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Dispensa Filosofia moderna (storia della filosofia), Dispense di Storia Della Filosofia

Dispensa di Storia della filosofia per esame

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 02/04/2024

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federica-cerruto-1 🇮🇹

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Scarica Dispensa Filosofia moderna (storia della filosofia) e più Dispense in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! INTRODUZIONE ALLA MODERNITA’, fattori e problemi dei moderni. Modernità= ci sono diverse modernità perché si dice al plurale. Ma cercheremo di vedere quali sono stati i fattori significati che hanno creato i moderni e le problematiche che i moderni si trovano ad affrontare. Due fattor: 1. La rottura con gli antichi. a. Un secol novo c’è una presenza all’interno di questi autori la nozione del nuovo. La modernità ha coscienza di essere un secolo nuovo. “Nuovo” che cambia segno perché diventa un elemento positivo e non più negativo come nell’antichità. I moderni sottolineano la loro novità rispetto agli antichi. Il 600 è anche un secolo di permanenze, ad esempio, della tradizione scolastica di Aristotele; dell’alchimia anche nel pieno periodo della rivoluzione scientifica; rinascita di alcune filosofie della grecità della crisi ellenistica. Non è un caso che rinascano le filosofie della crisi della grecità perché il 600 è un secolo della crisi ed è il secolo della coscienza di questa crisi perché il 600 metabolizza alcuni cambiamenti, innovazioni del 500 e apre ufficialmente la crisi. Ma come in ogni momento di crisi c’è sempre una grande fertilità. Si ricercano nuove certezze e soluzioni alla crisi. Il 600 è un secolo moto fertile e il 700 non fa altro che sancire alcune delle tendenze che si sono combattute nel 600 e andare ad ufficializzarle. Il 600 è il secolo del dibattito tra gli antichi e i moderni che vede due visioni del mondo. b. Anche nel caso di “Moderno” si tratta sempre di termini relativi e non sarà qualcosa di negativo ma positivo. Il gesto di rotture di moderni sta nel rivendicare che i “veri antichi siamo noi” perché i moderni sono i maturi, i saggi mentre gli antichi sono visti come infantili e immaturi. Ci si rende conto che le conoscenze degli antichi non sono delle raccolte di verità eterne me delle affermazioni storicamente circostanziate secondo un tempo e un luogo del tempo. Quindi quelle verità degli antichi sono rivedibili. Una tesi non è più vera per il fatto di essere antica. c. Nozione di progresso perfezionamento e perfettibilità che dice di qualcosa progressivo e inesauribile. Per i moderni il sapere umano è destinato ad una progressività inesauribile. Le discipline che meglio mostrano questa capacità di perfezionamento sono: fisica, medicina e matematiche perché traiano la rivoluzione scientifiche e sono quelle discipale in cui la limitatezza del sapere degli antichi viene toccata con mano. 2. I fattori della modernità e le loro conseguenze: a. I viaggi e le esplorazioni hanno un impatto enorme. 1492 scoperta dell’America. Questa metafora del nuovo mondo compare spesso nella modernità e si declina variamente. Un nuovo mondo nel senso delle Americhe. I moderni vanno oltre tutti quei limiti che erano rimasti come degli sbarramenti. Bacone dice che il sapere è da paragone ad un viaggio avventuroso alla ricerca delle nuove terre e lo scienziato è paragonato a Cristoforo colombo. I resoconti dei viaggi riferiscono una nuova flora, fauna diversa da quella che era conosciuta in Europa e questo mette in crisi l’idea di natura come omogenea per mostrare invece una varietà, una natura che diventa cangiante e che richiede nuove categorie. Non solo si tratta della scoperta della nuova natura e nel mostrare che gli antichi avevano torto ma il problema è anche l’incontro con nuovi modelli dell’umanità che mettono in crisi l’idea dell’universale di umanità modulato sul prototipo del cristiano europee occidentale. Quell’universale uomo che prima significa una certa cosa adesso non ha più lo stesso significato. L’incontro con queste popolazioni conduce ad uno shock culturale. Da un lato i primi missionari/mercanti hanno reazioni stranite nei confronti degli usi e costumi di questi popoli ma dall’altro nel 700 si arriva a ritenerli superiori. È l’era del mercantilismo, quindi, nasce il colonialismo e l’etnografia quindi diventa inevitabile il confronto di diverse società umane. Montaigne dice che barbarie e civiltà sono relativi perché il giudizio nasce dal confronto di usi e costumi differenti. L’europeo è costretto a ridefinirsi. “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei propri usi”. C’è anche la figura dell’ateo virtuoso. Questo porta allo scollamento di morale e religione e di politica e religione. Sia la morale e la politica che si erano sempre fondate sulla teologia q questo punto si sganciano. Nasce la politica come scienza e vi fu una laicizzazione e secolarizzazione della morale quanto della politica. b. La fine dell’unità religiosità e politica europea: due secoli di guerra. La politica come scienza  gli spazi di pace in questo periodo sono davvero pochi quindi con la nascita ella politica come scienza cioè di creare delle regole, di strutturare la società perché la pace e la sicurezza diventano valori fondamentali per i moderni perché ne provano l’assenza bruciante di sicurezza. La guerra dei 30 anni rappresenta l’ultima guerra di religione e mostra come la religione non sia in grado di dare pace ma anzi un elemento che porta alla guerra. Il bisogno dei moderni di pace e sicurezza vi è anche perché flagellato dalla peste, crisi economia, demografica etc. Da qui un’esigenza di avere uno stato che dia pace e sicurezza. Il prototipo dello stato riuscito e la Francia di Luigi 14, la Francia del re sole. Dove vediamo un richiamo alla rivoluzione copernicana. L’altra conseguenza della separazione della politica dalla religione è: la nascita della ragion di stato. Con il 600 e con l’affermazione dell’assolutismo francese la religione diventa fondamento del potere e si sviluppano quelle teorie dell’impostura, come il trattato dei 3 impostori, che trovano nei fondatori delle 3 grandi religioni monoteistiche nient’altro che degli impostori che si sono inventanti una religione per mantenere meglio l’obbedienza del sovrano sul popolo. Servirsi della religione per mantenere il popolo nell’obbedienza. Ma la ragion di Stato ci conforta nell’idea della 1. Bacone privilegia induzione 2. Galilei rappresenta il punto di equilibrio tra il momento induttivo e quello deduttivo/predittivo 3. Cartesio la fisica cartesiana è principalmente deduttiva in quanto da principi della metafisica Cartesio deduce le prime teorie fisiche. Tutti e tre questi tipi di metodo ebbero modo di infierire sull’attività degli scienziati del ‘600. La nuova scienza del ‘600 fu infatti variegata ma accolse questi metodi in proporzioni diversi, almeno fino a Newton che rappresentò il vertice della concezione meccanica. La nuova scienza non va pensata come processo ininterrotto, infatti, la nuova scienza di Bacone lo prova in pieno nella misura in cui il suo modello di scienza è ancora faustiano rispetto a quello completamente meccanico rispetto a Galilei o Cartesio. Bacone Possiamo dire che Bacone è testimone di una fase ancora di passaggio e la figura del Veliero che passa tramite le colonne d’Ercole che troviamo nella copertina del Novum Organum lo indica bene cioè ci indica che Bacone è un apri pista. Bacone, infatti, non ha lasciato una teoria scientifica propriamente detta, non si serve della matematica, la sua fisica è ancora qualitativa e coniuga elementi della tradizione magico-alchemica con istanze che invece possiamo dire essere moderne. Bacone non è solo un residuo del passato e la prova sta nella molto importanza che la sua figura e i suoi scritti avranno nel ‘600 ma soprattutto nel ‘700 quando la scienza cartesiana e newtoniana vengono messe da parte insieme all’ossessione della matematica. Possiamo dire che i momenti emblematici della riflessione di Bacone sono due: 1. Fondazione della Royal Society che nasce come realizzazione dell’utopia baconiana descritta nella “Nuova Atlantide” 2. Enciclopedia dove Diderot e d’Alembert traggono l’idea dell’enciclopedia delle scienze che tenga conto anche delle arti e dei mestieri. Nella scienza del ‘600 e del ‘700 trapassano due istanze fondamentali baconiane: 1. Ruolo da riservarsi all’induzione 2. Importanza dell’esperienza e dell’osservazione paziente. Come tutti i fondatori della nuova scienza Bacone costruisce le sue teorie in polemica con quelle esistenti e la metafora è quella della scienza come edifico, che verrà poi ripresa da Cartesio. Secondo Bacone l’attuale indagine sulla natura è una grande costruzione ma priva di fondamenta ecco perché occorre una grande ricostruzione cioè che ponga all’indagine sulla natura le dovute fondamenta che sono: osservazione dei fenomeni della natura e gli esperimenti. Questo progetto era certamente grandioso che però Bacone sapeva di non poter completare da solo, questo comprendeva 6 parti di cui bacone riuscì a completare parzialmente solo 2. Non dobbiamo dimenticare che Bacone fu un uomo politico e fu anche incarcerato per concussione e la sua attività di scienziato era secondaria rispetto alle sue occupazioni primarie ecco perché delle 6 parti Bacone ne parta a termine solo 2. 1. Una prima parte che porta a termine è il “De dignitate et augmentis scientiarum” cioè una descrizione e classificazione universale del sapere 2. Una seconda parte è il “Novum Organum” Bacone interrompe la stesura del “Novum Organum” per dedicarsi alla stesura de “Historia naturalis” cioè una raccolta di esprimenti cui attingere durante il procedimento induttivo. Perché le fondamenta dell’indagine della natura sono inadeguate? Perché la natura è labirinto, teatro quindi non è qualcosa di fisso ma di cangiante. Qui si parla di fallace somiglianza di cose e di segni quindi vediamo come il discorso baconiano siano ancora qualitativo. Se la natura è un labirinto occorre possedere un filo conduttore che sia in grado di guidare la luce del senso tramite le selve dell’esperienza. Questo filo conduttore è il metodo, un metodo sicuro. Insicuro e incapace è quel filo che è stato impiegato per calarsi all’interno del labirinto della natura. Secondo Bacone lo strumento dimostrativo per eccellenza cioè il sillogismo è inutile perché è incapace di cogliere le sottigliezze di una natura che non è fissa ma cangiante, inoltre, il sillogismo è inutile perché costringe il nostro assenso e non la realtà. Bacone afferma che il sillogismo è una procedura che di per sé funziona però il problema è che se le premesse non sono evidenti nemmeno la conclusione lo sarà quindi la questione è di pervenire premesse che siano valide, vere in maniera tale da poterne poi dedurre altrettante verità. Ecco perché sarà cruciale la questione dell’induzione perché tramite questa che giungiamo alle premesse da poter dedurre. Bacone è consapevole che gli scolastici non procedevano solo deduttivamente ma anche questi risalivano dall’osservazione dai casi particolari agli assiomi generali per induzione. Tuttavia, la loro induzione, secondo Bacone, è per semplice enumerazione ovvero da un numero insufficienti di caso osservati senza un criterio si risale frettolosamente agli assiomi. Bacone afferma che bisogna mettere piombo e peso all’intelletto e non una piuma per impedirgli di risalire e volare troppo in fretta alle conclusioni. Se quindi la via che è stata più seguita è quella che dal particolare vola subito agli assiomi generalissimi la via che intende proporre è quella dell’induzione vera cioè che risalga per gradi e quindi per induzione successive dalla molteplicità dei particolari fino agli assiomi generali. È proprio questo genere di induzione che intende proporre nella seconda parte del “Novum Organum”. Prima di costruire occorre liberare l’intelletto da quei pregiudizi che lo rendono non uno specchio fedele della natura ma deformante. Si tratta di un momento metodologico primario a cui Bacone dedica la prima parte dell’opera che è detta: pars destrunes. Bacone chiama questi pregiudizi Idoli cioè come immagine, si tratta di fantasmi o anche false apparenze. Pone una contrapposizione: 1. Idoli della mente umana queste sono arbitrarie e astrazioni e opinioni inefficaci 2. Idoli della mente divine sono le vere tracce che il creatore che ha lasciato nella natura. Sono i sigilli che il creatore ha lasciato nelle creature. L’esigenza è quella di cogliere la natura in modo oggettivo non in rapporto all’uomo cioè non in rapporto alle cose come appaiono ma in rapporto all’universo cioè in rapporto con le cose come sono in sé stesse. Ecco perché occorre pulire l’intelletto. Bacone distingue due macrocategorie di idoli: 1. Acquisiti all’interno di questi inserirà: a. Idola fori hanno uno statuto intermedio tra innati ed acquisiti. Sono quelli più particolari perché si trovano a metà strada tra pregiudizi innati e acquisiti dall’esterno. Si sono insinuati nell’intelletto attraverso un patto tra parole e nomi in quanto l’uomo crede di poterli dominare invece spesso sono proprio le parole a incidere sull’intelletto. Bacone ritiene che si debba fare attenzione particolare al linguaggio cercando di definire in maniera quanto più è possibile chiara i termini e di evitare le ambiguità. Questo per Bacone deriva dalla necessità di fondare la vera induzione. Per far questo, alla filosofia precedente che è una filosofia delle parole più che uno studio della natura, occorre sostituire una filosofia delle opere. Il motto di Bacone è: “sapere per potere” perché il sapere non è più contemplazione ma ha una vocazione operativa, è un conoscere che è un fare e che conduce ad un fare. b. Idola theatri Gli idoli del teatro sono per Bacone quelli che dipendono dalle dottrine filosofiche che si apprendono. In particolar modo egli prende di mira la filosofia platonica ritenuta pericolosa per la connessione tra filosofia e teologia. 2. Innati  all’interno di questi inserirà: a. Idola tribus b. Idola specus Gli idola innati ineriscono alla natura stessa dell’intelletto, sono quelli fondati sulla natura stessa dell’uomo come genere (tribus) e come individuo (specus). Del primo tipo sono gli idola tribus che sono propri dell’essere umano in quanto tale cioè della tribù e secondo bacone tutte le percezioni sia del senso che della mente sono percezioni primariamente dell’uomo e non delle cose perché spontaneamente l’intelletto umano è uno specchio deformante cioè mescola la sua natura a quella delle cose finendo per distorcerle. Poi ci sono gli idola specus e alludendo al mito della caverna di Platone ciascuno di noi ha come una caverna in cui la luce della natura si disperde o si corrompe quindi a differenza dell’Idola tribus questi appartengono ad ogni individuo che ha le sue deformazioni che possono dipendere o dal proprio temperamento oppure dall’educazione oppure ancora dalla conversazione con gli altri. creatore delle forme, che ha lasciato come vere tracce nella natura, conosce le forme delle qualità per via positiva e affermativa per l’uomo invece sin tratta di un processo lungo e faticoso. L’uomo vi giunge solo per via negativa tramite una serie di esclusioni perché il numero di particolari è così elevato e diffuso, che distrare l’intelletto, occorre organizzare questa materiale, questa molteplicità di particolari. Egli parla di 3 tavole di ricerca ben organizzate: 1. Tavola della presenza vengono raccolti i casi che convengono alla natura del caldo, ad esempio, quindi tutte le circostanze in cui si manifesta calore. 2. Tavola dell’assenza occorre raccogliere i casi che sono presenti in fenomeni prossimi ma che riguardavano privazioni della natura del caldo cioè in questa tavola fanno elencati tutti i casi simili a quelli inseriti nella tavola della presenza in cui però il calore non si dà. 3. Tavola dei gradi si devono elencare quei casi in cui la natura del caldo si manifesta in maniera maggiore o minore o in una maniera potenziale che poi in determinate circostanze può realizzarsi e attualizzarsi. Occorre organizzare e classificare la molteplicità dei particolari all’interno di tavole così da introdurre una sequenza di induzioni. Una volta composte queste tavole si può condurre la prima vendemmia che serve ad escludere i casi contraddittori e vedere che cosa resta e quindi isolare che cosa hanno in comune tutte le cose calde. In questa maniera Bacone dà una definizione di calore. Non c’è affatto una definizione o riduzione in termini matematici del calore. Potremmo dire che per l’autore, il calore, è un caso di movimento ed è il movimento che hanno in comune tutte le cose calde. Questa definizione è speculativa e operativa cioè se in corpo naturale noi possiamo produrre un moto che possiede questi caratteri che Bacone ha indicato, allora a questo punto riusciremo a produrre il calore all’interno di un corpo che ne è. GALIELO È con Galilei che siamo in presenza del primo protagonista vero e proprio della rivoluzione scientifica seicentesca. C’è chi ha detto che tutto il pensiero scientifico moderno lo troviamo nell’opera di Galileo. I motivi a sostegno di questa affermazione sono 3: 1. Galilei ha dato per primo una formulazione ipotetico-deduttiva al metodo sperimentale 2. È il primo ad aver computo l’opera di matematizzazione della natura 3. Perché in lui si è visto una sorta di campione del libero pensiero e della autonomia della ricerca scientifica dalla teologia. Bacone aveva suddiviso quanti si dedicano alla scienza in 3 categorie: 1. Gli empirici formiche che accumulano esperienza senza però giungere a vere e proprie teorie 2. I ragni scolastici che tessono le loro ragnatele di teorie senza valutare però l’esperienza 3. Gli scienziati api che compiono esperimento per elaborare teorie Se stiamo a questa metafora galilei è uno scienziato ape che raccoglie ape e li rielabora. Per quanto Galilei non abbia scritto un’opera espressamente dedicata al metodo nei suoi scritti ritroviamo precise indicazioni metodologiche e se Bacone privilegiò l’induzione, quello di Galilei è un metodo ipotetico- deduttivo o meglio matematico-sperimentale. Secondo Galilei occorre combinare sensata esperienza (esperimenti) e necessarie dimostrazioni cioè un modello teorico. Questo sintagma si trova spesso nelle opere di Galilei sia nella forma delle “e-e” sensate esperienze e le necessarie dimostrazioni ma anche quelle delle “o-o” o le sensate esperienze o le necessarie dimostrazioni. Nel dialogo “Discorso e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze” Galilei mette in scena Salviati, Simplicio e Sagredo. Nel passo che abbiamo preso in considerazione in cui Galilei ricorda che ogni artigliere sa che per sparare una cannonata il più lontano possibile l’alzo più efficace del cannone è 45 gradi. Per quanto ogni artigliere lo sappia fornire una dimostrazione matematica di questa pratica secondo Galilei sopravanza ogni esperienza. Intendere la cagione sopravanza all’esperienza perché rende possibile fare delle previsioni che poi l’esperienza confermerà. Galilei procede tramite l’osservazione potenziata dall’uso di strumenti e la formulazione di un’ipotesi, l’esperimento verifica delle ipotesi fino ad arrivare all’enunciazione di una legge. Occorre però che quell’esperienza sia sensata cioè si tratta di non affidarsi all’esperienza comune ma piuttosto a quello che noi oggi chiameremmo esperimento. Questo perché alla luce dell’esperienza comune, ad esempio, il moto terrestre apparirebbe come una follia perché dovremmo sentire il vento della terra che sta ruotando, argomento portato avanti dagli aristotelici. L’osservazione da sola non è sufficiente per comprendere i fenomeni della natura, occorre la matematica che per il filosofo è il linguaggio della natura. Qui vi è influsso pitagorico-platonico. Occorre sostituire ad Aristotele, Archimede che fino alla seconda metà del ‘500 incarna colui che ha applicato il rigore matematico alla ricerca fisica. La matematica è il linguaggio con cui il gran libro della natura è scritto. È la struttura oggettivamente presente nelle cose stesse, ecco perché è possibile una geometria del cosmo. La fisica in questo senso la fisica non è un libro è una fantasia di un uomo ed è per questo che fuori dalle formule matematiche non è possibile una conoscenza vera ma solo quell’oscuro labirinto delle vane parole (impressioni soggettive); da qui l’importanza della matematica nello studio della fisica. La conoscenza della matematica non rivela soltanto l’affinità tra l’intelligenza umana e la natura. L’uomo è in grado di leggere, grazie alla sua mente matematica la natura che è scritto tramite un linguaggio matematico. Rivela, la conoscenza matematica, anche l’affinità tra intelligenza umana e divina. Per Galilei qualsiasi operazione matematica è identica per la mente umana e per quella divina. La certezza che noi possiamo raggiungere nelle matematiche è uguale alla certezza che Dio ha della matematica. Certamente però c’è una differenza tra la conoscenza che l’uomo ha della matematica e quella divina ed è una differenza di modo. Mentre Dio conosce la matematica intuitivamente così come simultaneamente conosce tutte le cose invece l’uomo opera tramite processi deduttivi ed è capace di cogliere una catena di connessione solo in modo discorsivo attraverso una sequenza di passaggi. Nel dialogo “sopra i due massimi sistemi” il conoscere può essere inteso in due sensi: 1. Estensivo cioè quanto alla moltitudine e dell’intellegibili. La conoscenza divina supera quella umana. 2. Intensivo quanto alla capacità di conoscere intensivamente una proposizione. Almeno per le scienze matematiche (geometria e aritmetica) pure la conoscenza umana è capace di uguagliare per certezza quella divina. Per riconoscere però le leggi matematiche che reggono la natura occorre difalcare l’impedimenti della materia cioè detrarre una somma da un’altra maggiore. Nel latino medievale difalcare significava “tagliare con la falce”; è un termine che Galilei riprende dal mondo della mercatura. Difalcare gli impedimenti della materia significa impedirli in modo che lo scarto tra il mondo concreto e astratto delle matematiche sia ridotto ad essere considerato trascurabile. Bisogna fare questo perché il problema era che nella metafisica Aristotele aveva scritto che le linee sensibili non sono per nulla tali e quali come le pretende il geometra e così via, cioè il problema era proprio questo che la realtà concreta è una cosa e non si danno sfera perfette che toccano il piano in un punto, la realtà astratta del geometra è un’altra. Il geometra potrà anche fare un’analisi teoretica però non può fare fisica questa era l’obbiezione proposta ad un approccio galileiano. Allora Galilei a questo punto ammette che c’è uno scarto tra il mondo concreto e astratto cioè non ignora che ci sono gli impedimenti della materia ma vuole eliminarli andando a sfrondare il fenomeno di tutte le componenti inessenziali che ne complicano lo svolgimento e che finiscono per nascondere la sua linearità matematica. Come fare per eliminare gli impedimenti della materia? Astraendo, semplificando, idealizzando per poi ricostruire mentalmente quegli elementi semplici che sono stati isolati. Lo scienziato dovrà organizzare dei contesti sperimentali in cui questi impedimenti della materia siano ridotti al minimo oppure dovrà immaginare degli esperimenti, mentali che mettano in lui la struttura essenziale di quel fenomeno escludendo i fattori di confusione. Difalcare non significa fare a meno della materia astraendone la forma ma anzi significa piuttosto prendere la materia senza la tara. Se per poter osservare una piuma o una palla di cannone seguono le stesse leggi occorre eliminare la resistenza dell’aria, però la resistenza dell’aria in linea di principio può essere calcolata così da spiegare il diverso comportamento dei due corpi in caduta dell’atmosfera. Lo scienziato dovrà prima isolare analiticamente le diverse componenti del fenomeno calcolandole nella legge di svolgimento una per una e poi dovrà sintetizzare tutti i fattori così da costruire il modello teorico del fenomeno stesso. Un eventuale discrepanza tra la previsione teorica e l’osservazione sperimentale segnala che il calcolatore non ha tenuto conto di tutti i fattori in gioco. Gli errori non consistono nell’astratto né nel concreto ma nel calcolatore che non sa fare i conti giusti. Il mondo della scienza galileiana è ideale le cui affermazioni non voler costruire una filosofia pratica di modo che conoscendo il potere e gli effetti dei corpi che ci circondano li possa utilizzare per migliorare le qualità di vita degli uomini e per diventare padroni e possessori della natura. Nei “principi di filosofia” chiarisce come questa filosofia debba essere una conoscenza perfetta, una saggezza volta a tre scopi: 1. Condotta della vita 2. Conservazione della salute 3. Invenzione di tutte le arti Questi sono i 3 rami dell’albero della scienza di Cartesio. Questioni epistemologiche, metodologiche e fisiche. Affinché l’albero della scienza abbia delle radici sani e forti occorre che i principi metafisici siano veri e certi e occorre anche che la da questi principi si riesca a dedurre, in maniera corretta, quei principi fisici che fanno il tronco per poi a sua volta, in maniera corretta, riuscire a fondare medicina, meccanica e morale. Tutto questo della certezza e della correttezza del procedere si occupa il metodo che non rientra nell’albero della scienza ma che funge da strumento per la costruzione della scienza. Strumento che sarà all’opera all’interno di tutte le parti dell’albero della scienza cartesiana. Come per Bacone, anche per Cartesio si tratta di ricostruire l’edificio del sapere tramite un metodo che deve rendere la ricerca della verità operativa. Fin dagli anni 1618- 20 Cartesio giunge alla scoperta dei fondamenti di una scienza mirabile cioè scienza generale che spieghi tutto quello che si può desiderare circa l’ordine e la misura. Una scienza non riferita ad una maniera specifica che Cartesio chiama matematica universale. Cartesio intuisce che al di là delle singole scienze deve stare un fondamento comune, una matematica universale che analizzi i rapporti formali secondo relazioni e proporzioni e che riconduca l’universalità delle scienze all’unità e all’ordine dell’intelletto. Questa matematica universale è ciò che si applica all’intera realtà attraverso il metodo di cui Cartesio dà due definizioni, che compaiono all’interno delle “incompiute regole per la direzione dell’ingegno” che insieme al “discorso del metodo” costituisce lo sfondo teorico del metodo cartesiano: 1. Prima definizione l’abbiamo nella regola IV ed è quella di metodo come regola certa e facile osservando esattamente le quali nessuno mai assumerà il falso in luogo del vero etc. 2. La seconda è imposta sul concetto di ordine. Tutto il metodo consiste nell’ordine e nella disposizione di quelle cose alle quali deve essere disposta l’acutezza della mente per scoprire qualche verità. Queste 2 definizione non si combattano ma anzi si completano perché procedere con rodine e secondo una disposizione significa procedere secondo regole. Dalla prima definizione noi ricaviamo 4 caratteristiche del metodo. 1. Metodo deve essere certo, eliminare il rischio di errore. 2. Deve essere facile cioè deve evitare la dispersione degli sforzi. 3. Deve essere fecondo cioè condurre ad un aumento della scienza. 4. Deve condurci alla saggezza perché così si arriverà alla vera cognizione di tutte le cose di cui si è capaci in cui consiste la filosofia. La seconda definizione rimanda all’ordine geometrico di Euclide cioè occorre far precedere ciò la cui conoscenza è necessaria per comprendere ciò che segue senza dar nulla di presupposto. Questa seconda definizione ci rimanda al mole geometrico con cui Cartesio affronta le meditazioni metafisica in maniera tale da non dar nulla di presupposto ma di procedere invece facendo precedere quelle conoscenze che sono necessarie per comprendere quelle successive. Prima di ogni metodo, prima di regole certe e prima dell’ordine, prima che venga indicata una via, ogni uomo è per natura dotato di buon senso cioè della capacità di ben giudicare, di distinguere il vero dal falso. Questa capacità è uguale, secondo Cartesio, in tutti gli uomini. Questa capacità è uguale in tutti ma se poi giungo a risultati diversi è perché purtroppo seguono diverse vie cioè seguono metodi diversi. Lo scopo di Cartesio all’interno del “discorso sul metodo” è proprio quello di illustrare il metodo che egli ha seguito nella ricerca della verità, un metodo che gli appare vero per via dei risultati che è stato capace di produrre. Il risultato di questo metodo viene esposto nei 3 saggi pubblicati insieme al “discorso sul metodo”, cioè “Le meteore” “la geometria” “la diottrica”. Posto quindi che la capacità di giudicare di ogni uomo in maniera uguale, per Cartesio le due operazioni intellettuali che manifestano questa capacità spontanea del giudicare sono: 1. Intuizione  Significa vedere dentro, è un atto che rende visibile alla mente ed è qualcosa di immediato, istantaneo. L’intuizione è la visione evidente di un oggetto, appreso dalla mente attraverso un atto semplice ed invisibile. È la visione diretta dell’evidenza. Intuitivo e immediatamente evidente sono sinonimi. L’intuizione designa una conoscenza immediata. 2. Deduzione  È l’atto con cui si conosce con certezza qualcosa che di per sé non è immediatamente evidente, a partire da altre conoscenze. La deduzione è l’atto che va connettere più intuizioni, è una catena di singole intuizioni connesse da altre intuizioni. Anche in questo caso conosciamo qualcosa di evidente che però non immediatamente evidente. Si tratta di mediatamente evidente. Intuito e deduzione stanno alla pari per quanto riguarda la certezza cioè entrambi fanno giungere a conoscenze certe ma nel primo caso l’evidenza è immediata, nel secondo invece l’evidenza è mediata perché nel caso della deduzione l’uomo ha bisogno di passare attraverso un’intuizione intermedia. La catena deduttiva poi potrà essere semplice, breve e quindi tenderà a risolversi nell’intuizione oppure complessa nel caso di una dimostrazione abbiamo diversi passaggi, più sono i passaggi più servirà l’intervento della memoria. Dal momento che la memoria può anche venir meno occorrerà di non dimenticare nulla. Dire deduzione e catena deduttiva non può che farci pensare al sillogismo ma anche Cartesio come Bacone, ritiene che il sillogismo di per sé non sia sbagliato ma il problema che vale quanto valgono le sue premesse. Occorre che queste premesse siano evidenti. A differenza di qualsiasi sillogismo la deduzione cartesiana è invece una catena di intuizioni e quindi una catena di evidenze tanto che la deduzione è anche definita da Cartesio come un’intuizione messa in movimento. È diciamo l’aspetto dinamico dell’intuizione. È una catena di intuizioni. Una volta che abbiamo capito che il metodo non deve insegnare ad intuire o dedurre perché sono operazioni che ogni uomo dotato di buon senso fa spontaneamente, il metodo svolge due compiti importanti: 1. Rende infallibile l’intuizione 2. Conduce l’intelletto sulla retta via questa retta via da seguire è quella dell’ordine. Occorre che l’intelletto nella ricerca della verità proceda secondo l’ordine. Questo spiega il titolo delle “Regole” che sono appunto per la guida, per la condotta dell’intelligenza. Nel “Discorso sul metodo” Cartesio delinea 4 regole del metodo: 1. Regola aurea che verrà applicata da Cartesio nella prima meditazione. Cartesio dice che il vero è l’evidente e che l’evidente è l’indubitabile. Evidente è ciò che resiste al dubbio e se resite al dubbio è perché è talmente chiaro da fugare ogni dubbio. Bene giudicare significa dare il proprio assenso solo su ciò che ci appare tanto chiaro e distinto da non poterne dubitare. In questo modo si eviterà l’errore e si avrà la certezza di essere di fronte ad una verità. In questo senso l’evidente è ciò la cui verità appare in modo immediato, ciò la cui giustificazione non richiede nessun’altra operazione di pensiero se non quella grazie alla quale ci è dato attualmente. Verità, evidenza significa indubitabilità. Cartesio però non ammette alcun grado intermedio tra certezza assoluta e ignoranza. Respinge tutto quello che congetturale o probabile come falso. Cartesio nella ricerca della verità è binario: o vero o falso. Se è vero è evidente o mediatamente o immediatamente e dunque è indubitabile altrimenti è falso. 2. Regola dell’analisi, della scomposizione. Il metodo non solo deve aiutarci ad intuire in maniera infallibile ma deve anche condurci a scoprire l’ordine che sta dietro ogni difficoltà. Questa prevede di dividere ciascuna delle difficoltà che si esamino in quante più parti possibili in vista di una migliore soluzione. È il precetto dell’analisi o scomposizione cioè di fronte ad un problema si tratta di non affrontarlo nella sua globalità o complessità ma di scomporlo nei suoi momenti elementari così da analizzarli singolarmente. Si tratta di scomporre nelle componenti più semplici e facili da conoscere quel problema. Queste componenti semplici e facili saranno quelle conoscibili tramite intuizione. Questo secondo precetto è legato al terzo. 3. Regola della sintesi o risoluzione che è quella che prescrivere di cominciare dagli oggetti più semplici e facili da conoscersi per risalire per gradi alla conoscenza dei più complessi, supponendo un ordine anche tra quelli in cui non vige nessuna precedenza naturale; cioè una volta che noi abbiamo individuato tramite il precetto dell’analisi degli elementi semplici dobbiamo ordinarli in una serie in modo che vengano a qualche causa è esterna non cambia il suo stato. Questa è la legge di inerzia. Questo principio dipende da Dio perché è Dio che imprime movimento alla materia affinchè assuma ordine. iii. Citazione tratta da “Il mondo” Cartesio aveva supposto di non parlare del mondo reale ma utilizzando la metafora della fiaba di un mondo simile al nostro che Dio avrebbe potuto creare negli spazi immaginari. Cartesio sta dicendo che l’esperienza sensibile in teoria non fa nulla contro la certezza di quanto viene dedotto immediatamente dai principi metafisici. L’esperienza ha, e riveste un ruolo solo subordinato cioè il procedimento diventa posteriore e no più deduttivo solo quando si tratta di quei fenomeni così particolari e minuti e così distanti dai principi metafisici che serve l’esperienza per capire tra i diversi effetti o i diversi modi di ricondurre un effetto alla causa qual è quello vero. fin quando si tratta delle leggi e della questione del vuoto o delle leggi del movimento è molto chiaro come possano essere dedotte, ma quando ci avviciniamo a quei fenomeni particolari come la questione delle maree allora a questo punto è chiaro che intervenga l’esperienza che consente di scegliere tra le diverse spiegazioni quella che meglio si accorda ai principi a priori. Non è l’esperienza nel senso baconiana del termine perché quell’esperimento è già riletto con il filtro e con gli occhi di quei principi a priori metafisici che sono in qualche modo inviolabili. 2. Essere una fisica meccanica in questo quadro non c’è distinzione tra natura sub lunare e celeste ma nemmeno tra natura inorganica e organica anzi se vogliamo dirla tutta, non c’è una differenza qualitativa tra corpi naturi e artificiali. La natura è una sola e si indentifica con la materia in movimento. La differenza tra i prodotti della natura e dell’arte, tra quelli di Dio e le opere dell’uomo è una differenza quantitativa. Cioè entrambe sono macchine, sia quelle prodotte da Dio che quelle prodotte dall’uomo, ma i corpi naturali sono macchine più complesse di quelle prodotte dall’uomo e sono dotate da un numero di parti complesse talmente piccole che spesso sfuggono ai sensi anche se si tratta sempre di macchine. Nella seconda parte dei principi Cartesio presenta i principi che regolano il mondo materiale cioè i veri e propri principi della fisica. La natura del corpo è quella di essere una sostanza estesa e non sicuramente una sostanza dotata di qualità. Quello che ci dice all’interno dei “Principi di filosofia” è come fa ad arrivare alla definizione del corpo come estensione nelle 3 dimensione geometriche (larghezza, grandezza e profondità)? Attraverso un ribaltamento dell’approccio alla natura che era proprio della tradizione scolastica-aristotelica cioè ci si arriva solo una volta che si è detto che non sono i sensi a dirci qual è la natura del corpo in quanto questi non ci dicono nulla sulla natura dei corpi se noi approcciamo la natura di un corpo attraverso i sensi allora certo potremmo dire che quella cosa colorata è dura piuttosto che pesante ma non è così che dobbiamo procedere. Secondo Cartesio i sensi ci fanno percepire queste qualità (calore, durezza etc.) che servono ad informarci su quanto un corpo possa esserci utile o nocivo nella vita quotidiana ma sicuramente non ci svelano la sua natura. L’approccio cartesiano al mondo corporeo-naturale è quello di Galilei cioè non è un approcciò che passa attraverso le qualità secondarie/sensibili ma attraverso un procedimento di astrazione tramite l’opera dell’intelletto. I sensi hanno semplicemente un valore operativo e non conoscitivo, non servono per fare scienza, per conoscere la natura occorre servirsi dell’intelletto che possiede nel tesoro del suo spirito quelle idee semenze di verità che sono quelle semplici innate che si tratta di andare a ritrovare. È l’intelletto che ci fa cogliere l’essenza del corpo materia che non consiste in queste qualità variabili ma nell’essere semplicemente estensione. Questo perché io posso togliere da un corpo la durezza, il colore, la pesantezza ma quel corpo resterà ad essere un’estensione cioè un corpo. Questo è il motivo per cui un corpo è una sostanza estesa e non una sostanza sensibile, tangibile o impenetrabile. Un corpo può essere concepito dall’intelletto come esteso anche se tutte queste qualità sono cambiate. La fisica cartesiana è fondamentalmente geometrica dove il corpo coincide con l’oggetto formale della geometria: l’estensione nelle 3 dimensioni. Mentre le qualità secondarie vengono escluse dalla spiegazione perché queste si possono spiegare in termini puramente meccanici cioè secondo i corpuscoli e moto o un determinato movimento di corpuscoli o una determinata grandezza. Tutto questo perché l’approccio alla natura è anti-empiristico. Non è attraverso i sensi che io conosco la natura cioè l’essenza dei corpi ma tramite l’intelletto, dai sensi non ci provengono idee chiare e distinte quindi come possiamo giudicare con evidenza? Il metodo ha stabilito che devo dare assenso solo a ciò che è evidente. Il criterio di verità che si trae dall’evidenza è vero, tutto ciò che possiamo concepire come chiaro e distinto. In un corpo concepiamo chiaramente e distintamente l’estensione mentre non concepiamo chiaramente e distintamente i colori, i suoni e gli odori. Cartesio non nega in maniera esplicita le forme sostanziali e le qualità reali della tradizione scolastica ma piuttosto le rende superflue nella spiegazione. Tutto quello che gli scolastici spiegavano in termini di forma può essere spiegato tramite delle particelle dei corpuscoli in movimento. Se Aristotele nella fisica aveva notato che ogni corpo si distingue da un altro perché possiede qualità sensibili per Cartesio queste qualità sono qualcosa di occulto. I corpi non si distinguono per le loro qualità ma piuttosto per la diversa grandezza, figura, disposizione delle parti che li compongono e i diversi tipi di movimento che vi sono attraverso. Quando riteniamo di percepire il colore negli oggetti anche se non sappiamo che cosa sia ciò che chiamiamo con il nome di colore poiché tuttavia non avvertiamo tutto questo ma vi sono molte altre cose che percepiamo chiaramente (grandezza, numero etc.) facilmente scivoliamo nell’errore di giudicare che ciò che negli oggetti chiamiamo colore sia simile al colore che sentiamo e così arbitrariamente pensiamo di percepire chiaramente ciò che non percepiamo in nessun modo. Noi non dobbiamo giudicare il colore di un oggetto attraverso il senso perché se così facciamo finiamo per ritenere che quel rosso che vedo possa essere simile alla sensazione di rosso che ho all’interno di me. Così non è perché i corpi posseggono la qualità, il potere che gli deriva da determinati corpuscoli in moto di produrre in me, essere sensiente cioè dotato di organi di senso, quella determinata sensazione che può essere: calore, rosso, sapore etc. ma che non somiglia per nulla a ciò che in quel corpo produce il rosso, il sapore etc. Viene meno l’idea che tra il rappresentante e il rappresentato possa esserci una somiglianza. Le idee che io ho in me dei colori, dei sapori, etc. non somigliano a ciò che in quel corpo è realmente e produce in me quell’idea. Al contrario le idee chiare e distinte delle proprietà geometriche dei corpi, qualità primarie, sono identiche all’estensione del corpo. Dall’equivalenza di corpo ed estensione si deduce che non si dà il vuoto cioè dove c’è uno spazio c’è un’estensione, dove c’è un’estensione c’è un corpo. L’altro elemento che si deduce da questa catena deduttiva che stiamo prendendo in considerazione è che l’estensione è un pieno continuo cioè il mondo è un continuo indefinitamente esteso perché non può essere limitato da uno spazio perché se fosse limitato da uno spazio allora oltre quello spazio resterebbe il vuoto. Si tratta di un mondo che non conosce limiti, se anche noi tracciassimo un limite finiremmo per discriminare due regioni ma se le pensiamo come reali sono ancora estese quindi sono ancora lo stesso mondo. Da questo punto di vista, l’argomento cartesiano per mostrare che il mondo è indefinitamente esteso e perciò c’è solo un mondo, è simile all’argomento che utilizzerà nelle 5 meditazione per provare l’esistenza di Dio cioè all’argomento ontologico. Nel caso di questo argomento, che vedremo, quando noi pensiamo Dio come essere perfettissimo non possiamo non pensarlo come necessariamente esistente perché se non fosse necessariamente esistente non sarebbe perfettissimo. Qui se noi pensiamo il corpo e l’estensione ma ogni volta che pensiamo l’aldilà, ad uno spazio ulteriore siamo ancora pensando all’estensione e quindi stiamo sempre pensando ad un corpo. La conseguenza del fatto che il mondo è indefinitamente esteso è che c’è solo un mondo e non si dà una pluralità di mondi. Per Cartesio c’è una materia che è indefinitamente estesa e le caratteristiche di questa materia sono: 1. Divisibile 2. Mobile Di per sé questa materia è inerte ma una volta che Dio imprime movimento alla materia, Dio è alla base del movimento, allora tutte le variazioni di questa materia dipendono dal movimento. Il meccanicismo cartesiano si fonda su questi principi: 1. Il corpo è un’estensione 2. Il mondo è un’estensione indefinita 3. Tutte le variazioni della materia dipendono dal movimento. La materia, estensione, è divisibile infinitamente e quindi grazie al movimento può 2. Provare che anima e corpo sono 2 sostanze diverse non solo per questioni apologetiche cioè mettere le basi per l’immortalità dell’anima dopo averne provato la spiritualità ma anche per liberare il corpo dalle forme sostanziali, dalle qualità occulte della scolastica così da costruire una fisica geometrica e meccanica. In questo modo da un lato l’anima si configura come inestesa, pensante e libera mentre il corpo come esteso, inerte, passibile di movimento secondo i principi della causalità meccanica. La natura di queste sostanze diverse cioè anima e corpo non è determinata dai sensi ma dall’intelletto che seguendo il metodo va alla ricerca delle nozioni comuni, quegli atomi di evidenza che stanno alla base dell’analisi. Le prime 3 meditazioni rappresentano l’ascesi vera e propria cioè il distogliere la mente dai sensi e sono anche meditazioni dell’incertezza in cui: a. lo spirito, perso nella notte del dubbio (I med.), si ancora al solo punto luce che trova cioè il cogito (II med.) e da lì come fa leva per giungere a Dio (III med.). Le ultime 3 meditazioni sono un itinerario discensivo cioè il ritorno alle cose, alla realtà del mondo esterno che è stata messa in dubbio nella I meditazione. Dopo aver dimostrato che Dio esiste ed è veritiero si potrà procedere con certezza armati del criterio dell’evidenza per tronare a recuperare quel mondo esterno che era stato messo in dubbio nella prima meditazione. Non dobbiamo dimenticare quello che Cartesio scrive a Mersenne cioè che queste meditazioni contengo i fondamenti della fisica cartesiana. Al termine dei 6 giorni di questa cura metafisica si esce rinnovati, si è entrati scolastici ingombri di dubbi, convinti che i sensi ci facciano conoscere alla realtà, che nei corpi vi siano forme sostanziali e poi nelle 6 meditazione si esce cartesiani in possesso di una regola di certezza, criterio di verità da applicare a tutte le scienze in particolare alla fisica, consci che i corpi sono solo estensione geometrica e che per far fisica occorre affidarsi all’intelletto. Itinerario: 1. Primo passo è quello metodico che consiste nello spazzar via i pregiudizi. Nella metafora dell’edificio della scienza che va ricostruito quello del dubbio è lo scavo delle fondamenta cioè lo scarto del vuoto. Iniziare dubitando perché secondo quella regola l’evidente è l’indubitabile quindi se troviamo qualcosa di indubitabile avremo in mano una conoscenza evidente. Il dubbio è il solvente universale capace di lasciare sul fondo solo l’evidente facendo cadere tutto ciò che è incerto. Cartesio passerà in rivista tutte le sue opinioni passandole secondo questo solvente del dubbio per cercare qualcosa di evidente. In questa meditazione non troviamo solo la prima regola del metodo ma anche la seconda. Cartesio, infatti, non elenca tutte le proprie opinioni ma va ad esaminare i principi su cui si fondano le singole conoscenze: sensi, immaginazione e intelletto vengono passati in rassegna per verificarne il grado di affidabilità. Detto questo se andiamo a vedere il carattere del dubbio cartesiano troviamo che è: a. Radicale cioè va alle radici del conoscere b. Universale perché nulla è al riparo dal dubbio c. Iperbolico perché è sufficiente un errore per scardinare un intero ordine di conoscenze d. Volontario questo aspetto è fondamentale perché distingue il dubbio cartesiano da quello scettico. Il dubbio cartesiano non dipende come quello scettico dalla natura dell’oggetto perché Cartesio va alla ricerca di ragioni per dubitare anche dove non ne vede. Finisce infatti per dubitare anche quello che psicologicamente non si riesce a dubitare cioè delle verità matematiche. Il dubbio ha poi diverse tappe che sono come ondate successive, ad ogni ondata qualcosa cede al dubbio e quindi cade e qualcosa invece ancora resiste. Ecco che Cartesio introduce delle ragioni di dubbio che sono sempre più potenti. La prima fonte di conoscenza sono i sensi cioè il principio cardine dell’aristotelismo. Cartesio parte dall’esperienza che talvolta i sensi ci ingannano. L’esempio che fa è quello delle torri che lontano ci appaiono rotonde e avvicinandoci le vediamo quadrate. Se i sensi sono inaffidabili quanto le cose lontane come facciamo però a dubitare di quelle che sentiamo, tocchiamo e vediamo da vicino? Qui per dubitare delle nozioni vicine dei sensi Cartesio recupera un tema che era proprio del teatro barocco cioè l’idea che la vita sia un sogno e che sonno e veglia siano indistinguibili. Se questo argomento riesce a generalizzare il dubbio sui sensi restano però delle conoscenze che stanno al riparo da questo genere di dubbio perché che io sogni o che io sia sveglia sarà comunque vero che 2+3 fa 5. Dopo aver messo in dubbio i sensi Cartesio mette in dubbio l’intelletto le conoscenze matematiche. Come riuscire a dubitare della validità di un’operazione matematica? Qui Cartesio introduce l’argomento di dubbio più forte cioè l’antica opinione (non idea vera) di un Dio che può tutto dal quale sono stati creati come sono cioè un Dio onnipotente così potente da avermi creato con delle regole mentali che non si applicano alla realtà. Di fronte a questo dubbio che renderebbe Dio ingannatore Cartesio preferisce introdurre un’altra figura quella del genio maligno astuto e potente che impiega tutta la sua malizia ad ingannarci. Per queste caratteristiche questo genio maligno non può che farci pensare al demonio. Questo genio maligno non mi ha creato quindi non potrà ingannarmi sulle verità matematiche, sul funzionamento della mia mente però può ingannarmi su tutto il resto. Può far sì che io dubito dell’esistenza di tuti i corpi esterni pure del mio. Per evitare di cadere in errore ora che il dubbio si è esteso dai sensi fino all’intelletto e alla totalità delle conosce che i sensi mi hanno dato, non resta metodicamente che sospendere il giudizio bisogna evitare di giudicare. È in questo clima di vertigine che si apre la seconda meditazione ed è proprio dalle profondità del dubbio che si giunge all’esperienza metafisica del cogito cioè all’intuizione della propria esistenza. A quel momento in cui il pensiero attinge l’essere. 2. “Io sono io esisto” è la prima verità incontrovertibile, è il punto di Archimede su cui far leva per costruire l’edificio del sapere. È una verità introvertibile perché in questo caso l’ipotesi di essere ingannato anziché rendere dubbio la mia esistenza l’attesta. Questo per due motivi: a. L’esistenza dell’io è condizione stessa del dubbio. b. L’esistenza dell’io è la condizione dell’inganno a cui sono sottoposto. A differenza di quanto abbiamo visto nella I meditazione, in questo caso non trovo ragione di dubbio che possano intaccare la certezza intuitiva della mia esistenza. Il cogito è un’intuizione. Quella del legame in un singolo atto di pensiero tra il pensiero e l’essere cioè tra due nozioni semplice. Il cogito non è un sillogismo la cui premessa maggiore taciuta: “Tutto ciò che pensa esiste, io penso dunque sono”. Nel discorso sul metodo Cartesio aveva utilizzato questa formula che preferisce non utilizzare all’interno delle meditazioni perché quel, “dunque”, poteva far pensare ad un sillogismo. Cartesio spiega a Mersenne che questa conoscenza non è affatto un frutto della conoscenza piuttosto lo spirito la sente e la maneggia, il vedere, il sentire indicano una conoscenza immediata e diretta opponendosi ad un’idea di ragione discorsiva. Questo è un pregio ma è anche un limite nella misura in cui la certezza assoluta della propria esistenza non è intersoggettiva, vale cioè per chi ne compie l’esperienza in modo personale. Io non posso essere certo dell’esistenza altrui né altri della mia. “Io sono, Io esisto” è una proposizione certa ogni volta che la pronuncio cioè che la sua certezza nasce dalla possibilità di annullare la distanza che passa tra la proposizione che pronuncia e l’esperienza che compio ina continua riappropriazione. Dalla prima verità cioè dalla certezza della propria esistenza Cartesio trae poi come da un modello una regola di certezza. Sarà vero ciò che concepirò con lo stesso standard con cui ho concepito il cogito; cioè sarà vero ciò che concepisco così chiaramente e distintamente da risultare indubitabile. Dal cogito quindi Cartesio trae la regola dell’evidenza. Una volta acquisita la certezza della propria esistenza Cartesio si interroga su quale sia la natura di questo “Io” che esiste. Io so qualcosa, so di esistere ma chi sono Io, che cosa ho creduto da prima di essere? È chiaro che Cartesio deve procedere con cautela perché la questione dello stabilire chi sono io e una questione tradizionale e quindi metodologicamente si tratterà di togliere dalle antiche opinioni tutto ciò che era stato messo in dubbio; dubbio che ancora permane almeno per quanto riguarda tutto il mondo esterno e compreso il mio corpo. Tra le antiche opinioni troviamo sia la concezione aristotelica sia quelle teorie della natura dell’anima di origine stoica ed epicurea b. Idee avventizie sono quelle che per Cartesio servono per cercare qualcosa che esiste oltre alla mente. Sembrano provenirmi da una realtà esterne a me. Sono queste che occorre prendere in considerazione. Io ho idee che mi rappresentano cose che stanno al di fuori di me. Ma cosa mi assicura che me le rappresentino? i. Ciò che mi sembra essere insegnato dalla natura ii. Queste idee non dipendo dalla mia volontà. Sembrano essere involontarie. L’involontarietà di queste idee avventizie e anche il fatto che sembra che ciò che la natura insegni non è ancora sufficiente, per Cartesio, a dirmi che quei che mi forniscono le idee avventizie esistono davvero perché potrebbe esserci una qualche facoltà o potenza adatta a produrre queste idee a produrre cose esteriori benché essa non sia ancora conosciuta. c. Idee fattizie  sono quelle fatte da me. Come l’idea della sirena. La via della presunta origine delle idee non porta da nessuno parte così decide Cartesio di precorrerne un’altra. Questa volta parte dalla natura stessa delle idee. Noi possiamo intendere le idee in 2 modi fondamentali: i. Dal lato della loro realtà formale  le idee sono tutte uguali, sono tutte modi, maniere del pensare, sono tutte ritagliate dalla stessa sostanza del pensiero. In quanto idee l’idea del cavallo, blue etc. sono tutte idee. Dal punto di vista della realtà formale sono tutte uguali. ii. Dal lato della loro realtà oggettiva idee come immagini delle cose, come oggetti del pensiero allora le idee sono una diversa dall’altra perché l’idea che mi rappresenta un cavallo è diversa dall’idea che mi rappresenta il blu. Nell’una il contenuto è cavallo nell’altra il blu. Qui non guardo all’idea come modo del pensiero ma per il suo contenuto che rinvia ad una realtà esterna a me che mi è rappresentata dalla l’idea. Le idee che mi rappresentano le sostanze hanno più perfezione di quelle che mi rappresentano gli accidenti o i modi, hanno più essere di quelle dei modi. Quelle che mi rappresentano delle sostanze sono senza dubbio qualcosa di più e contengono in sé una maggiore realtà oggettiva di quelle che mi rappresentano solamente dei modi o accidenti. La mossa innovatrice di Cartesio è quello di applicare il principio di casualità alle realtà oggettiva delle idee. Il principio di casualità ci dice che deve esserci nella causa almeno tanta realtà quanta ce n’è nel suo effetto. Se io analizzando le idee che ho nella mia mente (uomini, angeli, animali, cose corporee etc.) ne trovo una del cui contenuto rappresentativo non posso essere la causa perché non ho abbastanza perfezione, realtà formale per poterla causare allora quel qualcosa che mi è rappresentato di quell’idea deve esistere fuori di me e deve aver causato in me l’idea che ho nella mia mente. Quindi io trovo in me le idee di cose corporee con le loro qualità primarie e secondarie e in quanto sostanza pensante finita ho abbastanza realtà per essere la causa delle idee e delle sostanze finite e quindi degli uomini, animali etc. e per poter essere la causa eminente delle idee oscure e confuse degli accidenti cioè delle qualità secondarie perché non soltanto ho più realtà di un accidente ma ho molto più realtà accidente confuso. L’unica cosa di cui l’io non può essere causa è l’idea di Dio perché con Dio intendo una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente etc. trovo in me l’idea di Dio come sostanza infinita e io che sono finito non in me abbastanza perfezione, non ho abbastanza essere per averla prodotto dunque Dio esiste e l’ha messa in me. L’idea di Dio l’ha messa in me Dio, Cartesio procede per esclusione per capire in quale maniera ha acquistato questa idea e dopo aver escluso che non venga dai sensi o che sia un’idea fittizia si rende incontro che è un’idea innata cioè nata e prodotta con me. L’altro guadagno di queste III meditazione è questo: ora che so che Dio esiste e non è ingannatore so che la mia mente è fatta per il vero e quindi so che il criterio di evidenza vale e potrò servimene. iii. Idea come atto noematico iv. Idea come contenuto noematico CARTESIO METAFISICA PT.2 Ultime tre meditazione quelle che Cartesio conduce alla luce della certezza che gli viene da un Dio verace. Cartesio ridiscende verso i corpi che ha messo in dubbio nella I meditazione ma prima di giungere all’essenze e poi all’esistenza dei corpi deve ancora analizzare una questione: quella dell’errore. IV meditazione “Del vero e del falso” Affronta il tema dell’errore. Se Dio è verace e se le mie idee chiare e distinte sono vere come è possibile che io mi sbagli? Da dove nasce l’errore? Per Cartesio l’errore non sta nelle idee in quanto tali, fin che mi limito ad averle e non giudico sono tutte vere. L’errore sta nel giudizio, nel momento in cui giudico che le cose stanno in certo modo. Se vedo, per esempio, una torre molto lontana che mi sembra circolare quell’idea che posseggo della torre sarà confusa finché non giudico cioè non affermo che la torre che vedo infondo è circolare non è un problema. Il problema sorge quando invece asserisco che la torre è circolare perché mi sbaglio. Quando mi avvicino e ho un’idea chiara vedo che la torre è quadrata. L’errore non sta nelle idee ma sta nel giudizio. Il giudizio dipende dal concorso di 2 facoltà: 1. Facoltà di conoscere  dal mio intelletto che fornisce e presenta le idee 2. Facoltà di scegliere  dalla mia volontà che da assenso alle idee che l’intelletto le presenta. Le caratteristiche di queste due facoltà: 1. Intelletto è passivo cioè ricettivo, ed è limitato ha solo idee: a. Idee avventizie b. Idee fattizie c. Idee innate Questo pacchetto per quanto l’esperienza possa farci aggiungere idee avventizie è finito. 2. La volontà invece non è limitata ma è attiva e autonoma ed è così grande che non concepiamo nessun’altra facoltà più ampia ed estesa. Questa volontà è una facoltà di scegliere. a. Il primo punto da tenere presente è che per Cartesio volontà=libertà. b. Secondo punto da tenere presente è che se l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza con Dio lo è proprio perché è libero. La libertà è il tratto che ci rende simili a Dio. Anzi la nostra libertà è coestesa a quella divina se la considero sé stessa essa non mi sembra più grande. Con ciò Cartesio non sta dicendo che siamo come Dio, indubbiamente la libertà di Dio è diversa dalla nostra perché accanto alla volontà illimitata Dio ha anche l’intelletto illimitato cioè è onnisciente e questo spiega perché la sua azione sia più ferma e più efficace della nostra. Sta di fatto che tra l’intelletto che è limitato e finito e la volontà libero arbitrio che è infinita e illimitata c’è una sproporzione ed è proprio questa che fa si che la volontà, come capacità di assenso, possa estendersi al di là dei limiti della chiarezza e della distinzione delle idee che intelletto le presenta. c. Se la volontà non si mantiene, non si contiene all’interno dei limiti chiari e distinti il rischio che corre è quello di sbagliare e di ingannarsi. Se giudico sulla base di idee oscure e confuse ovviamente rischio di sbagliarmi. Dove non c’è evidenza la cosa migliore da fare è sospendere il giudizio in attesa di avere delle idee chiare e distinte. Sospendere il giudizio è un atto di libertà perché è volontario così come dubitare è un atto di libertà perché volontario. Qua torniamo a quel carattere del dubbio volontario che rende Cartesio diverso dagli scettici. L’errore è per Cartesio è qualcosa di non intellettuale perché non dipende dall’intelletto ma dalla sproporzione che c’è tra la volontà, libertà e l’intelletto. Fin quando ho idee chiare e distinte posso dare l’assenso senza timore di sbagliare. Dobbiamo pensare che per Cartesio la possibilità di sbagliare o errare è un elemento positivo perché è frutto di quel potere positivo che è la libertà. Non si lodano le macchine perché queste compiono i movimenti necessariamente in quanto sono state preparate proprio per quei determinati nel tema dell’inganno divino. A questo punto avendo io una grandissima propensione a credere che queste idee dei corpi partono dalle cose corporee, non vedo come si potrebbe scusare Dio di inganno se queste idee partissero da cose diverse dalle cose corporee e per tanto bisogna confessare che le cose corporee esistono. La passività intrinseca alla sensazione che suppone un’attività da parte dei corpi di causare in me delle idee combinata alla tesi del non inganno divino, fa sì che le cose esterne esistano. Altrimenti io non saprei spiegarmi quel contenuto rappresentativo delle idee di sensazione che mi vengono dai sensi e che trovo all’interno di me. A questo punto Cartesio giunge a creare questa distinzione reale dell’anima dal corpo. Distinzione reale vuol dire che anima e corpo sono due sostanze differenti. Il corpo non è l’anima, l’anima non è il corpo. Cartesio muove da una variante del criterio di verità. Io ho in me l’idea chiara e distinta di me stesso in quanto sostanza pensante e inestesa, ho un’idea chiara e distinta in quanto estesa e pensante e in virtù di quella regola, citata precedentemente, è certo che l’anima è veramente distinta dal corpo e può essere o esistere senza il corpo. Cartesio non dimostra l’immortalità ma introduce gli ingredienti che rendono pensabili l’immortalità dell’anima; il fato che l’anima sia una sostanza immateriale e quindi immateriale, spirituale e perciò semplice. Alla morte, il venir meno del corpo l’anima potrà esistere senza di lui. La versione che dà della distinzione reale di anima e di corpo nei “Principi di filosofia” è posta insieme all’unione di anima e corpo in Dio riferendosi all’onnipotenza divina. Se anche Dio avesse unito così tanto queste due sostanze da formare un’unione sostanziale, tuttavia, Dio ha il potere, se vuole, di separarle. Anche se fossero così unite da non poter essere separate, ancora Dio potrebbe separarle e quindi l’anima può ancora essere pensata come immortale. Al termine dell’itinerario metafisico quindi quell’ego che nella II meditazione era solo una mente, uno spirito si coglie come un uomo cioè come mente e corpo. La questione che si pone è quella dei rapporti che ci sono tra la mente e il corpo. A questo punto allora ci si chiede se l’uomo è una mente che si serve di un corpo? Il corpo è la prigione dell’anima? L’uomo non è altro che un angelo che abita in una macchina? Come possiamo nell’uomo l’unione di due sostanze diverse? Nella VI meditazione Cartesio dopo aver posto la distinzione reale dell’anima e del corpo presente l’unione combattendo l’immagine platonica che è quella del pilota nel battello e lo fa per prevenire l’accusa di angelismo. Cartesio combatte questa immagine perché il corpo in cui si incarna la res cogitans non è un semplice strumento, non è solo una fonte di informazioni. Il corpo agisce sull’anima e l’anima patisce l’azione del corpo. Io non sono alloggiato nel mio corpo come un pilota nel suo battello ma gli sono congiunto e talmente confuso e mescolato da comporre un tutto. Perché se la mia anima fosse alloggiata nel corpo come il pilota in una macchina io: non sentirei dolore, non avrei fame, non avrei una serie di sensi e sensazioni interni che sono quelle che mi attestano l’unione psicofisica. Tra l’anima e il corpo c’è un’unione che è psicosomatica cioè un’unione e una mescolanza tra spirito e corpo. Questa mescolanza non è altro che la compenetrazione tra due sostanze diverse (stoicismo). I corpi che mi circondano mi danno delle sensazioni e hanno un valore pragmatico cioè servono per mantenere e conservare quell’unione psicofisica di anima e corpo (uomo). L’uomo è per Cartesio una realtà unica, istituita da Dio, è l’unità di una diade. Cartesio ribadisce che questa unità è sostanziale, l’uomo è composto da anima e corpo non per la sola presenza dell’uno e dell’altra bensì per l’unione sostanziale. L’uomo non è un ente per accidente ma è un ente per sé perché l’unione per il quale l’anima e il corpo sono congiunti non gli è accidentale ma essenziale. Senza l’unione l’uomo non è uomo. Una sostanza, dato che è ciò che sussiste, allora una sostanza è sempre completa altrimenti anno sarebbe una sostanza. Anima e corpo possono essere considerate incomplete solo rispetto a quell’uno che l’uomo deve comporre. L’anima e corpo sono sostanza incomplete se si riferiscono al corpo che vanno a comporre ma se le consideriamo separatamente sono stanze complete. L’altro elemento che dobbiamo sottolineare è che Cartesio afferma che l’anima è la vera forma sostanziale dell’uomo. L’errore degli scolastici è stato quello di aver generalizzato quell’unico caso e di aver attributo anche a tutti i corpi delle forme sostanziali quando invece l’unica forma sostanziale è l’anima e lo dice al Padre Mesland. L’aristotelismo non ha fatto altro che proiettare sui corpi quel potere che l’uomo sperimenta in sé stesso cioè la forza che l’uomo ha per muovere il corpo. Cartesio chiarisce anche che l’unità numerica del corpo dell’uomo non dipende dalla materia, dalla corporeità ma dall’anima che è la sua forma. In quanto forma l’anima assicura al corpo identità e individualità. Il corpo in generale (estensione) e il corpo umano sono differenti perché un corpo in generale perde la sua identità diminuendo la sua quantità o alterando la sua configurazione materiale mentre invece il corpo di un uomo resta lo stesso finché è unito sostanzialmente alla stessa anima che ci assicura identità e individualità. L’unione di anima e corpo nell’uomo è essenziale e l’anima è la forma del corpo. Come fare a concepire l’unione? La lettera ad Elisabetta del 28 giugno 1643 è spesso citata per dire il Cartesio l’unione di anima e di corpo rimane qualcosa di incomprensibile. È possibile ma non è concepibile. Cartesio dice che è l’intelletto umano che è sottomesso all’esclusione dei contradittori non può formarsi un concetto ben distinto della reale distinzione tra le sostanze e dell’unione. La mente umana non è in grado di capire al tempo stesso che l’anima e il corpo sono unite e che sono distinte. La rappresentazione dell’unione è oscura per l’intelletto perché questo produce due rappresentazioni: unione e distinzione che non riesce più ad unificare. Ma se l’unione e la distinzione sono impensabili contemporaneamente possono però essere pensate successivamente e secondo Cartesio ci si può abituare a farlo perché basta per esempio pensare l’una e l’altra come in una catena deduttiva quando nella serie noi con un colpo d’occhio riusciamo a intenderla interamente. Il fatto che questa unione sostanziale possa essere oscura per l’intelletto non significa che sia inaccessibile. Cartesio, infatti, distingue tre nozioni primitive cioè idee innate che corrispondo sul versante ontologico a tre realtà: 1. Estensione/cose corporee e fisiche 2. Pensiero/cose immateriali e metafisiche 3. Unione dell’anima del corpo /delle cose che appartengono alle cose A queste tre nozioni corrispondo 3 evidenze irriducibili e ciascuna di esse viene colta con un proprio modo di conoscenza. La vera difficoltà che impedisce di comprendere le cose che appartengo all’unione e che si cerca di formarsi delle idee intellettualmente chiare e invece bisogna fare il contrario. Coloro i quali non filosofano mai e si servono dei loro sensi non dubitano affatto che l’anima possa muovere il corpo e che il corpo agisca sull’anima. Il solo modo di pensare l’unione richiede di uscire dal terreno della speculazione e di entrare nel campo della vita. Solo vivendo e conversando di cose ordinarie e astenendoci dal meditare dalle cose che esercitano l’immaginazione che si impara a concepire l’unione dell’anima con il corpo. L’unione mi si notifica attraverso un’esperienza continua, ininterrotta, indubitati. Come la libertà, l’unione di anima e corpo, non ha bisogno di una prova scientifica. Si trova al di là e al di qua della scienza perché è una nozione irriducibile basta sentirsi vivere. Io so che sono anima e corpo perché lo sento e perché lo sperimento con un’accezione fortissima ed evidentissima esperienza quotidiana. Noi sappiamo dell’unione perché è il frutto di un insegnamento della natura. Questa esperienza mi fa sentire incarnato e mi accerta con certezza che la mia mente muove il corpo e che il corpo modifica la mia mente. Dove sta il problema? Il problema aggiuntivo è che Cartesio non spiega di fatto bene come faccia la mentre a muovere il corpo. Secondo Cartesio l’anima informa tutto il corpo, esercita le sue funzioni nel cervello, nella cosiddetta “ghiandola pineale”. La ghiandola è il punto di raccordo tra anima e corpo, è il luogo in cui l’anima esercita la sua azione sul corpo. Per spiegare però come faccia l’anima ad agire sul corpo esteso Cartesio chiama in causa Dio. Tra l’evoluzione dell’anima e i movimenti corporei c’è una corrispondenza istituita dalla natura che fa sì che i movimenti del corpo si traducano in pensieri e che i pensieri si traducano in movimenti. Per i successori di Cartesio, per Malebranche, Spinoza, Leibniz questa spiegazione cartesiana verrà giudicata sufficiente ecco perché cercheranno nuove soluzioni a partire dall’impianto cartesiano. MALEBRANCHE PT.1 È il primo dei post-cartesiani. Possiamo isolare due caratteristiche macroscopiche della sua filosofia: 1. Unione di cartesianesimo e agostinismo. Il cartesianesimo viene da Malebranche acquisito con la lettura del trattato sull’uomo di Cartesio. L’agostinismo gli nasce dall’appartenenza all’oratorio. Malebranche è un prete dell’oratorio congregazione fondata nel 1611 da Pierre Belur corrispondente di Cartesio che lo invitò a sviluppare la sua metafisica. La congregazione dell’oratorio è nota per gli studi di Agostino e per la riprese della spiritualità agostiniana. Dalla sintesi di Cartesianesimo e agostinismo nasce la seconda caratteristica. 2. Quella di Malebranche è una filosofia cristiana e religiosa. La vera filosofia, per l’autore, è la vera religione. Egli intende unire spiritualismo cristiano e scienza moderna. In questo notiamo un primo stacco da Cartesio. Quest’ultimo aveva distinto gli ambiti della filosofia e della teologia per di quella cosa mentre tutte le qualità non sono altro che modificazioni dell’anima. Per giungere alla visione delle idee in Dio Malebranche passa attraverso le teorie che solitamente sono usate per spiegare la conoscenza degli oggetti esterni, e procede a scartarle tutte quante per poi giungere alla propria. Ne distingue quattro: 1. Idee che abbiamo dai corpi o vengono da questi 2. La nostra anima ha la capacità di produrle a partire dai corpi 3. Dio le ha messe nell’anima creandola 4. L’anima ha in sé tutte le perfezioni che vede in questi corpi Le prime due tesi sono empiristiche scolastiche, le ultime due invece sono innatiste. Malebranche va a scartarle. 1. Nel primo caso la conoscenza muove dagli oggetti che inviano ai sensi le specie intensionali che sono corpuscoli. Questa tesi è rifiutata perché questi corpuscoli materiali inviati contemporaneamente dagli oggetti che ci circondano, finirebbero per urtarsi tra loro rendendo impossibile la conoscenza. 2. Nel secondo caso la conoscenza parte ancora dai sensi ma poi interviene un processo di astrazione da parte della mente. Questa seconda tesi viene scartata perché pecca di orgoglio. Attribuisce alla creatura un potere che è solo del creatore cioè la capacità di creare esseri spirituali come sono le idee. Se l’uomo potesse produrre le idee finirebbe per essere superiore a Dio che è colui che ha creato un mondo materiale. 3. Questa spiegazione viene considerata da Malebranche troppo complicata perché se fosse così cioè se tutte le nostre idee fossero innate e poste da Dio dalla nascita noi dovremmo avere un numero infinito di idee. È così la mente diventerebbe un magazzino ingombro di idee. Dio avrebbe potuto crearci in questo modo ma questo andrebbe a contrastare con la semplicità delle vie con cui egli agisce nella creazione. 4. La quarta opinione produce da sé, attualizza tutte quelle idee che ha già innate in potenza e che trae dalle proprie perfezioni. Come nella seconda tesi questa quattro tesi pecca di orgoglio perché attribuisce all’uomo un potere che l’uomo non ha. Solo Dio può avere in sé tutti gli esseri in potenza perché solo Dio ha in sé tutte le perfezioni. La tesi corretta sarà quella che riesca combinare: semplicità e sottomissione a Dio. È questa la visione delle idee in Dio che afferma che l’anima è unita con un essere perfettissimo che racchiude tutte le idee degli esseri creati. Questa tesi pare all’autore la più consona sia la semplicità delle vie con cui Dio agisce nella creazione sia alla giusta dipendenza della creatura al creatore. In Dio vediamo le verità eterne cioè quelle relazioni logico-matematiche che costituiscono le leggi della natura e vediamo le leggi morali. Questo era alla stessa maniera anche in Agostino che diceva che ogni volta che noi vediamo la verità non la vediamo in noi ma nella ragione eterna cioè in Dio. Malebranche però ritiene che in Dio vediamo anche le essenze dei corpi cioè noi non dobbiamo pensare che nell’intelletto divino ci sia un mondo di oggetti intellegibili ma contiene solo un’idea cioè quell’idea di estensione intellegibile. Questo perché se ci fossero in Dio tutti gli archetipi di tutte le cose allora la mente divina diventerebbe un magazzino ingombro di idee e andremmo contro la semplicità delle vie con cui Dio agisce. Il vero oggetto della percezione dei corpi non è dato da tante idee particolari quante sono i corpi ma da un’unica idea che è quella di estensione intellegibile che è quella che ci rappresenta l’estensione. Questo perché l’estensione materiale data l’eterogeneità di anima e corpo in sé non è visibile ma può essere conosciuta tramite intermediario dell’idea di estensione intellegibili che è l’archetipo dei corpi. Quello che io vedo in Dio, oltre al pacchetto delle verità eterne, è l’estensione intelligibile cioè la figura geometrica dei corpi. Questa estensione intellegibile poi si differenzia in determinati modi tramite le qualità sensibili. Le qualità sensibili sono modalità della percezione che corrispondono alle diverse maniere in cui la nostra anima è modifica dall’idea di estensione che Dio applica in maniera diversa alle nostre mente in conformità al variare dei rapporti tra il nostro copri e quelli esterni. Esempio: supponendo che una pizza al prosciutto e un disco in vinile abbiamo lo stesso diametro e la stessa porzione di estensione intellegibile è fondamentale distinguerle in modo tale da non mangiare un vinile e da non mettere la pizza sul gira dischi. L’essenza dei corpi, del disco e della pizza, e la sua idea chiara e distinta coincide con quella porzione di estensione intellegibile ma ciò che rende un corpo differente dall’altro è l’insieme delle qualità sensibili secondarie che afferiscono a quel corpo e che Dio ci fa avere nel momento stesso in cui abbiamo l’idea di quale corpo cioè la percezione di quel corpo che è data dall’idea e dalla percezione. I modelli a cui l’autore si rifà sono due: 1. Illuminazione agostiniana  nel “De libero arbitrio” Agostino aveva detto che le verità necessarie, matematiche, i principi della morale non possono derivare dalle cose sensibili perché sono eterne e immutabili e quindi Dio che esercita nel nostro spirito un influsso che è detto illuminazione. Le creature cogliendo la verità partecipano alla luce dell’intelletto divino. Malebranche è convinto di riprendere Agostino e la sua dottrina però Agostino non aveva detto che in Dio vediamo anche i corpi ma secondo Malebranche non l’aveva detto perché non conosceva la distinzione tra qualità primarie e secondarie. Aveva ancora delle nozioni scientifiche imperfette ma una volta scoperto con Cartesio che i corpi si riducono a pura estensione e quindi che l’essenza dei corpi è l’estensione anche Agostino avrebbe abbracciato la visione delle idee in Dio. 2. Visione beatifica di San Tommaso parlando della conoscenza che i beati hanno delle cose create Tommaso diceva che colui che vede Dio conosce tutte le cose nell’essenza divina. Malebranche dice che non vediamo tutte le cose in Dio quindi per Tommaso l’oggetto diretto della visione dei beati non erano le cose ma le idee contenute nell’essenza divina. Malebranche va a pensare la conoscenza del viator sul modello di quella dei beati di Tommaso. Come i beati le menti umani vedono gli esemplari degli enti finiti in Dio cioè vedono l’estensione intellegibile e lo fanno per natura senza necessità di un intervento sopra naturale. Se le cose stanno così allora è chiaro che riguardo all’esistenza delle cose esterne la ragione muta. Quello che noi vediamo in Dio è, estensione intellegibile cioè un’essenza che però non implica l’esistenza necessaria ma solo l’idea di una possibile creazione. Dio sarebbe libero anche di non creare. Noi vediamo parte di Dio quella parte che Dio vuole comunicarci ma non vediamo l’essenza divina. Dio potrebbe annientare tutto questo mondo materiale e imprimere nel cervello le stesse tracce che avevamo quando il mondo era materiale esistenza e noi, secondo Malebranche, continueremmo a vedere le stesse bellezze del mondo materiale perché queste bellezze sono delle bellezze intellegibili e non materiali. Come fare a sapere che la realtà esterna esiste? Se la ragione è muta quanto all’esistenza dei corpi, una prova rigorosa dell’esistenza dei corpi è impossibile alla ragione. Per assicurarci che i corpi esistano noi dobbiamo rivolgerci alla rivelazione perché è solo la scrittura che ci dice che Dio ha creato cielo e terra. Il mondo corporeo esiste solo perché Dio ha voluto crearlo e ci dice che Dio ha creato cielo e terra all’interno della Genesi. Accanto alla rivelazione soprannaturale un’altra prova dell’esistenza dei corpi viene dalla rivelazione naturale cioè dal meccanismo teleologico finalistico della sensazione. La sensazione è voluta da Dio perché è Dio che ha coordinato le nostre sensazioni alle idee che ci mostra nella sua ragione e l’ha fatto a fini pratici cioè affinché tramite la conoscenza di ciò che ci è utile e nocivo noi potessimo mantenerci in vita e conservare il nostro corpo. L’accordo tra sensazioni e le idee è una specie di rivelazione. Per Malebranche ci sono 4 diverse maniere di vedere le cose: 1. Dio è conosciuto per sé stesso, non è conosciuto tramite un’idea come per Cartesio ma è conosciuto per maniera diretta perché solo Dio può illuminare la nostra mente e perché non è pensabile che l’essere infinito senza restrizioni possa essere rappresentato da qualcosa di creato e di finito così come l’idea. Dio è il nostro solo maestro, è il luogo delle anime e l’anima ha con lui un rapporto fondamentale. La visione delle è anzitutto visione di Dio. 2. I corpi li vediamo tramite idee e tramite l’idea dell’estensione intellegibile che ne è l’essenza. 3. Per conoscere l’essenza di qualcosa io devo possederne l’idea cioè vederne l’archetipo in Dio. Ma se io vedessi l’archetipo della mia anima in Dio saprei conoscere tutto della mia anima, in questa maniera l’uomo rischierebbe di disinteressarsi al corpo perché saprebbe se fosse dannato o se fosse salvato ma Dio ha velato all’uomo la conoscenza dell’anima tramite la sua idea. Dell’anima noi sappiamo con certezza l’esistenza perché la viviamo e la sentiamo ma di essa non conosciamo l’essenza perché non abbiamo l’idea ma solo un sentimento. 4. Il cogito non è più fondamento, l’anima è sostanza ma nella tematica cristiana dell’annientamento di sé si riduce a sguardo, a pura apertura di Dio. Le altre anime non le conosciamo né in sé stesse né attraverso le loro idee, le conosciamo per ipotesi cioè ipotizziamo che somigliano alla volontà divina. È Dio che ha voluto unire l’anima al corpo. Perché Dio ha voluto unire gli spiriti ai corpi? Queste ragioni sono sconosciute alla filosofia ma ne tira fuori una che è tratta dalla teologia: Dio ha voluto darci un corpo per metterci alla prova. L’anima nel corpo è in prova in modo da meritarsi attraverso i patimenti del corpo e l’unione con il corpo in modo da meritarci la salvezza. L’anima può essere unita solo a quello che può agire in esso, quindi, non può essere unita al corpo perché non agisce sullo spirto e nemmeno su gli altri corpi. L’autore non si limita perciò nella sua analisi della casualità di chi agisce e no nei rapporti tra anima e corpo ma compie un’analisi dell’intera comunicazione tra le sostanze. Il movimento non fa parte dell’essenza del corpo semmai il corpo ha la facoltà di ricevere movimento ma non ha da sé l’origine del movimento. Se il corpo non ha da sé il movimento come può trasmetterlo? La causa del movimento dei corpi sarà la volontà di Dio. 3. A rinforzo di questa posizione porta due tesi: a. Creazione continua la creazione non ha termine perché la conservazione delle creature è vista da parte di Dio solo una creazione continua. Una volontà che sussiste e opera costantemente. Allora se c’è all’opera nella creazione sempre la volontà di Dio, Dio vorrà che quel corpo si trovi in quella posizione piuttosto che in un’altra. b. Dio non può fare il contraddittorio Dio non può l’impossibile cioè ciò che implica una contraddizione, quindi, non può volere che una cosa stia in un posto o in un altro contemporaneamente. È ovvio che se è la volontà di Dio a dominare non lo sono le creature che sono inefficaci. Né i corpi possono muovere i corpi, né gli spiriti possono muovere gli spiriti, né i corpi muovono gli spiriti né gli spiriti muovono i corpi. Nessuna potenza può trasportarla dove Dio non la trasporta, collocarla dove Dio non la colloca se non per il fatto che Dio adegua l‘efficacia della sua azione all’azione inefficace delle sue creature. Non è solo la tesi della creazione continua a condurre all’occasionalismo o il fatto che Dio non possa fare ciò che è contraddittorio perché se guardiamo alla ragione o alla nostra esperienza nessuna delle due, prova l’efficacia causale delle creature. Se noi andiamo con la ragione a vedere qual è l’idea di causa o ci capacità di agire, vera causa è una potenza creatrice perché il causare è un creare perché è un’azione che produce il cambiamento e pone il corpo o lo spirito in condizioni diverse rispetto a quelle che Dio ha voluto dargli. La creazione richiede un potere infinito e solo Dio possiede tale potere. Se noi stiamo alla nostra esperienza noi ci rendiamo conto che c’è solo una soluzione cronologica ma non un legame intrinseco. Le modalità sono reciproche e basta cioè quando io vedo una palla da bigliardo che muove un’altra palla da bigliardo urtandola in fondo quello che vedo è semplicemente una sequenza, una successione di due eventi ma non vedo il legame necessario. c. L’ultimo elemento da tenere presente è che secondo Malebranche non è possibile fare ciò che non si sa come venga fatto. Per Cartesio il modo con cui l’anima muove il corpo e viceversa era oscuro per l’intelletto ma era chiarissimo per l’esperienza quotidiana e quindi l’oscurità della modalità con cui anima e copro interagiscono non invalidava l’idea che ci fosse un influsso reale dell’anima sul corpo e del corpo sull’anima cioè che l’anima potesse causare degli stati fisici e che degli stati fisici corporei potessero causare dei pensieri. In Malebranche un difetto di conoscenza si traduce in un difetto di potenza. Se io non sono il modo con cui quell’operazione avviene e perché non sono io a farla. Se non so come si fa è perché non sono io che faccio quella determinata azione. La tesi per cui la causalità naturale è inconoscibile era una tesi vecchia e dalla lunga storia. Malebranche così poi come Hume concordano nel dire che la ragione non è in grado di scoprire dei rapporti logicamente necessari tra gli oggetti naturali. Malebranche dice che se noi non siamo in grado di scoprirli è perché non siamo noi a porre quelle cause. Non c’è alcuna causalità naturale ma tutta la causalità va riportata in Dio. L’ignoranza di quei processi fisiologici che intervengono nel mio voler muovere il braccio e la regolarità e la facilità con cui chiunque muove il braccio ci fa dire che non è l’anima la vera causa dei movimenti del corpo, questo anche perché la volontà si rivolge solo a ciò che l’intelletto le presenta e quindi l’anima non potrà volere ciò di cui non ha conoscenza e se non ne ha conoscenza non potrà causarlo. In questo caso la conoscenza che è richiesta per muovere il corpo supera la nostra capacità. Solo Dio possiede la conoscenza che è richiesta perciò solo lui è vera causa di movimenti corporei sia degli accadimenti spirituali. Tra anima e corpo non c’è influsso causale ma una semplice correlazione. L’unione di anima e corpo non è un’unione sostanziale ma è solo il rapporto reciproco delle nostre modalità. Cause occasionali, infatti, l’unica vera causa è Dio e tutte le cause seconde o naturali non solo altro che delle occasioni per la manifestazione del potere causale di Dio. È evidente che questa dottrina che faceva di Dio l’unica causa realmente efficace non poteva che comportare dei problemi sul piano della teodicea cioè della giustificazione di Dio dall’esistenza del male. Il termine teodicea è coniato da Leibniz ma già in Malebranche troviamo la questione. Malebranche dice che se Dio è l’unica causa attiva ed efficiente e tutte le altre cause seconde sono solo delle cause occasionali cioè delle occasioni per la manifestazione divina la prima conseguenza è quella di riportare a Dio anche tutto il disordine e tutto il male del mondo. È Dio che fa tutto cose buone e cattive. Ma Dio anche se non vuole il male ma lo permette il male c’è e va spiegato. Un altro elemento è che a differenza di Agostino, Malebranche non nega la realtà del male. Il male non è per Malebranche una privazione, un non-essere, un’assenza di bene, è qualcosa di reale. Nel fornire la propria soluzione a questa questione ingenerata dall’occasionalismo Malebranche vuole evitare due scogli: a. Posizione di Spinoza che non pone la questione del male in quanto bene e male sono nozioni imperfette, sono il prodotto di una conoscenza immaginativa dell’uomo che si forgia a questi universali sulla base si una misconoscenza sulla base di come stanno le cose. Tutto ciò che è, per il fatto che è necessariamente, è positivo. Il male per Spinoza è una categoria dettata da ignoranza e solo relativa. b. Arbitrario cartesiano. Secondo Cartesio Dio fa quel che vuole e quel che fa è bene. È la tesi della libera creazione delle verità eterne che sono per l’autore create da Dio e sono contingenti come tutto il resto della creazione. dal momento che Dio ha voluto che il triangolo avesse 3 angoli è così ed è un bene che sia così. Per Cartesio Dio nella creazione è libero di libertà e di indifferenza, non ci sono delle leggi che gli si impongano è Dio che fa le leggi prima di Dio non ci sono le leggi e dopo sì. Il Dio cartesiano è libero e non è sottomesso né al PNC né al principio del meglio perché questo è semplice in quanto in lui coincidono volontà e intelletto; la sua volontà è già sapiente e il suo intelletto è già attivo. Malebranche non arriva a legare espressamente questa posizione alle tesi di Cartesio però mostra a quali conseguenza si giunga nel dire che Dio ha per regola dei suoi disegni solo la sua volontà. Dire che l’universo è perfetto perché Dio lo ha voluto significa sottrarre la questione alla ragione per spingerla verso una irrazionale inconoscibile, volontà divina che finisce per essere anche superiore alla ragione divina e alla saggezza divina che sono gli attributi di Dio che premono a Malebranche. Posto che la presenza di disordine, di imperfezione è vera ed è reale tutti gli interrogativi che si fa quanto a queste imperfezioni e disordine di cui il mondo è zeppo muovono da un punto di vista antropocentrico. Malebranche vuole contrastare questo antropocentrismo che porta a vedere nell’uomo il fine dell’opera di Dio come se l’uomo fosse la creatura sofferente, malata fosse il fine della creazione. Ma non è così perché giudicare Dio a partire da sé stessi è renderlo simile a sé. Malebranche dice che bisogna mettersi dal punto di vista dell’essere infinitamente perfetto quindi l’autore si mette dal punto di vista di Dio e se guardiamo la creazione dal punto di vista di Dio ha per fine Dio e non l’uomo, ha per fine la gloria di Dio. La creazione non ha l’uomo per fine perché nessuna creatura può rendere a Dio un onore degno di lui, spingendo a crearla. Nessuna creatura è degna di Dio. Dio riceve gloria solo da sé stesso e crea per ottenere gloria per sé. Questa gloria cosa è? Non è nient’altro che Kabod cioè il rispetto riconoscibile da parte dell’uomo dell’agire di Dio, quell’agire nel quale Dio rende palese la sua potenza. La visione del Kabod di Dio come fuoco e come raggi causa in chi ne è spettatore dei sentimenti di venerazione e di timore reverenziale. Dio ha creato per la propria gloria e non per la creazione semmai possiamo dire che è l’incarnazione che è il fine della creazione, perché questa è ciò che dà una gloria ancor superiore alla creazione. Creazione e incarnazione diventano per Malebranche indistinguibili solo l’universale santificato da Gesù Cristo è degno di Dio perché vi è una deificazione. La materia non sarebbe mai in grado di rendere gloria a Dio a meno che al mondo materiale non si fosse aggiunto in alcuni convincimenti del senso comune. Una prospettiva dirompente rispetto a quelle dell’epoca che però a Spinoza pare vera ed evidente ma vera quanto lo sono le verità più vere (matematiche). Ricordiamo che Spinoza ha intitolato la sua opera principiale “etica” e non metafisica anche se effettivamente la prima parte dell’etica è metafisica. La preoccupazione di Spinoza è davvero di natura etica: l’uomo, il suo destino, il vero bene. Questo lo vediamo dal trattato sull’emendazione dell’intelletto che viene lasciato incompiuto e che è una sorta di discorso sul metodo spinoziano. Si tratterà di conoscere la struttura dell’universo a partire da Dio e poi di indicare un itinerario all’uomo per il suo perfezionamento. Quello che l’autore propone è un itinerario mentis che è anche vite; meglio conosco più sto bene. La preoccupazione di Spinoza è quella del ben vivere e da questo punto di vista la conoscenza è fondamentale, infatti, l’ignorante vive male mentre il sapiente vive bene. Per capire il senso e la portata della rottura spinoziana bisogna precisare che Spinoza non prende di mira singole dottrine ma cerca di contrastare un certo modo di considerare le cose e il mondo. Per Spinoza gli uomini sono vittime di un certo modo di pensare che egli intende cambiare. La madre di tutti i pregiudizi è il pregiudizio finalistico ed è quello che impedisce di comprendere l’etica. Come ha origine il pregiudizio finalistico? Gli uomini conoscono i loro scopi ma non le cause li determinano a volerli e considerano gli oggetti come dei mezzi per il raggiungimento dei loro fini. Dal momento che non tutti i mezzi, di cui gli uomini si servono, sono stati prodotti da loro, gli uomini immaginano un’altra volontà che li abbia prodotti e da questa immaginazione nasce la figura di un Dio personale e provvidente che ha creato la natura dell’uomo. Dall’errata convinzione che nell’uomo ci sia una volontà libera si giunge all’idea della finalità della natura e da questa fatta per l’uomo all’idea di un Dio libero e provvidente attribuendo a sé una volontà libera. L’uomo si immagina l’idea di un Dio libero la cui volontà diventa sovranità dio viene concepito, secondo il pregiudizio finalistico come un legislatore come un sovrano onnipotente. Questa concezione che è quella tradizionale di Dio, di cui Spinoza vuole sbarazzarsi, è a suo avviso antropomorfica. L’uomo concepisce Dio a sua immagine però ad un’immagine falsata. Lo schema va dall’illusione della libertà all’illusione di un Dio libero che premia e castiga. Questa speranza del premio o questo timore del castigo conduce gli uomini di elaborare un culto per ringraziarsi la divinità. Un culto che si fa superstizione. Alla base di questo cerchio, quello della libertà e della finalità e quindi di un Dio libero e provvidente sta l’opposizione radicale tra due ordini: 1. Regno di ciò che ha volontà libera, che persegue un fine. Il regno dei fini che accomuna sia l’uomo che Dio. 2. Il regno dei mezzi cioè la natura. La natura che non ha volontà libera ma che è meccanicamente mosso. In questo modo secondo Spinoza, l’uomo si comporta come un impero nell’impero escludendosi dal regno della natura. Da un lato c’è una natura meccanicisticamente intesa e dall’altra c’è l’uomo che con la sua volontà libera, la sua assenza di determinazione si sottrare al meccanicismo naturale. L’intento di Spinoza è quello di riportare l’uomo nella natura e di concepire un solo ordine quello naturale che è un ordine meccanico. Dal pregiudizio finalistico ne derivano poi altri, in particolar modo è da esso che vengono a nascere quelle nozioni che per Spinoza sono enti di immaginazione cioè fittizi di: bene e di male, ordine e confusione, caldo e freddo, di bellezza e bruttezza. La prefazione alla 4 parte dell’etica è molto chiara: a partire dall’immaginazione di agire in vista di uno scopo gli uomini si sono formati dei modelli sulla base dei quali giudicano la realtà come buona o cattiva, bella o brutta a seconda che corrisponda o meno a quel modello. Le conseguenze a livello morale di questo pregiudizio finalistico sono parecchie: 1. Nasce l’idea di una virtù che è incaricata di suturare quello scarto che si crea tra ciò che è e ciò che deve essere cioè tra la realtà come è e quel modello che gli uomini si sono formati sulla base del quale dicono che la realtà può essere cattiva o brutta. 2. Nasce la convinzione della negatività delle passioni 3. Nascono le questioni di teodicea. Il campo teorico che Spinoza si propone di distruggere è quello fatto di volontà, finalità. Uomo eccezione di una morale del dover essere che condanna le passioni come negative. In una parola quello che Spinoza definisce moralismo e al quale intende sostituire un’etica. Il moralismo si fonda proprio sulla tesi dell’uomo eccezione, sulla convinzione che l’uomo sia libero e quindi abbia un potere assoluto sulle sue azioni, perciò, quando l’uomo non riesce a dominare i propri affetti lo si dice vizioso cioè rimanda ad un vizio. A partire dal pregiudizio finalistico il moralismo immagina una natura ideale che non esiste oppure una natura corrotta a causa del vizio e del peccato anche essa che non esiste. In entrambi casi concepisce l’uomo come quell’essere che deroga alle leggi di natura per vivere secondo una libertà eccezione. Così facendo il moralismo contribuisce a sviluppare e ad aggravare quelle passioni che vorrebbe combattere. Anziché comprendere lo attribuisce alla cattiveria umana e così facendo finisce per raddoppiare l’odio che l’uno prova per l’altro, in più considerato anche come cattivi. Dal suo punto di vista, tristezza e odio possono essere abolite quando la realtà conosciuta in maniera adeguata si mostra così com’è: né buona né cattiva. A questo moralismo intende sostituire un’etica che non è più fondata sul dovere ma sul potere riportando l’uomo all’interno della natura e compiendo una geometria delle passioni che consideri le passioni come il geometra considera le linee e i punti senza giudicarle ma soprattutto si tratterà di insegnare agli uomini come liberarsi dalla schiavitù delle passioni per vivere come liberi e cioè passare da una condizione di eteronomia ad una di autonomia. Come fare a uscire da questo circolo vizioso del moralismo? Come fare a liberarsi del pregiudizio finalistico? Servendosi di una norma diversa di verità ovvero applicando alla realtà uno sguardo matematico. La matematica fornisce a Spinoza uno sguardo sul mondo con termini non più finalistici ma in termini di necessità. Si capisce perché l’etica sia ordine geometrica dimostrata, perché muova da definizioni e poi da corollari etc. perché questo è l’unico metodo che permette di sfuggire all’illusione finalista. La forma geometrica non è un tributo alla geometria dell’etica ma è una scelta teorica ben precisa che non ha nulla di estrinseco. Spinoza intende parlare di Dio come i geometri parlano del triangolo: enunciare la natura, le proprietà e i passaggi dall’uno ai molti. 1. Prima parte dell’etica metafisica 2. Seconda parte teoria della conoscenza 3. Parte terza studio delle passioni 4. Parte quarta la schiavitù umana 5. Quinta parte la libertà umana Prima parte Dobbiamo capire come da Cartesio si arriva a Spinoza e possiamo interpretare quello di Spinoza come il tentativo di portare a rigore Cartesio e di eliminare le inconseguenze della metafisica cartesiana della sostanza. Possiamo anche dire che il tentativo di Spinoza è quello di mostrare in maniera rigorosa le implicazioni filosofiche della definizione di sostanza come autosussistenza. Cartesio aveva detto che sostanza è ciò che sussiste di per sé ma poi aveva sostenuto che non si potesse applicare la sostanzialità in senso univoco a Dio e alle creature. Se la sostanza è ciò di per sé sussiste allora di per sé sussiste Dio che è sostanza infinita ed è quello che da un certo punto di vista Cartesio riconosceva. Ma poi Cartesio ammetteva un’eccezione cioè specifica che il concetto di sostanza non si applica in maniera univoca a Dio e alle creature e quindi che possiamo chiamare sostanze anche le menti e i corpi che non hanno bisogno che di Dio per sussistere. Spinoza ritiene inconseguente a questa posizione che se prendiamo sul serio la definizione di sussistere come ciò che di per sé sussiste non possiamo che attribuire la sostanzialità solo alla sostanza infinita Dio rendendo corpi e menti solo come dei modi cioè delle modificazioni delle affezioni, di quell’unica sostanza Dio. Se andiamo a vedere la definizione di sostanza (ciò che in sé ed è concepito per sé) che dà Spinoza ci rendiamo conto che egli somma da un lato la aseità ontologica cioè che la sostanza è ciò che è in sé e dall’altro la perseità logico-gnoseologica perché la sostanza non è solo in sé ma è anche per sé concepita. Aseità e perseità, ontologico e logico, coincidono. La sostanza è definita da Spinoza in termini di indipendenza ontologica e di auto sufficienza epistemologica. Da questa definizione Spinoza trae le più radicali conseguenze teoretiche perché a questo punto sarà sostanza soltanto ciò la cui essenza implica l’esistenza ma se sostanza è solo ciò che è causa sui allora è chiaro che soltanto Dio, in cui esistenza ed essenza coincidono, può essere sostanza. Se la sostanza si caratterizza per essere in sé e per sé concepita come l’attributo cioè ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza è per sé concepito ma non è in sé ma è nella sostanza. Per quanto riguarda i modi non sono né in sé e nemmeno per sé concepiti. I modi sono nella sostanza e sono concepiti attraverso la sostanza. Come Spinoza giunge a dimostrare l’unicità della sostanza? Via breve persevera nel suo essere, nell’”Etica” questa forza di perseverare nell’essere viene a coincidere con il “conatus” che è lo sforzo di perseverare nell’essere che coincide con la potenza. La potenza, lo sforzo con cui la cosa tende a preservare nel suo essere non è altro che l’essenza data della cosa stessa. Per cui chi dice “conatus” dice potenza intesa come produttività e poiché in Dio questa potenza coincide con la sua essenza allora è chiaro che Dio non sarà altro che infinita produttività. Infatti, nella prima parte dell’etica Spinoza dice che la potenza di Dio è la sua stessa essenza. Potenza che non è volontà libera. Il Dio di Spinoza non è quel Dio cartesiano che crea le verità eterne e come un re le pone come leggi nel suo regno. La potenza di cui sta parlando non è la potenza di una persona ma è piuttosto una capacità di produzione: un’infinità produttività. Ecco allora che dalla necessità della natura divina che è produttiva devono discendere le cose in infinite maniere. Se Dio è infinitamente potente in quanto produttivo fa discendere infinite cose in infinite maniere, tutto ciò che è esprime la natura di Dio in un determinato modo quindi nulla esiste dalla cui natura non segua qualche effetto. Tutte le cose esprimono questa potenza produttiva che è Dio e perciò producono qualche effetto. Tutto quindi è produttivo. Al Dio persona, onnipotente delle religioni rivelate che, come un re, pone nella natura le sue leggi, Spinoza va a contrapporre il Dio che non crea ma produce necessariamente in virtù della sua irresistibile potenza produttiva. Nel porre Dio sé, Dio pone tutto ciò che è. Le cose, quindi, seguono dalla natura divina non per un libero decreto ma per un’irresistibile capacità di produzione. Il Dio di Spinoza è causa immanente e non transitiva cioè quando parliamo di causa transitiva intendiamo una causa che pone una separazione tra sé e l’effetto che causa. Nel caso della causa immanente la causa è presente negli effetti e gli effetti permangono all’interno della causa. Tutte le cose che sono, sono in Dio e per Dio si devono concepire. Dio è di tutte le cose la causa immanente. Questa produzione è necessaria. Parlare di necessità a proposito di Dio è quanto si possa fare di meglio perché per Spinoza essere necessario non significa essere effetto di una causa ma essere causa di uno o più effetti. Maggiori sono gli effetti che seguono da quella causa e maggiore sarà la sua perfezione. Dio è perfetto in quanto è causa di tutto e dal momento che una sola è la sostanza allora tutto ciò che è esprime in un certo modo la natura della sostanza sarà altrettanto produttivo. L’impossibile per Spinoza si riduce all’attuale cioè al necessario, il contingente è tale solo per ignoranza della causa che lo determinata ad essere. Nel momento stesso in cui Dio pone sé, pone anche in virtù della sua necessità della sua natura tutto ciò che è. Non si dà nulla in natura di contingente, il contingente è frutto di ignoranza. Se le cose stanno così, dobbiamo andare a vedere come intenda Spinoza la libertà e la libertà della sostanza. Libertà non potrà essere indifferenza. Dio è libero perché tutto segue infallibilmente in atto dalla necessità della sua natura. Libertà, perciò, per Spinoza si contrappone non per necessità ma anzi coincide di fatto con la necessità esiste e produce tutto ciò che segue da sé ma si oppone alla costruzione o coazione. Necessaria o coatta è quella cosa che è determinata da altro. Dio è libero perché determina gli eventi che seguono da lui e non è determinato da altro cioè agisce in virtù della necessità della sua natura e la libertà è così autodeterminazione. Ma se tutto ciò che procede da Dio è determinato e agire in un certo modo da Dio allora come faremo a parlare di libertà per l’uomo? Vedremo che nella 4 parte dell’etica Spinoza parla di schiavitù umana cioè della forza delle passioni ora Spinoza si propone ad insegnare agli uomini di imitare la libertà della sostanza insegandoli a determinare loro stessi, il che è possibile con la conoscenza adeguata che è la stessa in noi e in Dio. Anche l’uomo quando è causa adeguata delle sue azioni, quando agisce in virtù della necessità della sua natura determinata è in qualche modo libero. Anche se il Dio sostanza è immanente ai modi, tuttavia, non si riduce ad essi e non si identifica con la sommatoria dei modi intesi come parti. La sostanza infinita è pura positività, è manca di negazione. Il finito è negazione in quanto determinazione. Il finito e il determinato in quanto determinazione e negazione non è negatività perché ogni cosa è positiva, ma è potenza. C’è una differenza tra la sostanza e i modi. Dio, abbiamo detto, è causa sui cioè esiste perché in lui essenza ed esistenza coincidono, Dio è la vita; nei modi invece l’essenza non coincide con l’esistenza. Questo torna a dire che mentre Dio ha l’esistenza necessaria i modi non hanno l’esistenza necessaria ma esistono necessariamente in quanto prodotti da Dio. Ecco perché a Dio spetta l’eternità che non è né la totalità del tempo né un’estensione indefinita della durata ma l’eternità è assenza di tempo cioè pienezza di essere di vita. Per Spinoza del tempo si parla ai modi, è un ente di ragione ma che dal punto di vista della sostanza non si dà. Ai modi spetta una durata cioè una esistenza del tempo che è indefinita perché non può mai essere determinata attraverso la stessa natura della cosa esistente e nemmeno dalla causa efficiente, la quale si pone necessariamente l’esistenza della cosa ma non la toglie. Questa durata è frutto di una comprensione inadeguata perché da un certo punto di vista il modo dura perché poi ricade quando esaurisce la potenza e torna nella sostanza ma dal punto di vista della sostanza è eterno. La condizione della finitezza è questa: essere un anello di una catena infinita di eventi, essere un nodo in una rete di cause a maglia infinita. Ogni modo, infatti, è causato direttamente da Dio ma è anche all’interno di una catena causale di altri modi, catena causale infinita. Questa catena di cause ed effetti assomiglia ad una rete dal momento che tutto è produttivo e nulla esiste dalla cui natura non segua un effetto. Perciò ogni cosa è causata da infinite altre e non solo regredendo cronologicamente attraverso ciò che è stato determinato precedentemente ma anche attualmente perché infinti modi causano un singolo modi che a sua volta partecipa a causare altri modi. Ogni cosa è attualmente causa e sempre effetto di qualcos’altro. Solo la sostanza è causa di sé e solo la sostanza è assolutamente libera nella misura in cui non è determinata da altro mentre i modi sono sempre determinati altro e determinati. L’insieme delle leggi causali e dei rapporti tra i modi costituisce la: NATURA NATURATA mentre la sostanza e i suoi attributi costituiscono: NATURA NATURANS. Si stratta naturalmente della stessa realtà considerata sotto due punti di vista differenti. SPINOZA PT.2 Abbiamo detto che per Spinoza c’è una sola sostanza da cui discendono infinite modificazioni, la conseguenza di questa impostazione è che l’uomo non è una sostanza. All’essenza dell’uomo non appartiene l’essere della sostanza ossia la sostanza non costituisce la forma dell’uomo. Spinoza rompe con il principio antropologico che ha guidato il pensiero europeo da Aristotele in poi e rompe anche con la concezione cartesiana. Se il cogito, soggetto cartesiano, che si è sostanzializzato in una res cogitans è l’atto fondante della moderna concezione di individuo Spinoza vi si oppone. Piuttosto l’essenza dell’uomo è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio. L’uomo pensa dunque è un modo del pensiero, l’uomo è corpo dunque è un modo dell’estensione. Allora la mens non è una facoltà, non è l’anima, non è sostanza ma non è nemmeno attributo cioè non è pensiero in senso assoluto ma piuttosto pensiero determinato in un certo modo, quindi, finisce per coincidere con un’idea particolare che è l’idea del corpo. La mente è idea-corporis in quanto la mente è idea del corpo e può conoscere le modificazioni di quel corpo e indirettamente gli altri corpi che modificano il suo corpo. La mente non è solo idea del corpo ma è anche idea- idee cioè è coscienza delle modificazioni del corpo nello stesso momento in cui sa qualcosa sa anche di saperlo. Dal momento che il corpo è qualcosa di estremamente complesso: composto di parti che mutano nel tempo e però conservano una certa costanza di rapporto e dal momento che la mia mente non è che l’idea del corpo allora la mia mente sarà singolare e plurale, sarà tante idee correlate che seguono lo svolgersi della mia corporeità. Da un lato diverrà e dall’altro rimarrà sé stessa pur essendo sempre diversa. Questo perché esprime in modo proprio il divenire continuo di quell’insieme complesso che è il mio corpo, il quale diviene e a sua volta gode di una relativa continuità. Se le cose stanno così è chiaro che Spinoza non ha più il problema cartesiano della relazione tra mente e corpo perché mente e corpo sono solo due modi della stessa identica sostanza concepita sotto due diversi attributi. Allora l’ordine e la connessione dell’idea della mente saranno identici all’ordine e alla connessione delle cose tanto più che la mente è idea del corpo. Leibniz che ha definito la dottrina di Spinoza dei rapporti tra mente e corpo come un parallelismo termine da un lato comodo perché esprime bene l’idea di una corrispondenza tra i due ma al tempo stesso è un termine limitativo perché Spinoza non dice che le modalità di corpo e di mente sono reciproche ma dice che l’ordine è uno solo. Così anche un modo dell’estensione e l’idea di quel modo sono la stessa cosa ma espressa in due modi e perciò troveremo un solo e stesso ordine. Troveremo che le stesse cose seguono da una parte e dall’altra. Il parallelismo non restituisce l’idea di unità presente nella concezione spinoziana perché introduce una forma di dualismo che non c’è. Corpo e mente in modi diversi designano una stessa e medesima cosa sarebbe meglio parlare di uguaglianza. In Spinoza c’è solo un ordine e questo è causale. Il Dio di Spinoza a differenza di Leibniz non si limita a sincronizzare stati della mente e del corpo ma non è nemmeno come il Dio di Malebranche che a livello occasionale fa sì che una volizione della mente occasionalmente ausi uno stato del corpo e viceversa. In Spinoza mente e corpo sono due diverse espressioni di una medesima cosa. L’uomo non è sostanza e nemmeno un essere doppio. Quando Spinoza scrive che l’uomo consta di mente e di corpo quel constare quella di ridare legalità e naturalità agli affetti come passioni. Il secondo intento è quello di condurre gli uomini dai loro affetti passivi che sono le passioni ad affetti attivi a quelli di cui siamo causa. si tratta di condurre l’uomo da una condizione di passività (eteronomia) a diventare soggetto attivo di un mutamento migliore di sé, tramite la conoscenza adeguata cioè l’idea chiara e distinta, per ragione, delle nostre vicissitudini affettive. Spinoza nell’etica si chiede di che cosa siamo capaci. I concetti fondamentali su cui si pone la teoria dell’affetto sono: 1. Conatus  ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere. L’essenza di ogni cosa è questo sforzo (conatus). 2. Cupiditas questo sforzo di perseverare nell’essere è nell’uomo uno sforzo cosciente ed è quello che costituisce la sua essenza e viene chiamata cupiditas cioè desiderio. Il desiderio è ciò che costituisce l’essenza dell’uomo. Questo desiderio si manifesta come ricerca di procurarsi tutto ciò che può conservare e aumentare la potenza di ciascuno. L’antropologia che introduce Spinoza è concepita secondo un modello energetico e non sostanzialistico. Se l’essenza dell’uomo è desiderio, Spinoza, va cerca di chiarire qual è la natura e la dinamica degli affetti scoprendo le leggi che regolano gli affetti e le associazioni che ne derivano. Il tentativo di Spinoza è quello di costruire una sorta di psicologia dinamica. Posto che l’affetto ha questa struttura bipolare, Spinoza, distingue: 1. Affetti passivi  passioni che l’uomo subisce. L’uomo è passivo quando quegli affetti non dipendono solo da lui ma anche dalla forza delle cause esterne. Di quegli affetti sarà solo causa parziale e inadeguata. 2. Affetti attivi  affetti di cui l’uomo è causa adeguata. L’uomo è causa adeguata dei suoi affetti quando essi vivono totalmente dalla sua natura. L’uomo è causa inadeguata quando ne è causa solo parziale. L’uomo è attivo quando è causa adeguata totale degli affetti che produce cioè quando quegli affetti derivano dalla necessità della sua natura. Gli affetti si distinguono per: 1. Azione  attivi 2. Passione  passivi L’uomo è un campo interattivo e simultaneo di azioni e passioni. L’uomo quindi è una forza, è un modo di una rete casuale a maglia infinita; una forza in relazione costitutiva e strutturale con altre forze che lo ostacolo o lo promuovono nel suo sforzo (conatus) di perseverare nell’essere. Posta la cupiditas (desiderio) le altre due forze basilari, in cui questo sforzo di perseverare dell’essere si esprime, sono: 1. Gioia desiderio che cerca e ama ciò che porta ad un perfezionamento. È il passaggio dell’uomo da una minore ad una più grande perfezione. È un rafforzamento nello sforzo di perseverare nell’essere. Dalla gioia deriva l’amore cioè è la gioia accompagnata dall’idea di una causa esterna che ci produce quel potenziamento. La gioia e i suoi derivati possono essere agiti o patiti. Infatti, abbiamo: a. Gioia attiva/azione b. Gioia passiva/passione se la causa adeguata di quella gioia non deriva dalla natura necessaria dell’uomo ma è il semplice concorso favorevole di circostanze esterne allora quel sentimento di perfezionamento che la mente prova non dipenderà dall’uomo ma deriverà da altro a cui l’uomo non ha attivamente contribuito. Questa gioia dipende dalle cose esterne ed è una passione propriamente detta. Quando vengono meno le circostanze esterne anche essa finirà per tramutarsi in tristezza. 2. Tristezza desiderio che fugge e odia ciò che comporta una perdita di perfezione cioè perdita di potenza nello sforzo di perseverare nell’essere. È il passaggio dell’uomo da una maggiore ad una minore perfezione. È un indebolimento nello sforzo di perseverare nell’essere. Dalla tristezza deriva l’odio cioè è la tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna che produce quell’indebolimento. La tristezza e tutti gli affetti che derivano da tristezza sono chiaramente delle passioni cioè patiti perché comportano un depotenziamento. L’uomo per natura desidera ciò che gli è utile e sfugge a ciò che gli è dannoso. Lasciarsi determinare da altro da sé è la schiavitù delle passioni che viene da Spinoza definita come impotenza nel moderare e contenere gli affetti. L’impotente per eccellenza è quell’uomo che è soggetto agli affetti perché non è padrone di sé stesso ma è in balia della fortuna. Questa impotenza consiste nel fatto che l’uomo si lascia guidare dalle cose che sono al di fuori di lui e non da quelle che esige nella sua natura in sé considerata perché, causa di gioia, tristezza o desiderio, può essere per accidente una cosa qualunque in quanto ci può capitare di amare e/o odiare alcune cose senza nessuna causa a noi nota. Il problema, infatti, sta proprio nella non conoscenza della causa. Quando ci troviamo di fronte ad oggetti che non suscitano in noi delle emozioni univoche ma ambigue allora molto spesso il risultato di chi vive ignorando le cause è quello che Spinoza chiama una fluttuazione d’animo. La situazione di una mente che si trova ad essere scissa dominata da due effetti contrari finché ci muoviamo nel campo dell’immaginazione non potremo che restare schiavi delle passioni. L’uomo anziché agire guidato dalla ragione è vittima ancora della conoscenza immaginativo, del pregiudizio finalistico e dell’ignoranza delle cause è in balia della fortuna. La fortuna che è sorte ma che diventa la serie delle cause esterne che si ignorano e così facendo si continua a fluttuare in uno stato alternato di speranza e timore. Una cosa qualunque può essere per accidente causa di speranza e di timore. 1. Speranza è una gioia incostante che sorge dall’idea di una cosa futura o passata. 2. Timore è una tristezza incostante sorta dall’idea di una cosa futura o passato del cui evento in una certa misura dubitiamo. Questi affetti: speranza e timore e tutto ciò che deriva da essi, designano un difetto di conoscenza oppure un’impotenza della mente e quindi quanto più sforziamo di vivere sotto la guida della ragione tanto più ci sforziamo di dipendere il meno possibile dalla speranza e di liberarci dal timore. Ma cercheremo anche di liberarci di tutte quelle passioni tristi cioè tutti quei derivati dalla tristezza che è depotenziamento. Anche un affetto di per sé positivo può essere patito o agito allora anche l’amore che deriva dalla gioia potrà essere una passione o qualcosa di attivo. Gli affanni e le disgrazie dell’anima hanno origine soprattutto da un amore eccessivo per una cosa che è soggetta a molti cambiamenti e che non possiamo mai possedere completamente. L’amore è una passione ed è patito fin tanto che l’uomo rimette tutta la propria gioia in quella causa esterna che ne è la fonte e quindi si aliena nell’amare un determinato essere, in questo modo che nasce l’amore dipendenza, passione che è inquinato da: invidia, gelosia e da una serie di affetti di tristezza. La dimensione essenziale dell’amore, per Spinoza, sta nel recuperare quella forza che è sempre stata nostra cioè quella gioia che prova chi ama mentre invece la causa esterna di questa gioia, l’amato, ha solo una funzione di accompagnamento. Se l’amore può essere passione ma anche attivo, l’odio è cattivo. Tutti gli affetti di odio sono cattivi e chi vive sotto la guida della ragione si sforzerà di liberarsene affinché neanche un altro patisca questi affetti. In questo contesto si inserisce il precetto spinoziano che è quello di cambiare l’odio con l’amore. Non è un precetto religioso perché nell’ottica spinoziana ogni cosa tende a perseverare nell’essere ed a potenziarsi allora non ha senso depotenziarsi odiando, cosa che inevitabilmente per gioco delle cause attirerà altro odio da parte del nostro interlocutore ingenerando un’aspirale negativa. Meglio interrompere questa catena contrastando l’odio con un affetto attivo come l’amore. Il compito fondamentale della dottrina etica è quella di insegnare come è possibile trasformare un affetto passione in un affetto azione; come perfezionare quanto più possibile la nostra forza di autoconservazione. Dobbiamo dire che è impossibile, per l’autore, una liberazione totale dalle passioni perché è impossibile liberarsi dell’immaginazione. Noi non possiamo fare a meno di essere strutturati come siamo: corpo in rapporto con altri corpi. Per liberarsi dalle passioni non si tratta di eliminarle ma cercare di esercitare un controllo tramite la ragione. L’uomo che agisce guidato dalla ragione è felice perché guida sapientemente quelle pulsioni che la corporeità origina e le guida a quel potenziamento massimo del corpo e della mente che è il loro esito naturale. Nel sistema spinoziano tutto ciò che è, è necessariamente quello che è e quindi è positivo. Non c’è di per sé bene e male poiché sono enti di immaginazione ma Spinoza recupera bene e male in senso relativo proprio in questo contesto. Se l’essenza dell’uomo consiste nello sforzo di perseverare l’essere nel desiderio allora il suo compito etico sarà nel trovare il miglior modo di perseverare nell’essere e quindi il bene sarà ciò che contribuisce a perfezionarci nell’essere, il male invece sarà ciò che ci ostacola. 1. Bene= ciò che ci è utile 2. Male= ciò che ci danneggia Negli anni seguenti Pascal progetta un’opera, “Le pensèes (i pensieri)”, destinata a difendere la fede cristiana (apologetica), non si tratta di difenderla contro pagani, musulmani ed ebrei ma quanto piuttosto di portare alla religione quelle persone indifferenti che Pascal vede crescere in numero attorno a sé. Si tratta di far rinascere la fede in una società che si dice cristiana ma che di fatto non lo è. La domanda che Pascal pone è: può un uomo vivere senza preoccuparsi del senso della sua esistenza? Così a partire dal 1657/58 Pascal si applica a questo progetto ma il suo lavoro è interrotto da una malattia che affaticandolo gli rende impossibile il lavoro intellettuale. Quando muore lascia, infatti, un manoscritto incompiuto composto di vari testi e frammentari, discorsi, lettere, aforismo etc. Gli amici ricopiamo il manoscritto come lo hanno trovato fatto di striscette di carta, diversamente ritagliate e legati in mazzi. La prima pubblicazione è nel 1670 si tratta di un’edizione riveduta e corretta dai giansenisti che ne modificano i termini che potevano più urtare o essere vicino al giansenismo ai tempi condannato. Fino al 1842 fu questo il testo conosciuto a cui seguono varie edizioni: Brunschvicg del 1857 e Chevalier del 1952 che cercano in qualche modo di ricostruire questi vari frammenti immaginando il piano dell’apologia incompiuta cercando di presentare dei testi più leggibili dando comunque una loro interpretazione; Lafuma del 1951 e Martineau del 1992 cercano invece, di ricostruire il testo primitivo originario andando a copiare e riprodurre l’ordine dei frammenti così come erano legati. Ecco perché la scelta dell’aforisma non è una scelta vera e propria ma tanti dei frammenti di Pascal suonano come aforismi perché la morte ha impedito a Pascal di condurre a termine il suo progetto. Quest’opera rimane ancora oggi un testo enigmatico. L’apologetica pascaliana è originale e atipica per l’epoca, nel 600 si trovano dei testi che hanno per titolo la dimostrazione delle verità della religione cristiana. I pensieri non vogliono dare una dimostrazione diretta delle verità della religione cristiana ma intendono far agire il lettore facendogli rinascere il desiderio di verità che è in lui. Questo tipo di approccio presuppone uno studio di come si aderisca alla verità ed è quello che Pascal fa all’interno dell’opera “L’arte del persuadere”. Qui distingue due vie per giungere alla convinzione: 1. Via naturale l’intelletto 2. Via comune la volontà Pascal sottolinea in questo testo che la gradevolezza piaccia di più delle prove, spesso noi aderiamo a qualcosa, ad un’idea più perché ci piace e non perché è vera. Le verità divine a differenza della normale via entrano dal cuore all’intelletto e non viceversa. Secondo Pascal, per quanto riguarda le verità di fede, la solo dimostrazione non basta a far nascere la convinzione perché l’uomo crede a molte cose che non sono dimostrare e per quanto la fede non sia un che di piacevole si tratta di emozionare e inquietare. Pascal, inoltre, ricorda che per quanto riguarda le realtà naturali bisogna conoscerle prima di poterle amare invece per le proprietà soprannaturali che passano attraverso il cuore occorre amarle prima di conoscerle. Il segno più evidente del peccato è che questo ordine è stato invertito. Molto spesso, nella vita di tutti i giorni, ci si accontenta delle simpatie e poi vengono le ragioni mentre invece per quanto riguarda Dio si esigono le prove della sua esistenza per poi amarle. C’è bisogno di prove prima di amare sé stessi? Pascal si proponeva di cominciare la sua apologia da un ritratto della condizione umana. Già da questo inizio si vede l’originalità di Pascal rispetto ad altri apologeti, perché non si tratta di parlare della religione parlando di bellezze e meriti ma si tratta di parlare dell’uomo. Von Balthasar definisce il metodo di Pascal “metodo dell’immanenza” che trova come punto di partenza l’analisi dell’essere dell’uomo storico concreto ma è anche un metodo indiretto perché l’uomo considera sé stesso e da questo guardare a sé nasce il desiderio religioso. Si tratta di arrivare a Dio passando attraverso la coscienza dell’uomo. Pascal vuole mostrare che l’uomo da solo risulta incomprensibile e che le sue contraddizioni si risolvono e si comprendono pensando al destino più alto a cui è chiamato. È un metodo indiretto perché non si parla di Dio direttamente ma si parte dall’uomo per poi, attraverso le contraddizioni dell’uomo, giungere a Dio. Da questo punto di vista quindi non si tratta di mostrare che la religione è razionale il che sarebbe assurdo, ma piuttosto che la religione è ragionevole non perché deducibile da ragioni ma perché dice la verità sull’uomo. In questo senso potremmo anche dire che l’antropologa si fa in Pascal la vera ancella della teologia cristiana. Il frammento “Disegno e ordine dell’apologia” ci dice quale fosse il progetto di Pascal: si tratta di rispondere al disprezzo mostrando che la religione non è contraria alla ragione e si tratta di rispondere alla paura mostrando che essa è desiderabile, degna di venerazione perché ha ben conosciuto l’uomo e degna di amore perché promette il vero bene. Possiamo distinguere due grandi momenti: 1. Mettere l’uomo in condizione di accettare le prove della verità della religione cristiana 2. Esporre le prove della verità della religione cristiana: profezie e miracoli. Queste prove non sono dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio ma prove morali tratte dalla scrittura. Pascal parte dell’uomo e dal ritratto della condizione umana. La prima parte “Dei pensieri” è dedicata proprio all’uomo senza Dio e questo è un re spodestato e perciò grande e misero al tempo stesso: grande perché è re, misero perché è decaduto. Questa duplicità dell’uomo è espressa dalla congiunzione “e” l’uomo è al tempo stesso grande e misero non ora l’uno o l’altro. La sua miseria è quella di essere un re decaduto, non sarebbe infelice se non si sentisse vuotato ad un altro destino. Ma nonostante il peccato abbia corrotto le facoltà dell’uomo resta in lui un bruciante desiderio di felicità e verità. Questo desiderio ci ha lasciato tanto per punirci quanto per farci sentire da dove siamo caduti. La miseria dell’uomo è espressa dalla vanità, dalla distrazione, dalla noia che sono però anche segnali della grandezza dell’uomo. Procedendo dal contro al pro, come spesso fa, Pascal fa notare che la vana gloria è sì miseria ma è anche grandezza. Il risultato di questo modo di procedere tramite contrarietà è quello di condurre l’uomo a prendere cosciente di essere una chimera cioè un mostro incomprensibile cioè inspiegabile dalla ragione ma spiegabile attraverso la fede. Quella verità e quella beatitudine a cui aspiriamo potranno essere riempiti solo tramite la religione. Prima del peccato, infatti, l’uomo ama Dio e sé stesso in Dio ma dopo il peccato quell’amore si fa amor proprio, egoismo e vanità. L’uomo che si è messo al posto di Dio non può non vedere la propria miseria. L’uomo che pretende di amarsi finisce per odiarsi e per sfuggirsi inorridito. Quella che Pascal ci presenta nella prima parte, è una sorta di tragedia in tre atti: 1. Teatro della vanità che conduce l’io ad occupare il centro della scena 2. Passione della noia. Dopo che la vanità si è rivelata ad un miraggio si scopre il nulla sotto la maschera dell’io. 3. Distrazione cioè la serie di tattiche che gli uomini introducono per evitare di pensare alla morte e al nulla della loro natura che si è allontanata dal divino. TEATRO DELLA VANITA’ Il primo effetto del peccato è la vanità e l’amore proprio: l’io che con il peccato si mette al posto di Dio. Così la creatura si fa centro, distogliendosi dal suo vero centro pensandosi autonoma e padrona di sé. La vanità dopo il peccato diventa il motore principale di tutte le azioni umane ecco perché ci sforziamo di apparire. Cerchiamo di apparire qualcuno agli occhi degli altri cercando di acquisirci una reputazione. Il mondo dopo il peccato diventa una sorta di carnevale perpetuo di maschere in cui gli uomini assumono un ruolo per colmare quel vuoto che l’io una volta spezzato il legame con Dio. In quella vanità propria dell’umano è già sempre anche presente la consapevolezza della miseria nascosta sotto la maschera perché quell’io che si vanta sotto sa che la sua presunzione è il frutto di una maschera sociale che ha assunto per corrispondere al giudizio degli altri. Per Pascal l’identità che assumiamo non è nemmeno scelta da noi stessi ma la traiamo dagli altri, dallo sguardo dell’altro che me la suggerisce e spesso quello sguardo ci inchioda ad un ruolo che non è nostro ma che ci tocca poi portare avanti. Se abbiamo la tranquillità, la generosità, la fedeltà ci adoperiamo di farlo sapere allo scopo di far inerire tali virtù al nostro l’altro essere. Pascal dice, riprendendo Cartesio nella seconda meditazione, che un uomo si mette alla finestra a guardare i passanti se io passo di là posso dire che si è messo per vedermi? Rispetto a Cartesio, Pascal non parla di “ego” o di “io” ma dice “il me”. Per Pascal è solo attraverso lo sguardo degli altri che io posso apprendere chi sono. “Il me” non è capace di elevarsi da sé alla coscienza di sé ma deve passare attraverso la mediazione dello sguardo altrui. Mentre Cartesio non dubita di sé ma di quel che vede cioè se i passanti sono uomini o automi, con Pascal “il me” per strada si interroga sul giudizio che lo spettatore alla finestra formulerà su di lui. Questo perché per Pascal l’uomo è essenzialmente creatura, solo Dio può dire “ego sum qui sum” la creatura non ha l’essere da sé ma loro riceve da colui che glielo attribuisce. Prima del peccato la creatura riceve l’essere da Dio dopo il peccato lo riceve dagli uomini da cui dipende la sua reputazione e la stima che gli viene accordata sul teatro del mondo. Potremmo anche dire che quello di Pascal è un cogito dell’immaginazione e non dell’intelletto: esisto perché mi si ammira perché qualcuno mi guarda. Abbiamo detto che “il me” di cui faccio mostra è una maschera che mi viene da altro, è un ruolo che altri mi hanno attribuito. astrattamente da una ragione geometrica, di fronte al destino dell’uomo la ragione geometrica si mostra impotente. Nel colloquio con Monsieur De Saci, direttore spirituale di Pascal, Pascal va ad affrontare la questione del valore della filosofia e del valore della ragione lasciata a sé stesa cioè priva dei lumi della fede. Pascal mette a confronto due sette filosofiche L’intento di Pascal è quello di mostrare fino a che punto la ragione possa arrivare e debba lasciar posto alla fede ma vuole anche mostrare ai libertini e agli increduli che i loro campioni non sono in grado di rispondere alla domanda “Cos’è l’uomo”. Ecco perché Pascal nel colloquio mette a confronto: 1. Epiteto stoicismo. Epiteto è uno dei filosofi al mondo che abbiano meglio conosciuti i doveri dell’uomo, questo è il suo valore ed è l’elemento positivo dello stoicismo. Ma il suo limite è quello di misconoscere l’impotenza dell’uomo. L’errore sta nel ritenere che l’uomo con le sue proprie forze possa concepire il proprio dovere: rendersi santo e compartecipe di Dio. Questi principi sono di una superbia diabolica e conducono lo stoicismo ad una serie di errori: a. Anima come sostanza divina b. Dolore e la morte non sono mali c. Ci si può uccidere quando si è così perseguitati Dietro questa posizione si vede anche tanta parte della filosofia di Spinoza: panteismo, il dolore e la morte come qualcosa che non può essere ritenuto male perché relativi. Lo stoicismo conosce ciò che l’uomo deve fare ma misconosce ciò che l’uomo può. Conosce l’uomo ideale ma misconosce l’uomo reale e così facendo cade in quell’orgoglio che è la versione filosofica del peccato originale. 2. Montaigne scetticismo. Per quanto riguarda Montaigne dubita di tutto, il dubbio che dubita di sé e l’ignoranza che si ignora. Il valore del suo scetticismo sta nel vedere la superba ragione così invincibilmente oltraggiata contrapponendo scetticamente ragione e ragioni. Però riconosciuta la debolezza dell’uomo, l’autore si adagia senza ricercare il vero e il bene così facendo si comporta da pagano. Montaigne precipita l’uomo nell’accidia. Entrambe le filosofie hanno capito qualcosa dell’uomo, entrambe però ignorano qualcosa dell’uomo, né danno un’immagine solo parziale. Non è solo un’immagine parziale ma fatta di opposti: l’uomo grande dello stoicismo e l’uomo misero dello scetticismo. Per avere una visione totale dell’uomo non basterebbe in fondo sommare e ciò che c’è di buono delle due filosofie trovando una filosofia che spieghi l’uomo? secondo Pascal è impossibile perché risulterebbero come una distruzione generale perché stabilendo l’uno e l’altro il dubbio, la grandezza dell’uomo e l’altro la sua debolezza essi mandano in rovina tanto la verità che la falsità l’uno dell’altro. Queste due filosofie non fanno altro che autodistruggersi perché secondo Pascal le filosofie non possono che pensare il soggetto come semplice, univoco, identico e come tale se si sommassero lo penserebbero come irriducibilmente contraddittorio. L’uomo sarebbe al tempo stesso e sotto il medesimo rispetto: grande e misero. Allora il superamento della filosofia lo si ha con il cristianesimo. Se per la filosofia l’uomo resta un enigma e quindi la filosofia fallisce al loro compito è solo spostandosi sul piano della fede che noi possiamo porre grandezza e miseria come soggetti diversi. Questo perché sia Epiteto che Montaigne ignorarono la cesura che è stata portata originale. Il piano della fede introduce la considerazione del tempo, di un prima e di un poi, di un uomo che era prima grande e poi è misero anche se conserva tutt’ora la traccia della sua grandezza, grandezza a cui è ancora chiamata attraverso la grazia. Da questo punto di vista l’uomo di Epiteto è quello della prima natura mentre quello di Montaigne è quello della seconda natura cioè quella corretto. Solo il cristianesimo permette di spiegare l’uomo e lo fa attraverso un dogma inspiegabile alla ragione ma che si rivela esplicativo per la ragione. Senza questo mistero (peccato originale) noi restiamo incomprensibili a noi stessi. La duplicità del soggetto che la filosofia non riesce a pensare senza cadere in contraddizione, trova il suo modello nella duplicità dell’uomo-Dio che è Gesù Cristo. L’antropologia non può che fondarsi su una cristologia che rende ragione di due nature, soggetti e stati. Ecco l’unione nuova che Dio solo poteva insegnare e poteva fare. Gesù Cristo è il mediatore della via in un duplice senso: 1. È la via che conduce da Dio all’uomo perché rende possibile all’uomo pensare sé stesso 2. È la via che conduce dall’uomo a Dio perché non si arriva se non tramite Gesù Cristo. L’ultimo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la superano. Rispetto a Spinoza e ai libertini Pascal opera un ribaltamento. Nel trattato teologico-politico Spinoza aveva detto che la filosofia è il luogo del vero mentre la religione ha un valore pratico, cioè conduce all’obbedienza quell’uomo che non avendo le capacità non è in grado di elevarsi ad una visione filosofica di Dio. Questa era anche la tesi dei libertini che fanno della religione uno strumento di politica o per mantenere il popolo nell’obbedienza. Pascal ribalta questa concezione indicando invece nel vangelo il luogo della verità perché solo il vangelo spiega l’uomo e lo restituisce a sé stesso e nella filosofia invece solo quello dell’utilità. Si serve della filosofia guarendo il male con il male. Si tratta di mostrare che la filosofia può essere utile alla religione quando in gioco autodistruttivo se ne introduca la sconfitta. Questo spiega anche perché Pascal dice che filosofare significa prendersi gioco della filosofia. Nella negazione di ogni filosofia l’apologetica si inaugura mostrando che la filosofia vale solo per la sua autodistruzione. Se le cose stanno così è chiaro che per Pascal le prove filosofiche dell’esistenza di Dio sono inutili. 1. Le prove metafisiche sono inutili per l’ateo perché non sono convincenti ma sono lontane dal modo di ragionare dell’uomo che colpiscono poco. Anche quando servissero a qualcuno servirebbero solo per il momento in cui essi riescono a cogliere tale dimostrazione ma un’ora dopo temeranno di essersi sbagliate. 2. Le prove fisiche sono inutili e inefficaci perché l’indurimento di cuore non fa vedere nella natura, all’ateo, la mano di Dio. 3. Per Cartesio che l’autore definisce prima inutile e incerto e poi inutile e certo. Il punto non è tanto la certezza o l’incertezza delle prove di Dio cartesiane quanto piuttosto la sua inutilità perché Cartesio dimostra l’esistenza di Dio per utilizzarlo come principio per regolare la macchina mondo e non come oggetto d’amore. Pascal invece sostiene il valore delle prove morali cioè quelle tratte dai miracoli e dalle profezie delle scritture, quelle prove che vanno al cuore e discute che le tappe della conversione possano essere: ateismo, deismo e cristianesimo. Come se le prove metafisiche o fisiche potessero una strada per arrivare alla fede. L’ateo con i lumi della ragione, possa prima raggiungere un Dio come essere infinito, necessario, primo motore e poi da lì elevarsi a far coincidere questo concetto metafisico di Dio con il Dio rilevato. Le cose però, non stanno come dice Cartesio, perché secondo Pascal il Dio dei filosofi non è quello dei cristiani ma soprattutto il Dio dei cristiani non è quello dei filosofi. Allora come fare a riconoscere nel Cristo crocifisso l’essere perfettissimo che esiste necessariamente della metafisica? Contro Cartesio scrive che il Dio dei cristiani non consiste solo in un Dio autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi, questa conoscenza senza Gesù è inutile e sterile. Il Dio dei cristiani è un Dio di amore e consolazione. Per Pascal il credere è primo rispetto al sapere e il credere poi informa il sapere che diventa un sapere storico cioè di qualcuno e non di qualcosa. Le prove possono avere senso solo per chi già vede secondo la luce della fede e della grazia, le prove possono servire a rafforzare il cristiano che già crede e non rendono l’uomo molto progredito nella vita della sua salvezza eterna. La fede non è una convinzione che nasce da un ragionamento, è un dono di Dio. La fede è Dio sensibile al cuore e non alla ragione. Ma cosa è questo cuore? Dobbiamo pensare che il cuore è l’organo attraverso cui noi cogliamo quei primi principi come spazio, tempo, numero che stanno alla base della geometria. Questi primi principi sono così chiari ed evidenti che cercare di definirli ulteriormente significherebbe oscularli e ingarbugliargli. I principi si sentono e le proposizioni si dimostrano e il tutto con certezza se bene per vie diverse. Il cuore è l’organo dei primi principi. Il residuo della prima natura originaria e non ancor corrotta dal peccato ma è la traccia rimasta nell’uomo in una condizione in cui amare e conoscere erano due cose ancora non distinte. E anche il luogo dell’incontro con Dio è ciò che appartiene all’ordine degli affetti e ciò che appartiene all’ordine della conoscenza. Da questo secondo punto di vista (ordine degli affetti) la cosa migliore per pensare in maniera corretta il cuore pascaliano e pensare al cuore agostiniano che Dio può inclinare oppure al cuore della bibbia che Dio può indurire o che può far tornare da cuore di pietra a cuore di carne attraverso il ruolo della grazia. Abbiamo già visto parlando della distinzione tra spirito geometrico, finezze e cuore come per Pascal ci sia una pluralità di spiriti. Distinguendo tre ordini del reale Pascal ribadisce che non c’è un unico accesso alla realtà a seconda degli oggetti della realtà. Questa distinzione dei tre ordini non è una dottrina è piuttosto una classificazione che nasce da un bisogno dell’uomo: mettere ordine ad una realtà che dopo il peccato appare caotica. I Non c’è un mezzo il segreto del gioco? Si la scrittura e tutto il resto, rimanda quindi alla liberazione. Il libertino resiste e descrive il suo stato d’animo e chiede cosa debba fare. Nemmeno la ragione e il calcolo, che pur inclinano a credere, non riescono a produrre la credenza perché occorre cambiare punto di vista cioè abbandonare il secondo ordine, quello geometrico matematico e diminuire le passioni. Pascal, cartesianamente, dice di piegare la macchina cioè vivete come i cristiani e ciò che vi farà credere. Quello che serve è un gesto. Infine, Pascal mostra dal punto di vista del cristiano non c’è gioco perché non c’è posta. Pascal è morto prima di poter sviluppare in toto questo argomento che ci rimane in questo stato. È convincente secondo noi, Pascal? HOBBES PT.1 Con Hobbes assistiamo alla rigorosa applicazione del meccanismo della nuova scienza a tutta la realtà. Hobbes è contemporaneo di Cartesio e la sua filosofia costituisce l’alternativa materialismo al cartesianesimo. È il fondatore della politica come scienza. Con Hobbes assistiamo alla rigorosa applicazione in senso materialistico del meccanicismo che la nuova scienza aveva contribuito ad affermare. Da buon meccanicista: corpo e moto sono da soli sufficienti a spiegare qualsiasi fenomeno naturale. Se Cartesio aveva distinto due generi di sostanze: corpi e menti e le anime, per Hobbes c’è una sola sostanza ed è la materia. Hobbes è un materialista convinto: esistono solo corpi che distingue tra quelli i quali il loro essere sia dato in natura oppure risulti da un’operazione umana: 1. Corpi naturali 2. Corpi artificiali Da questa prima distinzione la filosofia che è scienza dei corpi, si suddivide in: 1. filosofia naturale si occupa dei corpi naturali 2. filosofia civile  si occupa di quel corpo artificiale che è lo stato. Questo accade perché per Hobbes anche il corpo politico dello stato è un corpo artificiale. Il termine intermedio è dato tra questi due dall’antropologia cioè dallo studio dell’uomo. L’uomo viene inteso come il più perfetto dei corpi naturali e dall’altro lato l’artefice del corpo politico dello stato. La trilogia degli elementi filosofici si fonda sull’organica tripartizione: 1. De corpore cioè la fisica quindi lo studio dei corpi naturali 2. De cive cioè la politica e quindi lo studio di quel corpo artificiale che è lo stato 3. De homine cioè l’antropologia. Abbiamo detto che la filosofia è scienza dei corpi, quindi, è conoscenza di corpi per Hobbes ma anche conoscenza della loro generazione cioè delle cause che li producono. A seconda del tipo di conoscenza che abbiamo delle cause che producono i corpi egli distingue due vie per la conoscenza: 1. Via a priori che dalle cause deduce gli effetti. È quella propria della matematica, della geometria e anche della politica cioè di quelle scienze i cui principi sono delle astrazioni o produzioni degli uomini. 2. Via a posteriori che dagli effetti risale alla causa. È quella propria della fisica questo perché per Hobbes conoscere è fare. Conoscere un cerchio significa saperlo generare. Hobbes da questo punto di vista anticipa il principio del verum ipsum factum di Vico. L’uomo può conseguire un’assoluta certezza solo quando è egli stesso a produrre ciò che conosce. Così come il caso del cerchio della geometria così come il caso della politica. Noi dell’artificiale abbiamo una conoscenza delle cause, che è già una conoscenza certa e apriori. Quando non siamo noi a produrre l’oggetto, così come il caso della fisica e della scienza della natura i cui corpi non sono fatti dall’uomo ma da Dio, noi possiamo solo ricostruire il processo generativo di questi corpi procedendo per via ipotetica dagli effetti alle loro possibili cause. Questa seconda via è a posteriori ed è una conoscenza ipotetica-induttivo. La fisica ha una valenza semplicemente ipotetico-induttiva. Hobbes vuole estendere il suo paradigma fisico meccanicistico anche all’ambito della conoscenza formulando quella che potremmo chiamare una cinematica dei fatti mentali. Se tutto è corpo e movimento allora anche la mente e il cervello saranno percorsi da moti. Il punto di partenza di ogni conoscenza sono i sensi. La sensazione è spiegata in termine di movimento corporeo. Questo movimento che da un oggetto esterno si trasmette tramite dei nervi al cervello ha come effetto una reazione/una risposta a questo movimento che è la produzione di una rappresentazione mentale o fantasma o sensio che si ingenera nel soggetto sensiente. Lo schema della sensazione è uno schema di azione e reazione. L’azione degli oggetti sugli organi di senso, azione che viene poi, attraverso i nervi trasmessa al cervello, è qui una reazione (reattività organica-meccanica) che è la produzione della sensazione o fantasma. Questo perché per Hobbes ogni azione comporta una relativa passione. Una volta che è cessata l’azione diretta di quell’oggetto sul soggetto quell’effetto prosegue per moto inerziale e questo permanere in forma attenuata della sensazione passata non è altro che l’immagine. A sua volta poi l’immagine sensoriale sedimentata nella memoria diventa e si fa idea o concetto. La prima conseguenza di questa impostazione è che per Hobbes immagine e idee coincidono anzi sensazione, immagine e idea coincidono. Se io non ho una sensazione non avrò un’immagine e se non avrò un’immagine non avrò l’idea. Quello di Hobbes è, quindi, un sensualismo perché di quel che io non vedo, non sento e non tocco non potrò avere un’idea. È chiaro che per Hobbes non potrò avere né un’idea dell’anima né l’idea di Dio cioè di tutto ciò che è spirituale. Sensazione, immagine e poi memoria sono lo stesso movimento dell’animo inerziale che assume nomi differenti a seconda dei diversi aspetti sotto i quali viene considerato senza però mutare la sua natura. L’immagine prodotta tende a conservarsi anche se oscurandosi e indebolendosi a causa dell’azione predominate che sempre nuovi oggetti producono sugli organi di senso e quindi l’immaginazione non sarà altro che il senso che si affievolisce e la memoria è la stessa cosa dell’immaginazione; solo che l’immagine è l’immagine vera e propria mentre la memoria è l’essere divenuta più oscura e debole col passare del tempo dell’immagine. La memoria è anche la capacità di confrontare un’immagine attuale con le immagini passate e questo perché restano nella memoria. Oltre alle immagini delle singole sensazioni, restano nella memoria, anche le connessioni tra una sensazione ed un’altra e quindi tra un’immagine e un’altra. Se le cose stanno così le immagini vengono a disporsi in serie e nel loro disporsi riflettono l’ordine stesso delle sensazioni che le hanno suscitate. C’è una legge associativa che lega tra di loro le sensazioni e lega, di conseguenza, anche le immagini che sono sedimentate nella memoria. In virtù di questa legge associativa le immagini vanno a connettersi in un discorso mentale che per Hobbes è comune agli animali e all’uomo. A differenza di Cartesio che aveva reso gli animali macchine, Hobbes mette tra animale e uomo una differenza di grado quantitativa. Per Hobbes l’uomo è solo un animale più evoluto. Hobbes chiama questa associazione di immagini “Discorso mentale” perché si tratta di un discorso preverbale che può essere: 1. Inordinato cioè non guidato, senza disegno e incostante. 2. Discorso ordinato cioè regolato da qualche desiderio e disegno. Questa seconda specie si distingue nella ricerca delle cause che producono un effetto immaginato o nella ricerca degli effetti che una cosa è in grado di produrre. Questa ultima qualità è per Hobbes propria degli uomini perché dice di una qualità previsionale che gli animali non posseggono. L’attività del pensiero consiste allora per Hobbes nella ricostruzione di queste connessioni tra una sensazione e l’altra e tra l’immagine e un’altra. Si tratta di connettere il pensiero alle sue cause oppure ai suoi effetti. L’esperienza mi fa addizionare le immagini. Questo tipo di connessione prelinguistica implica che anche gli animali, che fanno la stessa cosa cioè hanno la capacità di discorso mentale, ragionino. Gli animali compiono le stese operazioni mentali degli uomini che consistono nell’addizionare o sottrarre immagini. La differenza tra uomo e animale si ha con l’intervento del linguaggio perché solo l’uomo si serve del linguaggio passando dal discorso mentale ad un discorso verbale. In questo modo l’uomo trascende la semplice conoscenza originaria con i suoi dati empirici. Questo perché è un animale un po' più evoluto. L’invenzione più nobile e proficua è quella del discorso che consiste in nomi e appellativi è nella loro connessione. Questo perché nel discorso verbale, le connessioni tra le immagini vengono tradotte in proposizioni: affermative o negative mediante l’adozione di note o segni espressioni o comunicativi cioè attraverso l’adozione del linguaggio. Si viene ad attribuire alle immagini dei nomi. I nomi imposti ai fantasmi (immagini) hanno una duplice funzione che è mnemonica cioè hanno il compito di richiamare le immagini delle cose e in virtù delle leggi associative anche le loro connessioni e da questo punto di vista sono delle note. E poi hanno una funzione comunicativa cioè servono a far capire agli uomini le cose da noi pensate e le connessioni che abbiamo stabilito tra le altre cose; e da questo punto di vista sono segni. Per Hobbes il linguaggio è arbitrario, la sua posizione Se l’immagine di quell’oggetto va a favorire il moto vitale del corpo si produce per moto animale il movimento di avvicinamento cioè il desiderio se invece ostacola il moto vitale del corpo si produrrà l’avversione. Le manifestazioni esterne del desidero e dell’avversione sono: 1. Il piacere  provare piacere significa favorire il movimento conativo cioè le condizioni vitali del corpo e allora si avverte piacere. 2. Il dolore quando si avversa un oggetto c’è un peggioramento delle funzioni vitali corporee e allora si avverte il dolore. Quando la nostra immaginazione trattiene un oggetto che ci fa provare piacere allora lo reputiamo buono e il nostro corpo si rivolge verso quell’oggetto desiderandolo; al contrario quando il nostro corpo entra in relazione con un oggetto esterno e questa relazione produce un peggioramento delle condizioni vitali allora quell’oggetto verrà considerato cattivo. Quando l’oggetto desiderato è presente il desiderio è dominato amore mentre l’avversione viene definita odio. Noi giudichiamo buono quello che desideriamo e cattivo quello che avversiamo. Se le cose tanno così è chiaro che essendo ciascuno di noi diverso dall’altro, non ci sarà per Hobbes un bene e un male oggettivo. Si parla di relativismo. Ma per Hobbes chi è l’uomo? Non è affatto l’animale politico/sociale di Aristotele. L’uomo non è un animale politico ma per Hobbes è un animale molto egoista. Se piacere ed avversione sono movimenti, se le passioni sono movimenti è chiaro che per Hobbes non si dà mai una tranquillità di spirito. Hobbes rovescia la posizione stoica ed epicurea che vedevano nel desiderio la fonte del turbamento, sia l’ideale classico di vita buona e felice come armonia tra le passioni. La vita per Hobbes è una corsa e il motore sono le passioni. Abbandonare la pista è morire e la felicità consiste nel superare continuamente chi si ha davanti. Stando alla costituzione dell’uomo, l’uomo è necessariamente sempre desiderante perché è sempre soggetto al conatus che può essere di desiderio o avversione, e allora anche la felicità non può che stare nella costante e rinnovarsi del desiderio. La felicità è un continuo progresso del desiderio da un oggetto ad un altro. Il continuo inquieto rinnovarsi del desiderio è perché a differenza dell’animale, il cui desiderio è limitato al qui e ora, l’uomo è anche capace di desiderio mentale che gli nasce dalla capacità di proiettarsi nel futuro e questo genere di desiderio non conosce limite. L’uomo non si accontenta. L’altro elemento da sottolineare è che la misura del desiderio aumenta con il confronto, si alimenta con la competizione. Bisogna stare davanti agli altri. L’uomo è un meccanismo auto conservativo, moto vitale che va conservato e incrementato attraverso il moto vitale, un meccanismo conservativo che in competizione con gli altri uomini cerca di incrementare la propria intensità conativa. È qui che si inerisce il concetto di potere. Per poter perseguire questo incremento occorre avere il potere di assicurarsi l’insieme dei mezzi presenti che saranno in grado di produrci non solo un piacere presente ma anche un piacere futuro. L’inclinazione naturale dell’uomo è quello di desiderare un potere dopo l’altro senza tregua in modo da conservare e potenziare quel potere che ha nel presente. Hobbes distingue: 1. Poteri originali  poteri naturali del corpo e della mente: forza, bellezza, intelligenza etc. 2. Poteri strumentali poteri, in parte, acquisiti grazie ad essi. Nell’ottica della ricerca del potere l’altro sarà considerato molto spesso come un’occasione per incrementare il proprio potere. Il correlato del potere è l’onore cioè il riconoscimento che gli altri ci tributano del nostro potere e che ci arreca piacere. Da qui il fatto che l’uomo ricerchi il potere e anche l’onore e il fatto che gli uomini siano valuti in base al potere che hanno piuttosto sulla base del modo con cui si servono delle loro potenzialità. L’uomo di Hobbes somiglia terribilmente all’uomo della seconda natura quella decaduta del peccato pascaliano. L’altra considerazione che possiamo fare è che Hobbes abbondona l’idea di un’etica del fine, non c’è né fine ultimo né sommo bene, per un’etica dei mezzi. Infatti, la politica non sarà altro che l’escogitazione di una forma di potere che risulti adeguata a questa struttura psicologica dell’uomo. L’uomo è non solo un animale egoista e anche un prometeo ansioso. È un prometeo ansioso perché è preoccupato del futuro perché nello sforzo di procurarsi sempre maggior poter, l’uomo cerca di controllare il futuro e conoscerlo con certezza ma la conoscenza certa del futuro compete solo a Dio quindi l’uomo tende prometeicamente a Dio tutte le volte che cerca di conoscere lo svolgersi della previsione futura. Questa apertura al futuro è quella che differenzia l’uomo dagli animali ma è anche quello che gli fa prendere maggiormente coscienza dei suoi limiti. L’esito della consapevolezza della propria finitezza è l’ansia. Questa è la passione in cui si esprime la sofferenza di non essere Dio e la consapevolezza di essere mortali e quindi la paura della morta. Questo bisogno che lo abita di assicurare il futuro con qualsiasi mezzo. Gli ingredienti che rientrano nel foggiarsi in Dio sono: 1. L’ansia del futuro 2. Paura della morte 3. Curiosità come desiderio di conoscere le cause della propria buona o cattiva sorte. Hobbes è convinto, dopo le guerre, che la religione non è più sufficiente a garantire la certezza del futuro e rassicurare l’uomo sul futuro. Bisogna rivolgersi ad altro. Le forme che l’ansia assume una volta declinata all’interno della relazione sociale sono tre: 1. Rivalità 2. Diffidenza 3. Orgoglio Queste sono le situazioni emotive che rendono possibile e frequente, in stato di natura, la guerra di tutti contro tutti. L’uomo è indotto a ricercare per sé il potere e l’onore e lo fa in competizione con gli altri. La competizione e la rivalità amplificano la ricerca del potere. La continua vana ricerca di apprezzamento, ricerca della vana gloria e dell’onore cioè orgoglio. Questo orgoglio è una forma di compiacimento basata solo sull’apprezzamento altrui. La rivalità e l’orgoglio generano la differenza che è nient’altro che il timore dell’altro e delle capacità che l’altro possa arrecarci danno mentre persegue i suoi fini egoistici. La diffidenza a sua volta induce ad anticipare la violenza è come tale è la condizione emotiva maggiormente capace di originare il conflitto. Questo perché in una situazione come quella che viene a crearsi non esiste per alcun uomo mezzo di difesa così ragionevole quanto l’agire d’anticipo. Lo stato di natura diventa questo stato di guerra di tutti contro tutti. Le sue caratteristiche sono: 1. Una condizione di libertà perché ogni uomo può conservare la propria vita e le membra con ogni potere a sua disposizione. 2. Si mostra come uno stato di estrema precarietà perché ogni uomo per natura ha diritto a tutte le cose. Ognuno di noi ha il diritto di accaparrarsi tutto quello che può. È chiaro, allora, che data la limitatezza delle risorse è inevitabile che gli uomini giungono allo scontro. Una volta che la diffidenza reciproca conduca ad agire in anticipo. Tutti gli uomini, per natura, sono uguali cioè sono tutti nella stessa condizione. Non sono uguali perché tutte creature del buon Dio ma perché sono tutti ugualmente deboli. Nessuno può dirsi così forte da non trovare qualcun altro che possa sopraffarlo. Anche il più forte può sempre soccombere se un gruppo di più deboli si unisce. Allora, allo stato di natura si mostra come intrinsecamente contraddittorio perché da un lato si gode di tutti i mezzi necessaria per poter garantire la propria vita e le membra cioè la propria autoconservazione che è per Hobbes il bene primario, dall’atro il desiderio di acquisire sempre più potere conduce a cercare di sopraffare gli altri mettendo però a repentaglio quella stessa autoconservazione che si voleva garantire. Nello stato di natura si viene a creare una contraddizione tra il diritto di natura per cui ognuno ha diritto a tutto e la legge di natura fondamentale che è quella dell’autoconservazione. La ragione comanda ad ogni uomo di cercare la pace. La pace è quindi buona perché utile. La misura del diritto è utilità. Occorre cercare la pace in modo da evitare il permanere in uno stato di lotta radicale e distruttiva dell’individuo contraddittoria a quell’esigenza dell’istinto di conservazione. Per potare gli uomini ad associarsi occorrerà far leva su alcune passioni. Per Hobbes la potenza delle passioni è tale che non può essere controllata frenata dalla ragione ma soltanto da una spinta emotiva di qualità diversa ma altrettanto forte. Al desiderio illimitato di potere, viene a subentrare la paura della morte che pone un limite al desiderio e convince del fatto che il potere può essere raggiunto soltanto adottando dei comportamenti pacifici. La pace è necessaria nell’ottica della garanzia dell’autoconservazione. I singoli scendono a patti e rinunciano al diritto naturale illimitato di possedere tutte le cose e alienando nelle mani di un’autorità che conservi e protegga la vita dei singoli. Il patto dello stato è suddiviso in due momenti fondamentali: 1. Patto di unione e di formazione del popolo che dà piccole comunità passa ad una condizione unitaria di un corpo politico. 2. Patto di sottomissione in cui questo popolo che si è costituito cede i suoi diritti ad un soggetto diverso che può essere un sovrano. rappresenterebbe l’altra grande alternativa del pensiero seicentesco. Da un lato starebbe il razionalismo di Cartesio e dei post cartesiani e dall’altro l’empirismo di Locke. Per quanto il modello di ragione lockiano non sia quello cartesiano Locke si trova però a condividere alcuni elementi del cartesianesimo. Locke è un razionalista deluso perché non più vicino a Hobbes di quanto non lo sia a Cartesio. L’orizzonte su cui egli si colloca è quello post cartesiano con tutte le problematiche emerse fin ora. Prendiamo in analisi il “Saggio dell’intelletto umano”. Il concetto di ragione che Locke delinea è diverso da quello cartesiano e simile a quello pascaliano perché per Locke la ragione è anche geometrica e anche evidenza intuitiva e dimostrativa ma non c’è un metodo valido per tutti i campi del sapere, come era per Pascal. Per quanto la matematica rappresenti un modello di certezza l’uomo si accontenta del crepuscolo della probabilità. Se Cartesio è binario: è vero o è falso, Locke nel suo saggio tratta anche della probabilità e dei suoi gradi. Altra macro- differenza è che la ragione lockiana non ha elementi costitutivi innati, è una umana facoltà che procede in maniera argomentativa da ciò che è noto da ciò che è ignoto. La ragione è per Locke “candela del Signore” cioè un lume tenuo diminuito che Dio ci ha donato per conoscerlo per conoscere i nostri doveri. La candela posta in noi brilla abbastanza per tutti i nostri scopi. L’intento del saggio è quello di scoprire il modo e la proporzione che spettano alla ragione. Occorre individuare fin dove l’intelligenza possa estendere il suo sguardo, fin dove si possa servire delle sue facoltà per raggiungere la certezza così da accontentarci delle conoscenze che siamo in grado di pervenire nello stato in cui ci troviamo in questo mondo. Con questo proposito di stabilire i confini, i limiti e le proporzioni della ragione possiamo dire che Locke anticipa la posizione trascendentale di Kant, si tratta di vedere fin dove la ragione può giungere con le sue forze e con le sue certezze e dove invece debba lasciar posto alla fede. Una fede che Locke vuole ragionevole. Se pensiamo al titolo di una delle sue opere “La ragionevolezza del cristianesimo”, una fede lontana da quel fanatismo che chiama entusiasmo. Per compiere questa analisi dei limiti, delle proporzioni e della mente Locke intende introdurre un semplice metodo storico. È storico nel senso che è una raccolta di osservazioni, Locke è un medico e il suo intendo di osservare il funzionamento della ragione: vederne i sintomi e in caso di cattive tendenze e funzionamento prescrivere una cura. Da un lato l’osservazione dei sintemi è saggia mentre la prescrizione della cura è l’incompiuta opera lockiana della condotta dell’intelletto. Si tratta di un metodo storico descrittivo. Attraverso un’accurata e attenta osservazione si tratterà di andare a descrivere il modo in cui la mente opera nel ricevere le idee e poi nell’associarle. È il lavoro dell’anatomista che non vuole arrivare alle indagini fisiologiche su come le idee ci vengano causate dagli oggetti esterni. Locke lascia da parte queste indagini e si limita ad indagare i contenuti della mente: vuole compiere una storia naturale dell’intelletto umano. La mente da dove ottiene tutti i materiali della conoscenza? Li ottiene dall’esperienza, è questa che fornisce alla ragione i materi e fa anche il limite della ragione. L’esperienza è la fonte del materiale che la ragione riordina e utilizza e ha anche la funzione di controllo della legittimità delle costruzioni che la mente compie. Per Locke le costruzioni troppo audaci oppure i problemi la cui soluzione trascende l’esperienza vanno respinti senza temere di confessare la propria ignoranza. È una ragione che fa i conti con l’esperienza e che avanza prudente nell’ambito della metafisica. Per Locke esperienza vuol dire: 1. Sensazione  idee derivano dalle sensazioni 2. Riflessione  idee derivano dal senso interno. È per riflessione che noi arriviamo a quelle idee che sommate ci portano a quelle idee delle sostanze immateriali come Dio o gli angeli. Ma se tutte le idee ci arrivano dall’esperienza la prima conseguenza è quella dell’inesistenza di idee innate. La mente umana è una tabula rasa. Nel primo del saggio, Locke va a confutare l’innatismo come smentito dai fatti e dimostra che non ci sono né principi speculativi né principi pratici innati. Lo fa attraverso: 1. Relazioni di viaggio che mostrano popolazioni che non posseggono idee innate come l’idea di Dio o dell’immortalità dell’anima 2. I bambini il bambino prima impara che la mela non è una pera e poi crescendo formula il principio di identità e non contraddizione. 3. Ammettere un pacchetto di idee innate renderebbe superfluo quel dono della ragione come “candela” che Dio ci ha fatto. 4. Le idee innate finisco per giustificare un uso dogmatico e ideologico della ragione con cui Locke è profondamente contrario. Sebbene Locke si opponga a Cartesio per quanto riguarda l’esistenza di idee innate, nel secondo libro del saggio, dedicato alle idee, Locke accetta la visione cartesiana di idea. Cartesio aveva detto che idea è tutto ciò che è concepito immediatamente dallo spirito mentre Locke dice che il termine che serve per il termine di idea è quello che serve meglio per rappresentare qualunque cosa che l’oggetto dell’intelletto usa quando un uomo pensa. Le idee sono per Locke le cose esterne così come si presentano al nostro intelletto. Quello di Locke è un realismo indiretto o una teoria rappresentativa della percezione. Noi siamo coscienti di oggetti del mondo fisico attraverso le loro idee. Idee che sono gli effetti causati da certi oggetti su di noi ed effetti di cui il soggetto è cosciente. Locke distingue: 1. Qualità primarie  le nostre idee sono simili ai poteri presenti nelle cose. 2. Qualità secondarie  le nostre idee non somigliano dal potere di causarla in me presente nel corpo. Posto che la mente originariamente è una tabula rasa, le origini delle nostre idee è riportata all’esperienza cioè alla sensazione e alla riflessione. Le prime idee che acquisiamo sono quelle semplici. Le idee semplici sono quelle non ulteriormente scomponibili che rappresentano i mattoni della nostra conoscenza. Nel riceve le idee semplici lo spirito è passivo cioè che queste idee sono involontarie e significa anche dire che lo spirito è ricettivo. La passività va intesa come involontarietà e ricettività. Queste idee semplici sono suggerite alla mente e non fatte dalla mente. Da ciò Locke trae due conseguenze in assenza di un senso mancheranno tutte le idee corrispondenti e se fossimo privi di tutti i sensi, incluso quello interno, ovviamente non avremmo nessuna idea. Le idee semplici possono essere: 1. Di sensazione derivanti di un senso o da più sensi insieme 2. Riflessione sulla base della riflessione delle nostre operazioni così come sono: ideare di pensare, volere etc. 3. Sensazione e riflessione insieme Se nel ricevere le idee semplici lo spirito è puramente passivo, lo spirito è attivo nell’andare a riordinare questo materiale variando e moltiplicando gli oggetti del pensiero. L’attività dello spirito sta nel combinare diverse idee semplici per ottenere idee complesse oppure nel porre insieme due idee considerandole contemporaneamente così da formare idee di relazioni oppure separare un’idea dalle altre compiendo così un’astrazione. Dalla combinazione di più idee semplici otteniamo tre generi di idee complesse: 1. Idee dei modi idee di affezioni, modi di essere delle sostanze. 2. Idee della sostanza idee di cose particolari e distinte che sussistono di per sé. 3. Idee della relazione idee che derivano dal confronto tra le idee. La definizione che Locke propone di sostanza è quella di oscuro sostengo di qualità. Mentre tutte le idee semplici che compongono idea di quella particolare sostanza mi sono note, l’idea di sostanza è un’idea oscura che io aggiungo. Un’idea che non è chiara e distinta per il mio intelletto. L’idea di corpo, ad esempio, nasce dalle idee di solidità, estensione e mobilità che noi troviamo tutte quante unite all’interno dell’idea di una sostanza di queste qualità. Con questo Locke ci sta dicendo che mentre per Cartesio l’idea di sostanza è semplice e innata nella misura in cui le sostanze sono trasparenti. Della sostanza siamo in grado di conoscere quell’attributo fondamentale è ciò che costituisce l’essenza della sostanza, una sostanza è ciò che di per sé sussiste ed è il sostrato di più accidenti e attributi. Tra questi attributi c’è quello essenziale che mi svela l’essenza della sostanza ecco perché posso dire che l’essenza dell’anima, della mente è il pensiero e l’essenza della sostanza corporea è l’estensione e posso arrivare alla distinzione reale dell’anima dal corpo. Per Locke la situazione cambia perché sì si danno sostanze ma l’uomo non è in grado di conoscere l’essenza della sostanza, l’uomo non può conoscere le essenze reali quindi tutto quello che mi resta in mano delle sostanze è la raccolta, serie di qualità di accidenti, di attributi che io posso sperimentare di questa sostanza senza che però l’idea di sostanza mi sia chiara. Locke non nega che si diano delle sostanze, queste ci sono ed esistono semplicemente però l’uomo non ha conoscenza delle loro essenze. Così l’idea di sostanza rimane qualcosa di oscuro. Quella di Locke è una posizione di equilibrio intermedia tra la trasparenza assoluta delle sostanze e la negazione della nozione metafisica di sostanza che troveremo con Berkeley e con Hume. È quello che Locke ci spiega meglio parlando di: 1. Essenza reale l’essere stesso di una cosa, per cui essa è quello che è. È l’interna struttura delle cose. Dicendo questo Locke ci rimanda a quella produzione naturali e regolari delle cose fuori di noi che realmente agiscono su di noi. Locke mostra che le nostre idee semplici sono conformi alle cose perché non sono nostre finzioni perché queste cose esterne le producono in noi in una maniera che è naturale e regolare. Così Locke come avevano fatto sia Cartesio sia Malebranche dice che questa conformità tra le idee semplici e le cose esterne ci è garantita da Dio. Le idee semplici non possono essere create dallo spirito, quindi, fa leva sulla passività e devono essere prodotto di cose che agiscono sullo spirito in modo naturale producendo in esso le percezioni che dalla saggezza e volontà del nostro creatore sono ordinate e adattate alle cose stesse. Dio lo fa per quello scopo che è sempre teleologico, infatti, la stessa cosa vale per quelle idee che corrispondono al potere che è presente nei copri di produrle in noi. Si tratta di una conformità che è sufficiente per darci una conoscenza reale. Le nostre idee complesse sono conformi a realtà? Si per quanto riguarda le idee complesse dei modi e delle relazioni perché il modello di queste nostre idee sta dentro di noi perché sia le idee dei modi sia le idee delle relazioni sono da noi forgiate. All’interno di un’idea di modi come quella di bellezza l’importante è che vi sia una coerenza interna che quelle idee non si elidano a vicenda e non sdiano contradditorie a parte questo non c’è nessun altro criterio perché sono idee che sono foggiate da noi. Su questa base Locke ritiene che si possa arrivare a dimostrare matematicamente buona parte della morale perché queste idee sono da noi forgiate. Se quindi non c’è nessun problema nella conformità tra idee complesse, di relazioni e di modi e le cose, per il semplice fatto che questi due generi di idee complesse sono forgiate da noi, il vero problema sta nelle idee di sostanza perché il loro modello non è un nostro prodotto ma sta fuori di noi. La nostra conoscenza delle sostanze può essere priva di realtà perché non basta che quello che noi attribuiamo a quel corpo non siano incompatibili cioè che quelle qualità non siano contradditorie tra loro. Occorre accettarsi che davvero esistano insieme che siano coesistenti. Le nostre idee di sostanza dovendo essere le copie di archetipi fuori di noi devono essere prese da qualcosa che esiste o che è esistito. Siccome noi non conosciamo la costituzione reale delle sostanze, cioè non conosciamo l’essenza reale allora la realtà della nostra conoscenza delle sostanze sarà fondata su quello che noi riusciamo a sperimentare di quelle sostanze. La validità della nostra conoscenza dei copri cioè delle sostanze corpore è fondata sulla fisica sperimentale, su qualcosa di progressivo e di sempre perfettibile. LOCKE PT.2 Padre dell’empirismo moderno, Locke è anche considerato il teorico del liberalismo moderno: difensore della proprietà e della tolleranza religiosa e il primo ad aver figurato la divisione di potere. L’interesse di Locke per le tematiche religiose, politiche è attestato fin dai manoscritti sulla “legge di natura” del 1664 quando Locke è incaricato dei far lezione ad Oxford. Non dobbiamo dimenticare che lo studio del funzionamento e dei limiti della mente, condotto nel “saggio sull’intelletto umano”, doveva risultare propedeutico alle tematiche morali, politiche e religiose. Nel 1666 Locke diventa segretario di Lord Cherbury. Nel 1683 Cherbury è costretto a fuggire in Olanda perché sospettato di aver partecipato ad un complotto contro Carlo II anche Locke prende la via dell’esilio, tornerà in patria nel 1688 con la rivoluzione di Guglielmo D’Orange. I due trattati sul governo che sono gli scritti politici principali di Locke, vengono pubblicati l’anno successivo. Se Hobbes aveva condiviso le sorti di Carlo I e visto la restaurazione di Carlo II, Locke si schiera dalla parte del parlamento contro la politica filocattolica del re. Locke si confronta con la filosofia di Hobbes andando alla ricerca di alternative. Anche Locke è come Hobbes un giusnaturalista. Le differenze tra i due nascono dalle: 1. Diverse premesse antropologiche 2. Dal diverso modo di intendere la legge di natura 3. Dal diverso di intendere lo stato di natura. Allo stato di natura diversa corrisponderà un diverso stato civile, una volta che gli individui si sono uniti attraverso il patto. La legge di natura è la legge divina conoscibile con il lume della natura. Locke riprende l’idea di San Tommaso di una legge di natura che è legge divina eterna è che sta a fondamento dell’obbligatorietà delle leggi positive tanto religiose quanto civili. C’è un ordine nella natura, secondo Locke, che rimanda ad un legislatore sapiente che ha prodotto la natura. L’uomo è parte della natura e di questo ordine ed è quindi creato da Dio secondo la legge per la sua vita. Lo stato di natura, quindi, non è uno stato di anarchia in cui vige solo l’autoconservazione ma c’è già un ordine e vige una legge che è conforme con la natura razionale dell’uomo. Una legge che se seguita dall’uomo lo fa diventare più uomo perché quella legge non è fatta contro natura ma in accordo con la sua natura razionale. Il fondamento della legge la dipendenza cioè quella dipendenza della creatura dal creatore. Attraverso la ragione “candela” che ci è stata data per conoscere Dio e i nostri doveri, l’uomo scopre la legge che Dio ha previsto per lui. Un individuo che viola la legge di natura, mostra di aver abbandonato i principi della natura umana, mostra di vivere secondo una norma diversa di quella della ragione e va trattato come un leone cioè come una belva feroce. Nello stato di natura ogni uomo ha il diritto di far valere la legge di natura, è esecutore di quella di natura e quindi ha il diritto di uccidere un assassino per rendere esecutiva quella legge di natura che obbliga ogni uomo in quanto uomo. Locke recupera l’idea aristotelica dello zoon politikon cioè l’uomo è un animale politico. L’uomo è creatura ed è fatto da Dio per la società. Anche il fatto che Dio abbia attribuito all’uomo il linguaggio dice dell’essere sociale dell’uomo. 1. Il primo precetto della legge di natura è quello di attribuire lode e gloria a Dio. 2. Il secondo precetto è il mantenimento della vita in società. 3. Autoconservazione di sé stesso. 4. Conservazione altrui. Ciascuno deve quanto più può preservare gli altri uomini e non può sottrarre o ledere la vita, la libertà, la salute, le membra o i beni di un altro. Questo elenco sono quelle che Locke chiama “Proprierty” ed è un pacchetto di diritti sanciti a tutti gli uomini dalla legge di natura. Anche Locke parla di libertà e uguaglianza di tutti gli uomini in stato di natura. Locke e Hobbes intendo cose diverse. L’uguaglianza di cui parla Hobbes è quella fisica, per cui nessuno è più forte di un altro da potersi difendere da solo o da pensare di poter prevalere su qualcun altro mentre Locke intende l’uguale come dipendenza di tutte le creature dal creatore. Anche la libertà assume un carattere differente. Per Hobbes consisteva nel potere di tutti su tutti mentre Locke chiarisce che lo stato di natura per quanto sia uno stato di libertà, non però uno stato di licenza perché libertà in senso proprio, è tale solamente all’intero della relazione con una legge. C’è libertà solo tenendo conto dei limiti della legge. C’è libertà di disporre e utilizzare della propria persona e dei suoi beni ma nei limiti della persona e dei beni altrui cioè della libertà altrui perché l’uomo non è libero di distruggere sé stesso o altra creatura umana che gli appartenga. Da diverso modo di intendere la libertà e l’uguaglianza deriva anche il diverso modo di spiegare come lo stato di natura possa trasformarsi in uno stato di guerra e debba essere superato. Mentre in Hobbes la guerra di tutti contro tutti è una conseguenza della libertà illimitata per Locke perché lo stato di natura diventi uno stato di guerra devono verificarsi due condizioni: 1. Uomo che abusi della sua libertà violando la legge di natura 2. Occorre che la persona dell’offeso facendosi giustizia da sé e in mancanza di un’autorità che possa punire il colpevole in maniera equa, finisca eccedere nella difesa e offenda a sua volta l’offensore ingenerando così un’aspirale pericolosa. Nello stato di natura di Locke quel che manca e che mette le basi per un eventuale degenerazione in guerra è un giudice imparziale che faccia da esecutore autorizzato della legge di natura perché in legge di natura tutti siamo esecutori della legge e quindi siamo autorizzati a farci giustizia da soli, cosa che ci espone alla possibilità di eccedere nella difesa. Se anche Locke ammette l’autoconservazione come una dei precetti della legge di natura, tuttavia, questo non legittima la prevaricazione di un individuo sull’altro per garantirsi la sopravvivenza perché il motivo deve essere sempre più nobile della semplice sopravvivenza tanto più che l’autoconservazione di cui parla Locke è diversa da quella di Hobbes. Alla sua base non sta un fatto egoistico, tanto piuttosto che l’uomo riceve da Dio la vita in dono e dunque non né padrone e non essendo padrone né può toglierla a sé stesso né agli altri. Con Locke non abbiamo più un soggetto spinto dall’immediatezza del bisogno delle passioni come quelle hobbesiano ma di un soggetto capace di rimandare la soddisfazione dei suoi desideri. Poiché il rimedio agli inconvenienti dello stato di natura è lo stato civile la diversa gravità degli inconvenienti giustificherà la diversa natura del rimedio. Partendo da presupposti diversi Hobbes e Locke giungono a conclusioni diversi. Locke prendendo le mosse dall’inesistenza del giudice imparziale, in stato di natura, attribuisce al potere costruito il principale il compito di redimere le controversie che possono sorgere negli individui nell’applicazione della legge di natura. Ciò che fa uscire gli uomini dallo stato di paradosso che Berkeley si propone di sanare per ricondurlo sulla strada maestra del senso comune. 2. Il secondo problema è quello di far diventare inattingibile la realtà esterna. C’è una materia fuori di me di cui io ho l’idea in me ma come dire che esiste al di là dell’idea che ne ho? Cartesio dimostrava l’esistenza della realtà esterna sulla base della veracità divina, Malebranche ha dovuto ricorrere alla rivelazione. Locke la ritiene attingibile tramite la conoscenza sensibile che però è limitata qui e ora. All’inizio del XVIII secolo la scena filosofica è pronta per l’aspirazione di qualcuno di così audace da negare la realtà della materia: questo è Berkeley. La materia è divenuta qualcosa di ingombrante. È evidente che i moderni devono ammettere sulla base dei loro stessi principi che non vi sono corpi. Nessun genere di corpi esiste al di fuori della mente, non è percepito. Come può la mente percepire i corpi dal momento che percepisce solo le idee dei corpi? Questo problema accomunava tutti (razionalisti ed empiristi). Per riportare i moderni al senso comune, alla semplicità della percezione, l’autore, da un lato mette in dubbio i capisaldi dell’idea lockiana e così finisce per prepara la strada a Hume, dall’altro elabora una forma di immaterialismo che lo avvicina allo spiritualismo. L’intento dell’autore è quello di abolire lo iato tra volgo e filosofi. Da un lato c’è il volgo cioè l’uomo comune convinto che quelle cose che percepisce mediatamente sono le cose reali dall’altro invece ci sono i filosofi che affermano che le cose mediatamente percepite sono idee che esistono solo nella mente. Per conciliare queste due visioni occorre radicalizzare entrambe le posizioni. Tutto ciò che percepiamo sarà, per Berkeley, soggettivo e reale. Per arrivare a questo risultato occorrerà acquisire una nuova consapevolezza: da un alto dire che idee a e cosa sono sinonimi: le idee sono cose e le cose sono idee e dall’altro dire che essere coincide con essere percepito. Dire c’è un ciliegio significherà che un ciliegio è percepito. La questione dell’esistenza di un mondo fisico diventa per Berkley artificiosa perché non soltanto non va risolta, non va nemmeno posta andando ad eliminare le supposizioni che l’hanno generata. È fittizio supporre un mondo materiale che esiste al di là di quello che percepiamo perché il mondo percepito è solo mondo corporeo che incontriamo. Un altro mondo materiale percepito non ci è di nessuna utilità. Le ragioni che muovono Berkeley a negare la materia sono di natura apologetica perché l’autore ritine che l’idea lockiana conduca allo scetticismo perché conduce a mettere in dubbio l’esistenza del mondo esterno e conduce al materialismo finendo per assolutizzare un’estensione immateriale indefinita fuori di noi, estensione che rischia di diventare coeterna a Dio e sostitutiva di Dio. Il suo intento è quello di negare la materia per valorizzare le sostanze spirituali, le menti percipienti e quella mente per eccellenza infinita che è Dio. 1. Il primo passo verso l’immaterialismo è dato dalla critica alle idee astratte. Ogni cosa che esiste è particolare e dunque si danno solo idee particolari e non astratte. Serve questa critica alle idee astratte perché ciò che ha condotto a credere che gli oggetti abbiano un’esistenza a prescindere dalla percezione che ne abbiamo è l’aver astratto, separato l’esistenza degli oggetti dal loro essere percepiti. La stessa cosa è accaduta per quanto riguarda la nozione di estensione. Da una supposta idea astratta di estensione si è passati ad ipostatizzarla rendono quell’estensione indefinita che dovrebbe esistere al di là del percepito. Per Berkeley occorre tornare ai veri dati immediati della coscienza e battere Locke. Il discorso anti-astrattista che Berkeley compie è diretto contro Locke. Nel terzo libro del “Saggio sull’intelletto umano” Locke aveva sostenuto che il fatto che ci siano dei nomi astratti indica che ci siano delle idee astratte perché il nome, la parola è per Locke segno dell’idea. Se c’è un nome astratto quel nome è segno dell’idea astratta corrispondente. Berkeley risponde che noi abbiamo dei nomi generali ma non abbiamo idee astratte. Quello di Berkeley è un rigoroso nominalismo, tutte le cose vengono dall’esterno e sono particolari. Parole generali sono nomi a cui corrispondono sempre idee particolari. Accanto alla supposizione che l’usare parole indichi possesso di idee generali la seconda supposizione che poneva Locke era l’opinione ufficialmente accertata che il linguaggio non abbia altro scopo che la comunicazione delle nostre idee. Locke aveva ritenuto che l’astrazione fosse un criterio economico utile, anziché andare a nominare tutti gli alberi che esistono in singoli nomi si ha il nome astratto albero che è un nome generale e che corrisponderà all’idea astratta di albero. Per Berkeley i nomi, le parole non hanno solo un valore comunicativo ma anche operativo; servono a suscitare qualche sentimento e incitare o distogliere da qualche altro. Il linguaggio non è solo una funzione comunicativa ma anche psicagogica. Contro Locke una volta detto che entrambi questi presupposti sono errati, Berkeley va a distinguere due specie di astrazioni che ritiene entrambe impossibili: a. La prima è quella che astrae un elemento dal contenuto sensibile da un altro (la figura dal colore). La prima si deve considerare una qualità a prescindere dalle altre a cui è unita ad un oggetto. Per Berkeley è impossibile perché una figura è sempre colorata e per converso un colore è sempre esteso. b. La seconda astrae da oggetti simili colti attraverso la percezione un’idea generica. Dalle varie sfumature di rosse ottengono l’idea generale di rosso. In questo caso si tratterà di andare ad isolare qualcosa di comune nelle cose particolari. Per Berkeley è infattibile perché quel colore che penso quando dico rosso è sempre un colore particolare e una particolare sfumatura di rosso. Quando diciamo la parola: colore indichiamo dei nomi ai quali non corrisponde mai un contenuto generale nella coscienza. Questo discorso serve a Berkeley per dire che il corporeo è il sensibile e che esiste così come è percepito. Non possiamo formacene un’idea a cui manchi la particolarità di un oggetto percepibile o immaginabile. Noi possiamo pensare il concreto o il determinato. È vero che usiamo nomi generali che sono parole generali che significano idee particolari che vengono assunte e sono rappresentative di tutte le idee che sono simili. La generalità di quell’idea particolare che ho in mente sta solo nella funzione che noi gli attribuiamo. Corollario di questa critica è la distinzione tra le qualità primarie e secondarie. Gli stessi argomenti contro le qualità secondarie sono senza forzarli decisi anche contro quelle primarie. Berkeley non accetta più questa distinzione per il semplice fatto che sono tutte quante soggettive cioè dipendenti dalla mente. L’estensione, la forma e il moto che sono astratte tutte dalle qualità sensibili sono inconcepibili. Dove sono le qualità sensibili vi saranno anche le qualità primarie. La convinzione delle qualità primarie indipendenti dalla mente si fondava sul ritenere di potercene formare un’idea astratta: posso pensare l’estensione senza pensare il colore ma Berkeley ha mostrato che è impossibile. Non possiamo rappresentarci l’estensione senza attribuirle anche quella serie di qualità sensibili. Anche quella dell’estensione è una sensazione e non concepibile se non nella mente e dalla mente. La conclusione è che non c’è un mondo oggettivo di qualità primarie che esistono indipendente dalla mente perché posso formamene una supposta idea astratta e dall’altro lato un mondo soggettivo di qualità secondarie che dipendono dalla mente. C’è solo un mondo che è dei percepiti dipende dalla mente. Per Berkeley non esistono materie indipendenti dalla mente perché sarebbero inconcepibili. L’esistenza dei corpi dipende sempre dalla mente che li percepisce mentre non c’è nessuna materia. L’esperienza non mi restituisce mai l’esistenza di questo sostrato (materia), l’esperienza mi restituisce solo della percezione. La nostra percezione non ci restituisce mai una materia pura di per sé ma ci dà sempre qualcosa di già complesso cioè che ha l’insieme delle sue qualità. L’autore vuole portare Locke ad avere coerenza. Berkeley dice che quello che percepiamo è l’oro con tutte le qualità ma la materia il sostrato non lo percepiamo mia. Negare questo strato non significa per Berkeley negare i corpi. Tolto il sostrato le percezioni acquisiscono il loro autentico significato cioè quello di essere esperienze del soggetto: trasparenti e veritiere. Una volta che abbiamo eliminato il sostrato l’esperienza si mostra attraverso due generi di enti: 1. Percipienti  cioè gli spiriti. Gli spiriti cioè sostanze attive indivisibili. Lo spirito è perché percepisce, vuole e agisce. 2. Percepiti  cioè le idee/ corpi. Le idee/corpi sono passive, percepiti e dipendenti. Le cose sono perché sono percepite. Per Berkeley l’idea di esistenza separata dalla percezione è solo una forma vuota. Occorre tenere presente che esistere e percepire sono la stessa. Non c’è un’esistenza percepibile senza il pensiero per il semplice fatto che non c’è un’esistenza astratta. Quando la cosa che esiste percepisce è uno spirito quando è percepita è un’idea/corpo. Se andiamo a vedere come si configura la conoscenza per Berkeley non dobbiamo sorprenderci della somiglianza con l’impianto di Malebranche. Per entrambi: 1. Dio è conosciuto per sé stesso immediatamente 2. Le cose sono conosciute tramite le idee 3. Degli spiriti e delle anime non c’è un’idea ma sono conosciute per sentimento interno.
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