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Gramsci e l'egemonia culturale: il processo di costruzione dell'identità europea, Dispense di Comunicazione Dell'industria Culturale

Il concetto di egemonia culturale secondo gramsci, e come le culture europee si sono assimilate nella cultura occidentale. La distinzione tra società politica e civile, il ruolo degli intellettuali nella costruzione del consenso, e la relazione tra il processo francese politico-giuridico e quello tedesco teorico-speculativo.

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 08/09/2019

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Scarica Gramsci e l'egemonia culturale: il processo di costruzione dell'identità europea e più Dispense in PDF di Comunicazione Dell'industria Culturale solo su Docsity! Antonio Gramsci – conce�o di egemonia nei quaderni Qualche cenno sulla vita Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari), in Sardegna, il 22 gennaio 1891. Di famiglia proletaria, compiuti gli studi liceali a Cagliari, si iscrisse nel 1911 alla facoltà di lettere di Torino dove seguì le lezioni di U. Cosmo, A. Farinelli e L. Einaudi, approfondendo gli studi di glottologia con M. Bartoli. Contemporaneamente si iscrisse al Partito Socialista, di cui divenne segretario della locale federazione nel 1917, e collaborò a Il grido del popolo e, dal 1916, all'Avanti! soprattutto come critico teatrale. Schieratosi a favore della linea bolscevica (Lenin), insieme con Togliatti, Terracini e Tasca fondò nel 1919 il settimanale Ordine nuovo, a sostegno della strategia dei consigli di fabbrica, organismi di autodecisione proletaria che, in caso di situazione rivoluzionaria, avrebbero dovuto assumere il ruolo dei Soviet. L'insuccesso di tali organismi, in occasione dello sciopero generale e dell'occupazione delle fabbriche del 1920, spinse Gramsci e il suo gruppo a porsi il problema della creazione di un partito rivoluzionario all'avanguardia del proletariato. Dalla scissione del gruppo gramsciano di Ordine nuovo e del gruppo bordighiano del Soviet del Partito Socialista nacque a Livorno, nel 1921, il Partito Comunista d'Italia (aderente alla III Internazionale). Nel 1922, recatosi a Mosca come capo della delegazione italiana al IV Congresso dell'Internazionale, Gramsci conosce una cittadina Sovietica Giulia Schucht, con la quale si sposa e da cui ebbe due figli, Delio e Giuliano. Dopo un soggiorno a Vienna nel 1923, per conto dell'Internazionale, Gramsci, eletto deputato, rientrò nel 1924 in Italia dove condusse una strenua lotta contro il fascismo e contemporaneamente, con l'appoggio dell'Internazionale, rafforzò la posizione del proprio gruppo all'interno del partito, conquistandone definitivamente la dirigenza al Congresso di Lione del 1926. Ma lo scioglimento di tutti i partiti e la rigida applicazione delle leggi eccezionali fasciste lo portarono, lo stesso anno, all'arresto. In seguito ai “provvedimenti eccezionali” fascisti, nonostante dunque l’immunità parlamentare Gramsci verrà arrestato l’8 Novembre 1926, rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, il 7 febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore per un anno. Dopo il processo, in cui fu condannato per attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Gramsci, il 4 giugno, venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione; il 19 luglio raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. In questo contesto nascono i Quaderni, Gramsci inizia la loro stesura l’8 Febbraio del 1929. Troviamo nel Quaderno quindicesimo – siamo nel 1933 – un appunto di Gramsci davvero di un grande interesse, soprattutto se letto nella prospettiva di Said e delle sue due grandi indagini sull’orientalismo e sulla cultura dell’imperialismo : “1) Egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale. Ammesso anche che le altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione ‘gerarchica’ della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea, la sola storicamente o concretamente universale, in quanto cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo e sono state da questo assimilate. 2) Ma anche la cultura europea ha subito un processo di unificazione, e, nel momento storico che ci interessa, ha culminato nello Hegel e nella critica all’hegelismo. 3) Dai primi due punti risulta che si tiene conto del processo culturale che si impersona negli intellettuali ; non è da parlare delle culture popolari, per le quali non si può parlare di elaborazione critica e di processo di sviluppo. 4) Intertraducibilità dei due processi, quello francese, politico-giuridico (la rivoluzione), quello tedesco teorico-speculativo ; 5) decomposizione dell’hegelismo che va verso un nuovo processo culturale, di carattere diverso da quelli precedenti, in cui, cioè, si unificano il movimento pratico e il pensiero teorico (o cercano di unificarsi attraverso una lotta e teorica e pratica). 6) Nasce un nuovo modo di concepire il mondo e l’uomo […] : tale concezione non è più riservata ai grandi intellettuali, ai filosofi di professione, ma tende a divenire popolare, di massa, con carattere concretamente mondiale, modificando (sia pure col risultato di combinazioni ibride) il pensiero popolare, la mummificata cultura popolare.” Parlare delle culture altre nella cultura occidentale significa evidentemente parlare della stessa quidditas della cultura dell’Occidente. Così, se leggiamo per un attimo Gramsci con le lenti di Said, si può osservare la stessa metodologia: Said in Orientalismo parte dalla distinzione gramsciana tra società politica e società civile, la prima costituita da apparati repressivi e di controllo, di coercizione diretta, come l’esercito, la polizia, la burocrazia centralizzata, e la seconda da « affiliazioni » volontarie o, per così dire di mentalità, o di formazione di mentalità (comunque non coercitive e ‘razionali’) come scuola, famiglia, associazioni attraverso cui si costruisce il consenso su di una immagine comune di comunità, di società, ed è ovvio che la costruzione e la gestione del consenso è affidata agli intellettuali ‘organici’ al potere costituito, o a quello che vuole legittimarsi in primo luogo attraverso la costruzione di un’egemonia culturale alternativa. Di fatto lo stesso concetto di « affiliazione » ha comunque a che fare con la costruzione stessa dell’identità dei soggetti, a partire dal loro senso di appartenenza, poiché non appartenere, veramente pone in dubbio l’identità stessa del soggetto nel suo fondamento sociale. In Gramsci, dunque, il consenso viene formato attraverso l’apparato egemonico, organizzato e gestito dagli intellettuali comunque ‘organici’ a un potere o all’altro. Essi hanno il compito di formulare, di dare parola al consenso attraverso cui si plasma la società stessa, nella sua assiologia, come consenso sui valori di fondo e su ciò che, si direbbe oggi, è politicamente ‘corretto’ e accettabile e ciò che invece non lo è. Gramsci distingue tra dominazione, coercizione diretta e consenso non coercitivo e indiretto, anche se in effetti si tratta comunque di una strategia di potere, se non occulta, così diffusa e socialmente impregnante da essere generalmente inavvertita, se non di fatto inconscia nella sua ovvietà, tanto da costituire la verità stessa delle cose nel mondo. Questa verità, così costruita come egemonia, non può essere messa in dubbio, se non alla condizione di porsi ai margini attraverso una difficile, problematica dichiarazione di non appartenenza o di non affiliazione, come direbbe Said, parlando della deontologia professionale dell’intellettuale che non deve affatto costruire, organizzare, né tedesca di questo secolo: W. Benjamin, H. Marcuse, E. Fromm e, qualche decennio più tardi, J. Habermas. Con la vittoria del nazismo in Germania, la Scuola e i suoi maggiori esponenti si trasferirono prima a Parigi, poi negli Stati Uniti, dove nel 1936 uscì Studien uber Autoritat und Familie, Studi su autorità e famiglia , volume collettivo, frutto di un'ampia ricerca. Dall'esilio proseguì la ricognizione critica, e talvolta "apocalittica", sui destini delle società industriali, influenzando, fra l'altro, la cultura rivoluzionaria della fine degli anni Sessanta. Industria culturale L’industria culturale non è una causa della globalizzazione, ma uno degli effetti che hanno portato ad essa. Tutto ciò che è cultura, che è arte, che è scienza, insomma il sapere è mercificato, dunque lontano dal godimento perché alienato. Con questo non si vuole affermare che non lo sia sempre stato, ma che adesso, nell’era della riproducibilità esso è alienato dal creatore stesso. Per dirla con W. Benjamin: “Ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’ “aura” dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico, la tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico, una serie quantitativa di eventi. E’ permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema.” (in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica). Da questo passo di Benjamin dobbiamo inevitabilmente passare ad un altro passo, questa volta di Horkheimer e Adorno dove attraverso un analisi storico-sociologica asseriscono che: “La civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un’aria di somiglianza. Il film, la radio e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema.” (p.126) In questo va preso e ridotto il nostro immaginario, immaginario che si forma anche attraverso un sapere, il problema è collocato laddove questo sapere è catturato in un “sistema”. Da quando si è istituito questo “sistema”, l’immaginario, il nostro immaginario, inteso come qualcosa che si produce e produce a partire dalla cultura e dal sapere, dunque dal mondo simbolico, beh, questo immaginario si è appiattito al reale. I prodotti merce, prodotti del sapere mercificati, sono qualcosa che si somiglia, sono in serie, i pensieri sono nella catena di montaggio del reale. “Il film e la radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità che non sono altro che affari serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare le porcherie che producono deliberatamente. Si autodefiniscono industrie, e rendono note le cifre dei redditi dei loro direttori generali soffocano ogni dubbio possibile circa le necessità sociali dei loro prodotti.” Nel passaggio da opera d’arte a prodotto culturale o merce ciò che l’oggetto del sapere diviene è la negazione stessa della sua struttura, si passa da un atto creativo ad un oggetto vendibile, dunque ad un oggetto- prodotto alienato, feticizzato. Possiamo credere, oggi, nell’era della riproducibilità e della mercificazione, che l’artista nel momento del suo gesto, del suo atto artistico, non abbia già in mente la sua mercificazione? Possiamo credere che l’arte non sia già alienata prima dell’atto artistico? Che un film non sia fatto dall’economia piuttosto che dall’idea? Sicuramente non tutti i prodotti dell’industria culturale hanno la pretesa di appartenere all’arte, ma altrettanto sicuramente, che un prodotto sia o meno artistico, beh, esso in ogni caso è vendibile. Tutto questo porta ad un cambiamento epocale nella percezione di se stesso da parte dello spettatore/consumatore. Se è vero, da un lato, che oggi lo spettatore è attivo perché può scegliere tra migliaia e migliaia di prodotti, è altrettanto certo che questi prodotti sono stati fatti per e da lui. La globalizzazione ha creato un circolo vizioso economico-psichico in cui l’alienazione e la feticizzazione la fa da padrona. Lo spettatore vede ciò che vuole vedere perché il suo immaginario non è il suo, ma gli è stato impiantato. Questo impianto, però, è partito da lui, da un analisi di mercato in cui si è frugato nel suo immaginario. La caratteristica primaria di questo processo che prende il nome, appunto, di industria culturale, è proprio il suo essere ripetitiva e riproducibile. Questa riproducibilità è ciò che fa fare un balzo in avanti all’umanità in senso tecnico, ma un passo indietro verso l’alienazione. Per questo passaggio c’è stato bisogno della fisica. I greci, nostri progenitori, una tecnica non l’avrebbero mai creata, e neanche una macchina, perché appunto, non avevano una fisica come la intendiamo oggi. Come afferma A. Koyrè: “In effetti, fare della fisica nel nostro senso del termine – non nel senso che Aristotele dava a questo vocabolo – vuol dire applicare al reale le nozioni rigide, esatte e precise della matematica e, in primo luogo, della geometria. Impresa paradossale, se mai ve ne furono, poiché la realtà, quella della vita quotidiana in mezzo alla quale viviamo e stiamo, non è matematica. E neppure matematizzabile. Essa è il dominio del movente, dell’impreciso, del “più o meno”, del “pressappoco”.” Per i Greci sarebbe stato assurdo voler misurare la natura, sarebbe stato assurdo perchè il cavallo è più grande del cane, indubbiamente. Ma per i greci il problema non era sapere questo, seppur facessero calcoli complessi astronomici, il problema era l’idea, il concetto, il sapere, anche quello sulla natura non poteva essere esatto. E’ con la misurabilità, con gli strumenti di precisione, con il numero applicato al mondo naturale che si passa dal concetto fisico alla fisica naturale e dunque alla tecnica, e dunque alla macchina, ed infine all’industria. Tutto questo processo che si avvia da Galileo, ci porterà dal pressappoco alla precisione. In questa precisione si installa ciò che abbiamo definito come carattere costitutivo dell’industria culturale, cioè la ripetizione. Ed è dalla ripetizione, dalla riproducibilità, che è stato possibile giungere ad un fenomeno come quello della globalizzazione. In fondo la globalizzazione non è altro che la riproposizione di un modello su scala globale. La ripetizione infatti ci conduce dritti verso ciò che possiamo chiamare in termini hegeliani un riconoscimento. Il riconoscimento è l’arma dell’alienazione. Il ri-conoscimento, il sempre uguale, il ri-trovamento, l’estenuante riproduzione, è stata la carta vincente dell’economia capitalistica e con lei del fenomeno globale di questo modello unico economico. Di fatto la mercificazione di ogni oggetto, compresa la cultura ed il sapere, ha come effetto la sua riproducibilità su scala globale. Tutto questo ha avuto ed ha effetti psicologici enormi sia su colui che produce (chiamiamolo lavoratore alienato) sia su colui per il quale viene prodotto, notando che alla fine sono la medesima persona, tant’è che ormai si può dire che si produce per riprodurre se stessi. Ed è nel mondo immaginario di ogni individuo che questo processo si è radicato, il modello della tecnica, il macchinismo, si sono inseriti nell’area psichica della pensabilità di un pensiero. Non si può più pensare se non a partire dalla riproduzione di un pensiero già in atto. Come affermano, ancora, Horkheimer e Adorno: “Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni relazione” (p. 145) In tutto questo processo, nella ripetizione, si trova un annullamento, o, per meglio dire, un restringimento di ciò che potremmo definire il campo dell’immaginario. Basti pensare ad una buona parte del cinema statunitense dove il concatenamento degli eventi, la trama, il plot è qualcosa di già stabilito. Dove, per così dire, l’emotività è un qualcosa di calcolato in anticipo, dove si possono addirittura mettere le risate preregistrate perché siamo già sicuri che è quello il momento in cui lo spettatore riderà. C’è un esercizio magistrale della suspance, sappiamo in anticipo tutto quello che si deve sapere, lo spettatore non deve fare altro che commuoversi, piangere e ridere dove è stato stabilito che lo faccia. Lo spettatore a cui è stato impiantato un restringimento dell’immaginario vuole questo prodotto, perché ha il marchio del tempo della tecnica, due ore di divertimento o di compassione ben calcolati. E’ per questo che i telefilm, i serials, hanno questo successo spropositato, perché è il ritorno perpetuo dell’uguale con qualche differenza, perché oltre all’identificazione, all’immedesimazione con i personaggi c’è il riconoscimento, l’anticamera dell’alienazione. La globalizzazione qui si colloca esattamente nel riconoscerci con storie che vengono da oltre oceano, tant’è che questo oltre oceano è il nostro immaginario. Ed è sempre per questo motivo che se ci guardiamo un film che non va verso la ripetizione e verso il riconoscimento esso ci turba, ci perturba e a tratti ci annoia. Basta prendere un ottimo film come quello di D. Lynch, Lost Highway, questo film va contro tutto ciò che abbiamo appena detto, esso rifiuta la trama, rifiuta la logica dell’emotività programmata, addirittura la musica non coinciderà mai con ciò che è riprodotto, la musica in sottofondo è sfalsata rispetto all’emotività che l’immagine trasmette. Questo film denuncia una tensione tra lo svolgimento del reale e l’emotività. Come afferma Adorno in Minima moralia: “Oggi, nella cultura di massa, progresso e barbarie sono così strettamente intrecciati, che solo un’ascesi barbarica contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire il non-barbarico. […] I mezzi più antichi, non rivolti alla produzione di massa, acquistano nuova attualità: l’attualità di ciò che non è incorporato, dell’improvvisazione. […] In un mondo in cui, da tempo, i libri non hanno più l’aspetto dei libri, lo sono soltanto quelli che non lo sono più.” (p. 49) La domanda che potrebbe apparire più naturale a questo punto sarebbe: si può sfuggire a questo ordine di cose che i fenomeni tecnici prima, l’economia capitalistica subito dopo e la globalizzazione in cui stiamo vivendo oggi, hanno creato? Per dare una risposta provvisoria si può dire che per uscire da un ordine dobbiamo ripristinarne un altro. Dobbiamo cercare di riattaccare una significazione ai significanti che spossessano il nostro immaginario. Per questo come diceva Adorno i libri, per resistere, non dovranno più essere libri, il libro è merce, deve negarsi per resistere. Dovremmo allora, per questo, tornare alla tradizione orale? Per concludere Per tornare a Gramsci, dopo questo breve, troppo breve excursus sull’industria culturale, dobbiamo notare, come al pari dell’analisi foucaultiana della struttura della società e della biopolitica, ed al pari della sociologia dell’alienazione della scuola di francoforte, il problema dell’egemonia in Gramsci, per dire le cose in modo molto semplice, è la conquista del potere ; la costruzione dell’egemonia culturale è funzionale a questo scopo ; ‘organici’ sono dunque gli intellettuali. Per Gramsci il termine si riferisce a chiunque non lavori manualmente, e meccanicamente, tecnici, insegnanti, ecclesiastici e chiunque organizzi o comunichi il sapere, o anche una tecnica, un know how). L’analisi stessa dell’egemonia culturale nel presente è volta, esplicitamente o implicitamente, alla costruzione di un’alternativa. Ogni potere che voglia permanere lo fa attraverso l’imposizione di un discorso egemonico attraverso la persuasione, la costruzione del consenso su di un comune sistema di valori e di verità ; ogni potere che voglia istituirsi contro un altro potere deve procedere attraverso una strategia che imponga un altro discorso egemone. Un discorso si legittima come discorso unico attraverso strategie di delegittimazione di ogni altro discorso. La delegittimazione tout court non è tuttavia l’unica strategia ; anche più spesso l’egemonia opera un’autenticazione per inglobamento di ogni altro discorso che sia compatibile, e che possa rientrare nella delimitazione di ciò che è dicibile. Inglobare significa anche tacitare, o snaturare, se non direttamente smentire l’altro discorso. Per Gramsci l’intellettuale è in ogni caso organico a una classe dominante e a un sistema di potere e agli interessi economici che ne sono alla base. La sua funzione, strutturalmente, consapevolmente o meno, a un livello o l’altro di consapevolezza, è proprio quella di costruire il consenso attraverso la messa a punto dell’apparato egemonico che passa attraverso la scuola, l’educazione, la formazione, e ogni mediazione culturale, arte popolare, o cultura alta, e insomma tutto ciò che costruisce l’identità attraverso la mentalità che consente di riconoscersi in un gruppo, in una classe, o casta della quale si condividono i valori, la visione del mondo, l’assiologia
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