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Dispensa diritto costituzionale II, Dispense di Diritto Costituzionale

Dispensa diritto costituzionale: appunti presi a lezione più riassunto del libro "Lezioni di diritto costituzionale" - D'Amico, Arronzo, Leone

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 03/10/2022

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Scarica Dispensa diritto costituzionale II e più Dispense in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! DIRITTO COSTITUZIONALE II CAPITOLO V © 1. LA FORMAZIONE DEL GOVERNO Secondo quanto sancito dall’art. 92, comma 2 Cost., “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Il potere di nomina è esercitato dal Presidente della Repubblica ogni volta che decorrono cinque anni dalla durata ordinaria della legislatura e vengono indette le elezioni delle due nuove Camere. Ma è possibile che il Capo dello Stato sia chiamato a far uso di tal potere anche durante il corso della legislatura. Ciò si verifica ogni volta che il Governo in carica presenta le proprie dimissioni (“crisi di governo”). In tutti questi casi il Presidente della Repubblica, prima di nominare il Presidente del Consiglio, deve compiere una serie di attività non disciplinate dalla Costituzione, ma che trovano il loro fondamento in una prassi ormai consolidata, che ha oggi assunto il rango di consuetudine costituzionale. Il procedimento si articola in momenti diversi: 1. la prima fase è quella dello svolgimento delle consultazioni, durante le quali il Presidente della Repubblica incontra i presidenti dei gruppi parlamentari, i presidenti delle due Camere e gli ex presidenti della Repubblica. Grazie alle consultazioni, il Presidente della Repubblica potrà disporre il quadro della situazione politica, e comprendere se è possibile individuare un soggetto capace di formare un Governo in grado di ottenere il sostegno di una maggioranza parlamentare. 2. qualora le consultazioni non abbiano consentito al Presidente della Repubblica di individuare con sicurezza tale soggetto, lo stesso Presidente potrà fare ricorso a uno strumento che gli permetta di approfondire ulteriormente lo stato dei fatti. Questa seconda fase è da considerarsi eventuale, e non necessaria: il Capo dello Stato può affidare un mandato esplorativo ad una personalità super partes (di solito al Presidente della Camera o del Senato). Colui che ha il mandato esplorativo avrà il compito di vagliare più in profondità la situazione politica per verificare l'esistenza di un soggetto in grado di formare un Governo. In alternativa il Presidente della Repubblica può attribuire un preincarico già a colui al quale potrebbe poi successivamente chiedere di formare il Governo. In genere la scelta tra mandato esplorativo e preincarico è determinata dalla situazione politica del momento. Se al termine di questa seconda fase la situazione non si sarà sbloccata, e non sarà quindi individuato il soggetto, il Presidente della Repubblica dovrà sciogliere le Camere. Ricordiamo ad esempio il mandato esplorativo nel 2008, quando, a seguito della crisi del governo Prodi, il Presidente Napolitano attribuì all’allora Presidente del Senato Marini il compito di “verificare le possibilità di consenso su una riforma della legge elettorale e di sostegno ad un Governo funzionale all'approvazione di tale riforma e all'assunzione delle decisioni più urgenti”. Ricordiamo invece il preincarico che, nel marzo 2013, sempre Napolitano, conferì a Bersani “al fine di verificare l'esistenza di un sostegno parlamentare certo, che consenta la formazione del Governo”. Se, viceversa, all'esito delle consultazioni emerge l'indicazione di un soggetto in grado di formare un Governo che abbia la fiducia del Parlamento, il Presidente della Repubblica procederà a conferire a tale soggetto l'incarico di formazione del Governo. Conferito l'incarico, che a partire dal 1958 viene assegnato oralmente, l’incaricato accetta “con riserva”. La riserva è sciolta positivamente solo quando l'incaricato riesce ad aggregare consenso attorno ad un programma e ad una lista di ministri da proporre al Presidente della Repubblica, con l’aspettativa di ricevere la fiducia del Parlamento. A questo punto il Presidente della Repubblica può procedere a nominare con decreto il Presidente del Consiglio e i ministri da questo proposti. La legge 400 del 1988 stabilisce che “il decreto di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri è da lui controfirmato, insieme ai decreti di accettazione delle dimissioni del precedente Governo”. La Costituzione non dice niente sulle modalità di formazione della lista di ministri. La scelta dei singoli ministri spetta al Presidente del Consiglio, che può essere condizionato dai partiti che risulteranno decisivi ai fini della concessione della fiducia. Quanto al ruolo di Presidente della Repubblica, egli non può essere considerato responsabile della composizione dei ministri, anche se egli può porre il veto alla nomina di alcuni ministri. Accadde ad esempio nel 1994 quando Luigi Scalfaro si rifiutò di nominare Ministro della giustizia Previti, in quanto egli era anche avvocato del Presidente del Consiglio incaricato, Berlusconi. Più di recente, nel 2014, il Presidente Napolitano ha posto il veto alla nomina al Ministro della giustizia del magistrato Gratteri, prospettata dal Presidente del Consiglio dei Ministri incaricato, Renzi. Il Presidente del Consiglio e i ministri, “prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica”. Con il giuramento, la fase di formazione del Governo è conclusa. In questa fase, tuttavia, i poteri del Governo, non avendo questo ottenuto ancora la fiducia del Parlamento, sarebbero limitati all'attività di ordinaria amministrazione. Il Governo dovrebbe quindi rinunciare alle iniziative di rilievo politico, non essendo abilitato a provvedimenti di attuazione del programma. Nella realtà è però molto complesso distinguere concretamente gli atti che configurano ordinaria amministrazione da quelli che invece sono esercizio di indirizzo politico. Secondo quanto stabilisce l’art. 94 Cost. “entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenere la fiducia”. La mozione di fiducia viene votata separatamente da ciascuna delle due Camere a seguito del discorso programmatico che il Presidente del Consiglio svolge alla Camera e al Senato. " RUOLO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Il ruolo del Presidente della Repubblica nell'individuazione e nomina del Presidente del Consiglio può variare a seconda dello scenario politico del momento. Il sistema elettorale, l'esito delle elezioni, la concreta configurazione del sistema di partiti, l'autorevolezza dei loro esponenti, e lo stesso modo di esercitare la funzione presidenziale sono tutti elementi in grado di influenzare significativamente il procedimento di formazione del Governo. Basti ricordare che, con l'eccezione della prima legislatura, dall'inizio della storia repubblicana fino al 1994, il ruolo del Capo dello Stato è stato sempre significativo nella formazione dei governi che nascano da inizio legislatura. Infatti il ruolo di intermediazione del Presidente della Repubblica è spesso risultato decisivo per individuare la figura del Presidente del Consiglio capace di calamitare attorno se il consenso. Con le elezioni del marzo del 1994 fino a quelle del 2008, i sistemi elettorali di stampo maggioritario hanno indotto i principali partiti ad aggregarsi in due coalizioni, centrodestra e centrosinistra, e a presentarsi alle elezioni indicando ai cittadini sia le alleanze elettorali, sia il candidato a Presidente del Consiglio. Questo ha certamente facilitato la scelta del Presidente della Repubblica, le cui consultazioni hanno avuto un significato più formale che sostanziale, poiché il Capo dello Stato è stato infatti chiamato a prendere atto e a ratificare l’indicazione proveniente dal corpo elettorale. Nel 2013 la comparsa del Movimento 5 Stelle ha fatto sì che nessuna forza sia riuscita ad ottenere la maggioranza dei seggi al Senato. Questo ha riportato al centro della scena la figura del Presidente della Repubblica che, in quell'occasione, ha impiegato più di quaranta giorni per nominare il Presidente del Consiglio. Sempre incisivo è invece il ruolo del Presidente della Repubblica in tutte quelle occasioni di crisi di governo durante la legislatura. In questi momenti, infatti, la situazione politica incerta e la composizione della crisi richiede intervento autorevole del Capo dello Stato. Emblematici sono qui i cosiddetti “Governi del Presidente”, che si caratterizzano proprio per il peculiare ruolo ricoperto dal Capo dello Stato nella scelta del Presidente del Consiglio e nella fase di formazione del Governo, la cui esistenza rimane comunque necessariamente condizionata dalla fiducia del Parlamento. Ricordiamo la vicenda che ebbe protagonista il Presidente Scalfaro, che dopo la crisi del Governo Berlusconi, si adoperò per evitare l'interruzione anticipata della legislatura e si fece promotore della formazione del Governo Dini, che ottenne il sostegno di una maggioranza significativamente diversa da quella che aveva sostenuto il precedente Governo Berlusconi. Di recente, ricordiamo anche il Governo Monti, formatosi nel 2011. In quell'occasione Napolitano, in ragione della situazione di crisi finanziaria del paese, ritenne necessario trovare una soluzione per tranquillizzare i mercati finanziari: così dopo aver provveduto alla nomina di Mario Monti quale senatore a vita, gli affidò l'incarico di Governo. Lo stesso Napolitano, a distanza di un anno dalla formazione di quel Governo Monti, ricordò come parte della dottrina costituzionalista avesse teorizzato la figura dei Governi o del Presidente “necessari qualora garantire un più efficace potere di coordinamento e direzione al Presidente del Consiglio. Infatti l’art. 2 della legge indica i compiti del Consiglio dei Ministri: esso deve determinare la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa. Inoltre deve deliberare su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere e dirimere eventuali conflitti che sorgano tra i ministri. Così, oltre a deliberare sulle questioni di fiducia che impegnano il Governo di fronte al Parlamento, spetta al Consiglio dei ministri anche la parola definitiva su tutti i disegni di legge e gli atti normativi (decreto legge e legislativi, regolamenti); sugli atti che lo Stato può essere chiamato a compiere nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali; sulle linee di indirizzo in tema di politica internazionale e comunitaria; sugli atti concernenti i rapporti tra Stato e confessioni religiose. Quanto al Presidente del Consiglio, l’art. 5 della legge 400 traduce i concetti di “direzione della politica generale” e di “mantenimento dell’unità di indirizzo politico e amministrativo” conferendo al Presidente i seguenti compiti: 1. indirizzare ai ministri le direttive politiche e amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, nonché quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del Governo; 2. coordinare e promuovere l’attività dei ministri per quanto riguarda la politica generale del Governo; 3. eventualmente sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti su questioni politiche e amministrative, sottoponendoli al Consiglio dei ministri nella riunione immediatamente successiva; 4. concordare con i ministri interessati le pubbliche dichiarazioni che essi intendano rendere ogni qualvolta possano impegnare la politica generale del Governo; 5. adottare le direttive per assicurare l’imparzialità e l’efficienza degli uffici pubblici e promuovere le verifiche necessarie; in casi di particolare rilevanza può richiedere al ministro competente relazioni e verifiche amministrative; 6. promuovere l’azione dei ministri per assicurare che le aziende svolgano la loro attività secondo gli obiettivi indicati dalle leggi che ne definiscono l’autonomia, e in coerenza con i conseguenti indirizzi politici e amministrativi del Governo; 7. esercitare le attribuzioni conferitegli dalla legge in materia di servizi di sicurezza e di segreto di Stato; 8. eventualmente disporre l’istituzione di particolari Comitati di ministri; 9. eventualmente disporre la costituzione di gruppi di studio e di lavoro composti in modo da assicurare la presenza di tutte le competenze dicasteriali interessate, ed eventualmente di esperti anche non appartenenti alla pubblica amministrazione. Inoltre, ai sensi dell’art. 2 della legge 400 è il Presidente del Consiglio il titolare dell’iniziativa relativa alla questione di fiducia dinnanzi alle Camere. E spetta al Presidente del Consiglio anche il compito di convocare il Consiglio stesso e di stabilirne l’ordine del giorno. Per quanto riguarda i singoli ministri, la Costituzione ne stabilisce la responsabilità collettiva per gli atti approvati in Consiglio, e quella individuale per gli atti che provengono dal ministero di cui sono posti al vertice. L’art. 95 Cost. attribuisce poi alla fonte legislativa il compito di individuare il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri. Solo alla fine degli anni novanta, l’ordinamento interverrà sull’organizzazione dei ministri stessi. Da allora si sono susseguiti diversi interventi legislativi che hanno modificato il numero dei ministeri. Inizialmente erano dodici, i ministeri con portafoglio diventeranno quattordici, poi diciotto, poi nuovamente dodici, e attualmente sono tredici. " RAPPORTI TRA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E MINISTRI L’indeterminatezza della Costituzione per quanto riguarda il Governo comporta grandi discussioni non solo sulle specifiche competenze degli organi che lo compongono, ma anche rispetto ai rapporti tra Presidente del Consiglio e ministri. Secondo una prima tesi il Presidente del Consiglio sarebbe un mero “primus inter partes” (primo tra pari), rispetto agli altri ministri. Egli non avrebbe supremazia nei confronti dei ministri, né di loro guida, dovendo svolgere un ruolo analogo a quello di un coordinatore. Anche la Corte Costituzionale ha sposato questa tesi, evidenziando come “non sia configurabile una preminenza del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l’utilità promuovendo e coordinando l’attività dei ministri e ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter partes”. Questa prospettiva sembra fondarsi su tre ragioni: 1. nell’assenza, in capo al Presidente del Consiglio, del potere di revocare i ministri; 2. nell’attribuzione collegiale del potere di determinare la politica del Governo, anche alla luce dell’art. 92 secondo cui il Presidente del Consiglio e i ministri costituiscono insieme il Consiglio dei ministri; 3. la funzione dell’indirizzo politico è esercitata dall’organo collegiale, mentre nessuna particolare posizione viene riconosciuta al Presidente, che dunque dovrebbe essere considerato un mero primus inter partes. In effetti il ruolo di guida del Presidente del Consiglio, che raramente coincideva con quello di segretario o con la figura più autorevole del partito di provenienza, è stato spesso ridimensionato dal peso dei ministri. Essi infatti facevano valere le posizioni degli altri partiti della coalizione che sosteneva il Governo. Questa situazione faceva sì che eventuali dissidi tra il Presidente e gli altri ministri difficilmente vedessero prevalere il primo; il partito di riferimento del ministro in questione avrebbe infatti potuto far venire meno l’appoggio al governo e, dunque, mettere in discussione la sopravvivenza dell’esecutivo intero. In questa situazione, il Presidente del Consiglio, aveva scarsi margini per imporre una supremazia vera e propria. Il legislatore intervenne quindi con la legge 400 del 1988 proprio per dare maggiori strumenti di direzione al Presidente del Consiglio stesso, pur nell’ambito del rispetto del principio di collegialità desumibile dall’art. 92 Cost., e confermato dalla stessa legge 400. Secondo una diversa tesi, invece, la Costituzione riconoscerebbe al Presidente del Consiglio comunque una posizione di preminenza rispetto agli altri ministri. Anche i sostenitori di questa posizione richiamano l’art. 95, che differenzia la posizione del Presidente da quella dei suoi ministri, attribuendogli il compito di redigere la politica generale del Governo. Ciò si giustifica con la necessità di dare all’azione di governo la necessaria stabilità e continuità di indirizzo. Soprattutto, però, la supremazia del Presidente rispetto ai ministri dovrebbe desumersi dal fatto che le dimissioni del Presidente del Consiglio, a differenza di quelle dei singoli ministri, determinano la conseguenza radicale della crisi di governo. Dunque, poiché la scelta di dimettersi da Presidente del Consiglio può porre fine alla vita dell'intero esecutivo, questo determinerebbe una posizione di superiorità dello stesso, all'interno della compagine governativa. Quanto è accaduto nel nostro Paese tra il 1994 e il 2013 sembrerebbe poter dare forza a quest'ultima impostazione. I Presidenti del Consiglio che si sono susseguiti in questi anni, sono stati infatti i leader del partito più importante tra quelli della coalizione che aveva ottenuto il maggior consenso dal voto degli elettori. Dal 1994 in poi le campagne elettorali sono state caratterizzate dalla personalizzazione di partiti, anche attraverso l'inserimento dei nomi dei candidati alla carica di Presidenti del Consiglio come simboli delle coalizioni delle schede. In virtù del consenso popolare ottenuto attraverso le elezioni, si è ritenuto dunque che i Presidenti avessero il potere di influenzare in modo decisivo le decisioni del Consiglio dei ministri e dei ministri stessi. Questa prospettiva è stata assecondata dal decreto legislativo 303 del 1999 che, ancor più della legge 400 del 1988, ha attribuito maggiori poteri al Presidente. Un ulteriore elemento che ha portato la dottrina a valorizzare la posizione presidenziale è dovuto all’accresciuto ruolo che il Presidente del Consiglio ha assunto nelle istituzioni dell’Unione Europea. In particolare l’art. 15 del Trattato di Lisbona sancisce che il Presidente del Consiglio faccia parte del Consiglio Europeo, che è l'organo preposto a dare “all’Unione europea gli impulsi necessari al suo sviluppo” e a definire “gli orientamenti e le priorità politiche generali”. Questo determinerebbe un forte elemento di differenziazione tra il Presidente del Consiglio e i suoi ministri. Entrambe le tesi esposte presentano però profili condivisibili e aspetti criticabili. Gli accadimenti della XVII legislatura sembrano confermarlo: quanto all'esito delle elezioni del 2013, il sistema politico ha registrato la mancanza di un vincitore, nessuna delle coalizioni presentatesi è stata in grado di formare e sostenere un governo. Con il Governo Letta si forma così un esecutivo “di larghe intese” che ha trovato appoggio della maggior parte delle forze politiche presenti in Parlamento. La figura del Presidente del Consiglio fu individuata in una personalità che durante la campagna elettorale non aveva assunto il ruolo di leader, e i ministri vennero scelti tra gli esponenti di tutte le forze politiche che sostenevano il Governo. Gli effetti maggioritari del sistema elettorale, e lo stesso sistema bipolare, che avevano caratterizzato le precedenti legislature, sono dunque parsi svanire. Ma gli episodi successivi della stessa XVII legislatura hanno però dimostrato anche il contrario: almeno nella prima fase del Governo Renzi, un Presidente del Consiglio dotato di un consenso politico particolarmente elevato è riuscito ad influenzare la politica dell'intero governo e anche l'attività dei ministri, fino a poterne indurre anche le dimissioni, come si è verificato, proprio durante il Governo Renzi, nei casi delle dimissioni dei ministri Lupi e Guidi. Quindi il rapporto tra Presidente del Consiglio e ministri deve essere letto anche alla luce della concreta situazione politica esistente. Molto dipende infatti degli equilibri interni alla coalizione di Governo e dalla specifica personalità del Presidente del Consiglio. I suoi poteri di direzione della politica generale del Governo, di coordinamento e promozione dell'attività ministeriale, pure previsti esplicitamente dalla Costituzione, devono infatti essere bilanciati con la considerazione per cui i ministri conservano comunque un potere sostanziale molto forte, che consente loro di rispondere alle direttive del partito cui appartengono, più che al Presidente del Consiglio stesso. Che il problema sia tutt'altro che risolto, è evidenziato dal fatto che, anche di recente, il legislatore aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi volti a modificare, tra le altre cose, la legge 400 del 1988. L'obiettivo era di disciplinare “le competenze regolamentari e quelle amministrative funzionali al mantenimento dell'unità dell'indirizzo e alla promozione dell'attività dei Ministri da parte del Presidente del Consiglio dei ministri” e di indurre in capo alla Presidenza del Consiglio “attribuzioni in materia di analisi, definizione e valutazione delle politiche pubbliche”. Il tentativo di rafforzare la posizione del Presidente del Consiglio non ha però al momento avuto seguito: alla lega non è seguito alcun decreto legislativo e, dunque, al momento la situazione rimane quella descritta in precedenza. © 3. LA RESPONSABILITÀ POLITICA E GIURIDICA DEL GORVERNO " MOZIONE DI FIDUCIA E QUESTIONE DI FIDUCIA L’art. 94 Cost. prevede che, affinché il Governo possa entrare nella pienezza delle sue funzioni, esso ottenga la fiducia, entro dieci giorni dal giuramento, da parte di entrambe le Camere. “La fiducia è la necessaria valutazione globale sulla composizione e sul programma politico del Governo al momento della sua presentazione alle Camere”. Approvando la mozione di fiducia, dunque, le Camere esprimono il loro appoggio rispetto all'indirizzo politico che il Governo si propone di svolgere. La fiducia è proprio l'elemento che qualifica Per capire i compiti dei ministri introduciamo il concetto di pubblica amministrazione: si tratta di ogni articolazione dello Stato che provvede alla cura degli interessi pubblici determinati dalle leggi, sono tutti gli apparati preposti alle varie attività amministrative di cui il nostro Stato è chiamato a farsi carico. Il d. lgs. 165/2001 include nel novero delle PA “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni eccetera”. I ministeri costituiscono allora le strutture amministrative dell’organizzazione centrale che svolgono tutte le funzioni amministrative che spettano allo Stato nei diversi settori di competenza. Per sapere le specifiche competenze che spettano a ciascun ministero occorre fare riferimento al d. lgs. 300 del 1999: ad esempio segnalare che al Ministero degli Interni spettano le funzioni e compiti devoluti allo Stato in materia di garanzia del funzionamento degli enti locali, tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, diversa civile, prevenzione incendi, immigrazione, asilo, soccorso pubblico; al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sono attribuite funzioni statali in materia di istruzione scolastica e superiore, istruzione universitaria e così via. " PRINCIPI COSTITUZIONALI SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE L’art. 97 richiede che l'organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione siano regolate dalla legge in modo tale da assicurarne l'imparzialità e il buon andamento. L'imparzialità richiama il principio di uguaglianza (art. 3): la pubblica amministrazione deve infatti garantire uguale trattamento a tutti soggetti; anche per questo ogni decisione amministrativa deve trovare fondamento nella legge. In questa prospettiva trova collocazione il tema della separazione della pubblica amministrazione rispetto alla politica. Necessaria imparzialità si rinviene anche nell’art. 98 secondo il quale gli impiegati della pubblica amministrazione devono essere al “servizio esclusivo” della nazione. In quest'ottica si legge la regola in base alla quale un pubblico impiegato che assuma la carica di parlamentare potrà ottenere avanzamenti di carriera solo se determinati da scatti automatici dovuti all’anzianità. Lo scopo è quello di evitare che il mandato parlamentare possa consentire di ottenere promozioni nell'ambito del pubblico impiego. Infine, sempre per evitare commistioni tra politica e pubblica amministrazione, l’art. 98 consente alla legge di limitare il diritto di iscrizione ai partiti politici, e quindi l’affiliazione di questi pubblici impiegati a organismi che ne potrebbero influenzare l’operato. Per quanto riguarda il buon andamento, questo richiede che la pubblica amministrazione agisca per conseguire sempre gli obiettivi posti secondo efficienza, economicità ed efficacia. Infatti per essere impiegati in una pubblica amministrazione bisogna vincere un concorso pubblico: questo metodo di selezione evita che si verifichino assunzioni di favore e garantisce l'accesso di persone qualificate. A partire degli anni ’90 sono stati istituiti organi che presentano alcune peculiarità rispetto al tradizionale modo di concepire il ruolo della pubblica amministrazione: si tratta delle Autorità Amministrative Indipendenti, enti dotati di ampi poteri di regolazione, vigilanza e controllo di settori della vita economica, quali le telecomunicazioni, i trasporti, l’energia, i rifiuti, il settore idrico, il settore assicurativo, bancario e finanziario. Altre autorità sono preposte alla tutela di specifici diritti, libertà o interessi, quali il diritto alla riservatezza, il diritto di sciopero, la concorrenza o la prevenzione della corruzione. Le funzioni di tali autorità pongono delle problematiche rispetto al ruolo di regolatori da esse ricoperto: esse infatti sono dotate di ampi poteri di normazione e sanzionatori, che devono comunque trovare il loro fondamento nella legge. Inoltre, le decisioni da esse adottate nei confronti dei singoli operatori sono sempre ricorribili di fronte al giudice amministrativo. CAPITOLO VI © 1. IL MANDATO PRESIDENZIALE " IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità della nazione” art. 87 Cost. Il Presidente della Repubblica trova uno spazio significativo all'interno della Costituzione: la sua figura è delineata dagli artt. 83 fino al 91 e poi dagli articoli 59, 62, 73, 74, 92, 93, 104, 126 e 135. Essendo un organo monocratico la sua figura deve fare i conti con la necessità di confrontarsi con le diverse prassi seguite dai singoli Presidenti che si sono succeduti nella storia. Li ricordiamo: Ø 1946 - 1948 Enrico de Nicola Ø 1948 - 1955 Luigi Einaudi Ø 1955 - 1962 Gronchi Ø 1962 - 1964 Segni Ø 1964 - 1971 Saragat Ø 1971 - 1978 Leone Ø 1978- 1985 Pertini1985 - 1992 Cossiga Ø 1992 - 1999 Scalfaro Ø 1999 - 2006 Ciampi Ø 2006 - 2013 Napolitano Ø 2013 - 2015 Napolitano Ø 2015 Mattarella Durante i lavori della costituente si è molto discusso circa il ruolo che il Presidente della Repubblica avrebbe dovuto rivestire nel nostro ordinamento: si auspicava la necessità di attribuirgli compiti meramente notarili, quindi lontano da qualsiasi ruolo di politica attiva. Ma fu mostrata l'inadeguatezza di una simile ipotesi: tutti Presidenti della Repubblica italiana sono stati infatti al centro della scena politica italiana. D'altra parte le sue funzioni hanno come obiettivo quello di consentire “l'armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia che compongono l'assetto costituzionale della Repubblica” nonché “di consentire allo stesso di indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma assecondando il loro funzionamento, oppure, adottando provvedimenti per riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali”. Come ha affermato la Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione fuori dai tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”. Ma succede che, soprattutto nei periodi più difficili, quando i partiti si dimostrano incapaci di dare stabilità istituzionale, è il Presidente della Repubblica ad ergersi protagonista nella ricerca di soluzioni per risolvere la situazione. Si comprende dunque cosa si intende per qualificare il Presidente della Repubblica quale rappresentante dell'unità nazionale: il concetto di unità nazionale deve essere identificato con quello di unità costituzionale, essendo i valori della nazione quelli contenuti nella Costituzione. Il Presidente della Repubblica, quindi, garantisce attraverso l’esercizio delle sue funzioni che il disegno della nostra Costituzione non subisca fratture e disgregazioni: quindi è rimesso al Capo dello Stato il compito di farsi garante dei principi costituzionali che rappresentano il collante della comunità nazionale. " MODALITÀ DI ELEZIONE In Italia il Presidente della Repubblica non è eletto direttamente dal corpo elettorale, ma da un collegio elettorale formato dai parlamentari e rappresentanti delle Regioni. Questa modalità di elezione è coerente con la nostra forma di governo perché un Presidente eletto dal popolo dovrebbe poter intervenire nella determinazione dell’indirizzo politico. È evidente che una forma simile non sarebbe stata compatibile con la forma di governo parlamentare italiana in cui l’indirizzo politico è determinato solo dall’azione del Parlamento e del Governo. Le operazioni per l’elezione del Presidente della Repubblica devono iniziare 30 giorni prima della scadenza del mandato presidenziale in corso: entro questo termine il Presidente della Camera dei Deputati deve convocare in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali (art. 85). Sempre l’art. 85 dice che se in quel momento “le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione l’elezione ha luogo entro 15 giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica”. L’obiettivo di questa previsione è di evitare che le Camere eleggano il Presidente al termine del loro mandato. I Costituenti preferirono prorogare i poteri del Presidente in carica ed affidare la scelta del nuovo presidente neoeletto ad un organo che per la sua più recente formazione è da ritenersi dotato di maggior legittimazione rispetto alle Camere in scadenza. L’art. 83 disciplina le modalità di elezione del Presidente della Repubblica che viene eletto da un collegio speciale formato dal Parlamento in seduta comune, tre delegati delle Regioni eletti dal rispettivo Consiglio con eccezione della Val d’Aosta che ha un solo delegato. Se si confronta il numero dei parlamentari in seduta comune e quello dei delegati regionali (945 vs 58), vediamo che questi ultimi rappresentano meno del 6% del totale degli elettori: la presenza dei delegati regionali assume dunque funzione simbolica. Vediamo all’art. 83 che l’elezione del Presidente della Repubblica avviene per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. La Costituzione richiede dunque quorum particolarmente elevati, a testimonianza della necessità di una convergenza politica sulla figura presidenziale. Quando la situazione politica è molto frammentata i quorum richiesti richiedono un accordo tra le forze politiche in Parlamento e garantiscono al Capo dello Stato una maggioranza più ampia di quella che sostiene il Governo. L’elezione presidenziale deve avvenire a scrutinio segreto e non consente che vi siano candidature ufficiali al ruolo di Capo dello Stato: fattori che assicurano libertà all’elettore e garantiscono al Presidente della Repubblica indipendenza rispetto ai partiti. Nella prassi si verificano spesso episodi che hanno protagonisti i cosiddetti “franchi tiratori”: parlamentari che, grazie alla segretezza del voto, non seguono le indicazioni del gruppo di appartenenza e votano in modo difforme rispetto a quanto stabilito dal gruppo. Quindi l’elezione del Presidente della Repubblica rappresenta uno dei momenti in cui le forze politiche possono evidenziare maggiormente la loro scarsa omogeneità interna. Citiamo ad esempio quanto accaduto nel 2013, quando l’elezione di Prodi, che sulla base dei numeri che ne avevano annunciato l’appoggio avrebbe dovuto essere scontata, venne affossata da coloro che sono rimasti nella storia come i cento uno franchi tiratori. " REQUISITI DI ELEGGIBILITÀ, DURATA DEL MANDATO E RIELEGGIBILITÀ L’art. 84 stabilisce che può essere eletto Presidente della Repubblica qualsiasi cittadino che abbia compiuto 50 anni e che goda dei diritti civili e politici. Il Presidente più giovane è stato al momento Cossiga (57 anni), i più vecchi Pertini (82 anni) e Napolitano (81 anni primo mandato e 88 anni secondo). Non è richiesto essere membro del Parlamento, anche se solo due volte è successo che fosse eletto un Presidente che non svolgeva incarico parlamentare: Ciampi, che era al momento dell’elezione Ministro del Tesoro e del Bilancio, e l’attuale Presidente Mattarella, che era invece giudice costituzionale. L’incarico presidenziale, incompatibile con altre cariche, è di sette anni: durata che garantisce l’indipendenza del Presidente dalle Camere che lo hanno eletto, infatti l’incarico è più lungo dei cinque anni di durata delle Camere. Dei 12 mandati presidenziali visti, la durata è stata più breve rispetto al settennato previsto per Segni, dimessosi solo due anni e mezzo dall’avvio per ragioni di salute, e per il secondo mandato di Napolitano dimessosi 21 mesi dopo la rielezione. Hanno rilievo anche le dimissioni del Presidente Leone, sei mesi prima della fine del mandato per presunte, e mai accertate, illegittimità commesse in relazione alla vicenda Lockheed (scandalo avvenuto in diversi Paesi, corruzione nell’esportazione di armi: nel 1976 l’azienda statunitense Lockheed ammise di aver pagato tangenti a politici e militari stranieri per vendere a Stati esteri i propri aerei militari). Poi ricordiamo le dimissioni di Cossiga, due mesi prima della fine del mandato, e quelle date qualche settimana in anticipo per accelerare la successione, come è avvenuto per le presidenze Pertini, Scalfaro, Ciampi e Napolitano (primo mandato). Si è molto discusso sulla rielezione dei Presidenti della Repubblica: pur in assenza di un divieto della Costituzione non sono mancate tesi a sostegno dell’incompatibilità della rielezione con la forma di governo italiana. Si è pensato infatti che quella presidenziale è una carica lunga che dunque richiede il ricambio alla fine del settennato. Ma non sono mancate tesi contrarie che segnalavano la necessità di non irrigidire il dettato costituzionale precludendo la possibilità di rielezione di chi avesse svolto positivamente la funzione presidenziale. Nel 2013 Napolitano viene rieletto, risolvendo la questione nel senso della legittimità della 7. emanazione dei decreti aventi forza di legge e dei regolamenti, il Presidente della Repubblica, oltre alla promulgazione delle leggi, ha anche il compito di provvedere a emanare gli atti aventi forza di legge adottati dal Governo, nonché i regolamenti. Analogamente a quanto visto per la promulgazione, il Presidente della Repubblica può rifiutarsi di procedere all’emanazione di quegli atti che ritenga violino la Costituzione. In effetti, ci sono casi in cui ciò si è verificato: nel 2009, ad esempio, Napolitano si rifiutò di emanare il decreto legge relativo alla regolamentazione del fine vita. L’anno successivo, nel 2010, sempre Napolitano rifiutò di emanare un decreto legislativo in tema di federalismo fiscale municipale, ritenendo che lo stesso fosse stato adottato in difformità rispetto al procedimento previsto dalla legge delega. 8. indizione del referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione, il Capo dello Stato ha il potere di convocare i cittadini al voto sul referendum abrogativo, costituzionale, consultivo. 9. nomina di cinque senatori a vita che abbiano “illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Si è posto il dubbio se ciascun Presidente abbia titolo per nominare cinque senatori a vita, come sostenuto dai Presidenti Pertini e Cossiga, oppure se il totale dei senatori a vita non possa in ogni caso superare il numero di cinque in tutto, come sostenuto da tutti gli altri Presidenti. Ricordiamo tra i senatori a vita Eugenio Montale, Norberto Bobbio, Giovanni Agnelli, Rita Levi Montalcini. Attuali senatori a vita sono Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Carlo Rubbia. Insieme a loro, portati al seggio senatoriale da Napolitano, è attualmente in carica anche Liliana Segre, nominata da Mattarella nel gennaio 2018. 10. scioglimento delle Camere, una delle funzioni più delicate del Presidente della Repubblica. La norma all’art. 88 si limita a prevedere che prima di procedere, il Presidente debba consultare i Presidenti delle Camere, che esprimeranno un parere obbligatorio, ma non vincolante. Lo scioglimento delle camere è un atto che deve essere adottato dal Presidente alla fine dal mandato quinquennale: si parla di vero e proprio “atto dovuto”. Ma più problematico è il caso in cui il Presidente debba sciogliere le Camere quando il termine naturale della legislatura non sia ancora terminato. Si tratta di una circostanza che si è verificata frequentemente. La scelta di sciogliere anticipatamente le Camere è legata all’impossibilità per le forze politiche presenti in Parlamento di formare una maggioranza in grado di garantire la fiducia ad un Governo. Solo in questo caso è possibile sciogliere il Parlamento prima del termine ordinario della legislatura. Altrimenti il potere di interrompere anticipatamente la legislatura può essere usato dal Presidente della Repubblica quando esso rappresenta l’unica possibilità, di fronte ad una situazione di stallo, per consentire all’ordinamento di riprendere a funzionare. " ATTI PRESIDENZIALI RICONDUCIBILI AL POTERE ESECUTIVO Le funzioni presidenziali riconducibili al potere esecutivo sono invece: 1. nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. 2. emanazione dei decreti aventi valore di legge e dei regolamenti. 3. nomina, nei casi indicati dalla legge, dei funzionari dello Stato, la legge precisa che i funzionari la cui nomina spetta al Presidente della Repubblica sono quelli di grado più elevato. Tra questi vi sono i sottosegretari di Stato, i commissari straordinari del governo, il presidente del CNEL, il governatore della Banca d’Italia, gli ufficiali delle Forze Armate. L’individuazione dei soggetti da nominare e la relativa proposta sono di competenza del Governo. 4. accreditamento e ricevimento dei rappresentanti diplomatici è un potere che il diritto internazionale attribuisce ai Capi di Stato, espressione del “potere estero” del Presidente della Repubblica, che rappresenta il Paese anche a livello internazionale. Con questi poteri, il Presidente attribuisce la qualità di diplomatici agli agenti italiani e riconosce e accetta come tali i diplomatici stranieri. 5. ratifica dei trattati internazionali previa, quando occorra, autorizzazione delle Camere, altra funzione espressione del “potere estero” del Capo dello Stato, chiamato ad effettuare tutte le formalità successive alla stipulazione dei trattati internazionali conclusi dall’Italia. 6. comando delle Forze Armate, il quale è un ruolo puramente simbolico e onorifico. Ma non si esclude che, in casi davvero del tutto eccezionali, il Presidente possa avere la possibilità di impartire ordini alle truppe militari. 7. presiede il Consiglio supremo di difesa: organismo con funzioni consultive sui temi della difesa e della sicurezza nazionale. Si compone del Presidente del Consiglio dei ministri, da alcuni ministri (esteri, difesa, interno, economia, attività produttive) e dal Capo di Stato maggiore della difesa. 8. dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere, altra funzione connessa con il potere estero e alla figura di rappresentante della nazione ricoperta dal Presidente della Repubblica. Ricordiamo comunque che, da art. 11 della Costituzione, l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. 9. conferisce le onorificenze della Repubblica, la procedura per attribuire le decorazioni al valore a coloro che si sono distinti per meriti o capacità particolari. Sono ben ventisette le onorificenze che il Quirinale può attribuire. Tra di esse ricordiamo ad esempio quelle di Cavaliere di Gran Croce e di Cavaliere del lavoro. " ATTI PRESIDENZIALI RICONDUCIBILI AL POTERE GIUDIZIARIO Gli atti riferibili alla magistratura sono: 1. presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, che vedremo meglio più avanti. Per quanto riguarda il Capo dello Stato qui è sufficiente segnalare che il compito di presiedere il CSM non è meramente simbolico. Infatti, come ha rilevato anche la Corte costituzionale nella sentenza 1 del 2013, il Capo dello Stato, nella sua funzione di Presidente del CSM, può essere chiamato ad assumere “iniziative per garantire le condizioni esterne per un indipendente esercizio della funzione giurisdizionale”. Il Presidente della Repubblica quindi, oltre ad essere informato sulle tematiche di trattazione del CSM, può anche intervenire per esercitare poteri di impulso, di supervisione e di rinvio, se ad esempio rilevi irregolarità formali nelle procedure. 2. concessione della grazia e la commutazione delle pene, al Presidente della Repubblica è attribuita la facoltà di esercitare i poteri di clemenza su singole persone. In particolare, con la grazia si estingue la pena che è stata inflitta al condannato con la sentenza definitiva; con la commutazione, la pena irrogata si trasforma in una diversa. Sulla grazia era intervenuta la Corte costituzionale che affermò che “l’esercizio del potere di grazia risponde a finalità essenzialmente umanitarie inerenti al condannato e idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale”. La grazia contribuisce quindi a garantire quel “senso di umanità” richiesto al sistema penale. In ogni caso, poiché il potere di grazia è una deroga al principio di legalità, la Corte ha ritenuto che “il suo impiego debba essere contenuto entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria”. La natura eccezionale della concessione di grazia e la sua configurazione di atto umanitario dovrebbe evitare che essa possa essere considerata alla stregua di una violazione del principio di uguaglianza consacrato all’art. 3 della Cost. Ma in alcuni casi l’atto di clemenza deve tener conto anche di valutazioni più generali di carattere politico. Un esempio è la grazia accordata nel 2003 da Napolitano ad un militare USA condannato per aver concorso ad organizzare un sequestro. Napolitano giustificò la grazia concessa dicendo di avere così ovviato ad una situazione delicata di relazioni con un paese amico, con il quale intercorrono rapporti di alleanza e cooperazione. Vediamo qui che le ragioni umanitarie non hanno alcun rilievo. " ALTRE FUNZIONI PRESIDENZIALI 1. nomina di cinque giudici costituzionali, è il Presidente della Repubblica a nominare un terzo dei membri che compongono la Corte costituzionale. 2. scioglimento dei Consigli regionali e rimozione dei Presidenti delle Giunte regionali, qualora gli organi regionali citati commettano atti contrari alla Costituzione o per gravi violazioni della legge. L’art. 126 dispone che tali atti possano essere adottati anche per ragioni di sicurezza nazionale, e dal punto di vista procedimentale, la norma prevede che il provvedimento presidenziale sia adottato dopo un parere della commissione parlamentare bicamerale per le questioni regionali. Si tratta di un potere di controllo statale su organi regionali fin ora mai esercitato. 3. potere di esternazione libero, un potere non presente in Costituzione ma che non può essere messo in discussione. Sin dalla presidenza Einaudi, i presidenti della Repubblica hanno fatto sentire la propria voce all’interno del dibattito politico-istituzionale con interviste, comunicati, libri, esternazioni varie che oggi, grazie anche a web e social network, sono ancora più accessibili. Con queste dichiarazioni il Presidente della Repubblica è in grado di raggiungere i cittadini, influenzando l’opinione pubblica. 4. dimissioni, perché il Presidente della Repubblica può porre volontariamente fine al suo mandato prima del termine di sette anni previsto dalla Costituzione. © 3. LA CONTROFIRMA E LA RESPONSABILITÀ DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA " CLASSIFICAZIONE ATTI PRESIDENZIALI IN BASE AL SOGGETTO CHE NE DECIDE IL CONTENUTO: Gli atti presidenziali si possono classificare non solo in base al potere su cui influiscono, ma anche in base alla paternità dell’atto stesso. Questa previsione è connessa con l’art. 89 che prevede che “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità”. La disposizione implica il coinvolgimento di un altro soggetto, di ciò trattiamo nel prossimo paragrafo. Vediamo prima gli atti presidenziali in base proprio al soggetto, Presidente della Repubblica o Ministro controfirmante, cui deve attribuire la paternità dell’atto. Gli atti descritti nei paragrafi precedenti possono così rientrare in una delle seguenti categorie: A. Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, atti la cui iniziativa è imputabile al solo Presidente della Repubblica perché proprio lui decide se adottarli e ne stabilisce i contenuti. Tra questi abbiamo: CAPITOLO VII © 1. IL POTERE GIURISDIZIONALE " GIURISDIZIONE E I SUOI COROLLARI La giustizia, afferma l’art. 101 Cost., è amministrata in nome del popolo da soggetti, i magistrati, che sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 comma 2). Anche la funzione giurisdizionale è finalizzata a soddisfare i bisogni della società collettiva, anch’essa, quindi, ha origine nella sovranità popolare. Ma non vi è tra magistrati e popolo un rapporto di rappresentanza come invece succede tra elettori e parlamentari. L’art. 101 contribuisce ad escluderlo perché tra le valenze del principio di soggezione del magistrato alla legge, ovvero l’atto che promana dall’organo eletto dai cittadini, vi è anche quella intesa ad individuare in ciò il titolo di legittimazione del potere giudiziario. Quindi il magistrato è indirettamente subordinato alla volontà popolare per come sostanziata dalle leggi. Altra indicazione è che la Costituzione ha fatto della Magistratura un ordine protetto da possibili ingerenze esterne, come vuole il principio della separazione dei poteri. Ai soggetti che fanno parte della magistratura spetta “pronunciare il diritto” da ius dicere, in relazione ai casi che si presentano. La funzione giurisdizionale è l’attività di applicazione delle norme giuridiche astratte alle fattispecie concrete. Queste fattispecie vengono definite da una pronuncia, necessariamente motivata. La decisione, a seguito del suo passaggio in giudicato, diventa definitiva e incontrovertibile. L’inquadramento della giurisdizione come attività di applicazione del diritto non è sufficiente: la giurisdizione è tale solo se, sotto un profilo soggettivo, essa viene esercitata dai magistrati, che devono essere indipendenti e imparziali. Sono indipendenti perché autorità soggette a solamente alla legge, dunque amministrano la giustizia svincolati da condizionamenti; sono imparziali, nel senso che l’ordinamento deve garantirne la posizione super partes, ovvero indifferente rispetto agli interessi in discussione nel processo. Se questi principi non fossero rispettati, la proclamazione nella Costituzione del diritto di difesa, che comprende la facoltà di agire in giudizio per veder riconosciute le proprie ragioni, finirebbe svuotata nel suo significato sostanziale. Il diritto di difesa è reso effettivo proprio perché a rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini è un giudice indipendente e imparziale, quindi non soggetto all’influenza di altri soggetti, e non mosso da interesse personale. Innanzitutto è una garanzia il fatto che il giudizio nel quale siano coinvolti i cittadini sia assegnato ad un giudice naturale precostituito per legge. Questa riserva di legge ha l’obiettivo di demandare al legislatore il compito di definire i criteri generali in base ai quali le controversie dovranno essere affidate a questo o a quell’ufficio giudiziario per evitare che il giudice sia abbinato alla specifica controversia con provvedimento successivo all’insorgere della stessa. Questo creerebbe il sospetto che la scelta possa essere dettata da volontà di orientare in un certo senso l’esito del contenzioso. Quindi è una tutela che costituisce la pre-convinzione di imparzialità del giudice. Altra caratteristica della giurisdizione, che ha ricadute dirette sui diritti dei cittadini, è l’insieme di garanzie accomunate nell’espressione “giusto processo”. Infatti l’art. 101 pretende che la legge assicuri, nel processo e nella formazione delle prove, il contraddittorio tra le parti in condizioni di parità. Per evitare che le lungaggini possano compromettere le aspettative di tutela dei cittadini, si è posto l’obbligo di adottare strumenti per garantire la ragionevole durata del processo. " ATTIVITÀ INTERPRETATIVA DEI GIUDICI Ci domandiamo se l’attività di applicazione del diritto ai casi concreti sia un’attività neutra, o se essa implichi esercizio di discrezionalità valutativa. Nell’ideologia della rivoluzione francese dai giudici non ci si sarebbe dovuto attendere altro che una trasposizione meccanica in sede giudiziaria delle regole dettate dal Parlamento. Ma è un’epoca, quella dello Stato di diritto, che si componeva di poche e chiare leggi di portata generale, e per cui quell’idea poteva ambire a realizzarsi. E ben presto fu chiaro che la giurisdizione non può realmente concretizzarsi in operazioni di applicazione meccanica, e che il giudice è un soggetto al quale si chiede di trarre la soluzione di casi concreti da enunciati normativi, che non sono quasi mai univoci nel loro significato. È chiaro quindi che sarebbe ingenuo pensare che lo spazio di valutazione soggettiva del giudice sia scarso o del tutto nullo. Nella fase preliminare dell’applicazione della legge, deputata alla sua interpretazione, il giudice svolge un ruolo rilevante, dovendo stabilire il significato da assegnare alla disposizione. L’entrata in vigore della Costituzione ha ulteriormente condizionato il modo di decidere dei giudici: i nuovi principi costituzionali sono infatti materiali giuridici che i giudici si trovano ad interpretare, oppure ad applicare direttamente. Ciò premesso, va precisato che l’attività interpretativa dei giudici non è libera. Il giudice si muove guidato da criteri che è lo stesso ordinamento ad individuare. E soprattutto, essendo soggetto alla legge, egli incontra nel testo della disposizione un limite che, se oltrepassato dal giudice, non siamo più in presenza della giurisdizione che spetta alla Magistratura, ma di attività creativa di diritto che compete invece agli organi della rappresentanza politica. " GIURISDIZIONE ORDINARIA E GIURISDIZIONI SPECIALI La funzione giurisdizionale è affidata ai magistrati ordinari, ovvero coloro che trovano la loro disciplina e regolamentazione nelle norme di legge “sull’ordinamento giudiziario”, e che hanno come organo referente il Consiglio Superiore della Magistratura. Prima dell’entrata in vigore della Costituzione, i giudici speciali avevano non solo espanso la propria giurisdizione, ma soprattutto operato in assenza del requisito fondamentale di indipendenza. Con l’art. 102 i Costituenti hanno introdotto la centralità della Magistratura ordinaria affermando il divieto di istituire “giudici straordinari” (giudici selezionati ad hoc per occuparsi di fatti già avvenuti), perché l’autorità giudiziaria competente va individuata sulla base di criteri stabiliti dalla legge in un momento antecedente ai fatti; e “giudici speciali” (diversi da quelli la cui disciplina è ricavabile dalle norme sull’ordinamento giudiziario) va rilevato che la Costituzione ne impedisce l’istituzione ex novo. Dunque i Costituenti affidarono la funzione giurisdizionale alla magistratura ordinaria e ammisero allo stesso tempo la sopravvivenza di alcuni giudici speciali per circoscritti ambiti di competenza. E la Corte costituzionale ha chiarito che ci sono principi, tra i quali quello fondamentale di indipendenza, che non attengono alla sola giurisdizione ordinaria, ma al concetto stesso di giurisdizione. Infatti la Costituzione ha acconsentito all’esistenza, accanto ai magistrati ordinari, di magistrati speciali: Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Tribunali militari. La magistratura ordinaria opera in due vesti: magistratura giudicante e magistratura requirente. Alla prima categoria appartengono i giudici, alla seconda i pubblici ministeri. I giudici definiscono il processo in posizione di imparzialità e terzietà, emettendo un provvedimento decisorio. Operano in veste di giudici civili o di giudici penali. I giudici sono poi preposti a diversi gradi di giudizio, è infatti previsto un sistema di impugnazioni di sentenze che offre possibilità di rimedio a eventuali errori della Magistratura. Sono giudici di primo grado i magistrati addetti a giudice di pace, Tribunale ordinario, Tribunale per minorenni. Sono di secondo grado i magistrati addetti alla Corte d’appello. Organo di ultima istanza è la Corte di cassazione. Si tenga conto che le decisioni del giudice di pace possono essere impugnate davanti al Tribunale. Ancora più importante è che la Corte di cassazione non ha il potere di rivalutare il merito dei fatti già esaminati dagli altri giudici. Infatti, come giudice di legittimità, la Corte di cassazione, può essere investita solo su questioni inerenti l’osservanza delle leggi. Inoltre è la Corte di cassazione a doversi pronunciare sulle questioni inerenti i confini della giurisdizione ordinaria e delle giurisdizioni speciali. I pubblici ministeri (p.m.) non sono incaricati, come i giudici, della definizione del processo, ma vi partecipano prendendo parte al contraddittorio. A differenza delle parti private, che difendono i propri diritti, il pubblico ministero è un “organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi”. Questo spiega perché il p.m. è sempre presente nel processo penale e in quello civile solo talvolta, laddove rilevino interessi generali (per esempio la tutela dei minori). Anche i p.m. sono assegnati a uffici incardinati nei tre gradi di giudizio. Si tratta delle Procure della repubblica, istituite presso i tribunali; delle Procure generali, istituite presso le Corti d’Appello; della Procura generale, istituita presso la Corte di cassazione. Oggi giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine, il CSM. È una scelta riconducibile alla volontà dei Costituenti di sganciare il p.m. dalle dipendenze del Ministro di giustizia, e dunque del potere politico. © 2. L’AUTONOMIA DELLA MAGISTRATURA E IL CSM " CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA: RUOLO E COMPOSIZIONE L’art. 104 della Costituzione qualifica la Magistratura come un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato. I magistrati svolgono in modo indipendente la propria funzione non solo perché al riparo da possibili ingerenze, ma anche perché indipendenti dal punto di vista istituzionale. Ciò è possibile perché l’ordine giudiziario è stato reso autonomo in virtù dell’istituzione di un organo che assume decisioni relative all’organizzazione della magistratura e alla carica dei magistrati. Infatti la magistratura non dipende da nessun potere per quanto riguarda l’organizzazione del proprio personale, ma la Costituzione ha attribuito al CSM questo compito. Questi provvedimenti, toccando lo status di magistrato, potrebbero condizionarne i comportamenti: il soggetto che deve assumerli può dunque influenzare le modalità con le quali viene svolta la funzione giurisdizionale. Se questa scelta ricadesse su altri organi ne deriverebbe il condizionamento politico del magistrato, che allora non sarebbe indipendente. Dunque si attribuiscono queste funzioni ad un organo ad hoc: il CSM. Il CSM è qualificato come organo di “autogoverno della Magistratura”; espressione che spesso inganna perché dà l’idea di un soggetto incorporato nella Magistratura e che dall’interno la organizza in modo del tutto svincolato dallo Stato. In realtà non è così, perché il CSM è un organo deputato a gestire autonomamente l’organizzazione dell’ordine giudiziario, ma non a stabilire le regole della gestione stessa. Il CSM si compone di tre membri di diritto e di una parte “elettiva mista”. Membri di diritto sono il Presidente della Repubblica, che presiede l’organo, il primo Presidente della Corte di cassazione, il procuratore generale presso la Corte di cassazione. Membri elettivi sono invece, per due terzi, magistrati eletti da magistrati (16 membri togati), per un terzo soggetti estranei alla magistratura eletti dal Parlamento in seduta comune (8 membri laici). I sedici membri togati sono eletti da tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario nell’ambito di un sistema elettorale che assegna, in tre distinti collegi nazionali, 10 posti a magistrati con funzione giudicante, 4 posti a magistrati con funzione requirente, 2 posti a magistrati che svolgono funzione di legittimità presso la Corte di cassazione e la Procura generale presso la Corte di cassazione. Così sono rappresentate tutte le categorie di magistrati. Gli otto membri laici devono essere professori ordinari di Università in materie giuridiche o avvocati con alle spalle almeno 15 anni di esercizio della professione. L’elezione compete al Parlamento in seduta comune che delibera a scrutinio segreto a maggioranza dei tre quinti dei componenti per i primi due scrutini e al terzo a maggioranza dei tre quinti dei votanti. Questa articolazione complessa compete a soddisfare più interessi diversi: se da una parte una maggioranza di membri togati caratterizza il CSM, dall’altra si è cercato di evitare di costituire un organo completamente autoreferenziale e totalmente staccato dagli altri poteri dello Stato, per evitare una chiusura in “caste autoreferenziali” degli organi di garanzia delle magistrature. Problema è la sottorappresentanza femminile nel CSM, soprattutto nella sua componente togata della quale fanno parte pochissime donne. Per ovviare questa situazione è stato presentato di recente in Parlamento un progetto di legge per promuovere l’elezione di entrambi i sessi. " PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA COME PRESIDENTE DEL CSM La scelta di posizionare al vertice dell’organo il Capo dello Stato risponde alla volontà di non sganciare del tutto il CSM dalle altre componenti della Repubblica. E proprio in quest’ottica non è un caso che si tratti della figura cui la Costituzione assegna il compito di rappresentare “l’unità nazionale” in posizione di imparzialità rispetto agli organi di indirizzo politico. Come già detto il Capo dello Stato non svolge a pieno il ruolo di Presidente del CSM, nel senso che non svolge la funzione organizzativa di tutte le sue sedute e lavori. Questa attività è quindi affidata al Vice Presidente, carica che l’art. 104 vuole affidata ad uno dei membri laici che compongono l’organo. Invece il Presidente della Repubblica, nei panni di Presidente del CSM, ha funzione Infatti, proprio per questa ragione, si afferma che quello giurisdizionale è un potere diffuso (presso ogni singolo magistrato). Quindi l'accesso alla professione fa perno su procedure concorsuali, alle quali possono accedere solo i magistrati che abbiano conseguito la valutazione di professionalità richiesta. Le valutazioni di professionalità si svolgono periodicamente, al fine di riscontrare “la capacità, la laboriosità, la diligenza e l'impegno del magistrato”. Va precisato che le verifiche cui sono sottoposti i magistrati ai fini della progressione in carriera non possono riguardare in nessun caso l'attività di interpretazione del diritto, né la valutazione dei fatti e delle prove da essi svolta. Per il conferimento di funzioni semi direttive e direttive, la legge richiede, oltre al superamento di un certo numero di valutazioni di professionalità, anche ulteriori requisiti, volti a testare l'attitudine del magistrato a svolgere compiti di gestione, organizzazione, direzione. " SOGGEZIONE ALLA LEGGE E INDIPENDENZA DEL MAGISTRATO NELL’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE L’indipendenza del magistrato è garantita dalla previsione in forza della quale il “giudice è soggetto soltanto alla legge”. Quel “soltanto” serve a tenere fuori dalle aule dei tribunali ingerenze provenienti tanto da soggetti esterni alla magistratura quanto da soggetti interni, come ad esempio da chi ricopra, nell'ufficio giudiziario in cui opera il giudice, un incarico direttivo. Questo criterio di soggezione alla legge intende mettere il sistema a riparo dal rischio che il magistrato travalichi i confini della giurisdizione e che, invece di dare interpretazione alla fonte del diritto da applicare, crei esso stesso le regole del caso. La previsione all’art. 101 della Costituzione chiarisce che di fronte ad una legge il giudice non può venire meno all'obbligo di rispettarla. Qualora il giudice ritenga quella legge lesiva di una norma costituzionale, egli non avrà il potere di disapplicarla autonomamente ma dovrà sospendere il giudizio e sollevare questione di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale. Se la legge viola anche una norma del diritto dell'Unione Europea, il giudice potrà non applicarla al caso concreto, senza che questa decisione ricada però sull'efficacia della legge stessa. " PUBBLICO MINISTERO E 7 CONDIZIONI PARTICOLARI DELLA SUA INDIPENDENZA L’art. 101 comma 2 ha dato luogo ad un dubbio interpretativo sull'esatta individuazione dei destinatari dell'obbligo di soggezione alla legge. L'articolo si riferisce letteralmente ai giudici, e non alla più ampia categoria dei magistrati. Ci chiediamo quindi se la garanzia di indipendenza si estenda anche ai pubblici ministeri, che sono magistrati e non giudici. Ricordiamo che l'Assemblea costituente aveva approvato un testo rivolto ai “magistrati”, e che, solo per un successivo errore, la parola fu cambiata con quella di “giudici”. A confermare che anche i pubblici ministeri godono di indipendenza funzionale è l’art. 112 Cost. afferma che il p.m. “ha l'obbligo di esercitare l'azione penale”. Ciò significa che, ricevuta una notitia criminis, il p.m. è tenuto a dare impulso al processo penale. Ciò significa allora che le garanzie poste a tutela dell'indipendenza del p.m. sono le stesse che tutelano l’indipendenza del giudice? Occorre a proposito una riflessione ulteriore: l’art. 108 fa riferimento esplicito all'indipendenza del p.m., ma precisa allo stesso tempo che ad assicurarla debba essere la legge. Attraverso questa lettura dell’art. 108 si è consentito al legislatore di temperare la regola dell'indipendenza del p.m. per soddisfare altre esigenze, in particolare quelle di imparzialità e uguaglianza, potenzialmente incise dal tipo di attività svolte dai magistrati inquirenti, soprattutto nella fase delle indagini. Quindi ad essere considerato indipendente è l'ufficio della procura, e non i singoli pubblici ministeri che vi operano, i quali, anzi, possono dover rispondere alle direttive imposte dal procuratore capo proprio perché sia garantita l'uniformità dei criteri seguiti dall'ufficio nell'esercizio della funzione. " IMPARZIALITÀ DEL MAGISTRATO L’art. 111 richiede che ogni processo si svolga di fronte ad un giudice “terzo e imparziale”. Che egli debba essere imparziale significa sia che non deve sussistere un suo interesse personale all' esito della controversia, sia che egli debba deciderla senza pregiudizi. Gli strumenti attraverso i quali l'ordinamento garantisce l'imparzialità del giudice nel processo sono: 1. incompatibilità, che ricorre nel momento in cui il magistrato si trovi in una delle condizioni previste dalla legge: ad esempio l'aver già pronunciato sentenza in un grado di giudizio inferiore del procedimento. 2. astensione, che è obbligatoria: ad esempio quando il giudice sia creditore o debitore di una delle parti, o ne sia parente o sia con la parte in rapporto di grave inimicizia. 3. ricusazione, che può prodursi su istanza di parte nelle ipotesi in cui il magistrato non si sia astenuto di sua iniziativa. 4. rimessione del processo, che ha luogo su richiesta di parte laddove si verifichino situazioni tali “da turbare lo svolgimento del processo”, pregiudicando “la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica o determinano motivi di legittimo sospetto”. Nonostante l’art. 111 si riferisca ai giudici, anche i pubblici ministeri devono essere imparziali. " RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO La possibilità che il magistrato sia chiamato a rispondere del proprio operato deve essere valutata con particolare cautela. Se da una parte sarebbe inaccettabile lasciare senza tutela i soggetti che abbiano subito pregiudizio in ragione del comportamento del magistrato, dall'altra, il legislatore deve prestare attenzione a non comprometterne l’indipendenza. La consapevolezza di poter essere sottoposto a giudizio di responsabilità potrebbe condizionare il libero convincimento del magistrato e influenzarne le valutazioni; ciò andrebbe a nuocere i diritti delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Ciò premesso nessun ostacolo si pone a che il magistrato possa essere assoggettato a responsabilità penale. Con l'osservanza invece di alcune garanzie, egli può essere chiamato a rispondere di una responsabilità civile e di una responsabilità disciplinare. Nessun dubbio invece sulla preclusione a far gravare sui giudici e pubblici ministeri la responsabilità di tipo politico. Infatti i magistrati, ancorché amministrino la giustizia in nome del popolo, non intrattengono con il popolo nessun rapporto di rappresentanza, diretta o indiretta. " RESPONSABILITÀ CIVILE I magistrati possono incorrere in responsabilità civile, e dunque ad essere condannati a risarcire i danni prodotti a seguito dell’adozione di un proprio provvedimento. Si ritiene infatti che anche i magistrati rientrino nella previsione di cui all’art. 28 della Costituzione, che vuole tali soggetti rispondere “secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti”. Nel loro caso tuttavia il legislatore deve approntare la relativa disciplina tenendo conto della necessità di perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito; dall’altro la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell’indipendenza e imparzialità della magistratura. Proprio per questo la disciplina prevede che la domanda di risarcimento non sia rivolta al magistrato direttamente, ma il cittadino dovrà agire nei confronti dello Stato, che a sua volta, se verranno effettivamente riscontrate le responsabilità del magistrato, potrà rivalersi nei confronti di quest’ultimo. Ma nell’intento di tutelare il giudizio del magistrato, strumentale alla sua stessa indipendenza, il legislatore aveva escluso la sua responsabilità in relazione all’attività interpretativa di disposizioni normative o di valutazioni di fatti e prove (salva l’ipotesi di colpa grave, che può essere determinata da grave violazione di legge per negligenza inescusabile). Con l’orientamento espresso a riguardo dalla Corte costituzionale è stata ritenuta incompatibile con il diritto dell’Unione europea l’esclusione della responsabilità civile dei magistrati nei casi in cui il danno fosse dovuto ad errata interpretazione di norme del diritto dell’Unione europea. Per superare questo il legislatore è intervenuto ridefinendo la nozione di “colpa grave”, in modo tale che ora lo Stato deve rispondere del danno prodotto dal magistrato anche quando sia riscontrabile una violazione manifesta della legge e del diritto dell’UE. Per preservare l’indipendenza del magistrato, però, lo Stato potrà esercitare l’azione di rivalsa solo quando il magistrato abbia agito con dolo o negligenza inescusabile. La nuova disciplina ha inoltre soppresso l'“udienza di filtro”, quella in cui veniva valutata l’ammissibilità della domanda risarcitoria esperita dal soggetto che aveva per il risarcimento del danno, udienza che la Corte costituzionale non ha giudicato strettamente funzionale alla garanzia di indipendenza e imparzialità. " RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE Il magistrato vi incorre quando violi uno dei doveri posti a suo carico dalla legge, e la violazione sia accertata dal CSM, che potrà irrogare sanzioni come ammonimento, censura, sospensione delle funzioni. È un fattore di garanzia per il magistrato che i suoi obblighi e le correlate sanzioni siano predeterminati dal legislatore. Premesso che secondo il decreto 109 del 2006 il magistrato deve esercitare le funzioni “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio”, i successivi articoli 2 e 3 passano ad indicare, rispettivamente, gli illeciti nell’esercizio della funzione e quelli al di fuori di essa. Esempi di illeciti disciplinari nell’esercizio della funzione sono: consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge; comportamenti scorretti nei confronti delle parti o degli altri soggetti del processo; il sottrarsi abitualmente e senza ragione all’attiva di servizio; la divulgazione di atti del procedimento coperti da segreto o la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione. Esempi di illeciti disciplinari fuori dell’esercizio della funzione sono: l’uso della qualità di magistrato per conseguire vantaggi ingiusti; assumere un incarico extragiudiziario senza autorizzazione del CSM; iscrizione a partiti politici o alle attività di soggetti operanti nel settore economico che possono condizionare l’esercizio delle funzioni. La competenza ad accertare la violazione dell’illecito appartiene al CSM, ma il potere di azionare il procedimento disciplinare è invece del Ministro della Giustizia, che ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare, e del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, che è invece obbligato a farlo ogni qualvolta abbia notizia del fatto. Quest’ultimo è anche p.m. nell’ambito nello stesso procedimento disciplinare. Il fatto che l’azione disciplinare sia posta in capo al Ministro della Giustizia potrebbe far pensare che si tratti di un’incoerenza con la volontà di tenere il magistrato indenne da interferenze esterne. Ma quello attribuito al Ministro è un potere di solo impulso per non lasciare che i magistrati operino in una condizione di isolamento. Questo potere di impulso si esercita con la richiesta al procuratore generale presso la Corte di cassazione di avviare le indagini. Il procedimento si svolge davanti alla Sezione disciplinare del CSM composta da sei membri effettivi e quattro supplenti. Della prima categoria fanno parte il Vice Presidente, un membro laico, un magistrato di cassazione, due magistrati con funzione di merito, il pubblico ministero. Quanto al procedimento, esso si svolge come fosse un processo. L’udienza è pubblica ed è previsto il diritto del magistrato di difendersi, o di farsi difendere da un altro magistrato. Il provvedimento emesso al termine del procedimento prende forma di una sentenza ricopribile in cassazione. " DIRITTO DI DIFESA E GARANZIE DEL PROCESSO Il diritto di difesa si esplica innanzitutto nella possibilità di azionare i propri diritti davanti a un giudice. L’art. 24 Cost. infatti stabilisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, precisando che “la difesa è diritto inviolabile”. Tutela giurisdizionale è ammessa anche “contro gli atti della pubblica amministrazione” e non può “essere preclusa o limitata per particolari categorie di atti”. Proprio per questo sorge un dubbio sulla disposizione in forza della quale “non sono impugnabili gli atti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico”. Gli atti politici sono una deroga al principio di ricorribilità di tutti gli atti della pubblica amministrazione, e pur sopravvivendo nell’ordinamento, se ne è data un’interpretazione assai restrittiva, ritenendola confinata a casi eccezionali. Il diritto di difesa è inviolabile, non può soffrire compressioni, nemmeno per mano di una legge di revisione costituzionale o di una consuetudine internazionale. Un ostacolo può essere costituito dai costi della tutela giurisdizionale dei diritti; per questo l’art. 24 assicura ai non abbienti i mezzi per agire. Il legislatore ha istituito il patrocinio a spese dello Stato. Si tratta di previsioni volte ad attuare il diritto di difesa. Uno dei più rilevanti corollari del diritto di difesa è il diritto al giudice naturale precostituito per legge dal quale nessuno può essere distolto. Sappiamo che il principio del giudice naturale intende porsi a garanzia dell’imparzialità del giudice. CAPITOLO VIII © 1. L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI REGIONALI " ORGANIZZAZIONE DECENTRATA DELLO STATO ITALIANO, DALLE ORIGINI ALLE RIFORME 1999 E 2001 L’organizzazione regionale italiana è stata oggetto di un’importante opera di revisione tra 1999 e 2001, che ne ha profondamente modificato l’impianto originario. Vediamo le linee evolutive: in Assemblea costituente, le forze politiche più inclini a un assetto centralizzato dello Stato furono in minoranza rispetto a quelle che ritenevano indispensabile accostare all’apparato statale centrale delle entità territoriali dotate di autonomia. Maggiori ostacoli si presentarono quando si trattò di individuare il modello da adottare. Si decise di fissare da una parte il principio di unità e indivisibilità della Repubblica, dall’altra si stabilì che essa riconosce e promuove le autonomie locali, e attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo. Coerentemente l’art. 114 riconosceva come entità facenti parte della Repubblica anche i Comuni, le Province e le Regioni. La scelta della nostra Costituzione è stata quella di costituire uno Stato regionale, contrassegnato da decentramento politico, ma fondato sull’idea che esistano interessi regionalmente localizzati che meritano di essere affidati alla cura di enti di corrispondente estensione territoriale. Le classificazioni che distinguono Stato federale da Stato regionale sono ad ogni modo molto poche. Occorre perciò verificare quali poteri la Costituzione di un ordinamento assegni alle articolazioni territoriali. Alle venti regioni italiane è attribuita un’autonomia in forme diverse che si tratti di Regioni a Statuto ordinario o Regioni a Statuto speciale (Valle D’Aosta, Trentino Alto Adige, Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia), che per ragioni storiche hanno una maggiore autonomia, tanto che queste condizioni sono fissate in “Statuti speciali adottati con legge costituzionale”. Le altre quindici Regioni hanno autonomia più limitata. Nel quadro costituzionale del 1948 le Regioni si vedevano riconosciute autonomia e funzioni alquanto limitate: alle Regioni a statuto ordinario era affidata solo la competenza a definire l’organizzazione interna e la disciplina sull’iniziativa di referendum regionale. Lo Statuto doveva essere deliberato dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta, approvato con legge della Repubblica. Quanto alla potestà legislativa regionale, le Regioni potevano intervenire in un circoscritto ambito di materie ma nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dallo Stato. Anche l’autonomia finanziaria, per quanto proclamata, doveva esplicarsi delle forme e nei limiti stabiliti da leggi statali di coordinamento con la finanza centrale. Le Regioni hanno potuto iniziare ad operare solo nel 1970; la loro effettiva attivazione era stata osteggiata dalle maggiori forze politiche che temevano un proprio indebolimento in caso di risultati elettorali regionali contrari a quelli nazionali. Pertanto, solo con la legge numero 108 del 1968 fu approvata la disciplina statale contenente le regole per l'elezione dei Consigli regionali che consentirono lo svolgimento delle prime elezioni regionali nel 1970. In realtà, perché le Regioni funzionassero veramente era necessario un altro passaggio: occorreva regolare il trasferimento alle regioni stesse delle funzioni amministrative e il conseguente necessario passaggio di funzionari e impiegati statali alle dipendenze regionali. A tale adempimento lo Stato ottemperò con ritardo prima con il decreto legislativo 1 del 1972 e poi con il decreto legislativo 616 del 1977. Più recentemente con la Riforma Bassanini lo Stato implementò il ruolo delle Regioni e degli altri enti locali. Per effetto di questo intervento, le Regioni si trovarono a gestire settori molto più ampi di amministrazione, con la sola eccezione degli ambiti trattenuti alla sfera di competenza statale. Questa tendenza al potenziamento dei livelli di governo decentrato ha trovato una formalizzazione e un ulteriore importante spinta a livello costituzionale grazie alle due riforme del 1999 e 2001. Legge costituzionale numero 1 del 1999: ha trasformato l'organizzazione istituzionale delle Regioni, introducendo il potere di queste di stabilire in autonomia, attraverso i propri Statuti, i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento, nonché la forma di governo regionale. Legge costituzionale numero 3 del 2001: ha modificato la maggior parte delle norme della seconda parte della Costituzione, ampliando le competenze legislative regionali. La Costituzione del 1948 elencava agli ambiti di competenza regionale lasciando allo Stato una generalizzata competenza legislativa; con la riforma del 2001 si è preceduto a circoscrivere in un elenco le competenze esclusive statali, in un altro elenco quelle di competenza concorrente, e a stabilire che in tutte le altre materie è la Regione a poter legiferare. Inoltre è stato formalizzato il principio di sussidiarietà in materia amministrativa all’art. 118, con la conseguenza che ora le funzioni amministrative spettano all'ente territoriale più prossimo ai cittadini, ovvero il Comune, “salvo che, per assicurare l'esercizio unitario”, si decida di conferirle a livello più alto. Si è poi intervenuti per ampliare l'autonomia finanziaria delle Regioni attraverso l’eliminazione di alcuni originari vincoli. Va detto anche che il testo della riforma costituzionale del 2001 ha dato origine a numerose incertezze che hanno avuto come conseguenza il proliferare di giudizi. La Corte costituzionale, dunque, è stata chiamata a chiarire molteplici dubbi interpretativi. Dall'analisi di questa giurisprudenza emerge un’interpretazione riduttiva delle funzioni regionali rispetto quello che il testo della riforma lasciava inizialmente immaginare. In sintesi, le Regioni a Statuto ordinario si vedono garantita: un'autonomia statutaria in ambito organizzativo e istituzionale che si esplica nel potere di scegliere attraverso il proprio Statuto la propria forma di governo; una potestà normativa, necessaria a determinare il proprio indirizzo politico; una funzione amministrativa, attraverso cui dare attuazione alle scelte legislative; una forma di autonomia finanziaria per consentire alle Regioni di dotarsi dei mezzi necessari a perseguire i propri fini. Infine si è previsto per le Regioni a Statuto ordinario la possibilità di attivare un procedimento per ottenere dallo Stato il riconoscimento di ulteriore autonomia in specifiche materie elencate all’art. 116. Questo procedimento si conclude con l'approvazione di una legge statale, adottata a maggioranza assoluta delle Camere, sulla base di un'intesa tra lo Stato e la Regione stessa. Ad oggi questa possibilità non si è ancora realizzata per nessuna Regione, ma alcune di esse hanno attivato il procedimento. Ad esempio, sulla base di una delibera del Consiglio regionale, l'Emilia-Romagna ha avviato le trattative con il Governo. Lombardia e Veneto hanno scelto un percorso diverso, preferendo indire un referendum, per raccogliere il parere dei cittadini sulla possibilità di richiedere allo Stato una maggiore autonomia. " ORGANI REGIONALI La Costituzione individua gli organi che fanno parte necessariamente delle Regioni: il Consiglio regionale, la Giunta, il Presidente della Regione. A questi si è aggiunto, con la riforma del 2001, il Consiglio delle autonomie locali, previsto ora dall’art. 123. Il Consiglio regionale è l'organo al quale è attribuito il potere di approvare le leggi regionali. Ad esso compete anche una funzione di indirizzo e di controllo nei confronti della Giunta, inviato della facoltà di sfiduciare il Presidente della Giunta. Il Consiglio regionale è l'organo rappresentativo della comunità regionale: esso viene eletto direttamente dai cittadini della Regione per una durata di cinque anni, quindi, come il Parlamento, anche i Consigli regionali sono espressione del principio di sovranità popolare. Ovviamente, nonostante essi abbiano carattere rappresentativo, abbiano competenza legislativa, e i loro membri godano dell'insindacabilità per i voti e le opinioni espresse, ciò non comporta una loro equiparazione alle Camere che compongono il Parlamento. Il numero massimo di consiglieri regionali è stabilito da una legge dello Stato, che ha introdotto il criterio del necessario rapporto tra il numero di abitanti di una Regione e quello dei suoi consiglieri. Nella regione più popolosa, la Lombardia, il Consiglio regionale è formato da 80 consiglieri. Viceversa, in quelle con meno abitanti, i consiglieri devono essere massimo 20. Il sistema di elezione dei Consigli regionali è definito da ciascuna Regione con propria legge. Si tratta della legge numero 165 del 2004: una disciplina attraverso la quale si è innanzitutto imposto al legislatore regionale di conformarsi ad alcuni criteri in materia di ineleggibilità e incompatibilità dei consiglieri. Nel predisporre le proprie regole elettorali le regioni devono rispettare altri principi e obiettivi ritenuti imprescindibili dal legislatore statale: si pensi alla necessità di garantire in ogni sistema elettorale regionale il principio del libero mandato; o alla richiesta di agevolare la formazione di stabili maggioranze, assicurando la rappresentanza delle minoranze, o ancora alla previsione che impone alle Regioni di promuovere le pari opportunità tra donne e uomini nell'accesso alle cariche elettive. La Giunta regionale è l'organo esecutivo della Regione. Ne fanno parte, oltre al Presidente della Giunta, un numero di assessori fissati dallo Statuto. L’accesso all’ufficio di assessore è disciplinato dalle leggi delle Regioni nei limiti dei principi stabiliti dalla legge statale. Laddove il Presidente della Giunta sia eletto a suffragio universale, la Costituzione stabilisce che sia questi ad avere il potere di nominare e revocare i componenti della Giunta. Questi ha il compito di rappresentare la Regione. La Costituzione gli affida la direzione della politica espressa dalla Giunta, della quale è anche responsabile. Inoltre ha il compito di promulgare leggi e di emanare i regolamenti regionali. Nelle regioni che hanno optato per l’elezione universale e diretta del Presidente stesso, il Presidente assume, per la sua forte legittimazione democratica, un ruolo decisivo all’interno dell’ente regionale, ed è in sostanza colui che può incidere sull’indirizzo politico della Regione. Ciò è confermato dal fatto che, eletto direttamente, ha il potere di nominare e revocare gli assessori, ma soprattutto la sorte del Consiglio regionale è legata direttamente a quella del Presidente stesso. Il consiglio delle autonomie locali (CAL) è l’organo di consultazione permanente tra la Regione e gli enti locali del territorio. La disciplina è riservata agli Statuti regionali. La previsione del CAL si giustifica per la necessità di attuare il principio di leale collaborazione nei rapporti infraregionali. Dell'esistenza di una tale serie di raccordo si giovano anzitutto gli enti regionali minori, che vedono così assicurata la possibilità di vedere rappresentati i propri interessi nei rapporti con la Regione. " FORMA DI GOVERNO REGIONALE Nel suo testo originario la Costituzione prevedeva per tutte le regioni la forma di governo parlamentare. Il Presidente della Giunta e gli altri assessori venivano infatti eletti dal Consiglio tra i suoi membri. In questo contesto era perno dell’indirizzo politico il Consiglio, al quale competeva sia la funzione legislativa che quella regolamentare. Complice un sistema elettorale proporzionale, la disgregazione delle fragili maggioranze presenti in Consiglio determinava però la continua caduta delle Giunte. Per reagire già il legislatore ordinario aveva cercato di imprimere al sistema un impulso maggioritario e di rafforzare la figura del Presidente della Giunta. Ciò attraverso l’adozione di una nuova disciplina elettorale di stampo proporzionale corretta da soglia di sbarramento e premio di maggioranza. Stabilisce l’art. 123 che oggi è la Regione, attraverso il proprio Statuto e in armonia con la Costituzione, a dover scegliere per sé la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento”. Dunque è ciascuna Regione a poter determinate in autonomia, attraverso lo Statuto, la forma di governo. Tuttavia alcune regole in materia sono direttamente dettate dalla Costituzione, tra queste: la regola che prevede che il Consiglio regionale possa esprimere la sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta. Per giungere a questo grave atto il Consiglio deve approvare a maggioranza assoluta una mozione motivata sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti. Altra regola inderogabile è quella che prevede che le eventuali dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti del Consiglio ne determinano lo scioglimento. Oltre l’art. 22 Cost. stabilisce che, se lo Statuto non dispone diversamente, il Presidente della Regione è eletto a suffragio universale e diretto. Dall’elezione diretta del Presidente della Giunta discendono altre conseguenze; egli ha infatti il potere di nominare e revocare gli assessori. Ancora più rilevante è l’approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Consiglio nei suoi confronti oppure la sua rimozione determinano lo scioglimento del Consiglio: è la regola del simul stabunt simul cadent. Come si vede, questa forma di governo delineata per le Regioni è particolare: si tratta di una forma di governo nella quale il Presidente della Giunta è eletto a suffragio universale e diretto, ma può essere sfiduciato dal Consiglio regionale. Questo sistema è chiamato forma di governo neoparlamentare, anche se rimane il fatto che le regioni possano scostarsi da questa configurazione sfruttando l’opportunità loro concessa dall’art. 123. Quello che invece le Regioni non possono fare è optare per un modello che tenti di eludere le conseguenze costituzionali ed in particolare la regola che vede Consiglio e Presidente della Giunta legati a doppio filo, dato che la caduta per qualsiasi caso del secondo determina anche lo scioglimento del primo. Quello che tentò di fare la Calabria con l’approvazione di una norma statutaria che disponeva l’elezione del Presidente da parte del corpo elettorale, ma allo stesso tempo la necessaria sua designazione da parte del Consiglio, il quale, in caso di mancata designazione, sarebbe andato incontro allo scioglimento. " ENTI LOCALI La Repubblica è costituita, oltre che da Stato e Regioni, anche da Comuni, Città e Province; enti definiti dall’art. 114 come “autonomi”, e dotati di propri statuti. Naturalmente è un livello di autonomia inferiore a quello riconosciuto alle Regioni, che sono le uniche entità territoriali dotate di un potere legislativo. Anche gli enti locali hanno il potere normativo, ma solo di livello regolamentare, attraverso il quale possono dettare le regole della propria organizzazione e di gestione delle proprie funzioni. Vediamo profili istituzionali e forma di governo delle autonomie territoriali minori: ricordiamo l’art. 117 che assegna alla competenza statale esclusiva la disciplina sulla “legislazione elettorale”, sugli “organi di governo”, oltre che sulle “funzioni fondamentali di Comuni, Città e Province”. Poi è lo Statuto dell'ente locale stesso ad avere il compito di dettarne le specifiche attribuzioni. Le loro principali competenze, tuttavia, sono state direttamente individuate dal legislatore statale. Cominciando dai Comuni, gli organi che ne fanno parte sono il Consiglio, la Giunta comunale, il Sindaco. Il Sindaco dei Comuni è eletto a suffragio universale e diretto da parte di coloro che risiedono nel territorio del Comune stesso. Mentre il Consiglio è organo di indirizzo e controllo politico amministrativo, il Sindaco è il soggetto responsabile dell’amministrazione del Comune, e ad esso spetta nominare gli assessori della Giunta che è chiamato a presiedere. La regola del rinnovo del Sindaco e Consiglio comunale, e lo specifico sistema elettorale costruito dal legislatore, hanno l’obiettivo di dare vita ad organi capaci di lavorare insieme. Peraltro nella stessa direzione va il principio del simula stabunt simul cadent, che stabilisce che qualora il Consiglio sfiduci il Sindaco, ciò determina anche lo scioglimento del Consiglio stesso. Quanto alle Province, negli ultimi anni esse sono state al centro di interventi legislativi di ampia portata, che ne hanno profondamente mutato il volto istituzionale. In un primo momento l'opera di riordino delle Province è stata smantellata dalla Corte costituzionale, che aveva osservato come le norme che disciplinano le modalità di elezione, gli organi e le funzioni degli enti locali sono norme “ordinamentali”, “destinate a durare nel tempo”. Con la conseguenza che esse “non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei limiti tracciati dall’art. 77”. Successivamente le Province sono state trasformate, con la legge 56 del 2014, in enti di secondo livello, giacché i rispettivi organi di indirizzo non sono più eletti a suffragio universale e diretto, ma da Sindaci e consiglieri dei Comuni facenti parte del territorio. La legge 56 nel 2014 ha introdotto una “significativa riforma del sistema della geografia istituzionale della Repubblica in vista di una semplificazione dell'ordinamento degli enti territoriali”; essa infatti ha istituito le Città metropolitane, previste dall’art. 114: ente territoriale che non era previsto nell’originario testo della Costituzione, che ha sostituito le Province delle Città più popolose. Gli organi delle Città metropolitane sono, in prima applicazione, organi eletti direttamente, anche se la legge prescrive che il singolo statuto possa prevedere l’elezione indiretta di tali soggetti. La corte costituzionale ha chiarito, sia con riferimento ai nuovi organi provinciali, sia con riferimento agli organi delle neo Città metropolitane, che la circostanza che essi non siano eletti direttamente e abbiano dunque solo una legittimazione indiretta non determina una violazione della Costituzione. CAPITOLO IX © 1. I MODELLI DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE " CORTE COSTITUZIONALE COME GARANTE DELLA RIGIDITÀ DELLA COSTITUZIONE Una delle novità della nostra Costituzione è sicuramente l’istituzione di un organo con la funzione di garantire innanzitutto la rigidità. La Corte costituzionale può essere definita come il supremo organo di garanzia della Costituzione, in quanto ad essa è assegnato il compito di assicurare il rispetto della Costituzione da parte di ogni potere dello Stato. Il ruolo della Corte costituzionale di garante della Costituzione si evince chiaramente sin dalla rubrica “Garanzie costituzionali” del titolo VI della parte II della Costituzione, che contiene la disciplina dell'istituzione e del funzionamento della Corte stessa. Pertanto, la Corte costituzionale, e il procedimento di revisione della Costituzione, costituiscono strumenti di garanzia della rigidità costituzionale, e quindi della formale sovra-ordinazione della Costituzione e delle leggi costituzionali rispetto alle leggi ordinarie. La funzione di garante della Costituzione colloca la Corte costituzionale al di fuori della tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato, così come visto per il Presidente della Repubblica, anch’esso organo di garanzia costituzionale. Sottolineiamo che esiste una differenza tra Corte costituzionale e Presidente della Repubblica, da rintracciarsi sul piano del metodo applicato dai due organi nell'esercizio delle proprie funzioni: la Corte svolge la funzione di controllo con criterio e metodo giurisdizionale. " ORIGINI DEL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITÀ DELLE LEGGI Come accennato, il sistema costituzionale deve assicurare l'osservanza delle norme contenute nella Costituzione. La rigidità della Costituzione, e quindi l'introduzione di strumenti che consentano di rimediare alle ingiustizie del legislatore, ha origini molto diverse in Europa e negli Stati Uniti d’America. Il primo sistema di giustizia costituzionale si affermò dal primo ottocento negli Stati Uniti d'America, con la sentenza Marbury vs Madison. In quella occasione la Corte suprema federale ebbe modo di affermare il principio di costituzionalità secondo cui una legge, statale o federale, in contrasto con la Costituzione è da considerarsi una non legge: essa è cioè invalida, in quanto la Costituzione è superiore e prevale su tutte le altre leggi; con la conseguenza che il giudice sarà tenuto a non farne applicazione. Secondo il modello statunitense il controllo è effettuato da tutti i giudici che, qualora si trovino ad applicare una norma di legge e ne accertino l'incostituzionalità, devono disapplicarla. La disapplicazione ha effetto limitato al caso concreto, quindi non sarà espulsa dall'ordinamento e potrà essere applicata da altri giudici che la reputino non incostituzionale. Questo modello viene definito diffuso, perché attribuisce a qualunque giudice il potere di sindacare l'eventuale non conformità alla Costituzione di una legge. Mentre negli Stati Uniti d'America il potere giudiziario assunse il compito di tutelare i cittadini dalle ingiustizie, in Europa questo rimase invece confinato nel ruolo di esecutore della legge. La ragione di questa differenza è da cercarsi nella situazione storica dei due continenti: negli stati dell'Europa continentale si è registrata una sostanziale onnipotenza del potere legislativo, che in molti casi si è rivelato un potere arbitrario e iniquo. Per questo, nel Novecento, in Europa il problema fu quello di creare strumenti che potessero porre rimedio ad eventuali ingiustizie del legislatore. Obiettivo era di evitare il ripetersi di scelte legislative lesive della dignità dell’uomo, come quelle contenute nelle leggi razziali. In Europa, per tutte queste ragioni, la giustizia costituzionale nasce con caratteristiche opposte al modello statunitense: il sindacato è compiuto da un organo ad hoc che può accertare la difformità della legge rispetto alla Costituzione e annullare la legge, dichiarandola incostituzionale. Questo modello di giustizia costituzionale, definito accentrato, conobbe la sua prima applicazione nella Costituzione austriaca del 1920, sulle teorizzazioni del giurista Kelsen, che afferma che “l’organo legislativo si considera in realtà libero creatore del diritto e non organo che lo applica, vincolato alla Costituzione, mentre in realtà lo è. Non è quindi possibile contare sullo stesso Parlamento per realizzare la sua subordinazione alla Costituzione. Il compito di annullare i suoi atti incostituzionali va affidato a un organo diverso, indipendente da altre autorità statali”. Risulta così evidente che le differenze tra i due sistemi sono state determinate da diverso ruolo e rapporto fra legislatore e giudice. Nel Novecento si assiste comunque ad un avvicinamento e a una contaminazione tra i modelli. © 2. LA CORTE COSTITUZIONALE " MODELLO ITALIANO DI GIUDIZIO SULLE LEGGI In Italia, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, non esisteva controllo di costituzionalità delle leggi, in quanto la legge ordinaria era ritenuta capace di derogare allo Statuto Albertino, che per questo era definito “flessibile” (primato della legge). L’Assemblea costituente ragionò sulle sue forme di garanzia, quindi anche sull’introduzione di un controllo di costituzionalità delle leggi. Tra le principali ragioni a suo favore vi era soprattutto quella di garantire un efficace strumento di tutela delle libertà costituzionali. Una volta sceltosi di attuare un controllo di costituzionalità delle leggi, l’Assemblea costituente dovette confrontarsi sul modello di costituzionalità da adottare e alle forme di accesso dei cittadini alla giustizia costituzionale. I Costituenti scelsero fra un controllo di tipo diffuso e un controllo di tipo accentrato, cioè fra il modello statunitense e quello austriaco. In Assemblea costituente, tra i due modelli, prevalse l'opzione per quello accentrato, quindi per l'istituzione di una Corte costituzionale come organo ad hoc, non facente parte del potere giudiziario. Questa scelta comportava la necessità di affrontare due ulteriori decisive questioni: quella della composizione e quella delle modalità attraverso le quali l’organo potesse essere investito della questione di costituzionalità. Esaminiamo pertanto le forme di accesso alla Corte costituzionale: 1. via incidentale, per cui la questione di legittimità costituzionale sarebbe potuta sorgere nel corso di un giudizio concreto, e la relativa decisione avrebbe avuto effetti solo per quel giudizio, potendo eventualmente divenire generale su richiesta di alcuni soggetti qualificati. 2. attribuzione del singolo dell'azione diretta nei confronti della legge incostituzionale, da esercitare entro un termine da definire. 3. si immagina che la Corte costituzionale possa essere investita della questione da parte di soggetti, ad esempio di un certo numero di cittadini, di Consigli regionali o di enti qualificati, secondo il “progetto Patricolo" presentato in seconda sottocommissione. Optava per la via incidentale anche il “progetto Calamandrei” (componente della Commissione speciale per l'esame dei provvedimenti relativi alla Corte Costituzionale), che prevedeva tuttavia un sistema alquanto macchinoso: si attribuiva alle parti del giudizio la legittimazione a proporre un appello nei confronti della decisione del giudice comune. Nel caso di accertamento di incostituzionalità, la Corte avrebbe dovuto trasmettere al Parlamento la decisione, con la possibilità, per quest’ultimo, di modificare la legge, rendendola conforme a Costituzione, in modo che non presentasse vizi. In Assemblea, il problema della legittimazione ad investire la Corte costituzionale non fu definito, a causa dell’opposizione comunista nei confronti dell’azione diretta del singolo cittadino per il timore che un cittadino qualunque, spinto solo da personali interessi, potesse mettere in discussione un atto del Parlamento, votato dai rappresentanti del popolo. La soluzione del problema fu rinviata a un momento successivo, infatti l’art. 137 prevede che “una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini, di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale”, e all’art. 137 è stata poi data attuazione con l’introduzione della forma di accesso incidentale: “la questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione”. Altra forma di accesso di giudizio di legittimità, in via principale, all’art. 127, ma riguarda il campo più limitato dei rapporti tra Stato e Regione. Inizialmente l’art. 127 prevedeva il ricorso dello Stato in via preventiva durante l’iter di approvazione della legge, mentre era l’art. 2 della legge numero 1 del 1948 a riconoscere anche alle Regioni la legittimazione a sollevare una questione di legittimità costituzionale di una legge dello Stato o di una legge regionale, ma solo in via successiva, nel termine di 30 giorni e di 60 giorni dalla pubblicazione dell'atto normativo. Con la riforma costituzionale del 2001 il giudizio in via principale è stato oggetto di una importante modifica. L’art. 127 prevede condizioni di parità fra Stato e Regioni per quanto concerne requisiti ai fini dell’ammissibilità della questione. Ma questo orientamento rigoroso ha conosciuto delle deroghe: sono stati ritenuti legittimati a sollevare la questione in via incidentale gli arbitri rituali, che svolgono la loro funzione nel corso di un arbitrato, regolato dal codice di procedura civile. In questo caso la Corte ha ritenuto sufficiente la sussistenza del requisito oggettivo, ovvero un giudizio svolto nella parità delle parti. Analogamente, la Corte ha ammesso una questione di costituzionalità sollevata dalla Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei deputati, in ragione del fatto che pur trattandosi di un organo giurisdizionale in senso soggettivo, si è comunque in presenza di un organo di autodichia, chiamato a svolgere, in posizione super partes, funzioni giurisdizionali per la decisione di controversie. " RILEVANZA DELLA QUESTIONE La questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di un giudizio: aspetto chiarito nell’art. 23 della legge 87 del 1953, secondo il quale il giudice può sollevare la questione “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale”. Il requisito della rilevanza della questione trova dunque espresso fondamento nella legge ordinaria. La rilevanza può essere vista come il nesso di pregiudizialità intercorrente tra il giudizio nel quale sorge la questione di legittimità costituzionale, e il giudizio di costituzionalità: altrimenti detto, il primo non può essere definito o non può proseguire senza la risoluzione della questione di costituzionalità. Sebbene la giurisprudenza giurisdizionale non sia stata lineare sulla nozione di rilevanza, la questione di legittimità può dirsi rilevante quando i dubbi di costituzionalità investono una norma di legge che il giudice deve applicare per la prosecuzione del giudizio pendente innanzi a lui e quando la decisione della Corte sulla fondatezza o meno dei dubbi influisce sulla decisione del giudice rimettente. Quando la Corte ha iniziato a operare, il suo sindacato era ampio per permetterle di giudicare il maggior numero di questioni possibili. Così in quegli anni la Corte affermava di non poter entrare nel merito del giudizio di rilevanza, escludendone la sindacabilità, “quando quel giudizio esista e sia stato congruamente motivato”. Successivamente il controllo della Corte costituzionale in ordine alla integrazione del requisito si è fatto più rigoroso alla fine degli anni 80, a causa dell'aumento del contenzioso. Attualmente è richiesta sia la sussistenza della rilevanza, sia la presenza di una motivazione in punto di rilevanza. La Corte può dichiarare inammissibile la questione, quindi, non solo perché irrilevante, bensì anche perché il giudice ha omesso di motivare la rilevanza o non l'ha fatto in modo adeguato. Inoltre la questione è inammissibile per irrilevanza anche per difetto di attualità. È attuale la questione che investe la norma che il giudice deve applicare, in quanto giudice competente per quella fase processuale. Ne deriva che è prematura la questione sollevata da un giudice che non deve applicare nella sua fase di competenza quella norma, che tutt'al più potrà trovare applicazione in una fase successiva a opera di un giudice diverso; mentre, è tardiva la questione sollevata dal giudice che abbia già fatto applicazione della norma della cui legittimità dubita. In entrambi i casi la questione è irrilevante perché la decisione della Corte costituzionale non sarebbe idonea a produrre alcuna influenza nell'ambito del giudizio principale. Vediamo il regime particolare nella rilevanza della questione con riguardo alle norme penali di favore, cioè alle norme che prevedono un trattamento più favorevole rispetto alla norma penale incriminatrice. L'annullamento di norme penali di favore produrrebbe effetti pregiudizievoli per l'imputato, sicché, se la Corte costituzionale accogliesse la questione di legittimità, il giudice comunque dovrebbe applicare la norma illegittima, in forza del principio di irretroattività delle norme penali in malam partem. In tal caso il giudizio della Corte, non influenzando quello principale, sarebbe inutile. Invece la Corte costituzionale ha riconosciuto successivamente l'ammissibilità di questioni di legittimità su norme penali di favore nella sentenza del 1983, con la quale ha ritenuto che l'applicazione della norma illegittima dipende dall'operatività del principio che regola la successione delle leggi penali del tempo; in secondo luogo, perché la decisione della Corte inciderebbe sulla motivazione della decisione e anche sul dispositivo; infine, perché il modo in cui reagire a una decisione di incostituzionalità dipende comunque dal giudice a quo. Ricordiamo un caso recente, quando la Corte ha ritenuto rilevante un’azione di “mero accertamento” sul diritto a votare in modo conforme a Costituzione, adeguandosi alle valutazioni compiute dal giudice a quo. Infine consideriamo ciò che accade qualora, dopo la dimensione della questione di legittimità ala Corte, sopravvengano fatti o eventi nuovi, che possano incidere sulla permanenza della rilevanza della questione. Si distinguono due ipotesi diverse a seconda che gli eventi sopravvenuti interessino il processo a quo, oppure il sistema normativo in generale. Nel primo caso, la Corte non pronuncia l’inammissibilità per sopravvenuta irrilevanza, essendo il giudizio in punto di rilevanza soddisfatto qualora esso sussista al momento della rimessione della questione alla Corte. Nel secondo caso, di fronte al ius superveniens, la Corte, di regola, rimette gli atti al giudice a quo, perché questi proceda con una nuova valutazione in punto di rilevanza della questione di costituzionalità. Nel corso di questa valutazione, il giudice a quo potrà sollevare nuovamente la questione, ma solo qualora la ritenga nuovamente rilevante. " NON MANIFESTA INFONDATEZZA E INTERPRETAZIONE CONFORME A COSTITUZIONE La questione di costituzionalità, per essere sollevata, deve essere ritenuta dal giudice “non manifestamente infondata”. Analogamente l’art. 23 della legge 87 del 1953 prevede che la questione di legittimità possa essere sollevata non solo quando questa sia rilevante ma anche quando il giudice “non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata”. Il requisito della non manifesta infondatezza è un filtro di merito, la cui natura è giustificata dall'esigenza di prevenire il rischio che l'incidente di costituzionalità venga utilizzato a meri scopi dilatori delle parti del giudizio principale, ma anche il rischio che la Corte si trovi a giudicare un elevato numero di questioni del tutto infondate. L'espressione utilizzata dal legislatore, con doppia negazione “non manifestamente infondata” pone il dubbio che la norma da applicare sia incostituzionale: non è necessario che il giudice sia convinto della fondatezza della questione e nemmeno che il giudice sia persuaso del contrario, bensì soltanto che esistano oggettive ragioni di incertezza della compatibilità costituzionale della norma di legge. Nella valutazione il giudice esplicherà un giudizio di merito di carattere sommario, limitandosi a rilevare il dubbio con un primo giudizio. Diversamente, invaderebbe la giurisdizione esclusiva della Corte costituzionale quale unico giudice preposto a dichiarare la fondatezza o meno delle questioni di costituzionalità. La Corte controlla che il giudice abbia valutato il requisito della non manifesta infondatezza attraverso la motivazione. Inoltre, il giudice deve motivare adeguatamente anche la decisione opposta, quella con cui respinga l'eccezione di illegittimità costituzionale per manifesta irrilevanza o infondatezza. La Corte costituzionale ha individuato un altro requisito per sollevare la questione di costituzionalità: l’interpretazione conforme a Costituzione (interpretazione adeguatrice). Nella giurisprudenza è sempre stato affermato il principio per cui, tra due possibili interpretazioni di una disposizione, una sola delle quali sia compatibile con la Costituzione, si debba optare per quest’ultima: compito dei giudici è di interpretare la norma da applicare di fronte a più possibili interpretazioni, scegliendo quella che risulti conforme alla Costituzione. La Corte ha ancor più valorizzato i giudici affermando che “le leggi non si dichiarano illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali. Quindi la Corte richiede che sia applicato il tentativo di interpretazione conforme, senza il quale la questione viene dichiarata inammissibile. " ORDINANZA DI RIMESSIONE: NORMA OGGETTO, NORMA PARAMETRO E TIPOLOGIA DEI VIZI Una volta verificate la rilevanza e la non manifesta infondatezza, e tentata inutilmente l’interpretazione adeguatrice, il giudice redige un’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, nella quale espone termini e motivi della questione, indicando la norma oggetto di dubbio e le norme che si assumono violate; motivo sulla rilevanza e la non manifesta infondatezza e sospende il giudizio fino alla decisione della Corte. L’ordinanza di rimessione è l’atto introduttivo del giudizio di costituzionalità nel quale viene definito il thema decidendum, ovvero l’oggetto sul quale la Corte è chiamata a pronunciarsi. Può accadere che il dubbio di legittimità costituzionale concerna solo alcune parti del contenuto normativo e non l’intera disposizione. In questa ipotesi la questione sarà sollevata dal giudice a quo solo rispetto alla parte in questione. Ne deriva che il modo in cui il giudice imposta la questione è determinante anche ai fini della decisione della Corte, che a volte però vi opera delle correzioni, in qualche caso ampliando l’oggetto del giudizio, potendo anch’essa sollevare la questione di legittimità costituzionale. Quindi l’ordinanza di rimessione deve contenere: 1. indicazione dell’autorità procedente e del giudizio nell’ambito del quale la questione di costituzionalità è sollevata; 2. riferimento alla controversia nell’ambito della quale sorge la questione; 3. indicazione del soggetto che ha prospettato il dubbio per stabilire se la relativa questione sia sollevata d’ufficio o su istanza di parte; 4. motivazione in punto di rilevanza della questione; 5. motivazione in punto di non manifesta infondatezza della questione; 6. motivazione sull’impossibilità di operare una interpretazione conforme a Costituzione; 7. soluzione chiesta alla Corte costituzionale; 8. il dispositivo, che contiene la decisione di rimettere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale; la dichiarazione della sua irrilevanza e non manifesta infondatezza, la dichiarazione di sospensione del giudizio in corso. La questione di legittimità costituzionale è costituita dalla norma oggetto, cioè dalla norma di legge rispetto alla quale si prospetta il dubbio di conformità alla Costituzione e la norma parametro, cioè la norma della Costituzione che si assume violata. Quanto all’oggetto della questione l’art. 134 afferma che “la Corte giudica sulle leggi e gli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni”. Rispetto all formulazione testuale della norma, ricordiamo che sono incensurabili davanti alla Corte costituzionale le leggi costituzionali, con riguardo ai loro limiti di contenuto e di procedimento e rispetto ai principi supremi della Costituzione; mentre sono esclusi dal giudizio sulle leggi gli atti normativi subordinati alla legge, per i quali il controllo di legittimità spetta al giudice comune. La Corte costituzionale ha, inoltre, escluso la sindacabilità dei regolamenti parlamentari, adottati da entrambe le Camere. Occorre precisare che l'oggetto della questione di legittimità costituzionale riguarda le norme che si ricavano dalle disposizioni attraverso l’interpretazione, poiché nell'ordinanza di rimessione il giudice a quo deve indicare la norma della cui costituzionalità dubita. Al riguardo ricordiamo il principio enunciato dalla Corte costituzionale secondo cui essa “giudica su norme, ma si pronuncia su disposizioni”. Ne discende dunque che la rimessione della questione di legittimità costituzionale richiede in primo luogo che il giudice a quo interpreti la disposizione al fine di ricavarne la norma da applicare al caso concreto: una volta individuata, spetterà sempre al giudice porre la stessa a confronto con la norma costituzionale che si assume violata. Oltre all’interpretazione conforme a Costituzione, il giudice a quo deve tener conto dell’eventuale presenza di un’interpretazione consolidata in termini di “diritto vivente”: verificare cioè se l’interpretazione della disposizione della cui costituzionalità si dubita è sostenuta dalla giurisprudenza prevalente. Di fronte al diritto vivente il giudice non può quindi svolgere una sua autonoma interpretazione, e ha due alternative: la applica, perché ritiene che quella interpretazione non comporti dubbi di legittimità costituzionale, oppure solleva il dubbio di costituzionalità di fronte alla Corte. La questione di costituzionalità può, peraltro, essere sollevata anche con riferimento indiretto a una norma costituzionale. Questo accade ogni volta che ad essere violata è una norma di rango sub-costituzionale alla quale la Costituzione attribuisce efficacia vincolante nei confronti delle leggi ordinarie. Si parla di parametro interposto, cioè di norma la cui violazione si traduce in una indiretta violazione della Costituzione. Esempi di parametri interposti sono: la legge delega rispetto al decreto legislativo; i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato nelle materie di potestà legislativa concorrente; i trattati internazionali. Per quanto attiene alla tipologia dei vizi sindacabili dalla Corte costituzionale, si distingue tra vizi formali e vizi sostanziali. Il vizio formale consiste nel mancato rispetto delle regole che disciplinano il procedimento di formazione dell’atto normativo. Il vizio sostanziale concerne invece i contenuti della norma oggetto, in quanto in contrasto con i contenuti sostanziali della norma parametro. Accanto a questa tradizionale bipartizione, la dottrina individua una terza tipologia di vizio sindacabile dalla Corte: il vizio di competenza, che ricorre quando l'atto normativo è adottato da un soggetto diverso da quello costituzionalmente competente. " CENNI AL PROCESSO COSTITUZIONALE La decisione di accoglimento è efficace erga omnes ed è retroattiva. L'estensione erga omnes dell’efficacia delle pronunce si pone in linea con il principio della sovraordinazione della Costituzione. Si è discusso se gli effetti della decisione di accoglimento dovessero essere retroattivi o valere solo per il futuro. Il problema è stato risolto con la legge 87 del 1953: “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”, ammettendosi così che la dichiarazione di incostituzionalità abbia effetto anche nei confronti di tutte le situazioni ancora giustiziabili, anche se sorte precedentemente alla dichiarazione di incostituzionalità. Le decisioni di incostituzionalità si applicano dunque anche ai rapporti sorti prima della dichiarazione, con il solo limite dei rapporti esauriti, cioè quelli che non sono più sottoponibili a giudizio di merito per il sopravvenire di fatti impeditivi, quali il giudicato, la prescrizione, la decadenza. Il problema dell'applicazione delle decisioni di incostituzionalità ai rapporti esauriti è di competenza dei giudici comuni, nonostante in qualche caso la Corte abbia voluto farsene carico. In un solo caso la decisione di incostituzionalità travolge anche i rapporti esauriti dal giudicato penale: “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali”. L'efficacia generale e retroattiva delle decisioni di incostituzionalità ha tuttavia creato molti problemi, soprattutto nel caso in cui queste decisioni comportassero costi per il nostro ordinamento. Questo difetto ha determinato in molti casi una rinuncia del giudice costituzionale all'accoglimento di importanti, ma troppo costose, questioni. Si è posto allora il problema di adottare strumenti che consentissero alla Corte di limitare retroattivamente, o solo per il futuro l'efficacia della propria pronuncia. Di recente la Corte ha adottato una pronuncia solo “pro futuro”, ritenendo che rientri nei propri poteri anche la determinazione dell'efficacia temporale. " ULTERIORI MODELLI DECISORI La Corte ha elaborato ulteriori tecniche decisorie, che oggi possiamo sistematizzare due modelli: 1. Decisioni interpretative di rigetto e di accoglimento; 2. Decisioni manipolative di accoglimento, tra cui abbiamo le pronunce di accoglimento parziale, additive, sostitutive e additive di principio. Le decisioni interpretative di rigetto nascono dalla possibilità che una disposizione consenta più di un’interpretazione: la Corte può infatti rifiutare l'interpretazione prospettata dal giudice a quo ed elaborarne una propria. Se la giurisprudenza non si adegua all'interpretazione suggerita dalla Corte, essa dovrà rivedere la propria decisione, giungendo a una pronuncia di accoglimento. Nei primi anni della propria attività, le pronunce di rigetto sono state il principale strumento con cui la Corte ha adeguato le leggi anteriori alla Costituzione ai principi costituzionali. Accadeva tuttavia che i giudici non si conformassero tali interpretazioni: in simili ipotesi si è avuto il passaggio da una decisione interpretativa di rigetto a una interpretativa di accoglimento. Negli anni 60 fu richiesto alla Corte di adeguare l'ordinamento ai nuovi principi costituzionali. Il giudice costituzionale dovette allora crearsi strumenti ulteriori rispetto alle decisioni interpretative, non potendo permettersi di creare vuoti nell’ordinamento. Nascono così decisioni con le quali la Corte non dichiara la semplice incostituzionalità, ma con ritagli o aggiunte, ne modifica il significato, adeguandolo ai principi costituzionali. Si tratta delle decisioni manipolative, grazie alle quali la Corte dichiara l'incostituzionalità della disposizione di legge non nella sua integrale portata normativa, ma solo nella parte in cui prevede qualcosa (sentenze di accoglimento parziale o riduttive), o nella parte in cui non prevede qualcosa (sentenze additive), o nella parte in cui prevede qualcosa anziché qualcos’altro (sentenze sostitutive). Sentenze di accoglimento parziale: la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale della disposizione legislativa non nella sua integrità, ma “nella parte in cui prevede che…”, individuando direttamente la parte della norma sulla quale la dichiarazione di incostituzionalità produrrà i propri effetti. Sentenze additive: sono impiegate dalla Corte per colmare una lacuna rilevante. La Corte dichiara l'illegittimità della disposizione impugnata “nella parte in cui essa non prevede che…”, ossia quando la disposizione manchi di un contenuto costituzionalmente necessario. Sentenze sostitutive: la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale della disposizione legislativa “nella parte in cui prevede A anziché B”. Le decisioni manipolative, dunque, non investono la disposizione nella sua globalità, ma solo una parte del suo contenuto. Esse, in quanto pronunce di accoglimento, producono gli stessi effetti retroattivi ed erga omnes, con riguardo però alla sola parte di norma colpita. Questa tecnica ha suscitato critiche perché ritenuta lesiva dello spazio riservato alla discrezionalità del legislatore: radicale era soprattutto la posizione di quanti sostenevano che se la norma è presente nel sistema, spetterebbe solo ai giudici ricavarla e, dunque, la Corte violerebbe la sfera di competenza dei giudici. Se la norma non è presente nell'ordinamento, solo il legislatore può introdurla. A questa obiezione si è risposto che la manipolazione della Corte avviene in realtà “a rime obbligate”: la Corte non crea nuove norme, ma si limita a ricavarle dal sistema costituzionale, per evitare di creare vuoti legislativi attraverso semplici pronunce di accoglimento (horror vacui). Quindi la tecnica delle decisioni manipolative ha permesso alla Corte di intervenire senza creare vuoti in numerosi settori dell'ordinamento. Le sentenze additive di principio si differenziano, rispetto alle sentenze additive classiche, per l’assenza di un intervento della Corte volto a stabilire il contenuto normativo regolatorio da aggiungere alla disposizione impugnata, limitandosi a individuare i principi che devono ispirare il successivo intervento del legislatore. Nella pronuncia quindi la Corte dichiara l'incostituzionalità della norma nella parte in cui non rispetta un principio costituzionale, e si limita a fissare un principio generale che dovrà essere attuato solo dall'intervento del legislatore. Questo pone però un problema per ciò che riguarda il periodo nel quale la dichiarazione di incostituzionalità è resa e il legislatore deve ancora intervenire: Cosa dovranno fare i giudici, a partire dal giudice a quo? Dovranno sospendere il processo in attesa dell'intervento del legislatore? Dovranno negare il diritto dal momento che il legislatore non è ancora intervenuto? Potranno invece applicare direttamente il principio affermato dalla Corte pure in assenza di una regola precisa? Spesso il legislatore italiano non interviene tempestivamente. Un esempio di decisione additiva di principio è costituita dalla sentenza numero 170 del 2014: la Corte ha dovuto affrontare il problema del “divorzio imposto” a seguito del cambiamento del sesso di uno dei coniugi in una coppia sposata. Non essendo nel momento della dichiarazione di incostituzionalità ancora stata approvata una regolamentazione generale sulle unioni fra persone dello stesso sesso, la Corte ha dichiarato l’illegittimità del divorzio imposto, rinviando al legislatore il compito di approntare un’adeguata disciplina. Nelle more dell'approvazione della legge sulle unioni civili, il giudice a quo (che in quel caso era la Corte di cassazione), ha applicato il principio contenuto nella sentenza, rigettando la richiesta di scioglimento del matrimonio. In particolare la Corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza della Corte costituzionale non potesse comportare la rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale, con relativo riconoscimento temporaneo per la coppia dei diritti e dei doveri di cui al vincolo legittimamente contratto, fino all'intervento del legislatore. © 5. GLI ALTRI GIUDIZI SULLE LEGGI " GIUDIZIO IN VIA PRINCIPALE L'altra via che consente alla Corte di effettuare il controllo di costituzionalità è il giudizio in via principale. Quando la Corte si pronuncia su un ricorso introdotto in via principale, a differenza del giudizio incidentale, essa decide della questione astratta, senza cioè che il problema di legittimità costituzionale si sia posto in sede di concreta applicazione della legge impugnata. La legittimazione ad impugnare la legge con ricorso in via principale è riservata allo Stato e alle Regioni e alle due Province autonome di Trento e Bolzano. Secondo il disegno originario della Costituzione, il giudizio sulle leggi regionali era diverso rispetto a quello relativo alle leggi statali: le prime potevano essere impugnate dal Governo già prima della loro entrata in vigore, le seconde potevano essere oggetto di impugnazione da parte delle Regioni solo dopo la loro entrata in vigore. Questa circostanza denotava un regime di favore per le leggi statali. Oggi la situazione da questo punto di vista è parificata: sia le leggi statali che quelle regionali possono essere impugnate solo successivamente alla loro entrata in vigore, entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. Oltre alla legittimazione all'impugnazione, ai fini dell'ammissibilità della stessa, deve essere soddisfatta la condizione dell'interesse al ricorso, condizione che consiste nell'utilità della pronuncia della Corte nei confronti della situazione giuridica fatta valere dal ricorrente. La sussistenza dell'interesse al ricorso può essere apprezzata alla luce della stessa tipologia di vizi che possono essere denunciati nei rispettivi ricorsi. Con riguardo ai vizi denunciabili, infatti, la Corte è costante nel distinguere la posizione dello Stato da quella delle Regioni: mentre lo Stato può denunciare la violazione di qualsiasi norma costituzionale da parte della legge regionale, la Regione può denunciare la sola lesione delle proprie competenze legislative così come fissate in Costituzione. Le ragioni della diversità di trattamento tra i due enti trovano il loro fondamento nella diversa posizione che questi occupano nell'ordinamento giuridico. La Corte ha infatti affermato che anche “nel nuovo assetto costituzionale, allo Stato è sempre riservata una posizione peculiare”. Un ampliamento dei vizi deducibili da parte della Regione si riscontra, semmai, nell'orientamento della Corte che ammette il ricorso regionale per invasione diretta delle proprie competenze: la Regione può ricorrere denunciando la violazione di parametri anche diversi da quelli che disegnano le competenze legislative, purché tale violazione ridondi indirettamente in una lesione delle proprie competenze legislative. A questo riguardo, la Regione deve motivare specificamente la ridondanza della violazione. I contenuti del ricorso devono corrispondere a quanto rilevato nella delibera del Consiglio dei ministri o della Giunta regionale, che decide dell'impugnazione, a pena di inammissibilità. Con riguardo profili processuali, il giudizio in via principale è un processo di parti: è promosso su impulso di parte e, a differenza di quello incidentale, si può estinguere in seguito a rinuncia del ricorrente, accettata dall'altra parte. La Corte può inoltre dichiarare la cessazione della materia del contendere laddove verifichi circostanze che incidono sull’esistenza dell'atto impugnato. " CONTROLLO DEGLI STATUTI REGIONALI La Corte costituzionale è titolare della competenza relativa al controllo sugli Statuti e sulle leggi statutarie delle Regioni ordinarie. Il procedimento di approvazione degli Statuti prevede che, dopo la doppia approvazione da parte del Consiglio regionale, il Governo possa promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte entro trenta giorni dalla pubblicazione. L’unico soggetto legittimato a ricorrere contro le delibere statutarie è il Governo: nessun potere hanno i consiglieri regionali che pure abbiano votato contro l’approvazione dello Statuto. Il compito affidato alla Corte non è dissimile dal controllo sulle leggi effettuato in via principale. Infatti è previsto per i giudizi davanti alla Corte che a tale tipo di giudizio si applichino le previsioni valide per il giudizio in via principale: il ricorso deve contenere l'indicazione delle norme costituzionali violate e la motivazione intorno alle relative ragioni. Per quanto concerne il termine entro cui il Governo può promuovere il ricorso, la Corte ha precisato che la pubblicazione cui fa riferimento l’art. 123 è quella utile a far decorrere il termine per l'eventuale svolgimento del referendum popolare, e non la pubblicazione che, al termine del procedimento, porta all'entrata in vigore della legge statutaria: siamo infatti in presenza di un controllo che si svolge in via preventiva, cioè prima dell’entrata in vigore degli Statuti. La Corte ha precisato che qualora il vizio di illegittimità dello Statuto sopraggiunga solo dopo la scadenza dei termini previsti dall’art. 123, il Governo può utilizzare il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni. In relazione alla formulazione del ricorso e alla progettazione del thema decidendum, sono inammissibili le censure riguardanti le norme programmatiche contenute negli Statuti: esse sono infatti ritenute dalla Corte proposizioni di natura esclusivamente culturale o politica, ma non normativa. In particolare, la Corte ha affermato che “tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle norme programmatiche della Costituzione, alle quali sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e interpretazione delle norme vigenti. Qui però non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali a competenza riservata e specializzata, cioè di statuti di autonomia, i quali devono comunque essere in armonia con i precetti e principi ricavabili dalla Costituzione. Se dunque si accolgono queste premesse sul carattere non prescritto e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo, ne deriva che esse esplicano una funzione di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa. Deve poi ricordarsi che il Governo può dedurre qualsiasi vizio di illegittimità costituzionale, anche se assume particolare rilievo l’armonia con la Costituzione: la Corte ha precisato che tale locuzione comporta, da parte degli Statuti, il puntuale rispetto di ogni disposizione costituzionale. Dunque, con il conflitto tra enti è possibile risolvere le controversie relative alla competenza di determinate funzioni, ad eccezione di quelle legislative, per le quali opera il giudizio in via principale. Quindi qualsiasi atto, statale o regionale, può essere oggetto di conflitto intersoggettivo, ma questi atti sono sindacabili solo in quanto ledano effettivamente la competenza dell'ente ricorrente. Anche per questi conflitti sussiste la stessa distinzione rilevata per i conflitti interorganici: vi sono quindi conflitti da usurpazione, sulla spettanza della competenza, e conflitti da menomazione, in cui controverse sono le modalità d'esercizio delle competenze attribuite. Il parametro nel conflitto tra enti non si rinviene solo nelle norme costituzionali attributive di competenze, ma anche in quelle norme di legge ordinaria che integrano le norme costituzionali, come decreti di attuazione degli statuti speciali o i decreti delegati di trasferimento delle funzioni dello Stato alle Regioni. Dopo la riforma costituzionale non è infrequente l’evocazione, come parametro, il principio di leale collaborazione, che è un principio di rango costituzionale ricavato dalla giurisprudenza che deve presiedere a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e Regioni, e si sostanzia nella necessità di dare luogo a un reciproco coinvolgimento istituzionale tra Stato e Regioni e di coordinare i livelli di governo statale e regionale. È un principio elastico e adattabile alle diverse situazioni di possibile conflitto: ciò lo rende idoneo a regolare in modo dinamico rapporti, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. Deve poi sussistere un interesse attuale e concreto al conflitto: la Corte deve avere l’obiettivo di far venire meno la violazione delle competenze dell'ente ricorrente. I conflitti di attribuzione tra enti devono presentare un “tono costituzionale”: non sono quindi ammissibili conflitti in cui il ricorrente lamenti che l’atto impugnato sia solo il frutto di un'erronea applicazione della legge ma è necessario evocare una violazione della Costituzione. Secondo la Corte, il tono costituzionale sussiste quando le Regioni non lamentino una lesione qualsiasi, ma una lesione delle proprie attribuzioni costituzionali. Quanto agli aspetti processuali, il giudizio va promosso con un ricorso da notificare alla controparte entro il termine di 60 giorni dalla notificazione o pubblicazione o avvenuta conoscenza dell'atto da impugnare. Entro 20 giorni dall'ultima notificazione del ricorso deve essere depositato presso la cancelleria della Corte. Il ricorso deve indicare oggetto e parametro, ossia “l’atto dal quale sarebbe invasa la sfera di competenza, nonché le disposizioni della Costituzione e delle leggi costituzionali che si ritengono violate”. Per quanto riguarda la partecipazione al giudizio di terzi, il principio è lo stesso di cui la Corte si avvale nel conflitto tra poteri dello Stato, quindi possono intervenire soggetti terzi solo nei casi in cui “l'oggetto del conflitto sia tale da coinvolgere, in modo immediato e diretto, situazioni soggettive di terzi”. Analogie con i conflitti interorganici si riscontrano anche per la definizione del giudizio: essa può avvenire con una decisione di inammissibilità, con una dichiarazione di cessazione della materia del contendere, o con una sentenza che dichiari a quale ente spettano le competenze contestate, e che eventualmente annulli l'atto viziato per incompetenza. " GIUDIZI SULLE ACCUSE NEI CONFRONTI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Come abbiamo visto, la Corte costituzionale è titolare di una giurisdizione penale particolare: essa è competente a giudicare dei reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione connessi dal Presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue funzioni successivamente alla messa in stato d'accusa da parte del Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta (art. 90). Non è invece della Corte, e devoluta ai giudici ordinari, la competenza a giudicare i reati ministeriali. Rinviando a quanto detto sia in relazione ai reati presidenziali, sia in relazione al ruolo del Parlamento, va segnalato che quando il Parlamento delibera la messa in stato d’accusa, elegge anche tra i suoi componenti uno o più Commissari per sostenere l’accusa davanti alla Corte con le funzioni di pubblico ministero. Quando è deliberata la messa in stato di accusa, nell’attesa del giudizio, la Corte può sospendere la carica del Presidente della Repubblica. Il processo davanti alla Corte si svolge secondo le norme del codice di procedura penale vigente. La Corte, quando pronuncia la sentenza di condanna determina anche le sanzioni penali nei limiti del massimo di pena previsto per legge. La sentenza della Corte è definitiva, non essendo ammessi mezzi di impugnazione. Tuttavia la condanna può essere sottoposta a revisione se dopo la condanna sopravvengono o si scoprono fatti nuovi o elementi nuovi di prova, che rendano evidente che il fatto non sussiste oppure che il condannato non lo ha commesso. " GIUDIZIO DI AMMISSIBILITÀ DEL REFERENDUM ABROGATIVO (RINVIO) Sempre di competenza della Corte è di giudicare se le richieste di referendum abrogativo siano ammissibili ai sensi dell’art. 75 Cost. Questa competenza, definita da Crisafulli “un dono avvelenato”, a causa anche della copiosa giurisprudenza che ha sviluppato diversi criteri per verificare l’ammissibilità e alla luce della quale molti referendum sono stati bloccati, ha spesso trascinato la Corte nelle dinamiche politiche che poco si adattano al suo ruolo di garante. © 7. LA CORTE COSTITUZIONALE E LE CORTI SOVRANAZIONALI " I RAPPORTI CON LE CORTI SOVRANAZIONALI Un ruolo importante che la Corte è chiamata a svolgere è anche il rapporto con l’Unione europea e il diritto internazionale. La Corte costituzionale deve rapportarsi tanto con la Corte di giustizia dell’Unione europea quanto con la Corte europea dei diritti dell’uomo. Il primato del diritto dell'Unione europea su quello interno ha sottratto al giudice costituzionale, affidandolo al giudice comune, il compito di accertare e risolvere i contrasti tra il diritto nazionale e il diritto dell’Unione europea. Quando infatti il giudice comune ravvisi un contrasto tra una norma di diritto interno e una norma di diritto dell'Unione europea, sarà il giudice stesso a provvedere alla risoluzione del conflitto, tramite la disapplicazione della norma nazionale. Diversamente accade quando la Corte costituzionale sia investita di una questione di legittimità costituzionale: qui sarà la Corte a giudicare della compatibilità tra la legge nazionale, statale o regionale, e le norme del diritto del’Unione europea, eventualmente accedendo all’istituto del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che consiste nel porre all'organo europeo il dubbio relativo alla corretta interpretazione o la validità di una fonte del diritto dell’Unione europea, anche se i ricorsi a questo istituto sono molto rari: accanto ai primi rinvii in via principale, per i primi rinvii in via incidentale si è dovuto attendere fino al 2013, quando per la prima volta la Corte costituzionale ha riconosciuto la propria legittimazione a rivolgersi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea tramite il rinvio pregiudiziale. Di recente, nel 2017, la Corte costituzionale ha investito, nel corso di un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, la Corte di Giustizia dell’Ue di tre quesiti nell’ambito del “caso Taricco”: due dei quesiti erano relativi all’interpretazione di alcune disposizioni di una norma del Trattato sul Funzionamento dell’Ue, e uno all’interpretazione da attribuire ad una sentenza della stessa Corte di Giustizia. Sottolineiamo qui, da un lato il serrato dialogo, confronto e scontro tra le due Corti su uno dei principi fondanti il nostro ordinamento, ossia il principio di legalità; dall’altro, il ruolo dei c.d. “contro-limiti”, la loro applicabilità nei rapporti tra il diritto interno e il diritto e il diritto dell’Ue, e l'individuazione del soggetto istituzionale deputato a disporne l’attivazione. Grande importanza ha poi la giurisprudenza costituzionale che si è sviluppata in relazione ai rapporti tra la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Il rapporto tra le fonti interne e quelle internazionali trova il suo fondamento nelle c.d. “sentenze gemelle” della Corte costituzionale. In quell'occasione la Corte costituzionale aveva stabilito che spetta al giudice comune, di fronte a un possibile contrasto tra una norma nazionale e una norma della CEDU, l'esperimento di un primo tentativo di interpretazione adeguatrice. Solo in caso di esito negativo del tentativo, il giudice comune sarà tenuto a rimettere la questione di legittimità della norma nazionale alla Corte costituzionale, lamentando il mancato rispetto dell'articolo 117 della Costituzione. Nelle sentenze c.d. “gemelle”, la Corte esclude che il giudice comune possa disapplicare la norma nazionale contrastante con quella convenzionale, mantenendo un controllo accentrato sulla conformità del diritto interno al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (=CEDU). La giurisprudenza costituzionale successiva ha mantenuto salda la regola del divieto di disapplicazione e, quindi, di controllo diffuso della convenzionalità del diritto interno da parte del giudice comune, accentuando l'esigenza di assicurare un elevato livello di protezione dei diritti fondamentali dei singoli. Così la Corte chiariva che “il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti”. La giurisprudenza costituzionale in materia di rapporti con la Corte europea dei diritti dell'uomo ha avuto modo di precisare ulteriormente i confini tra le due Corti. In questa circostanza il giudice costituzionale si è soffermato in modo particolare sul tema degli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo e sul ruolo che spetta al giudice comune, stabilendo che sui giudici comunicava l'obbligo di dare esecuzione alla giurisprudenza della Corte europea solo quando questa risulti una giurisprudenza “consolidata”, oppure espressa in una c.d. “sentenza-pilota”, volta ad affrontare problematiche strutturali di un ordinamento. In particolare, ciò è avvenuto in occasione della pronuncia resa sul caso Parrillo c. Italia, in cui la Corte europea doveva decidere un caso relativo alla ricerca sperimentale sugli embrioni umani. La sentenza finale fu accompagnata da un'opinione in cui ben cinque giudici della Grande Camera criticarono la sentenza: si osservò in particolare come con questa pronuncia la Corte avesse resa incerta l'applicazione del diritto poiché il giudice comune non soggiacerebbe ad alcun obbligo di interpretazione conforme né di rimessione della questione di costituzionalità alla Corte costituzionale. Questa ricostruzione dei rapporti tra le due Corti non è sin ora stata smentita dalla giurisprudenza costituzionale successiva. Va infine ricordato che resta aperto il tema delle modalità entro cui dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte europea; tema su cui la Corte costituzionale è intervenuta nel 2011 in materia penale, acconsentendo che l'esecuzione della sentenza di condanna possa passare attraverso l'istituto della riapertura del processo interno, mentre lo ha escluso in campo amministrativo civile. CAPITOLO X © 1. IL PERCORSO VERSO LA TUTELA DEI DIRITTI " DALLO STATO LIBERALE ALLO STATO SOCIALE Vediamo alcune riflessioni in merito al passaggio dalla forma di Stato liberale a quella di Stato democratico sociale, per meglio comprendere la disciplina a cui i diritti costituzionali risultano assoggettati. Sussiste infatti una stretta correlazione fra la forma di Stato di un dato ordinamento, intesa come rapporto tra chi detiene potere e chi vi soggiace, e la disciplina dei diritti di libertà del cittadino. Se, dunque, la forma di Stato esistente in un dato ordinamento e in un determinato periodo storico influenza la disciplina dei diritti di libertà, si comprende la ragione per cui lo studio dei diritti non possa essere decontestualizzato dal processo di cambiamento che ha interessato le forme di Stato nel corso dei secoli. Nell'esperienza dello Stato liberale ottocentesco, i diritti di libertà si affermano come sfere individuali di autonomia, riconosciute al cittadino e garantite nei confronti delle interferenze dei pubblici poteri. La valenza negativa che caratterizza lo Stato ottocentesco (si parla di libertà dallo Stato) poggia sulla nozione di uguaglianza intesa in senso formale, e non sostanziale. Dunque i diritti che lo Stato liberale garantisce, astenendosi da qualsiasi ingerenza nell'esercizio, vengono riconosciuti a tutti cittadini, ma senza che lo Stato si preoccupi di garantirne il godimento effettivo. (DIRITTI RICONOSCIUTI E NON GARANTITI). A seguito della crisi dello Stato liberale, e con l'avvento della forma di Stato sociale, cambia la disciplina dei diritti di libertà: il godimento dei diritti non è più solo una mera astensione da parte dei pubblici poteri, ma essi assumono rilievo anche in positivo, e la loro tutela effettiva richiede necessariamente l'intervento dello Stato. Questa nuova concezione si spiega per l'emersione di una diversa ulteriore declinazione del principio di uguaglianza nell'affermazione dello Stato democratico, quella della cosiddetta eguaglianza sostanziale. © 2. IL FONDAMENTO DEI DIRITTI NELLA COSTITUZIONE ITALIANA " PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA Analizziamo ora quali siano i principi posti a fondamento della Costituzione repubblicana, che informano l'intero ordinamento giuridico italiano. " DIRITTI INVIOLABILI DELL’UOMO Dall’art. 2 Cost. si ricavano tre principi: 1. principio personalista; 2. principio del pluralismo sociale; 3. principio di solidarietà. Il principio personalista trova espressione nelle parole “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Con riferimento a tale principio, tre sono i profili da evidenziare: 1. in primo luogo, occorre interrogarsi sul significato e su che cosa debba intendersi per principio personalista; 2. in secondo luogo, quale sia il significato di diritto inviolabile; 3. in terzo luogo, quali diritti siano qualificabili come inviolabili e se la qualifica di inviolabile possa essere attribuita solo a quei diritti che nella Carta costituzionale rinvengono tale esplicito riconoscimento, ovvero se l'inviolabilità possa estendersi anche ai “nuovi diritti”, vale a dire a quegli interessi che il vivere sociale e il progresso scientifico hanno contribuito a fare emergere, e rispetto ai quali sembra porsi l'esigenza di riconoscimento e di tutela a livello costituzionale. Per quanto attiene al primo aspetto, cosa debba intendersi per principio personalista, può affermarsi che esso è espressione di una concezione che, nel collocare i diritti inviolabili della persona umana al centro, vuole che sia lo Stato autoritario in funzione di questa e non quella in funzione dello Stato. L’art. 2 della Costituzione non si limita, peraltro, a riconoscere la centralità dei diritti della persona umana, ma li definisce e ne riconosce il carattere inviolabile. Per quanto attiene il secondo aspetto, inviolabile significa, innanzitutto, anteriorità dei diritti inviolabili rispetto all'ordinamento giuridico. Ma inviolabilità di tali diritti significa anche riconoscere a questi ultimi una sfera di intangibilità, nonché la loro irrivedibilità sia da parte del legislatore ordinario, sia da parte del legislatore costituzionale. Come ha precisato la Corte costituzionale “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139), quanto i principi che appartengono all'essenza di valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. È questo il caso, infatti, dei diritti inviolabili dell’uomo, a cui si riferisce l’art. 2 Cost. La Corte costituzionale, peraltro, non si è limitata a riconoscere il carattere irrivedibile dei diritti inviolabili dell’uomo, ma è andata oltre, precisando anche i confini di questo limite implicito al potere di revisione costituzionale. Quest'ultimo riguarderebbe esclusivamente il loro contenuto essenziale, non escludendosi interventi volti a incidere sulle loro concrete modalità di esercizio, come la Corte ha precisato affermando che un diritto è inviolabile “nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Il terzo aspetto concerne, infine, il problema dell'individuazione della categoria dei diritti inviolabili dell’uomo. La problematicità della questione sorge in quanto la Costituzione attribuisce espressamente il carattere dell'inviolabilità solo alla libertà personale (art.13), alla libertà di domicilio (art.14), alla libertà e alla segretezza della corrispondenza (art. 15), al diritto di difesa (art. 24), a cui si affianca il generico riferimento a una categoria, dai confini indefiniti, ai sensi dell’art. 2. Di qui, l'emergere di due interpretazioni alternative quanto all'estensione della categoria di diritti inviolabili, confluite nelle due note tesi che qualificano l’art. 2 come norma a “fattispecie chiusa” oppure a “fattispecie aperta”. Nella fattispecie chiusa, i diritti inviolabili sono esclusivamente quelli che la Costituzione contempla come tali in modo espresso, a esclusione di qualsiasi estensione della categoria in questione a diritti, che, al contrario, non vantano un’espressa qualificazione in tal senso. La fattispecie aperta è l’estensione della categoria dei diritti inviolabili anche a tutti i diritti che, pur non trovando espresso riconoscimento in Costituzione, possono comunque beneficiare delle garanzie di intangibilità e irrivedibilità che l’appartenenza alla categoria dei diritti inviolabili assicura. Quindi l’art. 2 sarebbe in questo caso interpretato come fattispecie aperta. La Corte costituzionale si è pronunciata a favore della tesi che considera l’art. 2 una norma aperta. Come esempi di diritti non espressamente riconosciuti in Costituzione ma comunque coperti dall’art. 2 ricordiamo il diritto alla vita, all’identità personale, il diritto sociale all’abitazione, all’onore e alla reputazione, la libertà di coscienza. L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili non solo al singolo, ma anche alle “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, espressione del principio del pluralismo sociale, affiancando agli individui singoli anche organismi collettivi, come le associazioni, i partiti politici, le confessioni religiose, la famiglia. Il principio è stato poi completato con l’aggiunta del principio di sussidiarietà orizzontale: “Stato, Regioni, Città, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. " PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA È il pilastro su cui si fonda l’intero ordinamento costituzionale. L’art. 3 Cost. presenta una struttura complessa, in quanto sancisce il principio di uguaglianza formale, ai sensi del quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (comma 1). È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (comma 2)”. Questo principio mira ad assicurare a tutti un trattamento uniforme, che non può tradursi in discriminazioni. Allo stesso tempo, con il principio di uguaglianza sostanziale, si richiede allo Stato di non disinteressarsi delle disparità e di intervenire per rimuoverle e per garantire a tutti l’effettivo godimento dei diritti. L’art. 3 sintetizza dunque anche la forma di stato a cui si ispira il nostro ordinamento, che si definisce democratico-sociale, ossia fondato sulle libertà e caratterizzato dalla dimensione sociale. " UGUAGLIANZA FORMALE E MANIFESTAZIONI DELLA DISCRIMINAZIONE Il principio di uguaglianza formale si sostanzia nel divieto al legislatore di adottare trattamenti discriminatori tra gli individui. Questo principio impone che venga assicurata “ad ognuno uguaglianza di trattamento, quando uguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme si riferiscono per la loro applicazione”. Quindi il divieto di discriminazione impedisce in modo assoluto al legislatore di trattare nello stesso modo situazioni tra di loro incomparabili. L’art. 3 è da considerarsi violato ogni volta che, senza motivo, il legislatore differenzi il trattamento di persone che si trovino in eguali situazioni. Di qui per il legislatore il divieto di introdurre discriminazioni sia dirette che indirette. Si ha discriminazione diretta ogni volta che una norma escluda espressamente una categoria di soggetti dal godimento di un diritto. Ricordiamo ancora la norma penale che puniva soltanto l’adulterio della moglie, mandando esente il marito dallo stesso comportamento. Più complesso è invece il caso di discriminazione indiretta, che sia ha quando, pure a fronte di un trattamento giuridico neutro, solo una determinata categoria di soggetti si trovi a subire uno svantaggio rispetto alla generalità cui è rivolta la norma. Vediamo per esempio una norma della Provincia autonoma di Trento che poneva come requisito di accesso ai ruoli direttivi dei corpi antincendio il possesso di una altezza minima. La norma è stata dichiarata illegittima perché metteva in svantaggio principalmente le donne, mediamente meno alte rispetto agli uomini. Le nozioni di discriminazione diretta e indiretta sono state ulteriormente precisate dal diritto dell’UE. Il legislatore dell’Ue ha incluso nel novero anche la molestia e l’ordine di discriminare, così come ha fatto propria la nozione di discriminazione multipla, ossia fondata su più fattori di discriminazione che nell’insieme collocano la vittima in una posizione di svantaggio più elevato. " SINGOLI FATTORI DI DISCRIMINAZIONE Vediamo un elenco di fattori di discriminazione espressamente vietati: razza, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni sociali e personali. Per quando riguarda discriminazioni di sesso, l’art. 29 enuncia anche “l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”; l’art. 37, in materia di lavoro, che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti, a parità di lavoro, e le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”; mentre l’art. 51 stabilisce che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Il divieto di discriminazioni sulla base della razza non presenta ulteriori specificazioni nel dettato costituzionale, e opera come divieto assoluto, espressione della rottura con l’esperienza fascista. Il divieto di discriminazioni in base alla lingua va integrato con l’art. 6 Cost. che stabilisce che “la Repubblica tutela le minoranze linguistiche”, così consentendo il pluralismo linguistico presente sul territorio nazionale. Il divieto di discriminazione in base alla confessione religiosa professata deve essere considerato congiuntamente con altre disposizioni che intervengono nella disciplina del fenomeno religioso in tema di uguaglianza tra le confessioni religiose e di libertà di religione. Infine sono vietate discriminazioni sulla base delle opinioni politiche e delle condizioni personali e sociali. Con riferimento alle opinioni politiche vediamo il divieto di privare il cittadino della propria capacità giuridica, del nome, della cittadinanza, della libertà di manifestazione del pensiero, della segretezza del voto e libertà di associazione politica. Per quanto riguarda le condizioni personali, vi rientrano tutte le discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità. Tra le condizioni personali hanno ottenuto riconoscimenti negli ultimi anni le coppie omosessuali, ma rilevante in tema è il divieto della Corte costituzionale di matrimonio di persone dello stesso sesso. " PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA Il principio di ragionevolezza deriva dal principio di uguaglianza formale. Già sappiamo che il principio di uguaglianza è da ritenersi violato quando la legge, senza un ragionevole motivo, tratti diversamente persone che si trovano in situazioni analoghe. Pur dovendosi riconoscere al legislatore ampia discrezionalità circa la disciplina che voglia adottare, ragioni di coerenza gli impongono di operare con scelte ragionevoli, ossia di non escludere da una disciplina fattispecie assimilabili, e di non includervi fattispecie che invece presentino significativi aspetti di differenziazione. Per evitare tale violazione la Corte usa raffrontare la fattispecie che sta esaminando a un’altra disciplina come termine di paragone, il tertium comparationis. Per svolgere questo raffronto è necessario individuare la ratio da cui si deducono le finalità che il legislatore vuole perseguire. Ma il principio di ragionevolezza non è solo il divieto per il legislatore di differenziare la disciplina di due fattispecie diverse o di assimilare situazioni diverse, ma richiede anche che i mezzi approntati dal legislatore per conseguire uno scopo siano idonei al suo raggiungimento. " PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA SOSTANZIALE Questo principio costituisce l’innovazione della Costituzione del 1948. È un obbligo rivolto alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano il godimento degli stessi da parte di tutti i cittadini. L’eguaglianza sostanziale completa quindi quella formale, consentendo interventi legislativi in favore delle categorie più svantaggiate. L’obiettivo è realizzare un'effettiva parità di trattamento. In questa prospettiva, uno strumento che il legislatore impiega sono le azioni positive, definite dalla Corte costituzionale “il più potente strumento a disposizione del legislatore che, nel rispetto della libertà e dell'autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate, per assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico”. Si tratta quindi di interventi normativi che operano come strumenti ad altri. È il caso del portalettere che, consegnando la cartolina, ne apprende, anche involontariamente, il contenuto. La segretezza delle comunicazioni non si estende solo nei confronti dei privati cittadini, ma vale anche nei confronti dei pubblici poteri, ai quali è precluso di carpire i contenuti delle comunicazione che si svolgono tra privati cittadini. Ben evidente era questo tema ai Costituenti, in considerazione dei tanti soprusi che si erano verificati durante il periodo fascista. Il dibattito pubblico da anni si sofferma sulle problematiche legate alla diffusione delle intercettazioni telefoniche captate durante le indagini penali. Si tratta di un tema molto delicato, perché entrano in gioco interessi diversi: da una parte la tutela della segretezza delle comunicazioni private; dall'altra l'interesse alla conoscenza di notizie riguardanti personalità pubbliche. Uno dei problemi che pone l’art. 15 concerne la possibilità del destinatario di divulgare a terzi il contenuto della comunicazione a lui indirizzata. La dottrina sul punto è divisa: 1. tesi sostiene che la norma impone ai destinatari la segretezza delle comunicazioni ricevute; 2. diverso orientamento ritiene che il destinatario sia libero di gestire la comunicazione ricevuta, perché nei suoi confronti non sembra predicarsi il rispetto della riservatezza. Il tema oggi è molto delicato considerando la facilità con cui, grazie i nuovi mezzi tecnologici, è possibile rendere pubblico con immediatezza un messaggio che nasce come privato. In ogni caso, se il destinatario rende pubblico un messaggio privato, non è da escludere che egli possa essere considerato responsabile in proprio delle eventuali conseguenze pregiudizievoli causate a terzi. La libertà garantita dall’art. 15 presenta una struttura analoga a quella della libertà personale e della libertà di domicilio quanto a riserva di legge e riserva di giurisdizione. La norma, infatti, afferma che limitazioni alla libertà in esame sono legittime solo se disposte a seguito di “atto motivato dell'autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”. Anzi può ritenersi che sia riservata a tale libertà una garanzia ancora più forte, perché non sono previste eccezioni che consentano l'adozione di provvedimenti provvisori. Notiamo che il Costituente ha tenuto presente anche il valore della riservatezza, pur senza aver canonizzato in un preciso precetto normativo il diritto alla privacy: diversamente l’art. 8 della CEDU afferma che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”, così tutelando il domicilio e la corrispondenza come conseguenza della tutela prioritaria del diritto alla vita privata e familiare. Il codice penale, oltre al già citato reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza (art. 616), punisce infatti le interferenze illecite nella vita privata, intese come acquisizione e diffusione di notizie o immagini attinenti alla vita privata, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva e sonora nell’abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora o nelle appartenenze di essi. " LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE, SOGGIORNO, ESPATRIO ED EMIGRAZIONE Secondo l’art. 16 Cost. “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”. Queste libertà consistono nella possibilità di muoversi liberamente all'interno del territorio nazionale (libertà di circolazione) e di stabilire altrettanto liberamente la residenza, la dimora o il domicilio (libertà di soggiorno). Gli strumenti di tutela divergono nelle due ipotesi: la libertà di circolazione e soggiorno non è infatti assistita dalla riserva di giurisdizione, anche se è garantita dalla riserva di legge rinforzata per contenuto che consente la limitazione solo “in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Per quanto attiene ai motivi di sanità possono evocarsi qui i cosiddetti cordoni sanitari: quei provvedimenti che mirano ad impedire o a prevenire un pericolo di contagio o propagazione di malattie infettive. Non possono, inoltre, porsi limiti di circolazione e soggiorno determinati da ragioni politiche, come avvenne invece nel regime fascista con i provvedimenti di confino. Il comma 2 dell’art. 16 riconosce il diritto del cittadino di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi (libertà di espatrio), e trova ulteriore svolgimento nell’art. 35 che tutela la libertà di emigrazione, consistente nell’espatrio per ragioni economiche e lavorative, con stabilimento in uno Stato estero. Nel primo caso, però, la garanzia rispetto ad eventuali limitazioni è costituitasi solo dalla riserva di legge: “salvo gli obblighi di legge”; mentre nel secondo caso torna la riserva rinforzata di legge: “salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale”. " LIBERTÀ DI RELIGIONE Secondo l’art. 19 Cost., “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato e in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. La libertà di religione consiste non solo nel diritto di credere, ma anche di non credere affatto. La libertà si compone di tre diverse facoltà: 1. professare una fede; 2. farne propaganda; 3. esercitarne il culto. La libertà di religione è riconosciuta tanto nella sua dimensione individuale quanto in quella collettiva; l'unico limite è che i suoi riti di culto non siano contrari al buon costume. La libertà è ulteriormente rafforzata dal divieto, rivolto al legislatore, di introdurre limitazioni fiscali in ragione del “carattere ecclesiastico” e del “fine religioso o di culto” di un’associazione, che dà concretezza al più generale diritto riconosciuto a tutte le confessioni religiose di essere “ugualmente libere davanti alla legge”. Restano invece differenti gli strumenti che regolano i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose: i rapporti con quella cattolica sono, infatti, regolati sulla base del principio concordatario (art. 7), mentre i rapporti con le altre confessioni sono regolati sulla base di intese con le relative rappresentanze (art. 8). Ricordiamo che i rapporti tra lo Stato e la religione si sono profondamente evoluti nel passaggio dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana: se lo Statuto recitava che “la religione cattolica è la sola religione dello Stato. Gli altri culti sono tollerati conformemente alle leggi”, la Costituzione repubblicana si ispira, invece, all'opposto principio di laicità. " PRINCIPIO DI LAICITÀ Il principio di laicità è ricavabile da una lettura combinata di più disposizioni costituzionali. La Corte costituzionale ha affermato che gli artt. 2, 3 e 19 Cost. “concorrono con altri a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato”, che, come ha sottolineato il giudice costituzionale “implica la non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma la garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. Nell’art. 19 si rinviene invece il fondamento della libertà di coscienza, intesa come libertà del singolo di formarsi le proprie convinzioni e di determinarsi conformemente ad esse. Le convinzioni possono essere di varia natura, dunque, non necessariamente religiose, ma anche etiche, ideologiche, filosofiche. La libertà di coscienza manca, dunque, di un esplicito riconoscimento nella Carta costituzionale: è stata la Corte a ricavare il diritto alla libertà di coscienza in via interpretativa: “la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili, dal momento che non può darsi una piena garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione di quella relazione intima e privilegiata dell'uomo con sé stesso”. A tutela della libertà di coscienza, il legislatore ha previsto che il singolo possa osservare il proprio “imperativo morale” in luogo di obblighi giuridicamente imposti. Si parla di diritto all'obiezione di coscienza. Per esempio, in tema di interruzione volontaria di gravidanza, in materia di fecondazione medicalmente assistita, è consentito al personale sanitario di non prendere parte ai relativi trattamenti sanitari, quando gli stessi si pongano in contrasto con le proprie convinzioni morali. " LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO La libertà di manifestazione del pensiero è riconosciuta e tutelata all’art. 21 Cost., il quale riconosce a tutti la titolarità del diritto di manifestazione del pensiero. Non solo i cittadini godono di tale diritto, ma anche gli stranieri. Il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” è stato definito dalla Corte costituzionale come la “pietra angolare dell'ordine democratico”. Per quanto riguarda l'oggetto della libertà in esame, l'indeterminatezza dei destinatari costituisce l'elemento di differenziazione rispetto alla libertà di corrispondenza e di comunicazione (art. 15). Di conseguenza, la norma tutela espressamente la possibilità di far conoscere a chiunque la propria idea su un qualsivoglia argomento. L’art. 21 offre tutela ad ogni forma di manifestazione del pensiero, qualunque ne sia il contenuto, salvo il limite del buon costume: l'articolo comprende “la libertà di dare e divulgare notizie, opinioni, commenti”. Si accenna come il buon costume sia l'unico limite espressamente contemplato dall’art. 21: “sono vietate le pubblicazioni, la stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. Per buon costume si intende certamente la sfera attinente al pudore sessuale, aspetto che però si presta a evolvere nel tempo, congiuntamente alle trasformazioni dei costumi della società. In altre parole, per la Corte costituzionale, il buon costume può identificarsi con “le condizioni essenziali che siano indispensabili per assicurare una convivenza sociale conforme ai principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco tra le persone”. Così, per esempio, la diffusione di supporti video pornografici sarà contrari al buon costume solo se offerta ai minorenni, e non se offerta, con le dovute cautele, a maggiorenni consapevoli: la lesione del buon costume “non può certo riscontrarsi nell'ipotesi in cui l'accesso alle immagini o rappresentazioni pornografiche non sia indiscriminatamente aperto al pubblico, ma sia riservato solo alle persone adulte che ne facciano richiesta”. L’art. 21 descrive anche il regime di quel particolare mezzo di diffusione del pensiero che è la stampa. Questa scelta è stata effettuata dai Costituenti per la ragione pratica che, al tempo in cui la Costituzione veniva approvata, la stampa rappresentava il più importante mezzo di diffusione del pensiero, oggi superato dalla televisione e da Internet. La stampa secondo l’art. 21 non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure, che sono tipiche limitazioni poste dei regimi totalitari. Invece è consentito il sequestro, ma solo a seguito di un atto motivato dell'autorità giudiziaria e nel caso di delitti previsti dalla legge sulla stampa, ovvero nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. Proprio come per l’art. 13, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, è consentito il sequestro della stampa periodica a opera di ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente farne denuncia all’autorità giudiziaria, perché questa provveda al giudizio di convalida del provvedimento entro le ventiquattro ore successive. Le garanzie costituzionali poste dall’art. 21 valgono anche nei confronti di “ogni altro mezzo di diffusione” diverso dalla parola e dallo scritto: dunque tanto internet quando il sistema radiotelevisivo. L’affermazione che la manifestazione del pensiero sia un pilastro del sistema democratico dovrebbe anche essere accompagnata dalla consapevolezza da un lato, che il controllo del sistema radiotelevisivo equivale al controllo dell’informazione, dall’altro dalla necessità di una disciplina legislativa idonea a garantire il pluralismo dei mezzi (pluralismo esterno) e il pluralismo delle opinioni interne a ciascun mezzo (pluralismo interno). Il pluralismo dei mezzi comporta ad esempio che non sia possibile che una sola persona detenga la titolarità della maggior parte dei mezzi di diffusione del pensiero: è interesse costituzionale che, soprattutto quando i mezzi sono limitati per ragioni tecnologiche, essi siano nella disponibilità di più soggetti. Come già accennato dall’art. 21 Cost. sia tutelato il diritto all’informazione, tanto nella sua dimensione passiva di diritto quanto a essere informati in modo obiettivo e imparziale, quanto nella sua dimensione attiva di diritto di informare in modo obiettivo e imparziale. © 4. I DIRITTI AD ESERCIZIO COLLETTIVO " LIBERTÀ DI RIUNIONE La Costituzione riconosce e tutela anche le libertà collettive, quei diritti di libertà il cui godimento comporta necessariamente l’esercizio congiunto del diritto da parte di una pluralità di individui. Rientrano in questa categoria la libertà di riunione e la libertà di associazione, cui si affiancano la libertà di associazione sindacale e di associazione politica. L’art. 17 Cost. tutela la libertà di riunione: “i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senza armi”. Un primo aspetto importante attiene alla nozione di riunione: con questo termine la Costituzione si riferisce a tutti quei fenomeni di incontro volontario di più soggetti, nel medesimo luogo, per il perseguimento di uno scopo comune. Dalla nozione di riunione va tenuto distinto il fenomeno dell’assembramento, cioè l'occasionale ritrovo di più persone nel medesimo luogo. L’art. 17 pone due condizioni all'esercizio del diritto: la riunione deve essere pacifica e senza armi, si tutela così la sicurezza e l'incolumità delle persone. Per quanto riguarda la nozione di arma, comprende non solo le armi proprie, cioè gli strumenti usualmente adoperati per offendere (pistola, fucile, spada), ma anche le armi costituzionale il meccanismo della doppia preferenza di genere, dal momento che esso non lede né il diritto di voto né il diritto di elettorato passivo. " LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE POLITICA Ai sensi dell’art. 49, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale”, affermando la libertà di associazione politica. I partiti costituiscono, quindi, lo strumento di raccordo tra le istituzioni e i cittadini. Dopo l'esperienza fascista che aveva eliminato ogni forma di opposizione con la violenza, i Costituenti vollero disegnare una norma che presupponesse il pluralismo dei partiti, così da assicurare la competizione fra formazioni politiche. Benché ormai in crisi dagli anni 80 del secolo scorso a causa di una perdita di fiducia dei cittadini e della personalizzazione del partito stesso, la Costituzione richiede, in ogni caso, che vi siano degli enti intermedi tra le istituzioni e il popolo sovrano che concorrano alla determinazione della politica nazionale (selezione dei candidati alle elezioni, per esempio), con metodo democratico. Esso esclude l'uso di modalità violente e poco trasparenti nella competizione tra partiti, ma è dubbio se esso possa essere imposto, come obbligo, all'interno dei partiti che rimangono pur sempre associazioni private, pur esercitando funzioni di natura pubblicistica. L’art. 98, infine, prevede che la legge limiti la libertà di associazione politica per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e gli agenti di polizia e i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. © 6. I DIRITTI SOCIALI " DIRITTO AL LAVORO La Costituzione riserva gli articoli dal 35 al 47 ai rapporti economici, tratteggiando i principi e le regole costituzionali che disciplinano il settore economico. Analizziamo ora: a. il diritto di associazione sindacale (art. 39); b. il diritto allo sciopero (art. 40); c. la libertà di iniziativa economica privata (art. 41); d. il diritto di proprietà (art. 42) In Assemblea si volle enfatizzare l'importanza del lavoro: “l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Senso di questa disposizione si chiarisce alla luce di quanto affermato da uno dei membri della Costituente: con questa riforma si esclude infatti che la nostra Repubblica “possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale”. L’art. 4 riconosce a tutti cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. È una norma d'indirizzo che impegna lo Stato a promuovere misure per ampliare la possibilità di accesso al lavoro, nella consapevolezza che ogni forma di lavoro contribuisce allo sviluppo della società. Il Costituente si è impegnato a garantire condizioni dignitose al lavoratore, e ha dedicato molta attenzione al rispetto del principio di uguaglianza dei sessi e alla tutela del lavoro minorile. Inoltre, la Costituzione si occupa anche di coloro che, per varie situazioni, non possono prestare attività lavorativa. Per quanto riguarda la posizione del lavoratore, l’art. 36 afferma la necessità di retribuzioni proporzionate alla quantità e qualità delle lavoro prestato, e pretende che esso sia sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa. Sempre l’art. 36 stabilisce il diritta al riposo settimanale e alle ferie, nonché impone che la durata massima della giornata lavorativa sia stabilita dalla legge. Per quanto riguarda l'uguaglianza tra i sessi, l’art. 37 sancisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. A tutela del diritto del lavoro la Costituzione prevede poi due ulteriori strumenti: la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero. Secondo l’art. 39 “l'organizzazione sindacale è libera”. I sindacati sono associazioni spontanee di categoria di lavoratori che consentono al lavoratore di contrattare migliori condizioni di lavoro con il proprio datore, così compensando, attraverso l’unione, la propria condizione di contraente debole. Strettamente legato all'associazionismo sindacale è il diritto di sciopero, “che si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano” (art. 40). Esso costituisce l'arma più efficace delle associazioni sindacali per raggiungere i propri fini. Lo sciopero è un'astensione collettiva dal lavoro, attraverso la quale i lavoratori organizzati esercitano pressioni sul datore di lavoro per ottenere migliori condizioni contrattuali. Nel dare piena attuazione del diritto un ruolo centrale è stato svolto dalla Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale le disposizioni di matrice fascista che limitavano lo sciopero. " DIRITTO ALLA SALUTE E ISTRUZIONE Fra i diritti sociali principali, il diritto alla salute, proclamato all’art. 32, rappresenta sia un fondamentale diritto dell'individuo sia un interesse collettivo, che spetta a ciascun individuo, anche agli stranieri soggiornanti in Italia, indipendentemente dalla regolarità della loro posizione giuridica. Tale diritto si concretizza nella pretesa alla propria integrità psico-fisica, da cui discende il diritto al risarcimento del cosiddetto danno biologico, inteso come danno al bene salute. Inoltre, il diritto alla salute si declina, dal lato attivo, nel diritto a essere curato presso le strutture pubbliche, a seguito di decisioni consapevoli, prese dopo aver ricevuto dal personale sanitario tutte le informazioni circa le modalità di cura e i possibili effetti dei trattamenti. Si parla del cosiddetto consenso informato. Il diritto alle cure e all'assistenza sanitaria è garantito dal Servizio Sanitario Nazionale, una struttura organizzata volta ad assicurare le cure a chiunque ne abbia bisogno e cure gratuite agli indigenti, il cui concetto relativo ha portato il legislatore, nel 1978, a estendere la sostanziale gratuità della cura a tutte le persone. Secondo importanti decisioni della Corte Costituzionale, salvi quegli interventi che costituiscono il nucleo irriducibile del diritto alla salute, la garanzia del diritto stesso può essere condizionata alla disponibilità finanziaria dello Stato. Il diritto di salute si declina, poi, dal lato passivo, nel diritto a non essere curato, diritto che spesso, negli ultimi anni, è entrato in conflitto con altri interessi costituzionalmente rilevanti, come quelli del personale sanitario, nella vicenda di Piergiorgio Welby, di non adottare condotte certamente suscettibili di determinare l'evento morte, anche solo anticipandone il momento rispetto a quello del naturale decorso della patologia. A partire dalla vicenda di Eluana Englaro, si è auspicata per molti anni l'introduzione del testamento biologico, attraverso il quale permettere a ciascuna persona di esprimere anticipatamente il proprio assenso o rifiuto a determinati trattamenti medici, con riferimento all'eventualità in cui non sia più nelle condizioni di esprimerlo. Infine, la vicenda di Fabiano Antoniani ha portato alla legge n. 219 del 2017, in cui si afferma che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. Si ammette, inoltre, l'ipotesi del rifiuto e della revoca del consenso precedentemente prestato e si afferma esplicitamente che anche la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale devono considerarsi a tutti gli effetti trattamenti sanitari, oggetto di rifiuto o revoca da parte del paziente. La legge prevede anche il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e sancisce l'obbligo per i medici di assicurare condizioni dignitose nella fase finale della vita, anche grazie al ricorso alla sedazione palliativa. Il diritto di salute, nel suo profilo collettivo, è finalizzato a tutelare la collettività. Con il decreto legge n. 73 del 2017, lo Stato ha esteso il novero delle vaccinazioni obbligatorie, affermando anche che l'ammissione ai servizi educativi per l'infanzia e alle scuole dell'infanzia deve essere subordinata all'esibizione di una documentazione attestante l'avvenuta vaccinazione o la richiesta di vaccinazione. La Corte ha riconosciuto che quella della vaccinazione è una problematica che vede coinvolti sia la libertà di autodeterminazione nelle scelte circa le cure sanitarie sia la tutela della salute individuale e collettiva, motivo per il quale la Corte, pur considerando legittima la scelta dello Stato, ha rimesso al legislatore il compito di contemperare queste esigenze talvolta opposte. Lo Stato ha, inoltre, previsto un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da rare ed eventuali complicanze derivanti dalla somministrazione di vaccini obbligatori, sulla base del principio di solidarietà. Il diritto all'ambiente salubre esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive e agisce, necessaria sia alla collettività sia, per essa, ai cittadini. L’art. 34 riconosce il diritto all'istruzione, affermando il principio della libertà di accesso al sistema scolastico da riconoscere a tutti. Inoltre, esso sancisce anche il principio dell'obbligatorietà e il principio della gratuità dell'istruzione inferiore, che la Repubblica si impegna a garantire per almeno otto anni. Se a tutti è riconosciuto il diritto di conseguire almeno la scolarizzazione di base, funzionale al raggiungimento delle condizioni necessarie anche all'esercizio dei diritti politici, il diritto di raggiungere i gradi più alti dello studio è riconosciuto ai capaci e ai meritevoli, anche se privi di mezzi: è, infatti, imposto alla Repubblica di erogare borse di studio, assegni alle famiglie e alle provvidenze, da attribuire per concorso, per rendere effettivo questo diritto o incostituzionale le disposizioni di matrice fascista che vietavano lo sciopero. © 7. I DIRITTI ATTINENTI ALLA SFERA ECONOMICA " PROPRIETÀ E LIBERTÀ DI INIZIATIVA ECONOMICA POLITICA Con la disciplina costituzionale della proprietà privata e dell’iniziativa economica privata, le due anime dell’Assemblea costituente, quella liberale e quella socialista raggiungono un compromesso con lo Stato di diritto sociale. Infatti, le norme secondo cui “la proprietà pubblica o privata”, “i beni appartengono allo Stato, enti o a privati”, e “l'iniziativa economica privata è libera” segnalano la collocazione dello Stato italiano nella categoria di Stato di diritto liberale. La proprietà e l'iniziativa economica sono dunque disegnate dalla Costituzione secondo una dimensione solidaristica, che si traduce, attraverso la mediazione della legge, anche in limitazioni alla libertà di iniziativa economica e alla proprietà. Ciò non toglie, tuttavia, che in talune ipotesi la funzione sociale possa essere realizzata anche dalla proprietà privata. La più incisiva delle limitazioni al diritto di proprietà è costituita dall'espropriazione per pubblica utilità: “la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. L’espropriazione per pubblica utilità costituisce un evidente caso di bilanciamento tra l'interesse generale e quello individuale: la prevalenza è accordata all'interesse generale ma vengono apprestate idonee garanzie in favore del secondo: la riserva di legge rinforzata per contenuto che consente l'espropriazione solo per soddisfare motivi di interesse generale e un giusto indennizzo a compensazione del bene espropriato. © 8. I DOVERI " DOVERI COSTITUZIONALI Il diritto di assistenza sociale, all’art. 38, assicura a chi ne è sprovvisto o a chi non può lavorare i mezzi adeguati alle esigenze di vita, nonché le misure previdenziali a chi, già lavoratore, non è più in grado di lavorare. È, questo, il caso del sistema pensionistico e assistenziale, finanziato anche da contributi pubblici. Sulla base del principio solidaristico, da situazioni giuridiche di vantaggio discendono corrispondenti doveri costituzionali, il cui adempimento è necessariamente richiesto da uno Stato sociale di diritto come il nostro a tutti coloro che vivono e lavorano sul territorio nazionale: il mancato adempimento di tali doveri, infatti, determinerebbe l'impossibilità dello Stato di realizzare il principio di eguaglianza sostanziale tra cittadini. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 4, ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività che concorra al progresso materiale o spirituale della società. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio (art. 30). Ai sensi dell’art. 48, il diritto di voto è anche un dovere civico. Esso è, quindi, un dovere non assistito da una sanzione giuridica ma sociale, affidando, quindi, alla coscienza civica degli elettori la sua effettività. L’art. 52 afferma che la difesa della Patria è un sacro dovere del cittadino. Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi e quei cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge (art. 54). Ai sensi dell’art. 53, tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
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