente dal fatto che si tratti di leggi anteriori o successive alla Costituzione, in entrambi i casi quest’ultima “per la sua natura rigida deve prevalere sulla legge ordinaria” e che è competente a regolare i rapporti tra Costituzione e leggi ordinarie, anche quando anteriori al 1948. L’alternativa sarebbe stata attribuire tale funzione ai giudici comuni, che avrebbero abrogato le leggi ritenute incostituzionali ma si sarebbe incorsi in risultati interpretativi contrastanti con conseguenze negative sulla certezza del diritto e sull’effettivo primato della Costituzione. 2. LE LEGGI DI REVISIONE COSTITUZIONALE E LE LEGGI COSTITUZIONALI Con il procedimento contenuto nell’articolo 138 è possibile approvare le leggi Costituzionali. A questa categoria di fonti sono riconducibili due atti normativi: le leggi di 26 revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali. Sono dette di revisione costituzionale quelle leggi il cui contenuto incide sul testo della Costituzione sostituendo disposizioni in essa contenute, abrogandole, aggiungendole o modificandole. I costituenti ritennero logico non vincolare in modo permanente le generazioni future lasciandole libere, entro certi limiti, di rivederle. Le altre leggi costituzionali sono, invece, fonti che si pongono di fuori del testo della Costituzione e che hanno però quale finalità quella di conferire alle discipline introdotte, perché ritenute di particolare rilievo, rango pari a quello della Costituzione. Un esempio di legge costituzionale è la n.1 del 1948 che introduce la disciplina dei giudizi di legittimità costituzionale e le norme sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale. Questa fonte pur essendo estranea al corpus normativo della Costituzione ne condivide il rango. Per modificarla occorre, quindi ricorre al procedimento contenuto nell’articolo 138. Un esempio di legge di revisione, invece, è la n.1 del 1992 che ha modificato l’articolo 79 in materia di amnistia e indulto rendendone più difficile l’adozione. Per quanto riguarda la fase dell’iniziativa legislativa si ritengono applicabili le regole comuni previste nell’articolo 71. Dunque, i soggetti legittimati a presentare un progetto di legge costituzionale sono i medesimi che hanno facoltà di presentare un progetto di legge ordinaria. La fase di approvazione è disciplinata dall’articolo 138 Cost. La norma delinea un procedimento aggravato perché più complesso rispetto a quello contenuto nell’articolo 72 per le leggi ordinarie. L’aggravio risponde all’esigenza di sottrarre il testo costituzionale alla volontà delle mutevoli maggioranze semplici presenti in Parlamento. L’articolo 138 prevede che le leggi costituzionali siano adottate “con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi” e “a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. Sia la Camera, sia il Senato devono, quindi, esprimersi due volte sul medesimo testo di cui la prima volta a maggioranza semplice e la seconda a maggioranza assoluta a distanza di tre mesi l’una dall’altra. L’obiettivo è quello di obbligare senatori e deputati a riflettere sull’opportunità di proseguire l’iter di approvazione di una legge così importante. L’intervallo di tempo intercorre tra le due deliberazioni della stessa Camera, quindi tra la prima e la seconda del Senato e tra la prima e la seconda della Camera. Il secondo ramo del Parlamento non deve attendere necessariamente la seconda deliberazione dell’altra assemblea per avviare a sua volta il procedimento legislativo. Laddove nella seconda camera vengano apportati degli emendamenti occorrerà un ulteriore passaggio presso il ramo del Parlamento in cui è iniziato il procedimento e così via fino all’approvazione del medesimo testo in entrambe le Camere. Questo ragionamento è valido solo per la prima deliberazione, infatti, nella seconda deliberazione deve essere solo negato o confermato il medesimo testo approvato in prima deliberazione senza che ad esso possano essere apportate ulteriori modifiche. La seconda deliberazione a maggiorana assoluta è volta a ottenere un largo consenso intorno alla legge costituzionale. Se il Parlamento, però, riesca ad ottenere un consenso talmente ampio da superare i due terzi in ciascuna Camera (maggioranza qualificata), la legge può essere trasmessa direttamente per la sua promulgazione al PdR e pubblicata ai fini dell’entrata in vigore. Qualora, invece, in seconda deliberazione le leggi costituzionali ottengono la mera maggioranza assoluta, l’articolo 138, prescrive che esse “siano sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o 500000 elettori o cinque Consigli Regionali”. La pubblicazione, in questo caso, ha scopo esclusivamente notiziale e non concorre ai fini dell’entrata in vigore della legge. Serve solamente ai soggetti individuati nell’articolo per fare eventuale richiesta di 27 rappresentativo del popolo. Con l’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, la legge ha ceduto il proprio ruolo di fonte apicale del sistema normativo. Pur mantenendo la denominazione di fonte primaria, infatti, la legge è subordinata alla Costituzione e alle leggi Costituzionali e può essere pertanto dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. Inoltre, man mano le regioni hanno acquistato via via maggiore spazio d’intervento legislativo a scapito del legislatore statale. Anche le fonti internazionali e gli atti dell’Unione Europea, poi, sono diventati via via sempre più pervasivi. Infine, l’abuso degli strumenti normativi governativi, quali il decreto-legge e il decreto legislativo hanno marginalizzato il ruolo della legge parlamentare. In realtà si trova in crisi lo stesso modello normativo della legge generale ed astratta, perché sempre di più il Parlamento interviene per regolare specifici settori dell’ordinamento, per vincolati soggetti o per affrontare discipline ad hoc per particolari eventi. Ma anche in questi casi l’atto conserva la propria qualità di legge ordinaria per il solo fatto di essere approvato nel rispetto del procedimento dettato dagli articoli 70 e ss. ed è, quindi, la forma a risultare determinante. L’articolo 70 attribuisce definitivamente la funzione legislativa al Parlamento e al suo interno è stabilito che non ci sono limiti di competenza tranne quelli stabiliti dalla Costituzione come ad esempio nelle materie stabilite nell’articolo 117 che abilita ad intervenire la legge regionale. 6. PROCEDIMENTO LEGISLATIVO: FASE DELL’INIZIATIVA La legge viene approvata dalle Camere con un procedimento disciplinato dagli articoli 70 e ss Cost., nonché dai regolamenti parlamentari, per effetto del rinvio a tale fonte operato dall’articolo 72 Cost. Il procedimento legislativo è l’insieme preordinato di quegli atti che si conclude con l’entrata in vigore di una legge. Tale procedimento si compone di più fasi: 1) l’iniziativa legislativa; 2) l’approvazione della legge; 3) la promulgazione e l’entrata in vigore della legge. ● L’iniziativa legislativa, cioè il potere di presentare proposte di legge è affidato a diversi soggetti, in primis, quella di maggiore rilievo è l’iniziativa del Governo. I progetti di legge presentati dal Governo prendono il nome di disegni di legge. È importante per il peso politico che riveste: il Governo, infatti, si compone delle forze politiche che, in Parlamento, rappresentano la maggioranza. È pertanto più probabile che i disegni vengano approvati e, inoltre, in taluni casi l’iniziativa di proporre leggi è riservata, per alcune materie, al Governo. È il caso della legge di bilancio e del rendiconto annuale. Lo schema del disegno di legge è predisposto dal Ministro o dai Ministri competenti per materia ed è in seguito sottoposto alla delibera del Consiglio dei Ministri. Terminata questa fase, la presentazione del disegno di legge ad una delle due Camere è autorizzata dal PdR mediante decreto. - Un’altra tipologia di iniziativa è quella parlamentare. Ogni deputato e ogni senatore ha titolo per presentare progetti di legge. L’unico limite che questa prerogativa incontra è l’impossibilità di sottoscrivere proposte di legge nelle materie riservate all’iniziativa governativa. - Esiste, inoltre, l’iniziativa popolare. La Costituzione propone che 50000 elettori possano presentare un progetto di legge redatto in articoli. L’unico limite è nuovamente quello che le iniziative non sfocino in materie sottoposte alla mera iniziativa governativa. Si tratta di uno strumento di democrazia diretta che nella prassi ha trovato scarsissima applicazione, 30 anche in virtù del fatto che quando sono state presentate delle proposte il Parlamento non le ha mai considerate. - I Consigli regionali, invece, hanno la facoltà di presentare progetti di legge senza alcuna espressa delimitazione d’oggetto, a parte per le materie governative. Anche in questo caso, deve dirsi che la prassi ha messo in evidenza la scarsa propensione delle Regioni a servirsi di tale strumento. - L’ultima tipologia di iniziativa è quella del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. La Costituzione attribuisce a questo organo consultivo di ausilio al Parlamento e al Governo, composto di “esperti e rappresentanti delle categorie produttive”, la facoltà di presentare progetti di legge. La stessa Costituzione stabilisce, inoltre, che il Cnel può contribuire all’elaborazione della legislazione economica e sociale, quindi è opinione comune che l’iniziativa legislativa debba riguardare tali ambiti. Come per l’iniziativa popolare e regionale, il Cnel non ha mai assunto un ruolo di rilievo nella proposta di leggi. 7. FASE DELL’APPROVAZIONE L’approvazione della legge richiede che entrambe le Camere in un sistema di bicameralismo paritario perfetto si esprimano favorevolmente sul medesimo testo. Così, una volta che il progetto di legge sia stato approvato da una delle Camere, esso è trasmesso all’altro ramo del Parlamento. Se la seconda Camera approva degli emendamenti il testo dovrà tornare alla prima Camera per una nuova approvazione. L’iter di approvazione per ciascuna Camera si trova disciplinata nell’articolo 72 e nelle norme dei regolamenti parlamentari. Il procedimento legislativo vede sempre coinvolte le Commissioni parlamentari permanenti e più precisamente quelle competenti per la materia di volta in volta considerata dal progetto di legge. Il passaggio obbligatorio in una Commissione risponde all’esigenza di affidare ad un organo a composizione ristretta lo svolgimento dell’istruttoria sul testo proposto che a causa dell’elevato numero di parlamentari non potrebbe svolgersi adeguatamente in Parlamento. Attraverso l’istruttoria che prevede il parere di esperti, un esame sulla necessità legislativa, sui suoi costi, sugli obiettivi e sulla coerenza degli strumenti predisposti allo scopo, nonché una valutazione sugli oneri conseguenti alla disciplina che si intende introdurre, le Commissioni acquisiscono tutti gli elementi utili ad una consapevole deliberazione da parte del Parlamento. A seconda del ruolo che la Commissione permanente è chiamata a svolgere nell’ambito dell’iter di approvazione della legge si possono distinguere tre diverse modalità di approvazione: - Procedimento ordinario → Questo procedimento prevede che la proposta di legge sia esaminata articolo per articolo dalla Commissione competente per materia, e che, in seconda battuta, essa venga esaminata articolo per articolo e approvata dall’Assemblea nella sua composizione plenaria. La Commissione permanente che si dice operi in sede referente procede dapprima ad una discussione generale sul progetto di legge per poi passare all’esame dei singoli articoli, con la possibilità di approvare emendamenti. In Assemblea, dove i lavori godono della pubblicità massima, il progetto di legge è anzitutto oggetto di una discussione sulle linee generali. In questa fase, possono anche essere messe al voto questioni pregiudiziali di legittimità costituzionale e di merito, volte a impedire la prosecuzione dell’esame del progetto di legge. In un secondo momento, si apre la discussione e la votazione articolo per articolo con l’eventuale proposta. Illustrazione e votazione di emendamenti. Di norma, ad essere messi in votazione per primi in votazione sono gli emendamenti la cui approvazione precluderebbe logicamente l’esame di quelli ulteriori. Prima i parlamentari si esprimono sugli 31 emendamenti soppressivi e poi su quelli modificativi e per ultimi quelli aggiuntivi. Una prassi problematica è quella dei maxiemendamenti. Si tratta di una proposta di modifica, solitamente presentata dal Governo, che incide su più disposizioni del testo. Può, quindi, accadere che una proposta di legge prima strutturata in più articoli sia ridotta ad un articolo unico, al cui interno vengono però inserite tutte le disposizioni normative prima separate. La prassi diventa problematica quando i precetti normativi accorpati siano numerosi e tra loro eterogenei. Un esempio è la legge n.76 del 2016 sulle Unioni Civili e le Convivenze che contiene un solo articolo con 69 commi. L’articolo 72 della Costituzione stabilisce chiaramente che i progetti di legge devono essere approvati “articolo per articolo”. Queste pratiche, peraltro, rischiano di incidere negativamente sulla qualità del testo e danno luogo a successive incertezze interpretative. In realtà la Corte costituzionale non ha mai censurato questa tecnica legislativa, allo stesso tempo ha avvertito dei rischi che si producono quando il maxi-emendamento si accompagni alla presentazione da parte del Governo di una questione di fiducia; atto che ha l’effetto di bloccare la discussione parlamentare obbligando le Camere a votare sul testo accorpato nel maxi-emendamento. Questo modo di procedere può precludere un’adeguata riflessione da parte del Parlamento. Una volta che sono stati votati i singoli articoli del progetto, l’Assemblea procede alla votazione finale dell’intero testo legislativo, così come risultante dalle modifiche apportate alla versione originaria. Questa fase è importante perché i singoli parlamentari potrebbero essere insoddisfatti del complessivo risultato finale e decidere di esprimersi negativamente. Il voto è di regola palese e la maggioranza richiesta è semplice. - Procedimento decentrato → : L’articolo 72 Cost. consente al regolamento parlamentare di stabilire che in alcuni casi la Commissione che in questo caso opera in sede deliberante o legislativa possa approvare definitivamente la legge senza bisogno di una votazione dell’Assemblea. In questi casi la Commissione non si limita a svolgere una funzione istruttoria, ma ad essa è affidato il compito di giungere anche alla deliberazione conclusiva dell’iter parlamentare. Questa procedura è esclusa per le leggi in materia costituzionale, elettorale, leggi di delegazione legislativa, approvazione di bilanci e consuntivi, ratifica di trattati internazionali, in cui deve essere utilizzato il procedimento ordinario (riserva d’Assemblea). Fino al momento della sua approvazione definitiva, il progetto di legge affidato alla procedura decentrata può essere rimesso all’Assemblea laddove ne facciano richiesta il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto della Commissione. - Procedimento misto → Questo procedimento trova legittimazione nei regolamenti parlamentari. Si tratta di una tipologia intermedia tra il procedimento ordinario e il procedimento decentrato. Alla Commissione, che in questo caso prende il nome di sede redigente, è, infatti, rimesso l’esame del progetto e il voto sugli emendamenti, mentre all’Assemblea spetta univocamente la votazione sui singoli articoli e sul testo finale, senza possibilità di approvare emendamenti. Questo procedimento è escluso per le materie sopraelencate che richiedono necessariamente il processo ordinario. E’ necessario ricordare che i regolamenti parlamentari possano prevedere procedimenti abbreviati per i progetti di legge di ci sia dichiarata l’urgenza. In questo caso sono ridotti i tempi previsti per le diverse fasi del procedimento. I regolamenti parlamentari prevedono che sia il Presidente a decidere che il progetto di legge sia approvato seguendo uno o l’altro dei procedimenti possibili. Alcune modifiche in Senato hanno 32 dell’approvazione del primo atto legislativo. Negli anni più recenti è, però, invalsa la prassi di adottare decreti legislativi correttivi ed integrativi su espressa autorizzazione del Parlamento. Quest’ultimo è come se autorizzasse una delega in più tempi: in un primo momento adempiendo alla delega principale, in un secondo, alla luce degli effetti concretamente prodotti dal precedente intervento normativo, adottando le correzioni che si siano rivelate necessarie. Questione differente è quella che riguarda la possibilità che il Governo adempia con più decreti legislativi a una legge di delega che contenga una pluralità di oggetti distinti. La stessa legge delega solitamente specifica che il Governo è delegato ad adottare entro il termine previsto uno o più decreti legislativi negli oggetti indicati. L’articolo 14 della legge n.400 del 1988 disciplina anche questa ipotesi. Sempre questo articolo disciplina, inoltre, che l’approvazione del decreto legislativo deve avvenire mediante deliberazione del Consiglio dei Ministri ed emanato dal PdR. Nel preambolo deve essere indicata la legge di delega, la deliberazione del Consiglio di ministri e degli eventuali altri adempimenti previsti dalla legge di delega. Esso deve essere pubblicato col nome di decreto legislativo. Qualora non si attenga, nei propri contenuti, alle prescrizioni previste nella legge delega incorre in un’indiretta violazione dell’articolo 76 Cost. e perciò può essere dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale per vizio di eccesso di delega. In questi casi, infatti, la legge di delega costituisce, norma interposta tra il decreto legislativo e l’articolo 76 Costituzione. Per verificare se il legislatore delegato si sia posto in difformità rispetto al legislatore delegante occorre individuare la ratio della delega e poi valutare se il legislatore abbia ecceduto i margini di discrezionalità conferiti dal Parlamento. La Corte costituzionale ha, inoltre, chiarito che in assenza nella legge di delega di puntuali direttive su ogni aspetto della materia, al Governo non è precluso intervenire con previsioni rientranti in tali profili scoperti purchè esse rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante. L’ordinamento prevede la possibilità di discostarsi dal modello di delega proposto dall’articolo 76 Cost. Si parla di deleghe legislative anomale con cui vengono conferiti particolari poteri al Governo. Un tipo anomalo di delega è quella con cui si attribuisce al Governo il compito di raccogliere tutte le disposizioni normative vigenti in una determinata materia. L’atto normativo è definito testo unico e serve a riordinare un certo ambito di disciplina, soprattutto quando è complicato da un’eccessiva produzione normativa. La particolarità di questa delega sta nel fatto che il Parlamento non indica i principi e i criteri direttivi cui l’esecutivo si deve attenere che sono implicitamente ricavabili dal complesso delle leggi che il Governo deve riordinare. Nell’attività di riordino il Governo può essere abilitato anche a modificare e abrogare le norme che è chiamato a coordinare; in questo caso si parla di testi unici di coordinamento. Esistono anche testi unici che sono il risultato di un’attività meramente compilativa. Questo tipo di testo unico ha funzione ricognitiva. Un altro caso di delega anomala è anche quella con la quale si procede al conferimento di poteri in caso di dichiarazione dello stato di guerra: l’articolo 78 della Costituzione stabilisce che le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari. Questo articolo non prevede che la delega sia da conferire tramite legge anche se la dottrina la ritiene indispensabile. Il Parlamento nel conferire la delega non è tenuto a dover indicare l’oggetto della delega, i principi e i criteri direttivi e nemmeno il tempo limite. La genericità della disposizione si deve alla necessità di garantire all’Esecutivo un ampio spazio di manovra in un momento delicato. In dottrina è stato sostenuto che il Governo sia abilitato ad adottare provvedimenti sospensivi di diritti costituzionali, ma il riferimento a “poteri necessari” non sembra indicare che non possa essere inteso in questo senso, sottostando anch’essi, dunque, ai precetti costituzionali. 35 12. DECRETO-LEGGE L’istituto del decreto-legge risponde alla necessità del sistema di approntare un intervento normativo nei casi che, per l’eccezionalità, l’imprevedibilità e l’urgenza coi quali si presentano non possono attendere i tempi richiesti dall’ordinario iter legislativo. La disciplina di questo istituto si trova nell’articolo 77. Questo articolo premette che il Governo non può emanare decreti con valore di legge ordinaria senza delegazione delle Camere, ma esiste un’eccezione. Il Governo è abilitato ad adottare in casi straordinari di necessità e d’urgenza sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge. Il decreto-legge è soggetto ad una serie di restrizioni, riguardanti oltre i presupposti di adozione anche l’efficacia del provvedimento. Il decreto-legge ha, infatti, natura provvisoria: se non convertito in legge in Parlamento entro 60 giorni dalla sua pubblicazione perde efficacia sin dall’inizio. Inoltre, il decreto-legge è assunto sotto la responsabilità non solo politica ma anche giuridica del Governo che potrebbe essere chiamato a rispondere in sede civile, penale o amministrativa delle conseguenze prodotte dal decreto. A. Presupposti del decreto-legge → Quanto ai presupposti giustificativi l’articolo 77 Cost. si riferisce a situazioni per far fronte alle quali non è possibile attendere il Parlamento, con gli ordinari tempi di approvazione della legge. Nella prassi si è avuto scarso rispetto delle condizioni richieste dall’articolo 77, infatti, i Governi hanno spesso fatto uso della decretazione d’urgenza all’unico scopo di evitare lungaggini del procedimento legislativo ordinario. La Corte costituzionale ha via via affinato la tecnica per individuare i fattori indicativi dell’assenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza. Esistono ulteriori presupposti stabiliti dall’articolo 15 della legge n.400 del 1988 si segnalano: il divieto per il Governo di ricorrervi al fine di conferire deleghe legislative; di intervenire nelle materie per le quali è prevista la riserva di assemblea; di regolare rapporti sorti sulla base di decreti-legge non convertiti. Già l’articolo 72 stabiliva che alcune materie possono essere regolate solo con procedimento legislativo ordinario. Vi è, inoltre, il divieto di adottare decreti-legge che ripristino l’efficacia di disposizioni dichiarate incostituzionali per vizi sostanziali. Nel caso succedesse si incorrerebbe in una violazione del cosiddetto giudicato incostituzionale, protetto dall’articolo 136 Cost. Un ulteriore divieto consiste nel non rinnovare disposizioni di precedenti decreti di cui sia stata negata la conversione in legge. Nel caso succedesse verrebbe violata la natura stessa del decreto-legge quale strumento di eccezione. Il decreto-legge, inoltre, deve introdurre misure di immediata applicazione e che abbiano contenuto specifico e omogeneo. Sarebbero illegittimi decreti-legge che introducessero discipline ad efficacia differita nel tempo o per la cui effettiva operatività si rende necessaria l’approvazione di ulteriori atti normativi. La giurisprudenza ha, però, ritenuto di tenere in considerazione i casi in cui il decreto, nonostante si fondi su criteri di urgenza, per qualche aspetto abbia risultato necessariamente differito. Quanto alla necessità di omogeneità, non è inusuale l’inserimento di norme riguardanti molteplici materie. Questa tecnica normativa si è rivelata in alcuni casi preordinata proprio a mascherare una violazione dell’articolo 77. In presenza di una norma eterogenea rispetto a titolo e contenuto del decreto può essere sintomatica del suo essere sprovvista dei requisiti di necessità e urgenza. B. Il procedimento di approvazione e di conversione del decreto legge → Il decreto-legge deve essere adottato su deliberazione del Consiglio dei ministri, presentato al PdR per l’emanazione e immediatamente pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Grazie alla pubblicazione il decreto entra in vigore. Il giorno stesso il Governo è tenuto a presentare al Parlamento previa autorizzazione del PdR, un 36 disegno legge di conversione. Si tratta di un disegno con un solo articolo generalmente. L’articolo 77 stabilisce che le Camere si devono riunire entro 5 giorni. Senato e Camera prevedono nei loro regolamenti procedimenti particolari per la conversione dei decreti per garantire un tempestivo esame. Una volta che viene presentato il disegno di legge di conversione possono accadere tre cose: il Parlamento non esaurisce l’iter legislativo di conversione entro 60 giorni, oppure il Parlamento non approva la legge di conversione o ancora il Parlamento approva la legge di conversione entro 60 giorni. Nelle prime due ipotesi il decreto-legge decade e perde i suoi effetti fin dall’inizio. Il decreto è da intendersi come mai adottato. Il Parlamento può approvare un’apposita legge, detta legge di sanatoria, finalizzata a regolare i rapporti sorti durante la vigenza del decreto. Nell’ultima ipotesi, invece, gli effetti solo provvisoriamente prodotti dal decreto vengono stabilizzati nell’ordinamento. In sede di conversione le Camere possono apportare modifiche alla disciplina originaria del decreto, ma senza inserire norme del tutto eterogenee rispetto all’oggetto e alle finalità del decreto stesso. In questo caso, comunque, le modifiche apportate hanno effetto ex nunc, più precisamente, a partire dal giorno successivo. Si tratta di una questione controversa, soprattutto per il fatto che alcune norme soppresse o sostituite sono un implicito rifiuto di alcune disposizioni. In questo caso le modifiche approvate dal Parlamento comportano la perdita di efficacia, sin dall’inizio, della specifica norma del decreto da considerarsi non convertita. C. Il controllo sugli abusi nella decretazione d’urgenza → : La giurisprudenza costituzionale è intervenuta più volte a sanzionare prassi chiaramente distorsive del dettato costituzionale, sia per abusi commessi dal Governo che dal Parlamento. La Corte ha chiarito che i presupposti sanciti nell’articolo 77 sono da considerarsi requisiti di valutazione costituzionale del decretolegge. Ma perché si configuri un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge la carenza dei requisiti deve risultare evidente. In questo modo, il giudizio della Corte non rischia di sovrapporsi alle valutazioni di natura prettamente politica che spettano in un primo momento al Governo e in un secondo momento al Parlamento. La Corte ha poi ulteriormente chiarito che il suo sindacato può estendersi anche alla legge che abbia convertito un decreto-legge sprovvisto di requisiti. È una questione importante visto che la Corte difficilmente ha il tempo di scrutinare il decreto-legge prima della conversione. Con la sentenza n.171 del 2017 ha definitivamente chiarito il proprio orientamento in materia, dando prevalenza alla tesi secondo cui i vizi del decreto-legge si trasformano in vizi in procedendo della legge di conversione, non essendo quest’ultima affatto idonea a sanarli. Un secondo ambito su cui la Corte ha esercitato il controllo è quello relativo alla omogeneità delle modifiche apportate dal Parlamento. In effetti, la tendenza a modificare molto il contenuto originario pone molte perplessità. La Corte, per la prima volta nel 2012, ha sanzionato simile pratica, affermando che il Parlamento non può inserire nel testo emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del decreto-legge. Questo comporterebbe, infatti, una violazione dell’articolo 77 che fissa un nesso di interrelazione funzionale tra decreto e legge di conversione caratterizzata da un iter di approvazione peculiare. Infatti, l’iter può durare al massimo 60 giorni e la discussione ne risulta sacrificata, ma questo periodo non può essere usato per altri fini, quali l’approvazione di norme intruse che nulla hanno a che fare con la disciplina dettata dal Governo. Questa prassi aggira la Costituzione. In passato i Governi, inoltre, hanno dato luogo ad una forma di abuso della decretazione d’urgenza che oggi è stata quasi del tutto arginata. Si tratta della 37 funzionamento di organi costituzionali non possono essere sottoposte a referendum totale, bensì solamente a referendum parziale. Questo alla sola condizione che la normativa risultante dall’eventuale esito positivo sia autosufficiente, cioè idonea a consentire la formazione degli organi in questione e che essi possano svolgere le loro funzioni. Esistono anche dei referendum cosiddetti “manipolativi” che riguardano singole parole o parti di frasi prive di significato autonomo. La Corte costituzionale ha cercato di tracciare i confini tra manipolazione ammissibile e manipolazione inammissibile. Risultano essere inammissibili quei quesiti parziali che, nell’abrogare frammenti di una disposizione mirano ad introdurre norme del tutto estranee al contesto normativo previgente. Questi quesiti vengono anche detti propositivi e sotto le mentite spoglie dell’abrogazione sono volte a creare un nuovo diritto attraverso uno strumento che ha un altro fine. In definitiva, il criterio elaborato dalla Corte costituzionale è volto a escludere l’ammissibilità dei referendum manipolativi che danno luogo alla creazione di norme nuove, prima sconosciute nell’ordinamento. Un esempio: è stata dichiarata inammissibile la richiesta di abrogazione parziale della legge n. 223 del 1990 recante la disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato che mirava a rideterminare il limite quantitativo degli introiti pubblicitari della rete pubblica stravolgendo, secondo la Corte, la ratio originaria della norma. La Corte, invece, ritiene ammissibili i referendum manipolativi che, pur incidendo inevitabilmente sull’ordinamento mirano solo ad espandere principi e regole già incorporati nella legislazione vigente. Un esempio è la sentenza n. 32 del 1993 che ha ritenuto ammissibile un referendum parziale sul sistema elettorale del Senato eliminando il riferimento alla soglia del 65%, abbandonando cioè il criterio proporzionale che veniva sostituito con un sistema maggioritario (solo parzialmente corretto dal criterio proporzionale): ciò senza giungere alla creazione di un sistema completamente sconosciuto alla legge oggetto di abrogazione parziale. Il criterio maggioritario, infatti, era già presente. I referendum manipolativi ammissibili investono solitamente le leggi costituzionalmente necessarie. La necessità di lasciare in vita una normativa che assicuri il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali di fatto rende quasi obbligata la strada della manipolazione. La giurisprudenza, però, non si ferma a porre dei limiti sulle leggi non passibili di referendum, ma pone dei limiti anche ai quesiti che si possono sottoporre ai cittadini. In particolare, è richiesta l’omogeneità del quesito e che venga formulato in maniera tale per cui risulti univoco, non essendo ammissibili quesiti che contengano più domande prive di matrice razionalmente unitaria. È indispensabile, infatti, che l’elettore possa esprimersi singolarmente su ciascuna questione. Un esempio: con la sentenza n.28 del 1981 la Corte ha dichiarato inammissibile la proposta di abrogazione di 31 articoli del Codice penale. Gli elettori avrebbero potuto volere l’abrogazione solo di alcune norme sottoposte al voto e non di altre: la formulazione del quesito, però, precludeva questa possibilità. Successivamente, sempre la Corte costituzionale si è spinta anche oltre pretendendo che il quesito rispettasse i requisiti di chiarezza, coerenza, completezza ed esaustività e verificando che il risultato finale del referendum coincidesse con gli intenti dei promotori. c. Fase dell’indizione → L’indizione del referendum avviene con decreto del Presidente della Repubblica previa delibera del Consiglio dei ministri. La data 40 viene fissata in un periodo compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno. Ma se una volta indetto il referendum accade che le Camere vengano sciolte anticipatamente, il referendum viene sospeso e i termini ricominciano a decorrere alla scadenza di un anno dallo svolgimento delle elezioni. Se le elezioni avvengono dopo il 15 giugno il referendum può slittare di due anni perché il termine del 15 giugno per il referendum è indefettibile. L’articolo 39 della legge n.352 del 1970 regola il caso in cui, prima che si svolga il referendum, il Parlamento intervenga ad abrogare o modificare con una propria legge, quella oggetto del referendum. Questa norma tocca uno degli aspetti più importanti del rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. La Corte ha, però, chiarito che “se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia senza modificare né i principi della disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti” il referendum deve svolgersi comunque sulle nuove disposizioni legislative. d. Fase della votazione → Perché il referendum sia valido occorre che partecipino al voto la metà più uno degli aventi diritto e perché il quesito sia approvato che si pronunci in maniera positiva la metà più uno dei votanti. La previsione del quorum di validità ha la funzione di impedire che una minoranza possa decidere di abrogare le leggi votate dal Parlamento. Il graduale abbassamento del livello di partecipazione del popolo alla vita politica si è trasformato negli ultimi anni in un ostacolo all’efficacia di tale istituto. Facendo leva su questa disaffezione e sul raggiungimento del quorum, le forze politiche contrarie alla richiesta referendaria hanno avuto peraltro buon gioco di esortare all’astensione invece che incitare a votare per il no. e. Fase di proclamazione del risultato → Se l’esito è positivo, il Presidente della Repubblica lo dichiara con decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il Capo dello Stato può ritardare l’abrogazione di al massimo 60 giorni dalla data di pubblicazione e previa delibera del Consiglio dei ministri. La ratio è quella di permettere al Parlamento, se ritiene, di intervenire per evitare il determinarsi di un vuoto normativo per effetto dell’esito referendario. Dall’abrogazione referendaria di una legge discende il divieto per il legislatore di approvare una legge analoga a quella abrogata. La Corte ha stabilito che il vincolo si giustifica in virtù di una prospettiva integrata degli strumenti di democrazia diretta nel sistema della democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione. Non è ad oggi chiaro per quanto tempo duri questo vincolo nei confronti del Parlamento. Se, invece, l’esito è negativo il Ministro di Giustizia ne dà notizia sulla Gazzetta Ufficiale e inoltre, ai sensi della legge n.352 del 1970 non è possibile effettuare richiesta di referendum analogo per cinque anni. Questo vincolo opera solo nel caso in cui sia stato raggiunto il quorum. Tenendo conto di tutti questi aspetti si capisce perché il referendum abrogativo sia un atto avente forza di legge, in grado di abrogare proprio leggi o atti aventi forza di legge. Si tratta di una fonte atto perché espressione della manifestazione di volontà proveniente da un soggetto (il corpo elettorale) cui una norma di riconoscimento demanda il potere di abrogazione. Da un punto di vista formale, gli effetti del referendum potrebbero dirsi “unidirezionali”: in caso di esito positivo, infatti, l’effetto è la sola abrogazione di norme o parti di norme. L’istituto referendario non consente, invece, di introdurre nell’ordinamento una nuova disciplina voluta dal corpo elettorale. Inoltre, va tenuto conto che l’abrogazione non comporta semplicemente il venir meno di una data norma, ma ha come conseguenza una sostanziale modifica del sistema normativo 41 preesistente; il vuoto lasciato dalla norma abrogata costringe l’interprete a cercare la disciplina della materia in disposizioni legislative dal contenuto diverso. L’effetto innovativo è evidente nel caso di referendum abrogativi parziali che lasciano in vigore una normativa di risulta dal significato differente rispetto a quello originariamente voluto dal Parlamento. 14. I REGOLAMENTI PARLAMENTARI I regolamenti parlamentari sono gli atti che dettano, per ciascuna delle Camere di cui si compone il Parlamento la disciplina di organizzazione e funzionamento delle attività che esse sono chiamate a svolgere. Con essi sono stabilite le regole di comportamento di deputati e senatori, le regole di organizzazione degli organi interni a ciascuna camera, le regole con cui detti organi operano, le regole che riguardano i rapporti di ciascuna Camera con il proprio personale dipendente e anche con soggetti esterni. L’articolo 64 della Costituzione stabilisce che ciascuna camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta (garanzia per le minoranze politiche presenti) dei suoi componenti. Questo potere di autoregolamentazione è ritenuto la massima espressione dell’autonomia delle Camere rispetto agli altri poteri dello Stato. I regolamenti parlamentari sono qualificabili come fonti del diritto e, in particolare, come fonti primarie. Si tratta di fonti a competenza riservata: infatti, nella materia che la Costituzione ad essi riserva è precluso alla legge e a qualsiasi altra fonte di intervenire. I regolamenti e le leggi si trovano sullo stesso piano gerarchico e i loro rapporti si dispiegano in forza del criterio di competenza. Una questione molto dibattuta riguardo essi concerne l’impossibilità che essi siano sindacati dalla Corte costituzionale per eventuali violazioni. La stessa Corte ha escluso che i regolamenti possano costituire, al pari delle altre leggi, oggetto del giudizio di costituzionalità. Ciò per due ragioni: 1) non si tratta di fonti annoverabili nella categoria degli atti aventi forza di legge che l’articolo 134 stabilisce siano passibili di controllo di costituzionalità e 2) perché una diversa interpretazione urterebbe contro il sistema che vede in posizione centrale proprio le Camere, cui spetta una indipendenza nei confronti di qualsiasi altro potere. Infine, va segnalato che qualora una legge venga approvata senza rispettare uno o più norme previste dai regolamenti, non sarà possibile far valere tale vizio in un giudizio di costituzionalità. Questo poiché il regolamento parlamentare stesso non può fungere da parametro. L’unica eccezione si ha quando la norma regolamentare violata costituisca la sostanziale riproduzione di una norma costituzionale relativa al procedimento. SEZ. III - FONTI STATUTARIE E FONTI PRIMARIE REGIONALI 15. LEGGI STATUTARIE DELLE REGIONI ORDINARIE Gli Statuti delle 15 regioni ordinarie sono riconducibili alla categoria delle fonti atipiche o leggi statutarie regionali. Da un lato, esse sono sovraordinate alle fonti di legislazione ordinaria regionale e dall’altra sono subordinate alla Costituzione. Gli Statuti e le leggi regionali sono fonti tra loro ordinate gerarchicamente; la prima prevale sulla seconda. Lo Statuto si colloca al vertice delle fonti regionali e, ai sensi dell’articolo 123 Cost., sta ad esso delineare la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione della Regione. Si tratta di una sorta di Costituzione regionale. Anche il procedimento di approvazione dello Statuto regionale è diverso e più complesso rispetto a quello usato per approvare una legge regionale. L’articolo 123 Cost stabilisce che la legge statutaria sia approvata con due deliberazioni successive, adottate ad intervallo non minore di due mesi e che per entrambe occorra la maggioranza assoluta. Lo Statuto viene poi pubblicato a fini meramente notiziali e può: entro 30 giorni essere impugnato dal Governo per sottoporlo al controllo di costituzionalità o entro tre mesi essere oggetto di una richiesta di referendum. I soggetti abilitati a presentare tale richiesta sono una 42 legislativa sulla quale poggiare la disciplina regolamentare, a meno che non si consideri l’articolo 17 della legge 400 del 1988 come una sorta di autorizzazione generale. Questo, però, non eliminerebbe il problema del principio di legalità perché è necessario qualcosa in più di una mera autorizzazione in bianco, servirebbe una legge che individui le materie nelle quali i regolamenti indipendenti potrebbero intervenire. Il problema teorico è molto ridimensionato in virtù del fatto che esistono pochissime materie sulle quali non sia intervenuta una legge. - Regolamenti di organizzazione → Essi intervengono a disciplinare tutto ciò che riguarda il personale, le strutture, il funzionamento dei pubblici uffici, nel rispetto della legge. In materia, infatti, esiste una riserva di legge relativa. - Regolamenti autorizzati → vengono detti anche regolamenti delegati o di delegificazione. Essi sono adottati sulla base di leggi che delegano un successivo regolamento ad intervenire in materie che non siano coperte da riserva di legge assoluta. La legge che autorizza l’adozione di tali regolamenti deve fissare i principi generali della materia e dispone che l’entrata in vigore delle norme regolamentari comporta l’abrogazione delle norme di leggi vigenti. Deve intendersi però, che tale abrogazione sia disposta dalla legge che autorizza l’adozione del regolamento. Infatti, se l’abrogazione dipendesse dal regolamento verrebbe violata la regola secondo cui la fonte abrogante non può essere di rango superiore a quella che si pretende di abrogare violando il principio di legalità. Attraverso l’utilizzo di questa tipologia di regolamenti si cerca di porre un rimedio al fatto che nel nostro ordinamento la maggior parte delle regole giuridiche è contenuta in leggi. La sostituzione di leggi con regolamenti consente di semplificare il procedimento necessario ad aggiornare le discipline normative perché occorre la meno complessa procedura di approvazione di un regolamento rispetto a quella di un atto legislativo. Sono regolamenti autorizzati quelli abilitati dalla legge n. 127 del 1997 che ha introdotto la semplificazione delle regole sulla documentazione amministrativa. - Regolamenti ministeriali ed interministeriali → essi sono adottati dal singolo Ministro o dai Ministri che si occupano delle materie oggetto del regolamento ed assumono la forma di Decreto ministeriale o di Decreto interministeriale. Come i regolamenti governativi occorre il parere del Consiglio di Stato e il controllo di legittimità della Corte dei conti. Di tali atti deve darsi comunicazione al Presidente del Consiglio che potrebbe decidere di sospenderne l’adozione per rimetterla alla decisione del Consiglio dei ministri. - Regolamenti della Pubblica Amministrazione → : sono quelli che l’articolo 4 delle Preleggi definisce “di altre autorità” e sono espressivi di un potere esercitabile dalle singole pubbliche amministrazioni nelle rispettive competenze. Non possono comunque dettare norme contrarie a quelle governative. SEZ. V - FONTI SECONDARIE REGIONALI E DELLE AUTONOMIE LOCALI 18. REGOLAMENTI REGIONALI Le Regioni hanno titolo per approvare anche regolamenti, fonti del diritto che si posizionano al di sotto delle leggi regionali. La Costituzione prevede direttamente tale potere all’articolo 117 in cui è stabilito che le Regioni possono adottare un regolamento in tutte le materie in cui esse hanno competenza legislativa concorrente o residuale. Viceversa, nelle sole materie di competenza legislativa esclusiva statale spetto allo Stato anche la relativa funzione regolamentare. In assenza di disposizioni costituzionali espresse, la Corte costituzionale ha ritenuto che sia lo Statuto regionale, nel definire la forma di governo, a indicare se i regolamenti debbano essere adottati dall’organo 45 legislativo o dall’organo esecutivo. Prima della riforma costituzionale del 1999, l’articolo 121 Cost. attribuiva questo potere al solo Consiglio regionale. 19. ATTI NORMATIVI DEGLI ENTI LOCALI L’articolo 114 della Costituzione stabilisce che i comuni, le Province e le Città Metropolitane sono “enti autonomi con propri Statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” e, inoltre, l’articolo 117 sancisce che questi enti hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Per individuare i rispettivi ambiti di competenza e la procedura di adozione è necessario riferirsi a delle leggi statali, la n. 131 del 2003 e al d.lgs. n. 267 del 2000. Per gli statuti si stabilisce che questi hanno la competenza a fissare le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente, nonché ad intervenire su altri profili di ordine istituzionale o a garantire il rispetto di alcuni diritti e principi cardine. Per l’approvazione dello Statuto è richiesto al Consiglio dell’ente locale di seguire un procedimento speciale volto a garantire un consenso ampio. I regolamenti hanno invece competenza a disciplinare più specificamente l’organizzazione dell’ente locale, nonché a dare regole sullo svolgimento e la gestione delle funzioni ad esso conferite. SEZ. VI - ALTRE FONTI 20. CONSUETUDINI Le consuetudini sono fonti-fatto in quanto non corrispondenti ad una manifestazione di volontà normativa proveniente da un organo. Sono fonti non scritte e quindi non trovano sede in una disposizione normativa. Per il riconoscimento di una consuetudine occorrono due elementi: 1. costante ripetersi nel tempo di un comportamento tenuto dai membri di una comunità 2. convinzione di coloro che assumono come proprio quel comportamento che esso sia giuridicamente obbligato (opinio iuris ac necessitatis) affinché un comportamento regolarmente tenuto dai consociati integri una consuetudine e, quindi, una regola di diritti, occorre che vi sia il convincimento collettivo della sua rilevanza giuridica. Nel nostro ordinamento, la consuetudine ha un rango variabile. Esistono quindi: - CONSUETUDINI INTERNAZIONALI → regole di comportamento osservate, perché ritenute obbligatorie, non da soggetti qualsiasi, ma dalla generalità degli Stati e che entrano nel nostro sistema normativo con lo stesso rango dell’art. 10 Cost., quindi di fonte costituzionale - CONSUETUDINI COSTITUZIONALI → comportamenti tenuti da organi costituzionali in ambiti in cui non esiste una disciplina costituzionale puntuale, cosicché le consuetudini costituzionali ne integrano il contenuto. → principi e regole non scritti, manifestati e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque reti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe) - CONVENZIONI COSTITUZIONALI In presenza di una lacuna nella Cost. può succedere che gli organi costituzionali raggiungano un accordo, per lo più tacito su come operare, senza essere giuridicamente vincolati. Se il comportamento tenuto sulla base di tale accordo si consolidasse e subentrasse la convinzione di osservare una regola vincolante, la convinzione si trasformerebbe in consuetudine costituzionale. 46 Il rango costituzionale che assumono talune consuetudini dovrebbe condurre a ritenere che leggi ordinarie approvate in violazione delle stesse siano affette da un vizio di costituzionalità censurabile. - USI Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti, gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati. Nel nostro ordinamento non sono ammesse consuetudini contra legem, che dispongano, cioè, in difformità rispetto a quanto stabilito dalle leggi e dai regolamenti. Sono invece configurabili consuetudini secundum legem, cui rinviano di volta in volta specifiche norme di legge o di regolamento. Sono inoltre ammesse consuetudini praeter legem, che possono cioè intervenire nei settori che non siano stati già regolati dal diritto scritto. 21. CONTRATTI COLLETTIVI DEL LAVORO L’art. 39 Cost., nel riconoscere la libertà di organizzarsi in sindacati, prefigura la possibilità che essi si registrino presso degli uffici pubblici, alla condizione che i propri statuti configurino un ordinamento interno a base democratica. La conseguenza della registrazione consiste nell’acquisizione da parte dei sindacati di personalità giuridica e nella facoltà di stipulare con le rappresentanze delle imprese contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. L’obiettivo del costituente era di lasciare in parte la regolazione dei rapporti di lavoro all’autonomia negoziale delle categorie direttamente interessate. La Corte cost. ha chiarito che l’autonomia collettiva non può dal legislatore essere annullata o compressa nei suoi esiti concreti, a meno che la legge non intervenga per prevedere un trattamento più favorevole per i lavoratori oppure a salvaguardia di superiori interessi generali. I contratti collettivi rispondono ad un modello di normazione del tutto peculiare. Essi sono riconducibili alla dimensione privatistico-negoziale, ma allo stesso tempo, la capacità loro imputata di estendere la propria portata precettiva oltre le parti contraenti, vincolando tutti coloro che rientrano nella categoria lavorativa coinvolta, fa di esse delle vere e proprie fonti del diritto. Lo schema ideale descritto nella disposizione costituzionale è rimasto inattuato → perchè un sindacato possa stipulare contratti con effetti generali occorre che sia registrato. Prima: → legge n. 751 del 1959 delegava il Governo ad emanare decreti legislativi che, nell’individuare i minimi inderogabili di trattamento economico e normativo validi per tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, di fatto ricevevano gli accordi collettivi stipulati → questa legislazione è stata poi dichiarata incostituzionale in sede di reiterazione Oggi: → i contratti collettivi sottoscritti tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le rappresentanze dei datori di lavoro sono riconducibili a contratti di diritto comune, che dovrebbero vincolare solo gli iscritti ai sindacati dei lavoratori I datori di lavoro si attengono alle regole stabilite nei contratti collettivi che stabiliscono i livelli minimi di tutela del lavoratore, potendo solo derogarvi in melius. 47 La seconda tipologia di fonti internazionali è costituita dalle norme di diritto internazionale pattizio (trattati o convenzioni). I trattati internazionali sono fonti scritte che vincolano unicamente quei Paesi che li abbiano sottoscritti e ratificati. Il procedimento che porta alla formazione di un trattato internazionale si articola in più fasi. La prima fase è quella dei negoziati, che si concludono con la stipula dell’accordo da parte di un rappresentante del Governo. La seconda fase è quella che porta alla ratifica del trattato con la quale lo Stato dichiara di aderire al testo della convenzione. La terza è quella che, passando per lo scambio tra gli Stati interessati dei rispettivi strumenti di ratifica, fa sorgere la responsabilità di tipo internazionale degli uni nei confronti degli altri. L’ultima fase, quella dell’ordine di esecuzione, determina invece la produzione di effetti giuridici della fonte internazionale all’interno del sistema. Le ultime due fasi sono disciplinate da ciascun ordinamento secondo regole proprie. Nel nostro ordinamento rilevano gli articoli 80 e 87 Cost. Quest’ultimo articolo assegna al PdR la competenza a ratificare, mediante proprio decreto, i trattati internazionali. L’articolo 80 Cost. specifica che tale ratifica deve essere autorizzata con legge del Parlamento quando essa riguardi trattati “che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”. La legge deve essere approvata in maniera ordinaria e non può essere abrogata tramite referendum. L’ordine di esecuzione è contenuto nella stessa legge di autorizzazione alla ratifica del trattato. Se la materia non rientra negli ambiti delineati dall’articolo 80 Cost. il Presidente della Repubblica potrà direttamente procedere alla ratifica del trattato. Talvolta gli accordi internazionali vengono ratificati dall’ordinamento anche in forma semplificata. Questo si verifica quando la fonte internazionale si perfeziona e produce effetti senza una ratifica del Capo dello Stato, ma con la mera conclusione dell’accordo da parte di un rappresentante del Governo. Quindi, il rinvio per le fonti internazionali pattizie è fisso. Il recepimento, infatti, non si riferisce alla fonte internazionale in sé considerata, ma alla specifica disciplina in essa prevista. Successive correzioni necessitano di una nuova apposita procedura di recepimento. Il rango delle fonti pattizie si determina guardando la fonte interna che ha provveduto all’adattamento: avranno rango legislativo solo nel caso in cui vi sia stata autorizzazione alla ratifica da parte di una legge ai sensi dell’articolo 80 Cost. La Corte costituzionale con sentenza n.348 e 349 del 2007 ha chiarito che le fonti internazionali pattizie, nonostante siano recepite mediante fonte legislativa, godono di una maggiore forza di resistenza rispetto alle leggi ordinarie. Esse, cioè, pur essendo subordinate alla Costituzione italiana si collocano in una posizione intermedia tra questa e le fonti primarie. Si parla quindi di norme interposte. Qualora in giudizio si rinvenga un conflitto tra norma statale e internazionale si dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale. Il giudice, però, non potrà in alcun modo procedere alla disapplicazione della norma interna, essendo indispensabile l’intervento della Corte costituzionale. Allo stesso tempo, però, la Corte ha anche chiarito che nell’ipotesi in cui la stessa dovesse collidere con precetti della Costituzione, ad essa spetterebbe il compito di espungerla dall’ordinamento giuridico. Secondo una recente visione sarebbe necessario differenziare la posizione dei trattati internazionali ratificati su base di autorizzazione legislativa e quelli ratificati attraverso fonti subordinate. Solo per i trattati approvati con legge si applicherebbe il principio di cui alle sentenze n. 348 e 349. Gli altri trattati, invece, non potrebbero in alcun modo fungere da norma interposta, perché ciò significherebbe togliere al Parlamento limiti rispetto ai quali questo non abbia avuto modo di esprimersi. La CEDU è un atto di diritto internazionale pattizio recepito in Italia tramite legge che presenta delle peculiarità. Esso ha consacrato in un catalogo i diritti fondamentali della 50 persona e ha istituito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui è demandato il compito di interpretarne e applicarne le disposizioni. Le disposizioni della CEDU vivono nel significato che questa le attribuisce, con la conseguenza che il giudice italiano che riscontri un’antinomia tra una disciplina interna e una norma della CEDU, prima di sollevare questione di legittimità dovrà tentare di interpretare la disciplina nazionale conformemente alla CEDU. Con la sentenza n. 120 del 2018 la Corte costituzionale ha per la prima volta esteso il meccanismo anche ai rapporti tra leggi italiane e Carta Sociale Europea che fungerebbe da parametro interposto ai sensi dell’articolo 117 Cost. perché, elencando dei diritti sociali, andrebbe a completare la CEDU. Però è stato stabilito che le pronunce del Comitato Sociale non vincolano i giudici nazionali nell’interpretazione della Carta. SEZ. VIII - FONTI DELL’UNIONE EUROPEA 26. INTRODUZIONE: L’UNIONE EUROPEA Il primo atto di costituzione dell’Europa fu l’adozione del Trattato di Parigi del 1951 che istituiva la CECA – Comunità Europea Carbone Acciaio e dei due Trattati di Roma del 1957 (EURATOM- Comunità Europea Energia Atomica e CEE – Comunità Economica Europea). Successivamente nel 1992 venne adottato il Trattato di Maastricht, integrato nel’97 dal Trattato di Amsterdam. Nel 2000 a Nizza, invece, viene ratificata la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che sin da subito ha consentito l’estensione alla tutela dei diritti umani i confini dell’impegno degli Stati Europei. L’ultimo importante atto della costruzione di questa comunità è stato il Trattato di Lisbona del 2007. Esso ha allargato gli ambiti entro i quali gli Stati si assoggettano a regole comuni e ha incrementato il tasso di democraticità dei processi decisionali. Il trattato di Lisbona è intervenuto riformulando i trattati istitutivi dell’Unione Europea che ad oggi risultano essere due: il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo si è comunque lontani dal poter parlare di una vera e propria Costituzione europea e, anzi, le istituzioni europee si trovano in un momento di forte crisi come la vicenda della Brexit. Attualmente fanno parte dell’Ue 28 Stati e nella sua struttura essenziale gli organi che compongono l’UE sono: il Parlamento europeo eletto dai cittadini, il Consiglio dell’Unione Europea di cui fanno parte i rappresentanti dei Governi degli Stati membri, la Commissione europea nel quale siede un componente per ogni Stato, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che si compone di un giudice per ogni Stato. I primi due organi detengono il potere legislativo, il terzo è l’organo che più somiglia ad un esecutivo, mentre la Corte di Giustizia ha il compito di garantire il rispetto, da parte degli Stati membri e delle stesse istituzioni comunitarie, del diritto dell’Unione Europea. 27. FONTI DELL’UNIONE EUROPEA Il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea cataloga materie di competenza cosiddette esclusive dell’Ue, come la concorrenza o la politica monetaria; altre di competenza concorrente dell’Ue rispetto a quella degli Stati membri, come l’ambiente o i trasporti; altre ancora di solo sostegno dell’Ue all’azione degli Stati membri, come il turismo o l’istruzione. I trattati istitutivi fanno parte del cosiddetto diritto primario, le norme successivamente prodotte dall’unione Europea sono il cosiddetto diritto derivato o secondario. Il diritto primario è posto al vertice del sistema normativo comunitario. I trattati infatti si occupano di delineare la struttura e l’articolazione istituzionale dell’Unione, di individuare gli ambiti entro i quali hanno competenza a produrre diritto le istituzioni comunitarie e le procedure di approvazione. Il diritto derivato si deve attenere a quello primario, pena il possibile intervento della Corte di Giustizia che ha il compito di 51 far prevalere i trattati. Sono annoverabili nel diritto secondario i regolamenti, le direttive, le decisioni, le raccomandazioni e i pareri. I regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri. Quindi, affinchè un regolamento produca effetti giuridici nel nostro ordinamento non è richiesto alcun atto di trasposizione interno. Le direttive vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda i risultati da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Le direttive non sono subito applicabili e non riguardano i cittadini, bensì gli Stati Ue che vengono impegnati a uniformarsi entro un limite stabilito ad un obiettivo di carattere generale, attraverso l’adozione di proprie discipline normative. Gli effetti giuridici si producono solo in un momento successivo, una volta che un atto legislativo nazionale abbia provveduto a dare attuazione alla direttiva con una disciplina puntuale capace di applicarsi ai casi concreti. Anche le direttive, però, sono ad effetti diretti e quindi, il cittadino potrà rivendicare nei confronti dello Stato il rispetto dei diritti che la direttiva ha previsto. Questo vale anche qualora la direttiva non sia ad effetti diretti perché non incondizionata. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi e se sono disegnati dei destinatari è obbligatoria solo nei loro confronti. Si tratta di atti immediatamente applicabili ma con specifici destinatari. Infine, le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti, sollecitano solamente uno Stato ad orientare le proprie politiche verso un obiettivo o esprimono un parere su una materia. Il loro richiamo è utile a fini interpretativi. Questi atti godono di un primato reso possibile dalla scelta dell’Italia di cedere all’UE parte della propria sovranità. Un secondo criterio che può essere usato per distinguere le fonti è quello che riguarda gli effetti prodotti dalle fonti stesse. Esistono fonti immediatamente applicabili e non immediatamente applicabili. Le prime non necessitano di una attuazione sul piano normativo nazionale e sono pertanto capaci di vincolare immediatamente i loro destinatari. Le seconde, invece, in ragione del fatto che si limitano a indicare gli obiettivi da raggiungere richiedono che gli Stati membri provvedano a dettagliarne i contenuti. Quando una fonte di diritto dell’Unione Europea presenta una formulazione completa, chiara e puntuale, essa ha effetti diretti e laddove ne derivi un diritto in capo a un cittadino questi potrà invocarne il rispetto dinanzi a un giudice anche in assenza di una norma nazionale di recepimento. 28. PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA NELLA COSTITUZIONE E I CONTROLIMITI L’ordinamento comunitario in forza degli articoli 11 e 117 si vede riconosciuto uno statuto giuridico del tutto particolare che gli consente di avere prevalenza sul diritto nazionale. Questi articoli esprimono la volontà dello Stato Italiano di cedere una parte del proprio potere a vantaggio di quest’organizzazione internazionale. Nella Costituzione del 1948 non era stato previsto il processo di avviamento dell’Unione Europea, quindi a posteriori si ritenne di poter ricondurre l’ordinamento UE all’ambito applicativo dell’articolo 11 che prescrive: “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Un fondamento esplicito è, però, ora contenuto nell’articolo 117, norma che ha imposto alla legislazione nazionale e regionale di attenersi ai vincoli “derivanti dall’ordinamento comunitario” oltre che agli obblighi internazionali. Il primato del diritto comunitario si esplica in maniera immediata laddove si rinvenga un contrasto tra una legge italiana e una norma del diritto UE direttamente applicabile, il giudice dovrà procedere esso stesso alla disapplicazione della norma interna a vantaggio di quella comunitaria. Il meccanismo di risoluzione delle antinomie utilizzato per la generalità dei trattati internazionali si applica nei confronti del diritto dell’Unione Europea soltanto quando l’antinomia si produca rispetto ad una 52 atteggiarsi nel momento della presentazione agli elettori. Ogni minima modifica può determinare effetti diversi e può spostare in modo significativo il bilanciamento tra governabilità e rappresentatività. In Italia le forze politiche spesso inseguono modifiche alla legge elettorale anche sulla base di una convenienza del momento, legata ai possibili esiti delle elezioni stesse. 3. ELEZIONE DEL PARLAMENTO ITALIANO: DAL PROPORZIONALE AL MATTARELLUM In Costituzione non c’è alcuna scelta legata al sistema elettorale: i Costituenti decisero di riservare tale disciplina alla legge ordinaria nella convinzione che non fosse conveniente irrigidire il sistema elettorale che poteva necessitare di modifiche rapide, in ragione dei cambiamenti nella situazione politica. Vi sono, però, degli elementi che lasciano ipotizzare la preferenza dei Costituenti per un sistema di tipo proporzionale. In Costituzione, a parte gli artt. 56 e 58, l’unica norma che disciplina le modalità di elezione del Parlamento è l’articolo 57 Cost. che dispone che l’elezione dei componenti del Senato deve avvenire su base regionale, quindi, in questo caso le circoscrizioni sono regionali. I Costituenti decisero con due leggi ordinarie (n.6 e n.29 del 1948) di adottare per entrambi i rami del Parlamento sistemi elettorali proporzionali senza correttivi. In questo modo i partiti politici presero sempre più piede diventando il centro della politica. Tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 la centralità dei partiti subì una forte crisi dovuta da molteplici fattori: contribuì il mutamento globale con il conseguente affievolirsi delle ideologie che avevano caratterizzato il dopoguerra, ma soprattutto la causa si deve rinvenire nei comportamenti degli stessi partiti. Questi videro, sempre con maggior frequenza, molti dei loro principali esponenti finire al centro di episodi di corruzione gravi. In questa prospettiva i sistemi proporzionali rimasero in vigore fino a quando, nel 1993, con un referendum abrogativo in cui votò il 77% degli aventi diritto, i cittadini decretarono la fine della stagione proporzionale. Il corpo elettorale abrogò le norme della legge n.29 del 1948 per il Senato. Contestualmente i cittadini si espressero anche per la sostituzione del sistema proporzionale con un sistema misto prevalentemente maggioritario. Con le leggi n.276 e n.277 del 1993, il Parlamento modificò le leggi elettorali per l’elezione della Camera e del Senato. Il nuovo sistema elettorale venne denominato Mattarellum, dal nome del suo proponente. Il sistema previsto era misto, ma prevalentemente maggioritario, analogo al sistema elettorale determinatosi per il Senato all’esito del referendum. Questo sistema prevedeva che: sia alla Camera che al Senato il 75% dei seggi venisse attribuito in collegi uninominali nei quali veniva applicato il sistema maggioritari. Il restante 25% dei seggi veniva, invece, ripartito con alcuni correttivi (soglia di sbarramento al 4% a livello nazionale per la Camera e l’applicazione dello scorporo) su base proporzionale. Lo scorporo prevede che i voti risultati decisivi per ottenere il seggio nel collegio uninominale non venissero conteggiati dalla lista cui apparteneva il vincitore del collegio ai fini dell’applicazione alla quota proporzionale. In questo modo dovevano essere favoriti i partiti minori che si sarebbero avvicinati al quoziente elettorale della forza vincitrice. In realtà, il sistema non funzionò per la presenza di liste civetta. I partiti invece di collegare i candidati nel sistema maggioritario alla lista che avrebbe partecipato al proporzionale, collegavano i candidati nel maggioritario a liste fittizie. Così facendo i partiti che si presentavano al proporzionale non risultavano aver vinto il collegio uninominale e partecipavano al proporzionale senza la decurtazione dei voti legata allo scorporo. Questo sistema elettorale è stato applicato alle elezioni del 1994, 1996 e 2001. La configurazione ha influenzato il contesto politico che ha visto i partiti politici orientarsi verso un sostanziale bipolarismo. In questi anni ci fu una positiva alternanza tra le forze 55 politiche al potere che ha consentito una maggiore stabilità dei governi rispetto al sistema proporzionale. 4. STAGIONE DEL PROPORZIONALE CON PREMIO DI MAGGIORANZA E LA SUA INCOSTITUZIONALITÀ Con la legge n.270 del 2005 il sistema elettorale venne modificato significativamente e si decise di tornare a un sistema proporzionale caratterizzato da alcuni correttivi che lo hanno reso ad effetti sostanzialmente maggioritari. Vennero previste soglie di sbarramento al 4% alla Camera e 8% al Senato per le liste singole, mentre per le coalizioni erano previste soglie rispettivamente al 2% e al 3%. Era, inoltre, previsto un significativo premio di maggioranza, pari al 55% dei seggi per la lista non coalizzata o per la coalizione che avesse ottenuto il maggior numero di voti, ma non sufficienti per ottenere autonomamente il 55%, con l’obiettivo di garantire una maggiore governabilità. Il voto avveniva poi tramite liste bloccate lunghe che consentivano all’elettore il voto per la sola lista senza che questi potesse indicare la preferenza per uno o più candidati e la possibilità dei candidati di candidarsi in più circoscrizioni. Da subito, però, questo sistema elettorale fu oggetto di critiche tanto la legge venne definita con l’epiteto di Porcellum, secondo la qualificazione (“porcata”) che ne aveva dato lo stesso ideatore Calderoli. L’obiettivo principale che la maggioranza di centro-destra si era posta alla vigilia delle elezioni del 2006 era quello di rendere incerta a vittoria dello schieramento di centro-sinistra che i sondaggi davano in testa. Ma in effetti, il metodo di assegnazione del premio di maggioranza risultò sin da subito irragionevole, rendendo difficoltosa la governabilità. Infatti, alla Camera il premio era attribuito su base nazionale e consentiva di ottenere ad una lista 340 seggi, mentre al Senato il premio veniva distribuito su base regionale. In ogni regione, tranne che in Valle d’Aosta, Trentino e Molise era a disposizione un premio regionale che consentiva di ottenere il 55% dei seggi messi in palio in ogni singola Regione. Nelle singole Regioni il premio poteva venire conseguito da liste tra loro diverse, la somma dei tanti piccoli premi di maggioranza regionali non restituiva necessariamente un premio di maggioranza a livello nazionale. Quindi si concretizza un rischio che la forza politica che avesse ottenuto la maggioranza alla Camera dovesse confrontarsi con una situazione precaria al Senato dovendo fronteggiare una situazione di ingovernabilità. Questa situazione si è verificata in due occasioni su tre: nel 2006 e nel 2013. Inoltre, il premio di maggioranza riconosciuto qualunque fosse la percentuale conseguita alle elezioni è stata oggetto di rilievi costituzionali concentrati sull’effetto distorsivo che tale premio determinava rispetto all’effettivo numero di voti ricevuti. Questo è stato riscontrato alle elezioni del 2013 in cui tre partiti si sono suddivisi in maniera uniforme i voti, ma lo schieramento di centro-sinistra alla Camera ha potuto contare sul 55% dei seggi pur avendo ottenuto meno del 30%. Un’altra critica riguarda la previsione delle liste bloccate perché espressione di autoreferenzialità di partiti politici che scelgono i candidati senza sottoporli al voto dei cittadini. Nonostante ci fossero innumerevoli richieste il Parlamento non è stato in grado di modificare la legge fino a quando la Corte costituzionale non si è pronunciata dichiarando incostituzionali diverse parti con la sentenza n.1 del 2014. In particolare, è stato stabilito che il premio di maggioranza ha prodotto “eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo e la volontà dei cittadini”, proprio in virtù del fatto che il premio veniva assegnato senza che fosse raggiunta una soglia minima di voti. Tutto ciò è stato ritenuto contrario al principio di eguaglianza del voto sancito dall’articolo 48 Cost. che stabilisce che “ciascun voto contribuisca con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi”. Ed, inoltre, il premio di maggioranza su scala regionale poteva “vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza 56 parlamentare e del Governo”. Con la stessa sentenza sono state dichiarate incostituzionali anche le lunghe liste bloccate di candidati che violavano nuovamente l’articolo 48 Cost. perché la scelta veniva rimessa unicamente ai partiti. 5. ITALICUM La vicenda della legge elettorale si è intrecciata con quella della riforma costituzionale Renzi-Boschi bocciata col referendum del 2016. Tra gli elementi centrali della revisione costituzionale vi era la riforma del Senato, i cui membri non sarebbero più stati eletti direttamente dai cittadini, ma dai Consigli Regionali. Nella convinzione che la riforma sarebbe entrata in vigore e che, quindi, non sarebbe stata più necessaria una legge elettorale per il Senato, il Parlamento approvava la legge n.52 del 2016 che riformava la legge elettorale della sola Camera. La legge venne dichiarata parzialmente incostituzionale. Nella sua versione originale l’Italicum prevedeva un sistema proporzionale, eventualmente a doppio turno, con un correttivo maggioritario. La legge prevedeva l’assegnazione di un premio di maggioranza per la lista vincitrice, se avesse conseguito al primo turno almeno 40% dei consensi tale da garantire almeno 340 seggi. Nel caso in cui non si fosse raggiunto il 40% al primo turno si sarebbe svolto un secondo turno che avrebbe visto sfidarsi in ballottaggio le due liste che avevano conseguito il maggior numero di voti al primo turno per assegnare il premio. Un’altra caratteristica prevedeva una soglia di sbarramento del 3% su base nazionale. Le liste erano formate da un capolista bloccato candidabile al massimo in dieci collegi diversi e da altri candidati sottoposti al voto di preferenza degli elettori. Questi ultimi avrebbero potuto esprimere al massimo due preferenze purchè di due candidati di sesso diverso. Il capolista poi sarebbe stato sempre il primo ad essere eletto. Nel caso in cui la lista avesse guadagnato più seggi all’interno del collegio, questi seggi sarebbero stati attribuiti ai candidati con il maggior numero di preferenze. Con la sentenza n.35 del 2017 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcuni elementi: il premio di maggioranza ottenuto a seguito del ballottaggio e la possibilità del capolista risultato eletto in più collegi di scegliere il collegio di elezione. Secondo la Corte una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito al primo turno un consenso esiguo e ottenere il premio. L’effetto distorsivo, anche se al turno di ballottaggio, è dunque analogo a quello che la stessa Corte costituzionale aveva censurato nella sentenza n.1 del 2014. Vengono sacrificati eccessivamente i principi costituzionali di rappresentatività ed uguaglianza del voto. L’altro elemento dichiarato incostituzionale incide irragionevolmente sulle scelte effettuate dagli elettori con le preferenze. La Corte ha stabilito che in caso di pluri-elezione, la scelta del collegio di elezione sarebbe dovuta avvenire a seguito di un sorteggio. 6. ROSATELLUM Alla fine del 2017 con lo scopo di evitare il ritorno alle urne con due leggi elettorali diverse per la Camera e per il Senato, il Parlamento ha approvato una nuova legge elettorale: la legge n.165 del 2017 denominata col nome di Rosatellum in ragione del relatore Ettore Rosato. Se il legislatore non fosse intervenuto, le elezioni del 2018 sarebbero state regolate al Senato con la legge n.270 del 2005 così come determinata all’esito della sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014 e alla Camera della legge n.52 del 2015, anch’essa depurata dagli elementi di incostituzionalità rilevati dalla sentenza n.35 del 2017. La legge n.165 del 2017 introduce un sistema elettorale misto a prevalenza proporzionale. Sia alla Camera che al Senato poco più di un terzo dei seggi viene assegnato su base maggioritaria in collegi uninominali. I restanti seggi sono invece assegnati con metodo 57 - Autonomia regolamentare → trova fondamento nell’articolo 64 che afferma che ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei componenti. Questo articolo conferisce autonomia ad entrambi i rami del Parlamento singolarmente considerati. Non sono ammesse ingerenze neppure da parte della Camera nei confronti del Senato e viceversa. L’articolo 64 Cost. va letto in correlazione con l’articolo 72 che attribuisce ai regolamenti parlamentari il compito di disciplinare, nel rispetto della Costituzione, le modalità con cui ciascuna Camera può approvare le leggi. Ogni competenza attribuita dalla Costituzione alle Camere deve trovare nei regolamenti parlamentari le indicazioni relative alla modalità di esercizio. I regolamenti parlamentari disciplinano tutto ciò che concerne l’organizzazione e il funzionamento delle Camere per quanto non sia già direttamente disciplinato dalla Costituzione. Sono ambiti di competenza molto ampi: proprio la possibilità di regolamentarli in modo esclusivo, senza alcuna interferenza da parte di altri poteri, evidenzia il rilievo dell’autonomia del Parlamento. Entrambe le Camere, poi, sono dotate di altri regolamenti definiti “minori” volti a disciplinare alcune specifiche attività del Parlamento o delle sue articolazioni. Sono equiparabili ai regolamenti generali in quanto approvati con le stesse maggioranze. Oltre a questi vi sono, poi, alcuni “regolamenti di amministrazione” che disciplinano ambiti interni alle Camere come ad esempio i regolamenti di contabilità, dei servizi e del personale ecc. - Autonomia organizzativa e funzionale → con questo tipo di autonomia si intende la possibilità delle Camere di organizzarsi liberamente con riferimento a tutto quanto attiene all’articolazione interna dei propri organi e allo svolgimento delle proprie funzioni. Questa forma di autonomia è conseguenza dell’autonomia parlamentare. - Immunità della Sede → impedisce alla forza pubblica di entrare all’interno delle sedi parlamentari senza che vi sia sul punto un ordine del Presidente di Assemblea. In questa rientra il divieto per tutte le persone estranee al Parlamento di introdursi nell’Aula dove siedono i parlamentari. Inoltre, nessuna autorità estranea può far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento e ai suoi organi. - Autonomia finanziaria e contabile → grazie a questo tipo di immunità le Camere possono gestire, senza alcuna interferenza esterna, i fondi che annualmente vengono loro riservati. Neppure, la Corte dei conti può verificare la modalità con cui i fondi sono utilizzati. Le Camere hanno appositi regolamenti di amministrazione e contabilità in cui sono delineate le regole di spesa, di rendicontazione e di controllo interno. - Autodichia → si tratta della cosiddetta giustizia domestica, in virtù della quale spetta alle Camere non solo il compito di adottare i provvedimenti relativi alla carriera giuridica ed economica dei propri dipendenti, ma anche quello di risolvere in via definitiva le eventuali controversie. Quest’ambito di autonomia ha fatto sorgere molte critiche. I dipendenti delle Camere non possono rivolgersi ad un giudice per risolvere le controversie col datore di lavoro, ma devono fare ricorso presso organi interni alle Camere stesse. Il giudice costituzionale ha ribadito di non poter verificare la legittimità costituzionale dei regolamenti parlamentari nell’ambito del giudizio sulle leggi, ma successivamente ha chiuso la questione in senso favorevole alle Camere, partendo dalla premessa che l’autonomia normativa riconosciuta dall’articolo 64 Cost. “logicamente investe anche gli aspetti organizzativi”. Se le Camere hanno allora il potere di darsi regole speciali inerenti l’organizzazione, quindi anche il rapporto coi dipendenti, altrettanto deve riconoscersi l’autonomia nell’interpretazione e applicazione delle 60 stesse regole. Affidare a un giudice comune la cognizione delle controversie significherebbe dimezzare la stessa autonomia che si è inteso garantire. Inoltre, secondo la Corte costituzionale gli organi di autodichia interni alle Camere risultano comunque oggi assistiti da sufficienti garanzie di indipendenza e imparzialità. (leggere pag. 213 - evoluzione dei regolamenti parlamentari) 10. AUTONOMIA DELLE CAMERE NELLA VERIFICA DEI POTERI L’ultimo ambito di autonomia si ricava dall’articolo 66 Cost. secondo cui ciascuna camera giudica i titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineligibilità e di incompatibilità. Si tratta della cosiddetta verifica dei poteri, cioè del procedimento con cui Camera e Senato controllano: se coloro che sono stati eletti avevano titolo per conseguire la carica di deputato o senatore e se a seguito di eventi verificatisi durante la legislatura, deputati e senatori possono continuare a mantenere la carica parlamentare. I candidati che risultano eletti vengono proclamati deputati dall’ufficio circoscrizionale centrale o senatori dall’ufficio elettore regionale. La comunicazione viene trasmessa alla Camera e al Senato. La posizione dell’eletto non è, però, definitiva fino a quando la Camera d’appartenenza non effettua la convalida dell’elezione prevista dall’articolo 66 Cost. Le Camere, infatti, svolgono due diversi controlli: verificano che le operazioni elettorali si siano svolte correttamente e accertano che gli eletti siano titolari della capacità elettorale passiva e siano in possesso, quindi, dei requisiti di eleggibilità, compatibilità e candidabilità. Il procedimento si suddivide in due fasi: prima la Giunta delle elezioni effettua il cosiddetto controllo di delibazione che consiste nella verifica dei documenti elettorali. Al termine di questo controllo, la Giunta propone all’Assemblea la convalida o la contestazione dell’elezione. Nel caso di proposta di convalida dell’elezione, l’Assemblea ne prende atto, senza neppure sottoporre tale proposta al voto. Qualora, invece, la Giunta proponga la contestazione dell’elezione si apre il cosiddetto giudizio di contestazione. Questo giudizio prevede una seduta pubblica in cui si apre un contradditorio orale tra l’eletto contestato e gli altri interessati al giudizio stesso. All’esito della discussione la Giunta decide e propone l’annullamento dell’elezione o la sua convalida. La decisione definitiva dovrà essere presa dall’Assemblea: i regolamenti di Camera e Senato presentano qualche differenza. Al Senato, l’Assemblea voterà solo qualora vi sia una richiesta da parte di 20 senatori. In caso contrario la proposta della Giunta si intenderà approvata. Alla Camera, invece, lo stesso procedimento vale solo per questioni legate “ad accertamenti numerici”; negli altri casi, invece, il voto è sempre previsto. L’eventuale annullamento dell’elezione non ha effetto retroattivo, quindi non ci sono conseguenze sull’attività del parlamentare precedenti all’annullamento della convalida. Il secondo tipo di controlli concerna la verifica delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità. Si tratta di accertare la sopravvenienza, a legislatura già cominciata, di eventuali cause preclusive alla permanenza in carica del parlamentare. Si tratta dei cosiddetti giudizi sulle cause di decadenza. Il procedimento è identico a quello esaminato per le ineleggibilità originarie. La Giunta formulerà la proposta di decadenza o meno. Contro le decisioni delle Camere sulla validità delle elezioni e sulla sussistenza di cause di ineleggibilità e incompatibilità non sono ammessi ricorsi di alcun tipo. Se l’obiettivo è quello di garantire sovranità e autonomia alle Camere, è anche vero che tale obiettivo urta contro un altro diritto garantito nell’ordinamento, che è quello di un giudice terzo e imparziale. Bisogna, però, ricordare che i procedimenti per la verifica dei poteri possono qualificarsi alla stregua di vere e proprie controversie giudiziarie che 61 richiederebbero un vero e proprio giudice terzo e imparziale. Queste due caratteristiche non sono conosciute dalle Camere che a volte potrebbero essere indotte a prendere decisioni sulla base di convenienze politiche. Per questo ci si interroga sull’eventuale modifica dell’articolo 66 Cost. che possa attribuire ad un organo imparziale la competenza di decidere. SEZ. IV - LO STATUS DEL PARLAMENTARE 11. IL DIRITTO DI ELETTORATO PASSIVO E LE SUE LIMITAZIONI È necessario analizzare quali siano le condizioni richieste per accedere alla carica di parlamentare. L’articolo 51 Cost. sancisce il diritto di tutti i cittadini di accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza. L’articolo 65 stabilisce che è la legge statale ad avere il compito di determinare i casi di ineleggibilità e incompatibilità. A queste due limitazioni, con il d.lgs n.235 del 2012, si aggiunge anche la condizione di incandidabilità. L’ineleggibilità è la condizione, che a causa di un impedimento giuridico, non consente ad un candidato di essere eletto parlamentare. L’eventuale elezione deve essere annullata dalla Camera di appartenenza. Una delle ragioni di ineleggibilità è l’età, mentre le altre cause sono indicate nel d.p.r n.361 del 1957 e hanno l’obiettivo di tutelare il corretto svolgimento delle consultazioni elettorali. Secondo la norma non sono eleggibili: i titolari alcune cariche elettive, come i presidenti delle Giunte provinciali e i sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20000 abitanti e i titolari di alcuni pubblici uffici, come i magistrati, il capo e il vice capo della polizia, gli ispettori generali di pubblica sicurezza, i prefetti, i viceprefetti e gli ufficiali delle Forze Armate dello Stato. Per queste categorie di soggetti, l’ineleggibilità si giustifica con il fine di impedire che il candidato possa in qualche modo alterare la par condicio fra i vari concorrenti attraverso la possibilità di esercitare una captatio benevolentiae o un metus publicae potestatis nei confronti degli elettori. Si vuole solo evitare che gli elettori siano indotti a votare questo tipo di candidati per vedersi attribuiti privilegi in virtù della carica elettiva che essi hanno. Nel secondo caso, invece, si vuole evitare che si votino alcuni soggetti per scongiurare eventuali ritorsioni. Il voto non sarebbe più libero e verrebbe meno la condizione di eguaglianza dei candidati prevista dall’articolo 51 Cost. Le cause di ineleggibilità, però, non sono ostative all’elezione parlamentare qualora i soggetti interessati cessino di esercitare le funzioni relative alla carica ricoperta almeno 180 giorni prima della fine della legislatura. In caso di scioglimento anticipato delle Camere, la cessazione deve avvenire entro i 7 giorni successivi al decreto di scioglimento. Ancora, sono ineleggibili: coloro che intrattengono con lo Stato rapporti di carattere economico. Questo per evitare che tali soggetti, una volta eletti, possano farsi promotori di leggi volte a favorire la loro situazione economica in conflitto di interessi con lo Stato. Inoltre, non sono eleggibili i diplomatici e tutti coloro che lavorano nelle ambascerie e nei consolati per evitare possibili interferenze di altri Stati. Anche il PdR e i giudici costituzionali risultano essere ineleggibili. L’incompatibilità è la condizione di chi, eletto parlamentare, e ricoprendo già un’altra carica, deve scegliere se mantenere o acquisire il mandato parlamentare. L’incompatibilità non rende nulla l’elezione ma obbliga il candidato eletto a effettuare una scelta entro 30 giorni dalla proclamazione. Qualora non decida la Camera ne dichiara la decadenza. È incompatibile con la funzione di senatore quella di deputato e viceversa (art.65). Anche le cariche di PdR, membro del CSM, consigliere regionale, assessore regionale, giudice costituzionale sono incompatibili. Altre cause di incompatibilità sono previste da alcune leggi, la n.60 del 1953 dispone che è incompatibile chi ricopre cariche e uffici di qualsiasi specie in enti pubblici o privati per nomina o designazione del Governo. Più 62 articolo è stato comunque oggetto di revisione nel 1993. Ad oggi, l’inviolabilità si configura come la generale impossibilità di essere arrestato o perquisito in assenza di una specifica autorizzazione da parte della Camera a cui il parlamentare appartiene. Questo regime trova una ragione di essere nella volontà di evitare la possibilità che iniziative giudiziarie prive di fondamento o condotte dalla magistratura con un intento persecutorio possano scardinare l’integrità della composizione del Parlamento. Ciò è confermato dal fatto che l’autorizzazione non è richiesta in caso di condanna definitiva o di rinvenimento in flagranza di reato, proprio in virtù del fatto che in questi due casi l’azione giudiziale non può essere considerata frutto di un’improvvida azione giudiziaria volta a perseguitare il parlamentare. A differenza dell’insindacabilità, l’inviolabilità cessa alla fine del mandato. L’originario articolo 68 era ancora più garantista perché prevedeva che il parlamentare non potesse essere neppure sottoposto al processo penale, né arrestato in seguito a condanna definitiva senza l’autorizzazione. La riforma del 93 avvenne in seguito all’uso eccessivo e ingiustificato che il Parlamento fece di tale prerogativa soprattutto all’inizio degli anni ’90 in cui vennero alla luce molti eventi di corruzione di cui furono protagonisti parlamentari dell’epoca. La riforma del 1993 ha poi introdotto ex novo la previsione che attribuisce al parlamentare in assenza di autorizzazione della Camera di appartenenza di non vedere intercettate le sue conversazioni e di non vedere sequestrata la sua corrispondenza. La legge n.140 del 2003 ha disciplinato anche il caso delle intercettazioni indirette e casuali. Le prime riguardano intercettazioni operate su mezzi di comunicazione di persone che abitualmente entrano in contatto con il parlamentare: anche per queste è richiesta l’autorizzazione preventiva delle Camere. Le seconde, invece, sono intercettazioni che, pur effettuate tra terze persone, riguardino fortuitamente anche un parlamentare. La legge in questo caso richiede che venga richiesta in via successiva l’autorizzazione all’uso giudiziario delle stesse. Qualora non venga concessa l’autorizzazione, l’intercettazione che coinvolge il parlamentare dovrà essere distrutta. La Corte costituzionale ha, però, chiarito che le intercettazioni casuali possono comunque essere usate nei processi che riguardino la posizione di terze persone coinvolte. L’impossibilità di essere intercettati rende impossibile per l’autorità giudiziaria di ricorrere con utilità allo strumento delle intercettazioni perché una volta ricevuta l’autorizzazione difficilmente il parlamentare commetterà imprudenze. 15. INDENNITA’ L’ultima prerogativa che concerne lo status del parlamentare è contenuta nell’articolo 69 Cost. ed è l’indennità la cui entità deve essere stabilita dalla legge. Le polemiche sono molte a riguardo. L’indennità parlamentare netta è di circa 5000€ a cui si deve aggiungere una diaria di rimborso spese per il soggiorno a Roma di massimo 3.500€ mensili. Inoltre, è previsto il rimborso spese di trasporto, telefoniche e quelle relative al mandato. In questo modo viene consentito anche a chi non è titolare di rendite indipendenti dallo svolgimento di un lavoro di diventare parlamentare. Se la carica fosse gratuita sarebbero interessati a ricoprirla solo coloro che possono permettersi di vivere senza lavorare. In secondo luogo, però, la carica parlamentare deve interessare anche coloro che hanno un buon reddito e che non sarebbero disposti ad abbandonare il loro lavoro per una retribuzione minore. Considerando che le retribuzioni più alte nel mercato del lavoro sono riservate alle professionalità più qualificate, un’indennità così alta mira anche a voler interessare queste categorie. Inoltre, tale cifra consente al parlamentare di svolgere la sua funzione in maniera indipendente senza condizionamenti esterni accettati in ragione di una debolezza economica. 65 SEZ. V - ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLE CAMERE 16. PRESIDENTE D’ASSEMBLEA E UFFICIO DI PRESIDENZA I principali organi delle Camere sono: il presidente di assemblea, l’ufficio di presidenza, i gruppi parlamentari, la conferenza dei capigruppo, le Commissioni parlamentari e le Giunte. - Presidente → : è l’articolo 63 Cost. a stabilire che ciascuna Camera elegge fra i componenti il Presidente e l’Ufficio di presidenza. I regolamenti di Camera e Senato prevedono alcune differenze. Alla Camera il primo scrutinio è richiesta la maggioranza dei 2/3 dei componenti; al secondo la maggioranza dei 2/3 dei presenti e dal terzo scrutinio in poi è sufficiente la maggioranza assoluta. Mentre al Senato nei primi due scrutini occorre la maggioranza assoluta dei componenti; al terzo scrutinio occorre la maggioranza dei voti dei presenti. Se nessuno ha ancora raggiunto la maggioranza si esegue un ballottaggio tra i due più votati al terzo scrutinio. Il Presidente assolve a diverse funzioni sia all’interno della Camera che all’esterno. Tra le funzioni di rilievo interno vi sono: la direzione dei lavori e delle discussioni, programmazione dei lavori e definizione dei calendari, interpretare e far rispettare i regolamenti e il potere disciplinare nei confronti dei parlamentari. Mentre tra le funzioni di rilievo esterno si può richiamare l’articolo 88 Cost che stabilisce che i presidenti delle Camere devono essere sentiti dal PdR prima dello scioglimento delle Camere stesse; il Presidente del Senato, inoltre, ha funzione di supplenza del PdR nel caso in cui questi si trovi in una condizione di impedimento temporaneo. Ancora, per consuetudine vengono consultati prima della nomina del Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera, secondo l’articolo 64, presiede il Parlamento in seduta comune. Nel mondo esistono tre modelli con cui il Presidente dovrebbe esercitare le sue funzioni: come arbitro imparziale ed è l’esempio dello Speaker britannico della Camera dei Comuni che una volta eletto non intrattiene più alcun rapporto con il suo partito di provenienza. Talvolta viene rieletto nonostante cambi il partito vincitore alle elezioni successive. Nel modello statunitense, invece, lo Speaker è uno dei leader del partito maggioritario ed è protagonista attivo nell’assicurare l’attuazione del programma legislativo della maggioranza. Vi è poi un modello intermedio che è quello francese perché si tratta di una figura che svolge con imparzialità le funzioni che gli sono attribuite, ma che rimane comunque legato al partito di maggioranza. In ogni caso, la configurazione concreta del Presidente di Assemblea è influenzata anche dal sistema elettorale e dal contesto partitico in cui opera. In Italia dalla prima legislatura e fino alla fine degli anni 60 i Presidenti delle Camere erano esponenti della DC, il partito di maggioranza. Facevano un uso incisivo dei loro poteri e in questo modo avrebbero contribuito all’attuazione del programma di governo. Poi, fino all’avvento del maggioritario, è cominciata la prassi di nominare Presidente di uno dei due rami un esponente di spicco di un partito non di maggioranza (Nilde Iotti, Pietro Ingrao, Napolitano e Pertini). Con il sistema maggioritario o ad effetti maggioritari i Presidenti di entrambe le Camere erano tornati ad essere eletti tra i membri dei partiti di maggioranza (almeno a inizio legislatura). Più recentemente questa circostanza non si è più verificata, infatti, solo in uno dei rami del Parlamento è stato eletto un esponente sostenitore della maggioranza di Governo (Boldrini, Alberti Casellati). Da questo ragionamento si deduce che risulta impossibile ricondurre ad uno dei tre modelli di Presidente sopra citati. In generale si può affermare che i Presidenti pur non avendo mai rinunciato a mantenere una loro connotazione politica fuori dal 66 Parlamento, abbiano comunque considerato l’imparzialità come una bussola da seguire durante i loro mandati. - Ufficio di Presidenza → opera in ciascuna Camera con lo scopo di adiuvare il Presidente ed è composto da 4 vicepresidenti che sostituiscono il Presidente in caso di impedimento; otto segretari che collaborano col Presidente per garantire il regolare andamento dei lavori e delle operazioni di voto; tre questori che si occupano della gestione dei fondi e della predisposizione dei bilanci. La competenza più rilevante è quella di deliberare le sanzioni disciplinari più gravi e deve essere rappresentativo di tutti i gruppi parlamentari. - Gruppi parlamentari → Uno dei primi adempimenti cui sono chiamati i neoeletti è la dichiarazione con cui segnalano a quale gruppo parlamentare vogliono aderire. I regolamenti impongono che ciascun senatore o deputato faccia parte di un gruppo. Attraverso la costituzione dei gruppi parlamentari i partiti svolgono le loro attività all’interno del Parlamento. Alla Camera i gruppi devono essere formati da almeno 20 deputati, mentre al Senato solo 10. Vige l’obbligo di formare solo gruppi che rappresentino un partito o movimento politico che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno. Alla Camera, invece, sono consentiti anche gruppi con meno di 20 deputati purchè costituiscano la proiezione di un partito organizzato nel Paese. Qualora il parlamentare non dichiari il gruppo o non venga raggiunto il numero necessario, questi verrà assegnato al gruppo misto. Mentre ai senatori a vita è consentito non far parte di nessun gruppo. I parlamentari durante la legislatura possono passare da un gruppo all’altro o, alla Camera, formare nuovi gruppi a seconda delle modifiche del contesto politico, mentre al Senato dal 2017 questa possibilità è preclusa. I gruppi al loro interno hanno un’organizzazione che prevede la presenza di un presidente di gruppo (capogruppo), di uno o più vicepresidenti e, alla Camera, di un comitato direttivo. I gruppi si dotano di regolamenti e dispongono di locali e attrezzature e possono usufruire dei contributi erogati dalle Camere. La Costituzione menziona i gruppi all’articolo 72 da cui si deduce che le Commissioni Parlamentari e le Commissioni di Inchiesta sono composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi stessi. Sono gli stessi gruppi ad indicare quali componenti faranno parte delle varie Commissioni. - Conferenza dei Capigruppo → Sono riservati ai presidenti dei diversi gruppi poteri ulteriori. Questi insieme al Presidente d’Assemblea formano la Conferenza dei Capigruppo, alla quale è riservato il compito di decidere la programmazione dei lavori dell’aula, di decidere il calendario e l’ordine del giorno delle singole sedute e la ripartizione dei tempi di intervento. Per consuetudine i capigruppo partecipano alle consultazioni svolte dal PdR al fine di nominare il Presidente del Consiglio. - Commissioni parlamentari → : i gruppi parlamentari provvedono a designare quali membri andranno a comporre le Commissioni parlamentari che sono formate rispecchiando la proporzione tra i gruppi. Si distinguono per composizione e durata. Esistono, infatti, commissioni monocamerali o bicamerali e commissioni temporanee o permanenti a seconda che restino in carica tutta la legislatura o siano istituite soltanto per il periodo necessario ad assolvere i compiti che vengono loro assegnati. Le Commissioni permanenti monocamerali sono quelle richiamate all’articolo 72 con riferimento al procedimento di approvazione delle leggi. Attualmente ci sono 14 Commissioni permanenti sia alla Camera che al Senato. Ciascuna di queste svolge le sue funzioni con riferimento alla materia di specifica competenza. Così, al Senato sono presenti le 67 ha cadenza giornaliera e viene predisposto dal Presidente sulla base del calendario e viene comunicato al termine della seduta precedente. 21. FUNZIONE LEGISLATIVA Ai sensi dell’articolo 70 Cost. “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Questa funzione, però, non è di mero appannaggio del Parlamento. L’adozione di atti aventi forza di legge spetta, infatti, al Governo. Il Parlamento riveste comunque una funzione prevalente in questi procedimenti. Ma esiste anche la funzione legislativa dei Consigli Regionali. Comunque, grazie all’approvazione delle leggi e delle leggi costituzionali, il Parlamento svolge contemporaneamente anche la funzione di indirizzo politico: in questo modo le Camere possono contribuire in modo decisivo alla realizzazione degli obiettivi che lo Stato si pone. 22. FUNZIONE DI INDIRIZZO POLITICO La funzione di indirizzo politico ha come scopo quello di determinare e perseguire le linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento. I soggetti ai quali l’ordinamento attribuisce la maggiore responsabilità della funzione di indirizzo politico sono Governo e Parlamento, nella cui collaborazione e concorso tale funzione si svolge. Per collaborazione si intende quella tra Governo e maggioranza parlamentare in particolar modo. La funzione di indirizzo politico del Parlamento trova la sua origine nell’approvazione della fiducia iniziale che il Parlamento stesso accorda al Governo con mozione motivata. Durante la legislatura, il Parlamento attribuisce concretezza allo svolgimento della funzione di indirizzo politico attraverso l’approvazione di mozioni, risoluzioni e ordini del giorno. Un altro strumento è il voto sull’eventuale questione di fiducia posta dal Governo. L’indirizzo politico può poi trovare concretizzazione nell’approvazione da parte del Parlamento delle leggi. Tra le leggi che concorrono in modo importante alla funzione di indirizzo politico c’è la legge di bilancio. Grazie ad essa il Parlamento indica il modo con cui dovranno essere ripartite le risorse di cui lo Stato stesso dispone grazie all’entrate tributarie. L’articolo 81, ad oggi, non contiene più il divieto di stabilire nuove spese e tributi con la legge di bilancio. Quindi è proprio la legge di bilancio, che non necessita più di un’altra legge finanziaria, a contenere tutte le decisioni relative alle entrate e alle spese pubbliche. Inoltre, la legge costituzionale n. 1 del 2012 ha apportato all’articolo 81 anche un’importante modifica perché ha introdotto il principio di pareggio di bilancio. Gli altri atti con cui il Parlamento esplica la funzione di indirizzo politico durante la legislatura sono le mozioni, le risoluzioni e gli ordini del giorno. Ma solo gli strumenti fiduciari hanno conseguenze effettive rispetto alla sorte del Governo. Attraverso una mozione un numero minimo di parlamentari mira ad aprire una discussione e a promuovere una deliberazione dell’Assemblea su un determinato tema. Con l’approvazione della mozione, il Parlamento invita il Governo ad agire in un determinato modo su uno specifico tema. Con la risoluzione, invece, il singolo parlamentare può manifestare un orientamento su un determinato tema e impegnare il Governo a prendere i relativi provvedimenti. È usata per chiudere e riassumere un dibattito. Ancora, il Parlamento può esercitare la sua funzione di indirizzo politico attraverso l’approvazione di un ordine del giorno. Questo impegna il Governo ad adottare un determinato indirizzo in futuro sulla materia oggetto della legge in discussione. Il Parlamento, infine, può determinare anche l’esaurimento della funzione di indirizzo politico presentando una mozione di sfiducia. 23. FUNZIONE DI CONTROLLO 70 La funzione di controllo può essere operata, nei confronti del Governo, sia dalle forze di maggioranza sia da quelle di opposizione. Le prime possono verificare se l’azione esecutiva svolta corrisponde a quella del programma su cui il Governo ha ricevuto la fiducia. Nella prassi cercheranno sempre di mettere in luce il buon operato del Governo. Le forze di opposizione possono utilizzare il controllo per verificare come il Governo abbia affrontato questioni di interesse generale, all’evidente scopo di segnalarne l’inadeguatezza. Gli strumenti di controllo usati tradizionalmente sono: l’interrogazione e l’interpellanza. Con l’interrogazione, qualsiasi parlamentare può con una domanda, chiedere per iscritto al Governo informazioni o spiegazioni su una determinata questione al fine di sapere se e quali provvedimenti il Governo abbia adottato o intenda adottare in merito. Il Governo può rispondere per iscritto o oralmente, sia in aula che in Commissione. Inoltre, allo scopo di rivitalizzare uno strumento poco rilevante, si è introdotta l’interrogazione a risposta immediata (question time). Una volta alla settimana, alle interrogazioni dei parlamentari viene data immediatamente la risposta dall’esponente del Governo. Lo scambio avviene in tempi molto serrati (7/8 minuti) ed è generalmente trasmesso in diretta televisiva. Secondo i regolamenti, lo stesso Presidente del Consiglio dovrebbe partecipare al question time almeno una volta al mese alla Camera e ogni due al Senato. Ma ciò si verifica molto raramente, rendendo meno efficace questo istituto. Con l’interpellanza, invece, uno o più parlamentari possono chiedere al Governo le ragioni che hanno portato ad assumere una determinata condotta su una determinata questione. Il fatto oggetto dell’interpellanza è noto, a differenza dell’interrogazione, e serve per obbligare il Governo a rendere pubbliche le ragioni delle sue azioni. Si svolgono solo in Assemblea in ragione della loro rilevanza. La procedura prevede la presentazione dell’interpellanza, il suo svolgimento in aula, la risposta del Governo, la replica dell’interpellante e l’eventuale presentazione di una linea politica diversa da quella del Governo. Le interpellanze rimangono spesse inevase e in generale questi strumenti assurgono ormai a mere ritualità per via della più rapida circolazione delle notizie. 24. STRUMENTI CONOSCITIVI DEL PARLAMENTO La maggior parte della dottrina non riconosce una vera e propria funzione conoscitiva: le Camere hanno strumenti che permettono loro di ottenere informazioni, ma quest’attività non si svolge mai per un mero scopo conoscitivo, ma è sempre strumentale all’esercizio delle funzioni precedentemente elencate. Ne fanno parte le interrogazioni e le interpellanze, così come le inchieste parlamentari. Tra gli strumenti conoscitivi vanno, infine, ricordate un’altra serie di attività utile all’esercizio della funzione legislativa: richieste all’ISTAT; chiedere pareri al CNEL; chiedere informazioni alla Corte dei conti; di deliberare in Commissioni indagini conoscitive e di svolgere audizioni con ministri e funzionari della pubblica amministrazione. CAP. 5 - IL GOVERNO SEZ. I - FORMAZIONE DEL GOVERNO 1. INTRODUZIONE La disciplina del Governo è contenuta in poche scarne regole agli artt 92-96 Cost. Quindi per capire a pieno il funzionamento del Governo è necessario prendere in considerazione le prassi e le consuetudini costituzionali formatesi nel corso del tempo. Del resto, gli stessi Costituenti hanno riservato ad una legge la disciplina che ordina la Presidenza del Consiglio e a individuare il numero e le attribuzioni dei Ministeri. In Assemblea costituente il dibattito si incentrò sulle modalità di nomina del Presidente del Consiglio e sul suo ruolo nella determinazione della politica generale. In ogni caso, il 71 Governo è l’organo costituzionale che determina l’indirizzo politico del Paese ed ha titolarità di funzioni amministrative, ma è dotato anche di poteri normativi: adozione di decreti-legge, decreti legislativi e regolamenti. 2. DISCIPLINA COSTITUZIONALE E LA PRASSI L’articolo 92 stabilisce che il PdR nomina il Presidente del Consiglio e su proposta di questo, i ministri. Il PdR esercita il potere di nomina del Governo a seguito delle elezioni che si svolgono alla fine di ogni legislatura. Ma nel caso in cui il Governo presenti le dimissioni prima del termine, il Capo dello Stato sarà chiamato a formare un nuovo Governo. In questi casi si parla di crisi di Governo e il PdR prima di nominare un nuovo Presidente del Consiglio dovrà mettere in atto delle attività non disciplinate dalla Costituzione, ma che ormai sono prassi consolidata e hanno assunto il rango di consuetudini costituzionali. Prima di tutto, il Presidente della Repubblica deve svolgere delle consultazioni, durante le quali incontra i presidenti dei gruppi parlamentari, i Presidenti delle Camere, gli ex Presidenti della Repubblica e qualsiasi altra figura ritenuta opportuna per risolvere la crisi. Se la situazione è critica possono essere svolti due o più cicli di consultazioni. Grazie al loro esito, il Capo dello Stato dispone di un quadro della situazione politica e sarà in grado di sapere se può essere individuato un soggetto capace di formare un Governo in grado di ottenere il sostegno di una maggioranza parlamentare. Qualora, però, le consultazioni non siano state sufficienti a individuare tale soggetto, il Presidente può fare ricorso a strumenti che gli permettano ulteriori approfondimenti. In questo caso, il Capo dello Stato può affidare (non necessariamente) un mandato esplorativo ad una personalità super partes, di solito il Presidente della Camera o quello del Senato. Colui che riceve il mandato deve vagliare la situazione politica attraverso ulteriori colloqui con i principali esponenti delle forze politiche per poi individuare l’esistenza di un soggetto in grado di formare un Governo che possa ottenere la maggioranza. Di solito, la figura a cui il PdR affida il mandato non è la stessa persona a cui lo stesso Presidente pensa di affidare l’incarico di formare il nuovo Governo. In alcuni casi, il Capo dello Stato può circoscrivere la portata del mandato esplorativo richiedendo di individuare una particolare maggioranza. Nel 2018 questo è addirittura avvenuto all’inizio della XVIII legislatura, il Presidente Mattarella ha affidato due mandati esplorativi, prima alla Presidente del Senato e poi al Presidente della Camera per verificare l’esistenza di una maggioranza che potesse originare dall’accordo di due forze politiche. Entrambi i mandati hanno avuto esito negativo. In alternativa al mandato esplorativo può essere attribuito un pre-incarico già a colui al quale ipotizza di conferire l’incarico di formare il Governo. Il preincaricato deve comprendere se è in grado di coagulare una maggioranza che possa sostenere il Governo che lui stesso dovrà presiedere. A questa categoria è riconducibile il pre-incarico che Napolitano affidò all’On. Bersani nel 2013 per verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo, che consenta la formazione del Governo. La scelta tra i due è dettata, oltre che dalla discrezione del PdR, anche dalla situazione politica del momento. Ma se neanche al termine di questa fase è stato possibile individuare nessun soggetto da incaricare per formare il Governo, il Presidente della Repubblica dovrà sciogliere le Camere. Si tratta comunque di un processo fluido e flessibile con cui il Capo dello Stato può gestire la situazione anche concedendo molto tempo alle forze politiche per individuare la formazione di un Governo. All’inizio della XVIII legislatura sono occorsi 89 giorni, due mandati esplorativi e innumerevoli consultazioni che hanno poi portato alla formazione del Governo Conte. 72 siedono sia il Presidente del Consiglio che i singoli ministri. Gli organi non necessari dello Stato sono stati introdotti prima per via di prassi e poi con la legge n.400 del 1988 che ne ha dettato una disciplina unitaria. Servono a rendere funzionale l’attività di Governo, anche se la scelta di istituirli è volta a regolare gli equilibri politici delle coalizioni governative. La legge ha fissato a 65 il numero massimo dei componenti del Governo, compresi i ministri senza portafoglio, sottosegretari e viceministri. Questi organi sono: - Vicepresidente del Consiglio → in caso di assenza o impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio, ha funzioni suppletive. Viene spesso nominato nei Governi di coalizione per dare rilievo anche ad un partito diverso a quello che esprime il Presidente. Possono essere nominati anche più vicepresidenti; la proposta spetta al Presidente e la delibera al Consiglio. Qualora non venga designato si tratta del ministro più anziano. - Ministri senza portafoglio → si tratta di ministri non preposti ad un ministero, ma responsabili di un dipartimento della Presidenza del Consiglio o incaricati di svolgere funzioni delegate dal Presidente. Essi siedono a pieno titolo in Consiglio e vengono quasi sempre nominati: il ministro agli affari regionali e per i rapporti col Parlamento. La nomina di questi spetta al PdR su proposta del Presidente del Consiglio. - Sottosegretari di Stato → possono essere nominati per coadiuvare il singolo ministro, ma non partecipano alle riunioni. Svolgono i loro compiti tramite delega. Possono intervenire, in qualità di rappresentanti del Governo, alle sedute delle Camere e delle Commissioni, al fine di sostenere la discussione secondo le direttive del ministro e rispondere a interrogazioni e interpellanze. Questi vengono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio di concerto col ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare. - Viceministri → si tratta di sottosegretari cui vengono conferite deleghe relative all’intera area di competenza. Possono partecipare al Consiglio dei ministri, se invitati dal Presidente del Consiglio, ma senza diritto di voto. Non possono essere in numero superiore a 10. - Commissari Straordinari → vengono nominati qualora si renda necessario realizzare specifici obiettivi o nel caso si presentino particolari e temporanee esigenze di coordinamento tra amministrazioni statali. Sono comunque incarichi temporanei la cui durata è contenuta nel decreto di nomina. - Consiglio di Gabinetto → può adiuvare il Presidente del Consiglio nell’esercizio delle sue competenze costituzionali. È composto dai soli ministri designati dal Presidente del Consiglio. - Comitati Interministeriali → sono organi collegiali in cui si riuniscono solo quei ministri dotati di competenze trasversali sulla materia oggetto del comitato. Hanno natura permanente e sono generalmente istituisti con legge che ne stabilisce composizione e competenze. - Comitati di ministri → possono essere istituiti dal Presidente del Consiglio al fine di esaminare in via preliminare questioni di comune competenza, di esprimere parere su direttive dell’attività di Governo e su problemi di rilevante importanza da sottoporre al Consiglio. Questi comitati non adottano atti di rilevanza esterna, mentre quelli interministeriali possono farlo. 5. COMPETENZE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E DEI MINISTRI L’Assemblea costituente non riuscì a trovare una soluzione condivisa e, quindi, il testo presenta un’indiscussa ambiguità. Un ruolo chiave venne sicuramente giocato dal timore, alla luce dell’esperienza fascista appena trascorsa, di attribuire eccessivi poteri 75 al Presidente del Consiglio. Secondo l’articolo 95 Cost. “il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. I ministri a loro volta “sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Secondo la maggior parte della dottrina è, però, possibile desumere dallo stesso articolo che, se il Presidente ha il compito di dirigere la politica generale del Governo, il Consiglio dei ministri è l’organo deputato a definirne i contenuti. In altre parole, il potere di direzione della politica generale è ben diverso dal potere di decidere sul merito delle scelte politiche che impegnano tutto il Governo. Ma solo con la legge n.400 del 1988 il legislatore è intervenuto a chiarire il disposto costituzionale: confermato il potere di decisione collegiale del Consiglio, sono stati individuati alcuni strumenti in grado di garantire un più efficace potere di coordinamento e di direzione del Presidente. Questa legge indica quali sono i compiti del Consiglio: deve determinare la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa. Inoltre, deve deliberare su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere e dirimere eventuali conflitti di attribuzione. Spetta al Consiglio la parola definitiva su tutti i disegni di legge e su tutti gli atti normativi; sugli atti che lo Stato può essere chiamato a compiere nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali e sulle linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria. Quanto alle funzioni del Presidente del Consiglio la legge conferisce al Presidente il compito di: - Indirizzare ai ministri le direttive politiche ed amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri - Coordinare e promuovere l’attività dei ministri in ordine agli atti che riguardano la politica generale del Governo - Eventualmente sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti in ordine a questioni politiche e amministrative, sottoponendoli al Consiglio dei ministri - Concordare coi ministri interessati le pubbliche dichiarazioni che intendono rendere ogni volta che possano impegnare la politica generale del Governo - Adottare le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza degli uffici pubblici e promuovere le verifiche necessarie - Promuovere l’azione dei ministri per assicurare che le aziende e gli enti pubblici svolgano la loro attività secondo gli obiettivi indicati dalle leggi che ne definiscono l’autonomia - Esercitare le attribuzioni conferitegli dalla legge in materia di servizi di sicurezza e di segreto di Stato - Disporre l’istituzione di particolari Comitati di ministri - Disporre la costituzione di gruppi di studio e di lavoro composti in modo da assicurare la presenza di tutte le competenze dicasteriali interessate ed eventualmente anche di esperti non appartenenti alla pubblica amministrazione. Inoltre, è il Presidente del Consiglio il titolare dell’iniziativa legislativa relativa all’apposizione della questione di fiducia alle Camere e ancora, spetta a lui convocare il Consiglio e scegliere l’ordine del giorno. Per quanto concerne i compiti dei singoli ministri, essi svolgono un duplice ruolo: contribuiscono alla determinazione dell’indirizzo politico in virtù della loro partecipazione ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio dei ministri, ma al contempo sono a capo dei singoli ministeri che costituiscono il vertice delle amministrazioni centrali dello Stato. L’articolo 95 Cost. riserva alla legge il compito di individuare il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei singoli ministeri. Il legislatore, però, è intervenuto sull’organizzazione dei ministeri stessi solamente negli 76 anni 90 e da allora si sono susseguiti interventi legislativi che hanno modificato costantemente il numero dei ministeri. Inizialmente erano previsti nel numero di 12, ma dopo vari cambiamenti ad oggi risultano essere 13. 6. RAPPORTI TRA PRESIDENTE E MINISTRI Secondo una prima tesi, il Presidente del Consiglio sarebbe da considerare alla stregua di un mero primus inter pares rispetto ai ministri. Egli non avrebbe alcuna supremazia nei confronti dei ministri, né guida rispetto agli stessi, dovendosi limitare a svolgere un ruolo analogo a quello di un coordinatore. Questa tesi è stata sposata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n.262 del 2009. Dal punto di vista costituzionale questa tesi trova fondamento in tre ragioni: nell’assenza del potere di revocare i ministri; l’attribuzione collegiale del potere di determinare la politica del Governo anche alla luce dell’articolo 92 Cost. secondo cui il Presidente del Consiglio e i ministri costituiscono insieme il Consiglio dei ministri e infine, la responsabilità collegiale dei singoli ministri per gli atti approvati dal Consiglio dei ministri. Questi tre elementi testimonierebbero la funzione di indirizzo politico è esercitata dall’organo collegiale, mentre il Presidente sarebbe solo un primus inter pares. Nella storia repubblicana fino alla riforma del 1993 il ruolo di guida del Presidente, che raramente era il segretario o la figura più autorevole del partito di provenienza, è stato spesso ridimensionato dal peso dei ministri. In dottrina talvolta si è utilizzato il termine di Governo dei Feudi, dove i feudi erano i ministeri, nell’ambito dei quali né il Presidente del Consiglio, né il Consiglio dei ministri erano in grado di assumere poteri decisivi. I ministri infatti rappresentavano e facevano valere le posizioni dei partiti della coalizione che sosteneva il Governo. Eventuali dissidi difficilmente vedevano prevalere la posizione del Presidente rispetto a quella del ministro: il partito di riferimento del ministro in questione avrebbe infatti potuto far venir meno l’appoggio al Governo e mettere in discussione la sopravvivenza dell’esecutivo intero. Il legislatore ritenne opportuno intervenire con la legge 400 del 1988 per attribuire maggiori strumenti di direzione al Presidente del Consiglio stesso. Secondo una diversa tesi, invece, la Costituzione riconoscerebbe al Presidente del Consiglio comunque una posizione di preminenza rispetto agli altri ministri. Anche i sostenitori di questa tesi richiamano l’articolo 95 Cost. che differenzia la posizione del Presidente da quella dei suoi ministri, attribuendogli il compito di dirigere la politica generale del Governo. Un’altra testimonianza sarebbe il fatto che, nella fase di formazione del Governo, abbia il potere di individuare e proporre i nomi dei singoli ministri. Ma soprattutto la supremazia del Presidente rispetto ai ministri dovrebbe desumersi dal fatto che le dimissioni del Presidente, a differenza di quelle dei singoli ministri, determinano la conseguenza radicale della crisi di governo. Quindi, poiché la scelta di dimettersi del Presidente del Consiglio può porre fine all’esecutivo, questo determinerebbe una posizione di superiorità dello stesso all’interno della compagine ministeriale. Quanto accaduto nel nostro Paese tra il 1994 e il 2013 sembrerebbe poter corroborare quest’ultima impostazione. I Presidenti che si sono susseguiti in quegli anni sono i leader del partito più importante tra quelli della coalizione che aveva ottenuto il maggior consenso dal voto degli elettori. In virtù del consenso popolare ottenuto alle elezioni, si è ritenuto che i Presidenti avessero il potere, anche giuridico, di influenzare in modo determinante le decisioni del Consiglio dei ministri e dei ministri stessi. Questa prospettiva è stata assecondata dal decreto n.303 del 1999 che ha attribuito nuovamente maggiori poteri al Presidente. Un altro elemento in favore di questa tesi è l’accresciuto ruolo che il Presidente del Consiglio ha assunto nelle istituzioni dell’Unione europea. Il Presidente del Consiglio fa parte del Consiglio europeo che l’organo deputato a definire 77 legislatura. Ma in questo caso, il Presidente del Consiglio della legislatura precedente ha l’obbligo di rassegnare le dimissioni e consentire così la formazione di un nuovo Esecutivo. L’insorgere di una crisi di governo durante la legislatura richiede l’intervento del Capo dello Stato e si può risolvere in due modi. Se le condizioni politiche lo consentono, il PdR nominerà un nuovo Presidente del Consiglio e potrà così formarsi un nuovo governo. Se invece, le forze politiche presenti in Parlamento non sono in nessun modo in grado di esprimere una maggioranza, al Presidente della Repubblica non rimane altra via che sciogliere anticipatamente le Camere stesse, indicendo nuove elezioni. Si tratta di una decisione che viene presa soltanto dopo aver riscontrato l’assoluta impossibilità di crearsi, all’interno delle Camere, una maggioranza capace di dare e sostenere la fiducia ad un nuovo Governo. Si tratta di un extrema ratio da utilizzare soltanto per consentire all’ordinamento di far terminare una situazione di stallo politico e istituzionale. 10. RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E DEI MINISTRI Secondo l’articolo 95 Cost., il Presidente è il responsabile della politica generale del Governo, mentre i ministri hanno una duplice responsabilità: una di tipo collegiale per gli atti adottati dal Consiglio dei ministri e una di tipo individuale per gli atti dei loro dicasteri. La responsabilità dei ministri è affermata anche dall’articolo 89 Cost. in relazione agli atti del Presidente della Repubblica di cui i ministri sono proponenti. Le norme appena citate individuano una responsabilità di tipo politico in virtù della quale il Governo è chiamato a rispondere delle proprie azioni di fronte al Parlamento che potrebbe sanzionare il Governo facendo venir meno la fiducia. Ma esiste anche una responsabilità di tipo giuridico; ai sensi dell’articolo 28 Cost. infatti “tutti i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti”. Per quanto concerne la responsabilità di tipo penale l’articolo 96 Cost. dispone che “il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria previa autorizzazione della Camera di appartenenza”. Questo testo è frutto della revisione avvenuta nel 1989, prima di allora la competenza a giudicare era attribuita alla Corte costituzionale che poteva intervenire solo se il Parlamento in seduta comune avesse posto in stato di accusa i membri del Governo. Questa situazione oltre a comportare una situazione di deroga e privilegio rispetto agli altri cittadini, provocò anche notevoli problemi al funzionamento della Corte costituzionale che tra il 1977 e il 1979 dovette condurre il processo Lockeed e la sua attività rimase bloccata per tutto ciò che riguardava i giudizi sulle leggi. Per queste ragioni la legge cost. n.1 del 1989 attribuì ai giudici ordinari i reati commessi nell’esercizio delle funzioni da ministri e presidenti. Ai sensi di questa legge, qualora si abbia notizia di comportamenti integranti reati ministeriali, uno speciale collegio giudiziario composto da tre magistrati estratti a sorte presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio, ha il compito di svolgere le indagini preliminari e, laddove rilevi la necessità di andare avanti col processo, deve trasmetterne notizia al Procuratore della Repubblica. Quest’ultimo dovrà investire della questione la Camera di appartenenza. Se la Camera non si oppone, il processo continuerà regolarmente; in caso contrario, invece, il processo terminerà con l’archiviazione per mancanza di procedibilità. Il diniego di autorizzazione è possibile solo nei casi in cui l’Assemblea reputi a maggioranza assoluta e con una valutazione insindacabile che l’indagato abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico. In effetti la discrezionalità concessa è molto ampia e rende rari in cui è stata 80 concessa dalle Camere l’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri. La Corte costituzionale ha precisato che, in presenza di reati comuni commessi da Presidente del Consiglio o ministri, il Parlamento non ha alcun diritto di essere informato dall’autorità giudiziaria dell’esistenza del procedimento penale in corso. SEZ. IV - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE 11. MINISTRI COME VERTICI DELLE AMMINISTRAZIONI CENTRALI I ministri hanno una duplice funzione: sono membri del Governo e hanno, quindi, un ruolo di direzione politica e in qualità di organi apicali dei ministeri sono responsabili dell’attuazione dell’indirizzo politico espresso dal Governo e Parlamento. Proprio questa duplicità di funzioni consente di mantenere una certa coerenza tra l’indirizzo politico e l’attività amministrativa. Per pubblica amministrazione si intende ogni articolazione dello Stato deputata a provvedere alla concreta realizzazione degli interessi pubblici determinati dalle leggi, mediante l’adozione di provvedimenti autoritativi. Quindi, mentre il legislatore individua gli obiettivi che lo Stato intende perseguire, la concreta attività di attuazione di tali obiettivi spetta proprio agli apparati e agli uffici pubblici che costituiscono, nel loro insieme, la pubblica amministrazione. I ministeri intesi come insieme di mezzi, uomini e uffici, costituiscono una parte rilevante della pubblica amministrazione. Si tratta di strutture organizzative dell’amministrazione centrale dello Stato. Essi hanno il compito di svolgere funzioni amministrative che spettano allo Stato e che non siano assegnate ad altri enti pubblici. Per capire le specifiche attribuzioni di ogni ministero è necessario fare riferimento al decreto legislativo n.300 del 1999. Per fare un esempio: al ministero dell’interno competono le funzioni e i compiti devoluti allo Stato in materia di regolare costituzione e funzionamento degli organi degli enti locali, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, di difesa civile, di protezione civile, di tutela dei diritti civili, di cittadinanza, immigrazione e asilo. 12. PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE L’articolo 97 Cost. richiede che le attività pubbliche siano organizzate secondo i principi di imparzialità e buon andamento. Il presidio costituzionale dell’imparzialità suddivide l’attività politica del Governo da quella amministrativa che presuppone il principio di uguaglianza nel senso di pari trattamento a tutti i soggetti che vengono a contatto con la pubblica amministrazione. Il concetto di buon andamento richiede poi che la pubblica amministrazione agisca al fine di conseguire sempre gli obiettivi posti secondo i criteri di efficienza, economicità ed efficacia. Servono, quindi, strumenti adeguati allo scopo e il dispendio minimo di mezzi e risorse. Così ogni provvedimento deve essere adottato sulla base della più ampia partecipazione degli interessati e deve essere il frutto di valutazioni complete e il più possibile approfondite. Sotto la stessa linea deve essere letto anche l’articolo 98 Cost che prevede che gli impiegati non devono essere condizionati da interessi personali e devono essere al servizio esclusivo della Nazione. Questi principi si ripercuotono anche sul sistema delle assunzioni che avvengono tramite concorso pubblico che oltre a garantire l’accesso di persone qualificate, evita che siano attuate assunzioni di favore. Inoltre, per evitare commistioni tra politica e settori sensibili della pubblica amministrazione, l’articolo 98 Cost. consente alla legge di limitare il diritto di iscrizione ai partiti politici per evitare l’affiliazione a organismi che potrebbero influenzarne l’operato e non è consentito, se assumono la carica parlamentare, dar loro avanzamenti di carriera se non quelli derivanti dall’anzianità di servizio. La Corte costituzionale si è espressa, inoltre, a favore dello spoil system. Si tratta del meccanismo in base al quale, con il mutamento dei governi, i dirigenti pubblici che svolgono funzioni amministrative attuative degli indirizzi politici vengono automaticamente revocati e 81 sostituiti per cause estranee ai rapporti d’ufficio. Tale meccanismo è legittimo solo con riferimento agli addetti agli uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo e alle figure apicali. 13. AUTORITA INDIPENDENTI A partire dagli anni 90 sono stati istituiti alcuni organi caratterizzati da un profilo di indipendenza rispetto al potere esecutivo. Si tratta delle Autorità Amministrative Indipendenti. Alcuni di questi enti sono dotati di ampi poteri di regolazione, vigilanza e controllo in ambiti rilevanti della vita economica, come il mercato e la concorrenza (AGCM), delle telecomunicazioni (AGCOM), i trasporti (ART), energia, rifiuti e settore idrico (ARERA), settore assicurativo (IVASS), il settore bancario e finanziario (CONSOB) ecc. Altre autorità sono invece preposte alla tutela di specifici diritti, libertà o interessi di natura costituzionale, come il diritto alla riservatezza o la prevenzione della corruzione (ANAC). Dal punto di vista costituzionale si pongono alcune questioni problematiche perché queste autorità godono di un particolare regime di autonomia rispetto all’esecutivo e agli altri enti dello Stato. Esse, infatti, sono dotate di poteri di normazione e di poteri sanzionatori. Il problema che si pone è l’esercizio di questi poteri normativi che rischiano di mettere in discussione il principio di legalità. In giurisprudenza è stata quindi elaborata un’accezione peculiare di questo principio: le autorità esercitano legittimamente i loro poteri se e in quanto sia garantito un “principio di legalità procedimentale”, da intendersi nel senso del necessario rafforzamento delle “forme di partecipazione” al procedimento di formazione dell’atto normativo dei soggetti interessati. Ma rimane il fatto che si consente in questo modo ad un’autorità priva di legittimazione democratica di regolare, in assenza di un fondamento legislativo, settori delicati che incidono sui diritti delle persone (riserva di legge). Le persone conservano la possibilità di ricorrere di fronte al giudice amministrativo qualora ritengano che l’autorità indipendente abbia violato i loro diritti e interessi legittimi. CAP. 6 - PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SEZ. I - MANDATO PRESIDENZIALE 1. INTRODUZIONE “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità della nazione”. Questo è affermato nell’articolo 87 Cost. Del PdR si parla negli articoli: dal 83 al 91; 59; 62; 73; 74; 92; 93; 104; 126 e 135. Siccome si tratta di un organo monocratico devono essere tenute in considerazione le diverse prassi seguite dai singoli Presidenti. I Presidenti sono stati: De Nicola (Capo Provvisorio); Einaudi; Gronchi; Segni; Saragat; Leone; Pertini; Cossiga; Scalfaro; Ciampi; Napolitanox2; Mattarella. Durante i lavori dell’Assemblea si discusse molto su questo ruolo: erano in molti ad auspicare il riconoscimento a tale figura di compiti meramente notarili e che lo immaginavano del tutto avulso da qualsiasi ruolo di politica attiva. Il concreto svolgimento della storia repubblicana ha dimostrato l’inadeguatezza di una simile ipotesi: tutti i Presidenti sono stati infatti al centro della scena politica e istituzionale italiana. D’altra parte, tutte le funzioni ad egli attribuite hanno come obiettivo quello di garantire l’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, nonché di consentire allo stesso PdR di indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi o in ipotesi di blocco o stasi, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali. La Corte costituzionale afferma che il PdR è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello stato e al di sopra di tutte le parti politiche. Succede, però, che nei periodi più difficili in cui i partiti sono incapaci di dare al Paese continuità e 82 dovrebbe limitare la sua attività all’ordinaria amministrazione, ma nella realtà è difficile limitare l’ambito di intervento secondo questa prospettiva perché soprattutto in caso di impedimenti prolungati, il sistema potrebbe richiedere anche l’adozione di atti eccezionali (rinvio di una legge; nomina di un nuovo governo ecc.). In queste circostanze non sembra possibile precludere al supplente di esercitare anche tali funzioni. L’unico atto precluso è lo scioglimento anticipato delle Camere a cui viene applicato in via analogica l’articolo 88 Cost. secondo cui il PdR non può sciogliere le Camere nell’ultimo semestre di mandato. L’articolo 86 Cost. inoltre, prevede che in caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera indice l’elezione del nuovo Presidente entro 15 giorni salvo termine maggiore se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione. In molti casi, determinare se l’impedimento ha natura permanente o temporanea non è facile. Non c’è certezza sulle condizioni che possano rendere permanente un impedimento temporaneo, né è in alcun modo stabilito quali siano i soggetti chiamati ad accertare l’esistenza di tali circostanze. L’unico episodio rilevante fu il malore del Presidente Segni nel 1964 dopo due anni di mandato. Ma egli dopo mesi dalla dichiarazione di impedimento temporaneo, firmò autonomamente le dimissioni e non si risolse il problema sul se e come accertare che l’impedimento temporaneo si fosse tramutato in impedimento permanente. Terminato l’incarico presidenziale, ai sensi dell’articolo 59 Cost., si assume di diritto la carica di senatore a vita. I presidenti emeriti sono tra i soggetti generalmente ascoltati dai Presidenti della Repubblica nel momento in cui si svolgono le consultazioni propedeutiche alla formazione del nuovo Governo. SEZ. II - ATTI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 5. PREMESSA L’articolo 87 Cost. presenta un elenco di atti di competenza del Capo dello Stato, anche se ulteriori funzioni sono contenute anche in altri articoli. Le funzioni presidenziali si possono classificare secondo due diverse prospettive: la prima fa riferimento al potere o all’organo dello Stato cui ineriscono le varie funzioni; la seconda, invece, considera la paternità sostanziale dell’atto stesso. Nella prima ipotesi occorre verificare se l’atto presidenziale sia riconducibile ad una delle funzioni del Governo, del Parlamento, della Magistratura, della Corte costituzionale o delle Regioni. Nel secondo caso la classificazione ha come presupposto la circostanza che non tutti gli atti del Presidente sono decisi nella sostanza da lui stesso. In questa prospettiva si distinguono: atti presidenziali in senso stretto; atti formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi e, infine, di atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi. 6. ATTI PRESIDENZIALI RICONDUCIBILI AL POTERE LEGISLATIVO Le funzioni e gli atti presidenziali riconducibili al potere legislativo sono: - L’indizione delle Elezioni delle Nuove Camere e la fissazione della loro prima riunione. L’articolo 61 Cost. limita fortemente la discrezionalità del Capo dello Stato che è tenuto a indire le elezioni entro 70 giorni dallo scioglimento delle precedenti Camere e a fissare la prima riunione entro 20 giorni successivi alle elezioni. La titolarità di questo potere si spiega perché il Presidente è l’organo che deve assicurare il corretto funzionamento e la continuità dei poteri. - La Convocazione straordinaria delle Camere (art.62 Cost). E’ un potere mai usato nella storia repubblicana, ma a cui si potrebbe fare ricorso qualora i Presidenti di Camera e Senato non convocassero le Camere e bloccassero la possibilità di agire impedendone le funzioni. Si tratta della garanzia di svolgimento dell’attività parlamentare. 85 - L’invio di messaggi alle Camere (art 87 Cost.). I messaggi liberi possono riguardare qualsiasi materia in merito alle quali il Presidente ritenga opportuno sensibilizzare il Parlamento. Si tratta di un potere, fatta eccezione per la Presidenza Cossiga, non molto usato, anche perché nella prassi il Parlamento non si è mai mostrato così attento ai messaggi presidenziali. In ogni caso il Presidente può far conoscere le sue opinioni esternandole liberamente. - L’autorizzazione dei disegni di legge di iniziativa governativa (art. 87 Cost.). Questa funzione è collegata anche al rapporto con l’Esecutivo. Si è posto il dubbio relativo alla possibilità per il Presidente di rifiutare l’autorizzazione alla presentazione di tali disegni di legge. La risposta è negativa perché ciò potrebbe ledere le prerogative del Parlamento che è il titolare della potestà legislativa. - La promulgazione delle leggi (art. 87 Cost.). La promulgazione, che deve avvenire entro un mese dall’approvazione se non è dichiarata l’urgenza, è l’atto con il quale si perfeziona il procedimento di approvazione della legge. Con essa, il Capo dello Stato accerta la volontà espressa dalle due Camere ciascuna a maggioranza assoluta, verificando la corrispondenza dei testi pervenutigli ed ordina la pubblicazione della legge su Gazzetta Ufficiale. - Il rinvio della legge (art. 74 Cost.). Il Presidente, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge questa deve essere promulgata. Con esso il Presidente si assume la responsabilità di porre un veto, seppure soltanto sospensivo ad una decisione del Parlamento in ragione della presenza di gravi ed evidenti profili di illegittimità costituzionale. In questi casi il Presidente può infatti decidere di non promulgare la legge e di rinviarla alle Camere che dovranno prendere in considerazione quanto indicato nel messaggio. Il messaggio è a contenuto vincolato: infatti, devono essere contenute le ragioni che hanno portato il Presidente ad utilizzare il potere di rinvio. Le Camere che sono detentrici del potere legislativo, potranno comunque riapprovare la legge nel testo originario, senza tener conto dei rilievi presidenziali. In questo caso, il Presidente sarà obbligato a promulgare la legge, essendo vietata per disposto costituzionale il secondo rinvio. Questa funzione mette in luce la funzione presidenziale di controllo e di garanzia della Costituzione. Nella prassi, il potere di rinvio è in disuso. Cossiga rinviò 21 leggi, Scalfaro 6, Ciampi 7, Napolitano 1 e Mattarella 1 nel 2017. Molto più numerose, invece, sono state le promulgazioni motivate: pur in presenza di una legge che presenta punti di criticità, il Presidente procede a promulgare emettendo un comunicato nel quale spiega le ragioni della promulgazione, fornendo altresì suggerimenti per eventuali futuri interventi correttivi. Inoltre, contribuisce il disuso del rinvio, il cosiddetto moral suasion: il Presidente durante il corso del procedimento legislativo, può esercitare in via indiretta e informale, un’azione di convincimento nei confronti del Parlamento attraverso l’uso di interventi ed esternazioni volti a suggerire correzioni del testo in corso d’opera per poter prevenire il successivo uso del rinvio. I Presidente stanno sempre di più interpretando la funzione prevista dall’articolo 74 Cost. come attributiva di poteri informali, volti ad evitare di attivare il meccanismo del rinvio. Di conseguenza, o cercando di dissuadere il Parlamento dall’approvare disposizioni sospette di illegittimità costituzionale, o promulgandole ma accompagnando l’atto con suggerimenti correttivi, il Capo dello Stato sembra manifestare la convinzione che all’uso del potere di rinvio sarebbe preferibile ricorrere in casi eccezionali. Questa tendenza, però, rischia di stravolgere il ruolo presidenziale nel rapporto con gli organi di indirizzo politico. 86 - L’emanazione dei decreti aventi valore di legge e dei regolamenti (art.87 Cost.). Il presidente ha il compito di provvedere ad emanare gli atti aventi forza di legge adottati dal Governo nonché i regolamenti governativi. Anche rispetto a questi atti si pone il dubbio relativo al tipo di controllo da svolgere. Si ritiene che il Presidente possa rifiutarsi di procedere all’emanazione solo di quegli atti che violino in modo evidente la Costituzione. Ad esempio, nel 2009, il Presidente Napolitano si rifiutò di emanare il decreto-legge in relazione alla regolamentazione del fine vita (c.d. caso Englaro) facendo leva sull’assenza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’articolo 77 Cost. o per altro verso lesivi di norme e principi costituzionali. L’anno successivo si rifiutò di emanare un decreto legislativo in tema di federalismo fiscale municipale ritenendo che lo stesso fosse stato adottato in difformità rispetto al procedimento previsto dalla legge delega. Nuovamente va ricordato che anche nei confronti del Governo il Presidente può fare ricorso al moral suasion. - Indizione del referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione (art.87 Cost.). Il Presidente della Repubblica ha il potere si convocare i cittadini al voto sul referendum abrogativo di cui all’articolo 75 Cost., sul referendum costituzionale di cui all’articolo 138 Cost.; nonché sul referendum consultivo previsto dall’articolo 132 Cost. con riferimento al procedimento di fusione di Regioni esistenti o di creazione di nuove Regioni. - La nomina di cinque senatori a vita che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (art. 59 Cost.). Sembra di dover accogliere la tesi di tutti i Presidenti, fatta eccezione per Pertini e Cossiga, secondo cui il numero totale di senatori deve essere 5 e non 5 per ogni Presidente per evitare il rischio che la percentuale dei senatori a vita sia eccessivamente alta rispetto a quella dei senatori elettivi. Gli attuali senatori a vita sono: Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia e Liliana Segre (unica nominata da Mattarella nel 2018). - - Lo scioglimento delle Camere (art. 88 Cost.). La norma si limita a prevedere che, prima di procedere, il Presidente debba consultare i Presidenti delle Camere, che esprimeranno un parere obbligatorio ma non vincolante. Lo scioglimento delle Camere è un atto sicuramente da adottare al termine fisiologico dei 5 anni di durata della legislatura: si parla in questo caso di atto dovuto. Molto più problematico è il caso in cui il Presidente debba ricorrere allo scioglimento quando il termine naturale della legislatura non sia ancora giunto. È una circostanza accaduta molto frequentemente. La scelta di sciogliere anticipatamente le Camere è legata all’impossibilità provata ed incontrovertibile per le forze politiche di formare una maggioranza in grado di garantire la fiducia ad un Governo. Altrimenti detto, il potere di interrompere anticipatamente la legislatura può essere utilizzato dal Presidente quando esso rappresenta l’unica possibilità per consentire all’ordinamento di riprendere a funzionare in modo fisiologico. In molti, con l’avvento del maggioritario hanno ritenuto nell’ambito del contesto partitico bipolare, lo scioglimento anticipato dovesse essere disposto nel momento in cui la maggioranza espressa dal corpo elettorale non fosse più in grado di sostenere un Governo. In altre parole, si riteneva che non potessero essere legittimate maggioranze diverse da quelle votate dagli elettori. Questa tesi è stata ritenuta da tutti i Presidenti incompatibile con la forma di governo parlamentare italiana. Il primo ad affrontare questa situazione fu Scalfaro nel 1994 con la crisi del Governo Berlusconi I. Egli ritenne che lo scioglimento anticipato fosse l’extrema ratio cui fare ricorso soltanto nell’impossibilità di trovare un altro governo. Scalfato trovò una maggioranza molto diversa che era 87 costituzionale. Nella scelta di costoro il Presidente dovrebbe controbilanciare le scelte del Parlamento e delle supreme magistrature rispetto all’eventuale assenza di giudici dotati di una determinata cultura politica o competenti in particolari materie. - Lo scioglimento dei Consigli Regionali e la rimozione dei Presidenti delle Giunte regionali (art.126 Cost.). Questi poteri possono essere esercitati qualora gli organi regionali citati commettano atti contrari alla Costituzione, violino gravemente la legge o per ragioni di sicurezza nazionale. Dal punto di vista procedimentale, la disciplina attuativa prevede che la proposta provenga dal Governo e che il provvedimento presidenziale sia adottato dopo l’emanazione di un parere da parte della commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali. In ogni caso, si tratta di un potere di controllo statale su organi regionali finora mai esercitato. - Il potere di esternazione libero: si tratta di un potere che non è codificato in Costituzione ma che non è possibile mettere in discussione. Sin dalla presenza di Einaudi e con una tendenza ad una esposizione sempre più frequente, i Presidenti della Repubblica hanno fatto sentire la loro voce all’interno del dibattito politico-costituzionale con interviste, comunicati, libri ed esternazioni varie che oggi sono più accessibili e più efficaci nell’influenzare l’opinione pubblica. Questo, però, sottopone il Capo dello Stato a maggiori critiche sia da parte degli attori politici che dell’opinione pubblica. Ciò rischia di metterne in discussione la funzione di rappresentante dell’unità nazionale. SEZ. III - CONTROFIRMA E RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 10. CLASSIFICAZIONE DEGLI ATTI PRESIDENZIALI IN BASE AL SOGGETTO Gli atti presidenziali possono essere catalogati anche in base alla paternità dell’atto stesso. Questa classificazione è utile perché è connessa all’articolo 89 Cost. che prevede che “nessun atto del PdR è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. Viene quindi implicato il coinvolgimento di un altro soggetto e questo ha conseguenze rispetto alla responsabilità delle scelte effettuate. Le categorie sono le seguenti: - Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali (in senso stretto) → si tratta di atti la cui iniziativa è imputabile al PdR perché è lui stesso a decidere se adottare quell’atto e a stabilirne i contenuti. Tra questi si ricordano: la convocazione straordinaria delle Camere; la nomina di cinque senatori a vita; la promulgazione e il rinvio al Parlamento della legge; l’invio di messaggi alle Camere; la concessione della grazia e la nomina dei cinque giudici costituzionali - Atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi → rispetto a questi atti il PdR non ha alcun potere decisorio con riferimento al loro contenuto. Pur assumendo la forma di atti presidenziali, le determinazioni sui contenuti sono imputabili esclusivamente al Governo. Il PdR svolge un controllo rispetto alla conformità a Costituzione e può rifiutarsi di procedere all’adozione se li ritiene illegittimi. Fanno parte di questa categoria: l’emanazione di decretilegge, decreti legislativi e regolamenti; l’autorizzazione alla presentazione dei singoli disegni di legge di iniziativa governativa alle Camere; la nomina dei funzionari di Stato; l’accreditamento dei funzionari diplomatici; la ratifica dei trattati internazionali; il conferimento delle onorificenze e gli atti assunti al comando delle Forze Armate. 90 - Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi → il contenuto sostanziale di questi atti nasce dall’incontro delle volontà del Governo e del Presidente. Di questa categoria fa parte la nomina del Presidente del Consiglio che non può avvenire qualora lo stesso non voglia. - Atti dovuti → atti in merito ai quali non è riscontrabile alcuna discrezionalità né rispetto all’adozione, né rispetto ai contenuti. È la stessa Costituzione a imporne l’esecuzione e sono: la promulgazione in caso di riapprovazione della legge; lo scioglimento delle Camere al termine della legislatura e l’indizione delle elezioni delle nuove Camere. - Atti di incerta classificazione → la riconducibilità di alcuni atti all’una o all’altra categoria è molto dibattuta e oggetto di dibattito dottrinale. Ad esempio, in merito al provvedimento di scioglimento anticipato delle Camere, la dottrina oscilla tra coloro che lo ritengono un atto presidenziale in senso stretto e coloro che, invece, ritengono comunque indispensabile una condivisione della decisione col Governo. Un altro dibattito riguarda la nomina dei ministri, funzione che può presentare dubbi in merito alle obiezioni che il PdR può muovere alle proposte di colui che ha incaricato di formare il Governo. Lo stesso problema riguarda lo scioglimento dei consigli regionali. Infine, anche gli atti assunti come Presidente di organi collegiali (CSM e Consiglio Supremo di Difesa) non sono di facile ascrizione perché dipendono più che altro dal collegio di cui il Presidente è parte. 11. CONTROFIRMA MINISTERIALE L’articolo 89 Cost. stabilisce che “nessun atto del PdR è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei ministri”. Questa norma indica che gli atti presidenziali non possono essere assunti se non c’è un controllo da parte dell’Esecutivo. Di qui, la necessità che, ai fini della loro validità, tutti gli atti siano accompagnati dalla firma di un componente del Governo. Nella norma viene individuata la figura dei ministri proponenti e questo consente di affermare che non tutti gli atti siano sostanzialmente decisi dal PdR. Da ciò si deduce che la controfirma rende irresponsabile il Presidente della Repubblica. Questo è infatti chiarito nell’articolo 90 Cost. che stabilisce che “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. La responsabilità si sposta quindi in capo al ministro controfirmante. Le origini di questa regola possono essere rinvenute nell’Inghilterra del Medioevo in cui vigeva la convinzione che “the King can do not wrong”. La responsabilità, di fronte alle assemblee parlamentari, veniva così attribuita ad uno dei ministri del Re che firmava l’atto sulla base del secondo principio per cui “the King cannot act alone”. Nei secoli la posizione del ministro controfirmante si è trasformata: non più mera ombra del Re, ma soggetto che effettua proposte vincolanti al Capo dello Stato a nome di un Governo sostenuto dal Parlamento. Si pone, però, una questione che riguarda il valore della controfirma negli atti presidenziali in senso stretto. Su questo ha fatto luce la Corte costituzionale con sentenza n.200 del 2006 che ha chiarito che la controfirma non ha sempre il medesimo valore e svolge invece funzioni diverse a seconda del tipo di atto di cui la controfirma rappresenta il requisito di validità. La controfirma riveste carattere sostanziale quanto l’atto sottoposto alla firma del Capo dello Stato è di tipo governativo. Viceversa, la controfirma ministeriale ha valore soltanto formale, quindi ha la mera funzione di rendere valido l’atto, quando l’atto sia espressione di poteri propri del Presidente della Repubblica. La firma si limita, dunque, ad attestare la legittimità formale e la provenienza presidenziale dell’atto. Inoltre, non essendoci un ministro proponente, il ministro che procede alla controfirma è quello competente. Di 91 nuovo, per quanto riguarda gli atti complessi la controfirma è espressione dell’accordo delle volontà dei due organi. La controfirma in questi casi viene apposta dal Presidente del Consiglio. Ma infine, non tutti gli atti necessitano di controfirma. Ne sono esenti: le dimissioni; gli atti compiuti dal Presidente in qualità di componente di organi collegiali, fatta eccezione per gli atti del CSM che attengono allo status giuridico dei magistrati; i messaggi orali e i Regolamenti presidenziali che attengono all’organizzazione della Presidenza della Repubblica. 12. RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA La disciplina costituzionale è finalizzata a consentire al Capo dello Stato di svolgere le sue funzioni in autonomia e con la più ampia libertà. Esistono, però, dei casi in cui si potrebbe determinare la responsabilità giuridica all’esito di una procedura processuale particolare. L’articolo 90 Cost. evoca l’alto tradimento o l’attentato alla Costituzione quali tassative cause di responsabilità per il PdR. Si ritiene che tali situazioni si verifichino qualora il Presidente ponga in essere comportamenti diretti a sovvertire le istituzioni costituzionali o a violare deliberatamente la Costituzione con l’obiettivo di mettere a repentaglio i caratteri essenziali del nostro ordinamento. In questi casi, il Presidente è sottoposto ad un giudizio d’accusa che consta di due fasi: - La prima fase è politica: si tratta della messa in stato d’accusa da parte del Parlamento in seduta comune con voto a maggioranza assoluta. Tutto ciò è preceduto da un’istruttoria svolta dal Comitato costituito dai membri delle Giunte per le immunità di Camera e Senato. Questo comitato può disporre di intercettazioni, perquisizioni personali e domiciliari e anche misure cautelari. Al termine dell’istruttoria, il comitato può procedere all’archiviazione se ritiene infondata l’accusa o dichiarare la propria incompetenza qualora il reato non rientri nel novero di quelli previsti dall’articolo 90 Cost. In alternativa può presentare una relazione sulla messa in stato d’accusa contenente le conclusioni cui è giunto il comitato. In questo caso, il Parlamento in seduta comune procede alla votazione. - La seconda fase è giurisdizionale: si svolge di fronte alla Corte costituzionale, solo se il Parlamento ha approvato lo stato d’accusa. Per quanto concerne reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, il Capo dello Stato è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ma la Corte costituzionale nella sentenza n.1 del 2013 ha chiarito che non è ammissibile l’utilizzo di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali le intercettazioni. Tali strumenti coinvolgerebbero in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali. La ricerca di reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi, tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta dal Presidente. CAP. 7 - MAGISTRATURA SEZ. I - POTERE GIURISDIZIONALE 1. GIURISDIZIONE E I SUOI COROLLARI Nell’articolo 101 Cost. è affermato che la giustizia è amministrata in nome del popolo dai magistrati che sono soggetti soltanto alla legge. Ciò non significa che tra i magistrati e il popolo ci sia una forma di rappresentanza. Piuttosto, il magistrato è indirettamente subordinato alla volontà popolare per come sostanziata dalle leggi del Parlamento. Prima della Costituzione i magistrati dipendevano dall’esecutivo, ma la Costituzione ha 92 stesso tempo ammisero la sopravvivenza, per circoscritti ambiti di competenza di alcuni giudici speciali con la precisazione che ne si pretese l’adeguamento al canone dell’indipendenza che è un principio fondamentale. I giudici speciali ammessi dalla Costituzione sono: - Il Consiglio di Stato → insieme ai Tribunali amministrativi regionali, esso si occupa, quale organo di secondo grado, della maggior parte delle controversie tra privati e pubblica amministrazione. Il diritto di difesa si esplica anche nel potere del cittadino di reagire in sede giurisdizionale ad un atto illegittimo dell’autorità pubblica. Se ad essere leso è un diritto soggettivo del cittadino, questi si dovrà rivolgere ad un giudice ordinario; se ad essere leso è, invece, un interesse legittimo questi dovrà rivolgersi al giudice amministrativo. - La Corte dei conti → si tratta di un organo al quale la Costituzione conferisce sia funzioni consultive e di controllo sia funzioni giurisdizionali. In veste di giudice, la Corte dei conti è chiamata ad occuparsi di “contabilità pubblica”; ovverosia delle responsabilità patrimoniali dei funzionari pubblici che abbiano causato danno allo Stato. Ma ad essa è devoluta dalla legge anche la cognizione delle controversie in materia di pensioni. I giudici di responsabilità hanno un carattere inquisitorio e vengono promossi dai Procuratori regionali e dal Procuratore generale della Corte dei conti. I giudizi in materia di pensioni vengono promossi dalle parti interessate. La Corte dei conti opera in uffici dislocati a livello regionale e in una sede centrale. Contro le sentenze emesse dalle sezioni giurisdizionali regionali può essere preposto ricorso alle Sezioni giurisdizionali centrali. - I Tribunali Militari → essi possono operare in tempo di guerra e in tempo di pace. In quest’ultimo caso, essi hanno una giurisdizione limitata ai reati militari commessi dagli appartenenti alle forze armate. Il Codice penale militare di pace nel corso del tempo si è ammorbidito e le fattispecie di reato militare si sono avvicinate a quelle comuni. Oltre ai giudici speciali indicati nell’articolo 103 Cost. sono ammesse nel nostro ordinamento anche altre autorità preesistenti alla Costituzione. La VI Disposizione transitoria e finale riferendosi a tali giurisdizioni speciali, ne aveva imposto infatti la revisione entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione stessa. Scaduto il termine, con l’obiettivo di non lasciare sguarniti di un’autorità specializzata settori di particolare tecnicità, si preferì garantire la sopravvivenza attraverso una generosa lettura del vincolo previsto nella disposizione costituzionale. Si scelse di ritenere il vincolo ordinatorio e non perentorio. La Corte costituzionale procedette quindi a decretare la cessazione dei soli giudici speciali preesistenti privi dei requisiti di indipendenza e di contro a salvare quelli oggetto di adeguamento (così per le Commissioni tributarie e per i Tribunali delle acque pubbliche). Da non confondere con i giudici speciali sono le sezioni specializzate istituite presso la magistratura ordinaria e competenti ad occuparsi di determinate materie. Si tratta di organi che possono vedere la propria composizione integrata da soggetti esterni il cui compito è di portare all’interno del collegio competenze specifiche che i membri togati non saprebbero autonomamente coprire. Il criterio determinante sulla base del quale distinguere le sezioni specializzate dai giudici speciali è la riconducibilità solamente delle prime all’ambito di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Infine, dalle sezioni specializzate vanno tenute distinte le sezioni in cui si articolano gli uffici giudiziari. SEZ. II - AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA E CSM 4. CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA 95 L’articolo 104 Cost. qualifica la Magistratura come un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato. Il rapporto tra i concetti di autonomia e indipendenza è un rapporto di strumentalità. I magistrati svolgono in maniera indipendente la propria funzione non solo perché messi al riparo da possibili ingerenze direttamente incidenti sul processo, ma anche perché indipendenti da un punto di vista istituzionale, nei propri percorsi di carriera. L’ordine giudiziario nel suo complesso è stato reso autonomo in virtù dell’istituzione di un organo incaricato di assumere, senza interferenze esterne decisioni relative all’organizzazione della magistratura e alla carriera dei magistrati. Spetta al CSM il compito di adottare provvedimenti incidenti sullo status di magistrato. Si tratta di provvedimenti che potrebbero astrattamente condizionare i comportamenti del magistrato. La scelta del soggetto cui spetta assumerli può influenzare le modalità attraverso le quali viene svolta nelle aule la funzione giurisdizionale. Se tale scelta ricadesse, com’era prima dell’entrata in vigore della Costituzione, su un organo come il Ministro della Giustizia, ne deriverebbe all’evidenza il condizionamento politico del magistrato che tutto sarebbe fuorchè indipendente. Ecco perché si è preferito attribuire queste funzioni ad un organo ad hoc composto secondo criteri che ne assicurano lo stretto legame con la Magistratura e l’estraneità agli interessi di parte rappresentati negli organi di indirizzo politico: il CSM. Quest’ultimo viene classificato come organo di autogoverno della Magistratura. Quest’affermazione, però, trae in inganno perché non si tratta di un organo che dall’interno è chiamato a determinare le regole di organizzazione in modo del tutto svincolato dagli altri poteri statali. In realtà, sia la sua articolata composizione, sia le sue modalità di funzionamento delineano un organo deputato, in funzione di garanzia dell’indipendenza dei magistrati, a gestire autonomamente l’organizzazione dell’ordine giudiziario, ma non a determinare le regole della gestione stessa. Le modalità di composizione del CSM rispondono all’esigenza di realizzare un equilibrio tra plurime necessità. I Costituenti hanno rigettato la prospettiva di conferire unicamente a magistrati il potere di decidere di magistrati e hanno allargato il collegio a componenti esterne alla Magistratura. Infatti, il CSM si compone di 3 membri di diritto e di una parte elettiva “mista”. - I membri di diritto sono → il Presidente della Repubblica, che presiede l’organo, il primo presidente della Corte di cassazione, il procuratore generale presso la Corte di cassazione. - I membri elettivi sono → per due terzi, magistrati eletti da magistrati e vengono definiti membri togati e, per un terzo, soggetti estranei alla Magistratura eletti dal Parlamento in seduta comune che vengono definiti membri laici. I membri togati sono 16, mentre i laici 8. Di cui 10 magistrati che svolgono funzione giudicante, 4 requirente, 2 che svolgono funzioni di legittimità presso la Cassazione. In questo modo si trovano rappresentate tutte le categorie di magistrati. Per quanto riguarda gli 8 membri laici, si deve trattare di professori ordinari di Università in materie giuridiche o di avvocati che abbiano alle spalle almeno 15 anni di esercizio. L’elezione avviene a scrutinio segreto a maggioranza dei tre quinti dei componenti per i primi due scrutini e dalla terza tornata di voto a maggioranza dei tre quinti dei votanti. Si tratta di maggioranze ampie che vedono la necessaria partecipazione alla scelta delle minoranze politiche. Quindi da un lato con i membri togati si è voluto caratterizzare la composizione del CSM in ragione delle funzioni, dall’altra si è cercato di evitare di costruire un organo completamente autoreferenziale e totalmente distaccato dagli altri poteri dello Stato. Un problema diverso del quale si sta discutendo negli ultimi tempi è quello della vistosa sottorappresentanza femminile all’interno del CSM. Per ovviare a questo durante la XVII 96 legislatura è stato presentato in Parlamento un progetto di legge che introdurrebbe norme volte a promuovere l’elezione di entrambi i sessi. Ma in ogni caso, la volontà di posizionare al vertice del CSM il Capo dello Stato risponde alla volontà di non sganciare del tutto il CSM dalle altre componenti della Repubblica. In realtà il PdR non è nella materiale possibilità di svolgere a pieno il ruolo di Presidente del CSM, nel senso della gestione organizzativa di tutte le sedute e dei suoi lavori. Queste attività sono affidate al Vicepresidente la cui carica è affidata ad uno dei membri laici che compongono l’organo. Detto questo, però, il Capo dello Stato non riveste una funzione simbolica. La sua è una funzione di garanzia che si è rivelata anche molto importante: sia perché ha concorso a proteggere l’autonomia dell’organo da attacchi esterni, sia perché ha in alcune occasioni richiamato il CSM e i componenti dell’ordine a mantenersi entro i confini delle proprie competenze. I membri del CSM rimangono in carica per 4 anni e non sono rieleggibili. Inoltre, durante questo periodo, perché si dedichino interamente alla funzione non possono essere iscritti agli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale. Inoltre, anche per i componenti del CSM è stata prevista la garanzia dell’insindacabilità. In questo caso, tuttavia, si tratta di una prerogativa non esplicitamente stabilita in Costituzione, ma successivamente introdotta dal legislatore ordinario che la Corte costituzionale ha giudicato coerente. Ai sensi dell’articolo 105 Cost. competono all’organo le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. L’articolo successivo assegna al CSM anche il compito di designare all’ufficio di consiglieri della Corte di cassazione alcune categorie di soggetti non appartenenti all’ordine giudiziario. Infine, l’articolo 107 Cost. riserva in esclusiva all’organo il potere di dispensare, sospendere o destinare ad altre sedi o funzioni i magistrati, nel rispetto di talune garanzia o con il loro consenso. Si tratta di provvedimenti che ricadono sul rapporto di lavoro del magistrato con l’obiettivo si sottrarli alla sfera di influenza del potere esecutivo. Però, la Costituzione nel conferire al CSM queste competenze, non ha inteso riconoscergli un potere senza limiti. Infatti, è stato stabilito che l’organo esercita le sue competenze secondo le norme dell’ordinamento giudiziario stabilite con legge. In materia di ordinamento giudiziario insiste, quindi, una riserva di legge che viene ribadita in altre disposizioni riguardanti i poteri del CSM. Da una parte come ogni riserva di legge è funzionale a contenere il potere normativo del Governo in una materia che si vuole affidare alla decisione del Parlamento. Dall’altra parte, però, questa riserva serve anche a ridurre la totale discrezionalità dell’organo deputato a garantire quell’autonomia. Si è in questo modo voluto evitare il rischio opposto, cioè che un’eccessiva libertà del CSM nella gestione delle competenze riservategli potesse produrre derive di stampo corporativo incontrollabili. Nel 2005 il Parlamento è intervenuto con una riforma organica che ha riguardato le modalità di accesso alla magistratura, le modalità di valutazione dei magistrati per la loro progressione in carriera, l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e il sistema disciplinare. Questo impianto di regole è stato introdotto con una serie di decreti legislativi attuativi della delega. Va precisato che le delibere del CSM prendono normalmente la forma del decreto del Presidente della Repubblica. In questo modo, le decisioni del CSM assumono la natura di atti amministrativi, suscettibili di un controllo giurisdizionale. Coloro che vogliano impugnare un atto possono farlo davanti al Tar del Lazione, in secondo grado, davanti al Consiglio di Stato. A meno che non si tratti di provvedimenti disciplinari contro i quali è prevista la possibilità di ricorso davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Ci si è chiesti se il regime di impugnabilità degli atti del CSM possa pregiudicarne l’autonomia, ma la Corte costituzionale ha precisato che in tal modo si condurrebbe a 97