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Dispensa Diritto Costituzionale I, Sintesi del corso di Diritto Costituzionale

Dispensa completamente sostitutiva per esame di Diritto costituzionale I sui primi 4 capitoli del manuale di D'Amico e Arconzo "Lezioni di diritto costituzionale"

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 08/06/2023

lucreziaponi
lucreziaponi 🇮🇹

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Scarica Dispensa Diritto Costituzionale I e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! Diritto costituzionale I F. Biondi DIRITTO COSTITUZIONALE I CAPITOLO I 2 1. Elementi introduttivi 2 2. Forme di Stato e forme di governo 2 3. Cenni di storia costituzionale italiana 5 4. La Costituzione repubblicana 6 CAPITOLO II 7 1. Le fonti del diritto 7 2. Le norme giuridiche 8 3. L’interpretazione 8 4. La coerenza del sistema delle fonti 9 CAPITOLO III 12 1. Le fonti superprimarie 12 2. Le fonti primarie statali 13 3. Le fonti statuarie e le fonti primarie regionali 19 4. Le fonti secondarie statali 20 5. Le fonti secondarie regionali e delle autonomie locali 21 6. Altre fonti 21 7. Le fonti internazionali 22 8. Le fonti dell’Unione europea 23 CAPITOLO IV 24 1. Il Parlamento 24 2. I sistemi elettorali 24 3. I principi generali 26 4. Lo status del parlamentare 28 5. L’organizzazione interna delle Camere 30 6. Le funzioni del Parlamento 31 di 1 32 Diritto costituzionale I F. Biondi CAPITOLO I 1. Elementi introduttivi LO STATO COSTITUZIONALE Lo Stato è un’organizzazione collettiva che regola ogni società. È un organo ad appartenenza necessaria, a cui quindi non si può scegliere se appartenere o meno, e autoritario, che si pone su un piano superiore rispetto ai cittadini la cui vita regola. Lo Stato possiede, inoltre, il monopolio dell’uso della forza, quindi è l’unico ente cui è concesso usare la forza per far rispettare le proprie norme al fine di mantenere l’ordine pubblico. Un concetto intrinseco a quello di Stato è quello di sovranità: quest’ultima può essere interna, intesa come la sovranità dello Stato sugli altri enti che cercano di imporre l’uso della forza nel territorio, o esterna, intesa come la sovranità dello Stato che non è tenuto a sottostare a nessun’altra autorità (quando uno Stato rinuncia a parte della propria sovranità si parla di cessione di sovranità, come accadde quando l’Italia rinunciò alla sovranità sulla moneta per passare all’Euro). DAL PRIMATO DELLA LEGGE AL PRIMATO DELLA COSTITUZIONE Per tutto l’Ottocento fino alla Grande Guerra, in Europa è prevalso il modello di Stato liberale, il quale si basava sulla supremazia assoluta della legge e si distingue per la nascita di vari Parlamenti allo scopo di limitare il potere del sovrano. I legislatori ottocenteschi introdussero i caratteri di generalità e astrattezza, cosicché fosse garantita l’eguaglianza formale e che le norme fossero pressoché ripetibili all’infinito. Il problema del modello liberale sta nel fatto che questo garantiva un’eguaglianza meramente formale, in quanto il suffragio, essendo censitario, era riservato alla classe borghese, della quale gli interessi erano poi gli unici ad essere tutelati dalla legge. Con la Grande Guerra il modello liberale entra in crisi con la nascita di regimi totalitari che che non tutelano più quelli che ancora non erano conosciuti come diritti sociali come la libertà. A seguito della I Guerra Mondiale, quindi, l’Europa sente la necessità di un cambiamento che sfocia nella nascita delle Costituzioni (la prima con la Costituzione di Weimar del 1919) alle quali viene attribuita la supremazia assoluta su tutte le altre fonti del diritto. La Costituzione nasce per tutelare i diritti sociali e l’eguaglianza sostanziale dei cittadini di fronte alla legge; il suffragio diventa sempre più universale e mira a tutelare gli interessi di tutti e non solo della borghesia. Il ruolo fondamentale della Costituzione all’interno dello Stato ne conferisce il carattere essenziale di rigidità, cosicché questa possa garantire diritti inalienabili e immutabili anche dal Parlamento, e fungere da strumento di valutazione qualora proposte future contravvengano ai principi fondamentali in essa contenuti (a tale scopo vengono fondati Tribunali Costituzionali per limitare eventuali abusi del legislatore). Nasce quindi lo Stato costituzionale che si fonda sulla gerarchia delle fonti del diritto al vertice della quale è posta la Costituzione. CONCEZIONE DESCRITTIVA E CONCEZIONE PRESCRITTIVA DELLA COSTITUZIONE La Costituzione è una fonte del diritto, un insieme di regole e principi giuridici e un manifesto filosofico politico dell’ordinamento di uno Stato. La Costituzione può avere funzione prescrittiva o descrittiva: nel primo caso i caratteri fondamentali di quello che può dirsi uno Stato costituzionale sono la divisione dei poteri, al fine di limitare il potere dello stato, e la garanzia dei diritti; la funzione descrittiva, invece, si riferisce alla concezione della Costituzione separata dal suo contenuto, come mero strumento di organizzazione dei rapporti fra i singoli organi e poteri senza considerare i principi che questa ponga alla propria base. Le Costituzioni prescrittive si formalizzano nel cosiddetto Stato di diritto, il quale è caratterizzato dalla separazione dei poteri, dall’affermazione del principio di legalità e dalla tutela dei diritti, in particolare del diritto di libertà e del principio di uguaglianza La storia degli ordinamenti giuridici evidenzia due ordinamenti giuridici: uno detto di civil law, che si basa su testi scritti e sulla loro interpretazione, e un altro detto di common law, che non necessita la forma scritta, ma che si basa sul vincolo dei precedenti (stare decisis). 2. Forme di Stato e forme di governo FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO Nella storia è stato possibile estrapolare diversi modelli di riferimento dell’evoluzione dei diversi Stati, ma per farlo è necessario partire da una distinzione iniziale tra: forme di Stato, ossia il rapporto che intercorre tra l’autorità statale e la libertà dei cittadini, quindi tra governanti e governati, e forme di governo, ossia il rapporto che intercorre tra i diversi poteri statali, quindi l’organizzazione degli organi politici e la divisione dei poteri. Le forme di Stato possono essere studiate secondo due linee: la relazione tra governanti e governati attraverso la divisione del potere orizzontale o le modalità con cui lo Stato si rapporta con le comunità presenti sul territorio tramite la divisione del potere verticale. di 2 32 Diritto costituzionale I F. Biondi ALTRE FORMA DI GOVERNO: IL SEMI-PRESIDENZIALISMO E IL GOVERNO DIRETTORIALE 1. Forma di governo semi-presidenziale (nasce in Francia) In questa forma di governo vediamo mescolarsi elementi della parlamentare e della presidenziale: il Presidente della Repubblica viene eletto dal popolo e nomina un Governo che, però, può essere sfiduciato dal Parlamento. Questa forma di governo diviene problematica nel momento in cui Parlamento e Presidente della Repubblica sono espressione di maggioranze politiche diverse e nascono situazioni di co-abitazione. 2. Forma di governo direttoriale (Svizzera) In questa forma di governo il potere si suddivide tra Parlamento e Governo, il quale viene eletto dal Parlamento ma, una volta in carica, diviene autonomo. Si tratta di una forma di governo adatta a Paesi piccoli e dotati di una omogeneità di forze politiche. 3. Cenni di storia costituzionale italiana LA VIGENZA DELLO STATUTO ALBERTINO FINO AL TERMINE DEL REGIME FASCISTA Lo Statuto Albertino concesso dal re di Spagna Carlo Alberto di Savoia nel 1848 si ispirava al modello di monarchia costituzionale francese, con il Re che partecipava di tutti e tre i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario con parziali limitazioni da parte delle due Camere. Nel XIX secolo, lo Statuto è potuto sopravvivere grazie al suo carattere elastico e flessibile che ha permesso le necessarie modificazioni che l’evoluzione ha richiesto. A seguito dell’unificazione d’Italia nel 1861, lo Statuto Albertino venne esteso a tutto il territorio per mezzo di una serie di plebisciti e l’ordinamento divenne più affine al modello monarchico parlamentare. Con il tempo e con la prassi, si instaurò un rapporto di fiducia con il Governo che costituiva, però, un organo a sé stante e autonomo dagli altri poteri. La crisi del modello liberale raggiunge il proprio apice durante il regime fascista, in particolare nel periodo tra il 1922 e il 1928, con una serie di riforme che andavano a modificare lo Statuto e i principi fondamentali su cui esso si basava. - 1922 il Gran Consiglio del Fascismo assume un ruolo costituzionale. - 1923 la Legge Acerbo istituisce il collegio unico nazionale al fine di eliminare il più possibile ogni forma di opposizione al regime. - 1925-26 il Capo del Governo diviene organo centrale del sistema costituzionale e il ruolo del Parlamento diventa sempre più marginale e subordinato al Governo, il quale acquisisce funzione legislativa. - 1922-43 (ventennio fascista) le poche libertà concesse dallo Statuto vengono represse da leggi e provvedimenti amministrativi che segnano la tacita abrogazione dello Statuto Albertino nel momento in cui ne vengono superati i principi fondamentali. - 1939 la Camera dei deputati viene soppressa e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni che garantiva gli interessi di determinate classi economico-sociali. LA TRANSIZIONE E LA COSTITUZIONE PROVVISORIA La transizione del fascismo verso la democrazia ha inizio con la revoca di Mussolini da Presidente del Consiglio dei Ministri a seguito della sfiducia da parte del Gran Consiglio del Fascismo. Il governo Badoglio suggerì un ritorno allo Statuto Albertino attraverso l’abrogazione di diverse norme del regime, ma il CLN (Comitato di liberazione nazionale anti-fascista) si oppose a tale procedimento in favore di una trasformazione più radicale che avrebbe rinnovato l’assetto costituzionale dello Stato: si tratta della “questione istituzionale”, ossia il problema relativo alla forma repubblicana o monarchica, tra le quali la scelta venne rimandata a dopo la fine della guerra con il Patto di Salerno del 1944. Il decreto-legge che riproduceva i contenuti di quest’ultimo viene considerato la “prima costituzione provvisoria”, alla quale succedette nel 1946 un decreto legislativo (“seconda costituzione provvisoria”) che avrebbe affidato al corpo elettorale la scelta tra Repubblica e Monarchia per mezzo di un referendum. Il 2 giugno 1946, il referendum istituzionale avrebbe sancito la vittoria della Repubblica e, poco tempo dopo, Alcide de Gasperi avrebbe assunto il ruolo di Capo provvisorio di Stato. L’ASSEMBLEA COSTITUENTE E L’APPROVAZIONE DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA Il 25 giugno 1946 si riunì per la prima volta l’Assemblea Costituente, i cui primi adempimenti furono l’elezione del proprio Presidente, Saragat, e del Capo provvisorio dello Stato, De Nicola, che nel 1948 divenne Presidente della Repubblica. Venne anche decisa la nomina di una commissione ad hoc, la Commissione dei 75 (composta di membri nominati dal Presidente dell’Assemblea per rispecchiare la composizione del plenum), con il compito di elaborare un Progetto di Costituzione da presentare all’Assemblea. La Commissione si suddivise poi in tre sotto-commissioni, competenti nelle materie di diritti e doveri dei cittadini, ordinamento costituzionale dello Stato (potere esecutivo e giudiziario), rapporti economici e sociali. Quando il progetto fu presentato, un Comitato di redazione fu incaricato di rappresentare la di 5 32 Diritto costituzionale I F. Biondi Commissione dei 75 ad un'altra discussione in Assemblea dove il Comitato presentò il testo definitivo del progetto all’Assemblea che lo approvò nel 1947. 4. La Costituzione repubblicana LE CARATTERISTICHE DELLA COSTITUZIONE ITALIANA La Costituzione italiana viene promulgata dal Capo provvisorio di Stato nel dicembre 1947, ma entra in vigore nel gennaio del 1948 e ha diverse caratteristiche: - Rigidità, nel senso che non può essere modificata da fonti di rango ad essa subordinate. - Elasticità, nel senso che legittima e orienta indirizzi politici di diversa natura grazie all’uso di formule duttili nate per essere riempite di diversi significati. - Longevità, nel senso che, grazie alla sua natura duttile, le norme possono essere adoperate in relazione all’evoluzione del contesto politico-sociale in cui sono poste. - Lunghezza, nel senso che gli apparati sull’ordinamento statale e sui diritti sono piuttosto articolati. - Compromissorietà, nel senso che riassume gli interessi delle antiche classi di proletariato e borghesia. - Programmaticità: la Costituzione contiene norme percettive, la cui attuazione è immediata, e norme programmatiche, la cui attuazione necessita dell’intervento del legislatore (oppure no grazie all’intervento dei giudici), che però non hanno meno rilevanza o efficacia delle prime (con la prima sentenza della Corte costituzionale del 1956 si è chiarito come entrambe le disposizioni fossero immediatamente effettive e il conflitto con le quali sarebbe stato dichiarato incostituzionale). I CARDINI DELLA COSTITUZIONE L’architettura costituzionale della Costituzione è così suddivisa: - Principi fondamentali (artt. 1-12); - Diritti della persona come individuo e poi in ambito sociale (artt. 13-54) “Diritti e doveri dei cittadini” a sua volta suddiviso in quattro Titoli (Rapporti civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti economici, Rapporti politici); - Ordinamento della Repubblica (artt. 55-139) a sua volta suddiviso in sei Titoli, iniziando iniziando con la disciplina dei poteri che definiscono la forma di governo (Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo), continuando con quello giurisdizionale (Magistratura), con quelli espressione del pluralismo territoriale (Regioni, Province, Comuni), e terminando con la Carta costituzionale a garanzia dell’intero sistema costituzionale; - Disposizioni transitorie e finali (I-XVIII) I principi fondamentali hanno valore normativo, in quanto costituiscono un nucleo inalienabile e non modificabile nemmeno col procedimento di revisione costituzionale, e di linee guida per l’interpretazione ed esplicitazione di regole tacitamente contenute nella Costituzione la cui individuazione sta all’interprete, innanzitutto alla Corte costituzionale. 1. Principio personalista, che emerge chiaramente nei primi dodici articoli della Costituzione, si riferisce alla centralità della persona umana i cui diritti inviolabili devono essere riconosciuti e tutelati. 2. Principio solidaristico, che emerge nell’espressione dei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, si riferisce alle limitazioni poste all’individuo per la tutela delle esigenze altrui e della società in generale. 3. Principio di eguaglianza, che emerge dall’art. 3 della Costituzione, si riferisce al tentativo di garantire a tutti (nonostante tratti espressamente dei cittadini italiani) eguaglianza sostanziale e giustizia sociale. Il principio di eguaglianza è posto a tutela dei diritti e della dignità di ogni essere umano: ciò non vieta le differenziazioni, a patto che siano volte a rimuovere ogni ostacolo per la piena realizzazione della persona. 4. Diritti sociali, mezzi per raggiungere la piena giustizia sociale a vantaggio anche dei soggetti deboli. Il diritto al lavoro, all’istruzione e alla previdenza sociale devono essere azioni legali positive (a differenza di quelle liberali negative che praticavano l’astinenza dello Stato dall’intervento nella vita del singolo). 5. Principio lavorista, si riferisce alla visione del lavoro non solo come un mezzo di sopravvivenza, ma anche come strumento di piena realizzazione della personalità del singolo che può cosi contribuire al “progresso materiale o spirituale della società”. 6. Principio pluralista, si riferisce alla matrice non liberale-individualista che promuove la partecipazione a organizzazioni sociali collettive che fungono da intermediario tra l’individuo e lo Stato. Le formazioni sociali tutelate dal principio pluralista godono di autonomia organizzativa e funzionale sulle quali lo Stato può intervenire unicamente allo scopo di garanzia del principio solidaristico. UNO STATO DEMOCRATICO IN UN ORDINAMENTO INTERNAZIONALE 7. Principio democratico contemperato, si riferisce alla necessità che l’ordinamento democratico riceva legittimazione diretta o indiretta del popolo, in quanto gli organi che detengono il potere sono espressione della volontà popolare. La democraticità di un ordinamento è garantita dal principio di separazione dei di 6 32 Diritto costituzionale I F. Biondi poteri e dal fatto che per ciascuno degli organi statali che ne detiene una parte vi siano delle limitazioni relative alla propria specifica funzione. 8. Principio garantistico (che prevale su quello democratico), si riferisce all’importanza conferita alle garanzie politiche e giuridiche volte a tutelare l’individuo da eventuali abusi o arbitri da parte di chi detiene il potere. Affinché il principio garantistico sia tutelato a tutti gli effetti, la giurisdizione è esercitata in posizione di indipendenza dagli altri poteri. 9. Principio internazionalista, si riferisce alla concezione secondo la Costituzione della Repubblica come comunità internazionale che deve interfacciassi anche con altre Nazioni e con esse intrattenere una pacifica collaborazione per garantire i diritti fondamentali del cittadino e il carattere democratico dello Stato (attraverso l’apertura verso il diritto internazionale generale e pattizio e, in particolare, verso il trattato istitutivo delle nazioni unite). CAPITOLO II 1. Le fonti del diritto LE MODALITÀ DI PRODUZIONE DELLE NORME GIURIDICHE Le norme giuridiche sono regole vincolanti che disciplinano le società e sono in continuo aggiornamento per rispettare l’evoluzione di queste ultime. Le norme giuridiche sono prodotte dalle fonti del diritto che possono essere fonti di produzione del diritto, ossia quegli atti o fatti cui l’ordinamento riconosce l’idoneità a produrre e modificare le norme giuridiche, o fonti sulla produzione del diritto (artt. 70, 71, 72, 73 Cost.), ossia quelle che indicano l’autorità, il procedimento e l’atto per creare le fonti. Le fonti sulla produzione del diritto sono vincolanti e hanno forza giuridica: esse costituiscono il mezzo attraverso cui le norme giuridiche che modificano l’ordinamento possono essere create, quindi hanno un valore superiore alle fonti di produzione del diritto, tanto che queste ultime non possono essere approvate che secondo i criteri stabiliti dalle fonti sulla produzione. Le fonti del diritto sono organizzate secondo un criterio gerarchico ben definito che impedisce a fonti di grado inferiore di interferire o essere approvate se in contrasto con fonti di grado superiore. 1. Fonti superprimarie → Costituzione, leggi costituzionali e leggi di revisione costituzionale. 2. Fonti primarie → Legge e atti aventi forza di legge (leggi statali, leggi regionali, decreti legge, decreti legislativi, referendum abrogativo, regolamenti parlamentari). 3. Fonti secondarie → Regolamenti (regolamenti governativi, regolamenti regionali, referendum regionali, statuti e regolamenti degli enti locali). 4. Consuetudini e usi + Fonti internazionali e dell’Unione Europea, fonti cui la Costituzione italiana riconosce forza di legge e alle quali conferisce la capacità di produrre effetti giuridici. Secondo questo criterio gerarchico, le fonti sulla produzione del diritto vanno ricercate in primis nella Costituzione italiana, in particolare negli artt. 70-73, in quanto posta al vertice. Un elenco di fonti di produzione del diritto, invece, è stilato nelle Preleggi o Disposizioni sulla legge in generale, documento che risale però all’epoca pre-costituzionale e che necessita, quindi, di essere integrato con quella che riconosciamo come fonte del diritto per eccellenza. Nella gerarchia delle fonti del diritto, inoltre, notiamo come ciascuna delle fonti regoli esaustivamente soltanto le fonti di grado immediatamente inferiore per ragioni logico-formali e sostanziali. LA DISTINZIONE TRA FONTI-ATTO E FONTI-FATTO Le fonti del diritto si suddividono in fonti-atto e fonti-fatto: per fonti-atto si intende una serie di documenti riconosciuti dall’ordinamento, per fonti-fatto, invece, si intende una serie di eventi o comportamenti ai quali l’ordinamento riconosce la capacità di produrre effetti giuridici, come la consuetudine, che costituisce una fonte non scritta data dalla ripetizione di un determinato comportamenti nella convinzione che abbia validità giuridica. Tra le fonti-fatto, oltre alla consuetudine, ricordiamo le norme di diritto internazionale privato e quelle dell’Unione Europea, quindi fonti scritte prodotte da organi esterni allo Stato, ma che all’interno hanno ugualmente rilievo giuridico. LE FONTI DI COGNIZIONE DEL DIRITTO Oltre alle fonti di produzione del diritto, che creano quest’ultimo, esistono le fonti di cognizione, le quali costituiscono il mezzo attraverso cui si può prendere conoscenza delle norme giuridiche. Queste fonti di cognizione possono essere ufficiali, come la Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, o non ufficiali, come le raccolte di norme giuridiche proposte da case editrici specializzate: nel primo caso tutte le norme devono essere pubblicate al fine della propria entrata in vigore per permettere ai destinatari di una tale disposizione di conoscere ciò che è per loro giuridicamente vincolante. Dalla data di pubblicazione all’effettiva entrata in vigore della norma trascorre un periodo, chiamato vacatio legis, di 15 giorni durante i quali i destinatari sono tenuti a informarsi anche perché ignorantia legis non excusat, non potendosi quindi avvalere dell’ignoranza di 7 32 Diritto costituzionale I F. Biondi invece, è una fonte secondaria a entrare in conflitto con una fonte primaria, l’applicazione del criterio gerarchico può essere compito del giudice amministrativo, con il quale si avrà la dichiarazione di annullamento, o del giudice ordinario, che si limiterà a disapplicare la fonte secondaria nel caso concreto. La dichiarazione di illegittimità costituzionale e l’annullamento hanno efficacia erga omnes ed ex tunc, di conseguenza la disposizione non preferita sarà espulsa dall’ordinamento e non troverà più applicazione nei casi successivi né in quelli ancora pendenti, mentre non avrà impatto sui casi esauriti. La disapplicazione della norma da parte del giudice ordinario, invece, non implica l’espulsione dall’ordinamento, infatti la norma rimane valida, efficace e potenzialmente applicabile ad altri casi eccetto quello in esame dal giudice in questione. IL PRINCIPIO DI COSTITUZIONALITÀ E IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ Il principio gerarchico si esplica nel principio di costituzionalità e nel principio di legalità. Essendo quella italiana una Costituzione rigida, si caratterizza come un documento normativo a cui persino il legislatore ordinario è tenuto a sottostare, in quanto si colloca in una posizione di supremazia gerarchica persino rispetto alla legge stessa. Infatti, data l’importanza di questa fonte, per modificare o derogare la Costituzione è necessario un procedimento aggravato, ossia più complesso rispetto a quello di approvazione delle leggi ordinarie. A tutela della Costituzione italiana, che racchiude i principi fondamentali su cui si fonda lo Stato, è previsto anche un controllo di costituzionalità sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge che verrebbero annullati qualora fossero dichiarati incostituzionali. Oltre al principio di costituzionalità a garanzia della Costituzione, vi è anche il principio di legalità, storicamente antecedente a quello di costituzionalità affermatosi nello Stato di diritto ottocentesco con la centralità del Parlamento, quindi della legge, la quale godeva di un potere pressoché illimitato. Dal principio di legalità, non esplicitato nella Costituzione, ma nell’art. 4 delle Preleggi, discendono due corollari: - Preferenza della legge, preclude quindi alle fonti secondarie e agli atti della pubblica amministrazione di disporre in violazione della legge, postulando la soggezione alla legge in ambito giurisdizionale. - Esigenza della previa legge, nel senso che il potere pubblico per potersi manifestare in modo legittimo deve essere preventivamente autorizzato da una fonte primaria. Il principio di legalità è innanzitutto un corollario del principio di uguaglianza espresso nell’art. 3 della Costituzione e si identifica come criterio ordinatore tra fonti primarie e secondarie del diritto. La giustificazione costituzionale della subordinazione delle fonti secondarie alle fonti primarie sta nel fatto che la legge, in quanto atto normativo prodotto dall'organo rappresentativo del popolo, ossia il Parlamento, non ammetta la presenza di un potere autonomo della pubblica amministrazione che non abbia il proprio limite e fondamento nella legge. Il principio di legalità è da considerarsi soddisfatto in senso formale quando una legge autorizza l’emanazione di un atto amministrativo o regolamentare, e in senso sostanziale quando tale legge determina anche i principi cui l’attività pubblica si deve conformare. Dalla Costituzione si desume che il principio di legalità sia da intendersi in senso prettamente formale, se non altrimenti esplicitato, nel qual caso il legislatore sarà tenuto a dirigere e regolare la pubblica attività indicata a intervenire affinché sia conforme ai principi costituzionali. LA RISERVA DI LEGGE La riserva di legge si riferisce a quando la Costituzione prescrive che una determinata materia sia disciplinata dalla legge o da un atto avente forza di legge a tutela dei diritti fondamentali del cittadino, con esclusione o limitazione di intervento da parte delle fonti ad essa subordinate, alle quali il legislatore non può delegare il compito di regolamentare la materia. La riserva di legge è uno strumento essenziale affinché si delimiti l’intervento di atti non approvati dal Parlamento in ambiti piuttosto delicati: il Parlamento, essendo eletto dal popolo a suffragio universale diretto, è espressione della volontà popolare, il Governo, d’altra parte, è espressione della sola maggioranza che non terrà quindi conto del parere dell’opposizione. Inoltre, il procedimento legislativo si caratterizza per la sua trasparenza, garantita dal principio di pubblicità per quanto riguarda il Parlamento, essendo sempre possibile verificare le posizioni assunte dai parlamentari, e non dal Governo, il quale non è nemmeno potenzialmente soggetto al controllo di costituzionalità. La riserva di legge prescritta dalla Costituzione può essere statale o regionale in base a chi detenga la titolarità competenziale della materia in esame; nei casi di riserva di legge formale, invece, la Costituzione fa espressamente riferimento alla norma emanata dal Parlamento o dalle Camere (ex. art. 80 Cost.). Tranne che nei casi di riserva di legge formale, è sufficiente l’adozione di una qualsiasi fonte di rango primario, persino un decreto-legge o un decreto-legislativo emanato dal Governo, in quanto nel procedimento di adozione di questi ultimi giochi comunque un ruolo fondamentale il Parlamento. Le riserve di legge, anche se non espressamente affermato nella Costituzione, possono essere: - Assolute, nelle quali la Costituzione prescrive che una determinata materia sia interamente disciplinata dalla legge o da un atto avente forza di legge, senza lasciar spazio a interventi da parte di fonti secondarie (ex. art. di 10 32 Diritto costituzionale I F. Biondi 13 comma 2 Cost. che non ammette alcuna limitazione della libertà personale “se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”). - Relative, nelle quali la Costituzione prescrive che una determinata materia sia disciplinata dalla legge o da un atto avente forza di legge nei suoi principi fondamentali, riservando poi alle fonti subordinate integrazione e disciplina della materia che dovrà pur sempre attenersi ai principi fissati dal legislatore (ex. art. 23 Cost. per cui “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”). La riserva di legge può, inoltre, essere semplice o rinforzata, in quest’ultimo caso, infatti, la Costituzione non si limita a determinare che una certa materia ia regolata dalla legge o da un atto avente forza di legge, ma dispone anche che il legislatore sia obbligato al rispetto di ulteriori vincoli di contenuto (ex. art. 16 Cost.) o di procedimento (ex. art. 7 Cost.). Si parla, invece, di riserva di legge costituzionale quando la Costituzione ritenga che una determinata materia sia disciplinata unicamente da fonte super-primaria. Inoltre, va messo in evidenza come tra i concetti di riserva di legge relativa e il principio di legalità in senso sostanziale esiste una sovrapposizione: quando la Costituzione prevede una riserva di legge relativa, il principio di legalità sarà senz'altro da intendersi in senso sostanziale. CRITERIO DI COMPETENZA (secondo da applicare per risolvere le antinomie reali) Oltre al criterio gerarchico, per risolvere le antinomie tra fonti del diritto viene adoperato anche il criterio di competenza, il quale viene utilizzato nei casi di controversie tra fonti poste sullo stesso livello gerarchico tra le quali è da preferire quella cui la fonte sovraordinata abbia attribuito la specifica competenza in una determinata materia. Se il contrasto vige tra fonti primarie, la legge o l’atto avente forza di legge sarà dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, mentre se avviene tra fonti secondarie, starà al giudice amministrativo il compito di annullare la norma illegittima che viola le prescrizioni della fonte primaria (il giudice ordinario potrà limitarsi a disapplicare la norma). Il criterio di competenza viene applicato innanzitutto nella regolazione delle controversie tra Stato e Regioni (ex. una legge regionale sarebbe dichiarata incostituzionale qualora si occupasse di immigrazione, competenza legislativa esclusiva dello Stato), tra regolamenti parlamentari e altre fonti equiparate (ex. Una legge ordinaria sarebbe dichiarata incostituzionale qualora disciplinasse alcuni aspetti organizzativi interni al Parlamento), e tra diritto nazionale e diritto dell’UE. CRITERIO CRONOLOGICO (terzo da applicare per risolvere le antinomie reali) Oltre al criterio gerarchico e quello di competenza, per risolvere le antinomie tra fonti del diritto viene adoperato anche il criterio cronologico, il quale viene utilizzato nei casi di controversie tra fonti poste sullo stesso livello gerarchico tra le quali è da preferire quella più recente in quanto rispecchia la volontà attuale del potere normativo e comporta l’abrogazione della vecchia disposizione. Il fenomeno di successione nel tempo delle disposizioni è dovuto all’inesauribilità del potere normativo che prevede che le disposizioni siano continuamente rinnovabili. L’effetto prodotto dal criterio cronologico è l’abrogazione, che incide sul tempo di efficacia di una norma, a differenza dell’annullamento che ne comporta la perdita di validità: la norma annullata è dichiarata illegittima e non può più trovare applicazione, la norma abrogata, invece, non è dichiarata illegittima quindi continuerà ad avere effetti fino all’entrata in vigore della nuova norma abrogante. Quest’ultima non si applica ai rapporti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore a causa del principio di irretroattività sancito dall’art. 11 delle Preleggi, secondo il quale è possibile regolare controversie future, non passate. L’abrogazione può essere: - Esplicita, si riferisce ai casi in cui le disposizioni abrogate sono espressamente e nominativamente elencate in quella abrogante: nei casi di dichiarazione esplicita, gli effetti sono erga omnes, quindi non sussistono dubbi relativi al fatto che l’abrogazione sia effettivamente avvenuta. - Tacita, si riferisce ai casi in cui un giudice rileva incompatibilità di contenuto, quindi dovrà procedere ad abrogare inter partes la disposizione antecedente, che avrà quindi effetti solo nel caso in questione, non avendo ripercussione sulle scelte di altri giudici in futuro. Starà al giudice del caso stabilire qualora l’abrogazione sia avvenuta o meno. - Implicita, si riferisce ai casi in cui una disposizione successiva intervenga a disciplinare interamente una materia fino a quel momento regolata da un’altra previsione normativa. In questo caso sta all’interpretazione del giudice abrogare la norma nel suo complesso con effetti inter partes, quindi relativa soltanto al caso specifico. L’IRRETROATTIVITÀ DELLE LEGGI Nel nostro ordinamento vige il principio di irretroattività delle leggi, che prevede che le leggi debbano riferirsi unicamente a rapporti e situazioni future, ma tale principio varia a seconda che si tratti della materia penale o di altri settori dell'ordinamento. di 11 32 Diritto costituzionale I F. Biondi Al di fuori dell’ambito penale, il principio di irretroattività trova fondamento nell’art. 11 delle Preleggi, il che non significa che qualsiasi legge retroattiva sia automaticamente incostituzionale, in quanto questo sancito da una fonte primaria. Tuttavia, la Corte costituzionale e soprattutto la Corte EDU, sottopongono le leggi retroattive a un rigoroso scrutinio di ragionevolezza, in quanto tale principio sia espressione di civiltà giuridica. Le leggi di interpretazione autentica sono per natura retroattive, ma non necessariamente illegittime: le leggi applicate dal legislatore allo scopo di chiarire il significato di una disposizione precedentemente approvata a fronte di contrasti giurisprudenziali, sono adottate con l'obiettivo di obbligare gli operatori giuridici ad attenersi a una disposizione anteriore; di conseguenza, l'interpretazione imposta dal legislatore dovrà essere fatta valere anche nei giudizi pendenti. Qualora il legislatore non ricorresse ad alcuna disposizione anteriore, ma si avvalesse di una nuova norma, questa potrebbe essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale qualora non dimostrasse rilevanti giustificazioni a tutela degli interessi costituzionali. In ambito penale, invece, per quanto riguarda le leggi penali in malam partem, quindi quelle che introducono un nuovo reato o ne aggravino la pena per uno già esistente, sono in ogni caso incostituzionali come sancito dall’art. 25 comma 2 Cost.: una legge penale in malam partem retroattiva prevederebbe che un individuo sia passibile di gravi conseguenze causa la commissione di un reato del quale, all'epoca, non era conoscibile la rilevanza penale. Per quanto riguarda le leggi penali in bonam partem, quindi quelle che aboliscono un reato o istituiscono una pena sanzionatoria più favorevole al reo, si applica la retroattività cosicché su un individuo non gravi una pena per qualcosa che non costituisce più reato penale. In questi casi, il principio di retroattività è derogabile, quindi al legislatore è concesso applicare deroghe alla retroattività delle norme penali più miti. LA RISOLUZIONE DELLE ANTINOMIE APPARENTI: IL CRITERIO DI SPECIALITÀ Le antinomie apparenti tra fonti sullo stesso livello gerarchico si risolvono attraverso l’uso del criterio di specialità, il quale prevede la scelta, tra le due, della norma speciale invece di quella generale: in questi casi il giudice dovrà limitarsi a disapplicare la norma non pertinente senza che ciò abbia alcun effetto sulla sua vigenza. Il criterio di specialità è usato principalmente in ambito penale, senza preclusione per gli altri settori. CAPITOLO III 1. Le fonti superprimarie LA COSTITUZIONE La Costituzione italiana entrata in vigore nel 1948, come ogni fonte del diritto, deve trarre la propria legittimazione da un qualche potere: si ritiene che essa derivi dal potere costituente affidato ai membri dell’Assemblea costituente eletta dal popolo incaricata di redigere l’atto nato per ricoprire il vertice gerarchico del sistema. Formalmente, il potere costituente venne conferito ai 556 membri con l’art.1 del decreto luogotenenziale n. 1 del 1944 e poi sciolto con lo scioglimento dell’Assemblea una volta entrata in vigore la Costituzione secondo l’art. 4 del decreto legislativo n. 98 del 1946. Tuttavia il potere che legittima la Costituzione è di matrice storico-materiale: esso è dunque da ricercare nell’accordo tra forze politiche stretto con l’obiettivo di reagire ai totalitarismi nella prospettiva di un nuovo ordine democratico post-bellico. Quella italiana è una Costituzione lunga, programmatica, elastica e longeva, ma soprattutto rigida, a differenza di quelle ottocentesche che potevano essere modificate anche da leggi ordinarie. A tutela della superiorità della Costituzione rispetto alle altre fonti del diritto vi è la presenza di un procedimento aggravato, per le modifiche al suo testo, e di un’autorità a garanzia del rispetto dei suoi principi, ossia la Corte costituzionale. LE LEGGI DI REVISIONE COSTITUZIONALE E LE ALTRE LEGGI COSTITUZIONALI L’art. 138 Cost. disciplina il procedimento di approvazione delle leggi costituzionali, le quali si differenziano in leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali. Per leggi di revisione costituzionale si intendono quelle leggi il cui contenuto incide sul testo della Costituzione abrogando, modificando, aggiungendo o sostituendo le disposizioni in essa contenute. Le altre leggi costituzionali, invece, sono fonti poste al di fuori, ma che hanno rango pari a quello della Costituzione. L’art. 71 Cost., in relazione all’iniziativa legislativa, specifica come i soggetti legittimati a presentare una proposta di legge costituzionale siano gli stessi autorizzati a presentare un progetto di legge ordinaria. L’art. 38 Cost. disciplina, invece, la fase di approvazione del procedimento aggravato specificando l'esigenza di due deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione: in questo modo, sia la Camera sia il Senato dovranno riunirsi una prima volta, durante la quale potranno apportare modifiche al testo (emendamenti) con potere correttivo, e approvare la disposizione a maggioranza semplice, quindi dei soli presenti. Almeno tre mesi dopo, poi, entrambe le Camere dovranno nuovamente riunirsi e votare, deliberando in modo unicamente confermativo o negativo, a maggioranza assoluta, quindi dei componenti dell’Assemblea. La doppia votazione, intervallata da almeno tre mesi che intercorrono tra le deliberazioni di ciascuna delle due Camere, è volta a obbligare senatori e deputati a riflettere sull'opportunità di approvare una legge tanto importante come quella costituzionale. di 12 32 Diritto costituzionale I F. Biondi quella conclusiva sul testo finale, senza poter approvare eventuali emendamenti. Il procedimento misto, come quello decentrato, non può essere utilizzato nelle materie già indicate e nei casi in cui i soggetti legittimati ai sensi dell’art. 72 facciano richiesta di procedimento ordinario. L’art. 72 stabilisce anche che i regolamenti parlamentari possano prevedere procedimenti abbreviati per i progetti di legge di cui sia dichiarata l’urgenza, nei quali casi vengono ridotti i tempi previsti per le diverse fasi del procedimento. PROMULGAZIONE E PUBBLICAZIONE DELLA LEGGE La promulgazione è competenza del Capo di Stato, il quale documenta la volontà delle Camere e verifica i testi pervenutigli entro 30 giorni dall’approvazione della proposta a meno che non sia stata dichiarata l’urgenza. È in questa fase che il Presidente della Repubblica può chiedere il rinvio: il Capo di Stato può, infatti, richiedere che le Camere si pronuncino nuovamente sulla proposta qualora ritenga che la legge stessa presenti profili di illegittimità costituzionale, queste dovranno necessariamente rivederla, potendo comunque riapprovare il testo originario, allora il Presidente sarà obbligato a promulgare la legge. A questo punto il Ministro di Giustizia appone sulla legge il proprio visto e la pubblica sulla Gazzetta Ufficiale e, trascorsi 15 giorni di vacatio legis, a meno di differente prescrizione, la legge entrerà in vigore. LEGGI ATIPICHE E LEGGI RINFORZATE Per leggi atipiche si intendono quelle leggi ordinarie dotate di una peculiare forza attiva, quindi nella capacità di innovare l'ordinamento attraverso abrogazione, modifica o deroga di disposizioni normative vigenti, o passiva, quindi nella capacità di resistere ad abrogazione, modifica o deroga da parte di altre fonti del diritto. Le leggi atipiche sono previste dalla Costituzione e comprendono differenti tipologie di fonti, tra cui anche le leggi rinforzate, ossia fonti dotate di una particolare forza passiva che impedisce loro di essere modificate o abrogate da una legge ordinaria se non attraverso il procedimento prescritto per la loro approvazione (ex. leggi di amnistia e indulto). GLI ATTI GOVERNATIVI AVENTI FORZA DI LEGGE Gli atti governativi aventi forza di legge sono il decreto legislativo e il decreto legge posti sullo stesso livello gerarchico della legge approvata dal Parlamento: questi possono essere modificati, derogati o abrogati da leggi successive, ma non da fonti subordinate alla legge, mentre il discorso opposto è lecito nei confronti di leggi precedenti. La previsione di atti governativi aventi forza di legge costituisce una deroga costituzionalmente ammessa al principio di separazione dei poteri, per cui la funzione legislativa dovrebbe poter essere esercitata solo dal Parlamento: perciò, i poteri del Governo in tale ambito sono fortemente limitati dagli artt. 76, 77. Il Parlamento non viene, però, escluso dall’iter di approvazione degli atti aventi forza di legge: nel caso del decreto legislativo interviene nel momento della delega al Governo, mentre nei decreti legge nella necessaria conversione del decreto governativo in legge. LA LEGGE DI DELEGA E IL DECRETO LEGISLATIVO L’art. 77 Cost. stabilisce che il Governo possa emanare atti aventi forza di legge, i decreti legislativi, solo con la legge di delega del Parlamento. Le Camere non cedono il potere legislativo del quale sono esclusive titolari, ma concedono al Governo una porzione limitata di tale funzione, riservandosi la possibilità di revocare esplicitamente o implicitamente la delega. Le Camere usufruiscono di tale strumento riguardo materie tecnicamente complesse, ma, al fine di limitare il potere concesso al Governo, ciò può avvenire, secondo l’art. 76 Cost., solo per: - Oggetti definiti → Le materie da quest’ultimo disciplinabili, potenzialmente tutte tranne quelle coperte da una riserva di legge formale, sarebbero costituzionalmente circoscritte, tuttavia, accade che il Parlamento deleghi la legislazione di settori anche molto ampi. - Indicazione di principi e criteri direttivi → Il Parlamento stabilisce le norme fondamentali della materia, gli obiettivi e, talvolta, anche il procedimento da seguire, cui l’attività governativa deve attenersi. Nel tempo, le Camere hanno approvato leggi di delega sia troppo specifiche sia di scarsissime indicazioni di principio: quest’ultimo caso è stato poi dichiarato dalla Corte costituzionale come in contrasto con l’art. 76. - Tempo prestabilito → Il Parlamento è tenuto a fissare un termine certo, che può essere un lasso di tempo o un evento specifico, a specifica del trasferimento meramente temporaneo del potere legislativo. Nel 1988 si è stabilito che, qualora il termine previsto ecceda i due anni, il Governo sarà tenuto a richiedere il parere delle due Camere sugli schemi dei decreti legislativi. In linea teorica, l'esercizio del potere delegato appare necessariamente istantaneo, quindi limitato a un solo atto indipendentemente dal tempo a disposizione del Governo; tuttavia, con il tempo, è diventata prassi adottare decreti legislativi correttivi e integrativi su richiesta e autorizzazione del Parlamento, il quale permette di agire in due tempi, prima adempiendo alla delega e poi effettuando eventuali correzioni. Il procedimento di approvazione del decreto legislativo è adottato su deliberazione del Consiglio dei ministri ed emanato dal Presidente della Repubblica: il decreto legislativo deve indicare, nel preambolo, la legge di di 15 32 Diritto costituzionale I F. Biondi delega, la deliberazione del Consiglio dei ministri e degli eventuali altri adempimenti previsti dalla legge di delega; deve essere pubblicato con la denominazione di Decreto legislativo, e non di Decreto del Presidente della Repubblica, come avveniva prima, per evitare confusione con altri atti di emanazione presidenziale. Il decreto legislativo che non si attenga a tali richieste è dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale per vizio di eccesso di delega. In questi casi la legge di delega costituisce norma interposta tra il decreto legislativo e l’art. 76. Il decreto legislativo è ritenuto indirettamente lesivo della Costituzione quando ad essere disattesi siano sia i contenuti, quindi quando disciplina un oggetto non indicato nella legge di delega, sia le ulteriori ed eventuali prescrizioni contenute nella legge di delega. Accade anche che il Parlamento deleghi particolari poteri che si discostano da quelli proposti dall’art. 76 in quelle che sono chiamate deleghe legislative anomale, come ad esempio i testi unici, ossia la delega al Governo di raccogliere e riordinare tutte le disposizioni normative vigenti in una determinata materia. Un testo unico è ricognitivo quando al Governo ed è delegata un'attività meramente compilativa, mentre è di coordinamento quando è abilitato a modificare e abrogare le norme che è chiamato a coordinare. IL DECRETO LEGGE L’art. 77 Cost. prevede, benché al Governo non sia concesso di emanare decreti con valore di legge ordinaria senza la delega delle Camere, l'eccezione che lo abilita ad adottare sotto la propria responsabilità in casi straordinari di necessità e urgenza, provvedimenti provvisori con forza di legge che non devono attendere i tempi richiesti dall'ordinario iter legislativo, ossia i decreti legge. Questi ultimi hanno natura provvisoria, infatti, senza l'intervento del Parlamento a convertirli in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione, questi perdono immediatamente efficacia. Il decreto legge costituisce una deroga al principio monista, che attribuisce il potere legislativo unicamente al Parlamento, ed è perciò soggetto a numerose restrizioni; inoltre, in quanto responsabilità politica e giuridica del Governo, quest'ultimo ne risponde in sede civile, penale o amministrativa rispetto a qualunque conseguenza esso produca. 1. I PRESUPPOSTI DEL DECRETO LEGGE I presupposti giustificativi, espressamente indicati nel preambolo del decreto-legge, sono quelli di far fronte a situazioni nelle quali non è possibile attendere gli ordinari tempi di approvazione della legge del Parlamento. Tuttavia, nella prassi applicativa, le condizioni di straordinaria necessità e urgenza imposte dall’art. 77 sono state disattese, sfruttando il decreto legge come mezzo per evitare lungaggini o insidie politiche. Gli ulteriori presupposti del decreto legge sono: - Il divieto per il Governo di ricorrervi per conferire deleghe legislative, per intervenire in materie che prevedono una riserva d'Assemblea o per regolare rapporti sorti alla base dei decreti legge non convertiti (presupposti già esplicitati dalla Costituzione). - Il divieto per il Governo di adottare decreti legge che ripristinino l'efficacia di disposizioni dichiarate incostituzionali (presupposto già esplicitato dalla Costituzione). - Il divieto di rinnovare disposizioni di precedenti decreti di cui sia stata negata la conversazione in legge con il voto di una delle due Camere, che eluderebbe la natura eccezionale del decreto legge. - L'obbligo di introdurre misure di immediata applicazione e che abbiano contenuto specifico e omogeneo, caratteri volti a salvaguardare la natura specifica nel tempo e nell’ambito del decreto legge. 2. IL PROCEDIMENTO DI APPROVAZIONE E LA CONVERSIONE IN LEGGE Il decreto legge deve essere adottato su deliberazione del Consiglio dei Ministri, poi presentato al Presidente della Repubblica che procede all'emanazione e all'immediata pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale mediante la quale entra in vigore. Il giorno stesso il Governo deve presentare al Parlamento un disegno di legge di conversione composto di un solo articolo, dopo aver ricevuto l’approvazione del Presidente della Repubblica. Quindi, le Camere, anche se sciolte, dovranno riunirsi entro cinque giorni attuando procedimenti particolari volti ad assicurare il tempestivo esame del decreto legge. Il controllo parlamentare sulla sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza spetta, per il Senato, alla Commissione Affari costituzionali, cui deve obbligatoriamente essere richiesto un parere preventivo; in caso di parere negativo, o qualora lo richieda un decimo dei membri del Senato, l’Assemblea deve esprimersi con un voto. Alla Camera il disegno di legge di conversione viene trasmesso alla Commissione competente per materia e poi al Comitato per la legislazione, che è chiamato a fornire un parere. Una volta presentato il disegno di legge di conversione può accadere che: 1. Il Parlamento non esaurisca l'iter legislativo di conversione entro 60 giorni dalla pubblicazione. 2. Il Parlamento non approvi la legge di conversione. In entrambi i casi il decreto legge decade e perde i suoi effetti ex tunc, quindi immediatamente; a regolare i rapporti sorti durante la vigenza del decreto legge, il Parlamento può approvare una legge di sanatoria. 3. Il Parlamento approvi la legge di conversione: in questo caso gli effetti provvisori del decreto legge vengono stabilizzati nell’ordinamento e hanno effetti dal giorno successivo alla pubblicazione. In sede di di 16 32 Diritto costituzionale I F. Biondi conversione, alle Camere è concesso apportare modifiche alla disciplina originaria del decreto legge, con l'eccezione dell'inserimento di norme del tutto eterogenee rispetto a oggetto e finalità del decreto legge. 3. IL CONTROLLO SUGLI ABUSI NELLA DECRETAZIONE D’URGENZA La giurisprudenza costituzionale è tenuta a sanzionare prassi chiaramente distorsive del dettato costituzionale per abusi governativi o parlamentari. Sta, quindi, alla Corte costituzionale la verifica dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, andando a dichiarare illegittimi quei decreti che presentano evidenti vizi di legittimità costituzionale, astenendosi dall’ambito politico. Inizialmente si riteneva che, per motivi di tempo, la Corte fosse autorizzata a sindacare sia sul decreto legge sia sulla legge di conversione, essendo difficilmente possibile intervenire entro 60 giorni; poi si è ritenuto che i vizi del decreto legge fossero sanati in sede di conversione al Parlamento. Infine, si è giunti alla conclusione che la Corte sia autorizzata a sindacare sia il decreto legge sia la legge di conversione, a fronte del fatto che i vizi del primo si trasformino in vizi in procedendo della legge di conversione, non essendo quest'ultima idonea a sanarli. La Corte costituzionale è, inoltre, tenuta al controllo dell'omogeneità delle modifiche apportate dal Parlamento al testo del decreto legge: nel 2012, per la prima volta, la Corte ha sanzionato l’inserimento di emendamenti del tutto estranei a oggetto e finalità del decreto legge da parte del Parlamento. Ciò si configura, infatti, come una violazione dell’art. 77 che fissa un nesso di interrelazione funzionale tra decreto legge e legge di conversione: dunque al Parlamento è proibito sfruttare questo celere procedimento per l'approvazione di norme estranee al contenuto del decreto legge. Un ulteriore forma di abuso della decretazione d’urgenza è costituito dalla reiterazione: si tratta di una pratica adottata in passato dai governi che, scaduto il termine dei 60 giorni, in assenza della conversione in legge, presentavano un nuovo decreto legge contenutisticamente identico a quello non convertito con una clausola di retroattività che faceva salvi gli effetti del decreto precedente. La sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1996 ha definitivamente dichiarato la reiterazione del decreto legge incompatibile con gli artt. 77 e 70: al Governo è quindi concesso intervenire a regolare la stessa materia di un decreto non convertito a patto che il nuovo decreto manifesti i contenuti normativi sostanzialmente diversi e che si fondi su presupposti giustificativi nuovi e comunque straordinari. NB: I controlli possono essere effettuati anche dal Presidente della Repubblica sia in sede di emanazione sia in sede di promulgazione della legge di conversione. IL REFERENDUM ABROGATIVO L’art. 75 Cost. prevede che su richiesta di cinquecento mila elettori o di cinque Consigli regionali possa essere indetto un referendum abrogativo, con il quale il corpo elettorale può decidere dell'eventuale abrogazione totale o parziale di leggi o atti aventi forza di legge. Si tratta di uno strumento eccezionale, rispetto alla rappresentatività della nostra democrazia, di democrazia diretta, per il quale gli elettori intervengono direttamente e immediatamente sulle scelte parlamentari ritenute inopportune. Il referendum è valido soltanto se partecipano alla consultazione il 50% +1 degli elettori. Il procedimento di indizione del referendum: 1. Fase dell’iniziativa referendaria → il referendum viene richiesto da 500.000 elettori o da 5 Consigli regionali e può essere un referendum totale, se ha come oggetto un intero testo di legge, o parziale, se ha come oggetto una o più norme della legge. Il deposito delle richieste referendarie presso la Corte di cassazione dovrà avvenire tra il 1 gennaio e il 30 settembre. Per evitare la sovrapposizione tra l'iniziativa e le elezioni politiche delle Camere, non può essere depositata richiesta di referendum nell'anno precedente alla scadenza delle Camere e nei sei mesi successivi alla convocazione dei comizi elettorali. a. Se l’iniziativa proviene dagli elettori prevede che i promotori del referendum (almeno dieci cittadini che godono di diritto di voto) si presentino presso la Corte di cassazione, indicando la legge o gli articoli che intendono abrogare; poi dovranno raccogliere le firme, autenticate nei modi previsti dalla legge, su fogli con il quesito referendario, al quale i cittadini possono rispondere con un sì o un no rispetto all'abrogazione della norma indicata. Il deposito di firme e richiesta referendaria alla Corte di cassazione deve avvenire entro tre mesi dall’inizio della raccolta. b. Se l'iniziativa proviene dai Consigli regionali è sufficiente che vengano presentate le delibere approvate a maggioranza semplice e presentate entro tre mesi dalla loro approvazione, contenenti l'indicazione dell'oggetto del quesito. 2. Fase dei due controlli preventivi all’indizione del referendum 1. Vaglio sulla legittimità del referendum della Corte di cassazione → controllo svolto presso l’Ufficio centrale istituito presso la Cassazione, che verifica il rispetto della legge nella fase dell'iniziativa, ad esempio verificando la regolarità della raccolta delle firme. La decisione definitiva dell’Ufficio deve essere resa entro il 15 dicembre: l’Ufficio si occupa, qualora vengano presentati contestualmente più quesiti referendari con oggetti analoghi, di concentrarli e stabilire il titolo del referendum, ossia la denominazione con cui possano identificarlo gli elettori. L'ordinanza dell'Ufficio centrale viene quindi notificata alla Corte costituzionale. di 17 32 Diritto costituzionale I F. Biondi Sta al Consiglio regionale approvarle secondo il procedimento dettato negli Statuti, mentre le materie di competenza delle Regioni sono specificate art. 117 Cost. e negli Statuti speciali. L’art. 117 Cost. definisce le materie di competenza delle Regioni ordinarie rispetto a quelle dello Stato, ossia: - La competenza legislativa esclusiva dello Stato (comma 2), quindi tutte le materie che richiedono una disciplina unitaria su tutto il territorio nazionale senza possibilità di differenziazione tra Regioni (ex. moneta, immigrazione). - La competenza legislativa corrente (comma 3), ossia quelle materie sulle quali possono intervenire sia lo Stato sia le Regioni: allo Stato spetta il compito di dettare i principi fondamentali, mentre alle Regioni quello di regolamentare tali materie nel dettaglio adeguandosi alle singole specificità territoriali, organizzative e sociali (ex. disciplina di porti e aeroporti civili). - La competenza legislativa residuale regionale (comma 4): si tratta di una clausola residuale che attribuisce esclusivamente alle Regioni il compito di disciplinare tutte le materie non elencate nei commi precedenti (ex. turismo). Originariamente allo Stato era assegnato il potere di intervenire in ogni ambito non compreso nelle materie di competenza corrente, successivamente, però, la clausola residuale è stata inserita ai fini di ampliare gli spazi della potestà legislativa regionale. Ciò nonostante, la Corte costituzionale è sovente nel favorire discipline statali anche se puntuali a danno delle Regioni: con le materie trasversali (ex. tutela dell’ambiente), ad esempio, la Corte ha legittimato il legislatore statale a dettare norme che invadono aree di competenza regionale, estendendo così il raggio di azione della legislazione statale a danno di quella regionale. Gli Statuti speciali regolano i campi d’azione delle Regioni speciali non ricalcando puntualmente l’art. 117 Cost., che prevale se maggiormente favorevole all’autonomia regionale, ma differenziandosi per taluni aspetti. 4. Le fonti secondarie statali I REGOLAMENTI DEL POTERE ESECUTIVO I regolamenti del potere esecutivo sono fonti statali secondarie e comprendono i regolamenti governativi e regolamenti ministeriali e interministeriali: entrambi sono subordinati alla legge nella quale devono trovare fondamento in virtù del principio di legalità, mentre solo i secondi sono subordinati ai primi. I regolamenti dell'esecutivo sono implicitamente riconosciuti anche dalla Costituzione, ma è l’art. 17 della legge n. 400 del 1988 a stabilire la procedura di approvazione e a indicarne le diverse tipologie. Riguardo alla procedura, il regolamento viene proposto dal Ministro/i competente per materia e poi deliberato dal Consiglio dei Ministri. Quindi, il Governo è tenuto a interpellare il Consiglio di Stato, il quale fornirà un parere obbligatorio, ma non vincolante. Infine, prima di procedere alla registrazione e alla pubblicazione, quindi all’entrata in vigore, nella Gazzetta Ufficiale, il regolamento viene emanato con decreto del Presidente della Repubblica e sottoposto al controllo di legittimità della Corte dei conti. I regolamenti governativi possono essere di diverso tipo: 1. Regolamenti di esecuzione delle leggi, dei decreti legislativi e dei regolamenti comunitari: hanno una funzione puramente strumentale rispetto alla legge, senza una portata innovativa, in quanto vengono adottati quando è necessario specificare il contenuto delle disposizioni di legge, decreto legislativo o regolamento comunitario. Per la loro adozione non sono necessarie specifiche autorizzazioni legislative e non possono intervenire in materie coperte da riserva di legge assoluta, eccetto nel caso di regolamenti di stretta esecuzione. 2. Regolamenti di attuazione e integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio: hanno portata normativa innovativa che li differenzia da quelli di esecuzione, benché non siano sempre distinguibili da questi ultimi. Per la loro adozione è necessario che la legge detti i principi cui l'attività regolamentare deve attenersi e non possono intervenire in materie coperte da riserva di legge assoluta (ex. regolamento n. 75 del 2005 Regolamento di attuazione della legge n. 4/2004, per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici). 3. Regolamenti indipendenti, ossia quelli che intervengono nei settori mancanti di una disciplina legislativa. Sono legittimamente adottati solo in materie non coperte da una riserva di legge, infatti, anche qualora il Parlamento non intervenga a disciplinarla, la materia lacunosa non potrà essere disciplinata da un regolamento. Sussiste un dubbio riguardo la violazione del principio di legalità: infatti, i regolamenti governativi non poggiano su una base legislativa, a meno di ritenere che sia lo stesso art. 17 della legge 400 ad autorizzarli, tuttavia, nel nostro ordinamento il numero di materie sulle quali non sia intervenuta una legge è estremamente esiguo. 4. Regolamenti di organizzazione, intervengono a disciplinare ciò che riguarda personale, strutture, funzionamento dei pubblici uffici nel rispetto di quanto disposto dalla legge. In materia esiste una riserva di legge relativa, che deve essere soddisfatta da una legge che ne determini i principi fondamentali. 5. Regolamenti autorizzati o di delegificazione: adottati sulla base di leggi che delegano un successivo regolamento a intervenire in materie non coperte da riserva di legge assoluta. La legge che ne autorizza l'adozione è tenuta a fissare i principi generali della materia e, con l'entrata in vigore delle norme di 20 32 Diritto costituzionale I F. Biondi regolamentari, a disporre l’abrogazione delle norme di legge vigenti, ad opera della legge per non violare il principio di legalità e la gerarchia di abrogazione. Facendo sì che una materia non sia più disciplinata da una fonte legislativa, ma da una regolamentare, si tenta di supplire al fatto che la maggioranza delle regole giuridiche del nostro ordinamento sia contenuta nelle leggi e di semplificare il procedimento per l'aggiornamento delle discipline normative eliminando la più complessa approvazione di un atto legislativo. I regolamenti ministeriali e interministeriali, invece, sono adottati rispettivamente dal Ministro o dai Ministri competenti nella materia oggetto del regolamento, e assumono la forma di Decreto ministeriale o interministeriale. Come ai regolamenti governativi, anche a questi occorre il parere del Consiglio di Stato e il controllo di legittimità della Corte dei conti; è d’obbligo anche informare, prima dell’emanazione, il Presidente del Consiglio, che può sospenderne l’adozione per rimetterla alla decisione del Consiglio dei ministri. Oltre a quelli dell’esecutivo, l’ordinamento prevede anche i regolamenti adottati da altri organi della Pubblica amministrazione, ossia i regolamenti di altre autorità: atti espressione di un potere esercitabile dalle singole pubbliche amministrazioni nelle rispettive competenze, che, però, non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti dell’esecutivo. 5. Le fonti secondarie regionali e delle autonomie locali I REGOLAMENTI REGIONALI Le Regioni possono approvare regolamenti regionali, subordinati alle leggi regionali, relativamente alle materie in cui hanno competenza legislativa concorrente o residuale, altrimenti spetta allo Stato la relativa funzione regolamentare. Sta allo Statuto regionale il compito di approvare e stabilire qualora i regolamenti debbano essere adottati dall’organo legislativo, il Consiglio, o da quello esecutivo, la Giunta, della Regione. ATTI NORMATIVI DEGLI ENTI LOCALI Gli enti locali, ossia i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno il potere di adottare statuti e regolamenti in ambiti di competenza regolati da una fonte legislativa statale. Gli statuti, gerarchicamente superiori, hanno la competenza a fissare le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente, intervenire su altri profili di ordine istituzionale o garantire il rispetto di alcuni diritti e principi cardine. Per l'approvazione è richiesto al Consiglio dell'ente locale un procedimento volto a garantire un consenso ampio. I regolamenti, invece, disciplinano organizzazione, svolgimento e gestione delle funzioni dell'ente locale. 6. Altre fonti LE CONSUETUDINI Le consuetudini sono fonti-fatto non scritte che non corrispondono a una manifestazione di volontà normativa di un organo e che, quindi, non trovano sede in una disposizione normativa. Perché sia considerabile tale, una consuetudine si fonda su due elementi: sul costante ripetersi nel tempo di un comportamento tenuto dei membri di una comunità e sulla contestuale convinzione di coloro che lo assumono che esso abbia una rilevanza giuridica. Nel nostro ordinamento la consuetudine ha rango variabile: dal superprimario, quali le consuetudini internazionali e costituzionali, fino al più basso rango della gerarchia, quali gli usi. Le consuetudini internazionali sono regole di comportamento osservate dalla generalità degli Stati, e che entrano nel nostro sistema con lo stesso rango di una fonte costituzionale. Le consuetudini costituzionali, invece, sono comportamenti tenuti da organi costituzionali che integrano il contenuto in ambiti in cui non esiste una disciplina puntuale. Diverse sono le convenzioni costituzionali, ossia quei taciti accordi presi a fronte di una lacuna nella Costituzione; se il comportamento tenuto alla base di tale accordo si consolidasse, la convenzione si trasformerebbe in consuetudine costituzionale. Gli “usi”, infine, secondo le Preleggi, hanno efficacia solo qualora siano richiamati da leggi o regolamenti. Quindi non sono ammesse consuetudini contra legem, cioè in difformità con quanto stabilito da legge o regolamento, mentre sono ammesse consuetudini secundum legem, cui rinviano di volta in volta specifiche norme di legge, e praeter legem, che intervengono nei settori non ancora regolati dal diritto scritto. I CONTRATTI COLLETTIVI DI LAVORO La Costituzione riconosce come fonti del diritto i contratti collettivi di lavoro, vincolanti per gli iscritti ai sindacati dei lavoratori e alle associazioni sindacali dei datori di lavoro. Perché un sindacato possa stipulare contratti con tali effetti occorre che sia dotato di un ordinamento interno democratico e che così sia registrato. LE ORDINANZE DI NECESSITÀ E URGENZA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Sono atti che organi della pubblica amministrazione possono adottare per far fronte a situazioni eccezionali che richiedono un tempestivo intervento. Sebbene previste in differenti fonti legislative, le ordinanze di necessità e urgenza presentano alcune caratteristiche comuni: essendo finalizzate a fronteggiare le situazioni emergenziali, hanno contenuto atipico, non predeterminato dalla legge, quindi proprio per la flessibilità che questi strumenti di 21 32 Diritto costituzionale I F. Biondi devono essere in grado di garantire, è ammessa eccezionalmente la possibilità che deroghino alla legge ma non ai precetti costituzionali né ai principi generali dell'ordinamento. È stata elaborata una serie di requisiti che garantiscano ls legittimità delle ordinanze: occorre che gli eventi da fronteggiare siano imprevedibili, che ricorra l'urgenza di provvedere, che le ordinanze si attengano ai principi costituzionali e a quelli generali dell’ordinamento, che la misura sia temporalmente limitata, che l'intervento sia adeguatamente motivato. 7. Le fonti internazionali In una comunità di Stati sovrani, i rapporti giuridici che intercorrono tra questi sono retti da un sistema di fonti normative esterne al nostro ordinamento, ma che producono ugualmente effetti interni: tali fonti possono essere recepite mediante adattamento automatico o attraverso specifici atti normativi interni. Si tratta quindi di fonti-fatto che vengono riconosciute come produttive di effetti giuridici e alle quali l'Italia si adatta secondo regole proprie: all’interno dello Stato assumono rango variabile che dipende dal rango della fonte del diritto interno responsabile del loro recepimento (ex. se l'adattamento avviene tramite norma costituzionale, la consuetudine internazionale sarà di rango superprimario). L'ordinamento italiano recepisce la fonte esterna mediante rinvio fisso, ossia con una specifica disposizione straniera con eventuali modifiche senza rilievo, oppure con rinvio mobile, con una fonte del diritto straniero con il necessario adattamento del nostro sistema alle eventuali correzioni apportate nel tempo a tale disciplina. LE NORME DEL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALMENTE RICONOSCIUTE Le consuetudini internazionali o norme di diritto internazionale generalmente riconosciute sono regole non scritte vincolanti per tutti gli Stati membri della comunità internazionale che assurgono a fonti del diritto nel momento in cui l’elemento oggettivo e quello soggettivo si verificano: quindi, rispettivamente, quando tale regola viene rispettata dalla generalità degli Stati, e quando è comune convinzione che esso abbia rilevanza giuridica (poche basilari regole di rispetto e pacifica relazione tra Stati). L’adattamento è automatico ai sensi dell’art. 10 Cost., il quale funge dai trasformatore permanente di tutte le consuetudini internazionali passate e future cui l’ordinamento italiano dovrà conformarsi. In caso di contraddizione la Corte costituzionale ha stabilito che tutte le consuetudini internazionali incontrino il limite del necessario rispetto dei principi supremi: di conseguenza, il trasformatore automatico cessa effettivamente di sussistere per tutelare l’ordinamento interno da violazioni esterne dei diritti inviolabili e dei valori che delineano l’identità dello Stato. LE NORME DEL DIRITTO INTERNAZIONALE PATTIZIO Un’altra fonte internazionale è costituita dalle norme di diritto internazionale pattizio (trattati o convenzioni), ossia fonti scritte che vincolano unicamente quei Paesi che li abbiano sottoscritti o ratificati. Il procedimento si suddivide in più fasi: 1. Negoziati, che si concludono con la stipula dell’accordo da parte di un rappresentante del Governo. 2. Ratifica del trattato, con cui lo Stato aderisce al testo della convenzione. 3. Scambio dei rispettivi strumenti di ratifica tra gli Stati, che fa sorgere responsabilità di tipo internazionale. 4. Ordine di esecuzione, che determina la produzione di effetti giuridici internazionali all’interno del sistema italiano (insieme alla ratifica, la disciplina di queste fasi si differenzia per ciascun ordinamento). Nel nostro ordinamento, la competenza di ratificare i trattati internazionali è affidata al Presidente della Repubblica dagli artt. 80 e 87 Cost., mediante decreto. Tale ratifica deve, però, essere autorizzata con legge del Parlamento quando essa riguardi trattati di natura politica, che prevedano arbitrati o regolamenti giudiziari, o che importino variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazioni di leggi. L'ordine di esecuzione, per prassi, è contenuta nella stessa legge di autorizzazione alla ratifica del trattato. Se la materia regolata dalla fonte pattizia non rientra in tali ambiti, il Presidente della Repubblica potrà procedere direttamente alla ratifica del trattato, per le difficoltà a definirli precisamente. Quando la fonte internazionale si perfeziona e produce effetti senza una ratifica del Capo dello Stato, ma con la sola conclusione dell'accordo da parte di un rappresentante del Governo, gli accordi internazionali vengono ratificati dall'ordinamento in forma semplificata. Il rinvio per le fonti pattizie è fisso: il recepimento, infatti, non si riferisce alla fonte internazionale in sé considerata, ma alla specifica disciplina in essa prevista. Il rango di queste fonti, invece si determina guardando alla fonte interna che ha provveduto all'adattamento: avranno rango legislativo, con l’autorizzazione alla ratifica da parte di una legge ai sensi dell’art. 80, o sub-legislativo nelle altre ipotesi. In caso di conflitto tra una disposizione interna e una contenuta in un trattato internazionale, la Corte costituzionale stabilisce che queste ultime godano di una maggiore forza di resistenza rispetto alle altre leggi ordinarie. Sono, quindi, norme interposte collocate in una posizione intermedia tra fonti superprimarie e primarie. Il giudice ordinario sarà, dunque, tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale, non essendo autorizzato a disapplicare la norma interna, affinché, a meno di violazione dei principi supremi, la norma interna sia dichiarata illegittima. di 22 32 Diritto costituzionale I F. Biondi raggiungono una determinata percentuale di voti, o il premio di maggioranza, grazie al quale la forza politica di maggioranza viene agevolata in Parlamento tramite l’assegnazione di seggi aggiuntivi. L’elezione può, inoltre, svolgersi in un solo turno o in doppio turno, che utilizza il ballottaggio: in quest’ultimo caso, soltanto i candidati più votati alle elezioni potranno partecipare al secondo turno, seguito dall’attribuzione dei seggi. Gli eletti possono essere votati direttamente dai cittadini oppure per elezione di secondo grado, tramite la quale i cittadini eleggono rappresentanti intermedi, i quali poi eleggeranno il titolare della carica. Nei sistemi plurinominali, inoltre, i cittadini possono indicare direttamente i candidati da eleggere tramite le preferenze, oppure, in caso di voto per liste bloccate, soltanto la forza politica, la quale ha precedentemente disposto lista e ordine dei candidati. Tra le variabili che influenzano gli esiti delle elezioni e l’equilibrio tra governabilità e rappresentatività, vi è anche l’ampiezza, il numero di seggi dei collegi elettorali e il concreto assetto politico-partitico, quindi la volontà delle forze politiche di creare coalizioni o presentarsi da sole al voto. SISTEMA ELETTORALE ITALIANO: DAL PROPORZIONALE AL MATTARELLUM (1948-2005) La Costituzione, nonostante manifesti una preferenza per quelli proporzionali, riserva alla legge ordinaria la disciplina dei sistemi elettorali in funzione dell’adattamento all’evoluzione della situazione politica. Tuttavia, oltre all’espresso obbligo di elezione per entrambe le Camere a suffragio universale e diretto, nell’art. 57 Cost., si dispone espressamente che l’elezione dei componenti del Senato debba avvenire, a differenza di quanto avviene alla Camera, su circoscrizioni regionali. Nel 1948 poi, attraverso due leggi ordinarie, i Costituenti stabilirono di adottare per entrambe le Camere del Parlamento sistemi elettorali sostanzialmente proporzionali senza correttivi, sistema nel quale acquisirono posizione sempre più centrale i partiti politici. Nella seconda metà del Novecento, però, questi ultimi subirono una grave crisi dovuta sia all’affievolirsi delle ideologie su cui essi si fondavano, sia agli episodi di corruzione che caratterizzarono i principali esponenti dei partiti minando definitivamente il rapporto di fiducia con l’elettorato. Il sistema proporzionale rimase in vigore fino al referendum abrogativo del 1993 che abrogò la legge che rendeva proporzionale il sistema elettorale del Senato: tuttavia, grazie a un sapiente uso del referendum manipolativo ad opera dei promotori, i cittadini si espressero contestualmente per l’introduzione di un sistema misto prevalentemente maggioritario. Il Parlamento modificò, quindi, il sistema elettorale di entrambe le Camere istituendo il Mattarellum, ossia un sistema elettorale proposto dall’allora deputato Mattarella, prevalentemente maggioritario (con il 75% dei seggi attribuito ai collegi uninominali a sistema maggioritario e il 25% ripartito su base proporzionale con l’aggiunta di della soglia di sbarramento e dello scorporo come correttivi). Tale sistema è stato applicato a tre turni elettorali fino alle elezioni del 2005 influenzando il contesto politico di sostanziale bipolarismo dei partiti politici (centro-destra e centro-sinistra), e contribuendo positivamente all’alternanza tra le forze politiche al potere e alla stabilità dei Governi rispetto al sistema proporzionale. PORCELLUM (2005-2013) La legge n. 270 del 2005 dell’onorevole Calderoli soprannominata Porcellum, andò poi a re-istituire quello che si presentava come un sistema elettorale proporzionale, ma che, con tutti i correttivi del caso, aveva effetti sostanzialmente maggioritari: si tratta delle soglie di sbarramento elevate per liste coalizzate o sole, del premio di maggioranza pari al 55% dei seggi, attribuito alla lista di maggioranza che però non fosse stata in grado in autonomia di raggiungere il 55% dei seggi, e delle lunghe liste bloccate, che non consentivano all’elettore di esprimere una preferenza tra i tanti candidati che potevano candidarsi in più circoscrizioni. Il premio di maggioranza, che alla Camera veniva attribuito a livello nazionale, risultò ancora più irragionevole per il fatto che al Senato, invece, venisse attribuito a livello regionale: in questo modo, come capitato alle elezioni del 2006 e del 2013, la solida maggioranza alla Camera doveva confrontarsi con una situazione nettamente più precaria al Senato, non corrispondendo i premi di maggioranza regionali a quello nazionale. L’obbiettivo principale di tale legge era quello di permettere al centro-destra di avere qualche chance alle elezioni del 2006 che davano il centro-sinistra come ampiamente favorito, ma il Porcellum finì soltanto per rendere più difficoltosa la governabilità del sistema. Numerosi rilievi di costituzionalità vennero poi sollevati riguardo l'effetto distorsivo del premio di maggioranza, dal momento che quest’ultimo veniva riconosciuto indipendentemente dal numero di voti ottenuti, e riguardo le lunghe liste bloccate, che apparivano all’opinione pubblica come mera espressione dell’autoreferenzialità dai partiti politici. Di conseguenza, non essendo riuscito il legislatore a modificare la legge, la Corte costituzionale intervenì con la sentenza n. 1 del 2014 con la quale dichiarava incostituzionali diverse norme del Porcellum: la Corte dichiarò che l’assegnazione del premio di maggioranza fosse fonte di un’eccessiva divaricazione tra sovranità popolare e organo rappresentativo, quindi lesiva del principio di uguaglianza, che il premio di maggioranza su scala regionale per il Senato vanificasse l’obiettivo di stabilità di 25 32 Diritto costituzionale I F. Biondi e che le lunghe liste bloccate fossero lesive della libertà di voto, privando queste l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti. LA LEGGE ELETTORALE PER LA SOLA CAMERA E LA SUA INCOSTITUZIONALITÀ All’esito della sentenza n. 1 del 2014, la vicenda della legge elettorale si è intrecciata con quella della riforma costituzionale Renzi-Boschi, approvata poi nel 2016, ma bocciata al referendum dello stesso anno, la quale proponeva che il Senato non fosse più eletto dal corpo elettorale, ma dai Consigli regionali. Nella convinzione che la riforma sarebbe entrata in vigore, il Parlamento approvò la legge elettorale n. 52 Italicum, che riguardava soltanto la Camera. L’Italicum prevedeva un sistema proporzionale eventualmente a doppio turno con forte correttivo maggioritario: introduceva l'assegnazione di un significativo premio di maggioranza di almeno 340 seggi per la lista che avesse conseguito al primo turno almeno il 40% dei voti e che avesse vinto il ballottaggio con la seconda in classifica. Prevedeva, inoltre, una soglia di sbarramento del 3% su base nazionale e liste di candidati formate da un capolista bloccato, che poteva candidarsi in massimo dieci collegi diversi, e altri candidati sui quali gli elettori avrebbero potuto esprimere una doppia preferenza di genere: qualora la lista avesse conseguito voti sufficienti per ottenere seggi nel collegio, il capolista sarebbe stato sempre il primo ad essere eletto all’interno della lista e, nel caso fossero stati guadagnati più seggi, questi sarebbero stati attribuiti ai candidati con il maggior numero di preferenze. La sentenza n. 35 del 2017 della Corte costituzionale ha poi dichiarato incostituzionali il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza all'esito del ballottaggio, al quale avrebbe potuto accedere anche una lista che al primo turno avesse conseguito un consenso esiguo (effetto distorsivo dei principi di rappresentatività e di uguaglianza del voto analogo a quello del Porcellum), e la possibilità del capolista pluricandidato di poter scegliere il collegio di elezione, stabilendo che ciò dovesse avvenire tramite sorteggio. ROSATELLUM Al fine di evitare un ritorno alle urne con due differenti leggi elettorali per le due Camere, il Parlamento nel 2017 approvò la legge elettorale n. 165 del deputato Rosato, il Rosatellum, che introdusse un sistema elettorale misto a prevalenza proporzionale. In questo sistema elettorale sia alla Camera sia al Senato poco più di un terzo dei seggi è assegnato su base maggioritaria in collegi uninominali e i restanti con un metodo proporzionale nell'ambito di collegi plurinominale di dimensioni ridotte (massimo 8 deputati o senatori). L’elettore, con una sola scheda, deve effettuare due diverse scelte, individuando il candidato da sostenere nella competizione maggioritaria e il partito in quella proporzionale; tuttavia, non è consentito il voto disgiunto: l'elettore non può, quindi, votare nel proporzionale un partito differente da quello di appartenenza del candidato per il quale ha votato nel maggioritario. I partiti, che possono presentarsi da soli o in coalizioni, nella competizione maggioritaria, qualora scegliessero di coalizzarsi con altre forze politiche, dovrebbero presentare un solo candidato di coalizione; in quella proporzionale, invece ciascun partito fornisce liste bloccate corte, composte 2-4 candidati alternati per genere, senza possibilità per l’elettore di esprimere preferenze. Le soglie di sbarramento previste dal Rosatellum sono del 3% dei voti validi a livello nazionale per le liste che si presentano da sole, e del 10% a livello di coalizione per quelle di coalizione, delle quali ciascuna lista deve raggiungere il 3% dei voti. I voti alle liste coalizzate tra l’1% e il 3% sono ripartiti tra le liste coalizzate che hanno raggiunto la soglia, quelli inferiori andranno dispersi. Si parla di pluricandidature nei casi in cui i candidati a un collegio uninominale si candidino anche a un massimo di cinque collegi plurinominali, non potendosi candidare in altri collegi uninominali. 3. I principi generali IL BICAMERALISMO PARITARIO IN ITALIA Inizialmente, all’Assemblea costituente le sinistre spingevano per l'adozione di un modello parlamentare monocamerale affinché l'unica Camera garantisse il principio democratico di sovranità popolare non condizionato da un'altra Camera non rappresentativa della volontà del popolo, mentre, liberali e cattolici insistevano per un modello bicamerale nel quale il Senato garantisse maggiore ponderazione delle deliberazioni assunte dalla Camera. La soluzione giunse nell'adozione di un compromesso, ossia di un sistema parlamentare bicamerale perfetto che comprende Camera dei Deputati e Senato della Repubblica (eletto dal popolo, ma con funzione di Camera di raffreddamento), due Assemblee politiche entrambe espressive del corpo elettorale, dotate di analoghi poteri legislativi ed entrambe necessarie per la fiducia del Governo. Gli elementi di differenziazione tra le due Camere sono scarsi: in origine, innanzitutto, la Camera dei Deputati aveva una durata di cinque anni il Senato di sei, differenza poi parificata a cinque per evitare di avere due maggioranze diverse in Parlamento. Attualmente, gli elementi discriminanti riguardano: di 26 32 Diritto costituzionale I F. Biondi - Numero dei componenti → 400 membri alla Camera, di cui 8 eletti nella circoscrizione estero, e 200 al Senato, di cui 6 eletti nella circoscrizione estero (prima del referendum costituzionale del 2020 erano 630 alla Camera e 315 al Senato). - Requisiti per l’elettorato attivo → 18 anni per la Camera, 25 per il Senato. - Requisiti per l’elettorato passivo → 25 anni per la Camera, 40 per il Senato. + Senatori a vita, massimo cinque individui nominati dal Presidente della Repubblica per meriti alla Patria o Presidenti emeriti. La riduzione del numero dei parlamentari rischia di alterare la rappresentanza politica a discapito delle forze politiche meno rappresentative. È possibile che venga eliminato anche il requisito del compimento dei 25 anni per l'elettorato attivo per il Senato a causa dell’approvazione di una legge costituzionale nel 2021 a modifica dell’art. 58 Cost. È, infine, comune la tesi che la presenza di due Camere dotate dei medesimi poteri provochi un appesantimento del processo decisionale interno al Parlamento che ritarda di molto l'approvazione di una legge: numerose proposte di modifiche sono state fatte, ma tutte poi bocciate con il voto referendario. LA DURATA DELLA LEGISLATURA, PROROGA E PROROGATIO La legislatura è la durata ordinaria di cinque anni di carica della Camera e del Senato, nonostante sia frequente che queste vengano sciolte anticipatamente dal Presidente della Repubblica quando incapaci di esprimere una maggioranza che possa sostenere un Governo. In caso di guerra, la Costituzione prevede la proroga della durata della legislatura attraverso una legge per un tempo da essa determinato. Il lasso di tempo che intercorre naturalmente, quindi decorsi cinque anni, o in virtù dello scioglimento anticipato tra due legislature è chiamato prorogatio: si tratta di un periodo, fino a 90 giorni, durante il quale, in attesa che le nuove Camere assumano i pieni poteri, si protraggono quelli della precedente legislatura, in virtù del principio di continuità del Parlamento che non ammette interruzioni al potere legislativo. La Costituzione dispone, infatti, che le elezioni debbano svolgersi entro 70 giorni dalla fine di quelle precedenti e che le nuove Camere debbano riunirsi entro 20 giorni dallo svolgimento delle elezioni. La natura dei poteri delle camere durante la prorogatio è dubbia: il fatto che non sia possibile eleggere il Presidente della Repubblica fa pensare che siano limitati all'ordinaria amministrazione, ma il fatto che debbano essere convocate e riunirsi entro cinque giorni nei casi di conversione dei decreti legge, proverebbe il contrario. L’AUTONOMIA DEL PARLAMENTO Una delle caratteristiche principali del Parlamento è l’autonomia, ossia la facoltà di un soggetto di autodeterminarsi, autoorganizzarsi e amministrarsi liberamente, dandosi da solo le regole di comportamento che lui stesso dovrà rispettare. L’autonomia parlamentare si esplica sia nei confronti degli altri poteri, sia delle rispettive Camere, delle quali una non può interferire con le deliberazioni dell’altra e viceversa. L’autonomia dagli altri poteri si caratterizza in diversi fattori: 1. Autonomia regolamentare (art. 64 Cost.), secondo cui ciascuna Camera adotta il proprio regolamento senza ammettere ingerenze dall’altra e viceversa. I regolamenti parlamentari disciplinano organizzazione e funzionamento delle Camere in ambiti di competenza molto ampi su cui il Parlamento detiene la disciplina esclusiva, sempre nel rispetto della Costituzione. Oltre ai regolamenti generali, entrambe le Camere sono dotate di regolamenti minori, che disciplinano come quelli generali alcune specifiche attività del Parlamento, e di regolamenti di amministrazione, che disciplinano servizi interni. 2. Autonomia organizzativa e funzionale, ossia la possibilità delle Camere di organizzare l’articolazione interna dei propri organi e funzioni liberamente, come espressione della titolarità dell’autonomia regolamentare. 3. Immunità della sede, ossia il divieto per la forza pubblica di introdursi nelle Camere e per qualunque autorità estranea di eseguire coattivamente i propri provvedimenti senza espressa concessione del Presidente di Assemblea. La stampa e il pubblico possono contravvenire al divieto di accesso alle aule del Parlamento a patto che risiedano nelle apposite tribune e si impegnino a mantenere il rigore richiesto. 4. Autonomia finanziaria e contabile, ossia la facoltà delle Camere di gestire senza alcuna interferenza esterna, neppure da parte della Corte dei Conti, che disciplina la contabilità pubblica, i fondi loro riservati. 5. Autodichia, la giustizia domestica, ossia la facoltà delle Camere di adottare e, successivamente, interpretare i provvedimenti relativi alla carriera giuridica dei propri dipendenti. In virtù di tale autonomia, quindi, le controversie che dovessero sorgere sarebbero regolate internamente, fattore che solleva dubbi in merito al rispetto del principio di uguaglianza: la Corte europea ha in primis segnalato questo vizio di imparzialità, ma la Corte costituzionale ha ribadito di non poter attribuire a un giudice ordinario la risoluzione delle controversie interne e che, farlo, dimezzerebbe l’autonomia caratteristica del Parlamento. 6. Verifica dei poteri, ossia il procedimento di verifica con cui Camera e Senato controllano che gli eletti abbiano il titolo, al momento dell’elezione, per assumere la carica di deputato o senatore, e che, durante la legislatura, il soggetto possa mantenere la carica parlamentare. I candidati eletti vengono proclamati deputati dall'ufficio circoscrizionale centrale o senatori da quello elettore regionale e, quando la di 27 32 Diritto costituzionale I F. Biondi interferenze giudiziarie sull'esercizio del mandato rappresentativo. La legge disciplina anche il caso delle intercettazioni indirette e di quelle casuali: le prime riguardano intercettazioni operate su mezzi di comunicazione di individui che entrano abitualmente in contatto con il parlamentare, occasione in cui è richiesta l'autorizzazione preventiva; le seconde si riferiscono, invece, a intercettazioni effettuate tra terzi che riguardino fortuitamente anche un parlamentare: in questi casi viene richiesta in via successiva l'autorizzazione all'uso delle intercettazioni che, qualora fosse negata, si concluderebbe con l’inutilizzabilità della prova nel processo a carico del parlamentare, ma non a carico di terzi. L’INDENNITÀ L’indennità parlamentare, di entità stabilità dalla legge, è fonte di numerose critiche: il parlamentare riceve un’indennità netta a cui si aggiunge una diaria di rimborso per le spese di soggiorno, trasporto, ecc.. L’indennità di deputati e senatori è tanto elevata al fine, innanzitutto, di permettere a chiunque di candidarsi al Parlamento, cosa che se invece fosse gratuita sarebbe accessibile unicamente a coloro che possano mantenersi senza lavorare; allo stesso tempo, però, deve essere tale da indurre anche chi ha un buon reddito a candidarsi. Inoltre, l’indennità deve essere tale da garantire al parlamentare il pieno svolgimento della propria funzione in modo indipendente, senza che le sue decisioni siano condizionate da esterni per debolezza economica. 5. L’organizzazione interna delle Camere Camera e Senato sono composte da diversi organi, dei quali i principali sono: 1) il Presidente dell’Assemblea, 2) l’ufficio di presidenza, 3) i gruppi parlamentari, 4) la conferenza dei capigruppo, 5) le Commissioni parlamentari e 6) le Giunte. PRESIDENTE D’ASSEMBLEA La Costituzione prevede che ciascuna Camera elegga fra i suoi componenti il Presidente dell'Assemblea, tuttavia, Camera e Senato presentano alcune significative differenze riguardo le maggioranze richieste per l’elezione: alla Camera, al primo scrutinio è richiesta la maggioranza dei 2/3 dei componenti, al secondo dei 2/3 dei presenti e dal terzo la maggioranza assoluta; al Senato, invece, nei primi due scrutini occorre la maggioranza assoluta dei componenti e dal terzo la maggioranza dei presenti, altrimenti si ricorre al ballottaggio decisivo tra i due più votati al terzo scrutinio. La figura del Presidente d’Assemblea ha funzioni di rilievo interno alla Camera: - La direzione dei lavori e delle discussioni. - I poteri di programmazione di lavori e definizione di calendario. - Il compito di interpretare e far rispettare i regolamenti. - Il potere disciplinare nei confronti dei parlamentari. E funzioni di rilievo esterno alla Camera: - Il confronto con il Presidente della Repubblica prima dell'eventuale scioglimento anticipato delle Camere. - La funzione del solo Presidente del Senato di supplenza al Presidente della Repubblica in caso di impedimento temporaneo. - Il compito di presiedere il Parlamento in seduta comune. UFFICIO DI PRESIDENZA Entrambe le Camere sono provviste di un ufficio di presidenza rappresentativo di tutti i gruppi parlamentari con il compito di deliberare le sanzioni disciplinari gravi e il bilancio predisposto dai questori, e, oltre al Presidente d’Assemblea, comprende: - Quattro vicepresidenti, che sostituiscono il Presidente in caso di assenza o impedimento. - Otto segretari, che collaborano con il Presidente per garantire il regolare andamento dei lavori e delle operazioni di voto - Tre questori, che gestiscono i fondi e i bilanci. GRUPPI PARLAMENTARI I regolamenti parlamentari impongono che ciascun deputato o senatore faccia parte di un gruppo parlamentare attraverso il quale i partiti svolgono le attività legislative. Alla Camera i gruppi devono essere formati da almeno 20 deputati, al Senato, invece, da almeno 10 senatori: mentre alla Camera sono comunque consentiti gruppi con meno di 20 partecipanti, a patto che questi costituiscano la proiezione di un partito organizzato nel paese, al Senato ciò non è concesso, eccezion fatta per il gruppo delle minoranze linguistiche. Qualora un parlamentare non dichiari il proprio gruppo di appartenenza o quest'ultimo non raggiunga i requisiti numerici, egli verrà assegnato al gruppo misto, in quanto solo ai senatori a vita è concessa l’astensione dalla partecipazione a un gruppo parlamentare. L’organizzazione interna dei gruppi parlamentari prevede un presidente, il capogruppo, di uno o più vicepresidenti e, alla Camera, di un comitato direttivo; i gruppi si dotano anche di regolamenti interni, di locali e attrezzature, e possono usufruire dei contributi erogati loro dalle Camere a seconda della numerosità. Ai parlamentari è concesso praticare trasfughismo e formare nuovi partiti per adattarsi alle modifiche del contesto politico, cosa permessa alla Camera, ma non al Senato. di 30 32 Diritto costituzionale I F. Biondi CONFERENZA DEI CAPIGRUPPO I vari capigruppo formano, insieme al Presidente dell’Assemblea che la presiede, la Conferenza dei capigruppo, col compito di decidere la programmazione di lavori dell'aula, calendario e ordine del giorno delle singole sedute e la ripartizione dei tempi di intervento. Per consuetudine costituzionale, i capigruppo partecipano alle consultazioni del Presidente della Repubblica per la nomina del Presidente del Consiglio. COMMISSIONI PARLAMENTARI I gruppi parlamentari designano quali membri formeranno le Commissioni parlamentari, per rispecchiare la proporzione dei gruppi, che si distinguono per composizione e per durata: possono essere monocamerali o bicamerali, a seconda che siano formati da parlamentari di una sola delle due Camere o di entrambe; e permanenti o temporanee, a seconda che restino in carica per tutta la legislatura o solo per il periodo necessario ad assolvere i compiti loro assegnati. Sono i regolamenti parlamentari di ciascuna Camera a specificare il numero, le funzioni, la competenza per materia e l'organizzazione interna di ciascuna Commissione. Attualmente vi sono 14 Commissioni permanenti sia alla Camera sia al Senato e la loro organizzazione spetta al Presidente della Commissione, che ne dirige i lavori. Tra le Commissioni temporanee, invece, ricordiamo le Commissioni d’inchiesta, previste direttamente dalla Costituzione affinché, nominate dai gruppi di ciascuna Camera, procedano alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria: il loro obiettivo è, quindi, di indagare su questioni di particolare interesse per la collettività, disponendo degli stessi poteri della magistratura, quindi di sequestri, interrogatori, ecc.. Le materie d’inchiesta sono le più disparate: certamente la Commissione di inchiesta bicamerale più nota è quella sul fenomeno mafioso e sulle sue associazioni criminali. Queste Commissioni possono essere sia monocamerali, che necessitano della delibera della rispettiva Camera per la loro istituzione, sia bicamerali, per cui sarà necessaria una legge indicante numero dei componenti, oggetto dell'indagine, termine di conclusione dei lavori e poteri della Commissione stessa. GIUNTE PARLAMENTARI Altri organi collegiali delle Camere sono le Giunte parlamentari, che a differenza delle Commissioni parlamentari, non sono previste dalla Costituzione, ma sono disciplinate nei regolamenti parlamentari. In particolare, il regolamento della Camera prevede tre Giunte, quella per il regolamento, quella delle elezioni, e quella per le autorizzazioni, mentre quello del Senato solo due, quella per il regolamento e quella delle elezioni e delle immunità parlamentari. La Giunta per il regolamento ha il compito di proporre ed esaminare le modifiche dei regolamenti parlamentari, e di esprimere pareri sull’interpretazione dei regolamenti, se il Presidente lo richiede. I membri delle Giunte sono nominati dai Presidenti di Assemblea nel rispetto del principio di rappresentatività. La distinzione tra Giunte e Commissioni riguarda proprio funzioni svolte: le prime di carattere tecnico-giuridiche e le seconde di carattere politico. IL PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE Nonostante ciascuna delle due Camere eserciti autonomamente le funzioni ad esse attribuite secondo il modello bicamerale perfetto, il Parlamento può riunirsi e deliberare in seduta comune in alcuni casi previsti tassativamente dalla Costituzione: per elezione, giuramento e messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica, per l'elezione di cinque giudici costituzionali, di un terzo dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, e dei cittadini tra i quali estrarre a sorte i giudici per integrare la Corte costituzionale nei giudizi d'accusa contro il Presidente della Repubblica. Il Parlamento in seduta comune è presieduto dal Presidente della Camera ed è disciplinato dal regolamento di quest’ultima oppure da regole datosi ad hoc: si tratta di un collegio perfetto, distinto da Camera e Senato, capace di discutere, deliberare e autoregolarsi. 6. Le funzioni del Parlamento I PRINCIPI GENERALI DI FUNZIONAMENTO L’art. 64, comma 3, Cost. tratteggia due requisiti di validità: 1. Quorum costitutivo o numero legale (richiesto espressamente solo per le deliberazioni), pari alla metà + 1 dei componenti perché l’Assemblea possa dirsi regolarmente costituita: tale dato è sempre presupposto, che non viene verificato a meno di espressa richiesta e la cui mancanza provoca il rinvio della seduta. 2. Quorum deliberativo, per le deliberazioni, pari alla metà + 1 dei presenti, ossia maggioranza semplice. I voti degli astenuti non hanno peso nel conteggio, essendo da valutare solo favorevoli e contrari. La modalità generale di votazione è costituita dal voto palese, il quale può avvenire per alzata di mano, con dispositivo elettronico o per appello nominale; il voto segreto costituisce, ormai, un'eccezione riservata ai casi di delibera sulle persone o, a richiesta, sui diritti fondamentali. Per il principio di pubblicità e trasparenza dell'attività del Parlamento, le Camere si riuniscono in sedute pubbliche, eccetto riunioni segrete eccezionali. La programmazione dei lavori spetta alla Conferenza dei capigruppo attraverso tre strumenti: 1. Programma (valido 3 mesi alla Camera, 2 al Senato), che fissa gli argomenti e le priorità da discutere. 2. Calendario (approvato mensilmente al Senato, ogni 3 settimane alla Camera), che specifica le previsioni del programma e numero e data delle sedute ad esso dedicate. di 31 32 Diritto costituzionale I F. Biondi 3. Ordine del giorno, comunicato al termine della seduta precedente, è predisposto dal Presidente. Funzioni di cui è titolare il Parlamento: FUNZIONE LEGISLATIVA La Costituzione stabilisce che la funzione legislativa sia esercitata collettivamente dalle due Camere, per cui è compito del Parlamento approvare le leggi costituzionali e quelle ordinarie: si tratta di un potere esclusivo delle Camere con l’eccezione degli atti aventi forza di legge, cui partecipano Parlamento e Governo, e della funzione legislativa regionale, esercitata dai Consigli regionali. Grazie all’approvazione delle leggi limitate soltanto dalla Costituzione, il Parlamento svolge allo stesso tempo anche la funzione di indirizzo politico contribuendo alla realizzazione degli obiettivi dello Stato. FUNZIONE DI INDIRIZZO POLITICO La funzione di indirizzo politico ha lo scopo di determinare le linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento dal punto di vista nazionale ed estero: questa funzione mira a dare attuazione a valori e principi supremi della Costituzione. Alla funzione di indirizzo politico partecipano più soggetti, che nel nostro ordinamento si concretizza nella collaborazione Governo-Parlamento, da intendere come continuum Governo-Parlamento, ossia tra il Governo e la sua maggioranza parlamentare. La funzione di indirizzo politico del Parlamento si esplica nell’approvazione della fiducia iniziale al Governo, di leggi, mozioni, risoluzioni e ordini del giorno, ed, eventualmente nel voto sull’eventuale questione di fiducia posta dal Governo: la votazione del Parlamento sull’atto su cui il Governo ha posto la fiducia è decisiva per quest’ultimo che, in caso di voto sfavorevole, quindi con la mozione di sfiducia, sarà costretto alle dimissioni determinando così l’esaurimento dell’indirizzo politico. L’indirizzo politico può trovare concretizzazione nell’approvazione da parte del Parlamento di leggi come la procedura di bilancio: annualmente le Camere devono approvare con legge il bilancio preventivo dello Stato con cui il Parlamento indica la ripartizione tra le varie attività dello Stato le somme di cui questo dispone grazie alle entrate tributarie, quindi tutte le decisioni relative a entrate e spese pubbliche. Tra gli altri atti abbiamo la mozione, con cui un numero minimo di parlamentari invita il Governo ad agire aprendo una discussione e una deliberazione dell’Assemblea su un determinato tema; la risoluzione, con cui il singolo parlamentare invita il Governo a prendere provvedimenti su un determinato tema; e l’ordine del giorno, che impegna il Governo ad adottare in futuro un determinato indirizzo sul tema della legge in discussione (da non confondere con quello relativo alla programmazione dei lavori). FUNZIONE DI CONTROLLO Il Parlamento esercita nei confronti del Governo una funzione di controllo, che può essere legittimamente operata sia dalle forze di maggioranza sia da quelle di opposizione: le prime avranno lo scopo di dimostrare il buon operato del Governo cui hanno dato la fiducia, le seconde, invece, la sua inadeguatezza. Gli strumenti parlamentari per l'attività di controllo sono l'interrogazione e l’interpellanza: attraverso la prima, qualsiasi parlamentare può domandare per iscritto al Governo spiegazioni su una determinata questione per conoscerne in merito i provvedimenti adottati o ancora da adottare. È stata introdotta una settimanale interrogazione a risposta immediata, un question time programmato, in cui l'esponente del Governo deve pronunciarsi all’istante su argomenti di particolare urgenza o attualità politica. L'interpellanza, invece, anche se spesso inevasa, permette a uno o più parlamentari di obbligare il Governo a rendere pubbliche le ragioni delle azioni che lo hanno portato ad assumere una determinata condotta riguardo una determinata questione. Questi istituti tradizionali del diritto parlamentare ad oggi sono, però, divenute mere ritualità. STRUMENTI CONOSCITIVI DEL PARLAMENTO Sarebbe improprio riconoscere al Parlamento una vera e propria funzione conoscitiva, in quanto risaputo che le Camere sfruttino strumenti di informazione per l'esercizio di altre funzioni: tra gli strumenti conoscitivi ricordiamo le interrogazioni e le interpellanze, per esplicare la funzione di controllo sul Governo, le inchieste parlamentari, svolte dalle Commissioni su qualsiasi materia, e altre attività utili all’esercizio della funzione legislativa (la Camera ha la possibilità di effettuare richieste all’ISTAT, di chiedere pareri al CNEL e chiarimenti alla Corte dei Conti, di deliberare in Commissioni indagini conoscitive e di svolgere audizioni con ministri e funzionari della pubblica amministrazione). di 32 32
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