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Guide e consigli
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dispensa diritto costituzionale, Dispense di Diritto Costituzionale

dispensa completa del manuale 'lezioni di diritto costituzionale' - d'amico, arconzo e leone con integrazione degli appunti del prof. angiolini

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 21/11/2020

annalisa-bergo
annalisa-bergo 🇮🇹

4.6

(21)

38 documenti

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Scarica dispensa diritto costituzionale e più Dispense in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity!                             diritto costituzionale  riassunto del manuale ‘lezioni di diritto costituziona’ - d’amico, arconzo, leone  professore angiolini                                                              1 CAP. 1 - LO STATO COSTITUZIONALE  SEZ. I - INTRODUZIONE  1. LO STATO  Lo Stato è la principale organizzazione della vita collettiva in quanto fornisce i principali  servizi pubblici e produce le norme giuridiche che regolano la vita delle persone. Il diritto  costituzionale si occupa dello studio delle norme dettate dallo Stato, dei diritti e dei  doveri degli individui che lo compongono, dell’organizzazione dell’apparato statale e  delle modalità stesse di produzione del diritto. Lo Stato è l’unica organizzazione ad  appartenenza necessaria, di cui cioè ogni individuo fa necessariamente parte. Un’altra  caratteristica dello Stato è la sua natura autoritaria, infatti l’individuo si trova in una  posizione subordinata rispetto allo Stato e non può prescindere dal rispettarne le  regole. L’osservanza delle regole non è mai affidata al comportamento spontaneo dei  cittadini: lo Stato, infatti, assume su di sé il monopolio dell’uso della forza e fa rispettare  le regole attraverso apparati indipendenti. Lo Stato, inoltre, si fa garante di altri  ordinamenti e presta la propria forza per far rispettare l’osservanza di patti e dei  rapporti che intercorrono tra i privati. Lo Stato da questo punto di vista esercita una  forza, presta la propria forza e vieta che altri usino la propria forza contro la collettività.     La concezione di Stato moderno nasce assieme al concetto fondamentale di sovranità.  La sovranità ha una rilevanza sia interna che esterna. La prima consiste nel fatto che lo  Stato esclude che, senza il suo consenso, si manifestino altri poteri capaci di imporsi con  l’uso della forza sui cittadini. L’articolo 1 della Costituzione stabilisce che la sovranità  appartiene al popolo che la esercita nei limiti previsti dalla Costituzione stessa. La  sovranità esterna, invece, fa sì che lo Stato si possa considerare l’entità superiore che è  autonoma e indipendente e può entrare in contatto con altre entità autonome e  indipendenti a loro volta. Questo concetto, però, è stato molto modificato nel corso degli  scorsi decenni. Infatti, si sono costituite molte entità sovranazionali che hanno portato i  singoli Stati a rinunciare a parte della loro sovranità. Un esempio è l’Unione Europea che  ha portato gli Stati a rinunciare alla loro sovranità monetaria per introdurre una moneta  unica. Lo Stato italiano ha dovuto procedere ha dovuto procedere a effettuare  modificazioni con conseguenti e progressive cessioni di sovranità. Questo è reso  possibile in virtù dell’articolo 11 che stabilisce che in condizioni di parità con gli altri Stati  sono concesse le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la  pace e la giustizia fra le Nazioni.     2. DAL PRIMATO DELLA LEGGE AL PRIMATO DELLA COSTITUZIONE  Per tutto l’800 e fino alla Grande Guerra in Europa è esistito un modello di Stato  chiamato liberale fondato sul primato della legge che ha visto l’affermarsi di Parlamenti  volti a limitare il potere del sovrano. Quindi, la novità introdotta dallo Stato liberale  consiste nell’introduzione di un parlamento eletto dei cittadini dapprima a suffragio  censitario e poi man mano allargato a un numero via via maggiore di cittadini. La legge  era concepita come la più alta espressione della libertà e dal momento che nasceva col  presupposto di limitare l’autorità del sovrano, essa non aveva limiti. La legge, quindi,  secondo questa visione, concedeva della libertà e i giudici ne garantivano l’applicazione.  Il primato della legge si traduceva nell’importanza riconosciuta ai codici che erano visti  come strumenti volti a sistematizzare l’ordinamento giuridico. In questa concezione di  Stato, la Costituzione era al pari della legge e non aveva alcun potere sovraordinato. Si  può parlare perciò di Costituzioni flessibili. Nell’800 veniva perseguito il principio di  eguaglianza formale di tutti i cittadini e questo si traduceva nell’introduzione di leggi il  più possibile generali ed astratte. La generalità comporta l’eguale applicazione della  legge nei confronti di tutti i cittadini, mentre l’astrattezza prevede che la norma non si  2 “personale” e cioè il diritto a non subire un arresto arbitrario, il cosiddetto habeas  corpus. Nel 1689, poi, vengono riconosciuti i diritti del Parlamento e per la prima volta si  separano i poteri di quest’ultimo da quelli del re. Mentre, in Francia e in America, con i  principi sanciti dalle rivoluzioni liberali che hanno portato alla stesura della  Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e del Bill of Rights, si può affermare che  nasce il modello di Stato liberale che caratterizza l’esperienza degli stati europei dell’800.  Con il modello liberale si introduce per la prima volta lo status di cittadino e non più di  suddito. A tutti i cittadini vengono riconosciuti i diritti naturali e innati che l’istituzione  politica non può negare, ma anzi si deve impegnare a salvaguardare. Questi tre diritti  fondamentali sono: la libertà personale, il diritto di proprietà e alla sicurezza. L’altro  cambiamento fondamentale riguarda la concezione del potere che non è più di origine  divina ma trova legittimazione nel popolo che esercita tale potere mediante il diritto di  voto. Un’altra caratteristica riguarda la divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e  giudiziale. Secondo questa visione, teorizzata da Montesquieu, ogni potere aveva il  compito di limitare l’altro. Il potere legislativo, però, nello stato liberale non conosceva  limiti, ma questo verrà superato nella concezione dello stato moderno, cioè quello  costituzionale.   Lo Stato liberale, però, pur cominciando a garantire dei diritti a tutti i cittadini,  perseguiva soltanto il principio di uguaglianza in senso formale: a tutti i cittadini  venivano garantiti gli stessi diritti indipendentemente dalle loro condizioni e senza  occuparsi dell’effettivo godimento di questi diritti. Le libertà concesse ai cittadini, infatti,  sono libertà da e non libertà di, in questo senso si parla di libertà intese in senso  “negativo” perché si realizzano con l’astensione da parte dello Stato nella vita dei  cittadini. Lo Stato liberale nasce anche come stato di diritto: in esso cioè i poteri supremi  sono sottoposti al diritto ed a un controllo giuridico. Il principio di legalità secondo cui la  legge è fonte di obblighi sia per i cittadini che per lo Stato nasce nello Stato liberale.   La crisi dello Stato liberale, che porta alla costituzione dello Stato sociale, comincia  quando si cominciano a notare delle discrepanze tra uguaglianza formale e sostanziale.  Il Parlamento dello Stato liberale, infatti, era espressione di pochi cittadini, i quali  godevano del diritto di voto in base al reddito e al ceto sociale. Le leggi risultavano  essere coerenti ma l’uguaglianza riservata ai pochi non durò a lungo. Inoltre, erano  escluse dal diritto di voto tutte le donne a cui verrà riconosciuto il diritto di voto solo nel  ‘900.     7. FORME DI STATO: LO STATO SOCIALE  Nella seconda metà dell’800 comincia a delinearsi il formarsi di una nuova classe sociale:  il proletariato. Questa classe sociale si organizza in partiti e sindacati che rivendicano  un’eguaglianza in senso sostanziale. In primis, riuscì ad ottenere l’ampliamento del  suffragio. In Italia tutti gli uomini poterono votare a seguito della riforma Giolitti del 1912.  Con l’ampliamento del suffragio cominciò anche una forte spinta per la tutela di diritti  diversi e ulteriori rispetto ai diritti tipici dello Stato liberale. Questi nuovi diritti  necessitano dell’intervento dello Stato, il quale diventa un soggetto attivo nei processi  economici e politici. Il nuovo stato, infatti, utilizza la spesa pubblica per creare nuove  condizioni di benessere: provvede a distribuire la ricchezza, istituisce la previdenza e  assistenza sociale, il diritto all’istruzione, la sanità pubblica ecc. Il ruolo dello stato  diviene, quindi, dinamico e va a completare l’esperienza liberale ponendo, non solo la  proclamazione astratta dei diritti, ma anche la loro concreta attuazione. La vera  rivoluzione riguarda la trasformazione del principio di eguaglianza che viene sancito  all’articolo 3 della Costituzione. Essa stabilisce, infatti, che tutti i cittadini sono uguali  senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione ecc. ma al contempo sancisce che lo  stato ha il compito di rimuovere le condizioni di fatto che, limitando di fatto la libertà e  5 l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e  l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e  sociale del Paese. Quindi, accanto al principio di uguaglianza formale si trova affermato  anche il principio di uguaglianza in senso sostanziale.   Nello Stato Sociale si trasforma anche la legge che diviene frutto di compromessi di tutte  le classi sociali dello Stato. In un certo senso perde, quindi, di generalità e astrattezza  perché vengono introdotte delle leggi speciali che si riferiscono solo ad alcune categorie  di persone e le leggi provvedimento che sono volte a provvedere direttamente ed  esaurirsi con una o poche applicazioni circoscritte al caso concreto. Anche lo Stato  Sociale sta, però, vivendo un momento di crisi dovuto al costo che ha garantire i diritti  sociali nei confronti di tutti. In rari casi, infatti, la spesa per le prestazioni concernenti i  diritti e il prelievo statale a livello fiscale corrispondono.   Non in tutti i casi, però, la degenerazione del modello liberale ha portato allo Stato  Sociale, infatti, in molti casi si è arrivati all’opposto del modello liberale in cui le libertà  del singolo venivano assoggettate al volere statale. Si tratta delle esperienze dei regimi  totalitari in cui si perde il pluralismo partitico in favore di un unico partito e in cui i  cittadini perdono di fatto le loro libertà.     8. FORME DI STATO NELLA DIVISIONE TERRITORIALE DEL POTERE  Esistono tre principali forme di Stato in base alla distribuzione del potere nel territorio:  lo Stato centrale, lo stato regionale e lo stato federale. Generalmente la suddivisione del  potere sul territorio non è correlata al rapporto tra governati e governanti (divisione  orizzontale). Lo Stato Centrale è connotato dall’assenza di una qualsivoglia articolazione  del potere nel territorio, è privo di istituzioni territoriali rappresentative delle comunità  locali. L’apparato amministrativo può dislocarsi nelle diverse aree geografiche, però, si  tratta di un decentramento meramente burocratico e non politico.   Allo Stato Centrale vi si contrappone lo Stato Federale in cui il decentramento politico è  massimo. Perché uno Stato possa dirsi federale, in esso devono affiancarsi uno Stato  centrale ed altre entità territoriali, denominate Stati membri che rappresentano  politicamente le comunità locali. Lo Stato federale può nascere secondo un processo  aggregativo (Stati Uniti) o disgregativo (Germania). Gli Stati membri devono essere  autonomi, ma non sovrani, tanto è vero che lo Stato federale è dotato di una  Costituzione posta al vertice dell’ordinamento giuridico, oltre che delle Costituzioni degli  Stati membri che sono subordinate alla Costituzione Federale. Un’altra costante dello  Stato federale è il bicameralismo parlamentare: una camera è rappresentativa dei  cittadini di tutto il territorio e una seconda camera costituisce emanazione degli Stati  membri in cui vengono rappresentati i singoli stati. Il decentramento politico dello Stato  è assicurato nella Costituzione della Federazione la quale è modificabile solo con il  consenso dei singoli Stati. È, inoltre, presente una Corte costituzionale il cui compito è  quello di far rispettare il testo costituzionale nel caso di conflitti fra Stato Federale e  Stati membri.    Infine, lo Stato regionale può essere definito come uno stato unitario in cui operano enti  territoriali intermedi dotati di autonomia politica. Un esempio di Stato regionale è  proprio lo Stato italiano. Si è di fronte a uno Stato regionale se l’ente regionale è previsto  dalla Costituzione e condivide la potestà legislativa con lo Stato Centrale. Ma allo stesso  tempo non partecipano al processo di revisione costituzionale e non sono dotate di una  Costituzione propria ma solo di uno Statuto. Non sono nemmeno rappresentate in  Parlamento che rimane espressione della volontà popolare. Negli ultimi anni le differenze  tra Stato Federale e Regionale si stanno via via assottigliando e sarebbe preferibile  limitarsi a distinguere tra Stato accentrato e Stato articolato in cui è previsto un  decentramento politico in misura variabile.   6   9. FORME DI GOVERNO: ASPETTI GENERALI  Per forma di governo si intende il modo in cui il potere è distribuito e organizzato fra i  diversi organi statali: la forma di governo è quindi il mezzo con cui lo Stato si prefigge di  raggiungere determinati fini. La principale distinzione si ha tra monarchia e repubblica:  da un lato la monarchia prevede che ci sia un capo dello Stato non rappresentativo né  elettivo, la carica dura tutta la vita e il governo è autocratico. Dall’altro la repubblica  prevede un capo dello Stato elettivo e rappresentativo (direttamente o indirettamente  con un’elezione di secondo grado come in Italia); la carica ha durata limitata. Il  Presidente della Repubblica opera, di solito, in uno Stato democratico, dove la fonte di  legittimazione del potere risiede nel popolo. Questa contrapposizione non vale sempre,  infatti, esistono monarchie elettive o repubbliche autoritarie.   Un’altra distinzione riguarda le forme di governo pure e miste. Nelle forme pure si  identificano regimi nei quali un solo organo dello Stato detiene il monopolio del potere  politico. Nelle forme miste, molte delle quali presenti ancora oggi, il potere è ripartito in  più organi costituzionali.     10. MONARCHIA COSTITUZIONALE  È la prima forma di governo che nasce come espressione dello Stato liberale. Il potere è  ripartito tra due organi: il Re e il Parlamento. Spesso questa ripartizione trova il suo  fondamento in una Carta costituzionale concessa dal Re che ha lo stesso valore di una  legge ordinaria e può essere modificata dal legislatore. Il Re ha il potere esecutivo e  giudiziario, mentre le Camere hanno il potere legislativo. Re e Parlamento si fronteggiano  senza un Governo: i ministri sono nominati dal Re che può anche revocarli perché non  esiste un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Il Monarca in questa fase ha  ancora molto potere su di sé perché può decidere di sciogliere le Camere elette dal  popolo. Successivamente, però, si arriva gradualmente all’emersione di un Governo più  indipendente dal monarca, le cui sorti dipendono dal gradimento del Parlamento.  Quindi, si può affermare che nel corso dell’800 la monarchia costituzionale si è evoluta  nella forma di governo parlamentare. Così avviene in Inghilterra e anche in Italia durante  il governo di Cavour.     11. FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE  La caratteristica principale di questa forma di governo è il rapporto di fiducia tra  Governo e Parlamento che insieme sono detentori dell’indirizzo politico del Paese.  Questa forma di governo può trovare sfogo sia in un contesto repubblicano che in un  contesto monarchico: nel primo caso il Presidente della Repubblica e nel secondo il Re  assumono un ruolo esterno ai poteri statali e di garanzia dell’equilibrio fra i poteri e in  posizione di neutralità. Essi non partecipano all’indirizzo politico ma sono necessari in  particolari momenti soprattutto durante le crisi istituzionali. Le attuali forme di governo  parlamentari sono molto diverse tra loro: la loro conformazione dipende in larga misura  dall’assetto dei partiti politici, il quale, a sua volta è condizionato dai sistemi elettorali. Il  sistema maggioritario tende a semplificare riducendo il numero dei partiti rappresentati.  In alcuni casi si giunge a casi di bipartitismo come nel caso dell’Inghilterra: questo  comporta la possibilità di alternanza fra le forze politiche al Governo e determina un  effetto indiretto del voto dei cittadini sul Governo. Il sistema proporzionale prevede una  maggiore presenza di partiti in Parlamento e quindi una migliore rappresentazione della  volontà popolare. Il modello tedesco è di tipo proporzionale e prevede una clausola di  sbarramento per cui i partiti che ottengono meno del 5% non vengano rappresentati. In  questo caso si parla di multipartitismo temperato. Il numero di partiti, infatti, non ha mai  7 de Gasperi, assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, mentre Re Umberto II  lasciò l’Italia.    16. ASSEMBLEA COSTITUENTE E APPROVAZIONE DELLA COSTITUZIONE  REPUBBLICANA  L’Assemblea era costituita da: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito  Comunista, Unione democratica nazionale, Uomo Qualunque, Partito Repubblicano e  Blocco Nazionale delle libertà. I primi adempimenti furono l’elezione del Presidente  Giuseppe Saragat, poi sostituito da Terracini e del Capo Provvisorio dello Stato Enrico  De Nicola, il quale assunse il primo Gennaio del 1948 il titolo di Presidente della  Repubblica. Il 15 Luglio del 1946 venne decisa la nomina di una commissione ad hoc con il  compito di elaborare un Progetto di Costituzione da presentare all’Assemblea. Questa  composta da 75 membri a sua volta divisa in tre sottocommissioni: diritti e doveri dei  cittadini, ordinamento costituzionale dello Stato, rapporti economici e sociali. Il Progetto  venne presentato il 31 Gennaio 1947. Dopo la discussione e la votazione in aula degli  articoli, il Comitato procedette all’ulteriore coordinamento delle disposizioni approvate e  presentò il testo definitivo del progetto all’Assemblea che lo approvò a scrutinio segreto  il 22 dicembre.     SEZ. IV - COSTITUZIONE REPUBBLICANA  17. CARATTERISTICHE DELLA COSTITUZIONE ITALIANA  La Costituzione italiana viene promulgata dal Capo provvisorio di Stato il 27 dicembre  1947 e entra in vigore il primo gennaio dell’anno successivo. La Costituzione italiana, a  differenza dello Statuto Albertino e delle altre costituzioni dell’800, è rigida. Questo  signficia che non può essere modificata da fonti di rango inferiore. Inoltre, la  Costituzione è elastica, in quanto suscettibile di legittimare e orientare indirizzi politici di  diversa natura. Proprio in virtù dell’elasticità consegue la longevità della Costituzione  che si configura come un quadro di riferimento entro cui è consentito lo sviluppo di  differenti realtà sociali e politiche. Il divario tra disposizioni e realtà che l’elasticità  consente di ridurre demanda al legislatore la scelta dell’interpretazione cui dare seguito.  In alcuni casi però il legislatore non interviene e rimangono inattuate alcune disposizioni  del disegno costituzionale. La Costituzione italiana è lunga, non ci sono poche regole  sommarie sullo Stato e sui diritti, ma si sviluppano discipline articolate. La Costituzione,  inoltre, consta di norme ad efficacia diretta, cioè suscettibili di immediata applicazione  (norme precettive) e di norme che per produrre effetti concreti avrebbero avuto bisogno  di più tempo e dell’opera attuativa ed integrativa del legislatore (norme  programmatiche). In questo senso si dice che la Costituzione ha una valenza  programmatica perché non si limita a disciplinare l’organizzazione dello Stato, i rapporti  fra i poteri e coi cittadini, bensì stabilisce indirizzi economici e sociali e dei pubblici  poteri. La Costituzione ha una natura compromissoria tra tutti i partiti politici che  l’hanno redatta perciò al suo interno esistono disposizioni non immediatamente  operative ma non per questo meno vincolanti sul piano giuridico. Ad esempio, i diritti  sociali richiedono per il loro effettivo esercizio interventi da parte dello Stato. Il  legislatore è tenuto ad attuare il “programma” stabilito dalla Costituzione. La distinzione  tra norme precettive e programmatiche non incide sul rilievo e sull’efficacia di queste  ultime. Infatti, proprio con la prima sentenza della Corte costituzionale del 1956, i giudici  hanno stabilito che tutte le disposizioni costituzionali fossero immediatamente  utilizzabili quale parametro di costituzionalità. Inoltre, in alcuni casi i diritti affermati  nella Costituzione hanno trovato applicazione anche in assenza di leggi che regolassero  il diritto. Un esempio è il diritto allo sciopero che pur non avendo leggi che lo regolano  non viene negato ai lavoratori. Quindi, l’efficacia delle norme programmatiche si evince  10 in più direzioni: orientano l’interpretazione delle leggi, forniscono direttive vincolanti al  legislatore e possono fondare la rivendicazione di un diritto.       18. CARDINI DELLA COSTITUZIONE  L’architettura della Costituzione prevede una prima parte di principi fondamentali,  successivamente considera l’individuo, enunciandone i diritti come singolo e poi nelle  formazioni sociali in cui è inserito, infine disciplina i vari poteri dello Stato e la Corte  costituzionale che è l’organo di garanzia dell’intero sistema costituzionale.     La Costituzione è così suddivisa:   - Principi Fondamentali (artt 1- 12)   - Parte I – Diritti e Doveri dei Cittadini (artt. 13 -54) suddivisa in quattro titoli:  Rapporti Civili, Rapporti Etico-Sociali, Rapporti Economici, Rapporti Politici.   - Parte II – Ordinamento della Repubblica (artt. 55 – 139) suddivisa in sei titoli:  Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, Regioni,  Province, Comuni, Garanzie Costituzionali.  - Disposizioni Finali e Transitorie.     I principi fondamentali hanno valore normativo e costituiscono il nucleo intangibile della  Costituzione.   Sono immodificabili, infatti, non possono essere cambiati nemmeno col processo di  revisione costituzionale. Si tratta, inoltre, di linee guida per l’interpretazione del testo  costituzionale.   Il primo principio che viene riconosciuto è quello personalista. L’uomo si trova al centro  dell’impianto costituzionale e gli vengono garantiti diritti inviolabili sia come individuo  sia come parte di formazioni sociali. In questa prospettiva devono essere richiamati i  continui richiami all’inviolabilità e alla dignità della persona che si rinvengono in  numerosi articoli. All’individuo, però, non vengono concessi solo diritti. Il cittadino, infatti,  ha anche dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (principio  solidaristico) che consentono limitazioni alla posizione soggettiva del singolo in ragione  delle esigenze altrui.     19. PRINCIPI FONDAMENTALI  - Principio lavorista  La Costituzione attribuisce forte centralità al principio lavorista.  LAVORO: realizzazione della persona, la quale contribuisce allo sviluppo della società  (art. 4)   Sono infatti presenti disposizioni costituzionali che orientano l’azione legislativa allo  scopo di un’equa distribuzione di ricchezze e di beni (art. 42, 44, 53).  Possono legarsi anche altre disposizioni a tutela della parità di genere, sulla donna  lavoratrice (art. 37), sulle pari opportunità nell’accesso a uffici pubblici e cariche  elettive (art. 51) + art. 117 comma 9 -> ​‘ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli  uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la  parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive’  - Principio pluralista  Principio pluralista: attenzione per le formazioni sociali -> oltre all’individuo, la  presenza di organizzazioni sociali come tutela e mezzo indispensabile per questo  Le organizzazioni sociali sono autonomi nei confronti dei pubblici poteri ma è  ammessa un’intromissione alla vita interna per la tutela dell’individuo e la protezione  di diritti fondamentali.   11 Rispetto del principio di eguaglianza e parità anche fra le formazioni sociali, non  privilegiandone alcune su altre.  Lo Stato può comunque produrre norme su accordi tra queste e i pubblici poteri  (artt. 7,8,39).  - Principio democratico  La struttura dei pubblici poteri è improntata sul principio democratico.  Secondo il principio democratico, gli organi titolari dell’indirizzo politico sono  strumenti della volontà popolare e devono trovare legittimazione diretta o indiretta  nel popolo -> art. 1 ​‘la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei  limiti della Costituzione’.  - Separazione dei poteri  La democraticità del sistema è attuata dalla Costituzione mediante alla costruzione  di un meccanismo di pesi e contrappesi, in funzione di garanzia del singolo nei  confronti del potere stesso.   In aderenza al solo principio democratico sarebbe plausibile l’attribuzione dell’intero  indirizzo politico a unico soggetto, purché eletto dal popolo (democrazia  plebiscitaria).  Principio del governo delle leggi e non degli uomini secondo cui bisogna moderare il  potere (motivo della nascita delle Costituzioni) -> attraverso la separazione dei poteri,  attribuendo a ciascuno una propria sfera di competenza.  - Principio garantistico  Il principio garantistico prevale su quello democratico con riguardo al potere  giudiziario e alla Corte costituzionale, la cui funzione di garanzia del sistema  costituzionale e dei diritti del singolo potrebbe venire compromessa dall’applicazione  radicale del principio democratico.  Giurisdizione = indipendenza dagli altri poteri  - Principio internazionalista  Il principio internazionalista consente l’apertura dell’ordinamento verso valori e fini  esterni, in funzione di garanzia sia dei diritti del cittadino e dello straniero sia del  carattere democratico dello Stato.  Artt. 10, 11 -> questi articoli traducono tale principio, riconoscendo l’apertura  dell’ordinamento verso il diritto internazionale generale sia verso il diritto  internazionale pattizio, che era rappresentato in particolare dal trattato istitutivo  delle Nazioni Unite (tale apertura si è rivelata funzionale all’adesione dell’Italia all’EU.    CAP. 2 - LE FONTI DEL DIRITTO  SEZ. I - LE FONTI   1. LE MODALITÀ DI PRODUZIONE DELLE NORME GIURIDICHE  Le norme giuridiche sono regole vincolanti che disciplinano comportamenti e rapporti  nella società. Nel loro insieme formano l’ordinamento giuridico che è in continuo  mutamento in virtù del costante sviluppo della società. Le norme giuridiche vengono  prodotte dalle cosiddette fonti del diritto che si articola in due filoni: le fonti di  produzione e le fonti sulla produzione del diritto.  Le prime sono quelle che immettono nell’ordinamento le norme. Quindi possono essere  definiti fonti di produzione del diritto tutti quegli atti o fatti cui l’ordinamento riconosce  l’idoneità a produrre e modificare norme giuridiche. Le fonti sulla produzione, invece,  hanno un ruolo strumentale, perché stabiliscono come si produce il diritto. Quindi, si  tratta di fonti che indicano l’autorità, il procedimento e l’atto con il quale le fonti di  produzione possono essere create. Dettano anch’esse regole vincolanti. Da questo  ragionamento consegue che le fonti sulla produzione del diritto prevalgono sempre sulle  fonti di produzione. Quindi, secondo il criterio gerarchico, una fonte di produzione del  12 leggi in senso materiale. Le prime hanno solo forza legislativa, le altre portano  innovazioni giuridiche. Si ritengono rientranti nella prima categoria le leggi di  autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali. Tutte le caratteristiche finora  elencate non sono necessarie, ma meramente tendenziali. Infatti, l’ordinamento non  attribuisce valenza decisiva a elementi sostanziali, ma a criteri di carattere formale.  Quindi, siamo di fronte a una norma giuridica solo se è veicolata da un atto adottato  secondo quanto stabilito dall’ordinamento stesso in un’apposita fonte sulla produzione  o se la norma deriva da un fatto a cui l’ordinamento riconduce l’idoneità a produrre  diritto.  Nella storia, infatti, ci sono sempre state delle eccezioni che si sono accentuate con  l’avvento dello Stato Sociale. Il fenomeno si spiega in ragione del nuovo modo di  intendere lo Stato che è chiamato a garantire l’uguaglianza sostanziale con interventi  mirati che si propongono di livellare le disuguaglianze consentendo anche ai soggetti  svantaggiati di fruire dei diritti. Si tratta di una forma di attenuazione delle qualità di  generalità e astrattezza tipiche delle norme giuridiche da considerarsi legittima. Questa  tendenza può, però, dare luogo a casi problematici di produzione normativa. Infatti,  esistono, le cosiddette leggi-provvedimento che si rivolgono a un determinato numero di  soggetti o disciplinano situazioni che si verificano una tantum. Queste leggi  rappresentano il massimo allontanamento dal modello della legge quale generale ed  astratta. In questi casi è molto più probabile che venga violato il principio di  eguaglianza. Eppure, l’approvazione di leggi provvedimento non è preclusa, infatti  nell’articolo 70 della Costituzione non è richiesto alcun elemento di carattere sostanziale  atto a qualificare una legge. Quindi, la legge può attrarre nella sua sfera di disciplina  contenuti particolari e concreti. Tuttavia, proprio in virtù del rischio di discriminazione  insito nelle leggi-provvedimento, vengono sottoposte dalla Corte costituzionale a uno  stretto scrutinio di costituzionalità. Queste leggi risultano essere conformi se rispettano  il principio di ragionevolezza, cioè abbiano fondate giustificazioni risultanti dagli  obiettivi che le hanno ispirate. Quando, invece, si cerca di aggirare il principio di  eguaglianza e imparzialità vengono dichiarate incostituzionali. Un’ulteriore limitazione di  queste leggi è il rispetto della funzione giurisdizionale. Non è consentito, quindi, risolvere  alcune controversie giudiziarie tramite legge quando la sentenza sia già passata in  giudicato. Questo lederebbe il principio di separazione dei poteri soprattutto a danno  del potere giudiziario. Quindi, se da un lato la pendenza del giudizio non costituisce di  per sé un limite per il legislatore, essa può assumere rilievo ai fini del sindacato di  ragionevolezza, qualora si dimostri che la norma è stata approvata al solo fine di  incidere sull’esito del giudizio.    5. VALIDITÀ, FORZA ED EFFICACIA DELLE NORME GIURIDICHE  La validità di un atto è la caratteristica propria di un atto privo di vizi, in quanto posto in  conformità alle norme giuridiche ad esso sovraordinate. Il vizio può essere formale se  riguarda il procedimento di adozione stabilito dalla relativa fonte sulla produzione. Il  vizio, invece, è sostanziale se la norma è in contrasto con il contenuto precettivo di  disposizioni di rango superiore.   L’efficacia di un atto, invece, si rinviene nella sua capacità di produrre effetti giuridici.  Una norma, quindi, può essere valida ma non efficace. Questo avviene ad esempio nel  periodo di vacatio legis. L’efficacia delle norme può subire parziali limitazioni, come  avviene nel caso dell’abrogazione, che incide ma non annulla totalmente gli effetti di una  norma giuridica.   Il concetto di forza riguarda l’intensità degli effetti giuridici prodotti. La forza dipende  dal livello gerarchico su cui la norma è posta e che si esprime in rapporto alle altre fonti  del diritto. È, infatti, detta forza attiva l’idoneità della fonte di abrogare, modificare o  15 derogare altre fonti del diritto. È detta, invece, forza passiva, la capacità della stessa di  resistere all’abrogazione, alla modifica e alla deroga da parte di altre.     SEZ. III - L’INTERPRETAZIONE  6. LA DISTINZIONE TRA DISPOSIZIONE E NORMA  Il passaggio dalla fonte alla norma non è diretto; a mediarne il rapporto vi è la  disposizione. Quest’ultima è l’enunciato linguistico scritto, adottato dall’organo che  manifesta la volontà normativa. La norma, invece, è il significato che dalla disposizione si  ricava, quindi, è la vera e propria regola giuridica da applicare. L’attribuzione del  significato corretto è l’attività di interpretazione. Infatti, da ogni formula linguistica è  possibile astrattamente ricavare significati diversi e, dunque, norme diverse. Gli  operatori devono, quindi, adottare degli strumenti, detti criteri interpretativi volti ad  applicare la disposizione al caso concreto. Il compito di interpretare la disposizione  assume particolare rilievo quando a provvedervi sono i giudici che, nel caso di  controversie, sono chiamati dall’ordinamento a stabilire la norma da applicare al caso  concreto. In ogni caso, le interpretazioni dei giudici non possono mai essere considerate  come produttive di diritto, come, invece, avviene nei paesi di Common Law. Ciascun  giudice, può, quindi discostarsi dai precedenti e di proporre della stessa disposizione  una diversa lettura. Va, però, segnalato che c’è una tendenza dei giudici a uniformarsi  agli indirizzi interpretativi prevalenti e soprattutto la particolare influenza esercitata dal  precedente giudiziario espresso dalla Corte di Cassazione che è chiamata ad assicurare  l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.     7. I CRITERI ERMENEUTICI   L’articolo 12 delle Preleggi elenca una serie di criteri che gli interpreti devono usare  nell’applicazione del diritto: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro  senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la  connessione di esse e dall’intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere  decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi  simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi  generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Tra i vari criteri applicabili non esiste  una vera e propria gerarchia. L’analisi della pratica interpretativa dimostra infatti che, a  seconda dei casi, i giudici ricorrono all’uno o all’altro criterio. In ogni caso,  l’interpretazione che deve prendere mosse dal testo di legge non potrà mai spingersi  fino al punto di alterare l’oggettivo tenore.   - Interpretazione letterale​ → è quella che fa perno sul significato proprio delle  parole. L’interprete deve attribuire alle parole che compongono la disposizione il  senso che esse hanno nel linguaggio comune o nel linguaggio tecnico-giuridico,  dovendo preferire il secondo significato nel caso la parola sia presente in  entrambi i linguaggi. Un esempio è la normativa sul cosiddetto Daspo. Ci si è  chiesti cosa intenda il legislatore per manifestazione sportiva e se, in particolare,  un corteo cominciato allo stadio e poi proseguito nelle vie cittadini possa violare  la norma. È opinione della Corte di Cassazione che “vada privilegiata  un’interpretazione letterale e non eccessivamente estensiva della richiamata  disposizione, considerando che la legge sul Daspo si riferisce chiaramente al  divieto di accedere a luoghi in cui effettivamente si svolgono manifestazioni  sportive specificamente indicate”.   - Interpretazione sistematica​ → è il criterio che si ricava leggendo l’articolo 12 delle  Preleggi, dal riferimento alla “connessione tra le parole”. L’interprete deve, quindi,  leggere la disposizione tenendo conto dell’intero sistema normativo e allargando  la propria visione all’intero contesto in cui la disposizione si inserisce. L’articolo 12  16 si riferisce specificatamente alla connessione tra le parole della stessa  disposizione. È pacifico, però, che il riferimento alla connessione vada esteso  anche ai rapporti tra diverse disposizioni. Quindi, l’interprete dovrà porre  attenzione all’intero ordinamento e, in particolare, a tutte quelle norme che si  occupano di materie analoghe o comunque rilevanti. Un esempio di questo tipo di  interpretazione si rinviene nel caso in cui il legislatore volle dare un sostegno ai  danneggiati dall’alluvione del 1994 in Piemonte e per farlo estese loro alcuni  contributi stanziati in occasione di un altro evento catastrofico. Si pose la  questione riguardante le pubbliche amministrazioni. La Corte di Cassazione sancì  che le pa non dovevano essere beneficiarie dei contribuiti in quanto in altre  normative precedenti non risultavano tali. La Corte ha stabilito, facendo  riferimento al complesso delle disposizioni che concernono gli interventi  straordinari intervenuti per fronteggiare le calamità naturali, che la disposizione  oggetto di interpretazione dovesse essere intesa come unicamente riferita alla  categoria dei “soggetti privati” con la conseguente esclusione delle pubbliche  amministrazioni.  - Interpretazione conforme a Costituzione ​ → Questo tipo di interpretazione può  essere considerata una particolare applicazione del criterio sistematico, infatti  anch’essa fa riferimento alla disposizione inserita in un preciso sistema giuridico.  La specificità di questo criterio consiste nel fatto che ad essere messe in  connessione sono fonti normative poste su ordini gerarchici differenti. In questo  caso l’interprete dovrà favorire l’interpretazione conforme alla norma di grado  gerarchico superiore. Con l’entrata in vigore della Costituzione si è via via  affermato il principio secondo cui gli operatori del diritto devono esperire un  tentativo di interpretazione conforme a Costituzione. Devono, quindi, privilegiare  una lettura tra le possibili che eviti l’insorgere di antinomia. La Corte di  Cassazione ha affermato, inoltre che questo tipo di interpretazione deve cedere il  passo se si rivela “incompatibile con il disposto letterale della disposizione. Un  esempio di interpretazione conforme è quella che stata fatta equiparando lo  status di internato a quella di detenuto per osservare il principio di uguaglianza.  In questo modo entrambi possono presentare istanza di riduzione della pena  qualora vengano detenuti in condizioni disumane.    - Intenzione del legislatore e ratio legis​ → l’articolo 12 delle Preleggi fa un chiaro  riferimento all’intenzione del legislatore. Quindi quando si fa un’interpretazione  bisogna sempre tenere conto delle ragioni che hanno mosso il legislatore ad  approvare quel testo normativo. In alcuni casi, è necessario distinguere la volontà  originaria del legislatore storico (interpretazione storica) dalla oggettiva volontà  della legge (ratio legis) che, con il passare del tempo, astrae e allontana  dall’intento che il legislatore perseguiva nel momento in cui approvava la legge.  Per rinvenire l’intenzione del legislatore storico è utile fare riferimento ai lavori  preparatori. Mentre per individuare la ratio legis occorre astrarsi dalle specifiche  circostanze che avevano indotto il legislatore ad elaborare le disposizioni e  ricercare il fine perseguito dalla norma. In presenza di contrasto tra le due  interpretazioni si preferisce seguire la ratio legis in quanto più idonea a  modellare la disposizione rendendola adeguata al mutamento delle esigenze  storico-sociali. Un esempio di interpretazione storica riguarda la normativa che  dichiara che è nullo un provvedimento qualora manchi la sottoscrizione del  giudice. Nel caso in cui la firma non sia leggibile la Corte di Cassazione ha  stabilito che il provvedimento rimane valido affermando che, come si evince dalla  lettura del dibattito svoltosi in Parlamento, quando il legislatore ha inteso  configurare le ipotesi di nullità di un atto lo ha fatto con la volontà di restringerne  17 Quest’antinomia viene risolta sul piano interpretativo mediante il ricorso al criterio di  specialità. Le due disposizioni rimarranno entrambe valide ed efficaci nell’ordinamento,  però una sola di esse verrà applicata allo specifico caso preso in considerazione, mentre  quella scartata potrà trovare applicazione in altre situazioni. Il criterio di specialità si  applica per risolvere antinomie apparenti fra disposizioni diverse, gli altri criteri  interpretativi intervengono invece a dirimere una sorta di antinomia interna alla stessa  disposizione.   9. APPLICAZIONE DEL CRITERIO GERARCHICO  Il criterio da utilizzare qualora si accerti un contrasto fra due disposizioni di grado  diverso è proprio quello gerarchico, che impone di preferire la disposizione che, tra le  due, è posta a livello più elevato nella gerarchia delle fonti. La prevalenza della fonte  superiore comporta l’invalidità della fonte subordinata. Quest’ultima, proprio perché in  contrasto con la fonte sovraordinata, potrà essere annullata. Se il contrasto si presenta  tra una fonte superprimaria e una primaria sarà la Corte costituzionale a dichiarare  l’illegittimità della norma di grado primario secondo quanto previsto dagli articoli 134 e  ss. della Costituzione. In caso di contrasto tra una fonte primaria e una secondaria  occorre procedere a una distinzione a seconda dell’autorità giurisdizionale che si trovi  di fronte all’antinomia: se si tratta di un giudice amministrativo si avrà l’annullamento  della fonte secondaria. Il giudice ordinario, invece, non avendo il potere di procedere  all’annullamento della norma secondaria, dovrà limitarsi a disapplicarla nel caso  concreto. La dichiarazione di illegittimità costituzionale e l’annullamento delle fonti  secondarie hanno efficacia erga omnes ed ex tunc. Essi determinano infatti l’espulsione  dall’ordinamento della norma invalida, che non potrà più essere da nessuno e in nessun  caso applicata. Ma comunque non verranno intaccati i rapporti giuridici pur regolati  dalla norma invalida ma ormai esauriti. Nel caso della disapplicazione da parte del  giudice ordinario si hanno effetti inter partes, cioè limitati al giudizio in cui la norma sia  stata ritenuta illegittima; ciò significa che la disposizione conserva validità e che  potrebbe essere applicata in altri rapporti giuridici.    10. PRINCIPIO DI LEGALITÀ E PRINCIPIO DI COSTITUZIONALITÀ  Il principio gerarchico si esplica nel principio di legalità e in quello di costituzionalità. La  nostra Costituzione è rigida e non ammette deroghe da parte delle leggi ordinarie,  quindi il legislatore ordinario è tenuto a rispettarla proprio in virtù della posizione  sovraordinata rispetto alla legge. Il primato della fonte costituzionale si estrinseca nella  regola per cui essa non può essere modificata o derogata mediante l’adozione di una  fonte primaria, ma solo seguendo un procedimento aggravato. Inoltre, a garanzia del  rispetto della Costituzione, è previsto un controllo di costituzionalità sulle leggi, nonché  sugli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. Questo controllo, demandato,  alla Corte costituzionale può comportare l’annullamento delle leggi e degli atti aventi  forza di legge che si pongano in contrasto con la Costituzione e con le altre leggi  Costituzionali.     A un secondo livello il principio gerarchico è incarnato dal principio di legalità che è  antecedente a quello di costituzionalità perché nasce nello stato ottocentesco in cui la  legge era la fonte senza limitazioni. In forza di tale principio ogni esercizio del pubblico  potere deve trovare nella legge il proprio limite e il proprio fondamento. Dal principio di  legalità discendono due corollari. Il primo è il divieto delle fonti normative e degli atti  amministrativi di disporre in violazione della legge (preferenza della legge). In questa  prospettiva, il principio di legalità postula la soggezione alla legge anche degli atti  adottati nell’ambito dell’attività giurisdizionale. Il principio di legalità è poi espressione  dell’esigenza della previa legge, da intendersi nel senso che il potere pubblico, per  20 potersi legittimamente manifestare attraverso fonti secondarie deve essere stato  preventivamente autorizzato da una fonte normativa primaria. Questo principio non è  espressamente scritto nella Costituzione ma lo si desume dalla lettura degli articoli 3, 70,  97, 101 e 113. La sottoposizione alla legge previene un uso arbitrario e, dunque,  discriminatorio del potere pubblico. La necessità che, nell’emanare tali atti, le diverse  articolazioni della pa si conformino alla legge costituisce perciò garanzia che anche il  provvedimento incidente sulla posizione del singolo abbia a fondamento una regola  capace di applicarsi a situazioni analoghe e non sia frutto di una decisione ah hoc  potenzialmente foriera di una discriminazione. Quest’esigenza è affermata nell’articolo  97 (imparzialità della pubblica amministrazione). A garanzia del rispetto di questi principi  l’articolo 113 conferisce a ciascuno il potere di ricorrere contro atti della pubblica  amministrazione contrari alla legge.   Un’esplicitazione del principio di legalità è contenuta nell’articolo 4 delle Preleggi  secondo cui i regolamenti governativi non possono contenere norme contrarie alle  disposizioni delle leggi. La giustificazione costituzionale di questa subordinazione tra  fonti sta nel fatto che la legge è atto normativo prodotto dal Parlamento. Non è, quindi,  ammessa la presenza di un potere normativo autonomo della pubblica amministrazione  che non trovi il proprio limite e fondamento nella legge. A questo punto è necessario  chiedersi se il principio di legalità come necessità di una previa legge debba ritenersi  soddisfatto con una mera legge che si limiti ad autorizzare l’emanazione di un atto  regolamentare o amministrativo (legalità in senso formale), o se sia necessario che la  legge che la legge determini anche i principi cui l’attività pubblica si deve conformare  (principio di legalità in senso sostanziale). Il principio di legalità, in assenza di indicazioni  specifiche da parte della Costituzione, sembrerebbe da intendersi in senso formale. Solo  quando la Costituzione richiede espressamente che una certa materia sia disciplinata  dalla legge (riserva di legge), il principio di legalità sembrerebbe da intendersi in senso  sostanziale. In questi casi infatti non solo è necessaria una legge che abiliti la pubblica  amministrazione ad intervenire, ma il legislatore è obbligato dalla Costituzione a fissare i  limiti del potere pubblico attraverso l’indicazione dei principi idonei a dirigerne l’attività.  La questione, però, rimane controversa vista anche la sentenza della Corte  costituzionale n. 115 del 2011 che apparentemente fa intendere la necessità del principio  di legalità in senso sostanziale. ​[vedi sentenza]     11. RISERVA DI LEGGE  Attraverso la previsione di una riserva di legge, la Costituzione prescrive che una certa  materia sia disciplinata dalla legge con esclusione o limitazione delle fonti ad essa  subordinate. Con la presenza di una riserva di legge si conferisce al legislatore un  potere non rinunciabile, non potendo questo decidere di autorizzare esso stesso fonti  secondarie ad intervenire in sua vece. La previsione di un simile istituto risponde ad  esigenze di garanzia per i cittadini. Alcune riserve di leggi sono presenti nell’articolo 13 in  materia di limitazione della libertà personale, nell’articolo 14 in materia di limitazione  delle libertà di domicilio, nell’articolo 15, 16, 21 e 25. Esistono varie ragioni per cui sono  presenti le riserve di legge: in primo luogo, si tratta della considerazione per cui è il  Parlamento l’organo rappresentativo di tutti i cittadini, quindi, le leggi sono approvate  all’esito di un confronto fra tutte le forze politiche che sono espressione della volontà  popolare. Queste stesse garanzie non sussistono invece quando un atto normativo è  approvato dal Governo in cui risiede solo la maggioranza, che non potrà quindi  discutere il contenuto dell’atto con le forze politiche di opposizione. In secondo luogo, è  necessario considerare che il procedimento legislativo si caratterizza per la sua  trasparenza: i lavori del Parlamento sono pubblici.   21 Ciò comporta che sia massima la possibilità degli elettori di verificare le responsabilità  degli eletti. Le sedute del Governo non sono, invece, oggetto di pubblicazione. Gli atti  legislativi adottati dal Parlamento sono assoggettabili al controllo di costituzionalità  rimesso alla Corte costituzionale.     Quando la Costituzione prevede una riserva di legge per sapere se essa richiede  l’intervento della legge statale o regionale bisogna guardare all’ambito di competenza  materiale in cui ricade la riserva. Se siamo in presenza di una materia che può essere  disciplinata solo dallo Stato l’atto legislativo dovrà essere, quindi, statale. La questione  delle riserve di legge è valida anche per gli atti aventi forza di legge. Nell’adozione di un  decreto-legge o di un decreto legislativo, infatti, la volontà del Parlamento non è  completamente estromessa. Allo stesso tempo va ricordato che il nostro ordinamento  può arrivare a mettere in discussione la ratio della riserva di legge come era intesa in  origine. L’unico caso eccezionale è quello in cui la Costituzione fa espresso richiamo  all’atto normativo emanato dal Parlamento o dalle Camere. In questi casi si parla di  riserva di legge formale. Un esempio di essa è quello contenuto nell’articolo 80 della  Costituzione secondo cui “le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati  internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari,  o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”.     Le riserve di legge si distinguono in riserve di legge assolute e riserve di legge relative. È  compito dell’interprete verificare se, a seconda delle espressioni utilizzate, la  disposizione costituzionale di volta in volta tratti di una riserva assoluta o relativa.   Le riserve di legge assolute richiedono che l’intera materia sia disciplinata dalla legge.  Ne consegue l’estromissione totale delle fonti subordinate, poiché la materia in  considerazione potrà trovare la propria fonte di disciplina in atti normativi diversi dalle  fonti primarie. Un esempio di riserva di legge assoluta è costituito dall’articolo 13 Cost. ai  sensi del quale non è ammessa alcuna forma di limitazione della libertà personale “se  non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.  È evidente come la disciplina della materia si esaurisca nella determinazione dei casi e  dei modi per i quali è ammessa una limitazione della libertà personale; la norma non  lascia margini di intervento ad altre fonti del diritto. In via del tutto eccezionale e solo  per alcune tipologie di regolamenti, la giurisprudenza costituzionale ne ha ammesso  l’adozione anche in ambiti coperti da riserva di legge assoluta. Si tratta dei regolamenti  tecnici di natura strettamente esecutivi, tali perché non responsabili di integrare in alcun  modo le scelte di contenuto dettate dal legislatore. Un esempio è l’elenco delle sostanze  stupefacenti o delle dosi giornaliere ai fini delle relative fattispecie penali.   Le riserve di legge relative si hanno, invece, quando la Costituzione si limita a richiedere  che la legge determini i principi fondamentali della materia, permettendo che la  disciplina sia integrata e dettagliata da atti normativi ad essa subordinati. Esempi di  riserva di legge relativa sono rinvenibili nell’articolo 23 Cost. secondo cui “nessuna  prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”,  nonché nell’articolo 97 Cost. secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati secondo  disposizioni di legge”. In entrambi i casi è pacifico che residui un certo margine di  intervento del potere parlamentare.   L’altra distinzione in materia di riserve di legge riguarda quelle semplici e quelle  rinforzate. In quest’ultimo caso la Costituzione, oltre a riservare la disciplina di una certa  materia alla legge, obbliga il legislatore al rispetto di ulteriori vincoli di contenuto o di  procedimento. Una riserva di legge rinforzata per contenuto è quella presente  nell’articolo 16 Cost. che in materia di libertà di circolazione, ammette solo le “limitazioni  che la legge stabilisce in via generale per motivo di sanità o sicurezza”. Non solo dunque,  22   La Corte costituzionale sottopone le norme retroattive a un rigoroso scrutinio di  ragionevolezza, dichiarandole illegittime nell’ipotesi in cui la scelta del legislatore di  estendere al passato gli effetti di una disciplina nuova non corrisponda a specifiche  esigenze di rilievo costituzionale, come il riconoscimento di un diritto. La Corte ha  affermato, inoltre, che le leggi retroattive devono fondarsi su “motivi imperativi di  interesse generale”.   La retroattività è connaturata alle leggi di interpretazione autentica emanate dal  legislatore: esse vengono infatti adottate con l’obiettivo di obbligare gli operatori  giuridici ad applicare, in un determinato senso, una disposizione anteriore.  L’interpretazione così imposta fa corpo unico con la disposizione sin dalla sua entrata in  vigore e dovrà essere fatta rivalere anche nei giudizi pendenti. Può accadere che il  legislatore, però, anziché limitarsi ad assegnare alla disposizione interpretata un  significato rientrante tra le possibili varianti interpretative introduca una norma del  tutto differente, quindi nuova rispetto al precetto normativo che si vorrebbe soltanto  interpretare. In questi casi, l’erroneità della qualificazione di legge di interpretazione  autentica viene considerata un indice di manifesta irragionevolezza della legge stessa  dalla Corte costituzionale che potrebbe condurre ad una dichiarazione di illegittimità a  meno che l’intervento normativo si basa su rilevanti giustificazioni connesse alla tutela di  interessi costituzionali.     In materia penale, invece, è sancito direttamente a livello costituzionale il principio di  irretroattività per quanto riguarda le leggi che introducono un nuovo reato o che  aggravino la sanzione per un reato già previsto. Queste leggi penali, dette in malam  partem, laddove dispongano anche per il passato sono dichiarate incostituzionali ai  sensi dell’articolo 25 Cost. secondo cui “nessuno può essere punito se non in forza di una  legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. La necessità di assicurare il  fondamentale principio di colpevolezza, nonché la funzione preventiva della pena (art.  27), escludono che un individuo sia sottoponibile alle gravi conseguenze che derivano  dalla commissione di un reato, se al momento in cui ha compiuto il fatto, non poteva  essere a conoscenza della rilevanza penale dello stesso. Il principio di irretroattività si  pone quale essenziale strumento di garanzia del cittadino ed è espressivo dell’esigenza  di calcolabilità delle conseguenze penali della propria condotta quale condizione  necessaria per la libera autodeterminazione. Vale il discorso opposto per le leggi penali  che aboliscono una fattispecie di reato o che introducono un regime sanzionatorio più  favorevole al reo (leggi in bonam partem). In questi casi, infatti, si applica la regola della  retroattività al fine di evitare che taluno possa trovarsi a sopportare gravose  conseguenze sulla base di una norma che non corrisponde alla volontà  dell’ordinamento. Il fondamento di questo principio si trova nell’articolo 3 della  Costituzione. Tale principio, però, non è inderogabile. Il legislatore può, dunque,  introdurre deroghe al principio di irretroattività delle norme penali più miti, purchè  sorrette da ragionevoli giustificazioni. [vedi articolo 2 Codice penale – limiti alla regola  della retroattività]     15. RISOLUZIONE DELLE ANTINOMIE APPARENTE: CRITERIO DI SPECIALITÀ   Le antinomie apparenti si risolvono con una tecnica interpretativa che non comporta  alcuna conseguenza sulla validità e sull’efficacia della norma che non verrà applicata al  caso concreto. Si tratta del criterio di specialità che impone di preferire, tra due norme  poste sullo stesso piano gerarchico e che siano in rapporto di genere e specie, la norma  speciale rispetto a quella generale. Il giudice dovrà limitarsi a non applicare la norma  inconferente per il caso concreto, senza che ciò comporti ripercussioni sulla sua vigenza.  25 Un esempio è la fattispecie dell’omicidio del consenziente prevista nell’articolo 579 del  Codice penale. Se il legislatore non avesse previsto una disposizione ad hoc l’autore del  reato sarebbe punibile ai sensi dell’articolo 575 Codice penale. Poiché il legislatore ha  deciso di adottare una norma specificamente dedicata a quest’ipotesi che infatti  aggiunge un elemento di specialità rispetto alla previsione di carattere generale  dell’omicidio, l’autore dell’omicidio del consenziente ne risponderà ai sensi dell’articolo  579 c.p. L’articolo 575 non perderà comunque di efficacia e validità. Va, inoltre, precisato  che questo principio che è espressamente contenuto nell’articolo 15 del Codice penale,  esso può essere ritenuto una tecnica interpretativa passibile di applicazione in qualsiasi  settore dell’ordinamento.     CAP. 3 - LE SINGOLE FONTI DEL DIRITTO  SEZ. I - LE FONTI SUPERPRIMARIE  1. COSTITUZIONE  All’origine della Costituzione si situerebbe il potere costituente che era nelle mani di  coloro che hanno redatto il testo normativo. La Costituzione rappresenta il vertice del  sistema e quindi, è ad un tempo fonte di legittimazione e limitazione di ogni autorità da  essa abilitata ad operare. Il potere fu conferito ai costituenti tramite il decreto  luogotenenziale n.151 del 1944 ai sensi del quale “dopo la liberazione le forme istituzionali  saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà un’assemblea costituente per  deliberare la nuova costituzione”. Coerentemente all’idea che la Costituzione avrebbe  determinato l’evaporazione del potere costituente, l’articolo 4 del decreto legislativo  luogotenenziale n.98 del 1946 stabilì poi che l’Assemblea costituente sarebbe stata sciolta  il giorno dell’entrata in vigore della Costituzione e non oltre otto mesi dopo la sua prima  riunione. L’unica conclusione possibile, quindi, è che il fondamento della Costituzione,  più che di natura giuridico-formale, è di matrice storico-materiale; esso è cioè  rintracciabile nell’accordo intercorso tra forze politiche che, al termine della guerra, si  impegnarono solidalmente nella costruzione di un nuovo ordine democratico.     La Costituzione italiana è rigida e per questo si differenzia dalle Costituzioni  ottocentesche, per modificarla, infatti, occorre un procedimento aggravato. La sua  superiorità rispetto alle altre fonti del diritto sarebbe infatti illusoria se fosse possibile  modificarla attraverso l’iter di approvazione delle leggi ordinarie. Così come lo sarebbe  altrettanto se il legislatore non avesse previsto un rimedio alla violazione, da parte del  legislatore ordinario, delle norme costituzionali. La rigidità della Costituzione, dunque, è  data sia dal procedimento aggravato che richiede una maggior riflessione e un ampio  consenso, sia dalla presenza nel sistema di un’autorità deputata a garantire il rispetto  della Costituzione che è la Corte costituzionale. Con la prima sentenza del 1956 la Corte  ha, inoltre, chiarito il rapporto con le norme di rango legislativo approvate prima del  1948. La Corte dichiarando incostituzionale una norma del tulps ha sancito che  indipendentemente dal fatto che si tratti di leggi anteriori o successive alla Costituzione,  in entrambi i casi quest’ultima “per la sua natura rigida deve prevalere sulla legge  ordinaria” e che è competente a regolare i rapporti tra Costituzione e leggi ordinarie,  anche quando anteriori al 1948. L’alternativa sarebbe stata attribuire tale funzione ai  giudici comuni, che avrebbero abrogato le leggi ritenute incostituzionali ma si sarebbe  incorsi in risultati interpretativi contrastanti con conseguenze negative sulla certezza del  diritto e sull’effettivo primato della Costituzione.     2. LE LEGGI DI REVISIONE COSTITUZIONALE E LE LEGGI COSTITUZIONALI  Con il procedimento contenuto nell’articolo 138 è possibile approvare le leggi  Costituzionali. A questa categoria di fonti sono riconducibili due atti normativi: le leggi di  26 revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali. Sono dette di revisione  costituzionale quelle leggi il cui contenuto incide sul testo della Costituzione sostituendo  disposizioni in essa contenute, abrogandole, aggiungendole o modificandole. I  costituenti ritennero logico non vincolare in modo permanente le generazioni future  lasciandole libere, entro certi limiti, di rivederle. Le altre leggi costituzionali sono, invece,  fonti che si pongono di fuori del testo della Costituzione e che hanno però quale finalità  quella di conferire alle discipline introdotte, perché ritenute di particolare rilievo, rango  pari a quello della Costituzione. Un esempio di legge costituzionale è la n.1 del 1948 che  introduce la disciplina dei giudizi di legittimità costituzionale e le norme sulle garanzie  d’indipendenza della Corte costituzionale. Questa fonte pur essendo estranea al corpus  normativo della Costituzione ne condivide il rango. Per modificarla occorre, quindi  ricorre al procedimento contenuto nell’articolo 138. Un esempio di legge di revisione,  invece, è la n.1 del 1992 che ha modificato l’articolo 79 in materia di amnistia e indulto  rendendone più difficile l’adozione.     Per quanto riguarda la fase dell’iniziativa legislativa si ritengono applicabili le regole  comuni previste nell’articolo 71. Dunque, i soggetti legittimati a presentare un progetto di  legge costituzionale sono i medesimi che hanno facoltà di presentare un progetto di  legge ordinaria.     La fase di approvazione è disciplinata dall’articolo 138 Cost. La norma delinea un  procedimento aggravato perché più complesso rispetto a quello contenuto nell’articolo  72 per le leggi ordinarie. L’aggravio risponde all’esigenza di sottrarre il testo  costituzionale alla volontà delle mutevoli maggioranze semplici presenti in Parlamento.  L’articolo 138 prevede che le leggi costituzionali siano adottate “con due successive  deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi” e “a maggioranza assoluta dei  componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. Sia la Camera, sia il Senato  devono, quindi, esprimersi due volte sul medesimo testo di cui la prima volta a  maggioranza semplice e la seconda a maggioranza assoluta a distanza di tre mesi l’una  dall’altra. L’obiettivo è quello di obbligare senatori e deputati a riflettere sull’opportunità  di proseguire l’iter di approvazione di una legge così importante. L’intervallo di tempo  intercorre tra le due deliberazioni della stessa Camera, quindi tra la prima e la seconda  del Senato e tra la prima e la seconda della Camera. Il secondo ramo del Parlamento non  deve attendere necessariamente la seconda deliberazione dell’altra assemblea per  avviare a sua volta il procedimento legislativo. Laddove nella seconda camera vengano  apportati degli emendamenti occorrerà un ulteriore passaggio presso il ramo del  Parlamento in cui è iniziato il procedimento e così via fino all’approvazione del medesimo  testo in entrambe le Camere. Questo ragionamento è valido solo per la prima  deliberazione, infatti, nella seconda deliberazione deve essere solo negato o confermato  il medesimo testo approvato in prima deliberazione senza che ad esso possano essere  apportate ulteriori modifiche. La seconda deliberazione a maggiorana assoluta è volta a  ottenere un largo consenso intorno alla legge costituzionale. Se il Parlamento, però,  riesca ad ottenere un consenso talmente ampio da superare i due terzi in ciascuna  Camera (maggioranza qualificata), la legge può essere trasmessa direttamente per la  sua promulgazione al PdR e pubblicata ai fini dell’entrata in vigore. Qualora, invece, in  seconda deliberazione le leggi costituzionali ottengono la mera maggioranza assoluta,  l’articolo 138, prescrive che esse “siano sottoposte a referendum popolare quando, entro  tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una  Camera o 500000 elettori o cinque Consigli Regionali”. La pubblicazione, in questo caso,  ha scopo esclusivamente notiziale e non concorre ai fini dell’entrata in vigore della  legge. Serve solamente ai soggetti individuati nell’articolo per fare eventuale richiesta di  27 rappresentativo del popolo. Con l’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, la legge  ha ceduto il proprio ruolo di fonte apicale del sistema normativo. Pur mantenendo la  denominazione di fonte primaria, infatti, la legge è subordinata alla Costituzione e alle  leggi Costituzionali e può essere pertanto dichiarata illegittima dalla Corte  costituzionale. Inoltre, man mano le regioni hanno acquistato via via maggiore spazio  d’intervento legislativo a scapito del legislatore statale. Anche le fonti internazionali e gli  atti dell’Unione Europea, poi, sono diventati via via sempre più pervasivi. Infine, l’abuso  degli strumenti normativi governativi, quali il decreto-legge e il decreto legislativo hanno  marginalizzato il ruolo della legge parlamentare. In realtà si trova in crisi lo stesso  modello normativo della legge generale ed astratta, perché sempre di più il Parlamento  interviene per regolare specifici settori dell’ordinamento, per vincolati soggetti o per  affrontare discipline ad hoc per particolari eventi. Ma anche in questi casi l’atto  conserva la propria qualità di legge ordinaria per il solo fatto di essere approvato nel  rispetto del procedimento dettato dagli articoli 70 e ss. ed è, quindi, la forma a risultare  determinante. L’articolo 70 attribuisce definitivamente la funzione legislativa al  Parlamento e al suo interno è stabilito che non ci sono limiti di competenza tranne quelli  stabiliti dalla Costituzione come ad esempio nelle materie stabilite nell’articolo 117 che  abilita ad intervenire la legge regionale.     6. PROCEDIMENTO LEGISLATIVO: FASE DELL’INIZIATIVA  La legge viene approvata dalle Camere con un procedimento disciplinato dagli articoli  70 e ss Cost., nonché dai regolamenti parlamentari, per effetto del rinvio a tale fonte  operato dall’articolo 72 Cost. Il procedimento legislativo è l’insieme preordinato di quegli  atti che si conclude con l’entrata in vigore di una legge. Tale procedimento si compone  di più fasi:   1) l’iniziativa legislativa;   2) l’approvazione della legge;   3) la promulgazione e l’entrata in vigore della legge.     ● L’iniziativa legislativa, cioè il potere di presentare proposte di legge è affidato a  diversi soggetti, in primis, quella di maggiore rilievo è l’iniziativa del Governo. I  progetti di legge presentati dal Governo prendono il nome di disegni di legge. È  importante per il peso politico che riveste: il Governo, infatti, si compone delle  forze politiche che, in Parlamento, rappresentano la maggioranza. È pertanto più  probabile che i disegni vengano approvati e, inoltre, in taluni casi l’iniziativa di  proporre leggi è riservata, per alcune materie, al Governo. È il caso della legge di  bilancio e del rendiconto annuale. Lo schema del disegno di legge è predisposto  dal Ministro o dai Ministri competenti per materia ed è in seguito sottoposto alla  delibera del Consiglio dei Ministri. Terminata questa fase, la presentazione del  disegno di legge ad una delle due Camere è autorizzata dal PdR mediante  decreto.    - Un’altra tipologia di iniziativa è quella parlamentare. Ogni deputato e ogni  senatore ha titolo per presentare progetti di legge. L’unico limite che  questa prerogativa incontra è l’impossibilità di sottoscrivere proposte di  legge nelle materie riservate all’iniziativa governativa.   - Esiste, inoltre, l’iniziativa popolare. La Costituzione propone che 50000  elettori possano presentare un progetto di legge redatto in articoli. L’unico  limite è nuovamente quello che le iniziative non sfocino in materie  sottoposte alla mera iniziativa governativa. Si tratta di uno strumento di  democrazia diretta che nella prassi ha trovato scarsissima applicazione,  30 anche in virtù del fatto che quando sono state presentate delle proposte il  Parlamento non le ha mai considerate.   - I Consigli regionali, invece, hanno la facoltà di presentare progetti di legge  senza alcuna espressa delimitazione d’oggetto, a parte per le materie  governative. Anche in questo caso, deve dirsi che la prassi ha messo in  evidenza la scarsa propensione delle Regioni a servirsi di tale strumento.   - L’ultima tipologia di iniziativa è quella del Consiglio Nazionale  dell’Economia e del Lavoro. La Costituzione attribuisce a questo organo  consultivo di ausilio al Parlamento e al Governo, composto di “esperti e  rappresentanti delle categorie produttive”, la facoltà di presentare progetti  di legge. La stessa Costituzione stabilisce, inoltre, che il Cnel può  contribuire all’elaborazione della legislazione economica e sociale, quindi è  opinione comune che l’iniziativa legislativa debba riguardare tali ambiti.  Come per l’iniziativa popolare e regionale, il Cnel non ha mai assunto un  ruolo di rilievo nella proposta di leggi.     7. FASE DELL’APPROVAZIONE  L’approvazione della legge richiede che entrambe le Camere in un sistema di  bicameralismo paritario perfetto si esprimano favorevolmente sul medesimo testo. Così,  una volta che il progetto di legge sia stato approvato da una delle Camere, esso è  trasmesso all’altro ramo del Parlamento. Se la seconda Camera approva degli  emendamenti il testo dovrà tornare alla prima Camera per una nuova approvazione.  L’iter di approvazione per ciascuna Camera si trova disciplinata nell’articolo 72 e nelle  norme dei regolamenti parlamentari. Il procedimento legislativo vede sempre coinvolte le  Commissioni parlamentari permanenti e più precisamente quelle competenti per la  materia di volta in volta considerata dal progetto di legge. Il passaggio obbligatorio in  una Commissione risponde all’esigenza di affidare ad un organo a composizione  ristretta lo svolgimento dell’istruttoria sul testo proposto che a causa dell’elevato  numero di parlamentari non potrebbe svolgersi adeguatamente in Parlamento.  Attraverso l’istruttoria che prevede il parere di esperti, un esame sulla necessità  legislativa, sui suoi costi, sugli obiettivi e sulla coerenza degli strumenti predisposti allo  scopo, nonché una valutazione sugli oneri conseguenti alla disciplina che si intende  introdurre, le Commissioni acquisiscono tutti gli elementi utili ad una consapevole  deliberazione da parte del Parlamento. A seconda del ruolo che la Commissione  permanente è chiamata a svolgere nell’ambito dell’iter di approvazione della legge si  possono distinguere tre diverse modalità di approvazione:   - Procedimento ordinario​ → Questo procedimento prevede che la proposta di legge  sia esaminata articolo per articolo dalla Commissione competente per materia, e  che, in seconda battuta, essa venga esaminata articolo per articolo e approvata  dall’Assemblea nella sua composizione plenaria. La Commissione permanente che  si dice operi in sede referente procede dapprima ad una discussione generale sul  progetto di legge per poi passare all’esame dei singoli articoli, con la possibilità di  approvare emendamenti. In Assemblea, dove i lavori godono della pubblicità  massima, il progetto di legge è anzitutto oggetto di una discussione sulle linee  generali. In questa fase, possono anche essere messe al voto questioni  pregiudiziali di legittimità costituzionale e di merito, volte a impedire la  prosecuzione dell’esame del progetto di legge. In un secondo momento, si apre la  discussione e la votazione articolo per articolo con l’eventuale proposta.  Illustrazione e votazione di emendamenti. Di norma, ad essere messi in votazione  per primi in votazione sono gli emendamenti la cui approvazione precluderebbe  logicamente l’esame di quelli ulteriori. Prima i parlamentari si esprimono sugli  31 emendamenti soppressivi e poi su quelli modificativi e per ultimi quelli aggiuntivi.  Una prassi problematica è quella dei maxiemendamenti. Si tratta di una proposta  di modifica, solitamente presentata dal Governo, che incide su più disposizioni del  testo. Può, quindi, accadere che una proposta di legge prima strutturata in più  articoli sia ridotta ad un articolo unico, al cui interno vengono però inserite tutte  le disposizioni normative prima separate. La prassi diventa problematica quando  i precetti normativi accorpati siano numerosi e tra loro eterogenei. Un esempio è  la legge n.76 del 2016 sulle Unioni Civili e le Convivenze che contiene un solo  articolo con 69 commi. L’articolo 72 della Costituzione stabilisce chiaramente che i  progetti di legge devono essere approvati “articolo per articolo”. Queste pratiche,  peraltro, rischiano di incidere negativamente sulla qualità del testo e danno  luogo a successive incertezze interpretative. In realtà la Corte costituzionale non  ha mai censurato questa tecnica legislativa, allo stesso tempo ha avvertito dei  rischi che si producono quando il maxi-emendamento si accompagni alla  presentazione da parte del Governo di una questione di fiducia; atto che ha  l’effetto di bloccare la discussione parlamentare obbligando le Camere a votare  sul testo accorpato nel maxi-emendamento. Questo modo di procedere può  precludere un’adeguata riflessione da parte del Parlamento.  Una volta che sono stati votati i singoli articoli del progetto, l’Assemblea procede  alla votazione finale dell’intero testo legislativo, così come risultante dalle  modifiche apportate alla versione originaria. Questa fase è importante perché i  singoli parlamentari potrebbero essere insoddisfatti del complessivo risultato  finale e decidere di esprimersi negativamente. Il voto è di regola palese e la  maggioranza richiesta è semplice.   - Procedimento decentrato ​→ : L’articolo 72 Cost. consente al regolamento  parlamentare di stabilire che in alcuni casi la Commissione che in questo caso  opera in sede deliberante o legislativa possa approvare definitivamente la legge  senza bisogno di una votazione dell’Assemblea. In questi casi la Commissione non  si limita a svolgere una funzione istruttoria, ma ad essa è affidato il compito di  giungere anche alla deliberazione conclusiva dell’iter parlamentare. Questa  procedura è esclusa per le leggi in materia costituzionale, elettorale, leggi di  delegazione legislativa, approvazione di bilanci e consuntivi, ratifica di trattati  internazionali, in cui deve essere utilizzato il procedimento ordinario (riserva  d’Assemblea). Fino al momento della sua approvazione definitiva, il progetto di  legge affidato alla procedura decentrata può essere rimesso all’Assemblea  laddove ne facciano richiesta il Governo o un decimo dei componenti della  Camera o un quinto della Commissione.  - Procedimento misto ​→ Questo procedimento trova legittimazione nei regolamenti  parlamentari. Si tratta di una tipologia intermedia tra il procedimento ordinario e  il procedimento decentrato. Alla Commissione, che in questo caso prende il nome  di sede redigente, è, infatti, rimesso l’esame del progetto e il voto sugli  emendamenti, mentre all’Assemblea spetta univocamente la votazione sui singoli  articoli e sul testo finale, senza possibilità di approvare emendamenti. Questo  procedimento è escluso per le materie sopraelencate che richiedono  necessariamente il processo ordinario.    E’ necessario ricordare che i regolamenti parlamentari possano prevedere procedimenti  abbreviati per i progetti di legge di ci sia dichiarata l’urgenza. In questo caso sono ridotti  i tempi previsti per le diverse fasi del procedimento. I regolamenti parlamentari  prevedono che sia il Presidente a decidere che il progetto di legge sia approvato  seguendo uno o l’altro dei procedimenti possibili. Alcune modifiche in Senato hanno  32 dell’approvazione del primo atto legislativo. Negli anni più recenti è, però, invalsa la  prassi di adottare decreti legislativi correttivi ed integrativi su espressa autorizzazione  del Parlamento. Quest’ultimo è come se autorizzasse una delega in più tempi: in un primo  momento adempiendo alla delega principale, in un secondo, alla luce degli effetti  concretamente prodotti dal precedente intervento normativo, adottando le correzioni  che si siano rivelate necessarie. Questione differente è quella che riguarda la possibilità  che il Governo adempia con più decreti legislativi a una legge di delega che contenga  una pluralità di oggetti distinti. La stessa legge delega solitamente specifica che il  Governo è delegato ad adottare entro il termine previsto uno o più decreti legislativi  negli oggetti indicati. L’articolo 14 della legge n.400 del 1988 disciplina anche questa  ipotesi. Sempre questo articolo disciplina, inoltre, che l’approvazione del decreto  legislativo deve avvenire mediante deliberazione del Consiglio dei Ministri ed emanato  dal PdR. Nel preambolo deve essere indicata la legge di delega, la deliberazione del  Consiglio di ministri e degli eventuali altri adempimenti previsti dalla legge di delega.  Esso deve essere pubblicato col nome di decreto legislativo. Qualora non si attenga, nei  propri contenuti, alle prescrizioni previste nella legge delega incorre in un’indiretta  violazione dell’articolo 76 Cost. e perciò può essere dichiarato illegittimo dalla Corte  costituzionale per vizio di eccesso di delega. In questi casi, infatti, la legge di delega  costituisce, norma interposta tra il decreto legislativo e l’articolo 76 Costituzione. Per  verificare se il legislatore delegato si sia posto in difformità rispetto al legislatore  delegante occorre individuare la ratio della delega e poi valutare se il legislatore abbia  ecceduto i margini di discrezionalità conferiti dal Parlamento. La Corte costituzionale ha,  inoltre, chiarito che in assenza nella legge di delega di puntuali direttive su ogni aspetto  della materia, al Governo non è precluso intervenire con previsioni rientranti in tali profili  scoperti purchè esse rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle  scelte espresse dal legislatore delegante.   L’ordinamento prevede la possibilità di discostarsi dal modello di delega proposto  dall’articolo 76 Cost. Si parla di deleghe legislative anomale con cui vengono conferiti  particolari poteri al Governo. Un tipo anomalo di delega è quella con cui si attribuisce al  Governo il compito di raccogliere tutte le disposizioni normative vigenti in una  determinata materia. L’atto normativo è definito testo unico e serve a riordinare un certo  ambito di disciplina, soprattutto quando è complicato da un’eccessiva produzione  normativa. La particolarità di questa delega sta nel fatto che il Parlamento non indica i  principi e i criteri direttivi cui l’esecutivo si deve attenere che sono implicitamente  ricavabili dal complesso delle leggi che il Governo deve riordinare. Nell’attività di riordino  il Governo può essere abilitato anche a modificare e abrogare le norme che è chiamato  a coordinare; in questo caso si parla di testi unici di coordinamento. Esistono anche testi  unici che sono il risultato di un’attività meramente compilativa. Questo tipo di testo  unico ha funzione ricognitiva.   Un altro caso di delega anomala è anche quella con la quale si procede al conferimento  di poteri in caso di dichiarazione dello stato di guerra: l’articolo 78 della Costituzione  stabilisce che le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri  necessari. Questo articolo non prevede che la delega sia da conferire tramite legge  anche se la dottrina la ritiene indispensabile. Il Parlamento nel conferire la delega non è  tenuto a dover indicare l’oggetto della delega, i principi e i criteri direttivi e nemmeno il  tempo limite. La genericità della disposizione si deve alla necessità di garantire  all’Esecutivo un ampio spazio di manovra in un momento delicato. In dottrina è stato  sostenuto che il Governo sia abilitato ad adottare provvedimenti sospensivi di diritti  costituzionali, ma il riferimento a “poteri necessari” non sembra indicare che non possa  essere inteso in questo senso, sottostando anch’essi, dunque, ai precetti costituzionali.     35 12. DECRETO-LEGGE  L’istituto del decreto-legge risponde alla necessità del sistema di approntare un  intervento normativo nei casi che, per l’eccezionalità, l’imprevedibilità e l’urgenza coi  quali si presentano non possono attendere i tempi richiesti dall’ordinario iter legislativo.  La disciplina di questo istituto si trova nell’articolo 77. Questo articolo premette che il  Governo non può emanare decreti con valore di legge ordinaria senza delegazione delle  Camere, ma esiste un’eccezione. Il Governo è abilitato ad adottare in casi straordinari di  necessità e d’urgenza sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di  legge. Il decreto-legge è soggetto ad una serie di restrizioni, riguardanti oltre i  presupposti di adozione anche l’efficacia del provvedimento. Il decreto-legge ha, infatti,  natura provvisoria: se non convertito in legge in Parlamento entro 60 giorni dalla sua  pubblicazione perde efficacia sin dall’inizio. Inoltre, il decreto-legge è assunto sotto la  responsabilità non solo politica ma anche giuridica del Governo che potrebbe essere  chiamato a rispondere in sede civile, penale o amministrativa delle conseguenze  prodotte dal decreto.   A. Presupposti del decreto-legge ​→ Quanto ai presupposti giustificativi l’articolo 77  Cost. si riferisce a situazioni per far fronte alle quali non è possibile attendere il  Parlamento, con gli ordinari tempi di approvazione della legge. Nella prassi si è  avuto scarso rispetto delle condizioni richieste dall’articolo 77, infatti, i Governi  hanno spesso fatto uso della decretazione d’urgenza all’unico scopo di evitare  lungaggini del procedimento legislativo ordinario. La Corte costituzionale ha via  via affinato la tecnica per individuare i fattori indicativi dell’assenza dei  presupposti di straordinaria necessità e urgenza. Esistono ulteriori presupposti  stabiliti dall’articolo 15 della legge n.400 del 1988 si segnalano: il divieto per il  Governo di ricorrervi al fine di conferire deleghe legislative; di intervenire nelle  materie per le quali è prevista la riserva di assemblea; di regolare rapporti sorti  sulla base di decreti-legge non convertiti. Già l’articolo 72 stabiliva che alcune  materie possono essere regolate solo con procedimento legislativo ordinario. Vi è,  inoltre, il divieto di adottare decreti-legge che ripristino l’efficacia di disposizioni  dichiarate incostituzionali per vizi sostanziali. Nel caso succedesse si  incorrerebbe in una violazione del cosiddetto giudicato incostituzionale, protetto  dall’articolo 136 Cost. Un ulteriore divieto consiste nel non rinnovare disposizioni  di precedenti decreti di cui sia stata negata la conversione in legge. Nel caso  succedesse verrebbe violata la natura stessa del decreto-legge quale strumento  di eccezione. Il decreto-legge, inoltre, deve introdurre misure di immediata  applicazione e che abbiano contenuto specifico e omogeneo. Sarebbero illegittimi  decreti-legge che introducessero discipline ad efficacia differita nel tempo o per  la cui effettiva operatività si rende necessaria l’approvazione di ulteriori atti  normativi. La giurisprudenza ha, però, ritenuto di tenere in considerazione i casi  in cui il decreto, nonostante si fondi su criteri di urgenza, per qualche aspetto  abbia risultato necessariamente differito.  Quanto alla necessità di omogeneità, non è inusuale l’inserimento di norme  riguardanti molteplici materie. Questa tecnica normativa si è rivelata in alcuni  casi preordinata proprio a mascherare una violazione dell’articolo 77. In presenza  di una norma eterogenea rispetto a titolo e contenuto del decreto può essere  sintomatica del suo essere sprovvista dei requisiti di necessità e urgenza.   B. Il procedimento di approvazione e di conversione del decreto legge ​→ Il  decreto-legge deve essere adottato su deliberazione del Consiglio dei ministri,  presentato al PdR per l’emanazione e immediatamente pubblicato in Gazzetta  Ufficiale. Grazie alla pubblicazione il decreto entra in vigore. Il giorno stesso il  Governo è tenuto a presentare al Parlamento previa autorizzazione del PdR, un  36 disegno legge di conversione. Si tratta di un disegno con un solo articolo  generalmente. L’articolo 77 stabilisce che le Camere si devono riunire entro 5  giorni. Senato e Camera prevedono nei loro regolamenti procedimenti particolari  per la conversione dei decreti per garantire un tempestivo esame.   Una volta che viene presentato il disegno di legge di conversione possono  accadere tre cose: il Parlamento non esaurisce l’iter legislativo di conversione  entro 60 giorni, oppure il Parlamento non approva la legge di conversione o  ancora il Parlamento approva la legge di conversione entro 60 giorni. Nelle prime  due ipotesi il decreto-legge decade e perde i suoi effetti fin dall’inizio. Il decreto è  da intendersi come mai adottato. Il Parlamento può approvare un’apposita legge,  detta legge di sanatoria, finalizzata a regolare i rapporti sorti durante la vigenza  del decreto. Nell’ultima ipotesi, invece, gli effetti solo provvisoriamente prodotti  dal decreto vengono stabilizzati nell’ordinamento. In sede di conversione le  Camere possono apportare modifiche alla disciplina originaria del decreto, ma  senza inserire norme del tutto eterogenee rispetto all’oggetto e alle finalità del  decreto stesso. In questo caso, comunque, le modifiche apportate hanno effetto  ex nunc, più precisamente, a partire dal giorno successivo. Si tratta di una  questione controversa, soprattutto per il fatto che alcune norme soppresse o  sostituite sono un implicito rifiuto di alcune disposizioni. In questo caso le  modifiche approvate dal Parlamento comportano la perdita di efficacia, sin  dall’inizio, della specifica norma del decreto da considerarsi non convertita.   C. Il controllo sugli abusi nella decretazione d’urgenza ​→ : La giurisprudenza  costituzionale è intervenuta più volte a sanzionare prassi chiaramente distorsive  del dettato costituzionale, sia per abusi commessi dal Governo che dal  Parlamento. La Corte ha chiarito che i presupposti sanciti nell’articolo 77 sono da  considerarsi requisiti di valutazione costituzionale del decretolegge. Ma perché si  configuri un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge la carenza dei  requisiti deve risultare evidente. In questo modo, il giudizio della Corte non rischia  di sovrapporsi alle valutazioni di natura prettamente politica che spettano in un  primo momento al Governo e in un secondo momento al Parlamento. La Corte ha  poi ulteriormente chiarito che il suo sindacato può estendersi anche alla legge  che abbia convertito un decreto-legge sprovvisto di requisiti. È una questione  importante visto che la Corte difficilmente ha il tempo di scrutinare il  decreto-legge prima della conversione. Con la sentenza n.171 del 2017 ha  definitivamente chiarito il proprio orientamento in materia, dando prevalenza alla  tesi secondo cui i vizi del decreto-legge si trasformano in vizi in procedendo della  legge di conversione, non essendo quest’ultima affatto idonea a sanarli.   Un secondo ambito su cui la Corte ha esercitato il controllo è quello relativo alla  omogeneità delle modifiche apportate dal Parlamento. In effetti, la tendenza a  modificare molto il contenuto originario pone molte perplessità. La Corte, per la  prima volta nel 2012, ha sanzionato simile pratica, affermando che il Parlamento  non può inserire nel testo emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità  del decreto-legge. Questo comporterebbe, infatti, una violazione dell’articolo 77  che fissa un nesso di interrelazione funzionale tra decreto e legge di conversione  caratterizzata da un iter di approvazione peculiare. Infatti, l’iter può durare al  massimo 60 giorni e la discussione ne risulta sacrificata, ma questo periodo non  può essere usato per altri fini, quali l’approvazione di norme intruse che nulla  hanno a che fare con la disciplina dettata dal Governo.   Questa prassi aggira la Costituzione.   In passato i Governi, inoltre, hanno dato luogo ad una forma di abuso della  decretazione d’urgenza che oggi è stata quasi del tutto arginata. Si tratta della  37 funzionamento di organi costituzionali non possono essere sottoposte a  referendum totale, bensì solamente a referendum parziale. Questo alla sola  condizione che la normativa risultante dall’eventuale esito positivo sia  autosufficiente, cioè idonea a consentire la formazione degli organi in questione e  che essi possano svolgere le loro funzioni.     Esistono anche dei referendum cosiddetti “manipolativi” che riguardano singole parole o  parti di frasi prive di significato autonomo. La Corte costituzionale ha cercato di  tracciare i confini tra manipolazione ammissibile e manipolazione inammissibile.  Risultano essere inammissibili quei quesiti parziali che, nell’abrogare frammenti di una  disposizione mirano ad introdurre norme del tutto estranee al contesto normativo  previgente. Questi quesiti vengono anche detti propositivi e sotto le mentite spoglie  dell’abrogazione sono volte a creare un nuovo diritto attraverso uno strumento che ha  un altro fine. In definitiva, il criterio elaborato dalla Corte costituzionale è volto a  escludere l’ammissibilità dei referendum manipolativi che danno luogo alla creazione di  norme nuove, prima sconosciute nell’ordinamento. Un esempio: è stata dichiarata  inammissibile la richiesta di abrogazione parziale della legge n. 223 del 1990 recante la  disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato che mirava a rideterminare il  limite quantitativo degli introiti pubblicitari della rete pubblica stravolgendo, secondo la  Corte, la ratio originaria della norma.   La Corte, invece, ritiene ammissibili i referendum manipolativi che, pur incidendo  inevitabilmente sull’ordinamento mirano solo ad espandere principi e regole già  incorporati nella legislazione vigente. Un esempio è la sentenza n. 32 del 1993 che ha  ritenuto ammissibile un referendum parziale sul sistema elettorale del Senato  eliminando il riferimento alla soglia del 65%, abbandonando cioè il criterio proporzionale  che veniva sostituito con un sistema maggioritario (solo parzialmente corretto dal  criterio proporzionale): ciò senza giungere alla creazione di un sistema completamente  sconosciuto alla legge oggetto di abrogazione parziale. Il criterio maggioritario, infatti,  era già presente.   I referendum manipolativi ammissibili investono solitamente le leggi costituzionalmente  necessarie. La necessità di lasciare in vita una normativa che assicuri il funzionamento e  la continuità degli organi costituzionali di fatto rende quasi obbligata la strada della  manipolazione.     La giurisprudenza, però, non si ferma a porre dei limiti sulle leggi non passibili di  referendum, ma pone dei limiti anche ai quesiti che si possono sottoporre ai cittadini. In  particolare, è richiesta l’omogeneità del quesito e che venga formulato in maniera tale  per cui risulti univoco, non essendo ammissibili quesiti che contengano più domande  prive di matrice razionalmente unitaria. È indispensabile, infatti, che l’elettore possa  esprimersi singolarmente su ciascuna questione. Un esempio: con la sentenza n.28 del  1981 la Corte ha dichiarato inammissibile la proposta di abrogazione di 31 articoli del  Codice penale. Gli elettori avrebbero potuto volere l’abrogazione solo di alcune norme  sottoposte al voto e non di altre: la formulazione del quesito, però, precludeva questa  possibilità.   Successivamente, sempre la Corte costituzionale si è spinta anche oltre pretendendo  che il quesito rispettasse i requisiti di chiarezza, coerenza, completezza ed esaustività e  verificando che il risultato finale del referendum coincidesse con gli intenti dei  promotori.     c. Fase dell’indizione ​→ L’indizione del referendum avviene con decreto del  Presidente della Repubblica previa delibera del Consiglio dei ministri. La data  40 viene fissata in un periodo compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno. Ma se una volta  indetto il referendum accade che le Camere vengano sciolte anticipatamente, il  referendum viene sospeso e i termini ricominciano a decorrere alla scadenza di  un anno dallo svolgimento delle elezioni. Se le elezioni avvengono dopo il 15  giugno il referendum può slittare di due anni perché il termine del 15 giugno per il  referendum è indefettibile.   L’articolo 39 della legge n.352 del 1970 regola il caso in cui, prima che si svolga il  referendum, il Parlamento intervenga ad abrogare o modificare con una propria  legge, quella oggetto del referendum. Questa norma tocca uno degli aspetti più  importanti del rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. La  Corte ha, però, chiarito che “se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni  cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa  materia senza modificare né i principi della disciplina preesistente né i contenuti  normativi essenziali dei singoli precetti” il referendum deve svolgersi comunque  sulle nuove disposizioni legislative.   d. Fase della votazione ​→ Perché il referendum sia valido occorre che partecipino al  voto la metà più uno degli aventi diritto e perché il quesito sia approvato che si  pronunci in maniera positiva la metà più uno dei votanti. La previsione del  quorum di validità ha la funzione di impedire che una minoranza possa decidere  di abrogare le leggi votate dal Parlamento. Il graduale abbassamento del livello di  partecipazione del popolo alla vita politica si è trasformato negli ultimi anni in un  ostacolo all’efficacia di tale istituto. Facendo leva su questa disaffezione e sul  raggiungimento del quorum, le forze politiche contrarie alla richiesta  referendaria hanno avuto peraltro buon gioco di esortare all’astensione invece  che incitare a votare per il no.   e. Fase di proclamazione del risultato ​→ Se l’esito è positivo, il Presidente della  Repubblica lo dichiara con decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il Capo  dello Stato può ritardare l’abrogazione di al massimo 60 giorni dalla data di  pubblicazione e previa delibera del Consiglio dei ministri. La ratio è quella di  permettere al Parlamento, se ritiene, di intervenire per evitare il determinarsi di un  vuoto normativo per effetto dell’esito referendario. Dall’abrogazione referendaria  di una legge discende il divieto per il legislatore di approvare una legge analoga  a quella abrogata. La Corte ha stabilito che il vincolo si giustifica in virtù di una  prospettiva integrata degli strumenti di democrazia diretta nel sistema della  democrazia rappresentativa delineato dalla Costituzione. Non è ad oggi chiaro  per quanto tempo duri questo vincolo nei confronti del Parlamento. Se, invece,  l’esito è negativo il Ministro di Giustizia ne dà notizia sulla Gazzetta Ufficiale e  inoltre, ai sensi della legge n.352 del 1970 non è possibile effettuare richiesta di  referendum analogo per cinque anni. Questo vincolo opera solo nel caso in cui  sia stato raggiunto il quorum.    Tenendo conto di tutti questi aspetti si capisce perché il referendum abrogativo sia un  atto avente forza di legge, in grado di abrogare proprio leggi o atti aventi forza di legge.  Si tratta di una fonte atto perché espressione della manifestazione di volontà  proveniente da un soggetto (il corpo elettorale) cui una norma di riconoscimento  demanda il potere di abrogazione. Da un punto di vista formale, gli effetti del  referendum potrebbero dirsi “unidirezionali”: in caso di esito positivo, infatti, l’effetto è la  sola abrogazione di norme o parti di norme. L’istituto referendario non consente, invece,  di introdurre nell’ordinamento una nuova disciplina voluta dal corpo elettorale. Inoltre,  va tenuto conto che l’abrogazione non comporta semplicemente il venir meno di una  data norma, ma ha come conseguenza una sostanziale modifica del sistema normativo  41 preesistente; il vuoto lasciato dalla norma abrogata costringe l’interprete a cercare la  disciplina della materia in disposizioni legislative dal contenuto diverso. L’effetto  innovativo è evidente nel caso di referendum abrogativi parziali che lasciano in vigore  una normativa di risulta dal significato differente rispetto a quello originariamente  voluto dal Parlamento.     14. ​I REGOLAMENTI PARLAMENTARI   I regolamenti parlamentari sono gli atti che dettano, per ciascuna delle Camere di cui si  compone il Parlamento la disciplina di organizzazione e funzionamento delle attività che  esse sono chiamate a svolgere. Con essi sono stabilite le regole di comportamento di  deputati e senatori, le regole di organizzazione degli organi interni a ciascuna camera, le  regole con cui detti organi operano, le regole che riguardano i rapporti di ciascuna  Camera con il proprio personale dipendente e anche con soggetti esterni. L’articolo 64  della Costituzione stabilisce che ciascuna camera adotta il proprio regolamento a  maggioranza assoluta (garanzia per le minoranze politiche presenti) dei suoi  componenti. Questo potere di autoregolamentazione è ritenuto la massima espressione  dell’autonomia delle Camere rispetto agli altri poteri dello Stato. I regolamenti  parlamentari sono qualificabili come fonti del diritto e, in particolare, come fonti  primarie. Si tratta di fonti a competenza riservata: infatti, nella materia che la  Costituzione ad essi riserva è precluso alla legge e a qualsiasi altra fonte di intervenire.   I regolamenti e le leggi si trovano sullo stesso piano gerarchico e i loro rapporti si  dispiegano in forza del criterio di competenza. Una questione molto dibattuta riguardo  essi concerne l’impossibilità che essi siano sindacati dalla Corte costituzionale per  eventuali violazioni. La stessa Corte ha escluso che i regolamenti possano costituire, al  pari delle altre leggi, oggetto del giudizio di costituzionalità. Ciò per due ragioni: 1) non si  tratta di fonti annoverabili nella categoria degli atti aventi forza di legge che l’articolo  134 stabilisce siano passibili di controllo di costituzionalità e 2) perché una diversa  interpretazione urterebbe contro il sistema che vede in posizione centrale proprio le  Camere, cui spetta una indipendenza nei confronti di qualsiasi altro potere. Infine, va  segnalato che qualora una legge venga approvata senza rispettare uno o più norme  previste dai regolamenti, non sarà possibile far valere tale vizio in un giudizio di  costituzionalità. Questo poiché il regolamento parlamentare stesso non può fungere da  parametro. L’unica eccezione si ha quando la norma regolamentare violata costituisca la  sostanziale riproduzione di una norma costituzionale relativa al procedimento.     SEZ. III - FONTI STATUTARIE E FONTI PRIMARIE REGIONALI   15. ​LEGGI STATUTARIE DELLE REGIONI ORDINARIE  Gli Statuti delle 15 regioni ordinarie sono riconducibili alla categoria delle fonti atipiche  o leggi statutarie regionali. Da un lato, esse sono sovraordinate alle fonti di legislazione  ordinaria regionale e dall’altra sono subordinate alla Costituzione. Gli Statuti e le leggi  regionali sono fonti tra loro ordinate gerarchicamente; la prima prevale sulla seconda.  Lo Statuto si colloca al vertice delle fonti regionali e, ai sensi dell’articolo 123 Cost., sta ad  esso delineare la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione della  Regione. Si tratta di una sorta di Costituzione regionale. Anche il procedimento di  approvazione dello Statuto regionale è diverso e più complesso rispetto a quello usato  per approvare una legge regionale. L’articolo 123 Cost stabilisce che la legge statutaria  sia approvata con due deliberazioni successive, adottate ad intervallo non minore di due  mesi e che per entrambe occorra la maggioranza assoluta. Lo Statuto viene poi  pubblicato a fini meramente notiziali e può: entro 30 giorni essere impugnato dal  Governo per sottoporlo al controllo di costituzionalità o entro tre mesi essere oggetto di  una richiesta di referendum. I soggetti abilitati a presentare tale richiesta sono una  42 legislativa sulla quale poggiare la disciplina regolamentare, a meno che non si  consideri l’articolo 17 della legge 400 del 1988 come una sorta di autorizzazione  generale. Questo, però, non eliminerebbe il problema del principio di legalità  perché è necessario qualcosa in più di una mera autorizzazione in bianco,  servirebbe una legge che individui le materie nelle quali i regolamenti  indipendenti potrebbero intervenire. Il problema teorico è molto ridimensionato in  virtù del fatto che esistono pochissime materie sulle quali non sia intervenuta una  legge.   - Regolamenti di organizzazione ​→ Essi intervengono a disciplinare tutto ciò che  riguarda il personale, le strutture, il funzionamento dei pubblici uffici, nel rispetto  della legge. In materia, infatti, esiste una riserva di legge relativa.  - Regolamenti autorizzati ​→ vengono detti anche regolamenti delegati o di  delegificazione. Essi sono adottati sulla base di leggi che delegano un successivo  regolamento ad intervenire in materie che non siano coperte da riserva di legge  assoluta. La legge che autorizza l’adozione di tali regolamenti deve fissare i  principi generali della materia e dispone che l’entrata in vigore delle norme  regolamentari comporta l’abrogazione delle norme di leggi vigenti. Deve  intendersi però, che tale abrogazione sia disposta dalla legge che autorizza  l’adozione del regolamento. Infatti, se l’abrogazione dipendesse dal regolamento  verrebbe violata la regola secondo cui la fonte abrogante non può essere di  rango superiore a quella che si pretende di abrogare violando il principio di  legalità. Attraverso l’utilizzo di questa tipologia di regolamenti si cerca di porre un  rimedio al fatto che nel nostro ordinamento la maggior parte delle regole  giuridiche è contenuta in leggi. La sostituzione di leggi con regolamenti consente  di semplificare il procedimento necessario ad aggiornare le discipline normative  perché occorre la meno complessa procedura di approvazione di un regolamento  rispetto a quella di un atto legislativo. Sono regolamenti autorizzati quelli abilitati  dalla legge n. 127 del 1997 che ha introdotto la semplificazione delle regole sulla  documentazione amministrativa.   - Regolamenti ministeriali ed interministeriali ​→ essi sono adottati dal singolo  Ministro o dai Ministri che si occupano delle materie oggetto del regolamento ed  assumono la forma di Decreto ministeriale o di Decreto interministeriale. Come i  regolamenti governativi occorre il parere del Consiglio di Stato e il controllo di  legittimità della Corte dei conti. Di tali atti deve darsi comunicazione al Presidente  del Consiglio che potrebbe decidere di sospenderne l’adozione per rimetterla alla  decisione del Consiglio dei ministri.    - Regolamenti della Pubblica Amministrazione ​→ : sono quelli che l’articolo 4 delle  Preleggi definisce “di altre autorità” e sono espressivi di un potere esercitabile  dalle singole pubbliche amministrazioni nelle rispettive competenze. Non possono  comunque dettare norme contrarie a quelle governative.    SEZ. V - FONTI SECONDARIE REGIONALI E DELLE AUTONOMIE LOCALI  18. ​REGOLAMENTI REGIONALI  Le Regioni hanno titolo per approvare anche regolamenti, fonti del diritto che si  posizionano al di sotto delle leggi regionali. La Costituzione prevede direttamente tale  potere all’articolo 117 in cui è stabilito che le Regioni possono adottare un regolamento in  tutte le materie in cui esse hanno competenza legislativa concorrente o residuale.  Viceversa, nelle sole materie di competenza legislativa esclusiva statale spetto allo Stato  anche la relativa funzione regolamentare. In assenza di disposizioni costituzionali  espresse, la Corte costituzionale ha ritenuto che sia lo Statuto regionale, nel definire la  forma di governo, a indicare se i regolamenti debbano essere adottati dall’organo  45 legislativo o dall’organo esecutivo. Prima della riforma costituzionale del 1999, l’articolo  121 Cost. attribuiva questo potere al solo Consiglio regionale.     19. ​ATTI NORMATIVI DEGLI ENTI LOCALI  L’articolo 114 della Costituzione stabilisce che i comuni, le Province e le Città  Metropolitane sono “enti autonomi con propri Statuti, poteri e funzioni secondo i principi  fissati dalla Costituzione” e, inoltre, l’articolo 117 sancisce che questi enti hanno potestà  regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle  funzioni loro attribuite. Per individuare i rispettivi ambiti di competenza e la procedura di  adozione è necessario riferirsi a delle leggi statali, la n. 131 del 2003 e al d.lgs. n. 267 del  2000. Per gli statuti si stabilisce che questi hanno la competenza a fissare le norme  fondamentali dell’organizzazione dell’ente, nonché ad intervenire su altri profili di ordine  istituzionale o a garantire il rispetto di alcuni diritti e principi cardine. Per l’approvazione  dello Statuto è richiesto al Consiglio dell’ente locale di seguire un procedimento speciale  volto a garantire un consenso ampio. I regolamenti hanno invece competenza a  disciplinare più specificamente l’organizzazione dell’ente locale, nonché a dare regole  sullo svolgimento e la gestione delle funzioni ad esso conferite.     SEZ. VI - ALTRE FONTI  20. ​CONSUETUDINI  Le consuetudini sono fonti-fatto in quanto non corrispondenti ad una manifestazione di  volontà normativa proveniente da un organo. Sono fonti non scritte e quindi non  trovano sede in una disposizione normativa.  Per il riconoscimento di una consuetudine occorrono due elementi:  1. costante ripetersi nel tempo di un comportamento tenuto dai membri di una  comunità  2. convinzione di coloro che assumono come proprio quel comportamento che esso  sia giuridicamente obbligato (opinio iuris ac necessitatis)  affinché un comportamento regolarmente tenuto dai consociati integri una  consuetudine e, quindi, una regola di diritti, occorre che vi sia il convincimento  collettivo della sua rilevanza giuridica.  Nel nostro ordinamento, la consuetudine ha un rango variabile.  Esistono quindi:  - CONSUETUDINI INTERNAZIONALI​ ​→ regole di comportamento osservate, perché  ritenute obbligatorie, non da soggetti qualsiasi, ma dalla generalità degli Stati e  che entrano nel nostro sistema normativo con lo stesso rango dell’​art. 10 Cost.​,  quindi di fonte costituzionale  - CONSUETUDINI COSTITUZIONALI​ → comportamenti tenuti da organi  costituzionali in ambiti in cui non esiste una disciplina costituzionale puntuale,  cosicché le consuetudini costituzionali ne integrano il contenuto.  → principi e regole non scritti, manifestati e consolidatisi attraverso la ripetizione  costante di comportamenti uniformi (o comunque reti da comuni criteri, in  situazioni identiche o analoghe)    - CONVENZIONI COSTITUZIONALI  In presenza di una lacuna nella Cost. può succedere che gli organi costituzionali  raggiungano un accordo, per lo più tacito su come operare, senza essere giuridicamente  vincolati.  Se il comportamento tenuto sulla base di tale accordo si consolidasse e subentrasse la  convinzione di osservare una regola vincolante, la convinzione si trasformerebbe in  consuetudine costituzionale.   46 Il rango costituzionale che assumono talune consuetudini dovrebbe condurre a ritenere  che leggi ordinarie approvate in violazione delle stesse siano affette da un vizio di  costituzionalità censurabile.   - USI  Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti, gli usi hanno efficacia solo in quanto  sono da essi richiamati.  Nel nostro ordinamento non sono ammesse consuetudini contra legem, che dispongano,  cioè, in difformità rispetto a quanto stabilito dalle leggi e dai regolamenti.  Sono invece configurabili consuetudini secundum legem, cui rinviano di volta in volta  specifiche norme di legge o di regolamento.  Sono inoltre ammesse consuetudini praeter legem, che possono cioè intervenire nei  settori che non siano stati già regolati dal diritto scritto.      21. ​CONTRATTI COLLETTIVI DEL LAVORO  L’art. 39 Cost., nel riconoscere la libertà di organizzarsi in sindacati, prefigura la  possibilità che essi si registrino presso degli uffici pubblici, alla condizione che i propri  statuti configurino un ordinamento interno a base democratica.  La conseguenza della registrazione consiste nell’acquisizione da parte dei sindacati di  personalità giuridica e nella facoltà di stipulare con le rappresentanze delle imprese  contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle  categorie alle quali il contratto si riferisce.  L’obiettivo del costituente era di lasciare in parte la regolazione dei rapporti di lavoro  all’autonomia negoziale delle categorie direttamente interessate.  La Corte cost. ha chiarito che l’autonomia collettiva non può dal legislatore essere  annullata o compressa nei suoi esiti concreti, a meno che la legge non intervenga per  prevedere un trattamento più favorevole per i lavoratori oppure a salvaguardia di  superiori interessi generali.  I contratti collettivi rispondono ad un modello di normazione del tutto peculiare.   Essi sono riconducibili alla dimensione privatistico-negoziale, ma allo stesso tempo, la  capacità loro imputata di estendere la propria portata precettiva oltre le parti  contraenti, vincolando tutti coloro che rientrano nella categoria lavorativa coinvolta, fa  di esse delle vere e proprie fonti del diritto.  Lo schema ideale descritto nella disposizione costituzionale è rimasto inattuato →  perchè un sindacato possa stipulare contratti con effetti generali occorre che sia  registrato.    Prima:  → legge n. 751 del 1959 delegava il Governo ad emanare decreti legislativi che,  nell’individuare i minimi inderogabili di trattamento economico e normativo validi per  tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, di fatto ricevevano gli accordi  collettivi stipulati → questa legislazione è stata poi dichiarata incostituzionale in sede di  reiterazione  Oggi:  → i contratti collettivi sottoscritti tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le  rappresentanze dei datori di lavoro sono riconducibili a contratti di diritto comune, che  dovrebbero vincolare solo gli iscritti ai sindacati dei lavoratori    I datori di lavoro si attengono alle regole stabilite nei contratti collettivi che stabiliscono  i livelli minimi di tutela del lavoratore, potendo solo derogarvi in melius.  47 La seconda tipologia di fonti internazionali è costituita dalle norme di diritto  internazionale pattizio (trattati o convenzioni). I trattati internazionali sono fonti scritte  che vincolano unicamente quei Paesi che li abbiano sottoscritti e ratificati. Il  procedimento che porta alla formazione di un trattato internazionale si articola in più  fasi. La prima fase è quella dei negoziati, che si concludono con la stipula dell’accordo  da parte di un rappresentante del Governo. La seconda fase è quella che porta alla  ratifica del trattato con la quale lo Stato dichiara di aderire al testo della convenzione.  La terza è quella che, passando per lo scambio tra gli Stati interessati dei rispettivi  strumenti di ratifica, fa sorgere la responsabilità di tipo internazionale degli uni nei  confronti degli altri. L’ultima fase, quella dell’ordine di esecuzione, determina invece la  produzione di effetti giuridici della fonte internazionale all’interno del sistema. Le ultime  due fasi sono disciplinate da ciascun ordinamento secondo regole proprie. Nel nostro  ordinamento rilevano gli articoli 80 e 87 Cost. Quest’ultimo articolo assegna al PdR la  competenza a ratificare, mediante proprio decreto, i trattati internazionali. L’articolo 80  Cost. specifica che tale ratifica deve essere autorizzata con legge del Parlamento  quando essa riguardi trattati “che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o  regolamenti giudiziari o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o  modificazioni di leggi”. La legge deve essere approvata in maniera ordinaria e non può  essere abrogata tramite referendum. L’ordine di esecuzione è contenuto nella stessa  legge di autorizzazione alla ratifica del trattato. Se la materia non rientra negli ambiti  delineati dall’articolo 80 Cost. il Presidente della Repubblica potrà direttamente  procedere alla ratifica del trattato.   Talvolta gli accordi internazionali vengono ratificati dall’ordinamento anche in forma  semplificata. Questo si verifica quando la fonte internazionale si perfeziona e produce  effetti senza una ratifica del Capo dello Stato, ma con la mera conclusione dell’accordo  da parte di un rappresentante del Governo. Quindi, il rinvio per le fonti internazionali  pattizie è fisso. Il recepimento, infatti, non si riferisce alla fonte internazionale in sé  considerata, ma alla specifica disciplina in essa prevista. Successive correzioni  necessitano di una nuova apposita procedura di recepimento. Il rango delle fonti  pattizie si determina guardando la fonte interna che ha provveduto all’adattamento:  avranno rango legislativo solo nel caso in cui vi sia stata autorizzazione alla ratifica da  parte di una legge ai sensi dell’articolo 80 Cost.  La Corte costituzionale con sentenza n.348 e 349 del 2007 ha chiarito che le fonti  internazionali pattizie, nonostante siano recepite mediante fonte legislativa, godono di  una maggiore forza di resistenza rispetto alle leggi ordinarie. Esse, cioè, pur essendo  subordinate alla Costituzione italiana si collocano in una posizione intermedia tra  questa e le fonti primarie. Si parla quindi di norme interposte. Qualora in giudizio si  rinvenga un conflitto tra norma statale e internazionale si dovrà sollevare questione di  legittimità costituzionale. Il giudice, però, non potrà in alcun modo procedere alla  disapplicazione della norma interna, essendo indispensabile l’intervento della Corte  costituzionale. Allo stesso tempo, però, la Corte ha anche chiarito che nell’ipotesi in cui la  stessa dovesse collidere con precetti della Costituzione, ad essa spetterebbe il compito  di espungerla dall’ordinamento giuridico. Secondo una recente visione sarebbe  necessario differenziare la posizione dei trattati internazionali ratificati su base di  autorizzazione legislativa e quelli ratificati attraverso fonti subordinate. Solo per i  trattati approvati con legge si applicherebbe il principio di cui alle sentenze n. 348 e 349.  Gli altri trattati, invece, non potrebbero in alcun modo fungere da norma interposta,  perché ciò significherebbe togliere al Parlamento limiti rispetto ai quali questo non  abbia avuto modo di esprimersi.   La CEDU è un atto di diritto internazionale pattizio recepito in Italia tramite legge che  presenta delle peculiarità. Esso ha consacrato in un catalogo i diritti fondamentali della  50 persona e ha istituito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a cui è demandato il compito  di interpretarne e applicarne le disposizioni. Le disposizioni della CEDU vivono nel  significato che questa le attribuisce, con la conseguenza che il giudice italiano che  riscontri un’antinomia tra una disciplina interna e una norma della CEDU, prima di  sollevare questione di legittimità dovrà tentare di interpretare la disciplina nazionale  conformemente alla CEDU. Con la sentenza n. 120 del 2018 la Corte costituzionale ha per  la prima volta esteso il meccanismo anche ai rapporti tra leggi italiane e Carta Sociale  Europea che fungerebbe da parametro interposto ai sensi dell’articolo 117 Cost. perché,  elencando dei diritti sociali, andrebbe a completare la CEDU. Però è stato stabilito che le  pronunce del Comitato Sociale non vincolano i giudici nazionali nell’interpretazione  della Carta.     SEZ. VIII - FONTI DELL’UNIONE EUROPEA  26. ​INTRODUZIONE: L’UNIONE EUROPEA  Il primo atto di costituzione dell’Europa fu l’adozione del Trattato di Parigi del 1951 che  istituiva la CECA – Comunità Europea Carbone Acciaio e dei due Trattati di Roma del 1957  (EURATOM- Comunità Europea Energia Atomica e CEE – Comunità Economica Europea).  Successivamente nel 1992 venne adottato il Trattato di Maastricht, integrato nel’97 dal  Trattato di Amsterdam. Nel 2000 a Nizza, invece, viene ratificata la Carta dei Diritti  Fondamentali dell’Unione Europea che sin da subito ha consentito l’estensione alla  tutela dei diritti umani i confini dell’impegno degli Stati Europei. L’ultimo importante atto  della costruzione di questa comunità è stato il Trattato di Lisbona del 2007. Esso ha  allargato gli ambiti entro i quali gli Stati si assoggettano a regole comuni e ha  incrementato il tasso di democraticità dei processi decisionali. Il trattato di Lisbona è  intervenuto riformulando i trattati istitutivi dell’Unione Europea che ad oggi risultano  essere due: il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione  Europea. Allo stesso tempo si è comunque lontani dal poter parlare di una vera e  propria Costituzione europea e, anzi, le istituzioni europee si trovano in un momento di  forte crisi come la vicenda della Brexit. Attualmente fanno parte dell’Ue 28 Stati e nella  sua struttura essenziale gli organi che compongono l’UE sono: il Parlamento europeo  eletto dai cittadini, il Consiglio dell’Unione Europea di cui fanno parte i rappresentanti  dei Governi degli Stati membri, la Commissione europea nel quale siede un componente  per ogni Stato, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea che si compone di un giudice  per ogni Stato. I primi due organi detengono il potere legislativo, il terzo è l’organo che  più somiglia ad un esecutivo, mentre la Corte di Giustizia ha il compito di garantire il  rispetto, da parte degli Stati membri e delle stesse istituzioni comunitarie, del diritto  dell’Unione Europea.     27. ​FONTI DELL’UNIONE EUROPEA  Il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea cataloga materie di competenza  cosiddette esclusive dell’Ue, come la concorrenza o la politica monetaria; altre di  competenza concorrente dell’Ue rispetto a quella degli Stati membri, come l’ambiente o i  trasporti; altre ancora di solo sostegno dell’Ue all’azione degli Stati membri, come il  turismo o l’istruzione. I trattati istitutivi fanno parte del cosiddetto diritto primario, le  norme successivamente prodotte dall’unione Europea sono il cosiddetto diritto derivato  o secondario. Il diritto primario è posto al vertice del sistema normativo comunitario. I  trattati infatti si occupano di delineare la struttura e l’articolazione istituzionale  dell’Unione, di individuare gli ambiti entro i quali hanno competenza a produrre diritto le  istituzioni comunitarie e le procedure di approvazione. Il diritto derivato si deve attenere  a quello primario, pena il possibile intervento della Corte di Giustizia che ha il compito di  51 far prevalere i trattati. Sono annoverabili nel diritto secondario i regolamenti, le direttive,  le decisioni, le raccomandazioni e i pareri.   I regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono  direttamente applicabili in tutti gli Stati membri. Quindi, affinchè un regolamento  produca effetti giuridici nel nostro ordinamento non è richiesto alcun atto di  trasposizione interno. Le direttive vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto  riguarda i risultati da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali  in merito alla forma e ai mezzi. Le direttive non sono subito applicabili e non riguardano  i cittadini, bensì gli Stati Ue che vengono impegnati a uniformarsi entro un limite stabilito  ad un obiettivo di carattere generale, attraverso l’adozione di proprie discipline  normative. Gli effetti giuridici si producono solo in un momento successivo, una volta che  un atto legislativo nazionale abbia provveduto a dare attuazione alla direttiva con una  disciplina puntuale capace di applicarsi ai casi concreti. Anche le direttive, però, sono ad  effetti diretti e quindi, il cittadino potrà rivendicare nei confronti dello Stato il rispetto  dei diritti che la direttiva ha previsto. Questo vale anche qualora la direttiva non sia ad  effetti diretti perché non incondizionata. La decisione è obbligatoria in tutti i suoi  elementi e se sono disegnati dei destinatari è obbligatoria solo nei loro confronti. Si  tratta di atti immediatamente applicabili ma con specifici destinatari. Infine, le  raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti, sollecitano solamente uno Stato ad  orientare le proprie politiche verso un obiettivo o esprimono un parere su una materia. Il  loro richiamo è utile a fini interpretativi. Questi atti godono di un primato reso possibile  dalla scelta dell’Italia di cedere all’UE parte della propria sovranità. Un secondo criterio  che può essere usato per distinguere le fonti è quello che riguarda gli effetti prodotti  dalle fonti stesse. Esistono fonti immediatamente applicabili e non immediatamente  applicabili. Le prime non necessitano di una attuazione sul piano normativo nazionale e  sono pertanto capaci di vincolare immediatamente i loro destinatari. Le seconde, invece,  in ragione del fatto che si limitano a indicare gli obiettivi da raggiungere richiedono che  gli Stati membri provvedano a dettagliarne i contenuti. Quando una fonte di diritto  dell’Unione Europea presenta una formulazione completa, chiara e puntuale, essa ha  effetti diretti e laddove ne derivi un diritto in capo a un cittadino questi potrà invocarne  il rispetto dinanzi a un giudice anche in assenza di una norma nazionale di recepimento.     28. ​PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA NELLA COSTITUZIONE E I  CONTROLIMITI  L’ordinamento comunitario in forza degli articoli 11 e 117 si vede riconosciuto uno statuto  giuridico del tutto particolare che gli consente di avere prevalenza sul diritto nazionale.  Questi articoli esprimono la volontà dello Stato Italiano di cedere una parte del proprio  potere a vantaggio di quest’organizzazione internazionale. Nella Costituzione del 1948  non era stato previsto il processo di avviamento dell’Unione Europea, quindi a posteriori  si ritenne di poter ricondurre l’ordinamento UE all’ambito applicativo dell’articolo 11 che  prescrive: “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità  necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuove  e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Un fondamento esplicito  è, però, ora contenuto nell’articolo 117, norma che ha imposto alla legislazione nazionale  e regionale di attenersi ai vincoli “derivanti dall’ordinamento comunitario” oltre che agli  obblighi internazionali. Il primato del diritto comunitario si esplica in maniera immediata  laddove si rinvenga un contrasto tra una legge italiana e una norma del diritto UE  direttamente applicabile, il giudice dovrà procedere esso stesso alla disapplicazione  della norma interna a vantaggio di quella comunitaria. Il meccanismo di risoluzione delle  antinomie utilizzato per la generalità dei trattati internazionali si applica nei confronti  del diritto dell’Unione Europea soltanto quando l’antinomia si produca rispetto ad una  52 atteggiarsi nel momento della presentazione agli elettori. Ogni minima modifica può  determinare effetti diversi e può spostare in modo significativo il bilanciamento tra  governabilità e rappresentatività. In Italia le forze politiche spesso inseguono modifiche  alla legge elettorale anche sulla base di una convenienza del momento, legata ai  possibili esiti delle elezioni stesse.     3. ELEZIONE DEL PARLAMENTO ITALIANO: DAL PROPORZIONALE AL  MATTARELLUM  In Costituzione non c’è alcuna scelta legata al sistema elettorale: i Costituenti decisero di  riservare tale disciplina alla legge ordinaria nella convinzione che non fosse conveniente  irrigidire il sistema elettorale che poteva necessitare di modifiche rapide, in ragione dei  cambiamenti nella situazione politica. Vi sono, però, degli elementi che lasciano  ipotizzare la preferenza dei Costituenti per un sistema di tipo proporzionale. In  Costituzione, a parte gli artt. 56 e 58, l’unica norma che disciplina le modalità di elezione  del Parlamento è l’articolo 57 Cost. che dispone che l’elezione dei componenti del Senato  deve avvenire su base regionale, quindi, in questo caso le circoscrizioni sono regionali.   I Costituenti decisero con due leggi ordinarie (n.6 e n.29 del 1948) di adottare per  entrambi i rami del Parlamento sistemi elettorali proporzionali senza correttivi. In questo  modo i partiti politici presero sempre più piede diventando il centro della politica. Tra la  fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 la centralità dei partiti subì una forte crisi dovuta  da molteplici fattori: contribuì il mutamento globale con il conseguente affievolirsi delle  ideologie che avevano caratterizzato il dopoguerra, ma soprattutto la causa si deve  rinvenire nei comportamenti degli stessi partiti. Questi videro, sempre con maggior  frequenza, molti dei loro principali esponenti finire al centro di episodi di corruzione  gravi. In questa prospettiva i sistemi proporzionali rimasero in vigore fino a quando, nel  1993, con un referendum abrogativo in cui votò il 77% degli aventi diritto, i cittadini  decretarono la fine della stagione proporzionale. Il corpo elettorale abrogò le norme  della legge n.29 del 1948 per il Senato. Contestualmente i cittadini si espressero anche  per la sostituzione del sistema proporzionale con un sistema misto prevalentemente  maggioritario.  Con le leggi n.276 e n.277 del 1993, il Parlamento modificò le leggi elettorali per l’elezione  della Camera e del Senato. Il nuovo sistema elettorale venne denominato Mattarellum,  dal nome del suo proponente. Il sistema previsto era misto, ma prevalentemente  maggioritario, analogo al sistema elettorale determinatosi per il Senato all’esito del  referendum. Questo sistema prevedeva che: sia alla Camera che al Senato il 75% dei  seggi venisse attribuito in collegi uninominali nei quali veniva applicato il sistema  maggioritari. Il restante 25% dei seggi veniva, invece, ripartito con alcuni correttivi (soglia  di sbarramento al 4% a livello nazionale per la Camera e l’applicazione dello scorporo)  su base proporzionale. Lo scorporo prevede che i voti risultati decisivi per ottenere il  seggio nel collegio uninominale non venissero conteggiati dalla lista cui apparteneva il  vincitore del collegio ai fini dell’applicazione alla quota proporzionale. In questo modo  dovevano essere favoriti i partiti minori che si sarebbero avvicinati al quoziente  elettorale della forza vincitrice. In realtà, il sistema non funzionò per la presenza di liste  civetta. I partiti invece di collegare i candidati nel sistema maggioritario alla lista che  avrebbe partecipato al proporzionale, collegavano i candidati nel maggioritario a liste  fittizie. Così facendo i partiti che si presentavano al proporzionale non risultavano aver  vinto il collegio uninominale e partecipavano al proporzionale senza la decurtazione dei  voti legata allo scorporo.   Questo sistema elettorale è stato applicato alle elezioni del 1994, 1996 e 2001. La  configurazione ha influenzato il contesto politico che ha visto i partiti politici orientarsi  verso un sostanziale bipolarismo. In questi anni ci fu una positiva alternanza tra le forze  55 politiche al potere che ha consentito una maggiore stabilità dei governi rispetto al  sistema proporzionale.      4. STAGIONE DEL PROPORZIONALE CON PREMIO DI MAGGIORANZA E LA SUA  INCOSTITUZIONALITÀ  Con la legge n.270 del 2005 il sistema elettorale venne modificato significativamente e si  decise di tornare a un sistema proporzionale caratterizzato da alcuni correttivi che lo  hanno reso ad effetti sostanzialmente maggioritari.   Vennero previste soglie di sbarramento al 4% alla Camera e 8% al Senato per le liste  singole, mentre per le coalizioni erano previste soglie rispettivamente al 2% e al 3%. Era,  inoltre, previsto un significativo premio di maggioranza, pari al 55% dei seggi per la lista  non coalizzata o per la coalizione che avesse ottenuto il maggior numero di voti, ma non  sufficienti per ottenere autonomamente il 55%, con l’obiettivo di garantire una maggiore  governabilità. Il voto avveniva poi tramite liste bloccate lunghe che consentivano  all’elettore il voto per la sola lista senza che questi potesse indicare la preferenza per  uno o più candidati e la possibilità dei candidati di candidarsi in più circoscrizioni.   Da subito, però, questo sistema elettorale fu oggetto di critiche tanto la legge venne  definita con l’epiteto di Porcellum, secondo la qualificazione (“porcata”) che ne aveva  dato lo stesso ideatore Calderoli. L’obiettivo principale che la maggioranza di  centro-destra si era posta alla vigilia delle elezioni del 2006 era quello di rendere incerta  a vittoria dello schieramento di centro-sinistra che i sondaggi davano in testa. Ma in  effetti, il metodo di assegnazione del premio di maggioranza risultò sin da subito  irragionevole, rendendo difficoltosa la governabilità. Infatti, alla Camera il premio era  attribuito su base nazionale e consentiva di ottenere ad una lista 340 seggi, mentre al  Senato il premio veniva distribuito su base regionale. In ogni regione, tranne che in Valle  d’Aosta, Trentino e Molise era a disposizione un premio regionale che consentiva di  ottenere il 55% dei seggi messi in palio in ogni singola Regione. Nelle singole Regioni il  premio poteva venire conseguito da liste tra loro diverse, la somma dei tanti piccoli  premi di maggioranza regionali non restituiva necessariamente un premio di  maggioranza a livello nazionale. Quindi si concretizza un rischio che la forza politica che  avesse ottenuto la maggioranza alla Camera dovesse confrontarsi con una situazione  precaria al Senato dovendo fronteggiare una situazione di ingovernabilità. Questa  situazione si è verificata in due occasioni su tre: nel 2006 e nel 2013.   Inoltre, il premio di maggioranza riconosciuto qualunque fosse la percentuale  conseguita alle elezioni è stata oggetto di rilievi costituzionali concentrati sull’effetto  distorsivo che tale premio determinava rispetto all’effettivo numero di voti ricevuti.  Questo è stato riscontrato alle elezioni del 2013 in cui tre partiti si sono suddivisi in  maniera uniforme i voti, ma lo schieramento di centro-sinistra alla Camera ha potuto  contare sul 55% dei seggi pur avendo ottenuto meno del 30%.   Un’altra critica riguarda la previsione delle liste bloccate perché espressione di  autoreferenzialità di partiti politici che scelgono i candidati senza sottoporli al voto dei  cittadini. Nonostante ci fossero innumerevoli richieste il Parlamento non è stato in grado  di modificare la legge fino a quando la Corte costituzionale non si è pronunciata  dichiarando incostituzionali diverse parti con la sentenza n.1 del 2014. In particolare, è  stato stabilito che il premio di maggioranza ha prodotto “eccessiva divaricazione tra la  composizione dell’organo e la volontà dei cittadini”, proprio in virtù del fatto che il  premio veniva assegnato senza che fosse raggiunta una soglia minima di voti. Tutto ciò è  stato ritenuto contrario al principio di eguaglianza del voto sancito dall’articolo 48 Cost.  che stabilisce che “ciascun voto contribuisca con pari efficacia alla formazione degli  organi elettivi”. Ed, inoltre, il premio di maggioranza su scala regionale poteva “vanificare  il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza  56 parlamentare e del Governo”. Con la stessa sentenza sono state dichiarate  incostituzionali anche le lunghe liste bloccate di candidati che violavano nuovamente  l’articolo 48 Cost. perché la scelta veniva rimessa unicamente ai partiti.     5. ITALICUM  La vicenda della legge elettorale si è intrecciata con quella della riforma costituzionale  Renzi-Boschi bocciata col referendum del 2016. Tra gli elementi centrali della revisione  costituzionale vi era la riforma del Senato, i cui membri non sarebbero più stati eletti  direttamente dai cittadini, ma dai Consigli Regionali. Nella convinzione che la riforma  sarebbe entrata in vigore e che, quindi, non sarebbe stata più necessaria una legge  elettorale per il Senato, il Parlamento approvava la legge n.52 del 2016 che riformava la  legge elettorale della sola Camera. La legge venne dichiarata parzialmente  incostituzionale.   Nella sua versione originale l’Italicum prevedeva un sistema proporzionale,  eventualmente a doppio turno, con un correttivo maggioritario. La legge prevedeva  l’assegnazione di un premio di maggioranza per la lista vincitrice, se avesse conseguito  al primo turno almeno 40% dei consensi tale da garantire almeno 340 seggi. Nel caso in  cui non si fosse raggiunto il 40% al primo turno si sarebbe svolto un secondo turno che  avrebbe visto sfidarsi in ballottaggio le due liste che avevano conseguito il maggior  numero di voti al primo turno per assegnare il premio. Un’altra caratteristica prevedeva  una soglia di sbarramento del 3% su base nazionale. Le liste erano formate da un  capolista bloccato candidabile al massimo in dieci collegi diversi e da altri candidati  sottoposti al voto di preferenza degli elettori. Questi ultimi avrebbero potuto esprimere  al massimo due preferenze purchè di due candidati di sesso diverso.   Il capolista poi sarebbe stato sempre il primo ad essere eletto. Nel caso in cui la lista  avesse guadagnato più seggi all’interno del collegio, questi seggi sarebbero stati  attribuiti ai candidati con il maggior numero di preferenze.   Con la sentenza n.35 del 2017 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcuni  elementi: il premio di maggioranza ottenuto a seguito del ballottaggio e la possibilità del  capolista risultato eletto in più collegi di scegliere il collegio di elezione. Secondo la  Corte una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito al primo  turno un consenso esiguo e ottenere il premio. L’effetto distorsivo, anche se al turno di  ballottaggio, è dunque analogo a quello che la stessa Corte costituzionale aveva  censurato nella sentenza n.1 del 2014. Vengono sacrificati eccessivamente i principi  costituzionali di rappresentatività ed uguaglianza del voto. L’altro elemento dichiarato  incostituzionale incide irragionevolmente sulle scelte effettuate dagli elettori con le  preferenze. La Corte ha stabilito che in caso di pluri-elezione, la scelta del collegio di  elezione sarebbe dovuta avvenire a seguito di un sorteggio.     6. ROSATELLUM  Alla fine del 2017 con lo scopo di evitare il ritorno alle urne con due leggi elettorali  diverse per la Camera e per il Senato, il Parlamento ha approvato una nuova legge  elettorale: la legge n.165 del 2017 denominata col nome di Rosatellum in ragione del  relatore Ettore Rosato. Se il legislatore non fosse intervenuto, le elezioni del 2018  sarebbero state regolate al Senato con la legge n.270 del 2005 così come determinata  all’esito della sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014 e alla Camera della legge  n.52 del 2015, anch’essa depurata dagli elementi di incostituzionalità rilevati dalla  sentenza n.35 del 2017.  La legge n.165 del 2017 introduce un sistema elettorale misto a prevalenza proporzionale.  Sia alla Camera che al Senato poco più di un terzo dei seggi viene assegnato su base  maggioritaria in collegi uninominali. I restanti seggi sono invece assegnati con metodo  57 - Autonomia regolamentare​ → trova fondamento nell’articolo 64 che afferma che  ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei  componenti. Questo articolo conferisce autonomia ad entrambi i rami del  Parlamento singolarmente considerati. Non sono ammesse ingerenze neppure da  parte della Camera nei confronti del Senato e viceversa. L’articolo 64 Cost. va  letto in correlazione con l’articolo 72 che attribuisce ai regolamenti parlamentari il  compito di disciplinare, nel rispetto della Costituzione, le modalità con cui  ciascuna Camera può approvare le leggi. Ogni competenza attribuita dalla  Costituzione alle Camere deve trovare nei regolamenti parlamentari le indicazioni  relative alla modalità di esercizio. I regolamenti parlamentari disciplinano tutto  ciò che concerne l’organizzazione e il funzionamento delle Camere per quanto  non sia già direttamente disciplinato dalla Costituzione. Sono ambiti di  competenza molto ampi: proprio la possibilità di regolamentarli in modo  esclusivo, senza alcuna interferenza da parte di altri poteri, evidenzia il rilievo  dell’autonomia del Parlamento. Entrambe le Camere, poi, sono dotate di altri  regolamenti definiti “minori” volti a disciplinare alcune specifiche attività del  Parlamento o delle sue articolazioni. Sono equiparabili ai regolamenti generali in  quanto approvati con le stesse maggioranze. Oltre a questi vi sono, poi, alcuni  “regolamenti di amministrazione” che disciplinano ambiti interni alle Camere come  ad esempio i regolamenti di contabilità, dei servizi e del personale ecc.   - Autonomia organizzativa e funzionale ​→ con questo tipo di autonomia si intende  la possibilità delle Camere di organizzarsi liberamente con riferimento a tutto  quanto attiene all’articolazione interna dei propri organi e allo svolgimento delle  proprie funzioni. Questa forma di autonomia è conseguenza dell’autonomia  parlamentare.    - Immunità della Sede ​→ impedisce alla forza pubblica di entrare all’interno delle  sedi parlamentari senza che vi sia sul punto un ordine del Presidente di  Assemblea. In questa rientra il divieto per tutte le persone estranee al Parlamento  di introdursi nell’Aula dove siedono i parlamentari. Inoltre, nessuna autorità  estranea può far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al  Parlamento e ai suoi organi.  - Autonomia finanziaria e contabile ​→ grazie a questo tipo di immunità le Camere  possono gestire, senza alcuna interferenza esterna, i fondi che annualmente  vengono loro riservati. Neppure, la Corte dei conti può verificare la modalità con  cui i fondi sono utilizzati. Le Camere hanno appositi regolamenti di  amministrazione e contabilità in cui sono delineate le regole di spesa, di  rendicontazione e di controllo interno.  - Autodichia ​→ si tratta della cosiddetta giustizia domestica, in virtù della quale  spetta alle Camere non solo il compito di adottare i provvedimenti relativi alla  carriera giuridica ed economica dei propri dipendenti, ma anche quello di  risolvere in via definitiva le eventuali controversie. Quest’ambito di autonomia ha  fatto sorgere molte critiche. I dipendenti delle Camere non possono rivolgersi ad  un giudice per risolvere le controversie col datore di lavoro, ma devono fare  ricorso presso organi interni alle Camere stesse. Il giudice costituzionale ha  ribadito di non poter verificare la legittimità costituzionale dei regolamenti  parlamentari nell’ambito del giudizio sulle leggi, ma successivamente ha chiuso la  questione in senso favorevole alle Camere, partendo dalla premessa che  l’autonomia normativa riconosciuta dall’articolo 64 Cost. “logicamente investe  anche gli aspetti organizzativi”. Se le Camere hanno allora il potere di darsi regole  speciali inerenti l’organizzazione, quindi anche il rapporto coi dipendenti,  altrettanto deve riconoscersi l’autonomia nell’interpretazione e applicazione delle  60 stesse regole. Affidare a un giudice comune la cognizione delle controversie  significherebbe dimezzare la stessa autonomia che si è inteso garantire. Inoltre,  secondo la Corte costituzionale gli organi di autodichia interni alle Camere  risultano comunque oggi assistiti da sufficienti garanzie di indipendenza e  imparzialità.   (leggere pag. 213 - evoluzione dei regolamenti parlamentari)      10. AUTONOMIA DELLE CAMERE NELLA VERIFICA DEI POTERI  L’ultimo ambito di autonomia si ricava dall’articolo 66 Cost. secondo cui ciascuna  camera giudica i titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di  ineligibilità e di incompatibilità. Si tratta della cosiddetta verifica dei poteri, cioè del  procedimento con cui Camera e Senato controllano: se coloro che sono stati eletti  avevano titolo per conseguire la carica di deputato o senatore e se a seguito di eventi  verificatisi durante la legislatura, deputati e senatori possono continuare a mantenere la  carica parlamentare.   I candidati che risultano eletti vengono proclamati deputati dall’ufficio circoscrizionale  centrale o senatori dall’ufficio elettore regionale. La comunicazione viene trasmessa alla  Camera e al Senato. La posizione dell’eletto non è, però, definitiva fino a quando la  Camera d’appartenenza non effettua la convalida dell’elezione prevista dall’articolo 66  Cost. Le Camere, infatti, svolgono due diversi controlli: verificano che le operazioni  elettorali si siano svolte correttamente e accertano che gli eletti siano titolari della  capacità elettorale passiva e siano in possesso, quindi, dei requisiti di eleggibilità,  compatibilità e candidabilità. Il procedimento si suddivide in due fasi: prima la Giunta  delle elezioni effettua il cosiddetto controllo di delibazione che consiste nella verifica dei  documenti elettorali. Al termine di questo controllo, la Giunta propone all’Assemblea la  convalida o la contestazione dell’elezione. Nel caso di proposta di convalida  dell’elezione, l’Assemblea ne prende atto, senza neppure sottoporre tale proposta al  voto. Qualora, invece, la Giunta proponga la contestazione dell’elezione si apre il  cosiddetto giudizio di contestazione. Questo giudizio prevede una seduta pubblica in cui  si apre un contradditorio orale tra l’eletto contestato e gli altri interessati al giudizio  stesso. All’esito della discussione la Giunta decide e propone l’annullamento dell’elezione  o la sua convalida. La decisione definitiva dovrà essere presa dall’Assemblea: i  regolamenti di Camera e Senato presentano qualche differenza. Al Senato, l’Assemblea  voterà solo qualora vi sia una richiesta da parte di 20 senatori. In caso contrario la  proposta della Giunta si intenderà approvata. Alla Camera, invece, lo stesso  procedimento vale solo per questioni legate “ad accertamenti numerici”; negli altri casi,  invece, il voto è sempre previsto. L’eventuale annullamento dell’elezione non ha effetto  retroattivo, quindi non ci sono conseguenze sull’attività del parlamentare precedenti  all’annullamento della convalida.  Il secondo tipo di controlli concerna la verifica delle cause sopraggiunte di ineleggibilità  e incompatibilità. Si tratta di accertare la sopravvenienza, a legislatura già cominciata,  di eventuali cause preclusive alla permanenza in carica del parlamentare. Si tratta dei  cosiddetti giudizi sulle cause di decadenza. Il procedimento è identico a quello  esaminato per le ineleggibilità originarie. La Giunta formulerà la proposta di decadenza  o meno. Contro le decisioni delle Camere sulla validità delle elezioni e sulla sussistenza  di cause di ineleggibilità e incompatibilità non sono ammessi ricorsi di alcun tipo. Se  l’obiettivo è quello di garantire sovranità e autonomia alle Camere, è anche vero che tale  obiettivo urta contro un altro diritto garantito nell’ordinamento, che è quello di un  giudice terzo e imparziale. Bisogna, però, ricordare che i procedimenti per la verifica dei  poteri possono qualificarsi alla stregua di vere e proprie controversie giudiziarie che  61 richiederebbero un vero e proprio giudice terzo e imparziale. Queste due caratteristiche  non sono conosciute dalle Camere che a volte potrebbero essere indotte a prendere  decisioni sulla base di convenienze politiche. Per questo ci si interroga sull’eventuale  modifica dell’articolo 66 Cost. che possa attribuire ad un organo imparziale la  competenza di decidere.    SEZ. IV - LO STATUS DEL PARLAMENTARE  11. IL DIRITTO DI ELETTORATO PASSIVO E LE SUE LIMITAZIONI  È necessario analizzare quali siano le condizioni richieste per accedere alla carica di  parlamentare. L’articolo 51 Cost. sancisce il diritto di tutti i cittadini di accedere alle  cariche elettive in condizioni di eguaglianza. L’articolo 65 stabilisce che è la legge statale  ad avere il compito di determinare i casi di ineleggibilità e incompatibilità. A queste due  limitazioni, con il d.lgs n.235 del 2012, si aggiunge anche la condizione di incandidabilità.   L’ineleggibilità è la condizione, che a causa di un impedimento giuridico, non consente  ad un candidato di essere eletto parlamentare. L’eventuale elezione deve essere  annullata dalla Camera di appartenenza. Una delle ragioni di ineleggibilità è l’età,  mentre le altre cause sono indicate nel d.p.r n.361 del 1957 e hanno l’obiettivo di tutelare il  corretto svolgimento delle consultazioni elettorali. Secondo la norma non sono eleggibili:  i titolari alcune cariche elettive, come i presidenti delle Giunte provinciali e i sindaci dei  Comuni con popolazione superiore ai 20000 abitanti e i titolari di alcuni pubblici uffici,  come i magistrati, il capo e il vice capo della polizia, gli ispettori generali di pubblica  sicurezza, i prefetti, i viceprefetti e gli ufficiali delle Forze Armate dello Stato. Per queste  categorie di soggetti, l’ineleggibilità si giustifica con il fine di impedire che il candidato  possa in qualche modo alterare la par condicio fra i vari concorrenti attraverso la  possibilità di esercitare una captatio benevolentiae o un metus publicae potestatis nei  confronti degli elettori. Si vuole solo evitare che gli elettori siano indotti a votare questo  tipo di candidati per vedersi attribuiti privilegi in virtù della carica elettiva che essi  hanno. Nel secondo caso, invece, si vuole evitare che si votino alcuni soggetti per  scongiurare eventuali ritorsioni. Il voto non sarebbe più libero e verrebbe meno la  condizione di eguaglianza dei candidati prevista dall’articolo 51 Cost. Le cause di  ineleggibilità, però, non sono ostative all’elezione parlamentare qualora i soggetti  interessati cessino di esercitare le funzioni relative alla carica ricoperta almeno 180  giorni prima della fine della legislatura. In caso di scioglimento anticipato delle Camere,  la cessazione deve avvenire entro i 7 giorni successivi al decreto di scioglimento.   Ancora, sono ineleggibili: coloro che intrattengono con lo Stato rapporti di carattere  economico. Questo per evitare che tali soggetti, una volta eletti, possano farsi promotori  di leggi volte a favorire la loro situazione economica in conflitto di interessi con lo Stato.  Inoltre, non sono eleggibili i diplomatici e tutti coloro che lavorano nelle ambascerie e  nei consolati per evitare possibili interferenze di altri Stati. Anche il PdR e i giudici  costituzionali risultano essere ineleggibili.     L’incompatibilità è la condizione di chi, eletto parlamentare, e ricoprendo già un’altra  carica, deve scegliere se mantenere o acquisire il mandato parlamentare.  L’incompatibilità non rende nulla l’elezione ma obbliga il candidato eletto a effettuare  una scelta entro 30 giorni dalla proclamazione. Qualora non decida la Camera ne  dichiara la decadenza.  È incompatibile con la funzione di senatore quella di deputato e viceversa (art.65). Anche  le cariche di PdR, membro del CSM, consigliere regionale, assessore regionale, giudice  costituzionale sono incompatibili. Altre cause di incompatibilità sono previste da alcune  leggi, la n.60 del 1953 dispone che è incompatibile chi ricopre cariche e uffici di qualsiasi  specie in enti pubblici o privati per nomina o designazione del Governo. Più  62 articolo è stato comunque oggetto di revisione nel 1993. Ad oggi, l’inviolabilità si  configura come la generale impossibilità di essere arrestato o perquisito in assenza di  una specifica autorizzazione da parte della Camera a cui il parlamentare appartiene.  Questo regime trova una ragione di essere nella volontà di evitare la possibilità che  iniziative giudiziarie prive di fondamento o condotte dalla magistratura con un intento  persecutorio possano scardinare l’integrità della composizione del Parlamento. Ciò è  confermato dal fatto che l’autorizzazione non è richiesta in caso di condanna definitiva  o di rinvenimento in flagranza di reato, proprio in virtù del fatto che in questi due casi  l’azione giudiziale non può essere considerata frutto di un’improvvida azione giudiziaria  volta a perseguitare il parlamentare. A differenza dell’insindacabilità, l’inviolabilità cessa  alla fine del mandato.     L’originario articolo 68 era ancora più garantista perché prevedeva che il parlamentare  non potesse essere neppure sottoposto al processo penale, né arrestato in seguito a  condanna definitiva senza l’autorizzazione. La riforma del 93 avvenne in seguito all’uso  eccessivo e ingiustificato che il Parlamento fece di tale prerogativa soprattutto all’inizio  degli anni ’90 in cui vennero alla luce molti eventi di corruzione di cui furono protagonisti  parlamentari dell’epoca. La riforma del 1993 ha poi introdotto ex novo la previsione che  attribuisce al parlamentare in assenza di autorizzazione della Camera di appartenenza  di non vedere intercettate le sue conversazioni e di non vedere sequestrata la sua  corrispondenza. La legge n.140 del 2003 ha disciplinato anche il caso delle intercettazioni  indirette e casuali. Le prime riguardano intercettazioni operate su mezzi di  comunicazione di persone che abitualmente entrano in contatto con il parlamentare:  anche per queste è richiesta l’autorizzazione preventiva delle Camere. Le seconde,  invece, sono intercettazioni che, pur effettuate tra terze persone, riguardino  fortuitamente anche un parlamentare. La legge in questo caso richiede che venga  richiesta in via successiva l’autorizzazione all’uso giudiziario delle stesse. Qualora non  venga concessa l’autorizzazione, l’intercettazione che coinvolge il parlamentare dovrà  essere distrutta. La Corte costituzionale ha, però, chiarito che le intercettazioni casuali  possono comunque essere usate nei processi che riguardino la posizione di terze  persone coinvolte. L’impossibilità di essere intercettati rende impossibile per l’autorità  giudiziaria di ricorrere con utilità allo strumento delle intercettazioni perché una volta  ricevuta l’autorizzazione difficilmente il parlamentare commetterà imprudenze.    15. INDENNITA’  L’ultima prerogativa che concerne lo status del parlamentare è contenuta nell’articolo 69  Cost. ed è l’indennità la cui entità deve essere stabilita dalla legge. Le polemiche sono  molte a riguardo. L’indennità parlamentare netta è di circa 5000€ a cui si deve  aggiungere una diaria di rimborso spese per il soggiorno a Roma di massimo 3.500€  mensili. Inoltre, è previsto il rimborso spese di trasporto, telefoniche e quelle relative al  mandato. In questo modo viene consentito anche a chi non è titolare di rendite  indipendenti dallo svolgimento di un lavoro di diventare parlamentare. Se la carica fosse  gratuita sarebbero interessati a ricoprirla solo coloro che possono permettersi di vivere  senza lavorare.  In secondo luogo, però, la carica parlamentare deve interessare anche coloro che hanno  un buon reddito e che non sarebbero disposti ad abbandonare il loro lavoro per una  retribuzione minore. Considerando che le retribuzioni più alte nel mercato del lavoro  sono riservate alle professionalità più qualificate, un’indennità così alta mira anche a  voler interessare queste categorie. Inoltre, tale cifra consente al parlamentare di  svolgere la sua funzione in maniera indipendente senza condizionamenti esterni  accettati in ragione di una debolezza economica.   65   SEZ. V - ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLE CAMERE  16. PRESIDENTE D’ASSEMBLEA E UFFICIO DI PRESIDENZA  I principali organi delle Camere sono: il presidente di assemblea, l’ufficio di presidenza, i  gruppi parlamentari, la conferenza dei capigruppo, le Commissioni parlamentari e le  Giunte.   - Presidente → ​: è l’articolo 63 Cost. a stabilire che ciascuna Camera elegge fra i  componenti il Presidente e l’Ufficio di presidenza. I regolamenti di Camera e  Senato prevedono alcune differenze. Alla Camera il primo scrutinio è richiesta la  maggioranza dei 2/3 dei componenti; al secondo la maggioranza dei 2/3 dei  presenti e dal terzo scrutinio in poi è sufficiente la maggioranza assoluta. Mentre  al Senato nei primi due scrutini occorre la maggioranza assoluta dei componenti;  al terzo scrutinio occorre la maggioranza dei voti dei presenti. Se nessuno ha  ancora raggiunto la maggioranza si esegue un ballottaggio tra i due più votati al  terzo scrutinio. Il Presidente assolve a diverse funzioni sia all’interno della Camera  che all’esterno. Tra le funzioni di rilievo interno vi sono: la direzione dei lavori e  delle discussioni, programmazione dei lavori e definizione dei calendari,  interpretare e far rispettare i regolamenti e il potere disciplinare nei confronti dei  parlamentari. Mentre tra le funzioni di rilievo esterno si può richiamare l’articolo  88 Cost che stabilisce che i presidenti delle Camere devono essere sentiti dal PdR  prima dello scioglimento delle Camere stesse; il Presidente del Senato, inoltre, ha  funzione di supplenza del PdR nel caso in cui questi si trovi in una condizione di  impedimento temporaneo. Ancora, per consuetudine vengono consultati prima  della nomina del Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera, secondo  l’articolo 64, presiede il Parlamento in seduta comune. Nel mondo esistono tre  modelli con cui il Presidente dovrebbe esercitare le sue funzioni: come arbitro  imparziale ed è l’esempio dello Speaker britannico della Camera dei Comuni che  una volta eletto non intrattiene più alcun rapporto con il suo partito di  provenienza. Talvolta viene rieletto nonostante cambi il partito vincitore alle  elezioni successive. Nel modello statunitense, invece, lo Speaker è uno dei leader  del partito maggioritario ed è protagonista attivo nell’assicurare l’attuazione del  programma legislativo della maggioranza. Vi è poi un modello intermedio che è  quello francese perché si tratta di una figura che svolge con imparzialità le  funzioni che gli sono attribuite, ma che rimane comunque legato al partito di  maggioranza. In ogni caso, la configurazione concreta del Presidente di  Assemblea è influenzata anche dal sistema elettorale e dal contesto partitico in  cui opera.    In Italia dalla prima legislatura e fino alla fine degli anni 60 i Presidenti delle  Camere erano esponenti della DC, il partito di maggioranza. Facevano un uso  incisivo dei loro poteri e in questo modo avrebbero contribuito all’attuazione del  programma di governo. Poi, fino all’avvento del maggioritario, è cominciata la  prassi di nominare Presidente di uno dei due rami un esponente di spicco di un  partito non di maggioranza (Nilde Iotti, Pietro Ingrao, Napolitano e Pertini). Con il  sistema maggioritario o ad effetti maggioritari i Presidenti di entrambe le Camere  erano tornati ad essere eletti tra i membri dei partiti di maggioranza (almeno a  inizio legislatura). Più recentemente questa circostanza non si è più verificata,  infatti, solo in uno dei rami del Parlamento è stato eletto un esponente sostenitore  della maggioranza di Governo (Boldrini, Alberti Casellati). Da questo  ragionamento si deduce che risulta impossibile ricondurre ad uno dei tre modelli  di Presidente sopra citati. In generale si può affermare che i Presidenti pur non  avendo mai rinunciato a mantenere una loro connotazione politica fuori dal  66 Parlamento, abbiano comunque considerato l’imparzialità come una bussola da  seguire durante i loro mandati.   - Ufficio di Presidenza ​→ opera in ciascuna Camera con lo scopo di adiuvare il  Presidente ed è composto da 4 vicepresidenti che sostituiscono il Presidente in  caso di impedimento; otto segretari che collaborano col Presidente per garantire  il regolare andamento dei lavori e delle operazioni di voto; tre questori che si  occupano della gestione dei fondi e della predisposizione dei bilanci. La  competenza più rilevante è quella di deliberare le sanzioni disciplinari più gravi e  deve essere rappresentativo di tutti i gruppi parlamentari.  - Gruppi parlamentari ​ → Uno dei primi adempimenti cui sono chiamati i neoeletti è  la dichiarazione con cui segnalano a quale gruppo parlamentare vogliono  aderire. I regolamenti impongono che ciascun senatore o deputato faccia parte di  un gruppo. Attraverso la costituzione dei gruppi parlamentari i partiti svolgono le  loro attività all’interno del Parlamento. Alla Camera i gruppi devono essere formati  da almeno 20 deputati, mentre al Senato solo 10. Vige l’obbligo di formare solo  gruppi che rappresentino un partito o movimento politico che abbia presentato  alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno. Alla Camera,  invece, sono consentiti anche gruppi con meno di 20 deputati purchè  costituiscano la proiezione di un partito organizzato nel Paese. Qualora il  parlamentare non dichiari il gruppo o non venga raggiunto il numero necessario,  questi verrà assegnato al gruppo misto. Mentre ai senatori a vita è consentito non  far parte di nessun gruppo. I parlamentari durante la legislatura possono passare  da un gruppo all’altro o, alla Camera, formare nuovi gruppi a seconda delle  modifiche del contesto politico, mentre al Senato dal 2017 questa possibilità è  preclusa.  I gruppi al loro interno hanno un’organizzazione che prevede la presenza di un  presidente di gruppo (capogruppo), di uno o più vicepresidenti e, alla Camera, di  un comitato direttivo. I gruppi si dotano di regolamenti e dispongono di locali e  attrezzature e possono usufruire dei contributi erogati dalle Camere.   La Costituzione menziona i gruppi all’articolo 72 da cui si deduce che le  Commissioni Parlamentari e le Commissioni di Inchiesta sono composte in modo  da rispecchiare la proporzione dei gruppi stessi. Sono gli stessi gruppi ad  indicare quali componenti faranno parte delle varie Commissioni.   - Conferenza dei Capigruppo​ → Sono riservati ai presidenti dei diversi gruppi  poteri ulteriori. Questi insieme al Presidente d’Assemblea formano la Conferenza  dei Capigruppo, alla quale è riservato il compito di decidere la programmazione  dei lavori dell’aula, di decidere il calendario e l’ordine del giorno delle singole  sedute e la ripartizione dei tempi di intervento. Per consuetudine i capigruppo  partecipano alle consultazioni svolte dal PdR al fine di nominare il Presidente del  Consiglio.   - Commissioni parlamentari ​→ : i gruppi parlamentari provvedono a designare  quali membri andranno a comporre le Commissioni parlamentari che sono  formate rispecchiando la proporzione tra i gruppi. Si distinguono per  composizione e durata. Esistono, infatti, commissioni monocamerali o bicamerali  e commissioni temporanee o permanenti a seconda che restino in carica tutta la  legislatura o siano istituite soltanto per il periodo necessario ad assolvere i  compiti che vengono loro assegnati. Le Commissioni permanenti monocamerali  sono quelle richiamate all’articolo 72 con riferimento al procedimento di  approvazione delle leggi. Attualmente ci sono 14 Commissioni permanenti sia alla  Camera che al Senato. Ciascuna di queste svolge le sue funzioni con riferimento  alla materia di specifica competenza. Così, al Senato sono presenti le  67 ha cadenza giornaliera e viene predisposto dal Presidente sulla base del calendario e  viene comunicato al termine della seduta precedente.     21. ​FUNZIONE LEGISLATIVA  Ai sensi dell’articolo 70 Cost. “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due  Camere”. Questa funzione, però, non è di mero appannaggio del Parlamento. L’adozione  di atti aventi forza di legge spetta, infatti, al Governo. Il Parlamento riveste comunque  una funzione prevalente in questi procedimenti. Ma esiste anche la funzione legislativa  dei Consigli Regionali. Comunque, grazie all’approvazione delle leggi e delle leggi  costituzionali, il Parlamento svolge contemporaneamente anche la funzione di indirizzo  politico: in questo modo le Camere possono contribuire in modo decisivo alla  realizzazione degli obiettivi che lo Stato si pone.     22. ​FUNZIONE DI INDIRIZZO POLITICO  La funzione di indirizzo politico ha come scopo quello di determinare e perseguire le  linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento. I soggetti ai quali l’ordinamento  attribuisce la maggiore responsabilità della funzione di indirizzo politico sono Governo e  Parlamento, nella cui collaborazione e concorso tale funzione si svolge. Per  collaborazione si intende quella tra Governo e maggioranza parlamentare in particolar  modo. La funzione di indirizzo politico del Parlamento trova la sua origine  nell’approvazione della fiducia iniziale che il Parlamento stesso accorda al Governo con  mozione motivata. Durante la legislatura, il Parlamento attribuisce concretezza allo  svolgimento della funzione di indirizzo politico attraverso l’approvazione di mozioni,  risoluzioni e ordini del giorno. Un altro strumento è il voto sull’eventuale questione di  fiducia posta dal Governo. L’indirizzo politico può poi trovare concretizzazione  nell’approvazione da parte del Parlamento delle leggi. Tra le leggi che concorrono in  modo importante alla funzione di indirizzo politico c’è la legge di bilancio. Grazie ad essa  il Parlamento indica il modo con cui dovranno essere ripartite le risorse di cui lo Stato  stesso dispone grazie all’entrate tributarie. L’articolo 81, ad oggi, non contiene più il  divieto di stabilire nuove spese e tributi con la legge di bilancio. Quindi è proprio la  legge di bilancio, che non necessita più di un’altra legge finanziaria, a contenere tutte le  decisioni relative alle entrate e alle spese pubbliche. Inoltre, la legge costituzionale n. 1  del 2012 ha apportato all’articolo 81 anche un’importante modifica perché ha introdotto il  principio di pareggio di bilancio.   Gli altri atti con cui il Parlamento esplica la funzione di indirizzo politico durante la  legislatura sono le mozioni, le risoluzioni e gli ordini del giorno. Ma solo gli strumenti  fiduciari hanno conseguenze effettive rispetto alla sorte del Governo. Attraverso una  mozione un numero minimo di parlamentari mira ad aprire una discussione e a  promuovere una deliberazione dell’Assemblea su un determinato tema. Con  l’approvazione della mozione, il Parlamento invita il Governo ad agire in un determinato  modo su uno specifico tema. Con la risoluzione, invece, il singolo parlamentare può  manifestare un orientamento su un determinato tema e impegnare il Governo a  prendere i relativi provvedimenti. È usata per chiudere e riassumere un dibattito. Ancora,  il Parlamento può esercitare la sua funzione di indirizzo politico attraverso  l’approvazione di un ordine del giorno. Questo impegna il Governo ad adottare un  determinato indirizzo in futuro sulla materia oggetto della legge in discussione. Il  Parlamento, infine, può determinare anche l’esaurimento della funzione di indirizzo  politico presentando una mozione di sfiducia.     23. ​FUNZIONE DI CONTROLLO  70 La funzione di controllo può essere operata, nei confronti del Governo, sia dalle forze di  maggioranza sia da quelle di opposizione. Le prime possono verificare se l’azione  esecutiva svolta corrisponde a quella del programma su cui il Governo ha ricevuto la  fiducia. Nella prassi cercheranno sempre di mettere in luce il buon operato del Governo.  Le forze di opposizione possono utilizzare il controllo per verificare come il Governo  abbia affrontato questioni di interesse generale, all’evidente scopo di segnalarne  l’inadeguatezza.   Gli strumenti di controllo usati tradizionalmente sono: l’interrogazione e l’interpellanza.  Con l’interrogazione, qualsiasi parlamentare può con una domanda, chiedere per  iscritto al Governo informazioni o spiegazioni su una determinata questione al fine di  sapere se e quali provvedimenti il Governo abbia adottato o intenda adottare in merito.  Il Governo può rispondere per iscritto o oralmente, sia in aula che in Commissione.  Inoltre, allo scopo di rivitalizzare uno strumento poco rilevante, si è introdotta  l’interrogazione a risposta immediata (question time). Una volta alla settimana, alle  interrogazioni dei parlamentari viene data immediatamente la risposta dall’esponente  del Governo. Lo scambio avviene in tempi molto serrati (7/8 minuti) ed è generalmente  trasmesso in diretta televisiva. Secondo i regolamenti, lo stesso Presidente del Consiglio  dovrebbe partecipare al question time almeno una volta al mese alla Camera e ogni due  al Senato. Ma ciò si verifica molto raramente, rendendo meno efficace questo istituto.  Con l’interpellanza, invece, uno o più parlamentari possono chiedere al Governo le  ragioni che hanno portato ad assumere una determinata condotta su una determinata  questione. Il fatto oggetto dell’interpellanza è noto, a differenza dell’interrogazione, e  serve per obbligare il Governo a rendere pubbliche le ragioni delle sue azioni. Si  svolgono solo in Assemblea in ragione della loro rilevanza. La procedura prevede la  presentazione dell’interpellanza, il suo svolgimento in aula, la risposta del Governo, la  replica dell’interpellante e l’eventuale presentazione di una linea politica diversa da  quella del Governo. Le interpellanze rimangono spesse inevase e in generale questi  strumenti assurgono ormai a mere ritualità per via della più rapida circolazione delle  notizie.      24. ​STRUMENTI CONOSCITIVI DEL PARLAMENTO  La maggior parte della dottrina non riconosce una vera e propria funzione conoscitiva:  le Camere hanno strumenti che permettono loro di ottenere informazioni, ma  quest’attività non si svolge mai per un mero scopo conoscitivo, ma è sempre strumentale  all’esercizio delle funzioni precedentemente elencate. Ne fanno parte le interrogazioni e  le interpellanze, così come le inchieste parlamentari. Tra gli strumenti conoscitivi vanno,  infine, ricordate un’altra serie di attività utile all’esercizio della funzione legislativa:  richieste all’ISTAT; chiedere pareri al CNEL; chiedere informazioni alla Corte dei conti; di  deliberare in Commissioni indagini conoscitive e di svolgere audizioni con ministri e  funzionari della pubblica amministrazione.     CAP. 5 - IL GOVERNO   SEZ. I - FORMAZIONE DEL GOVERNO  1. INTRODUZIONE  La disciplina del Governo è contenuta in poche scarne regole agli artt 92-96 Cost. Quindi  per capire a pieno il funzionamento del Governo è necessario prendere in  considerazione le prassi e le consuetudini costituzionali formatesi nel corso del tempo.  Del resto, gli stessi Costituenti hanno riservato ad una legge la disciplina che ordina la  Presidenza del Consiglio e a individuare il numero e le attribuzioni dei Ministeri. In  Assemblea costituente il dibattito si incentrò sulle modalità di nomina del Presidente del  Consiglio e sul suo ruolo nella determinazione della politica generale. In ogni caso, il  71 Governo è l’organo costituzionale che determina l’indirizzo politico del Paese ed ha  titolarità di funzioni amministrative, ma è dotato anche di poteri normativi: adozione di  decreti-legge, decreti legislativi e regolamenti.      2. DISCIPLINA COSTITUZIONALE E LA PRASSI  L’articolo 92 stabilisce che il PdR nomina il Presidente del Consiglio e su proposta di  questo, i ministri. Il PdR esercita il potere di nomina del Governo a seguito delle elezioni  che si svolgono alla fine di ogni legislatura. Ma nel caso in cui il Governo presenti le  dimissioni prima del termine, il Capo dello Stato sarà chiamato a formare un nuovo  Governo. In questi casi si parla di crisi di Governo e il PdR prima di nominare un nuovo  Presidente del Consiglio dovrà mettere in atto delle attività non disciplinate dalla  Costituzione, ma che ormai sono prassi consolidata e hanno assunto il rango di  consuetudini costituzionali. Prima di tutto, il Presidente della Repubblica deve svolgere  delle consultazioni, durante le quali incontra i presidenti dei gruppi parlamentari, i  Presidenti delle Camere, gli ex Presidenti della Repubblica e qualsiasi altra figura  ritenuta opportuna per risolvere la crisi. Se la situazione è critica possono essere svolti  due o più cicli di consultazioni. Grazie al loro esito, il Capo dello Stato dispone di un  quadro della situazione politica e sarà in grado di sapere se può essere individuato un  soggetto capace di formare un Governo in grado di ottenere il sostegno di una  maggioranza parlamentare. Qualora, però, le consultazioni non siano state sufficienti a  individuare tale soggetto, il Presidente può fare ricorso a strumenti che gli permettano  ulteriori approfondimenti. In questo caso, il Capo dello Stato può affidare (non  necessariamente) un mandato esplorativo ad una personalità super partes, di solito il  Presidente della Camera o quello del Senato. Colui che riceve il mandato deve vagliare la  situazione politica attraverso ulteriori colloqui con i principali esponenti delle forze  politiche per poi individuare l’esistenza di un soggetto in grado di formare un Governo  che possa ottenere la maggioranza. Di solito, la figura a cui il PdR affida il mandato non  è la stessa persona a cui lo stesso Presidente pensa di affidare l’incarico di formare il  nuovo Governo. In alcuni casi, il Capo dello Stato può circoscrivere la portata del  mandato esplorativo richiedendo di individuare una particolare maggioranza. Nel 2018  questo è addirittura avvenuto all’inizio della XVIII legislatura, il Presidente Mattarella ha  affidato due mandati esplorativi, prima alla Presidente del Senato e poi al Presidente  della Camera per verificare l’esistenza di una maggioranza che potesse originare  dall’accordo di due forze politiche. Entrambi i mandati hanno avuto esito negativo.   In alternativa al mandato esplorativo può essere attribuito un pre-incarico già a colui al  quale ipotizza di conferire l’incarico di formare il Governo. Il preincaricato deve  comprendere se è in grado di coagulare una maggioranza che possa sostenere il  Governo che lui stesso dovrà presiedere. A questa categoria è riconducibile il  pre-incarico che Napolitano affidò all’On. Bersani nel 2013 per verificare l’esistenza di un  sostegno parlamentare certo, che consenta la formazione del Governo. La scelta tra i  due è dettata, oltre che dalla discrezione del PdR, anche dalla situazione politica del  momento.    Ma se neanche al termine di questa fase è stato possibile individuare nessun soggetto  da incaricare per formare il Governo, il Presidente della Repubblica dovrà sciogliere le  Camere. Si tratta comunque di un processo fluido e flessibile con cui il Capo dello Stato  può gestire la situazione anche concedendo molto tempo alle forze politiche per  individuare la formazione di un Governo. All’inizio della XVIII legislatura sono occorsi 89  giorni, due mandati esplorativi e innumerevoli consultazioni che hanno poi portato alla  formazione del Governo Conte.     72 siedono sia il Presidente del Consiglio che i singoli ministri. Gli organi non necessari dello  Stato sono stati introdotti prima per via di prassi e poi con la legge n.400 del 1988 che ne  ha dettato una disciplina unitaria. Servono a rendere funzionale l’attività di Governo,  anche se la scelta di istituirli è volta a regolare gli equilibri politici delle coalizioni  governative. La legge ha fissato a 65 il numero massimo dei componenti del Governo,  compresi i ministri senza portafoglio, sottosegretari e viceministri. Questi organi sono:   - Vicepresidente del Consiglio ​→ in caso di assenza o impedimento temporaneo del  Presidente del Consiglio, ha funzioni suppletive. Viene spesso nominato nei  Governi di coalizione per dare rilievo anche ad un partito diverso a quello che  esprime il Presidente. Possono essere nominati anche più vicepresidenti; la  proposta spetta al Presidente e la delibera al Consiglio. Qualora non venga  designato si tratta del ministro più anziano.  - Ministri senza portafoglio ​→ si tratta di ministri non preposti ad un ministero, ma  responsabili di un dipartimento della Presidenza del Consiglio o incaricati di  svolgere funzioni delegate dal Presidente. Essi siedono a pieno titolo in Consiglio  e vengono quasi sempre nominati: il ministro agli affari regionali e per i rapporti  col Parlamento. La nomina di questi spetta al PdR su proposta del Presidente del  Consiglio.  - Sottosegretari di Stato ​→ possono essere nominati per coadiuvare il singolo  ministro, ma non partecipano alle riunioni. Svolgono i loro compiti tramite delega.  Possono intervenire, in qualità di rappresentanti del Governo, alle sedute delle  Camere e delle Commissioni, al fine di sostenere la discussione secondo le  direttive del ministro e rispondere a interrogazioni e interpellanze. Questi  vengono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del  Consiglio di concerto col ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare.  - Viceministri​ → si tratta di sottosegretari cui vengono conferite deleghe relative  all’intera area di competenza. Possono partecipare al Consiglio dei ministri, se  invitati dal Presidente del Consiglio, ma senza diritto di voto. Non possono essere  in numero superiore a 10.  - Commissari Straordinari​ → vengono nominati qualora si renda necessario  realizzare specifici obiettivi o nel caso si presentino particolari e temporanee  esigenze di coordinamento tra amministrazioni statali. Sono comunque incarichi  temporanei la cui durata è contenuta nel decreto di nomina.   - Consiglio di Gabinetto​ → può adiuvare il Presidente del Consiglio nell’esercizio  delle sue competenze costituzionali. È composto dai soli ministri designati dal  Presidente del Consiglio.   - Comitati Interministeriali​ → sono organi collegiali in cui si riuniscono solo quei  ministri dotati di competenze trasversali sulla materia oggetto del comitato.  Hanno natura permanente e sono generalmente istituisti con legge che ne  stabilisce composizione e competenze.  - Comitati di ministri​ → possono essere istituiti dal Presidente del Consiglio al fine  di esaminare in via preliminare questioni di comune competenza, di esprimere  parere su direttive dell’attività di Governo e su problemi di rilevante importanza  da sottoporre al Consiglio. Questi comitati non adottano atti di rilevanza esterna,  mentre quelli interministeriali possono farlo.     5. COMPETENZE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E  DEI MINISTRI  L’Assemblea costituente non riuscì a trovare una soluzione condivisa e, quindi, il testo  presenta un’indiscussa ambiguità. Un ruolo chiave venne sicuramente giocato dal  timore, alla luce dell’esperienza fascista appena trascorsa, di attribuire eccessivi poteri  75 al Presidente del Consiglio. Secondo l’articolo 95 Cost. “il Presidente del Consiglio dirige  la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico  ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.   I ministri a loro volta “sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio e  individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Secondo la maggior parte della dottrina è,  però, possibile desumere dallo stesso articolo che, se il Presidente ha il compito di  dirigere la politica generale del Governo, il Consiglio dei ministri è l’organo deputato a  definirne i contenuti. In altre parole, il potere di direzione della politica generale è ben  diverso dal potere di decidere sul merito delle scelte politiche che impegnano tutto il  Governo. Ma solo con la legge n.400 del 1988 il legislatore è intervenuto a chiarire il  disposto costituzionale: confermato il potere di decisione collegiale del Consiglio, sono  stati individuati alcuni strumenti in grado di garantire un più efficace potere di  coordinamento e di direzione del Presidente.   Questa legge indica quali sono i compiti del Consiglio: deve determinare la politica  generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa. Inoltre, deve  deliberare su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario  con le Camere e dirimere eventuali conflitti di attribuzione. Spetta al Consiglio la parola  definitiva su tutti i disegni di legge e su tutti gli atti normativi; sugli atti che lo Stato può  essere chiamato a compiere nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali e sulle  linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria.   Quanto alle funzioni del Presidente del Consiglio la legge conferisce al Presidente il  compito di:  - Indirizzare ai ministri le direttive politiche ed amministrative in attuazione delle  deliberazioni del Consiglio dei ministri  - Coordinare e promuovere l’attività dei ministri in ordine agli atti che riguardano  la politica generale del Governo  - Eventualmente sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti in  ordine a questioni politiche e amministrative, sottoponendoli al Consiglio dei  ministri  - Concordare coi ministri interessati le pubbliche dichiarazioni che intendono  rendere ogni volta che possano impegnare la politica generale del Governo  - Adottare le direttive per assicurare l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza  degli uffici pubblici e promuovere le verifiche necessarie  - Promuovere l’azione dei ministri per assicurare che le aziende e gli enti pubblici  svolgano la loro attività secondo gli obiettivi indicati dalle leggi che ne  definiscono l’autonomia  - Esercitare le attribuzioni conferitegli dalla legge in materia di servizi di sicurezza  e di segreto di Stato  - Disporre l’istituzione di particolari Comitati di ministri   - Disporre la costituzione di gruppi di studio e di lavoro composti in modo da  assicurare la presenza di tutte le competenze dicasteriali interessate ed  eventualmente anche di esperti non appartenenti alla pubblica amministrazione.   Inoltre, è il Presidente del Consiglio il titolare dell’iniziativa legislativa relativa  all’apposizione della questione di fiducia alle Camere e ancora, spetta a lui convocare il  Consiglio e scegliere l’ordine del giorno. Per quanto concerne i compiti dei singoli  ministri, essi svolgono un duplice ruolo: contribuiscono alla determinazione dell’indirizzo  politico in virtù della loro partecipazione ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio dei  ministri, ma al contempo sono a capo dei singoli ministeri che costituiscono il vertice  delle amministrazioni centrali dello Stato. L’articolo 95 Cost. riserva alla legge il compito  di individuare il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei singoli ministeri. Il  legislatore, però, è intervenuto sull’organizzazione dei ministeri stessi solamente negli  76 anni 90 e da allora si sono susseguiti interventi legislativi che hanno modificato  costantemente il numero dei ministeri. Inizialmente erano previsti nel numero di 12, ma  dopo vari cambiamenti ad oggi risultano essere 13.     6. RAPPORTI TRA PRESIDENTE E MINISTRI  Secondo una prima tesi, il Presidente del Consiglio sarebbe da considerare alla stregua  di un mero primus inter pares rispetto ai ministri. Egli non avrebbe alcuna supremazia  nei confronti dei ministri, né guida rispetto agli stessi, dovendosi limitare a svolgere un  ruolo analogo a quello di un coordinatore. Questa tesi è stata sposata anche dalla Corte  costituzionale nella sentenza n.262 del 2009. Dal punto di vista costituzionale questa tesi  trova fondamento in tre ragioni: nell’assenza del potere di revocare i ministri;  l’attribuzione collegiale del potere di determinare la politica del Governo anche alla luce  dell’articolo 92 Cost. secondo cui il Presidente del Consiglio e i ministri costituiscono  insieme il Consiglio dei ministri e infine, la responsabilità collegiale dei singoli ministri  per gli atti approvati dal Consiglio dei ministri. Questi tre elementi testimonierebbero la  funzione di indirizzo politico è esercitata dall’organo collegiale, mentre il Presidente  sarebbe solo un primus inter pares. Nella storia repubblicana fino alla riforma del 1993 il  ruolo di guida del Presidente, che raramente era il segretario o la figura più autorevole  del partito di provenienza, è stato spesso ridimensionato dal peso dei ministri. In  dottrina talvolta si è utilizzato il termine di Governo dei Feudi, dove i feudi erano i  ministeri, nell’ambito dei quali né il Presidente del Consiglio, né il Consiglio dei ministri  erano in grado di assumere poteri decisivi. I ministri infatti rappresentavano e facevano  valere le posizioni dei partiti della coalizione che sosteneva il Governo. Eventuali dissidi  difficilmente vedevano prevalere la posizione del Presidente rispetto a quella del  ministro: il partito di riferimento del ministro in questione avrebbe infatti potuto far venir  meno l’appoggio al Governo e mettere in discussione la sopravvivenza dell’esecutivo  intero.   Il legislatore ritenne opportuno intervenire con la legge 400 del 1988 per attribuire  maggiori strumenti di direzione al Presidente del Consiglio stesso.   Secondo una diversa tesi, invece, la Costituzione riconoscerebbe al Presidente del  Consiglio comunque una posizione di preminenza rispetto agli altri ministri. Anche i  sostenitori di questa tesi richiamano l’articolo 95 Cost. che differenzia la posizione del  Presidente da quella dei suoi ministri, attribuendogli il compito di dirigere la politica  generale del Governo. Un’altra testimonianza sarebbe il fatto che, nella fase di  formazione del Governo, abbia il potere di individuare e proporre i nomi dei singoli  ministri. Ma soprattutto la supremazia del Presidente rispetto ai ministri dovrebbe  desumersi dal fatto che le dimissioni del Presidente, a differenza di quelle dei singoli  ministri, determinano la conseguenza radicale della crisi di governo. Quindi, poiché la  scelta di dimettersi del Presidente del Consiglio può porre fine all’esecutivo, questo  determinerebbe una posizione di superiorità dello stesso all’interno della compagine  ministeriale. Quanto accaduto nel nostro Paese tra il 1994 e il 2013 sembrerebbe poter  corroborare quest’ultima impostazione. I Presidenti che si sono susseguiti in quegli anni  sono i leader del partito più importante tra quelli della coalizione che aveva ottenuto il  maggior consenso dal voto degli elettori. In virtù del consenso popolare ottenuto alle  elezioni, si è ritenuto che i Presidenti avessero il potere, anche giuridico, di influenzare in  modo determinante le decisioni del Consiglio dei ministri e dei ministri stessi. Questa  prospettiva è stata assecondata dal decreto n.303 del 1999 che ha attribuito nuovamente  maggiori poteri al Presidente. Un altro elemento in favore di questa tesi è l’accresciuto  ruolo che il Presidente del Consiglio ha assunto nelle istituzioni dell’Unione europea. Il  Presidente del Consiglio fa parte del Consiglio europeo che l’organo deputato a definire  77 legislatura. Ma in questo caso, il Presidente del Consiglio della legislatura precedente ha  l’obbligo di rassegnare le dimissioni e consentire così la formazione di un nuovo  Esecutivo.     L’insorgere di una crisi di governo durante la legislatura richiede l’intervento del Capo  dello Stato e si può risolvere in due modi. Se le condizioni politiche lo consentono, il PdR  nominerà un nuovo Presidente del Consiglio e potrà così formarsi un nuovo governo. Se  invece, le forze politiche presenti in Parlamento non sono in nessun modo in grado di  esprimere una maggioranza, al Presidente della Repubblica non rimane altra via che  sciogliere anticipatamente le Camere stesse, indicendo nuove elezioni. Si tratta di una  decisione che viene presa soltanto dopo aver riscontrato l’assoluta impossibilità di  crearsi, all’interno delle Camere, una maggioranza capace di dare e sostenere la fiducia  ad un nuovo Governo. Si tratta di un extrema ratio da utilizzare soltanto per consentire  all’ordinamento di far terminare una situazione di stallo politico e istituzionale.     10. RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E DEI MINISTRI  Secondo l’articolo 95 Cost., il Presidente è il responsabile della politica generale del  Governo, mentre i ministri hanno una duplice responsabilità: una di tipo collegiale per gli  atti adottati dal Consiglio dei ministri e una di tipo individuale per gli atti dei loro  dicasteri. La responsabilità dei ministri è affermata anche dall’articolo 89 Cost. in  relazione agli atti del Presidente della Repubblica di cui i ministri sono proponenti. Le  norme appena citate individuano una responsabilità di tipo politico in virtù della quale il  Governo è chiamato a rispondere delle proprie azioni di fronte al Parlamento che  potrebbe sanzionare il Governo facendo venir meno la fiducia. Ma esiste anche una  responsabilità di tipo giuridico; ai sensi dell’articolo 28 Cost. infatti “tutti i funzionari e i  dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le  leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti”. Per quanto  concerne la responsabilità di tipo penale l’articolo 96 Cost. dispone che “il Presidente del  Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti per i  reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria previa  autorizzazione della Camera di appartenenza”. Questo testo è frutto della revisione  avvenuta nel 1989, prima di allora la competenza a giudicare era attribuita alla Corte  costituzionale che poteva intervenire solo se il Parlamento in seduta comune avesse  posto in stato di accusa i membri del Governo. Questa situazione oltre a comportare una  situazione di deroga e privilegio rispetto agli altri cittadini, provocò anche notevoli  problemi al funzionamento della Corte costituzionale che tra il 1977 e il 1979 dovette  condurre il processo Lockeed e la sua attività rimase bloccata per tutto ciò che  riguardava i giudizi sulle leggi. Per queste ragioni la legge cost. n.1 del 1989 attribuì ai  giudici ordinari i reati commessi nell’esercizio delle funzioni da ministri e presidenti. Ai  sensi di questa legge, qualora si abbia notizia di comportamenti integranti reati  ministeriali, uno speciale collegio giudiziario composto da tre magistrati estratti a sorte  presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per  territorio, ha il compito di svolgere le indagini preliminari e, laddove rilevi la necessità di  andare avanti col processo, deve trasmetterne notizia al Procuratore della Repubblica.  Quest’ultimo dovrà investire della questione la Camera di appartenenza. Se la Camera  non si oppone, il processo continuerà regolarmente; in caso contrario, invece, il processo  terminerà con l’archiviazione per mancanza di procedibilità. Il diniego di autorizzazione  è possibile solo nei casi in cui l’Assemblea reputi a maggioranza assoluta e con una  valutazione insindacabile che l’indagato abbia agito per la tutela di un interesse dello  Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un preminente interesse  pubblico. In effetti la discrezionalità concessa è molto ampia e rende rari in cui è stata  80 concessa dalle Camere l’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri. La Corte  costituzionale ha precisato che, in presenza di reati comuni commessi da Presidente del  Consiglio o ministri, il Parlamento non ha alcun diritto di essere informato dall’autorità  giudiziaria dell’esistenza del procedimento penale in corso.     SEZ. IV - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE  11. MINISTRI COME VERTICI DELLE AMMINISTRAZIONI CENTRALI  I ministri hanno una duplice funzione: sono membri del Governo e hanno, quindi, un  ruolo di direzione politica e in qualità di organi apicali dei ministeri sono responsabili  dell’attuazione dell’indirizzo politico espresso dal Governo e Parlamento. Proprio questa  duplicità di funzioni consente di mantenere una certa coerenza tra l’indirizzo politico e  l’attività amministrativa. Per pubblica amministrazione si intende ogni articolazione dello  Stato deputata a provvedere alla concreta realizzazione degli interessi pubblici  determinati dalle leggi, mediante l’adozione di provvedimenti autoritativi. Quindi, mentre  il legislatore individua gli obiettivi che lo Stato intende perseguire, la concreta attività di  attuazione di tali obiettivi spetta proprio agli apparati e agli uffici pubblici che  costituiscono, nel loro insieme, la pubblica amministrazione. I ministeri intesi come  insieme di mezzi, uomini e uffici, costituiscono una parte rilevante della pubblica  amministrazione. Si tratta di strutture organizzative dell’amministrazione centrale dello  Stato. Essi hanno il compito di svolgere funzioni amministrative che spettano allo Stato e  che non siano assegnate ad altri enti pubblici. Per capire le specifiche attribuzioni di  ogni ministero è necessario fare riferimento al decreto legislativo n.300 del 1999. Per fare  un esempio: al ministero dell’interno competono le funzioni e i compiti devoluti allo Stato  in materia di regolare costituzione e funzionamento degli organi degli enti locali, di  tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, di difesa civile, di protezione civile, di tutela  dei diritti civili, di cittadinanza, immigrazione e asilo.       12. PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE  L’articolo 97 Cost. richiede che le attività pubbliche siano organizzate secondo i principi  di imparzialità e buon andamento. Il presidio costituzionale dell’imparzialità suddivide  l’attività politica del Governo da quella amministrativa che presuppone il principio di  uguaglianza nel senso di pari trattamento a tutti i soggetti che vengono a contatto con  la pubblica amministrazione. Il concetto di buon andamento richiede poi che la pubblica  amministrazione agisca al fine di conseguire sempre gli obiettivi posti secondo i criteri di  efficienza, economicità ed efficacia. Servono, quindi, strumenti adeguati allo scopo e il  dispendio minimo di mezzi e risorse. Così ogni provvedimento deve essere adottato sulla  base della più ampia partecipazione degli interessati e deve essere il frutto di valutazioni  complete e il più possibile approfondite. Sotto la stessa linea deve essere letto anche  l’articolo 98 Cost che prevede che gli impiegati non devono essere condizionati da  interessi personali e devono essere al servizio esclusivo della Nazione. Questi principi si  ripercuotono anche sul sistema delle assunzioni che avvengono tramite concorso  pubblico che oltre a garantire l’accesso di persone qualificate, evita che siano attuate  assunzioni di favore. Inoltre, per evitare commistioni tra politica e settori sensibili della  pubblica amministrazione, l’articolo 98 Cost. consente alla legge di limitare il diritto di  iscrizione ai partiti politici per evitare l’affiliazione a organismi che potrebbero  influenzarne l’operato e non è consentito, se assumono la carica parlamentare, dar loro  avanzamenti di carriera se non quelli derivanti dall’anzianità di servizio. La Corte  costituzionale si è espressa, inoltre, a favore dello spoil system. Si tratta del meccanismo  in base al quale, con il mutamento dei governi, i dirigenti pubblici che svolgono funzioni  amministrative attuative degli indirizzi politici vengono automaticamente revocati e  81 sostituiti per cause estranee ai rapporti d’ufficio. Tale meccanismo è legittimo solo con  riferimento agli addetti agli uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo e alle  figure apicali.     13. AUTORITA INDIPENDENTI   A partire dagli anni 90 sono stati istituiti alcuni organi caratterizzati da un profilo di  indipendenza rispetto al potere esecutivo.   Si tratta delle Autorità Amministrative Indipendenti. Alcuni di questi enti sono dotati di  ampi poteri di regolazione, vigilanza e controllo in ambiti rilevanti della vita economica,  come il mercato e la concorrenza (AGCM), delle telecomunicazioni (AGCOM), i trasporti  (ART), energia, rifiuti e settore idrico (ARERA), settore assicurativo (IVASS), il settore  bancario e finanziario (CONSOB) ecc. Altre autorità sono invece preposte alla tutela di  specifici diritti, libertà o interessi di natura costituzionale, come il diritto alla riservatezza  o la prevenzione della corruzione (ANAC). Dal punto di vista costituzionale si pongono  alcune questioni problematiche perché queste autorità godono di un particolare regime  di autonomia rispetto all’esecutivo e agli altri enti dello Stato. Esse, infatti, sono dotate di  poteri di normazione e di poteri sanzionatori. Il problema che si pone è l’esercizio di  questi poteri normativi che rischiano di mettere in discussione il principio di legalità. In  giurisprudenza è stata quindi elaborata un’accezione peculiare di questo principio: le  autorità esercitano legittimamente i loro poteri se e in quanto sia garantito un “principio  di legalità procedimentale”, da intendersi nel senso del necessario rafforzamento delle  “forme di partecipazione” al procedimento di formazione dell’atto normativo dei soggetti  interessati. Ma rimane il fatto che si consente in questo modo ad un’autorità priva di  legittimazione democratica di regolare, in assenza di un fondamento legislativo, settori  delicati che incidono sui diritti delle persone (riserva di legge).   Le persone conservano la possibilità di ricorrere di fronte al giudice amministrativo  qualora ritengano che l’autorità indipendente abbia violato i loro diritti e interessi  legittimi.  CAP. 6 - PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA  SEZ. I - MANDATO PRESIDENZIALE  1. INTRODUZIONE  “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità della nazione”.  Questo è affermato nell’articolo 87 Cost. Del PdR si parla negli articoli: dal 83 al 91; 59; 62;  73; 74; 92; 93; 104; 126 e 135. Siccome si tratta di un organo monocratico devono essere  tenute in considerazione le diverse prassi seguite dai singoli Presidenti. I Presidenti sono  stati: De Nicola (Capo Provvisorio); Einaudi; Gronchi; Segni; Saragat; Leone; Pertini;  Cossiga; Scalfaro; Ciampi; Napolitanox2; Mattarella. Durante i lavori dell’Assemblea si  discusse molto su questo ruolo: erano in molti ad auspicare il riconoscimento a tale  figura di compiti meramente notarili e che lo immaginavano del tutto avulso da qualsiasi  ruolo di politica attiva. Il concreto svolgimento della storia repubblicana ha dimostrato  l’inadeguatezza di una simile ipotesi: tutti i Presidenti sono stati infatti al centro della  scena politica e istituzionale italiana. D’altra parte, tutte le funzioni ad egli attribuite  hanno come obiettivo quello di garantire l’armonico funzionamento dei poteri, politici e  di garanzia, nonché di consentire allo stesso PdR di indirizzare gli appropriati impulsi ai  titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a  questi o in ipotesi di blocco o stasi, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale  ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali.     La Corte costituzionale afferma che il PdR è stato collocato dalla Costituzione al di fuori  dei tradizionali poteri dello stato e al di sopra di tutte le parti politiche. Succede, però,  che nei periodi più difficili in cui i partiti sono incapaci di dare al Paese continuità e  82 dovrebbe limitare la sua attività all’ordinaria amministrazione, ma nella realtà è difficile  limitare l’ambito di intervento secondo questa prospettiva perché soprattutto in caso di  impedimenti prolungati, il sistema potrebbe richiedere anche l’adozione di atti  eccezionali (rinvio di una legge; nomina di un nuovo governo ecc.). In queste circostanze  non sembra possibile precludere al supplente di esercitare anche tali funzioni. L’unico  atto precluso è lo scioglimento anticipato delle Camere a cui viene applicato in via  analogica l’articolo 88 Cost. secondo cui il PdR non può sciogliere le Camere nell’ultimo  semestre di mandato.   L’articolo 86 Cost. inoltre, prevede che in caso di impedimento permanente o di morte o  di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera indice l’elezione  del nuovo Presidente entro 15 giorni salvo termine maggiore se le Camere sono sciolte o  manca meno di tre mesi alla loro cessazione. In molti casi, determinare se l’impedimento  ha natura permanente o temporanea non è facile. Non c’è certezza sulle condizioni che  possano rendere permanente un impedimento temporaneo, né è in alcun modo stabilito  quali siano i soggetti chiamati ad accertare l’esistenza di tali circostanze. L’unico  episodio rilevante fu il malore del Presidente Segni nel 1964 dopo due anni di mandato.  Ma egli dopo mesi dalla dichiarazione di impedimento temporaneo, firmò  autonomamente le dimissioni e non si risolse il problema sul se e come accertare che  l’impedimento temporaneo si fosse tramutato in impedimento permanente.    Terminato l’incarico presidenziale, ai sensi dell’articolo 59 Cost., si assume di diritto la  carica di senatore a vita. I presidenti emeriti sono tra i soggetti generalmente ascoltati  dai Presidenti della Repubblica nel momento in cui si svolgono le consultazioni  propedeutiche alla formazione del nuovo Governo.      SEZ. II - ATTI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA  5. PREMESSA  L’articolo 87 Cost. presenta un elenco di atti di competenza del Capo dello Stato, anche  se ulteriori funzioni sono contenute anche in altri articoli. Le funzioni presidenziali si  possono classificare secondo due diverse prospettive: la prima fa riferimento al potere o  all’organo dello Stato cui ineriscono le varie funzioni; la seconda, invece, considera la  paternità sostanziale dell’atto stesso. Nella prima ipotesi occorre verificare se l’atto  presidenziale sia riconducibile ad una delle funzioni del Governo, del Parlamento, della  Magistratura, della Corte costituzionale o delle Regioni. Nel secondo caso la  classificazione ha come presupposto la circostanza che non tutti gli atti del Presidente  sono decisi nella sostanza da lui stesso. In questa prospettiva si distinguono: atti  presidenziali in senso stretto; atti formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi  e, infine, di atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi.    6. ATTI PRESIDENZIALI RICONDUCIBILI AL POTERE LEGISLATIVO  Le funzioni e gli atti presidenziali riconducibili al potere legislativo sono:   - L’indizione delle Elezioni delle Nuove Camere e la fissazione della loro prima  riunione. L’articolo 61 Cost. limita fortemente la discrezionalità del Capo dello  Stato che è tenuto a indire le elezioni entro 70 giorni dallo scioglimento delle  precedenti Camere e a fissare la prima riunione entro 20 giorni successivi alle  elezioni. La titolarità di questo potere si spiega perché il Presidente è l’organo che  deve assicurare il corretto funzionamento e la continuità dei poteri.    - La Convocazione straordinaria delle Camere (art.62 Cost). E’ un potere mai usato  nella storia repubblicana, ma a cui si potrebbe fare ricorso qualora i Presidenti di  Camera e Senato non convocassero le Camere e bloccassero la possibilità di  agire impedendone le funzioni. Si tratta della garanzia di svolgimento dell’attività  parlamentare.   85 - L’invio di messaggi alle Camere (art 87 Cost.). I messaggi liberi possono riguardare  qualsiasi materia in merito alle quali il Presidente ritenga opportuno  sensibilizzare il Parlamento. Si tratta di un potere, fatta eccezione per la  Presidenza Cossiga, non molto usato, anche perché nella prassi il Parlamento non  si è mai mostrato così attento ai messaggi presidenziali. In ogni caso il Presidente  può far conoscere le sue opinioni esternandole liberamente.   - L’autorizzazione dei disegni di legge di iniziativa governativa (art. 87 Cost.). Questa  funzione è collegata anche al rapporto con l’Esecutivo. Si è posto il dubbio  relativo alla possibilità per il Presidente di rifiutare l’autorizzazione alla  presentazione di tali disegni di legge. La risposta è negativa perché ciò potrebbe  ledere le prerogative del Parlamento che è il titolare della potestà legislativa.  - La promulgazione delle leggi (art. 87 Cost.). La promulgazione, che deve avvenire  entro un mese dall’approvazione se non è dichiarata l’urgenza, è l’atto con il quale  si perfeziona il procedimento di approvazione della legge. Con essa, il Capo dello  Stato accerta la volontà espressa dalle due Camere ciascuna a maggioranza  assoluta, verificando la corrispondenza dei testi pervenutigli ed ordina la  pubblicazione della legge su Gazzetta Ufficiale.   - Il rinvio della legge (art. 74 Cost.). Il Presidente, prima di promulgare la legge, può  con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le  Camere approvano nuovamente la legge questa deve essere promulgata. Con  esso il Presidente si assume la responsabilità di porre un veto, seppure soltanto  sospensivo ad una decisione del Parlamento in ragione della presenza di gravi ed  evidenti profili di illegittimità costituzionale. In questi casi il Presidente può infatti  decidere di non promulgare la legge e di rinviarla alle Camere che dovranno  prendere in considerazione quanto indicato nel messaggio. Il messaggio è a  contenuto vincolato: infatti, devono essere contenute le ragioni che hanno  portato il Presidente ad utilizzare il potere di rinvio. Le Camere che sono  detentrici del potere legislativo, potranno comunque riapprovare la legge nel  testo originario, senza tener conto dei rilievi presidenziali. In questo caso, il  Presidente sarà obbligato a promulgare la legge, essendo vietata per disposto  costituzionale il secondo rinvio. Questa funzione mette in luce la funzione  presidenziale di controllo e di garanzia della Costituzione.    Nella prassi, il potere di rinvio è in disuso. Cossiga rinviò 21 leggi, Scalfaro 6,  Ciampi 7, Napolitano 1 e Mattarella 1 nel 2017. Molto più numerose, invece, sono  state le promulgazioni motivate: pur in presenza di una legge che presenta punti  di criticità, il Presidente procede a promulgare emettendo un comunicato nel  quale spiega le ragioni della promulgazione, fornendo altresì suggerimenti per  eventuali futuri interventi correttivi.   Inoltre, contribuisce il disuso del rinvio, il cosiddetto moral suasion: il Presidente  durante il corso del procedimento legislativo, può esercitare in via indiretta e  informale, un’azione di convincimento nei confronti del Parlamento attraverso  l’uso di interventi ed esternazioni volti a suggerire correzioni del testo in corso  d’opera per poter prevenire il successivo uso del rinvio. I Presidente stanno  sempre di più interpretando la funzione prevista dall’articolo 74 Cost. come  attributiva di poteri informali, volti ad evitare di attivare il meccanismo del rinvio.  Di conseguenza, o cercando di dissuadere il Parlamento dall’approvare  disposizioni sospette di illegittimità costituzionale, o promulgandole ma  accompagnando l’atto con suggerimenti correttivi, il Capo dello Stato sembra  manifestare la convinzione che all’uso del potere di rinvio sarebbe preferibile  ricorrere in casi eccezionali. Questa tendenza, però, rischia di stravolgere il ruolo  presidenziale nel rapporto con gli organi di indirizzo politico.   86 - L’emanazione dei decreti aventi valore di legge e dei regolamenti (art.87 Cost.). Il  presidente ha il compito di provvedere ad emanare gli atti aventi forza di legge  adottati dal Governo nonché i regolamenti governativi. Anche rispetto a questi  atti si pone il dubbio relativo al tipo di controllo da svolgere. Si ritiene che il  Presidente possa rifiutarsi di procedere all’emanazione solo di quegli atti che  violino in modo evidente la Costituzione. Ad esempio, nel 2009, il Presidente  Napolitano si rifiutò di emanare il decreto-legge in relazione alla  regolamentazione del fine vita (c.d. caso Englaro) facendo leva sull’assenza dei  requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’articolo 77 Cost. o per  altro verso lesivi di norme e principi costituzionali. L’anno successivo si rifiutò di  emanare un decreto legislativo in tema di federalismo fiscale municipale  ritenendo che lo stesso fosse stato adottato in difformità rispetto al procedimento  previsto dalla legge delega. Nuovamente va ricordato che anche nei confronti del  Governo il Presidente può fare ricorso al moral suasion.   - Indizione del referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione (art.87  Cost.). Il Presidente della Repubblica ha il potere si convocare i cittadini al voto sul  referendum abrogativo di cui all’articolo 75 Cost., sul referendum costituzionale di  cui all’articolo 138 Cost.; nonché sul referendum consultivo previsto dall’articolo  132 Cost. con riferimento al procedimento di fusione di Regioni esistenti o di  creazione di nuove Regioni.   - La nomina di cinque senatori a vita che abbiano illustrato la patria per altissimi  meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario (art. 59 Cost.). Sembra di  dover accogliere la tesi di tutti i Presidenti, fatta eccezione per Pertini e Cossiga,  secondo cui il numero totale di senatori deve essere 5 e non 5 per ogni Presidente  per evitare il rischio che la percentuale dei senatori a vita sia eccessivamente alta  rispetto a quella dei senatori elettivi. Gli attuali senatori a vita sono: Mario Monti,  Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rubbia e Liliana Segre (unica nominata da  Mattarella nel 2018).  - - Lo scioglimento delle Camere (art. 88 Cost.). La norma si limita a prevedere che,  prima di procedere, il Presidente debba consultare i Presidenti delle Camere, che  esprimeranno un parere obbligatorio ma non vincolante. Lo scioglimento delle  Camere è un atto sicuramente da adottare al termine fisiologico dei 5 anni di  durata della legislatura: si parla in questo caso di atto dovuto. Molto più  problematico è il caso in cui il Presidente debba ricorrere allo scioglimento  quando il termine naturale della legislatura non sia ancora giunto. È una  circostanza accaduta molto frequentemente. La scelta di sciogliere  anticipatamente le Camere è legata all’impossibilità provata ed incontrovertibile  per le forze politiche di formare una maggioranza in grado di garantire la fiducia  ad un Governo. Altrimenti detto, il potere di interrompere anticipatamente la  legislatura può essere utilizzato dal Presidente quando esso rappresenta l’unica  possibilità per consentire all’ordinamento di riprendere a funzionare in modo  fisiologico. In molti, con l’avvento del maggioritario hanno ritenuto nell’ambito del  contesto partitico bipolare, lo scioglimento anticipato dovesse essere disposto  nel momento in cui la maggioranza espressa dal corpo elettorale non fosse più in  grado di sostenere un Governo. In altre parole, si riteneva che non potessero  essere legittimate maggioranze diverse da quelle votate dagli elettori. Questa tesi  è stata ritenuta da tutti i Presidenti incompatibile con la forma di governo  parlamentare italiana. Il primo ad affrontare questa situazione fu Scalfaro nel  1994 con la crisi del Governo Berlusconi I. Egli ritenne che lo scioglimento  anticipato fosse l’extrema ratio cui fare ricorso soltanto nell’impossibilità di  trovare un altro governo. Scalfato trovò una maggioranza molto diversa che era  87 costituzionale. Nella scelta di costoro il Presidente dovrebbe controbilanciare le  scelte del Parlamento e delle supreme magistrature rispetto all’eventuale assenza  di giudici dotati di una determinata cultura politica o competenti in particolari  materie.   - Lo scioglimento dei Consigli Regionali e la rimozione dei Presidenti delle Giunte  regionali (art.126 Cost.). Questi poteri possono essere esercitati qualora gli organi  regionali citati commettano atti contrari alla Costituzione, violino gravemente la  legge o per ragioni di sicurezza nazionale. Dal punto di vista procedimentale, la  disciplina attuativa prevede che la proposta provenga dal Governo e che il  provvedimento presidenziale sia adottato dopo l’emanazione di un parere da  parte della commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali. In  ogni caso, si tratta di un potere di controllo statale su organi regionali finora mai  esercitato.   - Il potere di esternazione libero: si tratta di un potere che non è codificato in  Costituzione ma che non è possibile mettere in discussione. Sin dalla presenza di  Einaudi e con una tendenza ad una esposizione sempre più frequente, i Presidenti  della Repubblica hanno fatto sentire la loro voce all’interno del dibattito  politico-costituzionale con interviste, comunicati, libri ed esternazioni varie che  oggi sono più accessibili e più efficaci nell’influenzare l’opinione pubblica. Questo,  però, sottopone il Capo dello Stato a maggiori critiche sia da parte degli attori  politici che dell’opinione pubblica. Ciò rischia di metterne in discussione la  funzione di rappresentante dell’unità nazionale.           SEZ. III - CONTROFIRMA E RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA  10. CLASSIFICAZIONE DEGLI ATTI PRESIDENZIALI IN BASE AL SOGGETTO  Gli atti presidenziali possono essere catalogati anche in base alla paternità dell’atto  stesso. Questa classificazione è utile perché è connessa all’articolo 89 Cost. che prevede  che “nessun atto del PdR è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne  assumono la responsabilità”. Viene quindi implicato il coinvolgimento di un altro  soggetto e questo ha conseguenze rispetto alla responsabilità delle scelte effettuate. Le  categorie sono le seguenti:   - Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali (in senso stretto) ​→ si tratta di  atti la cui iniziativa è imputabile al PdR perché è lui stesso a decidere se adottare  quell’atto e a stabilirne i contenuti. Tra questi si ricordano: la convocazione  straordinaria delle Camere; la nomina di cinque senatori a vita; la promulgazione  e il rinvio al Parlamento della legge; l’invio di messaggi alle Camere; la concessione  della grazia e la nomina dei cinque giudici costituzionali  - Atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi ​→ rispetto a questi  atti il PdR non ha alcun potere decisorio con riferimento al loro contenuto. Pur  assumendo la forma di atti presidenziali, le determinazioni sui contenuti sono  imputabili esclusivamente al Governo. Il PdR svolge un controllo rispetto alla  conformità a Costituzione e può rifiutarsi di procedere all’adozione se li ritiene  illegittimi. Fanno parte di questa categoria: l’emanazione di decretilegge, decreti  legislativi e regolamenti; l’autorizzazione alla presentazione dei singoli disegni di  legge di iniziativa governativa alle Camere; la nomina dei funzionari di Stato;  l’accreditamento dei funzionari diplomatici; la ratifica dei trattati internazionali; il  conferimento delle onorificenze e gli atti assunti al comando delle Forze Armate.   90 - Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente complessi​ → il contenuto  sostanziale di questi atti nasce dall’incontro delle volontà del Governo e del  Presidente. Di questa categoria fa parte la nomina del Presidente del Consiglio  che non può avvenire qualora lo stesso non voglia.  - Atti dovuti ​→ atti in merito ai quali non è riscontrabile alcuna discrezionalità né  rispetto all’adozione, né rispetto ai contenuti. È la stessa Costituzione a imporne  l’esecuzione e sono: la promulgazione in caso di riapprovazione della legge; lo  scioglimento delle Camere al termine della legislatura e l’indizione delle elezioni  delle nuove Camere.  - Atti di incerta classificazione​ → la riconducibilità di alcuni atti all’una o all’altra  categoria è molto dibattuta e oggetto di dibattito dottrinale. Ad esempio, in  merito al provvedimento di scioglimento anticipato delle Camere, la dottrina  oscilla tra coloro che lo ritengono un atto presidenziale in senso stretto e coloro  che, invece, ritengono comunque indispensabile una condivisione della decisione  col Governo. Un altro dibattito riguarda la nomina dei ministri, funzione che può  presentare dubbi in merito alle obiezioni che il PdR può muovere alle proposte di  colui che ha incaricato di formare il Governo. Lo stesso problema riguarda lo  scioglimento dei consigli regionali. Infine, anche gli atti assunti come Presidente di  organi collegiali (CSM e Consiglio Supremo di Difesa) non sono di facile ascrizione  perché dipendono più che altro dal collegio di cui il Presidente è parte.    11. CONTROFIRMA MINISTERIALE  L’articolo 89 Cost. stabilisce che “nessun atto del PdR è valido se non è controfirmato dai  ministri proponenti che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore  legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del  Consiglio dei ministri”. Questa norma indica che gli atti presidenziali non possono essere  assunti se non c’è un controllo da parte dell’Esecutivo. Di qui, la necessità che, ai fini  della loro validità, tutti gli atti siano accompagnati dalla firma di un componente del  Governo. Nella norma viene individuata la figura dei ministri proponenti e questo  consente di affermare che non tutti gli atti siano sostanzialmente decisi dal PdR. Da ciò si  deduce che la controfirma rende irresponsabile il Presidente della Repubblica. Questo è  infatti chiarito nell’articolo 90 Cost. che stabilisce che “il Presidente della Repubblica non  è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto  tradimento o per attentato alla Costituzione”. La responsabilità si sposta quindi in capo  al ministro controfirmante. Le origini di questa regola possono essere rinvenute  nell’Inghilterra del Medioevo in cui vigeva la convinzione che “the King can do not wrong”.  La responsabilità, di fronte alle assemblee parlamentari, veniva così attribuita ad uno  dei ministri del Re che firmava l’atto sulla base del secondo principio per cui “the King  cannot act alone”. Nei secoli la posizione del ministro controfirmante si è trasformata:  non più mera ombra del Re, ma soggetto che effettua proposte vincolanti al Capo dello  Stato a nome di un Governo sostenuto dal Parlamento. Si pone, però, una questione che  riguarda il valore della controfirma negli atti presidenziali in senso stretto. Su questo ha  fatto luce la Corte costituzionale con sentenza n.200 del 2006 che ha chiarito che la  controfirma non ha sempre il medesimo valore e svolge invece funzioni diverse a  seconda del tipo di atto di cui la controfirma rappresenta il requisito di validità. La  controfirma riveste carattere sostanziale quanto l’atto sottoposto alla firma del Capo  dello Stato è di tipo governativo. Viceversa, la controfirma ministeriale ha valore soltanto  formale, quindi ha la mera funzione di rendere valido l’atto, quando l’atto sia espressione  di poteri propri del Presidente della Repubblica. La firma si limita, dunque, ad attestare  la legittimità formale e la provenienza presidenziale dell’atto. Inoltre, non essendoci un  ministro proponente, il ministro che procede alla controfirma è quello competente. Di  91 nuovo, per quanto riguarda gli atti complessi la controfirma è espressione dell’accordo  delle volontà dei due organi. La controfirma in questi casi viene apposta dal Presidente  del Consiglio. Ma infine, non tutti gli atti necessitano di controfirma. Ne sono esenti: le  dimissioni; gli atti compiuti dal Presidente in qualità di componente di organi collegiali,  fatta eccezione per gli atti del CSM che attengono allo status giuridico dei magistrati; i  messaggi orali e i Regolamenti presidenziali che attengono all’organizzazione della  Presidenza della Repubblica.     12. RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA  La disciplina costituzionale è finalizzata a consentire al Capo dello Stato di svolgere le  sue funzioni in autonomia e con la più ampia libertà. Esistono, però, dei casi in cui si  potrebbe determinare la responsabilità giuridica all’esito di una procedura processuale  particolare. L’articolo 90 Cost. evoca l’alto tradimento o l’attentato alla Costituzione quali  tassative cause di responsabilità per il PdR. Si ritiene che tali situazioni si verifichino  qualora il Presidente ponga in essere comportamenti diretti a sovvertire le istituzioni  costituzionali o a violare deliberatamente la Costituzione con l’obiettivo di mettere a  repentaglio i caratteri essenziali del nostro ordinamento. In questi casi, il Presidente è  sottoposto ad un giudizio d’accusa che consta di due fasi:  - La prima fase è politica: si tratta della messa in stato d’accusa da parte del  Parlamento in seduta comune con voto a maggioranza assoluta. Tutto ciò è  preceduto da un’istruttoria svolta dal Comitato costituito dai membri delle Giunte  per le immunità di Camera e Senato. Questo comitato può disporre di  intercettazioni, perquisizioni personali e domiciliari e anche misure cautelari. Al  termine dell’istruttoria, il comitato può procedere all’archiviazione se ritiene  infondata l’accusa o dichiarare la propria incompetenza qualora il reato non  rientri nel novero di quelli previsti dall’articolo 90 Cost. In alternativa può  presentare una relazione sulla messa in stato d’accusa contenente le conclusioni  cui è giunto il comitato. In questo caso, il Parlamento in seduta comune procede  alla votazione.  - La seconda fase è giurisdizionale: si svolge di fronte alla Corte costituzionale, solo  se il Parlamento ha approvato lo stato d’accusa.    Per quanto concerne reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, il Capo  dello Stato è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i  cittadini. Ma la Corte costituzionale nella sentenza n.1 del 2013 ha chiarito che non è  ammissibile l’utilizzo di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali le intercettazioni.  Tali strumenti coinvolgerebbero in modo inevitabile e indistinto, non solo le private  conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni comprese quelle necessarie per  lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali si determina un  intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali. La ricerca di reati extrafunzionali  deve avvenire con mezzi diversi, tali da non arrecare una lesione alla sfera di  comunicazione costituzionalmente protetta dal Presidente.     CAP. 7 - MAGISTRATURA   SEZ. I - POTERE GIURISDIZIONALE  1. GIURISDIZIONE E I SUOI COROLLARI  Nell’articolo 101 Cost. è affermato che la giustizia è amministrata in nome del popolo dai  magistrati che sono soggetti soltanto alla legge. Ciò non significa che tra i magistrati e il  popolo ci sia una forma di rappresentanza. Piuttosto, il magistrato è indirettamente  subordinato alla volontà popolare per come sostanziata dalle leggi del Parlamento.  Prima della Costituzione i magistrati dipendevano dall’esecutivo, ma la Costituzione ha  92 stesso tempo ammisero la sopravvivenza, per circoscritti ambiti di competenza di alcuni  giudici speciali con la precisazione che ne si pretese l’adeguamento al canone  dell’indipendenza che è un principio fondamentale. I giudici speciali ammessi dalla  Costituzione sono:  - Il Consiglio di Stato​ → insieme ai Tribunali amministrativi regionali, esso si occupa,  quale organo di secondo grado, della maggior parte delle controversie tra privati  e pubblica amministrazione. Il diritto di difesa si esplica anche nel potere del  cittadino di reagire in sede giurisdizionale ad un atto illegittimo dell’autorità  pubblica. Se ad essere leso è un diritto soggettivo del cittadino, questi si dovrà  rivolgere ad un giudice ordinario; se ad essere leso è, invece, un interesse  legittimo questi dovrà rivolgersi al giudice amministrativo.  - La Corte dei conti​ → si tratta di un organo al quale la Costituzione conferisce sia  funzioni consultive e di controllo sia funzioni giurisdizionali. In veste di giudice, la  Corte dei conti è chiamata ad occuparsi di “contabilità pubblica”; ovverosia delle  responsabilità patrimoniali dei funzionari pubblici che abbiano causato danno  allo Stato. Ma ad essa è devoluta dalla legge anche la cognizione delle  controversie in materia di pensioni. I giudici di responsabilità hanno un carattere  inquisitorio e vengono promossi dai Procuratori regionali e dal Procuratore  generale della Corte dei conti. I giudizi in materia di pensioni vengono promossi  dalle parti interessate.   La Corte dei conti opera in uffici dislocati a livello regionale e in una sede  centrale. Contro le sentenze emesse dalle sezioni giurisdizionali regionali può  essere preposto ricorso alle Sezioni giurisdizionali centrali.  - I Tribunali Militari​ → essi possono operare in tempo di guerra e in tempo di pace.  In quest’ultimo caso, essi hanno una giurisdizione limitata ai reati militari  commessi dagli appartenenti alle forze armate. Il Codice penale militare di pace  nel corso del tempo si è ammorbidito e le fattispecie di reato militare si sono  avvicinate a quelle comuni.     Oltre ai giudici speciali indicati nell’articolo 103 Cost. sono ammesse nel nostro  ordinamento anche altre autorità preesistenti alla Costituzione. La VI Disposizione  transitoria e finale riferendosi a tali giurisdizioni speciali, ne aveva imposto infatti la  revisione entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione stessa. Scaduto il  termine, con l’obiettivo di non lasciare sguarniti di un’autorità specializzata settori di  particolare tecnicità, si preferì garantire la sopravvivenza attraverso una generosa  lettura del vincolo previsto nella disposizione costituzionale. Si scelse di ritenere il  vincolo ordinatorio e non perentorio. La Corte costituzionale procedette quindi a  decretare la cessazione dei soli giudici speciali preesistenti privi dei requisiti di  indipendenza e di contro a salvare quelli oggetto di adeguamento (così per le  Commissioni tributarie e per i Tribunali delle acque pubbliche). Da non confondere con i  giudici speciali sono le sezioni specializzate istituite presso la magistratura ordinaria e  competenti ad occuparsi di determinate materie. Si tratta di organi che possono vedere  la propria composizione integrata da soggetti esterni il cui compito è di portare  all’interno del collegio competenze specifiche che i membri togati non saprebbero  autonomamente coprire. Il criterio determinante sulla base del quale distinguere le  sezioni specializzate dai giudici speciali è la riconducibilità solamente delle prime  all’ambito di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Infine, dalle sezioni  specializzate vanno tenute distinte le sezioni in cui si articolano gli uffici giudiziari.     SEZ. II - AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA E CSM  4. CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA   95 L’articolo 104 Cost. qualifica la Magistratura come un ordine autonomo e indipendente  da ogni altro potere dello Stato. Il rapporto tra i concetti di autonomia e indipendenza è  un rapporto di strumentalità. I magistrati svolgono in maniera indipendente la propria  funzione non solo perché messi al riparo da possibili ingerenze direttamente incidenti  sul processo, ma anche perché indipendenti da un punto di vista istituzionale, nei propri  percorsi di carriera. L’ordine giudiziario nel suo complesso è stato reso autonomo in  virtù dell’istituzione di un organo incaricato di assumere, senza interferenze esterne  decisioni relative all’organizzazione della magistratura e alla carriera dei magistrati.  Spetta al CSM il compito di adottare provvedimenti incidenti sullo status di magistrato.  Si tratta di provvedimenti che potrebbero astrattamente condizionare i comportamenti  del magistrato. La scelta del soggetto cui spetta assumerli può influenzare le modalità  attraverso le quali viene svolta nelle aule la funzione giurisdizionale. Se tale scelta  ricadesse, com’era prima dell’entrata in vigore della Costituzione, su un organo come il  Ministro della Giustizia, ne deriverebbe all’evidenza il condizionamento politico del  magistrato che tutto sarebbe fuorchè indipendente. Ecco perché si è preferito attribuire  queste funzioni ad un organo ad hoc composto secondo criteri che ne assicurano lo  stretto legame con la Magistratura e l’estraneità agli interessi di parte rappresentati  negli organi di indirizzo politico: il CSM. Quest’ultimo viene classificato come organo di  autogoverno della Magistratura. Quest’affermazione, però, trae in inganno perché non si  tratta di un organo che dall’interno è chiamato a determinare le regole di  organizzazione in modo del tutto svincolato dagli altri poteri statali. In realtà, sia la sua  articolata composizione, sia le sue modalità di funzionamento delineano un organo  deputato, in funzione di garanzia dell’indipendenza dei magistrati, a gestire  autonomamente l’organizzazione dell’ordine giudiziario, ma non a determinare le regole  della gestione stessa.     Le modalità di composizione del CSM rispondono all’esigenza di realizzare un equilibrio  tra plurime necessità. I Costituenti hanno rigettato la prospettiva di conferire  unicamente a magistrati il potere di decidere di magistrati e hanno allargato il collegio a  componenti esterne alla Magistratura. Infatti, il CSM si compone di 3 membri di diritto e  di una parte elettiva “mista”.  - I membri di diritto sono → il Presidente della Repubblica, che presiede l’organo, il  primo presidente della Corte di cassazione, il procuratore generale presso la  Corte di cassazione.   - I membri elettivi sono → per due terzi, magistrati eletti da magistrati e vengono  definiti membri togati e, per un terzo, soggetti estranei alla Magistratura eletti dal  Parlamento in seduta comune che vengono definiti membri laici. I membri togati  sono 16, mentre i laici 8. Di cui 10 magistrati che svolgono funzione giudicante, 4  requirente, 2 che svolgono funzioni di legittimità presso la Cassazione. In questo  modo si trovano rappresentate tutte le categorie di magistrati. Per quanto  riguarda gli 8 membri laici, si deve trattare di professori ordinari di Università in  materie giuridiche o di avvocati che abbiano alle spalle almeno 15 anni di  esercizio. L’elezione avviene a scrutinio segreto a maggioranza dei tre quinti dei  componenti per i primi due scrutini e dalla terza tornata di voto a maggioranza  dei tre quinti dei votanti. Si tratta di maggioranze ampie che vedono la necessaria  partecipazione alla scelta delle minoranze politiche.   Quindi da un lato con i membri togati si è voluto caratterizzare la composizione del CSM  in ragione delle funzioni, dall’altra si è cercato di evitare di costruire un organo  completamente autoreferenziale e totalmente distaccato dagli altri poteri dello Stato.   Un problema diverso del quale si sta discutendo negli ultimi tempi è quello della vistosa  sottorappresentanza femminile all’interno del CSM. Per ovviare a questo durante la XVII  96 legislatura è stato presentato in Parlamento un progetto di legge che introdurrebbe  norme volte a promuovere l’elezione di entrambi i sessi. Ma in ogni caso, la volontà di  posizionare al vertice del CSM il Capo dello Stato risponde alla volontà di non sganciare  del tutto il CSM dalle altre componenti della Repubblica. In realtà il PdR non è nella  materiale possibilità di svolgere a pieno il ruolo di Presidente del CSM, nel senso della  gestione organizzativa di tutte le sedute e dei suoi lavori. Queste attività sono affidate al  Vicepresidente la cui carica è affidata ad uno dei membri laici che compongono  l’organo. Detto questo, però, il Capo dello Stato non riveste una funzione simbolica. La  sua è una funzione di garanzia che si è rivelata anche molto importante: sia perché ha  concorso a proteggere l’autonomia dell’organo da attacchi esterni, sia perché ha in  alcune occasioni richiamato il CSM e i componenti dell’ordine a mantenersi entro i  confini delle proprie competenze.   I membri del CSM rimangono in carica per 4 anni e non sono rieleggibili. Inoltre, durante  questo periodo, perché si dedichino interamente alla funzione non possono essere  iscritti agli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.  Inoltre, anche per i componenti del CSM è stata prevista la garanzia dell’insindacabilità.  In questo caso, tuttavia, si tratta di una prerogativa non esplicitamente stabilita in  Costituzione, ma successivamente introdotta dal legislatore ordinario che la Corte  costituzionale ha giudicato coerente.   Ai sensi dell’articolo 105 Cost. competono all’organo le assunzioni, le assegnazioni e i  trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.  L’articolo successivo assegna al CSM anche il compito di designare all’ufficio di  consiglieri della Corte di cassazione alcune categorie di soggetti non appartenenti  all’ordine giudiziario. Infine, l’articolo 107 Cost. riserva in esclusiva all’organo il potere di  dispensare, sospendere o destinare ad altre sedi o funzioni i magistrati, nel rispetto di  talune garanzia o con il loro consenso. Si tratta di provvedimenti che ricadono sul  rapporto di lavoro del magistrato con l’obiettivo si sottrarli alla sfera di influenza del  potere esecutivo. Però, la Costituzione nel conferire al CSM queste competenze, non ha  inteso riconoscergli un potere senza limiti. Infatti, è stato stabilito che l’organo esercita le  sue competenze secondo le norme dell’ordinamento giudiziario stabilite con legge. In  materia di ordinamento giudiziario insiste, quindi, una riserva di legge che viene ribadita  in altre disposizioni riguardanti i poteri del CSM. Da una parte come ogni riserva di legge  è funzionale a contenere il potere normativo del Governo in una materia che si vuole  affidare alla decisione del Parlamento. Dall’altra parte, però, questa riserva serve anche  a ridurre la totale discrezionalità dell’organo deputato a garantire quell’autonomia. Si è  in questo modo voluto evitare il rischio opposto, cioè che un’eccessiva libertà del CSM  nella gestione delle competenze riservategli potesse produrre derive di stampo  corporativo incontrollabili.   Nel 2005 il Parlamento è intervenuto con una riforma organica che ha riguardato le  modalità di accesso alla magistratura, le modalità di valutazione dei magistrati per la  loro progressione in carriera, l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e il  sistema disciplinare. Questo impianto di regole è stato introdotto con una serie di  decreti legislativi attuativi della delega.   Va precisato che le delibere del CSM prendono normalmente la forma del decreto del  Presidente della Repubblica. In questo modo, le decisioni del CSM assumono la natura di  atti amministrativi, suscettibili di un controllo giurisdizionale. Coloro che vogliano  impugnare un atto possono farlo davanti al Tar del Lazione, in secondo grado, davanti  al Consiglio di Stato. A meno che non si tratti di provvedimenti disciplinari contro i quali  è prevista la possibilità di ricorso davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Ci  si è chiesti se il regime di impugnabilità degli atti del CSM possa pregiudicarne  l’autonomia, ma la Corte costituzionale ha precisato che in tal modo si condurrebbe a  97
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