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Dispensa diritto processuale civile - Luiso - vol II - Il processo di cognizione, Sintesi del corso di Diritto Processuale Civile

Dispensa di diritto processuale civile VOL II, interamente sostitutiva del libro di testo, comprende tutti i capitoli (EDIZIONE 7°)

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

In vendita dal 17/10/2014

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Scarica Dispensa diritto processuale civile - Luiso - vol II - Il processo di cognizione e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1 1. IL PROCESSO DI COGNIZIONE DI PRIMO GRADO Il processo di cognizione è lo strumento che impartisce la tutela dichiarativa. Il modello ordinario del processo di cognizione si affianca a riti speciali, quali il rito del lavoro ed il rito delle locazioni. Il rito ordinario si applica per tutte le controversie, per le quali non sia previsto un rito speciale. È necessario fare un primo chiarimento terminologico. Per “cognizione” si intende l’attività del giudice volta a conoscere gli elementi determinanti per la situazione sostanziale oggetto del processo. Questa attività, ovviamente, è svolta in tutti i tipi di processo. Sarebbe meglio, dunque, parlare sempre di tutela dichiarativa, perchè il processo di cognizione si caratterizza e differenzia rispetto agli altri perchè dichiara in modo autoritativo quali sono i comportamenti che le parti dovranno tenere in futuro. La disciplina del processo di cognizione è contenuta essenzialmente nel secondo libro del c.p.c., ma vi sono norme rilevanti anche nel c.c. ( soprattutto in materia di prova). Il processo di primo grado si può dividere in 3 momenti logici: 1. Introduzione. È costituita da quegli atti che servono ad individuare l’oggetto del processo e, di conseguenza, la tutela richiesta; 2. Trattazione. Ha la funzione di acquisire tutt gli elementi necessari al giudice affinchè pronunci la sentenza. 3. Fase decisoria. È la fase in cui l’organo giurisdizionale emette il provvedimento con il quale dà o nega la tutela richiesta, determinando, come detto, quali regole di condotta dovranno da quel momento essere rispettate dalle parti. 2. LA CITAZIONE L’atto introduttivo del processo di cognizione ordinario è costituito dalla citazione, la quale si distingue dal ricorso ( che è l’atto introduttivo per i processi speciali). La differenza fondamentale tra citazione e ricorso è la seguente: la citazione viene prima notificata alla controparte e poi depositata nella cancelleria del giudice, mentre il ricorso è prima depositato presso la cancelleria del giudice e poi notificato alla controparte. La citazione ha una duplice funzione: 1. Individua l’oggetto del processo ( c.d. “editio actionis”). Da questo punto di vista la citazione è uno dei contenenti della domanda giudiziale ( l’altro è il ricorso). 2. Porta a consocenza della domanda giudiziale altri due soggetti: il convenuto e il giudice ( c.d. “vocatio in ius”). Infatti, il processo è un actus trium personarum, pertanto la presenza di questi tre soggetti ( attore, convenuto e giudice) è indispensabile. La citazione è disciplinata dagli artt. 163-163-bis c.p.c., i quali stabiliscono gli elementi che devono essere contenuti in tale atto.  Indicazione del giudice al quale la domanda è rivolta; 2  Indicazione delle parti;  Indicazione della cosa oggetto della domanda ( “petitum”). Con il termine petitum si intendono due cose diverse: o Petitum immediato: è il provvedimento che si richiede al giudice; o Petitum mediato: è la situazione sostanziale dedotta in giudizio.  Esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda ( “causa petendi”). ATTENZIONE: la causa petendi sarà necessaria solamente nel caso di diritto eteroindividuati, i quali sono individuati anche attraverso la fattispecie costitutiva, la quale, invece, è irrilevante per i diritti autoindividuati (individuati attraverso soggetto, bene e tipo di utilità garantita dall’ordinamento). Quindi, la mancanza di causa petendi porta alla nullità dell’atto introduttivo nel caso di diritti eteroindividuati, ma non nel caso di diritti autoindividuati. La mancanza di causa petendi nei diritti autoindividuati fa si che il giudice dica “ ho individuato l’oggetto del processo ma nego la tutela richiesta perchè non è stat dimostrato che il diritto esista”; invece, nei diritti eteroindividuati il giudice dice “ non ho individuato l’oggetto del processo, quindi non posso decidere se il diritto esista o meno; non scendo nemmeno nel merito ed emetto un sentenza di rito”.  Conclusioni. Le conclusioni sono la richiesta che le parti fanno al giudice di emanare un provvedimento con un certo contenuto. Esse sono importanti perchè pongono la base per l’applicazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.  Mezzi di prova. È un elemento meramente facoltativo: la parte, all’interno della citazione, può indicare preventivamente i mezzi di prova dei quali intende avvalersi.  Procura. Poichè davanti al tribunale è sempre necessaria l’assistenza di un legale, l’atto introduttivo deve contenere il mandato.  Udienza di comparizione. È l’attore stesso che individua il giorno di udienza, sulla base dei termini stabiliti dalla legge: 90 giorni se la citazione deve essere notificata in Italia, 150 giorni se deve essere notificata all’estero; il mancato rispetto di tali termini determina la nullità dell’atto introduttivo. Una volta completata, la citazione è sottoscritta dall’avvocato dell’attore ed è notificata al o ai convenuti. 3. LA NULLITA’ E LA SANATORIA DELLA CITAZIONE La nullità della citazione ( art. 164 c.p.c.) ha una disciplina diversa a secoda che i vizi attengano alla vocatio in ius o alla editio actionis. A. VIZI DELLA VOCATIO IN IUS. La nullità della citazione consegue alla omissione o assoluta incertezza di:  Giudice adito;  Parti del processo;  Data di udienza;  Assegnazione di un termine a comparire inferiore al legale. 5  Vizi dei presupposti processuali rilevabili anche d’ufficio;  Eccezioni in senso lato;  Mezzi di prova;  Conclusioni. 5. LA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO Dopo la notificazione della citazione, ambedue le parti debbono costituirsi in giudizio. “Costituirsi in giudizio” significa presentarsi al giudice. Vi sono dei termini per la costituzione:  Attore: 10 giorni dalla notificazione dell’atto introduttivo;  Convenuto: 20 giorni prima dell’udienza di comparizione. Se una delle parti si costituisce nei termini, l’altra parte può costituirsi all’udienza. Se, invece, nessuna delle parti si costituisce, il giudice non sa niente della causa: il processo entra in uno stato di quiescenza. Entro 3 mesi ciascuna delle parti può riassumere la causa, ossia porre in essere un atto di impulso processuale ( atto di riassunzione). Se entro 3 mesi la causa non viene riassunta, allora il processo si estingue definitivamente. Se una parte si costituisce in giudizio e l’altra no, quella parte è contumace e ad essa si applicano regole speciali. Se, invece, una parte è costituita ma non si presenta all’udienza, allora è assente e, ovviamente, ad essa non si applicano le regole del contumace. Analizziamo, ora il procedimento dalla parte del giudice. Normalmente la segretaria dell’avvocato dell’attore mette sul tavolo del cancelliere la citazione. Il cancelliere, a questo punto, iscrive la causa a ruolo e porta tutto il materiale al presidente del Tribunale, il quale deve designare il giudice istruttore. A questo punto occorre precisare che non sempre il giudice che pronuncia le sentenza è un giudice monocratico; infatti, nel corso del processo agiscono vari soggetti: la fase introduttiva è svolta dalle parti ( citazione e comparsa di risposta), la trattazione è svolta sempre dal giudice istruttore, la fase decisoria può essere svolta o dal giudice istruttore in qualità di giudice monocratico, ovvero da un collegio di tre giudici ( di cui uno è il giudice istruttore). È da notare che le ipotesi nelle quali è richiesto il collegio sono elencate dal legislatore senza una precisa ratio. In particolare sono decise dal collegio: a. cause nelle quali è obigatorio l’intervento del p.m. ex art. 70 c.p.c.; b. giudizi di opposizione, impugnazione, revocazione e di dichiarazione tardiva dei crediti nelle procedure concorsuali; c. cause che sono attribuite alle sezioni specializzate ( sezioni specializzate agrarie); d. giudizi di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo; e. impugnazioni delle deliberazioni dell’assemblea e del cda; f. impugnazione dei testamenti; g. responsabilità civile dei magistrati; h. azione collettiva risarcitoria ex codice del consumo. 6 Se si incorre in errore delle cause che devono essere decise dal collegio e di quelle che devono essere decise dal gudice istruttore, interviene l’art. 281 c.p.c., il quale prevede che il giudice ( o il collegio) debba emettere un provvedimento non impugnabile e rimettere la causa al giudizio del collegio ( o del giudice). La nomina del giudice istruttore avviene con provvedimento del presidente del tribunale; il giudice così nominato non può essere sostituito se non in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio. 6. LA PRIMA UDIENZA Come detto in precedenza, la funzione ineliminabile della citazione è quella di contenere la domanda giudiziale. Con la comparsa di risposta il convenuto può a sua volta ampliare il processo oggettivamente o soggettivamente ( attraverso la domanda riconvenzionale e/o la chiamata in causa del terzo). Resta, ora, da capire se e fino a che momento sia possibile per le parti modificare il contenuto della citazione e della comparsa di risposta in modo da incidere sull’oggetto del processo. A tal proposito, è fondamentale porre l’attenzione sull’art. 183 c.p.c., il quale reintroduce nel nostro ordinamento il principio di preclusione. In base al principio di preclusione il processo è caratterizzato dalla divisone della fase di trattazione della causa in un primo momento dedicato all’allegazione dei fatti e in un secondo momento dedicato alla prova dei fatti allegati contestati dalla controparte; il processo, una volta giunto allo stadio successivo, non può regredire allo stadio anteriore. Il principio di preclusione è stato introdotto nel rito ordinario nel 1990, mentre era già stato previsto nel rito del lavoro a partire dal 1973. Tale principio risponde alla ratio di fissare fin dall’inizio del processo le questioni controverse, evitando la diluizione della fase di trattazione in una serie di udienze, in ciascuna delle quali sarebbe possibile arricchire il processo di ulteriori elementi. Il principio di preclusione si struttura, poi, in vari modelli più o meno elastici. Il modello più rigido si ha nel processo del lavoro, nel quale le allegazioni e le istruttorie devono essere effettuate contemporaneamente. Nel rito ordinario, invece, non si applica la versione rigida del processo del lavoro: infatti, nel rito ordinario la fase di allegazione dei fatti controversi è separata da quella dedicata all’acquisizione delle istanze istruttorie; inoltre, nella prima udienza di trattazione sono possibili acquisizioni ulteriori rispetto al contenuto degli atti introduttivi. In particolare, tali ulteriori acquisizioni sono divisibili in base a due diversi presupposti: a. Nuove acquisizioni che discendono dall’attuazione del contraddittorio e, cioè, costituiscono la replica all’esercizio di poteri processuali altrui. Questo primo gruppo di poteri è disciplinato dal quinto comma dell’art. 183, il quale, però, molto sinteticamente, parla solo dei poteri dell’attore. In paticolare, prevede che nella prima udienza:  L’attore possa proporre una domanda di accertamento incidentale, allorchè il convenuto abbia contestato l’esistenza del diritto pregiudiziale.  L’attore possa chiamare in causa il terzo, indicato dal convenuto come il vero titolare del diritto o dell’obbligo dedotti in giudizio;  L’attore possa, di fronte ad una nuova domanda del convenuto, allegare fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto introdotto in tal modo in giudizio. È bene, poi, fare due precisazioni: 7 1. Tale elencazione non è tassativa, in quanto l’attore può, più in generale, anche compiere ulteriori allegazioni di fatti, quando tale allegazione sia una replica alla difesa del convenuto; 2. Tali poteri spettano, simmetricamente, anche al convenuto. b. Nuove acquisizioni che non dipendono dall’esercizio di poteri processuali altrui, ma che configurano uno ius poenitendi dell’altra parte. Questo secondo aspetto è previsto dall’art. 183 c.p.c., il quale ammette la incondizionata precisazione e modificazione delle domande, allegazioni e conclusioni. Resta da chiarire cosa significhi “precisare” e “modificare”: “precisare”: quando la parte esplicita quanto già contenuto nelle sue precedenti difese. Tale attività consiste essenzialmente nella allegazione dei fatti secondari. Ad es., si ha una precisazione quando, richiesto il risarcimento dei danni derivati da un incidente stradale, una parte introduce nuovi dettagli circa lo svolgimento del processo. “modificazione”: quando la parte allega in giudizio nuovi fatti storici principali, cioè nuovi fatti costitutivi della fattispecie di diritto fatta valere. La modificazione è possibile purchè non si cambi la situazione sostanziale dedotta in giudizio. Lo ius poenitendi, dunque, non consente di proporre domande nuove, di chiedere la tutela di diritti diversi da quelli individuati con gli atti introduttivi. Come detto in precedenza, nel rito del lavoro il principio di preclusione è meno rigido rispetto che nel rito del lavoro, in quanto prevede una separazione tra la fase del processo dedicata alle allegazioni e quella dedicata alle istruttorie. Pertanto, in base a quanto introdotto nel 1990, una volta esaurita la fase del processo dedicata alle allegazioni veniva fissata una successiva udienza ( disciplinata dall’art. 184 c.p.c.), dedicata specificatamente allo svolgimento dell’attività istruttoria. Tuttavia, nel 2006 il legislatore, nella speranza di abbreviare la durata del processo, ha eliminato l’udienza dedicata alle attività istruttorie, concentrando tutto nella prima udienza di trattazione. Infatti, il sesto comma dell’art. 183 c.p.c., prevede che nella udienza di trattazione, se anche una sola delle parti glielo chiede, il giudice deve fissare 3 termini per il deposito di altrettante memorie dedicate: 1. La prima alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle conclusioni o delle eccezioni già proposte; 2. La seconda per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dall’altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime e per l’indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali; 3. La terza per le sole indicazioni di prova contraria. Il legislatore del 2006, dunque, ha voluto adottare un sistema intermedio tra quello previgente e quello del rito del lavoro: la distinzione tra fase del processo dedicata alle allegazioni e quella dedicata alla attività istruttoria non è più netta come prima, quando la separazione era addirittura marcata da una diversa udienza. Ora, mentre la prima memoria rimane ancora dedicata alle sole allegazioni, la seconda ha contenuto misto: da un lato essa costituisce la replica, in punto di allegazioni, alle novità contenute nella prima memoria; dall’altro, con essa la parti devono provvedere alla attività istruttoria. La terza memoria, infine, può contenere solo le repliche istruttorie alle richieste istruttorie effettuate dall’altra parte con la seconda memoria. ATTENZIONE: dal dettato della riforma del 2006 sembrerebbe che sia possibile per le parti solo precisare o modificare domande già proposte; ma, come precedentemente detto, le parti possono sempre anche introdurre nuove eccezioni in senso stretto e in senso lato. Quindi, si ritiene che le espressioni utilizzate dal legislatore del 2006 siano solo esemplificative. 10 affermativa, passa, poi, all’analisi della questione di merito, raccogliendo il materiale necessario. Può capitare, però, che la causa sia matura per la decisione di merito senza l’assunzione dei mezzi di prova: in tal caso in g.i. rimette le parti direttamente davanti al collegio per la decisione. L’ipotesi più frequente nella quale capita che non siano necessari i mezzi di prova si ha quando tra le parti vi è una controversia solo in punto di diritto e non di fatto. Ciò può capitare per due motivi: a. Ammissione. Si ha quando il difensore di una parte ammette espressamente che i fatti allegati dalla controparte si svolti esattamente in quel modo; b. Non contestazione. Si ha quando il difensore di una parte implicitamente riconosce come veri i fatti allegati dalla controparte. Nota bene: entrambe queste attività denotano un’attività difensiva attiva nel processo. Pertanto, non possono essere svolte dal contumace e, quindi, quando una parte è contumace il giudice deve sempre assumere mezzi probatori dei fatti allegati dalla parte presente. Con l’ammissione e la non contestazione i fatti allegati dalle parti sono considerati pacifici, in quanto non controversi. Il fenomeno dei fatti pacifici non può presentarsi nei processi che hanno ad oggetto diritti indisponibili: infatti, dove il diritto è indisponibile in giudice deve sempre ammettere i mezzi di prova, in quanto tali diritti non sono dipendenti dalla volontà dispositiva delle parti. La categoria dei fatti pacifici è rilevante in quanto essi non hanno bisogno di essere provati. ATTENZIONE: ciò non significa che siano provati! Pertanto, se il fatto non contestato o ammesso risulta escluso dalle prove acquisite in corso di causa, il giudice può, anzi deve, comunque ritenerlo inesistente. 8. LE QUESTIONI PRELIMINARI E PREGIUDIZIALI Vi sono dei casi in cui il giudic può rimettere la causa al collegio per la decisione, anche quando l’attività istruttoria non è ancora finita e , quindi, vi siano ancora mezzi di prova da assumere. Al contrario, se l’attività istruttoria fosse finita sarebbe normale e obbligatorio che il giudice rimetta la questione al collegio per la questione. Invece in questo caso vi è la particolarità che la rimessione giunge prima della fine dell’attività istruttoria. Tale rimessione “anticipata” può avvenire quando vi sia una questione preliminare o pregiudiziale che in concreto possono definire il giudizio. Vediamo la ratio della norma. Anche una causa non totalmente istruita può essere matura per la decisione. L’attività istruttoria che resta ancora da compiere potrebbe risultare inutile, in quanto non inciderebbe sul merito della sentenza. Se, infatti, ad esempio, è provato dal convenuto un fatto estintivo del diritto dell’attore, allora è totalmente inutile che l’attore provi un fatto costitutivo del suo dirito: infatti, comunque, anche qualora il diritto esisteva, ora non esiste più, in quanto si è estinto. La ratio della norma, dunque, è quella di risparmiare attività inutile e, quindi, potenzialmente qualunque fatto costitutivo ( accertato inesistente) o qualsiasi eccezione ( accertata esistente) sono idonei a dare luogo ad una rimessione su questione preliminare. Attenzione però. Come detto precedentemente, non basta che la questione sia astrattamente idonea a definire la questione, occorre che la potenzialità sia concreta e attuale. Ad esempio. La prescrizione è una 11 questione preliminare astrattamente idonea a definire il giudizio; se, però, il g.i. ritiene che la prescrizione non sia maturata, allora in concreto tale questione non definisce il giudizio ( non lo termina!), perciò l’attività istruttoria deve essere completata; se, invece, la prescrizione è maturata, allora il g.i. può rimettere al collegio la causa per la decisione, in quanto l’esito del processo è ormai scontato. La rimessione, dunque, indica con tutta evidenza che il g.i. ritiene che la domanda debba essere rigettata. Stesso discorso vale per le questioni pregiudiziali, che riguardano tutte i presupposti processuali. Che senso avrebbe proseguire l’attività istruttoria quando il convenuto ha sollevato una eccezione di incompetenza e tae eccezione è ritenuta dal g.i. fondata? Anche in questo caso, dunque, il g.i. rimette la causa al collegio per la decisione. Se, poi, il collegio non ritiene fondata l’eccezione o non ritiene porvato un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, allora il processo non è definito e, pertanto, la causa torna alla fase istruttoria. L’errore di valutazione del g.i. ha, dunque, provocato un’inutile spendita di attività processuale. Il meccanismo appena descritto vale anche se la decisione spetta al giudice monocratico: in tal caso non si ha il collegio, ma si avrà comunque il passaggio da una fase all’altra del processo ( da quella della trattazione, e, precisamente, nello species dell’istruttoria, a quella della decisione). Ovviamente, ogni trattazione rigida dei rapporti fra trattazione e decisione non ha senso, perchè soltanto il giudice del singolo processo può valutare la fondatezza delle questioni preliminari e pregiudiziali e la loro concreta ( e non solo astratta) idoneità a definire il giudizio. 9. LE ORDINANZE PROVVISIONALI Gli artt. 186 bis-ter-quater c.p.c. disciplinano tre strumenti finalizzati a semplificare o abbreviare lo svolgimento del processo. A. Art. 186-bis c.p.c.. Ordinanza per il pagamento di somme non contestate. Può essere emessa solo quando le parti sono costituite e presuppone che il convenuto ponga in essere una difesa articolata: in parte contesta di dovere certe somme, ma ammette una parte del debito. Si tratta di un’ordinanza modificabile e revocabile. Pertanto, il g.i. può emettere l’ordinanza, ma tale somma che viene versata dal convenuto prima della decisione, non esce dall’oggetto del processo. Pertanto, la sentenza deve comunque essere pronunciata. Il convenuto può, poi, contestare anche le somme inizialmente non contestate: dunque, il giudice dovrà pronunciarsi e se le riterrà non dovute dovrà tenere conto di ciò nella sentenza. B. Art. 186-ter c.p.c.. Ingiunzione ( vd. Pag. 69 Luiso); C. Art. 186-quater c.p.c.. E’ l’ipotesi più importante di ordinanza provvisionale. Essa presuppone che sia esaurita l’istruzione della causa e che la causa non sia ancora passata alla fase decisoria. La sua funzione è quella di anticipare la tutela, risparmiando a chi ha proposto la domanda il tempo ( solitamente assai lungo) tra la fine dell’istruttoria e la pronunzia della sentenza. Ovviamente tale strumento è applicabile solamente con riferimento alle domande di condanna: un’anticipazione della tutela di mero accertamento o della tutela costitutiva pura non avrebbe senso. L’ordinanza 12 successiva alla chiusura dell’istruttoria è, dunque, un provvedimento anticipatorio a cognizione piena, ma a decisione sommaria. L’ordinanza deve potenzialmente essere sostitutiva di una sentenza definitiva: infatti, con l’ordinanza il giudice provvede anche sulle spese processuali. Il gdice può rifiutare di emettere l’ordinanza quando la decisione della causa è complessa e comporta, quindi, un suo impegno rilevante in termini di tempo. Si tratta di un’ordinanza non modificabile e non revocabile. Dopo la pronuncia dell’ordinanza si possono aprire 3 ipotesi: 1. Sentenza. Il processo può arrivare comunque alla pronuncia della sentenza, che in tal caso è sostitutiva dell’ordinanza. Affinchè ciò accada è necessario che la controparte, entro 30 giorni dalla pronuncia dell’ordinanza o della sua notificazione ( se emessa fuori udienza) notifichi e depositi in cancelleria un ricorso, nel quale manifesta la sua volontà di ottenere la sentenza. In relazione agli effetti prodotti dall’ordinanza e non confermati dalla sentenza, si deve ritenere che il giudice debba disporre con la sentenza la restituzione delle somme pagate o delle cose consegnate o rilasciate. 2. Estinzione. In altri casi l’ordinanza acquista efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza e, dunque, il processo si estingue. L’ordinanza, dunque, sarà in tal caso impugnabile secondo le regole ordinarie. 3. Inerzia. Se il processo non si estingue e passano 30 giorni dall’emanazione dell’ordinanza senza che la controparte presenti ricorso, il processo rimane inerte, ma comunque la controparte non ha più il potere di impugnare l’ordinanza. È bene precisare che l’ordinanza successiva alla chiusura dell’istruttoria non è utilizzabile nel processo comulato. Come detto, infatti, il giudice deve liquidare le spese. Ebbene, tale liquidazione non è possibile se l’intera materia del contendere non è esaurita dall’ordinanza. 10. L’ISTRUZIONE PROBATORIA Come precedentemente detto, l’istruzione probatoria serve per provare i fatti storici allegati che siano controversi: i fatti non controversi non hanno bisogno di essere provati. Occorre, innanzitutto, operare una prima distinzione tra:  Prove precostituite. Esistono già fuori dal processo e sono acquisite dal processo stesso con una semplice modalità: la loro produzione. Se deve essere acquisita una prova già esistente, dunque, l’attività processuale da svolgere è minima.  Prove costituende. Devono essere formate all’interno del processo. L’attività proessuale, in tal caso, è più complessa. La prova è lo strumento idoneo a convincere il giudice della verità di quanto affermato dalle parti nel processo. Le prove nel nostro ordinamento sono regolate da un principio di tipicità: non possono essere utilizzati mezzi di prova che non sono previsti dal legislatore. Esitono, quindi, 3 gruppi di prove: 1. PROVE DIRETTE. Sono quelle attraverso le quali il giudice percepisce direttamente il fatto allegato con i propri sensi. Un esempio di questo tipo è l’ispezione. Se è allegata in giudizio l’esistenza di una finestra, il giudice va a vedere personalmente se esiste la finestra. Le prove 15 un’altra particolarità dell’interrogatorio libero è che esso è effettuato nella fase di trattazione e non nella fase istruttoria. Consulenza tecnica ( artt. 191 ss. C.p.c.). La consulenza tecnica si ha quando il g.i., mediante ordinanza, si fa assistere da un consulente tecnico, dotato di particolari competenze, per determinare un fatto che il giudice non sarebbe in grado di valutare con la stessa precisione. Nel caso in cui il giudice nomini il consulente tecnico occorre ristabilire il principio del contraddittorio: se il consulente fosse da solo verrebbe meno la triangolarità del processo e, quindi, le affermazioni del consulente diventerebbero, di fatto incontestabili. Per questo, la Corte Costituzionale ha espressamente chiarito che le parti possono a loro volta nominare un consulente tecnico che si affianca a quello nominato dal giudice: non è possibile controllare il corretto uso delle cognizioni tecniche se non attraverso un altro soggetto che abbia, a sua volta, le stesse cognizioni tecniche. Il giudice, poi, dovrà valutare quale delle motivazioni offerte dai consulenti sia più convincente e le opinioni dei consulenti sono seguite dal giudice non per obbligo giuridico, ma solo se il giudice le ritiene convincenti: per questo, il giudice è definito “peritus peritorum”. Al consulente tecnico, inoltre, il giudice può affidare il compito di acquisire fatti rilevanti per la decisione, quando tale acquisizione si presenta difficoltosa per la complessità delle operazioni. A tal proposito, l’art. 198 c.p.c. afferma che il giudice possa affidare ad un consulente tecnico l’analisi dei libri contabili anche al di fuori di un’udienza procesuale. 12. LA PROVA DOCUMENTALE: PROFILI GENERALI Come detto in precedenza, la prova documentale è una prova precostituita: per essere acquisita nel processo non è necessario un sub-procedimento che si apre con un’ordinanza del giudice, bensì è sufficiente la pura e semplice produzione agli atti di causa. Il documento è qualunque oggetto che fornisce la rappresentazione di un fatto storico, anche quando quando questa rappresentazione deve essere tratta dall’oggetto attraverso un procedimento che abbisogna di uno strumento. Talvolta la prova documentale costituisce la rappresentazione immediata del fatto storico, mentre altre volte costituisce la rappresentazione di una prova del fatto storico. Esempi: A. Una scrittura da cui si evince la stipulazione del contratto è la prova immediata del fatto storico, ossia della stipulazione del contratto. In tal caso non si pongono problemi, nel senso che, se il giudice la riterrà ammissibile e affidabile, allora sarà provato il fatto storico. B. La quietanza del pagamento non è la prova immediata dell’avvenuto pagamento, bensì è la prova che una parte ha dichiarato di avere ricevuto una certa somma di denaro. Quindi, il documento non contiene la rappresentazione dell’avvenuto pagamento, ma è una prova di un’altra prova ( la dichiarazione), la quale, essa sì, ha per oggetto il fatto “avvenuto pagamento”. In questo secondo caso il giudice, dopo aver valutato l’ammissibilità e l’attendibilità della quietanza, dovrà anche applicare le regole che disciplinano l’efficacia probatoria della dichiarazione ( provata dalla quietanza). 16 13. SEGUE: L’ATTO PUBBLICO L’atto pubblico è disciplinato dall’art. 2699 c.c.. L’atto pubblico deve farsi con le richieste formalità: in mancanza di tali formalità l’atto pubblico viene considerato una scrittura privata, nella quale si converte. Tali formalità consistono nel fatto che l’atto pubblico deve essere formato da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuire al documento pubblica fede. I pubblici ufficiali che hanno il potere di attribuire al documento pubblica fede sono pochi. Infatti, sono solo quei pubblici ufficiali che hanno come funzione primaria e specifica quella di attribuire pubblica fede all’atto. Dunque, non avrà l’efficacia dell’atto pubblico la multa per divieto di sosta, in quanto il vigile urbano ha come funzione primaria quella di reprimere la violazione del codice stradale e non di attribuire pubblica fede ai documenti. Pertanto, sono pubblici ufficiali autorizzati ad attribuire al documento pubblica fede:  Notaio;  Segretario comunale ( in certe materie);  Cancelliere che forma il verbale della causa;  Ufficiale Giudiziario. Nonostante quanto appena detto non si può fare a meno di precisare che la Corte di Cassazione dia una interpretazione molto più estensiva del termine “ pubblico ufficiale”, ritenendo tale ogni soggetto munito di pubbliche funzioni. Questa interpretazione, tuttavia, deve essere criticata, non ha senso e rischia di stravolgere l’intero sistema. L’atto pubblico fa piena prova. Ciò significa che il giudice non può, sotto nessun profilo, ritenere inattendibile quello che ha attestato il pubblico ufficiale. In particolare, l’atto pubblico fa piena prova circa: 1. La provenienza dal pubblico ufficiale che lo ha firmato. 2. Di tutto ciò che è avvenuto di fronte al pubblico ufficiale. L’atto pubblico, dunque, accerta in maniera piena che un certo soggetto ha reso una certa dichiarazione, ma la verità di ciò che è dichiarato non è coperta affatto da pubblica fede: il pubblico ufficiale non può attestare che sia vero quello che gli riferiscono le parti, perchè non può entrare nella mente di chi fa la dichiarazione! L’atto pubblico può essere contestato in due modi, a seconda del profilo che si vuole contestare: a. Per contrastare l’intrinseco ( ossia a veridicità di ciò che le parti hanno dichiarato) occorre utilizzare gli strumenti normali che l’ordinamento prevede: ad esempio, se si tratta di dichiarazioni confessorie, il dichiarante può contrastarle nei limiti in cui la legge consente la revoca della confessione; se si vuole sostenere che l’atto era simulato si può farlo mediante testimoni. b. Per contrastare l’estrinseco ( efficacia di prova legale) occorre utilizzare il particolare strumento della querela di falso. Tramite la querela di falso, all’atto pubblico si possono attribuire due tipi di falsità:  Falso ideologico. Si ha falso ideologico quando si afferma che il pubblico ufficiale ha attestato fatti diversi da quelli che sono realmente avvenuti in sua presenza. Ad esempio, una parte afferma che il prezzo dichiarato di fronte al notaio era 100 e il notaio ha scritto 10. Del falso ideologico, dunque, è responsabile necessariamente il pubblico ufficiale. 17  Falso materiale. Si ha falso materiale quando l’atto pubblico nasce ab origine genuino, ma poi successivamente ne viene alterato il testo. La querela di falso deve essere proposta necessariamente dalla parte e non dal procuratore, a meno che questo non sia dotato di un mandato specifico. La querela di falso può essere proposta in 2 diversi modi: 1. In via principale. Quando il processo ha ad oggetto immediato ed esclusivo la falsità dell’atto. 2. In via incidentale. Quando l’atto è usato come prova in un processo, avente un oggetto diverso, e colui contro il quale il documento è usato come prova ne afferma la falsità. In tal caso se la causa principale era innanzi ad un giudice di pace o ad una corte d’appello, il processo è sospeso e la questione è riferita al tribunale. A questo punto, il giudice chiede alla controparte se vuole ritirare l’atto pubblico ( per evitare un eventuale procedimento penale di falso a suo carico) o se lo vuole mantenere. Una volta che la querela di falso è proposta in via incidentale e non è stata ritirata, il giudice deve innanzitutto fare una valutazione preventiva di rilevanza: valutare se il fatto rappresentato nell’atto è rilevante perchè integra un elemento della fattispecie del diritto dedotto in giudizio: se la risposta è affermativa, il giudice ammette la querela di falso, altrimenti no. La querela di falso solitamente comporta anche una responsabilutà penale per falso. In tal caso, se inizia anche un procedimento penale che ha ad oggetto il falso, il processo civile comunque non si sospende: i processi vanno avanti parallelamente e, quindi, si potrebbe anche arrivare a due conclusioni opposta ( processo civile non ritiene che ci siano gli estremi del falso, mentre quello penale si o viceversa). In alcune potesi eccezionali, invece, se il processo penale passa in giudicato quando quello civile è ancora pendente, allora entrambe le parti del processo civile possono presentare al giudice la sentenza penale, vincolando, così, il giudice civile al suo contenuto. 14. SEGUE: LA SCRITTURA PRIVATA La scrittura privata è un documento che contiene segni grafici enuncianti manifestazioni di volontà o di scienza e si distingue dall’atto pubblico per il fatto di non essere formulata da un pubblico ufficiale, bensì direttamente dalle parti. Il primo problema che si pone nella disciplina della scrittura privata è quella di capire a chi è imputabile quanto contenuto nello scritto. Il problema è in parte risolto attraverso la sottoscrizione: a parte rare eccezioni, tutte le scritture private devono essere sottoscritte da colui al quale sono imputabili le dichiarazioni contenute nel documento. A questo punto, però, si pone un problema ulteriore: la sottoscrizione può essere facilmente falsificata e, allora, sono necessari dei meccanismi che accertino la genuinità della sottoscrizione. Tali meccanismi sono 3: 1. Riconoscimento. Il riconoscimento può essere espresso o tacito: è espresso quando la parte dichiara espressamente che la sottoscrizione è genuina; è tacito quando la parte non effettua il disconoscimento della sottoscrizione. Infatti, l’art. 214 c.p.c. impone a colui, cui si vogliono 20 caratteristica di essere documentabili, perciò si applica la stessa regola: chi effettua un pagamento ha sempre l’onere di chiedere alla controparte di rilasciare una quietanza di pagamento. Per questi motivi, la prova testimoniale non è ammessa quando il valore dell’oggeto eccede le 5.000 lire. Tale somma non è stata convertita in euro perchè a tale regola si sostituisce, in realtà, un principio molto più elastico: il giudice deve valutare caso per caso se, in relazione al singolo contratto oggetto del processo, sia verosimile o meno che le parti non abbiano stipulato un atto scritto. In sostanza, dunque, se il giudice ritiene verosimile che le parti non abbiano stipulato per iscritto il contratto, può ammettere la prova testimoniale. Al di là della valutazione di verosimiglianza, comunque, la prova testimoniale è sempre ammessa in 3 ipotesi: 1. Quando vi è un principio di prova per iscritto, ossia quando la controparte ha per iscritto fatto riferimento al contratto ( non provato per iscritto) o alla sua modificazione. 2. Quando il contraente era nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova iscritta ( es. un mutuo erogato ad un parente stretto normalmente non viene documentato). 3. Quando il contraente ha, senza sua colpa, perduto il documento che forniva la prova. Vi è, poi, l’ipotesi in cui il contratto sia provato per iscritto, ma si chieda di prova per testimoni patti aggiunti o contrati antecedenti, contemporanei o successivi alla formazione del documento. A tal proposito: A. Patti aggiunti o contrati antecedenti o contemporanei. Non possono essere provati per testimoni, perchè se il patto era contemporaneo o antecedente poteva essere incorporato nel documento che attesta il contratto. B. Patti aggiunti o contrari successivi. La prova testimoniale è ammissibile, perchè il patto, essendo sorto dopibilità di testo la documentazione, non poteva essere incorporato, ma, ovviamente, anche in tal caso il giudice ammette la prova testimoniale una volta effettuato il giudizio di verosimiglianza. Inoltre, occorre specificare che i contratti che hanno forma scritta ad probationem o ad substantiam non possono essere, ovviamente, provati per testimoni: gli uni necessitano di essere provati per iscritto, gli altri necessitano di uno scritto per la loro validità. L’unica ipotesi in cui la prova testimoniale può essere ammessa è quando, in presenza di un contratto che necessita la forma scritta ad substantiam, la parte dimostra di avere perduto il documento senza sua colpa. La prova testimoniale deve essere dedotta mediante l’indicazione delle persone da interrogare e dei fatti formulati per capitoli di prova: non basta dire “chiedo ammettersi prova testimoniale”, ma occorre precisare quali singoli fatti si vogliono provare per testimoni. Soggetti che possono testimoniare. Non tutti i soggetti possono testimoniare. Non possono testimoniare:  Le parti in causa;  Coloro che hanno un interesse in causa e che, quindi, avrebbero potuto realizzare il simultaneus processus. Gli artt. 247 e 248 c.p.c., poi, prevedevano l’impossibità di testimoniare per i parenti e affini della parte ( perchè considerati imparziali) e per i minori di 14 anni ( erano legittimati solo qualora ricorressero particolari cirostanze). Tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali tali norme in quanto non pare razionale privare a priori il giudice da una valutazione di affidabilità che, in ogni caso, egli deve 21 compiere sulla testimonianza riferita. Pertanto, la testimonianza di parenti e affini e minori di 14 anni è oggi ammessa, ma il giudice deve effettuare un giudizio di affidabilità ancora più attento e puntuale. Vi sono, infine, alcuni soggetti che hanno la possibilità di non testimoniare per segreto professionale o di stato, ecc... L’assunzione di testimoni avviene previo loro giuramento ( tranne i minori, i quali non posono giurare). Ove le parti ed il giudice siano d’accordo, è possibile raccogliere la testimonianza anche per iscritto, anzichè in udienza nel contraddittorio, mediante un procedimento assai complesso. 17. LA CONFESSIONE La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a sè sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Per capire quando un fatto sia sfavorevole o meno bisogna fare il seguente ragionamento: un fatto sarà sfaorevole all’attore quando esso dimostra inesistenza di un elemento costitutivo o l’esistenza di un’eccezione; viceversa, un fatto è sfavorevole al convenuto quando esso dimostra l’esistenza di un elemento costitutivo o l’inesistenza di un’eccezione. Oggetto della confessione sono sempre fatti e mai diritti. In questo la confessione si differenzia dalla ricognizione di debito e dalla promessa di pagamento, le quali sono dichiarazioni di esistenza di un diritto altrui ( e non di un fatto). Tale distinzione rileva perchè tra i due istituti c’è una differenza di disciplina: la confessione può essere contrastata solamente con la revoca che segue regole specifiche ( vedi dopo), mentre la ricongizione di debito e la promessa di pagamento provocano semplicemente un’astrazione del rapporto fondamentale, ossia un’inversione dell’onere della prova: il debito riconosciuto si presume esistente fino a prova contraria. La confessione necessita di due requisiti: 1. Disponibilità soggettiva: per confessare è necessaria la capacità soggettiva di disposizione del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono ( es. il minore non può mai confessare, perchè non ha la disponibilità dei suoi diritti). 2. Disponibilità oggettiva: significa che la confessione deve avere ad oggetto solamente diritti disponibili, perchè i diritti indisponibili non risentono nemmeno delle disposizioni negoziali delle parti ( ricorda che per i diritti indisponibili è necessario l’intervento del P.M. nel processo). Qualora manchino queste disponibilità, alcuni ritengono che la confessione assuma l’efficacia di prova liberamente valutabile dal giudice, ma la soluzione corretta sembra essere quella per cui la confessione non abbia in tal caso alcuna efficacia probatoria. La confessione di regola ha efficacia di piena prova. Ciò perchè si ritiene che chi afferma una cosa a lui sfavorevole affermi il vero. Vi sono, però, dei casi in cui la confessione, eccezionalmente, ha effcacia di prova liberamente valutabile dal giudice: 22  Litisconsorzio necessario. Quando vi è un litisconsorzio necessario e una sola parte confessa, la sua confessione è liberamente valutabile. Infatti, non avrebbe senso pregiudicare in ogni caso la posizione degli altri, vincolandoli ex lege ad un atto dispositivo che non hanno compiuto. D’altra parte, però, sarebbe anche ingiusto non dare efficacia probatoria ad una confessione comunque valida ( ovviamente se vi è disponibilità soggettiva e oggettiva). Nel litisconsorzio facoltativo, invece, la confessione fa piena prova ma limitatamente nei confronti del soggetto che ha reso la confessione. Ciò è possibile perchè se il litisconsorzio è facoltativo significa che le cause sono abbinate e parallele e, quindi, è ben possibile che l’una abbia una decisione diversa dall’altra.  Dichiarazione complessa. La dichiarazione complessa si ha quando colui che dichiara fatti a sè sfavorevoli, allo stesso tempo dichiara anche altri fatti a sè favorevoli. In tal caso, il nostro ordinamento adotta il principio di inscindibilità della dichiarazione: se la controparte contesta i fatti favorevoli al confitente, allora anche i fatti a lui sfavorevoli divengono liberamente valutabili, altrimenti, se la controparte non contesta, l’intera dichiarazione ha efficacia di prova legale.  Confessione resa a un terzo. La confessione stragiudiziale resa ad un terzo è liberamente valutabile dal giudice. Invece la confessione stragiudiziale resa alla controparte o al difesore ha efficacia di prova legale. La revoca della confessione può aver luogo solo per errore di fatto o violenza. L’errore di fatto consiste nell’errore ostativo ( es. ho detto 100 ma volevo dire 10). Perchè sussista l’errore di fatto non basta dimostrare che la realtà storica è diversa da quella provata, bensì occorre dimostrare l’errore soggettivo, ossia l’errore specifico del confitente al momento in cui ha reso la dichiarazione ( lui sapeva che il debito era di 10 ma ha detto per sbaglio 100). La confessione può essere giudiziale o stragiudiziale.  Confessione stragiudiziale: è una probatio probanda, ossia una prova che deve essere provata. Per provare che è avvenuta la confessione al di fuori del giudizio si può fare riferimento ad un documento ( con la seguente applicazione della disciplina della proca documentale). Se, invece, la confessione non è contenuta in un documento, occorre acquisirla mediante altri mezzi di prova: in tal caso la confessione incontra gli stessi limiti del fatto confessato ( se il fatto può essere provato con testimoni allora anche la confessione può essere provata per testimoni, ecc....).  Confessione giudiziale. La confessione giudiziale può essere spontanea ( e in tal caso è resa in qualsiasi momento del processo), oppure può essere resa nel corso di un interrogatorio formale. L’interrogatorio formale è un mezzo di prova costituendo. Esso deve essere richiesto dalla parte ( non è disponibile d’ufficio). Il giudice, di fronte alla richiesta di interrogatorio formale, deve valutarne l’ammissibilità e la rilevanza, con riferimento ai presupposti di efficacia della confessione ( se l’eventuale confessione non avrebbe comunque efficacia perchè, ad esempio, resa su diritt indisponibili, allora il giudice non ammette l’interrogatorio formale). L’ammissione dell’interrogatorio formale avviene con ordinanza del g.i. e nella data fissata per l’interrogatorio deve comparire personalmente la parte. Nell’interrogatorio formale non vi è per la parte l’obbligo di dire la verità, quindi per lei è molto più facile negare i fatti ( invece nella testimonianza la parte giura di dire la verità). 25 19. L’ISPEZIONE, L’ESPERIMENTO GIUDIZIALE, IL RENDICONTO Ispezione. L’ispezione è una prova diretta che può avere ad oggetto cose o persone. Non ha seno cheidersi se si tratti di una prova libera o legale, in quanto è una prova diretta. L’ispezione deve apparire indispensabile per conoscere i fati di causa, quindi deve essere l’unico mezzo per accertare tali fatti e non può essere disposta se comporta gravi danni per la parte o per il terzo. È un mezzo di porva disponibile d’ufficio al quale deve partecipare necessariamente il giudice ( altrimenti non sarebbe più una prova diretta). Se la parte rifiuta l’ispezione della propria persona o della propria cosa, il giudice può valutare tale comportamento come prova. Esperimento giudiziale. Si ha quando il giudice, per accertare un tale fatto, ordina che si riproduca il fatto stesso. È una prova presuntiva, non diretta. Rendiconto. Il rendiconto per un verso ha le caratteristiche dei mezzi istruttori, ma per altro verso può essere oggetto di una separato domanda. L’obbligo di rendiconto è previsto espressamente dalla legge in alcune ipotesi tutte legate al compimento di attività nell’interesse altrui o anche nell’interesse altrui ed ha la finalità di rendere possibile all’interessato di far valere i propri diritti o di adempiere agli obblighi che nascono dall’attività compiuta. Ad esempio, all’interno del processo che determina la divisione, i condividenti si devono rendere il conto. Sia che la domanda di rendiconto sia proposta in via incidentale, sia che sia proposta in via principale, il procedimento è il seguente: la parte obbligata deve depositare in cancelleria il conto almeno 5 giorni prima dell’udienza fissata per la discussione del conto; a questo punto, se la controparte manifesta la volontà di accettare il conto, allora il giudice si limita a sancire il raggiungimento di un accordo tra le parti ( con ordinanza). Se, invece, la controparte contesta, si apre il contraddittorio e il giudice si esprimerà con sentenza. La revisione del conto approvato può essere chiesta solamente per:  Errore materiale ( errore di calcolo);  Omissione ( una partita è stata omessa);  Falsità ( una partita è falsa);  Duplicazione ( una partita è esposta due volte). 20. LA FASE DECISORIA Una volta assunti i mezzi di prova ( ricorda che la fase istruttoria è possibile, ma non necessaria), l’istruzione probtoria è finita e si può passare alla fase decisoria, la quale è la fase finale del processo. Il collegamento tra la fase della trattazione e la fase decisoria è dato dalla precisazione delle conclusioni: a norma degli artt. 187 e 188 c.p.c., quando il g.i. rimette la causa al collegio, invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni. Le conclusioni sono le richieste che possono avere le richieste più varie ma, come minimo, devono avere ad oggetto la situazione sostanziale della quale si chiede la tutela. Ad es., l’attore chiederà che il collegio, accogliendo la domanda, condanni il convenuto al pagamento del debito. La precisazione delle conclusioni è rilevante per diversi aspetti: 26  La sentenza di merito statuirà con riferimento ai fatti esistenti al momento della precisazione delle conclusioni: il giudicato, quindi, non coinvolgerà i fatti futuri a quel momento.  La soccombenza delle parti ( rilevante per l’impugnabilità) è determinata sulla base di quanto richiesto nella precisazione delle conclusioni: se, dunque, nel corso della trattazione una parte aveva fatto richieste che poi non sono state fatte nella precisazione delle conclusioni, essa non sarà soccombente per il semplice fatto che quella richiesta non è stata soddisfatta. Con la precisazione delle conclusioni le parti non possono allegare nuovi fatti o produrre documenti o chiedere l’assunzione di nuovi mezzi di prova: infatti, tali attività dovevano essere svolte a pena di preclusione non più tardi della sentenza di cui all’art. 183 c.p.c.. Invece, nella precisazione delle conclusioni le parti possono modificare le conclusioni già contenute negli atti introduttivi, a patto, però, che non si modifichi l’oggetto del processo. Dopo la precisazione delle conclusioni, il processo entra ufficialmente nella fase decisoria. Se la decisione deve essere presa dal collegio, dunque, il g.i. si spoglia del potere sulla causa, il quale viene acquisito dal collegio. Entro 60 giorni dalla precisazione delle conclusioni, avviene lo scambio delle comparse conclusionali, che costituiscono l’illustrazione delle ragioni in fatto e in diritto delle parti. Le parti, dopo lo scambio delle comparse conclusionali, possono scambiarsi anche le memorie di replica. Da questo momento, entro 60 giorni la decisione deve essere emessa. La fase della deliberazione della sentenza avviene nel segreto della camera di consiglio. La decisione viene presa a maggioranza dei voti. La motivazione della sentenza è, di regola, stesa dal g.i. ( che è parte del collegio), ma se questi è andato in minoranza nella votazione la motivazione è stesa da uno degli altri due giudici. A questo punto, la sentenza viene depositata in cancelleria e il cancelliere vi appone la data, il timbro e la propria firma e si ha la pubblicazione della sentenza: da questo momento la sentenza è pubblica e può essere visionata da chiunque. Fino ad ora abbiamo parlato della decisione collegiale. Quando la decisione è monocratica, il procedimento è identico, ma, ovviamente, non vi è la camera di consiglio e la sentenza è sottoscritta esclusivamente dal g.i.. 21. LE ORDINANZE EMESSE IN SEDE DI DECISIONE Dobbiamo ora esaminare i provvedimenti emessi dal giudice o dal collegio in sede di decisione. Innanzitutto vi sono le ipotesi nelle quali il giudice pronuncia ordinanza senza pronunciare sentenza ( art. 279 c.p.c.): 1. Ordinanza collegiale istruttoria. Il collegio pronuncia ordinana senza sentenza quando il g.i. ha negato l’amissibilità di una prova il sede istruttoria e, dopo che la parte ha riproposto la questione in sede di precisazione delle conclusioni, il collegio ha ritenuto ammissibile tale prova. Con questa ordinanza il collegio deve rimettere la causa al g.i. per la prosecuzione del processo, cioè per l’assunzione del mezzo di prova che il collegio ha ammesso con la sua ordinanza istruttoria. Ovviamente, tale ordinanza può essere solo collegiale, perchè se il giudice fosse monocratico 27 ammetterebbe in un secondo momento una cosa che precedentemente aveva negato ( ossia l’ammissibilità della prova). 2. Rinnovazione delle prove. Il collegio, se è incerto circa la valutazione o il contenuto dei mezzi di prova acquisiti dal g.i., può disporne la ripetizione di fronte a sè. In questo caso la causa non torna in istruttoria, bensì rimane in sede decisoria. La rinnovazione delle prove si applica solo per le prove già assunte e non per nuove prove. 3. Competenza. Quando il collegio si esprime semplicemente in riferimento a questioni di competenza ( qui l’ordinanza ha effetti di sentenza, vd. Incompetenza, vol. I). 4. Questioni rilevate d’ufficio. Il giudice che vuole fondare la propria decisione su una questione rilevata d’ufficio e, erroneamente, non segnalata alle parti, deve con ordinanza assegnare alle parti un termine per il deposito di memorie relative alla questione indicata nell’ordinanza: in tal modo, si realizza il contradditorio, che è sempre necessario e il giudice potrà decidere con sentenza tenendo conto di quanto dedotto dalle parti. 22. LA SENTENZA DEFINITIVA E NON DEFINITIVA Innanzitutto occore chiarire la differenza tra ordinanza e sentenza: la decisione in forma di sentenza esaurisce il potere del giudice ( o meglio, dell’ufficio giudiziario), il quale rimane vincolato in modo assoluto a quanto deciso; con l’ordinanza, invece, ciò non accade, in quanto il giudice ha la possibilità di modificare o revocare l’ordinanza o, comunque, di riesaminare la questione già decisa senza bisogno di una revocazione esplicita della ordinanza stessa. Se, ad esempio, il g.i. ha assunto una prova ritenendola ammissibile ( ovviamente con ordinanza), ma in sede di ammissione egli, o il collegio, riesaminando la questione ritiene che tale prova non era ammissibile, semplicemente deve stracciare la prova e non tenerne conto per la motivazione. L’esaurimento del potere giurisdizionale derivante dalla pronuncia della sentenza ha alcune conseguenze: 1. Il giudice non può modificare o revocare il provvedimento emesso; 2. Il giudice non può ridecidere su ciò che ha già deciso; 3. Il giudice, se nel processo che prosegue dinnanzi a lui si troverà ad affrontare questioni dipendenti da quella già decisa, dovrà attenersi a ciò che ha accertato con la prima sentenza. ATTENZIONE: non bisogna confondere questo fenomeno con il fenomeno del giudicato. Infatti, l’esaurimento del potere del giudice non si ha solo con il giudicato, ma con ogni sentenza emessa. Cosa accade se il giudice emette con la forma di sentenza una decisione che avrebbe dovuto essere decisa con ordinanza? In questi casi si ha il principio di prevalenza della sostanza sulla forma: quindi, se il giudice, ad esempio, ammette una prova con sentenza ( avrebbe dovuto farlo con ordinanza), le parti comunque non possono impugnare il provvedimento ( perchè solo la sentenza può essere impugnata), ma il giudice potrà comunque riesaminare la questione ( perchè in realtà è un ordinanza, quindi il suo potere non si esaurisce). 30 l’an). Sotto due profili, però, la sentenza di condanna generica è equivalente ad una vera e propria sentenza di condanna: 1. La sentenza di condanna generica è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale sui beni del debitore, per l’ammontare che determina l’attore stesso sotto la sua responsabilità ( se esagera sarà responsabile per i danni derivati dall’aver iscritto un’ipoteca troppo alta). 2. Le prescrizioni più brevi di quella decennale si trasformano in prescrizione decennale quando i diritti che si prescrivono in termini più brevi sono oggetto di sentenza di condanna ( e anche si sentenza di condanna generica). 24. LA SENTENZA IN CASO DI PROCESSO CON CUMULO OGGETTIVO Se sono state propote più domande, il processo ha una pluralità di oggetti: ad esempio, una parte chiede il pagamento del capitale e degli interessi. La decisione può riguardare unitariamente tutti gli oggetti del processo oppure, se alcuni oggetti sono pronti per la decisione mentre altri no, può accadere che il giudice emetta sentenza sulle cause che possono essere decise e rimetta alla fase istruttoria le cause che ancora non hanno sufficienti elementi per essere decise. In quest’ultimo caso possiamo avere due alternative: A. Si ha un provvedimento di separazione delle cause, a cui segue la decisione di quelle mature e la rimessione in istruttoria di quelle non mature. In questo caso, seguiranno tante sentenze definitive quanti i gruppi di cause separate. B. Senza un provvedimento di separazione delle cause, si ha la decisione delle cause già mature ed è necessaria l’istanza di parte. In tal caso la sentenza emessa per prima non può essere considerata nè definitiva, nè non definitiva: è detta una sentenza parzialmente definitiva. Infatti, la sentenza esaurisce in maniera completa la richiesta di tutela di una domanda, ma in parte non tutela la richiesta di un’altra domanda. Utilizzando un paragone sportivo, la sentenza non definitiva è come un goal segnato in una partita: se l’altra squadra fa due goal e vince la partita, quel goal non è servito a nulla; la sentenza parzialmente definitiva è, invece, come aver vinto una partita e perdere quella successiva: i 3 punti della prima partita comunque non sono azzerati dalla successiva sconfitta. Ci si chiede se per le sentenze parzialmente definitive sia possibile la riserva di appello e di ricorso per Cassazione. La risposta parrebbe essere negativa, in quanto, proprio perchè la “vittoria” o la “sconfitta” nella prima partita non viene cancellata dalla seconda partita, sarebbe inutile aspettare l’esito della seconda partita ( la seconda udienza). Tuttavia, questa conclusione porterebbe a moltiplicare le impugnazioni: ci dovrebbe essere un’impugnazione immediata per la prima sentenza e una eventuale impugnazione immediata per la seconda sentenza. Per questo, si ritiene che la parte possa comunque riservarsi l’impugnazione, perchè, ad esempio, pur essendo soccombente nella prima sentenza, vuole riservarsi di capire come andrà la seconda sentenza, perchè, in caso di vittoria, tale vittoria potrebbe parzialmente cotrobilanciare la sconfitta precedente e, quindi, la parte non avrebbe più interesse a sostenere i costi dell’impugnazione. 31 25. GLI EFFETTI DELLA SENTENZA Dobbiamo ora vedere quando si producono gli effetti della sentenza. A. Le sentenze di condanna sono sempre immediatamente efficaci, in qualunque grado del processo siano emesse. B. Si discute, invece, sulle sentenze di accertamento e costitutive. L’opinione prevalente è che tali sentenze diventino efficaci quando passano in giudicato formale. Anche se si vuole affermare che la sentenza di condanna ha effetto immediato, tuttavia bisogna sempre tenere presente che il sistema istituisce dei mezzi di impugnazione ( appello e ricorso per Cassazione) in garado di modificare l’esito della sentenza di primo grado. In sostanza, quindi, si può anche affermare che la sentenza abbia efficacia dal momento della sua pubblicazione, ma tale efficacia potrebbe essere evanescente. Il altre parole, le uniche regole di condotta che vincolano le parti sono quelle contenute nell’ultima sentenza pronunciata: quelle contenute nei provvedimenti precedenti è come se non fossero mai venute ad esistenza. La sentenza, inoltre, ha effetto retroattivo almeno fino al momento della proposizione della domanda. Vi sono, però, dei casi in cui la sentenza non è retroattiva e si tratta delle sentenze che influiscono sullo status: ad esempio, l’efficacia di divorzio non ha efficacia retroattiva e, pertanto, i coniugi possono contrarre matrimonio solo quando la sentenza è passata in giudicato. 26. LA CORREZIONE DELLA SENTENZA Ai sensi degli artt. 287 ss. C.p.c., in alcuni casi per modificare gli effetti della sentenza non è necessaria l’impugnazione, ma è sufficiente un procedimento di correzione. In particolare, si distinguono due tipi di errori che possono colpire la sentenza: a. Errori di giudizio ( errori nella formazione della volontà del giudice): necessitano dell’impugnazione; b. Errori nella manifestazione della volontà: è sufficiente la correzione. Per “errori nella manifestazione della volontà” si intendono le omisioni, errori materiali o errori di calcolo. L’ipotesi più frequente si ha quando il giudice omette o indica in modo incompleto in nome delle parti. Se le parti sono d’accordo, essere propongono ricorso congiunto per la correzione e il giudice provvede con decreto. Se, invece, non sono d’accordo tutte le parti, allora bisogna instaurare il contraddittorio e, in tal caso, il giudice porvvede con ordinanza. La parte che non è d’accordo con l’ordinanza di correzione può impugnare la sentenza con riferimento esclusivamente alla correzione. 32 27. LA CONTUMACIA E L’ASSENZA La contumacia si ha quando una o più parti non si costituiscono nel processo. Per avere contumacia, dunque, occorre che un soggetto abbia acquisito la qualità di parte processuale ( che si acquisisce con la notificazione della citazione) e che tale parte non si costituisca, poi, nel processo. La contumacia è dichiarata con ordinanza del g.i. rispetto alla parte in senso processuale, ma dipende da un comportamento della parte in senso formale. Ad esempio, Tizio conviene in giudizio Caio ( parte processuale), minore, notificando l’atto di citadizione al legale rappresentante, Sempronio ( parte formale); se Sempronio non si costituisce in giudizio, allora Caio sarà dichiarato contumace. L’assenza si ha, invece, quando una parte, che si è costituita in giudizio, non partecipa ad una udienza. L’assenza non pone problemi in ordine alla disciplina processuale, in quanto non comporta alcuna modificazione delle regole ordinarie. La contumacia, invece, modifica lo svolgimento del processo, in quanto quando una parte è contumace si applicano alcune regole speciali. È bene subito precisare che nel nostro ordinamento la disciplina della contumacia è tutta incentrata in senso favorevole al contumace. Questo sembra essere un paradosso, in quanto ci si chiede perchè una parte che dimostra totale disinteresse a partecipare ad un processo di cui è parte debba essere tutelata dall’ordinamento. Ad esempio, in Austria e Germania, quando una parte è contumace, la parte che partecipa al processo può chiedere al giudice di emettere una sentenza contumaciale, la quale condanna il contumace ( o rigetta la sua domanda se egli è l’attore); il contumace, a questo punto può fare opposizione entro un termine e se entro tale termine non fa opposizione, la sentenza contumaciale passa in giudicato. Nel nostro ordinamento, invece, la contumacia non incide sul merito della decisione. Dal 1942 la disciplina derogatoria a favore del contumace si è ancora accentuata e si è arrivati a risultati che si possono definire addirittura grotteschi. Ecco un caso reale: Tizio propone domanda contro Caio, il quale si costituisce e ammette i fatti allegati da Tizio, contestandone solo le conseguenze giuridiche; ora, siccome i fatti sono pacifici, non vi è istruttoria, pertanto il giudice passa alla fase decisionale; nella fase decisionale, il giudice rileva d’ufficio un difetto nella costituzione in giudizio di Caio, il quale è come se fosse contumace e, pertanto, l’ammissione da lui svolta è come non ci fosse stata; allora, il giudice respinge la domanda di Tizio perchè non ha provato i fatti da lui allegati! È palese come vi sia un’asurdità di risultato. Vediamo, ora, le ipotesi che possono verificarsi in materia di contumacia e assenza: I. CONTUMACIA DI TUTTE LE PARTI. In tal caso il giudice non viene a consocenza del processo. La causa rimane quiescente per 3 mesi che decorrono dal termine ultimo di costituzione del convenuto ( 20simo giorno antecedente l’udienza indicata nella citazione) e entro i 3 mesi la causa può essere riassunta. Se il processo non è tempestivamente riassunto si estingue. II. ASSENZA DI TUTTE LE PARTI. Se le parti sono entrambe costituite ma nessuna appare alla prima udienza, il giudice deve fissare un’altra udienza, la data della quale deve essere comunicata dalla cancelleria ai difensori delle parti. Se anche in tale udienza le parti sono assenti il giudice dichiara l’estinzione del processo. III. ASSENZA DELL’ATTORE. Se tutte e due le parti sono costituite, ma in prima udienza è presente solo in convenuto, egli ha due alternative:  Chiedere che il processo prosegua in assenza dell’attore;  Fissare una nuova udienza che viene comunicata all’attore; se anche in tale udienza l’attore è assente: o Il convenuto può andare avanti come se nulla fosse; 35 pregiudiziale, ma solo su quello dipendente. Perchè vi sia la sospensione propria, quindi, non è sufficiente che vi sia un nesso di pregiudizialità-dipendenza, ma occorre che le due situazioni sostanziali siano oggetto di processi separati, pendenti di fronte a giudici diversi. Inoltre, anche quando vi sono più processi separati pendenti davanti a uffici gudiziari diversi oppure allo stesso ufficio giudiziario, anche se tra tali processi vi è un nesso di pregiudizialità-dipendenza, in alcuni casi il legislatore prevede che si possa arrivare alla realizzazione del simultaneus processus e non alla sospensione. La sospensione propria, quindi, presuppone che:  Vi sia un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra 2 situazioni sostanziali;  Che queste due situazioni sostanziali siano amebdue dedotte in giudizio;  Che non si realizzi il simultaneus processus. Dunque, se sussistono questi presupposti, il giudice del processo a valle deve sospendere il processo e attendere la definizione del processo a monte. Ad esempio, vi è un processo che deve decidere sugli alimenti che Tizio pretende da Caio e c’è un altro processo che deve decidere sul rapporto di filiazione che intercorre tra Tizio e Cio. il giudice del processo alimentare deve sospendere il proprio processo, attendere la definizione sullo status di figlio e recepire il contenuto di quella situazione nella sua decisione sugli alimenti. Ovviamente, la sentenza del processo che prosegue non può essere disattesa nel processo a monte, una volta ripartito, altrimenti non avrebbe senso sospendere un processo al fine di coordinarlo con la sentenza di un altro processo. Tuttavia, può accadere che le parti di un processo non siano le stesse parti dell’altro proesso e, in tal caso, per i limiti all’efficacia soggettiva della sentenza, può accadere che la sentenza di un processo non abbia effetti anche nei confronti del soggetto che è parte di un processo ma non dell’altro. Pertanto, la sospensione, qualora le parti dei due processi non siano le stesse, può operare soltanto se gli effetti della sentenza pregiudiziale possono produrre effetti anche nei confronti del soggetto che non è parte del processo pregiudiziale, ma soltanto di quello dipendente. Ad esempio, la sentenza emessa fra locatore e conduttore fa stato anche nei confronti del subconduttore ( la sospensione può avvenire); la sentenza non ha efficacia nei confronti degli aventi causa che abbiano acquistato/trascritto prima della proposizione/trascrizione della domanda ( la sospensione non può avvenire, in quanto non vincolerebbe il giudice del cui processo è parte l’avente causa). Tutti questi 3 tipi di sospensione possono essere, inoltre, distinti tra:  Sospensione legale: è quella che si verifica automaticamente al verificarsi della fattispecie prevista dalla legge. Pertanto, l’ordinanza del giudice che sospende il processo ha una valenza meramente ricognitivo. Anche se il giudice non emette tale ordinanza, il processo è comunque sospeso e, pertanto, gli atti processuali compiuti dopo la sospensione sono nulli.  Sospensione giudiziale: è quella in cui, pur essendo prevista dalla legge come la sospensione legale, l’ordinanza del giudice ha efficacia costitutiva dell’effetto sospensivo. Pertanto, se il giudice non emette l’ordinanza, gli atti processuali sono validi. Sarà, dunque, il giudice dinanzi al quale ( eventualmente) è impugnata la sentenza ( viziata dalla mancata sospensione) ad emettere il provvedimento di sospensione non emesso dal gudice di primo grado, sempre che, nel momento in cui pronuncia, siano ancora esistenti i presupposti per la sospensione: se, infatti, nel frattempo la sentenza pregiudiziale è passata in giudicato, la sospensione non avrebbe senso e, dunque, il giudice di appello si limiterà a recepire quando disposto dalla sentenza pregiudiziale e basare su ciò la sentenza di appello. 36 Come detto, la sospensione è disposta con ordinanza del giudice o del collegio ( se il giudice non è monocratico). Effetti. La sospensione interrompe i termini in corso, i quali ricominciano a decorrere ex novo dalla ripresa del processo. Durante la sospensione non possono essere compiuti atti processuali, con due eccezioni importanti: a. Tutela cautelare: anche durante il processo sospeso possono verificarsi ipotesi nelle quali è necessario l’intervento cautelare; anzi, esso sarà ancora più necessario perchè i termini processuali, ovviamente, si allungheranno a seguito della sospensione. b. Il giudice di un processo sospeso può comunque autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti. La riassunzione del processo sospeso deve avvenire entro 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza sulla questione pregiudiziale, altrimenti la causa si estingue. Ove la controversia sospesa sia riassunta prima che sia passata in giudicato la sentenza sulla causa pregiudiziale, secondo la Corte di Cassazione il giudice della causa dipendente potrà decidere se mantenere la sospensione o procedere. Qualora il giudice decida di procedere, dovrà comunque attenersi a quanto deciso sulla questione pregiudiziale ( anche se la sentenza non è passata in giudicato), sicchè se questa poi è modificata in sede d’impugnazione la sentenza emessa nella causa dipendente può essere automaticamente caducato. 29. L’INTERRUZIONE L’istituto dell’interruzione risponde alla ratio di garantire l’effettività del contradditorio nelle ipotesi in cui si verifichino degli eventi che pregiudichino il diritto di difesa o di azione di una delle parti. L’interruzione avviene, dunque, quando da un lato il legislatore attribuisce alla parte determinati poteri processuali, ma dall’altro, in vitù di certi eventi, la parte è gravemente impedita o impossibilitata a compiere gli atti che costituiscono l’esercizio del suo potere. Tali fatti sono elencati dall’art. 299 c.p.c.: Morte della parte; Morte del rappresentante legale; Perdita della capacità della parte ( interdizione); Perdita della capacità del rappresentante legale ( interdizione); Cessazione della rappresentanza legale. Ad esempio, nel caso in cui il maggiorenne venga interdetto nel corso del processo, egli di fatto non può più compiere gli atti processuali; allora, per ristabilire il contraddittorio, occorre interrompere il processo e fare sì che sia ripreso ( riassunto o proseguito) dal suo rappresentante legale. Occorre innanzitutto distinguere a seconda del momento in cui si verificano gli eventi sopra individuati: 1. Prima della proposizione della domanda giudiziale. In tal caso non si ha interruzione, in quanto il processo non è ancora iniziato. Se la parte viene meno prima della proposizione della domanda giudiziale, si ha un processo inesistente, che in nessun modo può essere sanato. Se, invece, non si 37 ha la morte della parte, ma la perdita della capacità, allora il giudice riscontra un difetto di rappresentanza e dà un termine per sanare il vizio. 2. Dopo la proposizione della domanda giudiziale ma prima della costituzione in giudizio. Si ha interruzione automatica del processo, in quanto non è necessario un provvedimento del giudice che dichiari l’interruzione. O meglio, il provvedimento del giudice è meramente ricognitivo. Gli atti compiuti dopo il verificarsi dell’evento interruttivo sono nulli ( uguale alla sospensione). 3. Tra la costituzione delle parti e l’udienza di discussione della causa ( ultima del processo). Questa ipotei abbraccia la maggior parte del processo e si distingue a sua volta in 3 sottoipotesi: a. Il fenomeno interruttivo riguarda un soggetto che è costituito in giudizio attraverso un rappresentante tecnico. In tal caso l’interruzione si verifica non automaticamente, ma solo quando il difensore della parte lo dichiara in udienza o notifica l’avverarsi di tale evento alle parti. Dunque, se il difensore non lo dichiara, il processo va avanti normalmente. Tuttavia, anche il difensore non lo dichiara ma la controparte viene a conoscenza dell’evento interruttivo, può chiamare direttamente in causa ( riassunzione) i soggetti a cui spetta la prosecuzione del processo, per evitare che il difensore faccia interrompere il processo in un momento favorevole. Anche in questo caso gli atti comiuti quando il processo è interrotto sono nulli. b. La parte è costituita in giudizio autonomamente senza difensore tecinco ( es. è un avvocato e si difende da sola). Il tale ipotesi l’interruzione è automatica. c. L’evento interruttivo colpisce il contumace. In tal caso il processo è interrotto dal momento in cui l’evento è documentato dalla controparte, oppure è notificato, oppure è attestato dall’ufficiale giudiziario in occasione della notificazione di uno di quegli atti che devono essere notificati al contumace. i caso l’evento è irrilevante, in quanto ormai il contraddittorio è terminato, nel senso che spetterà solo al giudice pronunciare la sentenza. Tuttavia, nel caso di sentenza non definitiva accoppiata ad un’ordinanza di rimessione in istruttoria, allora si applicheranno le regole di cui al punto 3. Queste ipotesi che sono state analizzate si riferiscono alla parte processuale. Tuttavia, la maggior parte degli atti del processo sono compiuti dalla parte in senso formale, ossia dal rappresentante tecnico. Anche gli eventi involontari che impediscono il compimento degli atti da parte del rappresentante tencico sono causa di interruzione del processo. In particolare, si tratta delle ipotesi di morte o di perdita dello ius postulandi ( potere di stare in giudizio per conto della parte) a causa della radiazione o sospensione dall’albo. La cancellazione volontaria dall’albo o la revoca volontaria del mandato al difensore non costituiscono, invece, cause di interruzione in quanto sono atti volontari. Gli atti interruttivi che riguardano il difensore sono causa di interruzione automatica. Occorre, infine, vedere come viene ripreso il processo interrotto:  Prosecuzione: l’iniziativa per rimettere in moto il processo è presa dalla parte in relazione alla quale si è verificato l’evento interruttivo. Si ha, dunque, la costituzione volontaria della parte interessata. La prosecuzione può avvenire anche prima della pronuncia di interruzione, quando si sia già verificato l’evento.  Riassunzione: è la controparte che prende l’iniziativa di rimettere in moto il processo. Essa deve compiere un atto di riassunzione del processo che contenga la vocatio in ius della parte che avrebbe potuto spontaneamente proseguire il processo. Occorre, dunque, caso per caso individuare quali sono i soggetti che debbono proseguire il processo. Se l’interruzione è stata causata dalla morte della parte processuale, la riassuzione deve 40  Se l’estinzione è eccepita nella fase di trattazione si pronuncia il g.i. con ordinanza; se l’ordinanza rigetta la richiesta di estinzione, essa non è immediatamente reclamabile al collegio, ma la questione ( di estinzione) può essere riproposta con la precisazione delle conclusioni. Tuttavia, se con l’ordinanza il g.i. accoglie la richiesta di estinzione, tale ordinanza estingue il processo: pertanto, la precisazione delle conclusioni non ci sarà ed è, dunque, necessario un controllo preventivo della ordinanza del g.i.: per questo, l’ordinanza di accoglimento è reclamabile immediatamente al collegio, il quale si pronuncia con ordinanza ( se accoglie il reclamo) o con sentenza ( se respinge il reclamo e, dunque, definisce il processo).  Se l’estinzione è eccepita nella fase di decisione si pronuncia il collegio con sentenza, tranne nel caso in cui la rigetti e non ponuncia sentenza, ma solo un’ordinanza istruttoria. B. Se la decisione è monocratica il discorso è più semplice: l’eccezione di estinzione è decisa con ordinanza se è rigettata, mentre è decisa con sentenza se è accolta. Effetti. La dichiarazione di estinzione ha effetto retroattivo: il processo si considera estinto non da quando vi è stata la pronuncia del giudice, ma da quando è maturata la fattispecie estintiva. Inoltre, anche l’estinzione per inattività non estingue l’azione ( come per l’estinzione per rinuncia agli atti). L’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, con due eccezioni: o Mantengono effetti le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo ( ovviamente si tratta di sentenza non definitive, percè se fossero state definitive il processo non ci sarebbe più stato e, quindi, non si sarebbe nemmeno potuta verificare l’estinzione). o Mantengono effetti le sentenze della Cassazione a sezioni unite pronunciate circa una questione di giurisdizione di quel processo che si è estinto. Prove raccolte. Le prove raccolte ( all’interno del processo che si è estinto) sono valutate dal giudice ( di un nuovo processo avente lo stesso oggetto) come argomenti di prova. Tuttavia, è bene precisare, che le prove precostituite utilizzate nel primo processo estinto mantengono la loro normale efficacia probatoria, in quanto non si sono costiuite all’interno di un processo dichiarato estinto. Inoltre, si ritiene che anche le prove legali mantengano la loro normale efficacia di piena prova, in quanto la loro efficacia non è valutata dal giudice ( del processo estinto), bensì direttamente dalla legge: dunque, il giudice del nuovo processo non è vincolato da un altro giudice, bensì direttamente dalla legge. Quindi, si può affermare che degradano ad argomenti di prova solamente le prove liberamente valutabili dal giudice assunte nel corso del processo estinto. 31. IL PROCEDIMENTO INNANZI AL GIUDICE DI PACE ( VD. PAGG. 276-277 LUISO ) 41 32. I PROFILI GENERALI DELLE IMPUGNAZIONI Il sistema delle impugnazioni ha come costante funzione quella di modificare o annullare delle sentenze emesse. Per capire meglio la sua funzione occorre ipotizzare che il sistema delle impugnazioni non esistesse. Se non esistessero le impugnazioni, ci troveremmo in uno stato di natura nel quale l’invalidità della sentenza ( es. sentenza emessa da un giudice monocratico anzichè collegiale) porterebbero all’inefficacia della sentenza stessa, la quale potrebbe essere fatta valere in qualsiasi sede ( quindi anche in via incidentale) finchè non abbiano operato i meccanismi di sostanziali stabilizzanti ( es. usucapione). Inoltre, in tale stato di nautra sarebbe totalmente irrilevante l’eventuale ingiustizia della sentenza, ossia il fatto che le regole di condotta ordinate nella sentenza non trovino fondamento nella realtà sostanziale esistente. Per questo, oggi tutti gli ordinamenti moderni prevedono un sistema di impugnazione volto a superare questi limiti in due direzoni: A. In direzione degli errores in iudicando ( quelli che portano all’ingiustizia della sentenza), l’ordinamento ha creato degli strumenti per reagire all’ingiustizia della sentenza: con l’appello, infatti, si può far valere l’errore di giudizio in cui è incorso il primo giudice, allorchè ha negato un fato storico esistente o ha effermato l’esistenza di un fatto storico inesistente. B. Nella direzione degli errores in procedendo ( ossia errori procedurali), l’ordinamento ha previsto che essi possano essere rimossi attraverso gli stessi strumenti di impugnazione previsti per gli errori in iudicando. Si arriva, dunque, a 2 miglioramenti: 1. Il fatto che gli errori in procedendo debbano essere rilevati e corretti in un modo predeterminato ( attraverso strumenti di impugnazione) e non in qualunque sede e qualunque modo, fa si che essi possano essere rilevati entro un termine, nettamente inferiore rispetto a quello in cui si realizzerebbe nello stato naturale l’esistenza di meccanismi sostanziali stabilizzanti, con conseguente maggiore certezza del diritto. Infatti, se non ci fossero i mezzi di impugnazione, da quanto detto sopra, risulterebbe che, ad esempio, Tizio potrebbe far valere un vizio della sentenza che ha attrbuito la proprietà a Caio sul bene immobile X entro 20 anni, ossia entro il termine di usucapione ( in quale, essendo un modo di acquisto della proprietà a titolo originiario, elimina i diritti pendenti). 2. L’estenzione dei mezzi di impugnabilità anche agli errores in iudicando fà si che la sentenza abbia un contenuto più aderente alla realtà sostanziale e sia, quindi, più giusta. Il motivo per cui la decisione del “secondo” giudice è più attendibile non è perchè egli è più bravo del primo, ma semplicemente perchè ha la possibiità di basarsi su elementi che sono già stati analizzati dal primo giudice, incentrando la sua attenzione sulle motivazioni dell’impugnazione e, quindi, sugli aspetti della sentenza che la parte che impugna ritiene non giusti. Oggetto di impugnazione, ai sensi dell’art. 323 c.p.c., sono solo le sentenze. Le ordinanze non sono impugnabili, in quanto, dovendo essere poi riesaminate in sede decisionale, non possono mai pregiudicare la decisione della causa. Anche nel caso di ordinanze non revocabili ( dunque potenzialmente idonee a pregiudiacare la causa), si nota che in reltà esse non pregiudicano nulla, in quanto sono quelle o accordate dalle parti, o quelle reclamabili direttamente al collegio. Uno dei problemi più delicati si ha quando il giudice emette un provvedimento nella forma sbagliata: es. emette al posto di una sentenza un’ordinanza. In tal caso, prevale la forma che in astratto avrebbe dovuto utilizzare e non la forma utilizzata in concreto: pertanto, l’ordinanza emessa al posto della sentenza sarà impugnabile. 42 All’interno dei mezzi di impugnazione occorre fare delle distinzioni preliminari importanti:  Mezzi d’impugnazione ordinari vs. Mezzi di impugnazione straordinari:  Ordinari: realizzano una prosecuzione del processo di primo grado e, quindi, c’è un’unica litispendenza;  Straordinari: sono azioni sotto veste di impugnazione, pertanto costituiscono un processo separato, solo esteriormente collegato al processo precedente.  Mezzi di gravame vs. Mezzi di impugnazione in senso stretto:  Mezzi di gravame: la parte soccombente ha il potere di provocare direttamente il riesame della pronuncia impugnata semplicemente lamentandone l’ingiustizia. Il rigetto comunque si sostituisce alla sentenza precedente, in quanto il giudice riesamina l’intera causa;  Mezzi di impugnazione in senso stretto: la parte soccombente deve affermare e provare che nel provvedimento impugnato è presente uno dei vizi tassativamente previsti dal legislatore per quel mezzo di impugnazione. Il rigetto lascia intoccata la sentenza precedente. 33. IL GIUDICATO FORMALE E LE IMPUGNAZIONI STRAORDINARIE Nel nostro ordinamento i mezzi di impugnazione sono previsti dal legislatore all’art. 323 c.p.c. secondo un principio di tipicità. Essi sono:  Appello;  Ricorso per Cassazione;  Revocazione;  Opposizione di terzo;  Regolamento di competenza. L’art. 324 c.p.c. disciplinala, invece, il giudicato formale, affermando che esso si verifica quando la sentenza non è soggetta a taluni mezzi di impugnazione o perchè si è perso il potere di proporli ( per decorso dei termini), o perchè sono già stati esperiti. Al giudicato formale ( che riguarda la sentenza come atto) si contrappone il giudicato sostanziale ( che riguarda gli effetti di merito della sentenza): in realtà, però, si tratta di due faccia della stessa medaglia, in quanto se la sentenza come atto acquista stabilità, anche i suoi effetti acquisiscono tendenzialmente stabilità. Ebbene, i mezzi di impugnazione che, se non possono più essere proposti o sono già stati esperiti, determinano il passaggio in giudicato formale della sentenza, sono le impugnazioni ordinarie: appello, ricorso per Cassazione, regolamento di competenza e revocazione ordinaria. Ai mezzi di impugnazione ordinari si contrappongono i mezzi di impugnazione straordinari ( residui motivi di revocazione, opposizione di terzo ordinaria, opposizione di terzo revocatoria). Le impugnazioni straordinarie possono essere proposte anche dopo che la sentenza sia passata in giudicato formale, in quanto tali impugnazioni sono determinate da vizi occulti, ossia vizi che si verificano dopo il passaggio della sentenza in giudicato formale. Le impugnazioni ordinarie, invece, sono determinate da vizi palesi, i quali si manifestano quando la 45 richiesta: se fosse stata rigettata la domanda in rito ( come richiesto) la domanda stessa sarebbe stata riproponibile dall’attore, mentre in questo caso il rigetto in merito rende, addirittura, irriproponibile la stessa domanda.  Il convenuto si è difeso sia in rito sia in merito e il giudice ha rigettato la domanda in merito: il convenuto ha ottenuto la tutela maggiore, pertanto, non ha nè interesse ad impugnare nè la legittimazione ad impugnare.  Il convenuto si è difeso sia in rito sia in merito e il giudice ha rigettato la domanda in rito: ATTENZIONE. Si sarebbe portati a dire che il convenuto è soccombente in quanto il rigetto in rito gli dà meno tutele del rigetto in merito. Tuttavia, tale conclusione è sbagliata: infatti, in convenuto, chiedendo anche la difesa in merito, non può comunque influenzare l’ordine di esame delle questioni: in altre parole, il giudice esamine prima le questioni di rito sollevate e, se le ritiene tali da decidere il processo non esamina nemmeno le questioni di merito: perciò in tal caso il giudice non è che non ha accolto la questione di merito, bensì non l’ha proprio esaminata, avendo accolto la questione di rito.  Il convenuto si difende in merito, ma il giudice rigetta la domanda in rito ( rilevando d’ufficio la mancanza di un presupposto processuale): in tal caso il convenuto ha legittimazione ad impugnare, in quanto ha ottenuto una tutela minore di quella richiesta.  Il convenuto si difende facendo valere più eccezioni di rito e il giudice ne accoglie solo una: in tal caso il convenuto non ha interesse ad impugnare, in quanto il rigetto di rito comporterebbe lo stesso effetto sia che sia pronunciato sulla base di una solo delle questioni di rito sollevate, sia che sia pronunciato sulla base di tutte.  Il convenuto si è difeso solo in merito allegando più fatti impeditivi o estintivi. In tal caso no si ha legittimazione ad impugnare, in quanto, in base al principio della ragione più liquida, il giudice rigetta la domanda quando accerta l’esistenza anche di un solo fatto impeditivo o estintivo e, quindi, non analizza nemmeno gli altri. Se non vi è interesse e/o legittimazione ad impugnare, il soggetto non può impugnare per primo. Tuttavia, se la sentenza è impugnata dalla controparte, allora la parte vittoriosa può comunque a sua volta impugnare quelle questioni che sono state rigettate o assorbite nella sentenza impugnata. Si parla, in tal caso, di soccombenza virtuale: quando non vi è soccombenza effettiva ma, comunque, se la controparte impugna si può impugnare a propria volta le questioni che sono state rigettate o assorbite nella sentenza impugnata. Si ha, invece, soccombenza reciproca quando il giudice abbia accolto solo in parte la domanda e solo in parte le difese del convenuto: in tal caso, entrambe le parti possono impugnare per prime. Infine, occorre precisare che nel processo oggettivamente cumulato ci sono tante sentenze quanti gli oggetti. Pertanto, per ciascuna sentenza si faranno i ragionamenti sopra esposti per capire chi abbia l’interesse e la legittimazione ad impugnare: si applica, dunque, il brocardo “tot capita, tot sententiae”. Se una parte risulta vincente in una sentenza e soccombente nell’altra, allora si ha la situazione si soccombenza reciproca: attore e convenuto possono entrambi impugnare per primi. 46 35. I TERMINI PER IMPUGNARE E L’ACQUIESCENZA Il potere di impugnazione, se non esercitato, si può perdere per due ragioni: per decorso dei termini o per acquiescenza. A. DECORSO DEI TERMINI. I termini per proporre le impugnazioni sono fondamentalmente due: il termine breve e il termine lungo.  Termine breve:  Regolamento di competenza, appello, revocazione e opposizione di terzo = 60 gg.  Ricorso per Cassazione = 30 gg. La decorrenza del termine può iniziare in 3 momenti diversi: o Notificazione della sentenza. Di regola, la decorrenza dei termini inizia a partire dalla notificazione della sentenza. La notificazione della sentenza deve essere fatta al difensore della parte. Deve essere, invece, fatta alla parte personalmente quando non vi è stata costituzione in giudizio a mezzo di un difensore ( contumacia o parte è un avvocato). La notificazione fa iniziare a decorrere il termine sia per il notificante, sia per il notificato. o Comunicazione della sentenza. Per il regolamento di competenza, i termini decorrono dalla comunicazione del provvedimento. o Conoscenza del vizio occulto. Come detto in precedenza, per i mezzi di impugnazione straordinari il termine di impugnazione inizia a decorrere dal momento della conoscenza del vizio occulto che rende impugnabile la sentenza passata in giudicato formale.  Termine lungo: esso vale solo per le impugnazioni ordinarie ed è di 6 mesi dal momento della pubblicazione della sentenza e si applica sempre in mancanza di previsione di un termine breve. Il termine lungo non decorre nei confronti della parte contumace che dimostri di non essersi costituita perchè non ha avuto notizia del processo a causa della nullità della citazione. ATTENZIONE: mentre alla nullità della notificazione segue sempre la mancanza di consocenza del processo, per la nullità della citazione non è sempre detto: può essere infatti, che la notificazione della citazione è stata effettuata correttamente, ma la citazione è nulla perchè non rispetta i termini per comparire: in tal caso il convenuto è comunque a conoscenza del processo, pertanto, anche se contumace, non godrà dell’interruzione dei termini per impugnare. La sentenza affetta da vizi relativi all’instaurazione del contraddittorio dà luogo ad un’ipotesi di querela nullitatis: per far valere il vizio occorre impugnare la sentenza, senza limiti di tempo. B. ACQUIESCENZA ( art. 329 c.p.c.). Si distingue in due sottocategorie: 1. Acquiescenza espressa o tacita ( c.1). Consiste nella espressa o tacita manifestazione di volontà di una parte di accettare la sentenza. Non si ha manifestazione tacita quando ad es., una parte parzialmente vittoriosa notifica la sentenza per far decorrere i termini per l’impugnazione. Si ha manifestazione tacita, ad es., quando la parte soccombente adempie a una pronuncia non esecutiva ( se fosse stata esecutiva no, in quanto dovrebbe adempiere comunque per evitare l’esecuzione forzata). L’acquiescenza tacita o espressa è, dunque, un negozio processuale, nel senso che è un’espressione di volontà delle parti. 2. Acquiescenza tacita qualificata ( c.2). Non è un negozio processuale, ma un atto giuridico in senso stretto: “l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate”. Se la parte soccombente, dunque, il un processo comulato, impugna la parte 47 della sentenza attinente al primo oggetto, ma non contenstualmente quella relativa al secondo oggetto, allora perde la possibilità di impugnare la parte di sentenza relativa al secondo oggetto. Nell’acquiescenza tacita qualificata, dunque, non è rilevante la volontà della parte ( diverso rispetto all’acquiescenza espressa o tacita). L’acquiescenza è possibile solo quando il potere di impugnare è sorto: non è, dunque, ammissibile l’acquiescenza preventiva. Pertanto, con riferimento alle impugnazioni straordinarie, non si può avere acquiescenza fino a che il vizio occulto non si è palesato. Inoltre, se ne ricava che non è mai possibile l’acquiescenza prima della pubblicazione della sentenza, perchè fino a quel momento non esiste il potere di impugnare. 36. LA PLURALITA’ DI PARTI NEI PROCESSI DI IMPUGNAZIONE Se più parti hanno preso parte al processo a quo, occorre chiedersi quando debbano prendere parte tutti i soggetti e quando, invece, è sufficiente che al processo di impugnazione prendano parte i soggetti titolari della situazione dedotta in giudizio. Il problema, dunque, non riguarda strettamente solo le ipotesi di processo soggettivamente cumulato, ma anche oggettivamente cumulato. Cioè: poniamo che la sentenza abbia deciso dei rapporti A, B e C e Tizio vuole impugnare solamente il rapporto B: all’impugnazione deve partecipare solo il titolare del rapporto B o anche i titolari dei rapporti a e B? La risposta è che dipende: in alcuni casi al processo di impugnazione devono prendere parte tutti i titolari delle situazioni sostanziali dedotte nel primo giudizio, mentre in altri casi sarà sufficiente la presenza dei titolari del rapporto impugnato e la sola notificazione del’impugnazione alle altre parti che avevano preso parte al processo di primo grado. Abbiamo, dunque due alternative: 1. Art. 331 c.p.c.. Quando si tratta di causa inscindibile o di cause dipendenti, l’impugnazione deve essere proposta nei confronti di tutte le parti: l’impugnazione, dunque, deve investire tutto quanto già deciso nella precedente fase. L’impugnazione, dunque, deve essere proposta ab origine ne confronti di tutte le parti del processo di primo grado. Se l’impugnante non adempie a tale obbligo, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio; se nessuno provvede ad integrare il contraddittorio l’impugnazione è dichiarata inammissibile. Tale disciplina mira a garantire l’unicità della fonte della disciplina impartita: o si ridiscute di tutto quando deciso nel processo di primo grado, o non si ridiscute di nulla. 2. Art. 332 c.p.c.. Nelle ipotesi disciplinate dall’art. 332 c.p.c. non è necessario portare davanti al giudice d’impugnazione il rapporto che fa capo alle altre parti: la sentenza può essere impugnata anche solo nei confronti di una delle parti, salvo l’obbligo di notificare l’impugnazione anche alle altre parti ( ma non è necessario chiamarle in giudizio!). La notificazione, però, non deve essere fatta nei confronti di tutte le parti, ma solo di quelle che hanno ancora il potere di impugnare la sentenza stessa, ossia quelle che non hanno perso il potere per decorso dei termini o acquiescenza. Questo perchè tale disciplina mira a garantire l’unicità del processo di impugnazione. Dunque, se nessuna delle parti esegue l’ordine del giudice di effettuare la notificazione, allora il giudice non dichiarerà inammissibile l'impugnazione, bensì si limiterà ad arrestare il processo fino a che non siano decorsi i termini per impugnare per le altre parti e, seccessivamente, ricomincia il processo di impugnazione. In 50 antecedente alla data fissata per la prima udienza di comparizione: se entro tale data non è stato depositato l’atto contenente l’impugnazione incidentale, essa diventerà inammissibile. Quindi, scaduto il termine per compiere l’atto di difesa proprio di quel mezzo di impugnazione, l’impugnazione non è più ammissibile, nè in forma incidentale, nè in forma principale. Riunione delle impugnazioni. In due casi può accadere che il meccanismo dell’art. 333 c.p.c. non sia sufficiente a garantire l’unicità del processo: 1. Quando le impugnazioni proncipali si icrociano tra loro, nel senso che sono proposte quasi contemporaneamente e, quindi, ciascuna parte riceve la notificazione dell’impugnazione dell’altra quando a sua volta ha già proposto l’impugnazione in via principale. 2. Se colui che impugna in via principale non notifica l’impugnazione alle altre parti soccombenti, allora il giudice del processo di impugnazione principale dilazione la trattazione del processo, aspettando che per le altre parti soccombenti scadano i termini per impugnare. Se, entro tali termini, esse vogliono impugnare, necessariamente lo faranno in via principale, in quanto non hanno ricevuto la notificazione dell’impugnazione già avvenuta. Per risolvere questi casi e garantire comunque l’unicità del processo interviene il meccanimo di riunione delle impugnazioni: il cancelliere trasmette al giudice dell’impugnazione un fascicolo contenente gli atti del processo di primo grado. Ebbene, tale fascicolo è uno solo: per cui, il giudice dell’impugnazione al quale non sia trasmesso tale fascicolo, deve dedurre che sia stata già proposta un’altra impugnazione in via principale e, pertanto, i processi separati vengono riuniti. Impugnazione incidentale tardiva. L’art. 334 c.p.c. prevede che le parti possano impugnare in via incidentale tardiva quando la sentenza è divenuta nei loro confronti definitiva ( es. perchè soccombente solo virtuale o per acquiescenza). Cioè: qualora l’impugnazione principale sia stata fatta da altri ( per i quali la sentenza non era definitiva) e tale impugnazione è stata notificata agli altri soccombenti, allora essi potranno impugnare in via incidentale anche quando nei loro confronti la sentenza era ormai divenuta definitiva. ATTENZIONE: non bisogna confondere l’impugnazione incidentale tardiva con l’impugnazione incidentale inammissibile: l’impugnazione incidentale è inammissibile quando è decorso il termine entro il quale depositare l’atto di difesa contenente l’impugnazione ( 20simo giorno antecedente alla data fissata per la prima udienza di comparizione), mentre l’impugnazione incidentale è tardiva quando è proposta nell’atto di difesa in un momento cui la sentenza impugnata è divenuta definitiva. Pertanto, anche l’impugnazione tardiva può essere inammissibile. Impugnazione della non definitiva. L’impugnazione incidentale può investire anche una non definitiva. Occorre distinguere che la parte soccombente sulla non definitiva sia soccombente o vittoriosa sulla definitiva: A. Se la parte soccombente sulla non definitiva è soccombente anche sulla definitiva, egli è l’unico che può impugnare e lo deve fare congiuntamente ( nello stesso tempo deve impugnare definitiva e non definitiva), altrimenti il suo potere si estingue per acquiescenza. Ovviamente, occorre precisare che per impugnare la non definitiva occorre essersi riservati l’impugnazione. B. Se la parte soccombente sulla non definitiva è vittoriosa sulla definitiva, egli non può impugnare in via principale: la impugnazione principale può avvenire solo dalla controparte ( soccombente sulla definitiva) e, a quel punto, si potrà impugnare in via incidentale la non definitiva. È da notare una cosa: siccome l’impugnazione incidentale tardiva si può effettuare dopo che la sentenza impugnata sia divenuta definitiva nei confronti dell’impugnante, ecco che in questo caso la riserva 51 d’impugnazione della non definitiva diventa superflua, in quanto il soccombente avrebbe comunque il diritto di impugnare in via incidentale tardiva. 38. L’INAMMISSIBILITA’, L’IMPROCEDIBILITA’ E L’ESTINZIONE NEI PROCESSI DI IMPUGNAZIONE Nel processo di primo grado il giudice deve affrontare due tipi di questioni: deve innanzitutto affrontare le questioni di rito e, se dall’esame emerge la possibilità di pronunciare nel merito, allora, in secondo luogo, esamina le questioni di merito. Il giudice dell’impugnazione, invece, deve svolgere una triplice attività: deve, innanzitutto, valutare i presupposti di dedicibilità dell’impugnazione, ossia deve decidere se l’impugnazione possa essere decisa. A questo punto, passa ad analizzare le impugnazioni relative al rito e al merito. La dedicibilità dell’impugnazione può essere negata dall’inammissibilità, dall’improcedibilità e dall’estinzione: mentre inammissibilità e improcedibilità sono istituti peculiari di tutti i mezzi di impugnazione, l’estinzione è propria soltanto di alcuni di essi. INAMMISSIBILITA’. Non vi è una difinizione legislativa di inammissibilità. Pertanto, occorre partire dalle singole norme che contengono tale termine per poi arrivare a tracciare una disciplina generale. Si parla di inammissibilità in diverse occasioni: 1. In tema di cause inscindibili o tra loro dipendenti è previsto che se nessuno provvede all’integrazione del contraddittorio entro il termine fissato dal giudice l’impugnazione è dchiarata inammissibile; 2. In tema di appello, esso è dichiarato inammissibile quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolto; 3. L’appello è inammissibile se non contiene gli elementi indicati nella norma; 4. Il ricorso per Cassazione è inammissibile quando il giudizio impugnato ha deciso in modo conforme all’orientamento della Corte; 5. Il ricorso per Cassazione è inammissibile quando non è sottoscritto da un avvocato iscritto all’apposito albo e munito di procura speciale; 6. Il ricorso per Cassazione è inammissibile quando non contiene gli elementi indicati nella norma; 7. La citazione in tema di revocazione deve contenere il motivo della revocazione a pena di inammissibilità. Da queste norme si può ricavare una ratio comune: l’impugnazione diviene inammissibile quando vi è un vizio che attiene all’atto introduttivo. Pertanto, possiamo arrivare ad ampliare il concetto di inammissibilità anche a casi non espressamente previsti dal legislatore. Ad esempio: a. Non c’è una disciplina che regoli l’ipotesi di impugnazione fuori termine. Essa è un’impugnazione viziata nel suo atto costitutivo, perciò possiamo dire che è inammissibile; b. Mezzo di impugnazione errato: inammissibile; c. Impugnazione proposta dalla parte non soccombente: inammissibi le. 52 IMPROCEDIBILITA’. Anche l’improcedibilità non è espressamente disciplinata in modo unitario, ma sono presenti norme disordinate che nominano il fenomeno dell’improcedibilità. Da tali norme ricaviamo che l’improcedibilità sanziona l’inattività dell’impugnante. Tuttavia, da tali norme non possiamo tarrre una ratio generale, pertanto, l’improcedibilità non può essere ampliata per analogia a casi non previsti dal legislatore. Effetti. È bene precisare che il problema di distinzione tra improcedibilità e inammissibilità è più teorico che pratico, in quanto gli effetti prodotti dall’uno e dall’altro fenomeno sono identici. L’inammissibilità e l’improcedibilità determinano l’impossibilità di riproporre quel mezzo di impugnazione. ATTENZIONE: non sempre questo determina il passaggio in giudicato formale della sentenza la cui impugnazione è stata dichiarata inammissibile o improcedibile. Infatti, può capitare che possano comunque essere proposti altri mezzi di impugnazione; ciò si verifica quando: a) Concorso di più mezzi di impugnazione: in tal caso è possibile proporre l’altro mezzo di impugnazione; b) Errore nella scelta del mezzo di impugnazione: è possibile proporre il mezzo di impugnazione “giusto”; c) Cause inscindibili o dipendenti: Tizio impugna nei confronti di Caio e il giudice ordina di chiamare in giudizio anche Sempronio; se le parti non adempiono all’ordine, il processo diviene inammissibile; ebbene, se Sempronio ha ancora il potere di impugnare, nulla vieta che egli possa impugnare la stessa sentenza impugnata precedentemente da Tizio nei confronti di Caio. d) Inammissibilità perchè, quando l’impugnazione era stata proposta, non era ancora venuto ad esistenz un presupposto, il quale viene ad esistenza successivamente. ESTINZIONE ( art. 338 c.p.c.). L’estinzione determina il passaggio in giudicato formale della sentenza impugnata. L’estinzione del processo di impugnazione ( come nel processo di primo grado) si può avere per due ragioni: 1. Rinuncia agli atti. Proviene dall’impugnante principale e deve essere accettata da tutte le parti che abbiano proposto impugnazione incidentale, anche tardiva.. È frequente che tale estinzione avvenga sulla base di un accordo tra le parti, che può essere o meno formalizzato nel processo come conciliazione. 2. Per inattività. Questo tipo di estinzione fa riferimento soltanto all’appello e alla revocazione ordinaria. Infatti, il ricorso per Cassazione, una volta proposto, procede d’ufficio, senza la necessita di compimento di atti da parte delle parti e, quindi, è impossibile che si verifichi un’inattività delle parti. Inoltre, non si applica nemmeno alle impugnazioni straordinarie, in quanto l’effetto dell’estinzione è sempr il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e, ovviamente, l impugnazioni straordinarie sono proponibili solo dopo che tale passaggio sia avvenuto. L’ultima parte dell’art. 338 c.p.c. solleva dei problemi. Essa, infatti, stabilisce che la sentenza impugnata passa in giudicato “salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto”. Occorre capire cosa di intenda per “provvedimenti” ed, in particolare, se il termine si riferisca solo alle sentenze ( evidentemente non definitive) o anche alle ordinanze. La giurisprudenza prevalente ritiene che ci si riferisca esclusivamente alle sentenze e, dunque, se si verifica l’estinzione del processo di impugnazione nel quale è stata emanata un’ordinanza, comunque quel processo passa in giudicato. Invece, se all’interno di quel processo è stata emessa una sentenza, allora quel processo, anche se estinto, non fa passare in giudicato la sentenza di primo grado, in quanto la sentenza emessa in sede di impugnazione può, a sua volta, essere impugnata. 55 incompetente si discute se la conseguenza sia l’inammissibilità o la possibilità di riassumere il processo davanti al giudice competente; la soluzione corretta è la seconda: il giudice si dichiara incompetente e ordina un termine entro le quali le parti possono riassumere il processo innanzi il giudice indicato come competente. Atto di appello. L’atto di appello si propone con un atto di citazione e l’atto difensivo dell’appellato è la comparsa di risposta. Più che la forma è importante, dell’atto di appello, il contenuto: infatti, l’appello è un mezzo di gravame, ossia un mezzo potenzialmente idoneo ad investire il giudice del potere di decidere tutto ciò che è già stato deciso dal giudice di primo grado. Pertanto, è importante che le parti che appellano devolvano al giudice di appello le parti della sentenza che vogliono siano decise nuovamente. Pertanto, l’art. 342 c.p.c. prevede che l’atto d’appello, a pena di inammissibilità, debba contenere i motivi dell’appello, ossia: A. L’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; B. L’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. È fondamentale, dunque, che le parti individuino le parti di sentenza da devolvere al giudice di appello, a pena di inammissibilità. Ciò risponde ad una ratio precisa. Abbiamo detto in precedenza che la sentenza di appello si ritiene più attendibile di quella di primo grado perchè il giudice di appello ha la possibilità di valutare i fatti già esposti nel processo di primo grado alla luce di quanto deciso dal giudice e di quanto obiettato dalle parti. Ora, se le parti non specificassero i motivi della loro impugnazione e le parti della sentenza che, secondo loro, sono “erronee”, allora il giudice di appello si troverebbe a dover riesaminare ex novo tutto ciò che era già stato esaminato dal primo giudice, senza elementi in più. Allora non potremmo più dire che la sentenza di appello sia più attendibile di quella di primo grado, perchè sarebbero la stessa cosa. Peraltro, è bene non interpretare in senso troppo restrittivo le definizioni dell’art. 342 c.p.c.. Parafrasando, possiamo dire che nell’atto di appello le parti devono: 1. Individuare le questioni che si vogliono devolvere al giudice di appello; 2. Indicare le modifiche che vogliono apportare alla questio facti, che secondo l’appellante è corretta; 3. Indicare la corretta, secondo l’appellante, risoluzione della quaestio iuris. I motivi dell’appello indicano, dunque, i limiti della devoluzione e i limiti della devoluzione dipendono dalla volontà della parte. Qualora il processo impugnato sia oggettivamente cumultato, la questione diviene più complessa ma il procedimento è il medismo: l’appellante deve innanzitutto stabilire se devolvere al giudice tutti gli oggetti ( ovviamente dovrebbe essere soccombente su entrambi per devolverli entrambi) e poi, all’interno di ciascun oggetto, indicare i punti sopra esposti ( questioni che si vogliono devolvere, ricostruzione corretta della quaestio facti e risoluzione corretta della quaestio iuris). Riproposizione di domande ed eccezioni. Con l’atto di appello l’appellante, se vuole che siano riesaminate, deve devolvere al giudice tutte le questioni che sono state decise in modo a lui sfavorevole. Specularmente, l’appellato, se vuole che siano riesaminate, deve devolvere al giudice appellato tutte le questioni che non sono state accolte nella sentenza di primo grado. L’art. 346 c.p.c., infatti, afferma che “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”. La necessità di riproporre le eccezioni e le domande non accolte vale anche per le questioni rilevabili d’ufficio: queste, una volta che il giudice le abbia decise, non sono più rilevabili d’ufficio e, dunque, se non riproposte in appello, su di esse si forma il giudicato. Dunque, ad esempio, se il giudice di 56 primo grado ha deciso che l’eccezione di carenza di giurisdizione è infondata, il convenuto, se vuole che sia riesaminata, deve riproporla al giudice d’appello, altrimenti si forma il giudicato. ATTENZIONE: le domande rigettate non possono essere riproposte ex art. 346 c.p.c., bensì devono essere oggetto di appello incidentale: l’art. 346 c.p.c., dunque, con riferimento alle domande non accolte, deve essere limitata alle domande assorbite. Una domanda è assorbita in due ipotesi: A) Quando sono state proposte domande subordinate, in cui la subordinata non è esaminata perchè viene accolta la principale; B) Quando sono state proposte domande alternative senza vincolo di subordinazione. Invece, ove le domande siano proposte in via graduata ( quindi non in via alternativa pura) ed il giudice rigetti la principale e accolga la subordinata, l’attore può impugnare anche in via principale, in quanto è soccombente ( gli hanno rigettato la domanda che egli ha proposto come principale). La riproposizione delle questioni e l’impugnazione incidentale devono essere contenute entrambe nell’atto di appello: allora, a cosa rileva tale differenza? Rileva perchè, se una parte è contumace, la riproposizione delle questioni non deve essere notificata al contumace, mentre l’appello incidentale si, in quanto esso rappresenta il parallelo della proposizione di una nuova domanda giudiziale nel processo di primo grado: determina una novità di oggetto nel processo di appello. Appello incidentale. Come detto, l’appello incidentale è il modo con cui possono essere devolute al giudice di appello le domande esaminate e rigettate ( per le domande assorbite è sufficiente la riproposizione con l’atto di appello). In linea di massima, dunque, per aversi appello incidentale devono essere state proposte nel processo di primo grado più domande: alcune accolte, altre rigettate: infatti, se si fosse proposta una sola domanda ed essa sarebbe stata accolta, allora l’attore non potrebbe impugnare alcunchè. E, se avesse avuto torto sotto tutte le domande, avrebbe potuto semplicemente appellare in via principale tutte le sentenze, non appellare in via incidentale. Dunque, qualora una domanda è stata rigettata e l’altra è stata accolta, significa che sia attore che convenuto possono prendere l’iniziativa di appellare in via principale e, chi è stato inerte, ha la possibilità di appellare in via incidentale. Si comprende bene, quindi, che non vi è bisogno di appello incidentale per le questioni pregiudiziali di rito: perchè tali questioni non sono oggetto di domanda ( è sufficiente, quindi, la riproposizione nell’atto di appello). C’è, però, un’eccezione a quanto appena detto: è necessaria l’impugnazione incidentale per le sentenze non definitive. La sentenza definitiva successiva alla definitiva può accogliere o rigettare la domanda dell’attore. Se accoglie la domanda dell’attore, significa che il convenuto è soccombente sia sulla definitiva che sulla non definitiva, pertanto, se si è riservato il potere di impugnare la non definitiva, può impugnare entrambe in via principale, altrimenti, se non ha fatto riserva, potrà impugnare solo la definitiva. Se, invece, il convenuto è vittorioso sulla definitiva, allora egli è soccombente virtuale ( solo sulla non definitiva) e, pertanto, non può impugnare per primo; se l’attore impugna la definitiva, allora il convenuto potrà impugnare in via incidentale la non definitiva, ma lo dovrà fare con l’impugnazione incidentale. L’appello incidentale deve essere proposto con la comparsa di risposta, che deve essere depositata presso la cancelleria del giudice entro 20 giorni prima alla data fissata per la prima udienza di comparizione. Resta da vedere come si propone l’appello incidentale nei confronti di un terzo che non è ancora parte del giudizio di appello. Ad esempio: Tizio appella contro Caio la sentenza che gli negava il diritto al risarcimento dei danni per un incidente stradale; Caio, costituitosi, appella in via incidentale contro Sempronio, conducente dell’autovettura. Se Sempronio non è ancora parte del giudizio, la giurisprudenza prevalente ritiene sufficiente che gli sia notificata la comparsa contenente l’appello incidentale. Sembrerebbe, però, più giusto, che Sempronio sia chiamato in causa con una vocatio in ius, con la quale lo si avverte della pendenza del processo. 57 Novità in appello ( art. 345 c.p.c.). Abbiamo detto, fino adesso, che nel processo di appello vi deve essere una devoluzione delle questioni che si vuole che siano riesaminate. È possibile, invece, introdurre questioni che non sono state discusse in primo grado? In appello non possono essere proposte domande nuove, ma possono essere allegati fatti nuovi che si riferiscono a domande già proposte in primo grado. Per determinare quando l’allegazione di nuovi fatti sia riferita ad un elemento già presente nel primo grado occorre farsi la seguente domanda: se la pronuncia di primo grado passa in giudicato, il quid novi sarebbe proponibile in un nuovo processo o sarebbe precluso dal giudicato? Se la risposta è negativa ( non si potrebbe riproporre) ecco, allora, che siamo in presenza non di una domanda nuova, ma semplicemente della modificazione della domanda di primo grado e, dunque, ciò è ammissibile nel processo di appello. ATTENZIONE: tale ragionamento non si applica alle sopravvivenze in fatto e in diritto: esse, pur sopravvivendo al giudicato, qualora fosse decorso, possono essere proposte in appello ( ovviamente se il giudicato non si è verificato!), perchè, comunque, erano state già oggetto del processo di primo grado.  Nuove domande. Come detto, le nuove domande che vengono proposte in appello devono essere considerate inammissibili. Esistono, però un’eccezione: possono domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonchè il risarcimento dei danni maturati dopo la stessa. La ratio di questa eccezione è quella di evitare un innaturale frazionamento delle domande relative agli interessi, frutti, accessori e danni. Se, infatti, essi non fossero proponibili in appello, significa che dovrebbero essere proposti con una nuova domanda giudiziale e, dunque, si avrebbe l’apertura di un nuovo processo di primo grado.  Nuove eccezioni. Non sono proponibili nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio. Il divieto di eccezioni, dunque, riguarda solo le eccezioni in senso stretto ( es. prescrizione, compensazione, annullabilità). Ma possono essere proposte tutte le eccezioni che sono rilevabili anche d’ufficio. In tal caso, ovviamente si potrà avere anche l’allegazione di nuovi fatti ( assenti nel primo processo) su cui l’eccezione si fonda: infatti, in tali casi, più che una novità in appello si ha un vizio della sentenza di primo grado, nella quale il giudice avrebbe dovuto rilevare d’ufficio quella eccezione.  Nuove prove. Vi è il divieto generale di richiedere mezzi di prova nuovi, ivi comprese le prove precostituite, cioè i documenti. Una prova è “nuova” quando muta o il mezzo di prova o il fatto da provare. A questo divieto generale dobbiamo opporre 3 eccezioni:  Il giuramento decisorio è sempre deferibile;  Le prove sono ammissibili ogni volta che è ammissibile l’allegazione di un fatto nuovo: se si ammette un fatto nuovo in appello, allora bisogna anche ammettere la possibilità di provarlo, altrimenti non ha senso.  Possono essere ammessi mezzi di prova quando la parte dimostri di non aver potuto proporli nel processo di primo grado per causa ad essa non imputabile. Ovviamente, poi, bisogna tenere conto che il divieto non impedisce al giudice di assumere le prove ammissibili d’ufficio.  Intervento di terzi. Sono ammessi ad intervenire nel processo di appello solo quei soggetti che potrebbero opporre opposizione di terzo. Tutte le altre forme di intervento ( volontario o coatto) non sono ammissibili in appello. Tuttavia, bisogna tenere presente le ipotesi di successione processuale: o Il successore nel diritto controverso può intervenire; o Il se una delle parti muore, subentrano i suoi eredi. 60 c.p.c., i quali stabiliscono che, una volta che il giudice di appello rilevi il vizio, annulli la sentenza e la rimetta al giudice di primo grado, affinchè sia ripresa ex novo dal momento in cui si è verificato il vizio. Tali ipotesi sono: 1. Il giudice di primo grado ha dichiarato carenza di giurisdizione e il giudice di appello ritiene che la giurisdizione sussista; 2. Il giudice di appello rileva la nullità della notificazione della citazione introduttiva in primo grado; 3. Il giudice d’appello rileva la non integrazione del contraddittorio in presenza di un litisconsorzio necessario; 4. Il giudice d’appello dichiara erronea l’estromissione di una parte; 5. Il giudice d’appello dichiara l’inesistenza della sentenza di primo grado; 6. Il giudice d’appello dichiara che l’estinzione, pronunciata del giudice di primo grado, in realtà non si è verificata. Ci si chiede se tale elenco sia tassativo o meno. Occorre distinguere due gruppi: A. Prima categoria: ipotesi nelle quali il giudice di primo grado ha erroneamente chiuso il processo in rito ( n° 1/6). In queste ipotesi, non si capisce la ratio della norma che prevede la rimessione del processo al giudice di primo grado. Infatti, il giudice di appello potrebbe comunque riprendere personalmente il processo dal punto in cui si è verificato il vizio. Pertanto, dobbiamo concludere che tale elenco sia tassativo. B. Seconda categoria: ipotesi nelle quali il giudice di primo grado ha erroneamente proseguito il processo non rilevando (erroneamente) la carenza di un presupposto processuale. In queste ipotesi la ratio sottostante è che vi è una nullità dei presupposti processuali sanabili con efficacia retroattiva. Qui c’è la possibilità di un’applicazione analogica del meccanismo dell’annullamento e rinvio al primo giudice ad altre ipotesi non espressamente disciplinate. 41. RICORSO PER CASSAZIONE Origine storica. La Corte di Cassazione nasce sul modello francese, il quale, dopo la rivouzione, volle attribuire ad un organo esterno al potere giudiziario in grado di controllare la corretta interpretazione delle leggi da parte dei giudici. Si comprende, allora, la funzione primaria che ancora oggi è propria della Cassazione, ossia la funzione nomofilattica: la Cassazione deve risolvere i conflitti tra i vari giudici speciali ( a eccezioni di quelli Costituzionale e comunitario) e garantire l’uniforme interpretazione del diritto e, in tal modo, l’uniforme evoluzione del diritto stesso. Originariamente, dunque, le pronunce della Cassazione avevano un’efficacia di puro annullamento. Tale efficacia è andata via via elvolvendosi: oggi, pertanto, la Cassazione in certi casi può non limitarsi a pronunce di mero annullamento, ma anche pronunce che, oltre annullare, sostituiscono anche quella impugnata. Provvedimenti impugnabili. L’art. 360 c.p.c. prevede che possano essere oggetto di ricorso per Cassazione le sentenze emesse in grado di appello o in unico grado ( quelle per le quali non è previsto un grado di appello). Pertanto, le sentenze di primo grado, di regola, non sono ricorribili per Cassazione. Tuttavia, vi è il fenomeno del ricorso per saltum: su accordo delle parti ( negozio processuale) le sentenze di primo grado 61 emesse dal tribunale possono essere impugnate direttamente innanzi alla Corte di Cassazione, saltanto l’appello. Motivi di ricorso. L’art. 360 c.p.c. prevede che, una volta individuato che la sentenza è in astratto ricorribile per Cassazione, in concreto il ricorso possa proporsi soltanto per violazione o falsa applicazione di norme di diritto. Il ricorso per Cassazione, dunque, è un mezzo di impugnazione in senso stretto, in quanto proponibile solo nei casi tassativamente elencati dall’art. 360 c.p.c.. Tali casi sono: 1. Per motivi attinenti alla giurisdizione. 2. Per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza. 3. Per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto. Le norme di cui parla questo motivo di impugnazione sono sicuramente le regole di giudizio che attengono al merito della decisione. Si tratta, dunque, normalmente di norme sostanziali. L’errore nel quale può incorrere il giudice e determinare il ricorso per Cassazione può essere duplice:  Violazione. È quell’errore in cui incorre l’interprete quando individua o dà un certo significato ad una disposizione normativa, cioè è un errore nell’individuazione o nell’interpretazione;  Falsa applicazione. È quell’errore in cui incorre l’inteprete, allorchè, individuata esattamente la portata precettiva della norma, la applica ad una fattispecie che non è quella della norma descritta. Ad esempio: il mutuo è oneroso fino a prova contraria. Costituisce violazione della norma quella che pretende un patto esplicito per dire che il mutuo produce interessi; costituisce falsa applicazione quella che applica la norma ad un diverso contratto del mutuo, ad esempio ad un contratto che ha ad oggetto beni immobili. 4. Per nullità della sentenza o del procedimento. Con questa fattispecie si ha un salto qualitativo: si passa dalle ipotesi nelle quali il ricorso per Cassazione è determinato da un errore in iudicando, ad un’ipotesi nella quale l’errore del giudice è in procedendo. 5. Per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. È questo uno dei motivi storicamente più controversi in materia di ricorso per Cassazione. In sostanza, nella prassi, emerge che in questo caso la Cassazione fa quello che vuole, decidendo lei stessa l’ampiezza e la profondità del controllo sulla motivazione dei provvedimenti impugnati. Tale ipotesi si fonda su una valutazione della motivazione della sentenza impugnata: la Cassazione deve valutare se il giudice che ha emesso tale sentenza ha giudicato tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti o se, viceversa, ha omesso di esaminare un fatto che sarebbe stato rilevante per il giudizio. Ora, la norma parla di “fatto decisivo”: occorre capire quando un fatto tracurato possa dirsi, appunto, decisivo. Parte della dottrina ha ritenuto di individuare come fatto decisivo il solo fatto principale e non il fatto secondario: il fatto principale è il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del diritto dedotto in giudizio; il fatto secondario, invece, è il fatto di per sè irrilevante in causa, il quale, però, dà informazioni dalle quali si può dedurre l’esistenza di un fatto ignoto, rilevante in causa: fatto secondario, dunque, è quello che può essere posto alla base di una presunzione. In realtà, la giurisprudenza si mostra molto più elastica: secondo la giurisprudenza un fatto è decisivo quando, se preso in considerazione dal giudice, avrebbe portato ad una decisione diversa. A tal proposito, la Corte di Cassazione incentra il proprio controllo su diversi aspetti:  Regole non giuridiche. 62 o Prove libere. Un primo settore in cui può verificarsi la valutazione della corte è la valutazione delle prove libere, le quali devono essere valutate sulla base di massime di esperienza, quindi di regole non giuridiche ( diverse dalle prove legali). Lamentando un difetto di motivazione in ordine alla valutazione di una prova libera si censura, dunque, l’utilizzazione da parte del giudice di norme non giuridiche che lo ha indotto ad una sentenza ingiusta. o Presunzioni semplici. Se la presunzione è legale, è il legislatore a stabilire che dal fatto X debba essere dedotta l’esistenza del fatto Y. Se, invece, la presunzione è semplice, è il giudice che deve individuare le inferenze tra il fatto secondario noto ed il fatt principale ingoto, sulla base di massime di esperienza. Ebbene, l’errore che potrebbe compiere il giudice nell’individuare l’inferenza costituisce una motivazione di ricorso per Cassazione ex art. 360 c.5 c.p.c..  Incompleta ricostruzione di un fatto storico complesso. La Cassazione censura l’errore consistente nel fatto che il giudice non ha preso in considerazione tutti gli elementi che compongono un fatto storico complesso. Ad esempio: si è verificato un incidente stradale e il giudice ha dato ragione a Tizio, perchè, provenendo dalla destra, aveva la precedenza; tuttavia, il giudice nella motivazione non specifica se vi fosse o meno un semaforo, ecc.... Anche se talora la Corte di Cassazione cataloga l’incompleta ricostruzione di un fatto storico come vizio di motivazione, in realtà siamo di fronte alla violazione di norme di diritto: infatti, qui si imputa al giudice non un errore nella ricostruzione del fatto storico, ma un errore nella ricostruzione della fattispecie legale: secondo il giudice di merito ( la cui sentenza è stata impugnata) la fattispecie del diritto dedotto in giudizio è costituita da A, B e C, mentre per la Cassazione vi sono gli elementi A, B, C e D: l’omesso esame di D, pertanto, costituisce un vero e proprio errore di diritto. Questo fenomeno ( qualifica di vizi di motivazione dei vizi che in realtà sono errori di diritto) è ancora più evidente nei casi di norme elastiche ( clasuole generali: buona fede, gravità dell’inadempimento, buon costume ecc....). Le norme elastiche hanno il pregio di rinviare alla società civile per la ricezione di valutazioni che, siccome mutevoli nel tempo, non possono essere cristallizzate dal legislatore. Ora, dal punto di vista della teoria generale, è giudizio di diritto quello con cui si stabilisce se un certo comportamento ascrivibile alla mancanza di buon costume o meno: pertanto, un errore su tale valutazione sarebbe un errore di diritto e non un errore di valutazione. In realtà, la Cassazione intepreta la distinzione in un altro modo: la distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto non è funzionale alla nomofilachia: in altre parole, la Cassazione è solita intervenire tutte le volte che, a prescindere dal compimento di un errore di fatto o di diritto nella valutazione di norme elastiche, è in grado, e ritiene opportuno, enunciare una regola di portata generale, suscettibile di essere utilizzata, come precedente, anche in casi simili. Se, al contrario, le peculiarità del caso sono tali da non consentire l’enucleazione di una regola valevole a specificare il concetto elastico, allora la Cassazione nega il proprio intervento. Questa appena enunciata è la c.d. “teoria teleologica”, la quale si fonda sulle finalità della Cassazione come corte suprema ( nomofilachia). Meritevolezza del ricorso. La riforma del 2009 ha introdotto l’art. 360-bis c.p.c., il quale introduce due ipotesi di inammissibilità del ricorso per Cassazione: 1. “Quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare 65 censurare fatti che non sarebbero conoscibili dalla Corte sulla base del ricorso principale, dovrà farlo con il ricorso incidentale condizionato. Novità di fronte alla Corte.  Nuove allegazioni.  Profili di merito. In sede di Cassazione non è mai possibile l’allegazione di ulteriori fatti rilevanti ai fini della decisione di merito. Ciò vale anche per i fatti sopravvenuti , cioè per i fatti storici che siano venuti ad esistenza dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni del processo che ha dato luogo alla sentenza impugnata. In ciò la Cassazione si differenzia dall’appello, nel quale è sempre possibile allegare i fatti che siano sopravvenuti tra l’udienza di precisazione delle conclusioni del processo di primo grado e l’impugnazione. Però: se la Cassazione accoglie il ricorso e rinvia ad altro giudice per la fase rescissoria, allora quei fatti sopravvenuti potranno essere dedotti in giudizio, in quanto il referente temporale di quel giudizio sarà la precisazione delle conclusioni avvenuta dinnanzi a quel giudice.  Profili di diritto. Le nuove norme di diritto che intervengono medio tempore devono, invece, essere poste dalla Cassazione a fondamento della sua decisione.  Profili di rito. Le novità che possono essere introdotte in Cassazione non sono diverse da quelle che possono essere introdotte in appello. Dunque, in Cassazione può essere sollevata (come in appello) per la prima volta una questione di rito rilevabile in ogni stato e grado del processo, che non si stata rilevata o decisa nelle precedenti fasi. ATTENZIONE: in Cassazione, però, non è mai possibile effettuare nuove istruttorie ( vd. Dopo), pertanto, le questioni di rito che vengono proposte per la prima volta devono essere basate su fatti costitutivi che sono già presenti negli atti del processo impugnato: altrimenti, le nuove questioni di rito potranno essere proposte, ma non verranno mai accolte perchè non provate. Ad esempio: la carenza di legittimazione ad agire e la mancata integrazione del contraddittorio in ipotesi di litisconsorzio necessario sono entrambe questioni di rito che possono essere proposte per la prima volta anche in Cassazione: tuttavia, mentre la carenza di legittimazione è solitamente facilmente riscontrabile dagli atti che vengono trasmessi al giudice di Cassazione, il litisconsorzio necessario solitamente necessita di un’istruttoria che non può essere fornita in Cassazione.  Nuove prove. In Cassazione non è mai possibile ammettere nuove prove costituende, in quando il giudice supremo non possiede requisiti strutturali e organizzativi tali da poter attuare una fase istruttoria. L’art. 372 c.p.c. prevede, invece, che le prove precostituite ( documentali) sono ammissibili solo per provare la nullità della sentenza impugnata e l’inammissibilità del ricorso e controricorso. La Cassazione, però, ammette in alcuni casi l’ammissibilità di alcuni documenti nuovi, facendo uno strappo alla regola dell’art. 372 c.p.c.: si tratta di quei documenti dai quali si ricava la cessazione della materia del contendere ( transazioni, accordi, atti negoziali in genere). Questi atti rilevano solo nel merito, in quanto, per rilevare nel rito, dovrebbero assumere la forma della conciliazione giudiziale ( un accordo formalizzato all’interno del processo). Quindi, tali documenti comportano comunque una sentenza di merito. Tali documenti sono ammessi in quanto, se non venissero ammessi, la Cassazione dovrebbe esaminare il ricorso, eventualmente accoglierlo e magari rimettere la causa al giudice di rinvio; la Cassazione, quindi, dovrebbe lavorare su una sentenza che ormai è superata dall’accordo delle parti e che, quindi, sarebbe inefficace. Quindi, questo strappo alla regola è stato introdotto proprio per evitare inutili attività processuali ( economia processuale). 66 Estinzione. Come detto in precedenza, una volta che il ricorso notificato è depositato presso la cancelleria della Cassazione con tutti i documenti necessari, non sono più necessari atti di impulso processuale delle parti. Pertanto, non è mai possibile l’estinzione per inattività. Invece, è possibile l’estinzione per rinuncia. In tal caso la rinuncia deve essere accettata dalle controparti che abbiano ricorso a loro volta in via incidentale, altriment è sufficiente la rinuncia senza accettazione. La Corte pronuncia l’estinzione con ordinanza o con sentenza: con sentenza quando deve decidere comunque anche altri ricorsi proposti sulla stesse sentenza impugnata, altrimenti ordinanza. Sospensione e interruzione. Siccome il processo di Cassazione procede senza bisogno di atti di impulso processuale, l’orientamento costante ritiene che al ricorso per Cassazione non si applichino gli istituti dell’interruzione e della sospensione, in quanto non è necessario mettere il successore in grado di proseguire un processo che comunque prosegue. Tuttavia, con riferimento all’interruzione, non pare costituzionalmente legittimo il fatto di privare, in talune circostanze, la parte del diritto di difesa. Ad esempio: muore il difensore della parte, chi provvederà alle memorie? Chi parteciperà all’udienza di discussione? Per questo, in caso di morte dell’unico difensore di una parte, si rende necessario rinviare l’udienza a nuovo ruolo e darne comunicazione alla parte personalmente, in modo che questa possa provvedere a nominare un nuovo difensore. Fase decisoria. La Cassazione, nella fase decisoria, può adottare tre diversi metodi di decisione: 1. Schema semplificato ( art. 375 c.p.c.). lo schema semplificato ( procedimento in camera di consiglio) si differenzia da quello ordinario perchè non c’è la discussione in udienza pubblica. Le parti vengono avvertite che la decisione verrà presa in camera di consiglio e possono solo depositare memorie e chiedere di essere sentiti in camera di consiglio. Questo tipo di decisione si ha: Quando decide un regolamento di competenza o di giurisdizione; Quando dichiara sull’inammissibilità del ricorso; Quando ordina l’integrazione del contradditorio; Quando dichiara l’estinzione del processo. 2. Schema ordinario ( sezioni semplici). È seguito dalla pronuncia a sezioni semplici ( 4 consiglieri di Cassazione più un presidente). Il procedimento inizia con l’avviso agli avvocati delle parti della fissazione dell’udienza; gli avvocati, a questo punto, possono depositare una memoria entro i 5 giorni antecedenti alla data dell’udienza. Le memorie non possono contenere questioni nuove, ma limitarsi ad illustrare quando esposto nel ricorso o controricorso o proporre questioni di rito rilevabili d’ufficio. Nel giorno della sentenza gli avvocati illustrano oralmente le loro ragioni, il P.M. da il suo parere sulla questione e, infine, si ha la pronuncia della sentenza. 3. Sezioni unite. La pronuncia a sezioni unite si differenzia dallo schema ordinario per la presenza di 8 consiglieri e un presidente. La pronuncia a sezioni unite si ha in 3 ipotesi: a. Quando si decidono questioni di giurisdizione; b. Quando si tratta di decidere ricorsi che pongono questioni che sono state decise in modo difforme dalle sezioni semplici, oppure quando si tratta di una questione di diritto di massima importanza ( es. interpretazione di una nuova legge. c. Quando su una questione di diritto si sia già avuta una decisione delle sezioni unite. Se, quindi, le sezioni semplici devono decidere di una questione che è già stata decisa dalle sezioni unite possono deciderla loro direttamente in modo conforme alle sezioni unite, altrimenti, se ritengono che si debba cambiare orientamento, dovranno rimettere la 67 questione innanzi alle sezioni unite. Dunque, questa previsione è importante perchè rafforza la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione. Sospensione dell’esecutività. Le sentenze soggette a ricorso in Cassazione, come tutte le sentenze di condanna, sono esecutive. Tuttavia, si può avere una sospensione dell’esecutività qualora: 1. La sentenza sia stata impugnata in Cassazione; 2. L’esecuzione comporterebbe un grave e irreparabile danno. La gravità del danno deve essere valutata con riferimento alle conseguenze che si avrebbero in caso di annullamento della sentenza impugnata. L’irreparabilità, invece, è intesa come impossibilità di ripristino della situazione precedente all’esecuzione: quindi, sono irreparabili le esecuzioni costituite, ad esempio, dalla distruzione fisica o giuridica del bene. La sospensione deve essere richiesta dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Ordine di esame delle questioni. Uguale a quanto avviene in appello: 1. Dedicibilità del ricorso; 2. Questioni di rito; 3. Questioni di merito. Le decisioni della Cassazione.  Ordinanze. Innanziutto la Corte può emettere ordinanze: l’ipotesi è quella dell’art. 375 c.p.c. ( vd. Schema semplificato della fase decisionale).  Sentenze di rigetto. Il rigetto del ricorso si ha quando la Corte ritiene infondate le censure alla sentenza impugnata avanzate con il ricorso, sempre che non vi siano questioni rilevabili d’ufficio. Il rigetto della sentenza determina la formazione del giudicato sostanziale sulla sentenza. La sentenza della Corte, in caso di rigetto, non va a sostituirsi alla sentenza impugnata, in quanto il ricorso per Cassazione non è un mezzo di gravame.  Sentenze di rigetto con correzione della motivazione. Istintivamente, si sarebbe portati a pensare che, quando la Corte ritiene sussistenti i vizi censurati con il ricorso, allora essa debba accogliere il ricorso e “uccidere” la sentenza impugnata. Tuttavia, non è sempre così. Per determinare l’accoglimento del ricorso, i vizi devono essere causali, nel senso che devono aver determinato una sentenza che non sarebbe altrimenti stato pronunciata allo stesso modo se i vizi non si fossero verificati. Quindi, quando la Corte ritiene sussistenti i vizi censurati, ma ritiene anche che tali vizi non siano causali alla sentenza, rigetta il ricorso ma ordina la modificazione della motivazione della sentenza impugnata. Quindi, ne risulta che la correzione della motivazione non si può effettuare laddove il motivo di accoglimento o di rigetto cambi e tale cambiamento comporti una diversa portata precettiva della sentenza.  Cassazione senza rinvio. Con la Cassazione senza rinvio si ha la chiusura in rito del processo, in quanto la Cassazione accerta l’impossibilità di giungere ad una decisione di merito. La cassazione senza rinvio si ha essenzialmente in 3 casi: 1. Per difetto assoluto di giurisdizione. Un tale difetto può consistere soltanto nei confronti di un giudice straniero o di un potere non giurisdizionale: infatti, se si avesse un difetto relativo di giurisdizione ( la tutela richiesta può essere data ma non dal giudice prescelto), la Cassazione dovrebbe statuire sulla giurisdizone. 70 Nel previgente codice la pronuncia della Corte non era vincolante per il giudice di rinvio: infatti, come detto, la Corte nasce come un’istituzione para-legislativa e non giudiziaria: pertanto, si ritiene che i suoi atti non vincolassero in maniera assoluta il giudice di rinvio. Nel codice attualemente vigente, invece, l’art. 394 c.p.c. prevede espressamente che “le parti non possono chiedere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza della Cassazione”. Nel giudizio di rinvio, dunque, non sono ammesse nuove allegazioni di fatti, nè nuove istanze istruttorie: nel giudizio di rinvio non si rifà in toto tutto il processo, ma lo si riprende dal punto in cui si è verificato il vizio rilevato dalla Corte: - Se la Cassazione ha annullato per motivi attinenti alla giurisdizione o alla competenza, allora significa che il vizio del processo sussiste fin dall’atto introduttivo: pertanto, andrà rifatto tutto quando il processo dll’atto introduttivo di primo grado; - Se il vizio è nell’atto introduttivo dell’appello, va rinnovato il processo d’appello, dall’atto introduttivo in poi. - Ecc.... ( vd. Pag. 491 Luiso). Una volta individuata l’attività da compiere in sede di rinvio, abbiamo in mano il criterio per interpretare correttamente l’art. 394 c.p.c. e, dunque, capire quali sono le novità ammissibili: poichè in sede di rinvio si rinnova il processo dall’atto viziato in poi, le parti hanno in sede di rinvio tutti i poteri che hanno normalmente in un processo che si trovi nello stadio in cui si è verificato il vizio. Pertanto: a. Se la cassazione avviene per motivi di giurisdizone o competenza, il processo riprende dal primo atto introduttivo: le parti hanno tutti i poteri, possono compiere ogni tipo di attività; b. Se la cassazione avviene per nullità del procedimento con rinvio al giudice di primo grado, ancora una volta il processo va svolto dal primo atto introduttivo del processo e ancora una volta le parti possono compiere ogni tipo di attività. c. Se la cassazione avviene per vizi per errore di motivazione, le parti non possono allegare nuovi fatti e chiedere nuove prove, in quanto il giudice di rinvio deve solamente rimotivare il fatto e, dunque, il quello stadio del processo le parti npn avevano comunque potere di proporre nuovi fatti o chiedere l’ammissione di nuove prove ( la motivazione è nella fase decisionale, per cui dopo la precisazione delle conclusioni). d. Se la cassazione è avvenuta per errata applicazione e interpretazione delle norme, le parti non possono allegare nuovi fatti e chiedere l’ammissione di nuove prove per lo stesso motivo. A questa regola vi sono 4 eccezioni: 1. Nel giudizio di rinvio è sempre ammissibile il giuramento decisorio; 2. Novità introdotta dalla giurisprudenza. Partiamo da un esempio. Un commesso viaggiatore ha subito un incidente fuori dalla sua zona di lavoro e chiede il risarcimento del danno per infortunio in itinere. Arrivata la causa in Cassazione, la Corte introduce in causa un elemento che non era stato preso in considerazione dai giudici: il problema della esclusività della zona di competenza del viaggiatore. Per vedere se si tratta di un infortunio in itinere occorre stabilire anhce se egli aveva o no l’eclusiva: se aveva l’esclusiva non può essere un infortunio in itinere, perchè fuori dalla zona di competenza non poteva far affari. Poichè qui l’errore è, dunque, caduto nella fase decisionale del giudizio a quo, in fase di rinvio non si potrebbe avere una nuova attività istruttoria su quello che la Cassazione ha detto essere il punto decisivo della controversia. Pertanto, le nuove conclusioni, allegazioni o richieste istruttorie sono ammissibili se discendono dalla diversa impostazione in diritto della controversia, data dalla Cassazione. 71 3. Sopravvivenze in fatto e in diritto. Può darsi che fra il momento in cui si preclude l’acquisizione in giudizio di novità ed il momento in cui il giudice pronuncia si siano verificati dei nuovi fatti rilevanti o siano avvenute modificazioni legislative. Può accadere, quindi, che nuovi fatti storici si siano verificati dopo la precisazione delle conclusioni della sentenza cassata o siano in medio tempore entrate in vigore nuove norme ( vd. Problema della divaricazione tra la situazione processualmente rilevante e il modo di essere della realtà sostanziale). Quando ciò accade, in sede di rinvio possono essere allegati tutti i fatti sopravvenuti all’udienza di precisazione delle conclusioni della sentenza cassata, così come debbono essere applicate le norme sopravvenute alla pubblicazione della sentenza della Corte. 4. Le questioni assorbite possono essere sempre riproposte in sede di rinvio. Riassunzione. La causa si riassume nel termine perentorio di 3 mesi dalla pubblicazione della sentenza di cassazione. Il fatto che la causa debba essere riassunta conferma la tesi secondo la quale il giudizio di rinvio è una prosecuzione dello stesso processo e non un nuovo processo di appello. In sede di rinvio si ha litisconsorzio necessario fra tutte le parti del processo di Cassazione. Estinzione. Se la riassunzione non avviene entro il termine perentorio di 3 mesi, l’intero processo si estingue: ciò signfica, come già detto, che il giudizio di rinvio è una prosecuzione del processo di appello e non un nuovo processo di appello. Se fosse un nuovo processo di appello, ne seguirebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, invece si estingue anch’essa. Principio di diritto. Il principio di diritto ( esplicitamente o implicitamente) enucleato dalla Corte sopravvive anche all’estinzione del processo di rinvio. Restituzioni. Il giudice di rinvio, su istanza della parte, deve procedere anche a ordinare la restituzione dell’esecuzione già avvenuta a seguito della sentenza di condanna cassata. La restituzione deve essere ordinata a prescindere dall’esito del giudizio di rinvio: l’attore precedentemente vittorioso deve effettuare la restituzione a titolo della sentenza cassata, salvo poi, qualora risulti essere nuovamente vittorioso, ottenre di nuovo la prestazione sulla base del nuovo titolo esecutivo ( sentenza del processo di rinvio). Se la causa non è riassunta, la più recente giurisprudenza ritiene che le restituzioni debbano ugualmente essere proposte al giudice di rinvio. 43. REVOCAZIONE La revocazione è un mezzo di impugnazione disciplinato dall’art. 395 c.p.c.. Si è discusso se sia un mezzo di impugnazione in senso stretto ( con una fase rescindente e una rescissoria) o un mezzo di gravame (quindi si ha una sostituzione in toto della sentenza impugnata: la soluzione preferibile è la prima e alla fase di annullamento della sentenza impugnata segue una fase rescissoria che serve per rifare la pronuncia. Ai senso dell’art. 395 c.p.c possono essere impugnate con l’istituto della revocazione le sentenze di appello o in unico grado. Tale previsione deve, però, essere integrata in due sensi: a. Con riferimento alle sentenze impugnabili occorre precisare che sono impugnabili anche tutte le sentenze della Cassazione per errore di fatto e tutte le sentenze di merito della Cassazione per i 72 motivi di cui nn.1, 2, 3 e 6 art. 395 c.p.c.. La ragione di ciò è ovvia: se la cassazione non decide nel merito, vuol dire che il giudicato sostanziale sarà prodotto dalla sentenza impugnata ( se il ricorso è stato rigettato) o dalla sentenza di rinvio ( se il ricorso è stato accolto) e, dunque, la revocazione si proporrà eventualmente nei confronti di quella sentenza. b. Con riferimento ai provvedimenti aventi forma diversa dalla sentenza, occorre precisare che l’impugnazione è ammissibile anche per il decreto ingiuntivo e per il lodo arbitrale. Vediamo, ora, quali sono i motivi che determinano l’impugnazione: 1. La sentenza è affetta da dolo di una parte in danno dell’altra. Per aversi dolo revocatorio si deve avere un raggiro idoneo a paralizzare la difesa della controparte. L’esempio tipico è quello della collusione di una parte con il legale della controparte ( peraltro costituisce anche illecito penale); 2. La sentenza è fondata su prove false ( escluso il falso giuramento). La prova deve essere riconosciuta o dichiarata falsa e l’eventuale riconoscimento deve provenire non da chi ha formato la prova, ma dalla parte vittoriosa, mentre la dichiarazione deve avvenire con una sentenza penale o civile passata in giudicato. 3. Scoperta di un documento decisivo che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario. Il documento è considerato decisivo quando, se fosse stato prodotto, avrebbe portato il giudice a decidere in maniera diversa la controversia. La parte non può utilizzare la revocazione quando, essendo a consocenza dell’esistenza del documento, non ne ha chiesto l’esibizione, ovvero quando, avendola ottenuta, la controparte l’ha rifiutata. 4. Errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. L’errore di fatto revocatorio è un errore di percezione, non di giudizio: esso consiste in una svista del giudice che ha dato per esistente ciò che sicuramente risultava essere non esistente dagli atti di causa. L’errore revocatorio può riguardare anche i fatti processuali oltre che quelli sostanziali ( es. il giudice afferma che il processo è validamente instaurato perchè il testimone ha dichiarato che il convenuto aveva il proprio domicilio in Italia. Ma, in realtà, il testimone aveva affermato che il convenuto non aveva il proprio domicilio in Italia). 5. Contrasto con un giudicato precedentemente intervenuto tra le parti, senza che le parti abbiano sollevato l’eccezione: se, infatti, le parti avessero sollevato l’eccezione ma ugualmente il giudice ( di appello o di unico grado) avesse pronunciato in modo difforme al giudicato, allora si aprirebbro le porte della Cassazione. Inoltre, è bene precisare che questo motivo si riferisce unicamente al giudicato esterno, in quanto il giudicato interno risulta dagli atti del processo, pertanto, se il giudice non rileva il giudicato interno, ancora una volta lo può fare la Cassazione. 6. Il dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato ( motivo mai utilizzato dal 1942 ad oggi). Per quanto riguarda i termini per proporre la revcazione, occorre tenere presente che la revocazione è in parte uno strumento di impugnazione ordinario ( nn. 4 & 5), in parte straordinario ( nn. 1, 2, 3, 6). Pertanto: - Revocazione ordinaria: 30 gg. dopo la notificazione della sentenza impugnata, ovvero 6 mesi dalla sua pubblicazione; - Revocazione straordinaria: è determinata da vizi occulti, pertanto i termini iniziano a decorrere dal giorno in cui il vizio si è palesato. In tal caso possono essere impugnate sentenze di appello, in unico grado o anche di primo grado, purchè il vizio si sia palesato dopo il passaggio in giudicato formale della sentenza. Infatti, se il motivo di revocazione straordinaria è riconosciuto in pendenza dei termini per appellare, il motivo di revocazione straordinaria va fatto valere con l’appello: ne deriva 75  Facoltatività. L’opposizione del terzo è solitamente cosiderata come un mezzo facoltativo, nel senso che l’opponente potrebbe ottenere il medesimo risultato anche proponendo una domand autonoma in via ordinaria. Tuttavia, bisogna osservare che l’opposizione è l’unico strumento che permette di opporsi all’esecuzione inter partes della sentenza: pertanto, in questo senso è un rimedio necessario, in quanto l’autonoma domanda porterebbe allo stesso risultato ma intanto l’esecuzione della sentenza pregiudizievole avrebbe luogo. Fin qui si è esposta la teoria tradizionale. È bene precisare, però, che parte della dottrina e della giurisprudenza individuano anche due altre categorie di soggetti che possono opporsi alla sentenza: 1. Litisconsorte necessario pretermesso. Anche se alcuni sostengono che egli è il solo legittimato ad opporsi, in realtà sembra ragionevole affermare che il litisconsorte pretermesso possa opporsi e che allo stesso modo possano opporsi i soggetti che rispettano i requisiti sopra elencati: infatti, il pregiudizio che subisce il litisconsorte necessario pretermesso dalla sentenza altrui non è meno intenso di quello che subisce il titolare di un diritto autonomo, incompatibile e prevalente. 2. Falsamente rappresentato. Non sembrano esserci gli estremi per legittimare il falsamente rappresentato ad opporsi. Se l’opposizione viene accolta, si ha l’annullamento della sentenza impugnata ma vi è un problema di fondo: la parte vincitrice della sentenza annullata diventa, ora soccombente proprio per il nesso di incompatibilità esistente tra il suo diritto ed il diritto dell’opponente che ha ottenuto l’annullamento della sentenza. Ecco, allora che in capo alla parte soccombente nasce un diritto diverso, solitamente di natura risarcitoria: se si pensa alla doppia alienazione, è ovvio che l’acquirente che soccombe nei confronti dell’oppositore avrà poi nei confronti dell’alienante un diritto al risarcimento per inadepimento e per evizione. Ebbene, nel giudizio seguente ( che avrà per oggetto il risarcimento) la pronuncia della sentenza di opposizione sarà vincolante per il giudice: la sentenza travolta dall’opposizione mantiene, dunque, effetti tra le parti originarie non con riferimento al diritto fatto valere dall’attore, ma con riferimento a diritti da esso dipendenti. Nell’ipotesi in cui il giudice ritenga fondata l’opposizione la decisione di merito è emessa dallo stesso giudice dell’opposizione. _OPPOSIZIONE DI TERZO REVOCATORIA ( art. 404 c.2 c.p.c.). L’opposizione di terzo revocatoria si caratterizza per il fatto che è data ai soggetti ai quali è opponibile il giudicato altrui. Quindi, mentre, come detto precedentemente, l’opposizione di terzo ordinaria è un mezzo facoltativo, l’opposizione di terzo revocatoria è lo strumento necessario per chi si vuole sotrarre all’efficacia della sentenza altrui, allegando il dolo o la collusione della sentenza stessa:  Collusione: consiste in una condotta processuale concordata fra le parti al fine di fare emettere al giudice un provvedimento che faccia apparire esistente una realtà sostanziale inesistente. È, dunque, una specie di simulazione fatta all’interno del processo. Ad esempio, T izio vuole donare un bene a Caio, ma al fine di frodare la legittima di Sempronio, decide di mascherare la donazione con un atto di vendita simulato. Lo stesso risultato si può ottenere con un processo nel quale Tizio e Caio simulano una controversia per fare accertare il diritto di proprietà del bene, diritto che le parti faranno apparire essere di Caio.  Il dolo consiste in una condotta che può essere attuata anche dalla sola parte soccombente per frodare terzi. Ad esempio, commette dolo il debitore che, per frodare gli altri creditori, npn si difende in un processo nel quale l’attore pretende il pagamento di una somma di denaro. 76 Anche se l’art. 404 c.2 c.p.c. non ne parla, si ritiene che l’opposizione di terzo revocatoria sia ammissibile se l’opponente ha effettivamente avuto un pregiudizio dalla sentenza impugnata. Per quanto riguarda gli effetti dell’accoglimento dell’opposizione di terzo revocatoria, essi sono molto discussi in dottrina ed in giurisprudenza: alcuni dicono che l’accoglimento modifica la pronuncia impugnata anche fra le parti originarie, altri sostengono che la pronuncia diviene semplicemente inopponibile al terzo, altri ancora dicono che l’accoglimento ha effetto anche fra le parti in caso di opposizione proposta dagli aventi causa, mentre rende semplicemente inopponibile la sentenza nel caso di opposizione proposta dai creditori. In sintesi, la conclusione è che nel caso concreto occorrerà vedere cosa sia necessario per tutelare il terzo, in quanto in alcuni casi anche per il creditore non è sufficiente la semplice rescissione, ma occorre anche far accertare che la realtà sostanziale inters partes sta veramente nel modo da lui asserito. Provvedmenti opponibili. Sono opponibili i provvedimenti che assumono la forma di sentenza, il decreto ingiuntivo e il lodo arbitrale. Termine.  Opposizione di terzo ordinaria: non è sottoposta ad alcun termine, ma un limite alla proponibilità dell’opposizione proviene dalla completa e definitiva attuazione inter partes del provvedimento che si vuole impugnare.  L’opposizione di terzo revocatoria deve essere proposta entro 30 giorni dal momento il cui si palesa il dolo o la collusione. Competenza. Competente per l’opposizione è lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza che si impugna. Processo di opposizione. L’opposizione di propone con citazione, ma ove la sentenza impugnata sia stata pronunciata secondo rito speciale, l’opposizione si ritiene debba essere proposta con ricorso. Fra l’opponente e le parti si instaura un’ipotesi di causa inscindibile ( solo in relazione al capo impugnato). Il processo si svolge con le regole previste per il processo che si svolge davanti al giudice competente. Sospensione dell’efficacia esecutiva. L’opponente può chiedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata con le stesse regole previste per la sospensione dell’esecutività della sentenza proposta in Cassazione. Inammissibilità e improcedibilità. L’opposizione di terzo è dichiarata inammissibile in tutti i casi in cui l’atto introduttivo del processo sia affet da nullità insanabile o insanata. Ipotesi di improcedibilità possono verificarsi solo ai sensi dell’art. 348 c.p.c., che a sua volta però è applicabile solo quando il processo si svolge contro una sentenza di appello: pertanto, se il processo di opposizione si svolge contro una sentenza di primo grado non pare che sia possibile una dichiarazione di improcedibilità. Concorso con revocazione e cassazione. L’opposizione di terzo può trovarsi in concorso con la revocazione e con il ricorso per Cassazione, ma non con l’appello. La soluzione più corretta sembra essere che la riunione delle impugnazioni non pare praticabile nel caso di concorso fra opposizione di terzo e ricorso per Cassazione ( cioè quando è opposta una sentenza di appello o di unico grado); la sospensione del processo originario sembra più corretta, però la mancanza di una previsione normativa rende difficile sostenerla. Il coordinamento, quindi, avverrà fra le sentenze. Impugnazione. La sentenza che decide sull’opposizione di terzo è impugnabile con gli stessi mezzi con cui era impugnabile la sentenza opposta.
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