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Dispensa per non frequentanti Teologia III M. Aramini - introduzione alla bioetica + dispensa Aramini, Dispense di Teologia

Dispensa per non frequentati del corso di Teologia III del professor Michele Aramini. Completamente sostitutiva dei vari testi, riassume: Introduzione alla bioetica (600 pagine) e la dispensa del prof. su morale, etica e la dottrina sociale della chiesa

Tipologia: Dispense

2017/2018

In vendita dal 21/05/2018

cecco00
cecco00 🇮🇹

4.5

(29)

18 documenti

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Scarica Dispensa per non frequentanti Teologia III M. Aramini - introduzione alla bioetica + dispensa Aramini e più Dispense in PDF di Teologia solo su Docsity! INTRODUZIONE ALLA BIOETICA di M. Aramini Introduzione La sfida dell’uomo nella realtà odierna è quello di cercare di regolamentare scienza e tecnologia. Il campo privilegiato e in cui questa sfida si svolge è quello della bioetica. La bioetica nasce in area anglofona, negli anni ‘70 e registra, fin da subito, grande successo tra medici, filosofi e teologi. Il termine bioetica è stato coniato da Potter nel 1971 e il suo successo è decretato dal verificarsi di due fenomeni: 1. Si fa riferimento al ritorno della domanda etica. 2. legame con il campo della medicina e dello sviluppo delle biotecnologie. La bioetica inaugura ed è considerata come un piano in cui si fondono etica e i tipici dilemmi morali contemporanei nati dalle nuove tecniche mediche che conferiscono all'uomo un potere sempre più forte nei confronti del “trattamento” della vita. Inizialmente il progetto di Potter era quello di fondare la bioetica come una scienza capace di salvaguardare il futuro dell'umanità attraverso la regolazione etica dell'uso delle nuove biotecnologie. Successivamente bisognava indicare i valori da tutelare e le direzioni verso cui indirizzare la ricerca scientifica; tutto ciò propone una riflessione di natura etica. Qui entra in gioco la bioetica: essa ha il compito di far capire come opera lo sviluppo tecnologico, dove conduce e come orientarlo per fare in modo che realizzi gli scopi e i significati che l'uomo si propone. Tuttavia il progetto potteriano rimane inattuato perché nei fatti la bioetica si è configurata come disciplina procedurale in cui ciò che conta non è il bene da perseguire nelle decisioni mediche, ma il giusto inteso come ciò che è legale, quindi il discorso ruota attorno al dibattito circa la corretta distribuzione delle responsabilità, cioè l'individuazione di chi ha il diritto di prendere decisioni di cura e di spesa. Nella società contemporanea è necessario chiarire se deve essere l'uomo a individuare e stabilire gli obiettivi da raggiungere per mezzo della ricerca scientifica oppure se questa si impone all'uomo secondo uno sviluppo autoreferenziale. Per la realizzazione di questo progetto bisogna precisare i concetti fondamentali di vita umana e di persona umana. Molti degli autori che si occupano di bioetica fanno riferimento alla vita di tipo biologico senza riferirsi a una nozione di valore. Questa configurazione deriva della prevalenza della cultura liberale nella nascente bioetica. Ha condotto a scorporare le questioni bioetiche da quelle morali. La dimensione biologica della vita non pone questioni ed è perciò di facile accoglienza mentre l'accettazione morale della categoria vita diventa un problema nel contesto del pluralismo etico. Per fare una riflessione etica in grado di orientare la tecnoscienza è necessario ritrovare l'accettazione morale della categoria vita. v Callahn: la bioetica per essere seria deve farsi domande dure, persino sconvenienti. Le domande sconvenienti sono quelle relative alla bontà morale delle decisioni bioetiche e al legame tra vita umana, concetto di persona e concetto di dignità della persona umana. Alla bioetica è stato rimproverato da più parti il carattere antologico di non aver cioè un principio unificatore capaci di affrontare coerentemente i dilemmi etici. Sul significato da attribuire alla categoria di vita si sono contrapposte: 1. l'etica laica sostiene il principio legato al concetto di qualità della vita. 2. l’etica cattolica ribadisce il carattere della sacralità della vita. (in ogni caso) Ci sono dei fattori che si sono opposti alla realizzazione del progetto di una bioetica come scienza di salvaguardia. Infatti il carattere procedurale della bioetica; l’accresciuto potere sulla vita ha spinto ad una riflessione più attenta sui limiti sociali e giuridici dell'uso delle biotecnologie, sulle responsabilità proprie dei diversi attori e sull’efficiente allocazione delle risorse economiche. La necessità di stabilire chi può esercitare i nuovi poteri che la medicina offre e chi stabilisce fin dove devono arrivare le spese per le cure, ha generato il carattere distintivo della bioetica che è quello di essere una disciplina in cui interrogazioni attengono più all'ambito del giusto che a quello del buono. Bioetica statunitense: Questa si basa sul fatto che nella nostra società pluralistica non si possono stabilire valori morali universali (e sempre validi) ma occorre limitarsi a stabilire le regole che consentono di evitare i conflitti (anche se poi la valutazione sarà differente da caso a caso). Infatti secondo questa corrente bisogna limitarsi a stabilire chi sono i soggetti abilitati a prendere decisioni sui dilemmi morali posti dalla medicina. Il filosofo bioetico si limita a fare un esame di coscienza sulle norme dell'agire pubblico sulle quali si ha il consenso sociale. In più c'è una netta separazione tra bioetica e filosofia morale e le religioni: la filosofia morale e l’etica teologica, che hanno per oggetto il bene e offrono un contributo per la ricerca dei contenuti buoni, non possono accontentarsi di una riflessione etica che stabilisce soltanto chi siano i titolari delle decisioni morali. Bioetica anglosassone: Questa corrente invece non riconosce alcuna competenza in campo bioetico alla filosofia e alla teologia. Infatti queste hanno solamente il compito di contribuire alla ricerca del significato ultimo della vita dell'uomo, ma questo significato non ha rilevanza nell'etica pubblica, e resta confinato nell'ambito privato della coscienza soggettiva. Questo fenomeno è noto come individualismo etico secondo cui la riflessione morale in bioetica dovrà considerare anche il generale processo di privatizzazione della coscienza (ancora in atto). Si tratta di quel fenomeno di scissione tra le regole della vita pubblica e le regole della vita privata. Inoltre il rapporto tra etica e ricerca scientifica si compendia nella medicina che è uno dei settori dell'attività umana che maggiormente si è avvantaggiato dello sviluppo scientifico. La conseguenza di questo sviluppo è una massiccia invasione della medicina nella vita dell'uomo, fino a far parlare di medicalizzazione non solo della malattia ma anche della stessa vita dell'uomo. Tutto ciò che la medicina mette a disposizione diventa una risorsa da non sprecare. È assurdo non utilizzare le tecniche di procreazione assistita per rendere possibile la generazione ad una coppia con gravi problemi di sterilità. Lo spazio per la valutazione etica è molto ridotto perché ubbidendo alla logica della razionalità strumentale, ciò che conta è più il raggiungimento dello scopo che si persegue che non è il senso di ciò che si decide di fare. Compito critico della bioetica: è rappresentato dalla riaffermazione del primato dell'uomo. È l'uomo che deve orientare il suo futuro senza che questo futuro sia predeterminato dalla logica anonima della tecnoscienza. La bioetica per assolvere questo compito deve avere un corretto fondamento nella riunificazione della nozione di persona umana con la nozione di essere umano. CAPITOLO 1 – CHE COSA È LA BIOETICA? Parlando della definizione di bioetica e del suo statuto epistemologico bisogna dire che perché ci sia una nuova disciplina scientifica deve esserci una nuova forma di attività conoscitiva individuata dall'oggetto formale (apparato teorico o tipo di domande che ci si pone), e dall'oggetto materiale (ambito del reale su cui si indaga). Quindi l’oggetto formale della bioetica deve essere diverso da altre discipline. A tal proposito l’“Enciclopedia della bioetica” curata da Reich, punto di riferimento della bioetica anglosassone fornisce due definizioni di bioetica: 1) “Studio sistematico del comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute, quando questo comportamento è esaminato alla luce di valori e di principi morali”. Tuttavia la definizione non chiarisce due cose relative all'oggetto formale: a. se la bioetica sia scienza descrittiva (studia come gli uomini si comportano) o normativa (studia come si dovrebbero comportare). b. Se con i principi morali ci si riferisce in generale alla ricerca etica o se si intende assumere i principi della bioetica principialista. Questa definizione viene identificata con il principialismo. 2) “Studio sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita e della cura della salute, usando le diverse metodologie etiche in un quadro interdisciplinare”. È stato ampliato l'oggetto formale che comprende una varietà di metodologie etiche, superando l'identificazione con il principialismo. Anche l'oggetto materiale della bioetica è stato allargato alle condotte sociali e alle dimensioni politiche. della bontà delle intenzioni soggettive e dell'influsso che la tecnoscienza ha sulla vita dell'uomo contemporaneo per far emergere la verità e il senso della condizione umana. Bisogna pensare a una bioetica assiologicamente fondata, consapevole della relazione dell'uomo e del conoscere. Bisogna abbandonare l'idea di una bioetica puramente cognitivista, procedurale, capace di fornire solo conoscenze per poi assumere decisioni autonome e responsabili. È nella relazione sociale che bisogna trovare la ragione delle norme. Bisogna affermare che l’etica è ascolto dell'altro, avvicinamento all'altro. La presenza dell'altro fa nascere l'evidenza morale. La persona, a differenza dell'individuo, è nella sua essenza relazione. Dall'affermazione della intrinseca relazionalità dell'uomo discendono due conseguenze importanti per la bioetica: 1. Se l'uomo è un essere in relazione e la relazione è intrinsecamente normativa, le norme sono condizioni per la realizzazione dell'essere umano. La normatività non è esterna alla persona che coercitiva. Le norme esistono prima di ogni accordo il contratto sociale e ciò esige che si rifiuti l'idea di un'etica e di una bioetica puramente contrattualistiche. 2. La relazione implica la parità ontologica degli uomini. La relazione è simmetrica, reciproca. La coesistenza degli uomini diventa l'elemento che esige il passaggio tra l'essere e il dover essere, che va compreso come dovere di essere in, cioè realizzazione del proprio esserci attraverso il con- esserci. 2.2. Il rapporto dell'uomo con la tecnoscienza. Oggi l'uomo stesso è diventato l'oggetto di studio e di sperimentazione. Molti chiedono una regolamentazione della ricerca. Anche se esistono già documenti internazionali e nazionali che vietano la clonazione o la sperimentazione sugli embrioni. La fonte dei problemi etici si trova nella libertà della ricerca scientifica; a costruire un problema etico sono: A. Le modalità che la ricerca può adottare e le applicazioni che adesso possono derivare. B. Gli specifici obiettivi verso cui essa può essere orientata. C. L'eventuale alterazione del mondo sociale o comunque dell'ordine naturale cui essa può condurre. Mentalità dell'ambiente scientifico: l'evoluzione attuatasi nella nostra società è senz'altro un progresso per l'uomo: questo progresso è stato reso possibile dalle innovazioni tecnologiche, le nostre società occidentali possono definirsi società tecniche; ogni progresso tecnico produce il progresso umano. La fecondazione in vitro è un progresso tecnico, poiché fa nascere un bambino che la natura non è in grado di far nascere, essa costituisce un progresso umano per gli uomini del nostro tempo, anche se questa tecnica può avere qualche rischio. L'atteggiamento dei biologi e dei medici ha un influsso decisivo sui comportamenti della gente comune. Le coppie che si rivolgono alla medicina per l'assistenza medica alla procreazione assumono rapidamente i criteri di valutazione proposti dei medici. È improbabile che, di fronte ai medici che propongono una determinata soluzione, le coppie presentino osservazioni critiche di carattere morale. Anche le persone comuni tendono a pensare che non ci siano limiti alla ricerca e all'uso delle nuove tecnologie. Ø Si può constatare una ripresa della domanda etica, e cominciano esserci medici e biologi che riconoscono che la biologia descrive la vita, ma non può darne il senso. Ø Un segno di questa domanda etica applicata alla medicina è la proliferazione dei comitati etici. Il fenomeno della crescita dei comitati etici è un segno importante del nuovo orientamento della ricerca, che diventa sempre più consapevole di non poter prescindere dalla riflessione etica. Il legame è divenuto indissolubile con lo Stato e con l'economia, con la conseguenza che vi è un'interazione strettissima tra ricerca e potere. Il sapere prodotto della tecnoscienza è fatto per essere depositato nelle banche di dati e per essere utilizzato dalle potenze dominanti che hanno i mezzi per la sua utilizzazione. È necessario sviluppare il nuovo modello di scienza. È necessario che la scienza non modifichi la complessità dell'essere umano. Esempio di questa mortificazione è la riduzione del concetto di vita alla sola dimensione biologica. - La scienza con il suo valore della “conoscenza per la conoscenza” è entrata in conflitto con la persona umana e la sua dignità. La necessità di ridefinire il concetto di persona umana è resa urgente proprio dalle novità scientifiche. - Nel passato il concetto era più semplice e, per quanto riguarda la nascita, si poteva scegliere tra una concezione cristiana, secondo cui la persona nasceva all'atto del concepimento e una concezione laica, secondo cui la persona nasceva al momento dell'uscita dal ventre materno e dell'ingresso nel mondo culturale. Il dibattito deve uscire dalla cerchia degli specialisti per raggiungere la gente comune, perché diventi chiaro a tutti: 1. non esiste la neutralità della scienza e che ogni scelta che si avvale di una data tecnologia ha delle ricadute etiche e precise; 2. il complesso delle biotecnologie tocca la concezione dell'uomo e la struttura del sapere. Quest'ultimo aspetto fa cadere la considerazione tradizionale delle tecnologie come puro strumento di Wittgenstein e di Husserl. • Essi ci hanno insegnato che la scienza e la sua espressione più concreta che è la tecnica, non hanno a che fare con la soggettività e il valore della vita. • Wittgenstein e Husserl: la scienza non si occupa del senso dell'uomo. Weber ha messo in luce il disincantamento del mondo cioè l'affermarsi di un solo modello di conoscenza, quello proprio della scienza moderna. Tale modello da una parte è incapace di interessarsi ai significati dell'esistenza, e, dall'altra parte, riconosce un solo modello etico, quello che riguarda le regole conoscitive interne alla scienza stessa. • Heidegger dice che la tecnica non è più solo uno strumento di cui si serve lo scienziato. Gli sviluppi della tecnologia sono tali da realizzare una compenetrazione strettissima tra scienza e tecnologia, che annulla la distinzione tra conoscere e fare, tra l'aspetto conoscitivo e quello manipolativo della realtà. Il punto decisivo del metodo delle tecnoscienze è l'affermazione della propria autoreferenzialità. Da questa affermazione derivano conseguenze metafisiche, in quanto la tecnoscienza si sente autorizzata a inventare biologicamente un uomo nuovo. Questa invenzione dell'uomo nuovo andrebbe valutata eticamente, ma la tecnoscienza ritiene non pertinente questa valutazione. In ciò sta il suo carattere alienante: trattare come tecnici problemi che sono morali. Compito principale della bioetica: giudizio critico sull'idea di uomo proposto nascostamente dalle tecnoscienze.Tale compito deve essere sostenuto anche dalla politica. La politica deve confrontarsi con la pretesa che le tecnoscienza e manifestano di potersi sostituire il governo democratico della società. Popper e Kuhn: due pensatori contemporanei che hanno dimostrato la parzialità, la provvisorietà e la relatività delle nostre conoscenze scientifiche. • Popper: ha indicato nella falsificabilità anziché nella verificabilità il tratto principale di una teoria scientifica. Questo significa attribuire alle teorie scientifiche un carattere provvisorio e ipotetico perché sono sempre suscettibili di essere smentite dai fatti. • Kuhn: ha dimostrato come la storia della scienza sembra procedere più per "rivoluzioni" che per gradualità, col passaggio in modo discontinuo da un paradigma scientifico a quello successivo. 2.3. Il rapporto tra bioetica e diritto. Dal punto di vista storico la bioetica ha preceduto il diritto. Dalla nascita della bioetica, si è posta la questione se i grandi valori in gioco nelle decisioni bioetiche avessero bisogno o no della protezione della legge. Sul tema del rapporto bioetica diritto esistono due posizioni: 1) chi ritiene problematica la traduzione nel linguaggio giuridico delle esigenze regolamentari della medicina moderna. • La rapida evoluzione della medicina impedirebbe di individuare dei punti fermi (motivazione pratica). Si sostiene che la legge non deve intervenire perché nuocerebbe alla professione biomedica, la quale richiede una diretta assunzione di responsabilità. La bioetica si pone come alternativa al diritto, attribuendo responsabilità ai diretti protagonisti. • La regolamentazione giuridica finirebbe per violare l'autonomia delle differenti posizioni morali, la quale sarebbe meglio salvaguardata dall'assenza di leggi in materia bioetica (motivazione filosofica). Quest'ultima motivazione è fortemente presente nella bioetica anglosassone, basata in modo quasi esclusivo sul principio di autonomia. • Chi sostiene la necessità dell'intervento sanzionatorio del diritto per la necessità di tutelare i soggetti deboli, in un contesto medico sociale in cui si concentrano grandi poteri. Le leggi svolgerebbero il compito di mediare tra le diverse posizioni etiche presenti nella società. 2) L'intervento del diritto va a toccare gli individui nelle loro relazioni più personali: il rapporto di coppia, il progetto procreativo e la vita in generale nessuno momenti più significativi. Esemplare è la vicenda francese. • La Francia ha proposto un insieme di regole e di istituzioni per gestire le nuove procedure. Prima ha fatto uno studio approfondito sulle possibilità e le condizioni di legiferazione in ambito biomedico. Il risultato è un anche documento, che costituisce la base teoretica e fornisce una griglia di massima per l'attività legislativa nei diversi ambiti. La scelta: favore di interventi legislativi che pongano delle norme sociali chiare. Da parte nostra condividiamo questa posizione di intervento del diritto perché i problemi bioetici pure essendo collocati nell'ambito più intimo della persona umana, hanno anche dei risvolti importantissimi a livello sociale: la tutela della vita umana, il valore della famiglia e della genitorialità. Il diritto deve limitare il potere delle nuove tecnologie, per salvare il concetto di persona umana come fine in se stessa. Nella società contemporanea: diritto tende a perdere il suo legame con l'etica e ad assumere una sorta di neutralità etica. Ci si domanda se il diritto sia in grado di assolvere la sua funzione di protezione. D'Agostino: necessità di un contenuto assiologico come base per la legislazione civile, e individua questo contenuto assiologico nell'etica propria del diritto. Vocazione specifica del diritto è garantire agli uomini una coesistenza priva di violenza e sopraffazione, fondata sul riconoscimento della parità ontologica. Compito del diritto: difesa della struttura relazionale dell'uomo, garantendone così la parità ontologica e la simmetria dei rapporti, con la conseguente difesa dei diritti dei soggetti che deboli. Si tratta di un'etica pienamente laica. Il documento del Consiglio di Stato francese fissa alcune linee di orientamento per la legislazione in materia bioetica: a) principio dell'indivisibilità del corpo e dello spirito: questa indivisibilità costituisce la persona umana e la persona giuridica. b) principio dell'inviolabilità del corpo: il solo modo di intervenire legalmente sul corpo dell'altro e di ottenere il suo consenso. c) principio dell'indisponibilità del corpo. 3. IL PANORAMA ATTUALE LA BIOETICA LAICA Che cosa è la bioetica laica? Bioetica laica: non fa riferimento alle fonti e ai criteri della teologia morale cristiana ma si avvale delle indicazioni che provengono dalle correnti della filosofia contemporanea. Compito della bioetica laica: fornire un quadro neutrale per affrontare i problemi morali in campo biomedico. o della totalità, il principio di libertà-responsabilità, il principio di socialità, il principio di sussidiarietà. La difesa della vita fisica La vita fisica dell'uomo e il valore fondamentale per mezzo del quale la persona umana si realizza. Il riconoscimento del diritto fondamentale alla vita fisica è un diritto che non può essere violato neppure per favorire la vita degli altri perché la persona umana e fine in sé. Il principio terapeutico o della totalità Gli atti medici sul corpo dell'uomo sono possibili a condizione che l'intervento su una parte del corpo abbia come fine di salvaguardare l'intero cioè la vita stessa del soggetto. Il principio di libertà e responsabilità, il personalismo concepisce la libertà come scelta e attuazione di un progetto di vita. L'atto umano è veramente tale se la libertà si esercita secondo responsabilità per se stessi e per gli altri. Il principio di socialità esprime il legame naturale che c'è tra gli uomini. Impegna ogni uomo alla costruzione del bene comune di tutti gli uomini. Il principio di sussidiarietà Ogni uomo è il primo responsabile della propria salute e ha il diritto-dovere di operare per salvaguardarla. 3. Il problema del pluralismo etico. Prima di esaminare la questione esposta, vale la pena di richiamare alcune forme di pseudomoralità che sono ampiamente presenti nei comportamenti privati e pubblici. Sono forme particolari del generale processo di privatizzazione della coscienza morale. Tali forme incidono pesantemente sui temi della bioetica e accreditano fortemente l'idea che il pluralismo etico sia insuperabile. ⇒ Bioetica emotivista: il criterio esclusivo è il desiderio del soggetto. La vita propria viene condizionata dal sentire soggettivo dell'individuo. ⇒ Bioetica utilitarista: il criterio che determina le scelte è il profitto. ⇒ Bioetica sociologista: il criterio è quello dell'opinione dominante. La vita umana dipende dal valore che la cultura o l'ideologia prevalente sono disposte a riconoscerle. Cammino storico della riflessione etica. Il fatto della pluralità delle etiche si presenta sotto tre profili diversi: fondazione, giustificazione, e gerarchia dei valori. Si rileva l'affermazione della pretesa da parte di ognuna delle diverse teorie etiche di offrire la corretta interpretazione della dimensione etica. Il fatto che in questa nostra epoca sia fermi da più parti l'idea della incommensurabilità delle morali è il prodotto di una congiuntura storica ed esprime la negazione o della morale o dell'uguaglianza. L'insistenza nella difesa del pluralismo etico deriva meno da una concezione tutta e più da un'esigenza di salvaguardare la libertà di espressione dei singoli cittadini, sulla base del pensiero liberale anglosassone, che ritiene il pluralismo etico come la condizione di garanzia dell'esercizio dei diritti individuali e della libertà di ciascuno. Questo pensiero propone il modello di una bioetica naturale, che non impone valori a nessuno, limitandosi a porre le regole procedurali. Al modello di bioetica neutrale si deve opporre la considerazione che neutrale non è, in quanto propone un'affermazione del valore assoluto della libertà, senza correlazione con la responsabilità e la solidarietà. Contro il pluralismo etico si può argomentare anche sulla base della stessa legge di Hume (non si può trasformare un fatto in un valore, qualcosa che c'è in qualcosa che deve esserci), legge che costituisce la base delle teorie etiche senza verità. Il pluralismo etico non può essere considerato un valore per il solo fatto di esserci. Il passaggio può essere determinato solo da una teoria avente carattere universale che stabilisca l'eventuale valore del fatto pluralismo. La pretesa stessa del pluralismo etico di essere la sola posizione giusta conferma la natura stessa del sapere etico, il quale tende a proporre un bene riconosciuto da tutti. Si deve considerare il profilo strumentale del pluralismo etico. Esso è al servizio del progetto culturale proprio delle tecnoscienze. Nelle società avanzate esiste un complesso intreccio tra potere economico, che finanzia la ricerca è tra i grossi profitti, e tecnoscienze. La tendenza ad affermare l'autoreferenzialità delle conoscenze è sostenuta da poteri economici. Il pluralismo etico è strumentale a questi obiettivi, depotenzia qualsiasi atteggiamento critico nei confronti di una scienza che si presenta come eticamente neutrale. E, soprattutto, distoglie la bioetica da ciò che deve essere il suo compito essenziale, che quello di comprendere e valutare i presupposti culturali e gli atti concreti delle tecnoscienze. 4. Qualità della vita o sacralità della vita. Riflessione sull'idea di vita: dopo una iniziale utilizzandone dell'idea biologica di vita, nacque negli stati uniti un dibattito che condusse alla ripresa dell'accezione morale della nazione di vita e alla coniazione della categoria di qualità della vita. Nell'ambito europeo in quell'italiano al concetto di qualità della vita si oppose quello di santità della vita. La distinzione-opposizione tra santità della vita e qualità della vita è divenuta corrente, stravolgendo però il contenuto delle due posizioni. Il riconoscimento del valore sacro della vita appartiene alle certezze comuni della coscienza. L'agire tecnico della medicina si riferisce per sua natura ad una figura di vita quantificabile, che impone comparazioni e scelte. Illustra questa dinamica quanto accade intorno alla fine della vita: "in certe condizioni terminali la coscienza di ognuno esprime la valutazione ovvia è il prolungamento della vita non merita ormai chiude essere perseguito come un valore; lasciar morire oppure consentire alla propria morte, appare doveroso. Perché non accelerare una tale morte?" Il conflitto presente nella coscienza personale richiede di essere risolto attraverso una riflessione teorica sulla vita quale figura irrinunciabile in ordine alla comprensione dell'uomo e del suo destino morale. nel dibattito pubblico ci si assenta su una contrapposizione tra il carattere sacro della vita e l'affermazione del criterio della qualità della vita. ⇒ La vita desiderata con istanza sacra diventa criterio materiale, e viene difesa in modo feticista. ⇒ la qualità della vita diventa criterio solo psicologico, assegnato all'insindacabile modo di sentire del singolo, quando dimentica che variazioni delle condizioni di vita dell'uomo, non ne pregiudicano il valore di persona. La vita è sacra non può essere definita ignorando la coscienza che l’accompagna. In questo senso si esprime un autorevole documento della Chiesa cattolica, in un testo che suggerisce il cosiddetto intreccio tra valutazioni tecniche e valutazioni morali. Uno dei compiti teorici più importanti della bioetica: superare tale separazione attraverso l'elaborazione di una nuova teoria della vita. Il rispetto della vita non è rispetto di una cosa sacra, ma fedeltà all'alleanza di ogni uomo con gli altri uomini. LA DIGNITA’ UMANA La bioetica anglosassone attribuisce dignità e diritti solo alla persona autocosciente, capace di progettare il proprio futuro, entrare in relazione con gli altri. L'obiettivo è esaminare questo concetto di persona per vedere se rende giustizia alla complessità dell'essere umano. Bisogna presentare qualche punto essenziale di antropologia filosofica; Per Bacone il servizio migliore che lo scienziato può rendere all'umanità è quello di assoggettare la natura. La scienza, nel suo progetto, si pone come erede della religione, nell'impegno di rendere felici gli uomini. Non è preso in considerazione l'ipotesi che la scienza possa minacciare l'umanità. La scienza sperimentale si è lanciata in un progetto apparentemente inarrestabile di dominio sulla natura e sull'uomo stesso. Le scienze naturali non sono la via per la soluzione di tutti problemi dell'umanità infatti scienza e tecnologia mettono in pericolo il futuro dell'uomo e di tutte le forme di vita sul nostro pianeta. Filosofia e persona umana. La pace della natura e con la natura è possibile se essa diventa soggetto giuridico. Questa posizione sostenuta dal filosofo della natura K.M. Meyer-Abich, supera quella già esposta di Singer, che si fermava alla vita animale. Qui si intende includere anche il mondo vegetale e il paesaggio. È necessario istituire una comunità giuridica della natura che porrà fine allo sfruttamento arbitrario di questa. La conseguenza morale di queste affermazioni è che se l’intero sistema universale della natura assume anche per l’etica il valore di istanza normativa ultima, dobbiamo indignarci nello stesso modo quando si uccide un uomo, si abbatte un albero, si devia un fiume. La quasi personalizzazione del mondo naturale finisce per produrre il paradosso di rendere l'uomo è responsabile nei confronti della natura, in quanto affievolisce la rivendicazione dell'uomo di essere persona. Originalità dell'uomo nei confronti della natura Il fatto che l'uomo rappresenti, anche sotto il profilo biologico, un progetto particolare della natura, non viene negato dai rappresentanti di un'immagine biocentrica del mondo. Con l'uomo appare la ragione, la responsabilità e la libertà. La natura si arricchisce di una nuova possibilità perché solo l'uomo ha una responsabilità, che non può delegare, per la conservazione del tutto. • Il modello originario di ogni responsabilità è quello dell'uomo per l'uomo. Il bambino è oggetto della responsabilità dei genitori ma poi diventa capace di responsabilità, in questo diventa essere morale. Il creato è oggetto della responsabilità umana come lo è il bambino. Jonas riassume i doveri verso la vita nel seguente modo: la natura è mano dell'uomo, ma essa ha una dignità che deve fermare l'arbitrio dell'uomo. Nello stesso modo in cui l'uomo deve riconoscere la verità e non calpestarla. Su questa linea si pone l'esperienza della bellezza della natura. Tale esperienza presuppone che noi percepiamo la natura nel suo essere specifico e non consideriamo solo come una riserva di cose utili per noi. La bellezza della natura rimanda il suo senso e risveglia il senso della sua relazione con l'uomo perché essa è oggetto della sua responsabilità. • L'uomo contemplando la natura comprende che può salvaguardare la propria umanità solo rispettando le forme umane di vita e la loro specifica qualità. L'abitudine allo sfruttamento indiscriminato della natura ricade a lungo andare anche sui rapporti fra gli uomini. Il rapporto dell'uomo con la natura va posta in maniera tale da superare la divisione soggetto-oggetto e da mostrare che non possiamo pervenire a una nuova comprensione della natura abdicando alla nostra ragione. Riconoscere il valore specifico della natura e prendere sul serio la responsabilità particolare dell'uomo. L'uomo: non soltanto dimensione biologica. La visione delle scienze naturali ha tentato di ridurre l'uomo alla sua sola dimensione materiale. Per capire la personalità dell'uomo basterebbe rifarsi all'evidenza empirica della memoria, della autoconsapevolezza e della capacità di pianificare il futuro. a) identità della persona e corpo umano. È necessario esaminare tre momenti del concetto di persona: l'accezione biologica, la dimensione psicologica e l'accezione morale. Queste tre accezioni devono essere tutte contenute in un corretto concetto filosofico di persona. La bioetica americana esiste solo sulla continuità dell'autocoscienza e della memoria, ma tale continuità presuppongono: 1) l'identità personale del nostro io, perché solo sulla base di questa possiamo affermare l'identità di contenuti della nostra memoria; 2) la discontinuità della coscienza può essere superata solo sulla base di una continuità del corpo, che perciò è condizione necessaria all'identità personale. Non è possibile sostenere l'idea di un'identità personale umana indipendente dal corpo. b) auto esperienza e corporeità. L'osservazione fenomenologica vede nel corpo il mezzo espressivo del nostro sé. Per l'uomo la percezione del mondo esterno avviene non solo attraverso il corpo, ma solo attraverso una particolare prospettiva, che è legata allo spazio-temporale essere-nel-mondo del nostro corpo. Anche la nostra autoesperienza non è pensabile senza l'esperienza della nostra corporeità. • Il corpo è il mezzo della nostra autorappresentazione verso gli altri, in cui ci facciamo da loro riconoscere. Il legame tra corpo e sé rivela anche una differenza: noi non siamo identici al nostro corpo. La relazione tra il sé e il suo corpo si colloca tra l'avere e l'essere: il corpo che ne siamo non è identico al corpo che abbiamo. Da questa posizione intermedia tra l'essere e l'avere scaturisce la nostra libertà verso il corpo, ma pure numerosi conflitti dell'etica medica che qui hanno la loro origine. Conclusione: in nessun modo può essere sottostimato il peso della corporeità nell'esistenza umana. c) Intersoggettività e corporeità. Noi non sperimentiamo mai il nostro essere come autocoscienza pura e indipendente, ma vi perveniamo piuttosto solo esistendo con gli altri. Questo ci permette di affermare un principio fenomenologico: "corpo e intersoggettività sono inseparabilmente collegati": gli altri ci sperimentano solo nel nostro corpo e noi li incontriamo solo nella loro esistenza corporea. L'analisi filosofica ci permette di distinguere i singoli aspetti dell'essere personale, ma ci dice anche che questi sono solo dei passaggi di una realtà continua, in cui estremi non possono essere separati. È questa realtà continua che costituisce l'essere personale e ne fonda la dignità. 2. Teologia e persona umana. Secondo la Bibbia natura e mondo non sono sinonimi. Il primo indica la realtà preesistente ad ogni intervento umano, il secondo indica tutta l'attività dell'uomo, che sfocia nella cultura. Tra natura e cultura vi è un rapporto ineliminabile. Il mondo in cui viviamo va concepito come un'unità fra natura e storia. Dal punto di vista teologico è necessario introdurre il concetto di creazione facendo • la filosofia svolge il suo compito interpretando i dati 1) I dati della biologia Sul piano biologico: al momento della fecondazione si costituisce una nuova identità che si chiama zigote. Ha un patrimonio genetico originale diverso da quello del padre e della madre. Questa cellula contiene le informazioni necessarie alla costruzione del nuovo individuo. Dal momento della fecondazione inizia il processo di sviluppo embrionale che è caratterizzato da tre proprietà: coordinazione, continuità, gradualità. la coordinazione sviluppo embrionale è un processo che mostra una sequenza e interazione coordinata di attività molecolari e cellulari. L'embrione umano non è un ammasso di cellule ma l'intero embrione è un reale individuo. la continuità in seguito al momento della fusione dei il processo continua senza interruzioni. la gradualità L'individuo raggiunge la forma finale gradualmente: si tratta della legge intrinseca di sviluppo graduale. Ogni embrione mantiene stabilmente la propria identità, individualità e unicità rimanendo lo stesso identico individuo durante tutto il processo di sviluppo. Questa conclusione impedisce l'uso disinvolto degli embrioni. Sono state proposte tesi alternative che hanno come obiettivo quello di stabilire un punto cronologico superato il quale un embrione umano deve essere considerato un individuo umano. Ci sono tre tesi da esaminare: 1) L'embrione umano non può essere considerato un individuo fino al 15° giorno dalla fertilizzazione. Tesi è sostenuta con diverse argomentazioni. a. L’embrione inizialmente è solo un ammasso di cellule b. Si afferma che fino al 15esimo giorno c’è solo un'attività di elaborazione dei sistemi protettivi e nutritivi. c. Si fa riferimento infine al fenomeno della gemellanza monozigota. La prima ragione è inconsistente perché fin dal primo momento l'embrione è un progetto che si attua autonomamente. La seconda ragione considera come esterne all'embrione le strutture trofoblastiche, mentre esse sono appartenenti all'embrione. La terza tesi sarebbe fondata se in caso di gemellanza l'embrione si dividesse per dare origine a due embrioni. 2) L'embrione non può essere considerato individuo umano fino allo stadio dell'impianto in utero solo con l'impianto l'embrione acquisisce quella informazione extrazigota che deve provenire dalla madre ed è imprescindibile per la costituzione dell'essere umano. La risposta a questa argomentazione è duplice: la coesistenza dell'unione con la madre comincia prima dell'impianto. La stessa fecondazione in vitro mostra, con gli esperimenti su embrioni fino a fasi avanzate di sviluppo, che la coesistenza con la madre è una soluzione conveniente ma non è necessaria. 3) L'embrione non può essere considerato individuo umano fino a che il sistema nervoso centrale non sia sufficientemente formato, cioè fino alla sesta e ottava settimana dalla fertilizzazione. È una tesi diffusa in campo filosofico e teologico e si fonda sull'assenza di quegli organi ritenuti essenziali per la presenza umana. Non è possibile collegare l'anima a un organo particolare. Conclusione: L'embrione umano è un essere umano, anche lo zigote ed embrioni precoci sono un essere umano. 2) L'indagine filosofica La filosofia risponde a questa domanda: all'individuo umano si può attribuire il concetto di persona? • Boezio ha applicato il concetto per definire l'uomo come sostanza individuale di natura razionale. Questa definizione viene poi ripresa da San Tommaso d'Aquino. La sostanza è espressione della verità ontologica dell'uomo. Nella modernità il concetto di persona tende a desostanzializzarsi. • Cartesio: il concetto di persona viene riservato solo all'anima riducendo il corpo a pura materia. • Empirismo inglese: la coscienza è priva di sostanzialità e di unità. La persona è ridotta alla mente, quel fascio di impressioni ed idee, di percezioni distinte che si susseguono in un flusso continuo. Qui si trovano le radici filosofiche dell'attuale bioetica anglosassone. Oggi si assiste a un recupero del concetto di persona come categoria pratica, nell'ambito delle questioni etiche e in particolare nella bioetica e nel diritto. Che cosa è persona? Chi è persona? Come dobbiamo trattare la persona? Le risposte si possono classificare secondo due linee di tendenza opposta: • La tendenza: concetto di persona è diverso da essere umano e vita umana. • La tendenza : concetto di persona è uguale da essere umano e vita umana. prima tendenza: separazione del concetto di persona dall'essere umano esaminando la bioetica anglosassone: non tutti gli individui sono persone. Solo ad alcune tipologie di uomini sono persone e l’embrione inizialmente è un ammasso di cellule e solo successivamente diventa persona. Conseguenza ci sono esseri umani come gli embrioni che non sono ancora persone. Dal punto di vista etico c'è la libertà più completa di utilizzazione degli embrioni almeno fino a quando non siano ritenuti allo stato di persona. 2) seconda tendenza: identificazione della persona umana con nell'essere umano il concetto di persona fa parte della tradizione culturale dell'Occidente, che svolge una funzione reale di aiuto nella fondazione del rispetto e della tutela dell'essere umano. Dire che l'embrione è persona significa dire qualcosa di più rispetto al dire che l'embrione appartiene alla specie umana. Vengono resi espliciti i caratteri propri e le proprietà costitutive dell'essere umano, mostrando il fondamento del suo valore e dei suoi diritti. Boezio dice che la persona è la sostanza individuale di natura razionale. • Il concetto di sostanza si indica la determinata individualità di qualcosa. Applicato all'uomo il concetto di sostanza ci dice che le funzioni che esercita e gli atti che compie non esistono in sé ma esistono come funzioni e atti di un individuo umano sostanziale che ne è la condizione. È una sostanza che permette di spiegare l'unità e la permanenza dell'identità dell'essere umano. • Natura razionale: la natura indica ciò che l'uomo è in virtù della sua nascita, mentre l'aggettivo razionale indica la ragione, il pensiero, la parola e il linguaggio. Per spiegare il perché la sostanza individuale ha la natura razionale bisogna ricorrere alla teoria ilemorfica: L'essere umano è persona in quanto è composto di corpo e anima intellettiva dove l'anima intellettiva è una forma sostanziale del corpo umano. L'essere umano è persona in virtù della sua natura razionale, non diventa persona in forza dell'effettivo esercizio di certe funzioni come la relazionalità, la sensitività e la razionalità. Lo statuto di persona non si acquisisce con lo sviluppo graduale così come non lo si perde se non si esercitano le funzioni della persona. Sono persone lo zigote, l'embrione, il feto, il neonato, il bambino così come il moribondo, l'handicappato, il soggetto in coma. Perché dobbiamo rispettare sempre e comunque la persona umana? Perché l'essere umano è aperto all'Assoluto con il quale egli sta il rapporto necessario. La persona trova la sua ragione d'essere in se stessa e nella sua partecipazione all'assoluto. 3) Gli aspetti etici relativi all'embrione umano Il complesso dei valori espressi dalla dignità dell'embrione umano prende forma in una serie di principi generali dell'agire umano. I. Principio di unitotalitá: inseparabilità del corpo dello spirito. Il corpo embrionale è sempre trattato come soggetto e non come oggetto e ogni offesa fatta il corpo è offesa al soggetto. II. Principio di indisponibilità: è vietato ogni atteggiamento di dominio sull'embrione. III. Principio di inviolabilità: vieta ogni forma di violenza lesiva della vita o dell'integrità dell'embrione. Divieto di far correre rischi all’embrione che non siano per il suo stesso bene. IV. Principio di solidarietà: riconoscimento dell'embrione come altro da accogliere da proteggere in ragione della sua debolezza V. Principio della terapeuticità: orientamento che devono assumere gli atti medici. Tutti gli atti profilattici, diagnostici e curativi dovranno essere al servizio della salute dell'embrione. Norme etiche: • si applica all'embrione il comandamento “non uccidere”. Ogni azione volontariamente e direttamente soppressiva dell'embrione è un atto gravemente immorale. La diagnosi prenatale deve essere valutata. Per essere accettabile la diagnosi deve essere a beneficio della vita. La valutazione morale della sperimentazione sugli embrioni dipende dalle finalità che questa persegue. • Sui rischi per l'embrione direttamente connessi alla fecondazione artificiale consideriamo il destino degli embrioni fecondati in vitro. I problemi etici sollevati da questi embrioni sono: la crioconservazione, la selezione, il commercio, la destinazione degli embrioni. o crioconservazione: arresto del ciclo vitale di un soggetto in attesa che possa essere utilizzato, si tratta di un grave abuso e di una strumentalizzazione dell'embrione. o Selezione: fa sì che l'embrione non sia pensato in se stesso ma in relazione al risultato che si vuole conseguire. o commercio: espressione della riduzione dell'embrione a puro oggetto che espropria l'embrione della sua dignità. la tutela giuridica dell'embrione di sottrarre la vita embrionale all'ambito esclusivo della libertà privata e porla nell'ambito della protezione che l'ordinamento accorda alla vita di tutti soggetti umani. Sessualità e significato della generazione umana I significati umani della sessualità Esperienza sessuale dell'uomo contemporaneo compresenza di opposti atteggiamenti che determinano una situazione di conflitto e di lacerazione della coscienza: • concezione negativa della sessualità che affonda le sue radici nella tradizione culturale dell'Occidente e che ha lasciato tracce consistenti nell'inconscio collettivo. • concezione permissiva e consumistica della sessualità dominata dalla tendenza è una liberalizzazione selvaggia che ha come esito la sua radicale banalizzazione. Le dinamiche dell'odierno contesto socio culturale La repressione del sesso viene da lontano, non è addebitabile al cristianesimo. La rivelazione biblica ha una visione altamente positiva della sessualità tenendo conto dei limiti che l’uomo ha derivanti dal peccato. La riflessione degli autori cristiani dei primi secoli risente profondamente del condizionamento di Platonismo, gnosticismo e manicheismo, i quali, sono accomunati dalla contrapposizione tra spirito e materia. Punti principali concezione: • sospetto nei confronti dell’attività sessuale permanente attentato alla vita dello spirito. • esaltazione della verginitàforma perfetta della vocazione cristiana • giustificazione dell'uso della sessualità all'interno del matrimonio • perseguimento della finalità procreativa CULTURA DEGLI ULTIMI DECENNI. La rivoluzione sessuale ha messo in luce le potenzialità positive della sessualità. Il sesso risulta sempre più espropriato delle sue dimensioni più autentiche e ricondotto alla genitalità, senza alcun riferimento alla relazione con l’altro. Risultato= radicale separazione della sessualità dall'amore + caduta in una nuova forma di alienazione. L'uomo contemporaneo è condizionato dalla cultura del passato ed è segnato dalla cultura permissiva odierna. L' tra questi due opposti poli determina l'insorgenza di un vissuto altamente conflittuale, che impedisce il dispiegarsi di una concezione equilibrata e serena della sessualità nelle sue potenzialità e nei suoi limiti. La ricerca dei significati umani Esistono nel quadro dell'odierna analisi culturale elementi positivi che definiscono la sessualità. Si tratta di dimensioni costitutive o di strutture di significato che l'antropologia contemporanea ci ha aiutato a scoprire e che definiscono l'auto comprensione che l'uomo ha di sé come essere sessuato. 1. • Prima dimensione: è costituita dal rapporto essenziale che lega la sessualità al mistero della persona. La differenza sessuale è una realtà che coinvolge la persona in tutti i suoi aspetti. La sessualità è un vero e proprio modo di essere al mondo. É la persona a conferire connotati specifici alla sessualità umana. La sessualità umana è più cultura che natura. Sta all'uomo intervenire su di grande che un uomo e una donna possono fare. Si apre alla generazione di una persona con la quale i due genitori instaurano una relazione di dialogo e di cura. • Appare povera e di basso profilo morale la figura dell'uomo che vuole fabbricare il figlio facendo e disfacendolo a proprio piacimento con l'aiuto della tecnica. Il figlio non può in nessun modo essere ridotto alla condizione di oggetto che si possiede su quale esercitare un potere arbitrari. Il bambino con la sua presenza di persona costringe i genitori a riconoscere il mistero della vita, del quale l'uomo non è padrone. Il figlio chiede quel rispetto dovuto alla libertà personale e chiede ai genitori di compiere quell'opera di espropriazione disse che significa riconoscimento che c'è una realtà che ci precede, che é indisponibile e che dobbiamo rispettare. Il figlio non sarà comunque risultato della loro scelta o il prodotto dei loro atti anche se certo che gli verrà al mondo in conseguenza dei loro atti. Non si può generare facendo il conto dei costi dei benefici. Si tratta di un conto insensato perché non se ne possono trarre le somme definitive. La generazione è possibile solo nel segno dell'affidamento a una promessa. L'agire morale è agire senza condizioni. L'uomo può agire senza condizioni solo se si affida a un disegno più grande di sé. La verità dell'atto generativo esige che l'uomo e la donna promettano se stessi a colui che deve venire. Accettino che il figlio si metta tra di loro. La generazione assume la figura di un voto. Il voto accompagna la preghiera è perciò espressione di domanda. Ma è insieme una promessa, quella di non stabilire le condizioni del proprio servizio ma di lasciare che sia Dio a guidare la propria vicenda. Non si decide la nascita di un figlio ma la si invoca da Dio fedele che mantiene le promesse. L’ABORTO 1. L’aborto volontario Da 30 anni introduzione in quasi tutti paesi occidentali di leggi che depenalizzano o legalizzano. Centro del dibattito etico = aborto volontario diretto. Esistono altri tipi di aborto: - aborti spontanei: provocati da malattie materne generali (diabete) o locali (tumori). - aborto colposo: non direttamente voluto e programmato. Dovuto a comportamenti imprudenti compiuti dalla madre: sforzi sproporzionati, lavori pesanti. L'aborto volontario: compiuto con la volontà di sopprimere il concepito. È un'azione intenzionale. Può essere diretto o indiretto. L’aborto indiretto: non è voluto né programmato ma deriva da un intervento medico-chirurgico tendente di per sé a salvare la donna. • Principio del duplice effetto = legittimità di un trattamento che comporti la morte del feto per cui è lecito compiere un atto medico in sé buono o indifferente che comporti la morte dell'embrione. Condizioni applicazione: fine salvare la vita della donna; liberare dal male senza per forza uccidere il feto; intervento del medico non sostituibile son altri interventi. Difficile distinguere: aborto diretto da aborto indiretto. Sì ha aborto indiretto nei casi di: • Accelerazione del parto per impedire la morte della madre e poi del feto. Nell'intervento urgente di asportazione dell'utero colpito dal cancro. Morte del feto dopo il tentativo di assestare l’utero retroflesso. Aborto per intervento sui tessuti in caso di gravidanza extrauterina, la cui prosecuzione sarebbe fatale per la madre Le dimensioni del fenomeno in Italia In Italia la materia dell'aborto è stata normata con la legge 194/1978 confermata nel 1980 da un referendum popolare. Incremento del numero di aborti dal 1979 fino al 1982. A partire dal 1983 il numero degli aborti è in progressivo calo. Riduzione accompagnata da calo della fecondità. Ciò che rimane molto preoccupante è il rapporto tra aborti e nati vivi che resta stabilmente intorno al 25%. I soggetti che abortiscono La riduzione del numero di aborti riguarda: donne, nubili o coniugate, con età compresa dai 25 ai 34 anni. Molte donne abortivano per mantenere stabile il numero dei figli. Si usava l'aborto come contraccettivo. Si registra un aumento dell'abortivitá tra le donne giovani, giovanissime e tra le donne extracomunitarie. L'opinione pubblica e l'aborto referendum confermativo della legge 194 introduzione dell'aborto legale nel nostro ordinamento. La decisione presa dalla donna con il condizionamento di molti fattori: l'opinione del padre, i suggerimenti dei parenti, il consiglio degli amici. L’opinione pubblica: aborto = fenomeno modesto che interessa le minorenni non sposate. L’embrione è considerato un essere umano, e si vorrebbe limitare il ricorso all'aborto solo per casi gravi e determinati. L’aborto è rafforzato da vari fattori culturali che hanno sminuito significato simbolico del figlio che è sempre più inserito in un'ottica privata di costi e benefici. La legge 194, 22 maggio 1978 Per l'interruzione volontaria della gravidanza la legge distingue due periodi: • entro i primi 90 giorni: incontro preliminare la donna per interrompere la gravidanza si deve rivolgere al consultorio familiare o un medico di sua fiducia per accertare lo stato di gravidanza e per aiutare la donna a una valutazione delle soluzioni possibili. Al termine dell'incontro, se la donna rimane convinta della sua decisione si lascia un certificato firmato sia dalla donna sia dal medico che dà diritto, dopo sette giorni ad accedere ad un ospedale per l’intervento. Nella richiesta di aborto non si precisano le motivazioni che sono giuridicamente irrilevanti. Per le minori di 18 anni serve il consenso dei genitori o del giudice tutelare. Non serve consenso qualora il medico accerti l'urgenza dell'intervento per la salute della minore. La legge 194 prevede che il personale sanitario possa invocare l'obiezione di coscienza ed essere esonerato dal praticare l'aborto. • Dopo i 90 giorni: l'interruzione della gravidanza può essere effettuata solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici come anomalie o malformazioni del nascituro. Osservazioni sulla legge 194: A) Non ha liberalizzato l'aborto ma lo ha permesso in casi di particolare gravità. Una delle finalità è rimuovere le cause che favoriscono il ricorso all'aborto. Corte costituzionale sentenza 1975 = ampliazione limiti di liceità dell'aborto terapeutico, ritenendo che il pericolo per la vita di chi è già persona possono giustificare il sacrificio della vita di chi persona non è ancora. La prassi dell'aborto si è svincolata da qualunque riferimento alle motivazioni legali e si è di fatto liberalizzata. In questo modo l'aborto è diventato strumento di controllo delle nascite. Le cause della trasgressione della legge sono: • il mancato svolgimento del compito di consulenza e di sostegno da parte dei consultori familiari. • Il ricorso diretto al medico di fiducia. B) Per comprendere il fenomeno dell'aborto va sottolineato il rapporto di abortivitá (numero di aborti su 1000 nati vivi). Oggi= un aborto legale per ogni quattro nati vivi. È un dato impressionante perché presenta dei rischi per la madre ed è un trauma che prima o poi si farà sentire. C) si potrebbe arrivare a meno aborti con la prevenzione attraverso l’ammissione del personale medico dell’obiezione di coscienza. Questo personale dovrebbe poter svolgere i compiti di consulenza previsti dalla legge che consistono nell'esame della situazione della madre e delle motivazioni per cui ha scelto di chiedere l'aborto legale. D) questione centrale = identità del bambino con l’aborto si sopprime un essere umano o solamente un ammasso di cellule?. Chiesa cattolica = l'istituzione più attiva a livello mondiale nella difesa del diritto alla vita come diritto inviolabile e indisponibile che deve essere riconosciuto da ogni persona e dal diritto degli Stati. L'aborto con la pillola del giorno dopo: vengono somministrati ormoni steroidei. Prof Balieu fine anni 70: ha sintetizzato un ormone e sperimentato dalla metà degli anni 80 in cliniche francesi. Il farmaco agisce come antagonista del progesterone (ormone che mantiene la gravidanza) impedendo l'annidamento dell'embrione nell'utero e la nutrizione dell'embrione che muore per mancanza di alimentazione. Dopo qualche giorno vengono somministrate le prostaglandine che provocano l'espulsione dell'embrione o del feto già morto. Come valutare l'uso della pillola del giorno dopo? Le sperimentazioni non hanno ancora smentito i rischi per la salute della donna (emorragie in concomitanza con l'espulsione del feto). L'uso della pillola del giorno dopo renderebbe più facile la violazione delle norme della legge 194 che vietano il ricorso all'aborto come mezzo contraccettivo. Questo fatto potrebbe contribuire alla diffusione dell'aborto clandestino. La diagnosi prenatale Prassi in forte crescita. Si ricorre spesso alla soppressione dei feti che presentano anomalie anche non gravi. Questo atteggiamento è stato favorito dalla legge 194 in cui articoli 4 e 6, i quali, prevedono che se viene riscontrato nel feto delle malformazioni la donna può chiedere l’aborto. Le tecnologie usate sono: utilizzazione di sonde ad alta definizione. esame del DNA: consente una più precisa e rapida individuazione delle mutazioni genetiche e una diagnosi più rapida di tutte anomalie cromosomiche. Le tecniche diagnostiche più diffuse: 1) ecografia: consente di conoscere le condizioni generali del feto. Basso rischio di aborto 2) Prelievo di cellule fetali mediante amniocentesi: puntura con un ago del sacco fetale per prelevare una piccola quantità di liquido amniotico che contiene qualche cellula dei tessuti fetali. I rischi sono consistenti. 3) Fetoscopia: si usa una sonda per osservare direttamente il feto. Si prelevano piccole quantità di tessuto fetale da esaminare in laboratorio. 4) Biopsia dei villi coriali: si esegue mediante ago e senza entrare nel sacco fetale fermandosi al corion che una delle membrane che avvolgono il feto. 5) Prelievo del sangue fetale: una puntura del cordone ombelicale Atteggiamento di fondo= individuare figli sani. Il limite etico alla sua accettabilità deriva da due elementi: • Rischio a cui sono sottoposti madre e feto. • Fine della diagnosi prenatale se fosse quello di procedere all'aborto in caso di diagnosi infausta avremo che la diagnosi si trasformerebbe in una sentenza di morte. 5) I centri di aiuto alla vita 1969 Firenze centro di aiuto alla vita. Finalità= prevenire l'aborto volontario attraverso un rapporto gratuito di ascolto e di dialogo personale. Tipi di intervento: • consulenza clinica e specialistica; • ospitalità presso istituti o possibilmente presso famiglie o comunità; • incoraggiamento a ricercare le eventuali cause inconsce del rifiuto del figlio; • assistenza tempestiva ai bambini nella fase prenatale e post natale; • aiuto domestico fondato sul volontariato; • aiuto nella ricerca di un lavoro per la madre o per i genitori disoccupati. La struttura è costituita da un nucleo ristretto di persone che siano in grado di assicurare una presenza costante. L'articolazione interna si basa sulla figura di una coordinatrice con funzioni direttive e di attività socio Psico culturale del centro. I compiti a esso demandati sono: • i contatti personali stesso intervento. -congelamento degli embrioni: per conservare gli embrioni che originano da una superovulazione. -congelamento degli oociti: pone minori problemi etici(stesso livello delle banche del seme). -Passaggio alla fecondazione eterologa -Trattamento della sterilità maschile: sono state elaborate delle tecniche di fecondazione mediante micro iniezione di un unico spermatozoo. -Maternità surrogata: con questo termine si intende la funzione svolta da quelle donne che accettano di condurre a termine una gravidanza per conto di altre donne, con l'accordo di cedere il bambino dopo la nascita. Aspetti culturali: motivazioni delle coppie che ricorrono alla FIVET. Molte domande inerenti la sterilità, la reazione della coppia e sulle tecniche di procreazione assistita. La relazione di coppia rapporto positivo di coppia si è rivelato essere condizione essenziale per avviare la richiesta di assistenza. Diritto alla procreazione/diritto della coppia 50% dei soggetti si orienta verso rivendicazione diritto alla maternità e nn di coppia 50% soggetti per diritto alla procreazione come diritto di coppia. la famiglia le coppie sterili che hanno fatto richiesta di assistenza per la procreazione sono portatrici di una cultura familiare piuttosto tradizionale. Impo x aspetto istituzionale della famiglia = matrimonio. La tipologia familiare prevalente è nucleare. Procreazione assistita e significato della genitorialità. Cosa spinge a cercare a tutti i costi figlio biologico: • Il timore della diversità totale del figlio adottato • desiderio di vivere come coppia esperienza della gravidanza • La valutazione di incompletezza della famiglia senza figli Quale significato attribuiscono alla procreazione le coppie sterili: -molti soggetti affermano che tra i diritti del nascituro c'è il diritto di essere accolto da una coppia. Si possa interpretare queste affermazioni come possibile espressione di maturazione della coppia che sia per l'accoglienza del dono della vita, ma anche come ricerca del figlio proprio tutti costi. Rischio cancellazione dei sentimenti ambivalenti nei confronti del bambino accade che i genitori che adottano la procreazione assistita non lascino il bambino idealizzato per accettare quello reale . Il contesto socioculturale relativo alla generazione. Trasformazioni socio-culturali della famiglia + procreazione. Luhmann mondo in cui viviamo porta tutti al desiderio di un bambino ma che poi viene vissuto come peso + disturbo + responsabilità + un rischio + una scommessa difficile + non come "una persona umana". Società oggi sessualità senza conseguenze. Separazione: sessualità e procreazione atto sessuale senza conseguenze su persona e società + senza sentimenti = visione apocalittica. Donati prospettiva relazionale = reale chances di affrontare i paradossi della modernità. Non potrà nascere una nuova cultura della procreazione se non adottando la distinzione umano/non-umano che le direttrici inerenti la sessualità comportano. Si deve introdurre nelle relazioni il punto di vista dell'umano in quanto distinte da ciò che è umano non è: così è possibile non smarrire il valore umano di soggetti implicati. I diritti dell'embrione i diritti del bambino. cultura familiare contemporanea = centrica concentrazione di tutte le tensioni familiari sn rivolte ai bambini. figlio = strumento per la realizzazione dell'adulto + oggetto di gratificazione dell'adulto genitore ogni figlio desiderato deve nascere. Conseguenze ricerca diritto al figlio rischio = dimenticare completamente la persona del bambino e i suoi dirittial centro il processo di generazione deve essere il bambino. La coppia deve accettare di confrontare il proprio diritto di essere genitori con i diritti del bambino: tra questi diritti : • tutela della salute del nascituro • il diritto a conoscere le proprie origini • il diritto di entrambi genitori e il diritto alla famiglia e alla piena relazionalità. La tutela della salute del nascituro implica che le tecniche di fecondazione artificiale non siano adoperate con fine eugenetico (selezionare cioè l'esemplare migliore). Vi è inoltre il diritto a conoscere l'identità dei propri genitori divieto di accedere alle pratiche della procreazione assistita da parte di singoli individui Aspetti etici. La probabilità di successo offerta della FIVET nell'immaginario collettivo è rapidamente diventata la tecnica risolutiva del problema della sterilità. nella nostra condizione culturale argomentazioni razionali siano inefficaci quando si scontrano con quella mentalità frutto del processo combinato di privatizzazione della coscienza (con la prevalenza del criterio morale dell'utilitarismo), di medicalizzazione sempre più spinta della vita intera (compreso il processo di generazione) e di meccanismi economici che orientano verso ciò che fa guadagnare. E ancora più necessaria un'educazione all'uso della ragione che non sia solo servizio degli scopi da raggiungere, ma soprattutto a servizio del senso dell'uomo e che sappia costruire un'ontologia della persona. Gli aspetti etici decisivi sono tre • Fecondazione artificiale ed embrione umano La morte degli embrioni dipende da varie cause: alcuni restano soprannumerari e vengono congelati, per poi essere distrutti o usati per la sperimentazione; altri muoiono a causa dell'alto tasso di aborti che le tecniche comportano. Sulla sorte degli embrioni da una parte abbiamo la posizione radicale di chi non li considera per nulla persone umane e degni di particolare tutela: l'embrione umano è considerato nei primi giorni di vita solo un grappolo di cellule. Questa teoria è fortemente sostenuta in ambiente laico. In conclusione, se si riconosce all'embrione la qualità di essere umano, si deve riconoscere l'obbligatorietà della sua protezione giuridica e assicurargli il diritto alla vita e all'integrità fisica e genetica. La vita dell'embrione umano deve essere riconosciuta, come ogni altra vita umana, inviolabile e non strumentalizzabile ad alcun fine esterno. • Fecondazione artificiale e amore umano: Questo tema riguarda tutte le tecniche di fecondazione artificiale, in quanto essi sostituiscono completamente l'atto coniugale destinata la procreazione. La separazione su cui normalmente si porta l'attenzione è quella tra significato punitivo e significato procreativo dell'atto coniugale. Il riferimento per i teologi cattolici è il numero 12 dell'enciclica Humanae vitae che condannerebbe la contraccezione e la fecondazione in vitro, in quanto la prima esclude la procreazione e la seconda esclude il significato della sessualità. La scissione che si opera nella FIVET è tra procreazione e attività sessuale. L'unione sessuale dei coniugi non ha solamente un valore fisico genitale. La congiunzione sessuale coniugale esiste in una triplice dimensione, fisica-psicologica-spirituale, non giustapposte, ma unificate da un atto di libertà della persona che fa dono di sé all'altro. È questo il significato che il termine congiunzione sessuale coniugale ha nell'etica. Occorre richiamare anche la distinzione tra fare e agire. Una differenza decisiva tra due tipi di azioni è il prodotto dell'attività che si pone ad un livello di inferiorità assiologica nei confronti di chi lo ha prodotto: l'effetto prodotto vale meno della persona che lo produce. Il cosiddetto caso semplice. L’atto fondatore è un dono scambiato tra i genitori, che fa attendere il figlio esso pure come un dono. I genitori hanno posto le condizioni della nascita, ma non hanno il controllo sul suo organismo. Fin dal concepimento il bambino è già altro rispetto ai genitori; Per i genitori vivere il dono nei confronti del figlio significa accettare questa alterità del bambino. Il concepimento fisico esige anche un'adozione spirituale: poiché il bambino è sempre altro, deve essere atteso come radicalmente altro dalla rappresentazione-proiezione che ne fa il desiderio dei genitori. A partire dal momento in cui la tecnica è applicata alla procreazione umana, fa rinascere il sogno della perfezione: si tratterà di dare ai genitori un "figlio perfetto". Il bambino sarà ordinato in tutti i minimi dettagli, facendo smarrire il senso provvidenziale dell'alterità e violando un requisito essenziale della persona umana. C'è un'alta probabilità che il bambino non si è più voluto per se stesso. Questo desiderio rifiuta la differenza è l'alterità. Il rispetto dell'altro, della sua irriducibile alterità, costituisce il primo principio dico, sul quale possono ritrovarsi tutti gli uomini di buona volontà, quali che siano le loro fedi religiose. I genitori sono spossessati del loro diritto di dare la vita e diventare devo parlare di un bambino nato da un atto di amore. • Fecondazione artificiale e unità della famiglia. Un terzo problema etico fondamentale è quello dell'unità della famiglia. Si fa ricorso alla donazione di gameti maschili o femminili. La modalità più diffusa è la donazione di sperma, mentre è più raro è il dono di ovuli dato che non si possono congelare. Esiste anche la pratica del dono dell'embrione, che viene attuata quando, per motivi clinici o di opportunismo una donna chiede che l'embrione concepito da lei e dal coniuge sia trasferito in una donna portatrice che ne assumerà la gestazione con l'intenzione di riavere il bambino al momento della nascita. In tal modo le coppie che desiderano un figlio per questa via, introducono nell'intimità coniugale un terzo. L'alterazione dei rapporti intraconiugali sfocia inevitabilmente nell'alterazione dei legami parentali-filiali. Il nascituro sarà figlio di genitori diversi: può avere un valore biologico è un valore sociale può avere una madre biologica, una madre sociale e anche una madre che lo ha fatto nascere. Nascere con il seme di un donatore. Con la generazione assistita, la famiglia che si forma è squilibrata, in quanto i genitori non sono in una posizione di parità nei confronti del figlio. Uno dei partner, quasi sempre l'uomo, in questo tipo di generazione resta fuori gioco. Questo diritto di generare solo l'uno per mezzo dell'altro è inalienabile, in quanto esso è parte essenziale dell'alleanza nuziale. Rinunciare a questo diritto significa rinunciare alla struttura del matrimonio. Anche il figlio ha diritto che il patto che unisce i suoi genitori non sia spezzato. La frammentazione della paternità e della maternità. Con le tecniche eterologhe la maternità può assumere una diversa definizione: • genetica: la donna che mette a disposizione l'ovulo. • uterina: la donna che porta avanti la gravidanza. • sociale: la donna che alleva il figlio. La maternità non può essere interpretata esclusivamente in termini biologici e fisiologici: sarebbe riduttivo pensare alla maternità solamente come il prestito momentaneo dell'utero o della donazione di un ovulo. La donna e madre nella profondità del proprio essere e tutto in lei è impegnato in quest'esperienza, che coinvolge non solo il corpo, ma anche la psiche e lo spirito. La paternità solo biologica e la maternità solo gestazionale e/o biologica falsificano le caratteristiche originali dell'essere padre madre: l'unione dei coniugi diventa inutile. La procreazione artificiale tende a diventare un'alternativa alla procreazione naturale. Dalla parte del figlio. Raramente si affrontano le problematiche dal punto di vista del bambino, ma non può essere trascurato, perché si tratta di far venire alla luce un essere umano con tutto il patrimonio di diritti che gli competono. I diritti dei figli con tono molto poco: l'attenzione principale della nostra società è focalizzato sui desideri dei giovani adulti. Parlando di diritti si parla di giustizia: andare contro i diritti del nascituro significa commettere un'ingiustizia nei momenti in cui lo si concepisce, perché gli si sottraggono dei beni essenziali a cui ha diritto fin dall'inizio. Il primo diritto del bambino è quello concernente l'accesso alle sue origini biologiche, ovvero il diritto a conoscere i propri genitori biologici. Anche i figli adottati vogliono conoscere le proprie origini: L'adozione è un bene, perché la persona esisteva già e viene accolto in una famiglia. I motivi di salute sono relativi a quelle patologie che richiedono un intervento, come donatore, da parte del genitore biologico. Dovrebbe essere rigorosamente salvaguardato il diritto del figlio che abbia superato i 14 anni di conoscere i dati anagrafici del padre biologico ed ogni informazione relativa alla propria salute e il diritto di chiedere il disconoscimento del padre legale e la contestuale dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del padre naturale. Infine, va affermato il morte = fatto puramente incomprensibile. reazione cultura fatto assolutamente privato + determinazione del singolo se e quando morire. Movimento pro-eutanasia Usa, Australia, paesi nuovi. 1973 manifesto dell’eutanasia. Base doc = diritto a morire con dignità Ultimi tempi sviluppo cure palliative= valida alternativa all’eutanasia. Cure non considerate dl mov. pro- eutanasia Obiettivo reale = affermazione di un principio del diritto a morire nel momento in cui lo si ritiene opportuno. La legislazione sull'eutanasia Oltre Olanda no paesi in cui eutanasia sia legale. Leggi attuali = depenalizzazione assistenza al suicidio. Italia oggi: 1. codice penale la condizione di esasperazione dovuta alla sofferenza del paziente non cambia la qualità omicida dell'eutanasia. 2. codice di deontologia medica è prescritta l'assistenza al moribondo: - informare il paziente sullo stato della sua malattia - il medico non deve effettuare trattamenti per abbreviare la vita o provocarne la morte - il medico può limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia atti a risparmiare inutile sofferenza - il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ragionevolmente utile - È ammessa la possibilità di prosecuzione del sostegno vitale per mantenere in attività organi destinati al trapianto Codice dei Medici Italiani rifiuta l'eutanasia = evitare azioni che abbrevino la vita del paziente + sospensione delle cure normali. L'Olanda Primo paese ad avere legalizzato eutanasia. Art.2 della legge condizioni per cui l'eutanasia si configura come pratica legale: • Il medico deve avere la piena convinzione che la richiesta del paziente è volontaria • Avere la piena convinzione che le sofferenze del paziente sono resistenti a terapia e insuperabili • Deve informare il paziente sulla situazione clinica e sulle prospettive • Deve consultare almeno un altro medico Legge eventuali abusi valutati dalle commissioni regionale di controllo. La classe medica viene a godere di una totale non perseguibilità e si indebolisce la protezione che il diritto accorda alla tutela della vita. La legge olandese è una cattiva legge sul piano propriamente giuridico. Stati Uniti dibattito sull'ambito di collocazione dell'eutanasia, se nel dominio pubblico, ritenendo che si tratti di ferita al corpo sociale o se nell’ambito privato. Sondaggi paesi occidente maggioranza della popolazione ritiene che dovrebbe essere permesso a un medico di porre fine a una vita quando non ci sono prospettive di miglioramento in caso di malattia terminale. Belgio 2014 si usa la sedazione terminale obiettivo = ridurre il livello di coscienza di pazienti terminali usando farmaci in modo che non sentano più dolore. 2. L'accanimento terapeutico Accanimento terapeutico = ha obiettivo di prolungare la vita in modo forzato e macchinoso e solo per breve tempo. É opposto all'eutanasia. Medicina contemporanea diffusione accanimento per: - accanimento terapeutico perchè la malattia è l'impresa umana che contrasta la morte. - L'estrema specializzazione delle branche della medicina conduce alla perdita completa del carattere personale della malattia: non si cura la persona del malato ma i processi organici disturbati chi chiamiamo malattie. L'uomo rischia di essere trattato come oggetto. - Il nuovo modello di rapporto medico paziente è sempre più orientato al contrattualismo di provenienza anglosassone che spinge il personale sanitario a fare di tutto anche quando certe terapie sono inutili. Morire con dignità o molti pensano che morire con dignità significhi la liberazione dal dolore attraverso l'eutanasia attiva. o Altri intendono un'assistenza al morente che comprenda il rifiuto dell'accanimento terapeutico e in secondo luogo una efficace terapia del dolore. Fa parte del morire con dignità: - sostegno psicologico - un accompagnamento umano del morente che non lo lasci in completa solitudine e gli faccia percepire di essere considerato come persona fino all'ultimo momento della vita. 4. Aspetti etici Base allungamento vita ad ogni costo + provocazione intenzionale morte = rifiuto incontro con morte. L'accanimento terapeutico Va rifiutato perché viola il diritto della persona a morire con dignità. È dovere del medico usare tutti i mezzi che la scienza gli mette a disposizione per evitare al malato non solo il dolore ma anche la paura e l'angoscia della morte. La sospensione delle cure esagerate non significa abbandono del malato ed interruzione delle cure ordinarie come l'alimentazione e l'idratazione. Articolo 36 del codice italiano di deontologia medica il medico può limitare la sua opera se tale è la specifica volontà del paziente, all'assistenza morale e alla terapia per risparmiare inutile sofferenza. Comitato nazionale bioetica l'assoluta diversità di ordine che intercorre tra evento morboso e morte rende ragione del perché l'accanimento, volendo prolungare il processo irreversibile del morire, sia riprovevole. Speranza comitato = diffusione nella coscienza civile della consapevolezza che l'astensione dall'accanimento terapeutico è doverosa. Dichiarazione sull'eutanasia del 5 maggio del 1980 quattro criteri: a. in mancanza di altri rimedi è lecito ricorrere con il consenso dell'ammalato ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata b. è lecito interrompere l'applicazione di questi mezzi quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. c. È lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina offrire. Non si può imporre a nessuno l'obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che non è ancora esente da pericoli ed è troppo oneroso. d. Nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati è lecito prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero un prolungamento precario e penoso della vita senza interrompere le cure normali dell'ammalato. L'eutanasia Importante è riconoscere la motivazione alla base della richiesta. Se non è una protesta la domanda di morte può essere distinta così: - volontà patologica di morte - volontà sana di morte. Oggi prevale l'idea che la volontà di morte non si possa accompagnare alla salute sia morale sia mentale. È questa la ragione che fa accettare con indulgenza il suicidio dopo un'epoca in cui era considerato un gesto moralmente cattivo. Le ragioni a favore Base ragioni = principio di autonomia + principio di beneficenza come atto benefico del medico o dei parenti per alleviare le insopportabili sofferenza del paziente. Vita umana = valore estrinseco in quanto essa è il presupposto per la realizzazione di tutti gli altri valori. Vita va tutelata se la persona la sperimenta come preziosa Nel caso dell'eutanasia non si tratta di negare a un'altra persona il diritto di vivere. Il divieto generale di uccidere deve retrocedere di fronte alla sua autovalutazione qualora egli ritenga che per lui non vale più la pena continuare a vivere. Enghelgart Principio per ogni uomo = la mia vita è del tutto mia e sono l'unico a poterne disporre. Intende spostare il tema dell'eutanasia nella sfera privata nella quale l'individuo può autonomamente decidere. Il principio di benevolenza che viene invocato come attuazione della compassione per i sofferenti è, in realtà, una resa alla distanza che esiste tra le persone. Se così non fosse, il nome del principio di benevolenza si metterebbe in questione la stessa richiesta di morte e si offrirebbe la propria personale prossimità. Esperienza olandese dimostrazione che esiste un conflitto nell'applicazione dei principi di autonomia e beneficenza con la progressiva attribuzione di un potere sempre maggiore alla classe medica. In realtà sono i medici che decidono se accogliere o respingere la richiesta di eutanasia del paziente, in base alle loro valutazioni. Sono loro che in molti casi pongono fine alla vita del paziente anche quando questi non ha avanzato la richiesta di eutanasia. Le ragioni contrarie La dottrina morale tradizionale e cattolica sono contrarie all'eutanasia. Hanno comunque sviluppato una serie di distinzioni per individuare una gradazione delle responsabilità del soggetto che agisce. Via delle distinzioni formali non si è rilevata molto produttiva. Il motivo = eutanasia e accanimento terapeutico sono modi con cui l'uomo contemporaneo pretende di controllare in qualche modo ciò che è incontrollabile cioè la morte. Questione originaria = morte cosa sia una buona morte e cosa sia una buona vita. I problemi etici non riguardano solo il momento della morte ma tutto ciò che precede. Se la vita non acquista il senso di vita da vivere in tutte le sue fasi l’etica non riuscirà a frenare nelle spinte verso l'accanimento terapeutico nelle soluzioni di eutanasia che appaiono come la via di uscita più umana per delle situazioni intollerabili. Ragioni contrarie vanno inserite nella riflessione su che cosa sia per l'uomo la morte buona. Dobbiamo dire che la morte ha il carattere di fine della vita dell'uomo. Coloro che sono favorevoli all'eutanasia o all'accanimento terapeutico cercando di dominare la morte anticipandola o rimandandola. Coloro che invocano il diritto al suicidio leggono la morte come possibilità per la libertà ma in realtà si tratta di una contraddizione perché la morte resta sempre indisponibile al dominio dell'uomo: fuggire dalla morte anticipandola significa fuggire se stessi come soggetto. La morte come compimento della libertà Durante tutto il corso della vita la coscienza dell'uomo sa della morte, può cercare un senso alla morte e alla propria morte. Con coscienza della morte = compimento cioè evento carico di senso scelto dalla libertà senza perdere con ciò la caratteristica dell'essere fine, cioè accadimento subito. Morte = fine + compimento essa è una prova, la prova decisiva della condizione umana nella quale si può trovare un senso che rimanda ad una speranza o a Dio, o negare qualsiasi senso attraverso l'affermazione della propria autonomia assoluta. La tradizione cristiana ha distinto le verità di fede (dogmi) dalle pratiche celebrative (sacramenti) e dagli orientamenti che più direttamente riguardano il comportamento umano nel mondo (vita morale). È ovvio che tale distinzione non significa separazione. L'esistenza cristiana è fondamentalmente unitaria, perché affonda le sue radici nell’unico mistero di Cristo, che deve essere contemplato, celebrato e vissuto. La fede, come adesione dell'uomo al progetto di Dio, comporta un coinvolgimento totale della vita; è un processo esistenziale che alimenta di sé i diversi momenti dell'esperienza umana. La vita morale è dunque un aspetto del mistero cristiano, che attinge la sua linfa vitale dalla contemplazione e dalla celebrazione. Ciò che la qualifica è lo sforzo di cogliere, alla luce della fede, la direzione che l'agire concreto e storico deve assumere per conformarsi al piano divino. Purtroppo il termine «morale» ha assunto, nel linguaggio corrente, una connotazione prevalentemente negativa. Per troppo tempo è stato identificato con un quadro dettagliato di prescrizioni minute, che miravano a imbrigliare il comportamento umano, soffocando la libertà. 1.2. Morale, non moralismo L'eccessiva preoccupazione di fornire indicazioni precise per le diverse situazioni in cui l'uomo viene a trovarsi e l'accento posto più sulle proibizioni che sui contenuti positivi dell'agire umano, hanno finito per alimentare un atteggiamento di disaffezione e di rifiuto verso la morale. Veniva considerata come una descrizione patologica del comportamento piuttosto che come la presentazione degli ideali ai quali ispirare la propria condotta. Non è questa certo la prospettiva della più autentica tradizione cristiana. Ma in alcuni periodi storici questa prospettiva è divenuta prevalente nell'ambito della teologia e della catechesi. In realtà la morale cristiana — quella nel messaggio evangelico — ha un carattere positivo. È la proposta di mete di perfezione verso cui tendere; è l'indicazione di valori che sollecitano la responsabilità personale e l'impegno umano a costruire un mondo più abitabile. È come dire che il compito fondamentale della morale, lungi dall'essere un compito repressivo, è invece orientato alla crescita totale dell'uomo, tanto a livello personale che sociale. L'obiettivo della morale è la liberazione umana integrale — di tutto l'uomo e di tutti gli uomini — da attuare mediante un faticoso processo di integrazione delle diverse istanze che ne qualificano la vita. 1.3. Una proposta di «valori» La condizione perché tale compito possa correttamente esercitarsi è il passaggio da una «morale della legge», in cui conta solo l'aspetto normativo, a una «morale della responsabilità», per la quale, oltre alla legge, conta la maturazione degli atteggiamenti di fondo, l'acquisizione di uno stile di vita e di una capacità di discernimento, che abilitino l'uomo a compiere scelte appropriate nelle diverse situazioni esistenziali. Lo stato di disorientamento, in cui l'uomo oggi vive, è determinato da una profonda crisi di valori. Ciò che in passato costituiva un punto di riferimento indiscutibile per la ricerca del senso della vita, è divenuto ai nostri giorni problematico. La caduta dei vecchi modelli non si è accompagnata allo sforzo di costruirne dei nuovi, ma ha lasciato il posto a un vuoto, che si rischia di colmare con logiche consumistiche e mentalità radicale. Molti dei bisogni, a cui l'uomo fa appello, sono in realtà indotti dall'influsso determinante della società, e finiscono per alimentare processi involutivi; mentre i criteri dominanti nelle decisioni sono quelli dell'interesse individuale e del principio del piacere. La «morale» deve preoccuparsi di elaborare «tavole di valori», che consentano all'uomo di valutare criticamente la realtà, di uscire dal conformismo e dall'acquiescenza passiva al costume. Significa che la funzione che deve svolgere è quella dell’educazione della coscienza a recepire le istanze vere di umanizzazione, distinguendo tra bisogni reali e bisogni indotti, tra prospettive liberanti e prospettive alienanti. Così, la morale aiuta a progettare seriamente la propria esistenza. 1.4. Valori e norme L'accento posto sul primato dei valori e sull'attenzione alla responsabilità personale non esclude la necessità che la morale si impegni sul terreno più specifico dell'individuazione delle norme di comportamento. La complessità della situazione presente rende urgente l'esigenza di precisi criteri di orientamento da elaborare mediante l'apporto di competenze specialistiche, in un confronto interdisciplinare ampio. Le norme non devono essere considerate come strumento di coercizione della libertà, ma come aiuto concreto offerto alla persona per fronteggiare la realtà. Esse sono il tentativo di mediare i valori in relazione alle esigenze effettive della situazione. Non si tratta perciò di assolutizzare le norme o di rifiutarle, ma di considerarle per il loro significato. Sono, per natura, sempre parziali e provvisorie, incarnando i valori in un determinato contesto storico e socio-culturale, non ne esauriscono mai tutta la ricchezza. La valutazione del comportamento esige tanto il riferimento all'orizzonte complessivo dei valori, che costituiscono il criterio ultimo e decisivo di interpretazione dell'agire umano, quanto alle norme storiche, la cui consistenza va misurata in rapporto alle esigenze della situazione e della propria vocazione personale. La proposta di norme è dunque parte integrante e necessaria della ricerca morale. Essa, infatti, non può limitarsi (compito primario) a costruire nell'uomo un atteggiamento buono; deve anche preoccuparsi della rettitudine dei comportamenti, cioè della conformità delle scelte dell'uomo alle esigenze delle situazioni in cui vive. 1.5. La morale di Gesù Cristo Finirebbe per apparire troppo astratta, e quindi sterile, la proposta morale se, rimanendo sul piano teorico, si limitasse ad individuare i valori di fondo, che devono stare alla base della condotta umana e i relativi contenuti normativi ai quali adeguare il proprio comportamento. L'uomo ha oggi soprattutto bisogno di modelli esistenziali, di testimonianze vissute, che rendano immediatamente trasparente/credibile il significato che assumono determinate scelte e la loro fecondità per la vita. È questa la funzione «parenetica» o «esortativa» della morale cristiana, che non può essere trascurata. Il messaggio cristiano acquista, sotto questo profilo, un grande rilievo. La morale biblica non si esaurisce nei testi normativi, e neppure è riducibile alle grandi categorie religiose, che definiscono il quadro globale entro cui l'agire dell'uomo acquisisce il suo significato ultimo. Essa viene soprattutto esplicitata attraverso le scelte concrete di persone, che incarnano nella loro esistenza i valori della rivelazione e ne rendono evidente l'efficacia per la vita. La morale del Nuovo Testamento(NT) non è, in primo luogo, il messaggio di Gesù, ma è la sua stessa persona e la sua prassi storica. La vita morale del cristiano è tutta incentrata sulla sequela di Gesù come partecipazione ai suoi misteri e imitazione del suo modo di vivere. È l'accoglienza del regno di Dio come dono gratuito dell'amore infinito del Padre che spinge il credente a fare propria la logica del Regno, non accontentandosi di aderire alle antiche prescrizioni della Legge, ma convertendosi alle esigenze del «Discorso della montagna» nella ricerca di una perfezione che sta sempre oltre. Per il cristiano la vita morale è risposta di fede alla chiamata del Padre, che è chiamata alla santità. È tensione a conformarsi ogni giorno alle esigenze della vita nuova, che nel Cristo gli è stata donata, per essere in lui e con lui testimone nel mondo. Capitolo II FEDE E MORALE Il rapporto tra fede e morale ha subito un profondo mutamento. Per tanto tempo, soprattutto in occidente soggetto all'influsso determinante del cristianesimo, la morale veniva fatta dipendere quasi totalmente dalla fede. Era perciò diffusa l'opinione che per l'uomo religioso vigesse un codice rigoroso di comportamento etico, mentre si riteneva che al non-credente tutto fosse lecito. «Se Dio non esiste — asseriva Dostoevskij — allora tutto è permesso». Questa concezione finiva per accentuare nella catechesi l'aspetto etico, fino a ridurre il messaggio cristiano a precetti da applicare. La conseguenza era una vanificazione dell'originalità e della gratuità della fede cristiana. 1.1. Distinzione tra fede e morale La consapevolezza della distinzione tra fede e morale deve essere fatta risalire agli inizi dell'epoca moderna. Da un lato, infatti, la riforma protestante rivendica il primato della fede nella vita del cristiano; e, dall'altro, si assiste alla nascita di una morale laica universale — valida dunque per tutti gli uomini — che ha il suo fondamento nella ragione umana. L'estendersi a livello di massa del fenomeno della secolarizzazione determina la crisi di un’interpretazione globale della vita in termini religiosi. L'uomo tende sempre più a ricercare i significati dei diversi processi sociali e culturali in corso, prescindendo da Dio. Ha così luogo una progressiva emancipazione dal «divino», che coinvolge la sfera del comportamento e coincide con l'affermarsi dell'autonomia della morale. In altri termini, si fa strada la convinzione che non è necessario essere credenti per orientare le proprie scelte secondo valori che garantiscano la possibilità dell'autorealizzazione personale e lo sviluppo di una convivenza sociale ordinata e pacifica. Anzi, che esistono — e sono in qualche misura sempre esistiti — uomini non religiosi che danno testimonianza di un grande rigore morale e di una limpida coerenza di comportamento. Tutto ciò ha di fatto contribuito non soltanto ad evidenziare la necessaria distinzione tra fede e morale e ad alimentare l'impressione di una loro radicale estraneità e separatezza; che non corrisponde ai presupposti della rivelazione. radicalmente il destino dell'umanità e del mondo. La fiducia nella ragione e nella sua effettiva capacità di dar vita alla produzione di assetti normativi, che concorrano a rendere più vivibile la convivenza umana, è per il cristiano un dato irrinunciabile. D'altra parte, dinanzi alla tentazione del ripiegamento egoistico , oggi accentuata da spinte socioculturali legate al diffondersi del consumismo e della mentalità radicale, la fede non cessa di essere un prezioso stimolo al discernimento. Essa non si accontenta di contestare il mondo, soggetto al peccato, e di mettere in guardia l'uomo dalla seduzione e da logiche negative e alienanti, ma gli offre la forza di andare controcorrente, accettando lo scacco della croce come via obbligata verso la pienezza della vita.Così l'agire umano acquista il suo senso ultimo nell'orizzonte della promessa del futuro di Dio. Capitolo III IL DIO DELL'ALLEANZA Il termine «alleanza» è centrale nel quadro della rivelazione biblica. Si tratta di una parola-chiave con cui viene descritta l'esperienza religiosa dell'uomo come esperienza di incontro e di comunione con Dio. 1.1. L'alleanza: dono e impegno L'alleanza è il frutto della libera iniziativa divina, a cui corrispondere la risposta dell'uomo. Il dono di Dio è sempre, insieme, appello alla responsabilità umana. Solo così è possibile l'instaurarsi di un rapporto interpersonale tra Dio che chiama e l'uomo che, assume un atteggiamento di piena conformità alla volontà del suo Signore. L'ingresso nell'alleanza suppone la fede come disponibilità radicale nei confronti di Dio. Ma è evidente che la sua concreta attuazione passa attraverso un profondo mutamento del vissuto quotidiano. Del resto la fede, in quanto atto di fiducia totale verso Qualcuno, comporta un coinvolgimento globale della vita: la piena adesione e obbedienza al progetto di Dio. 1.2. La creazione in vista dell'alleanza La possibilità che tra Dio e l'uomo si instauri un rapporto di comunicazione e di comunione è nello stesso piano di creazione. L'uomo è creato da Dio come un essere relazionale (Gn2,7): egli deve la sua vita al soffio vitale di Dio. È come dire che il rapporto che lo lega a Dio è un rapporto di dipendenza vitale: rescisso da Dio, l'uomo diviene un non-senso. A riguardo, l'uomo viene definito «immagine di Dio» (Gn 1,26-27). Nel linguaggio semitico «immagine» indica la proiezione nel visibile di una realtà invisibile. In quanto immagine di Dio, l'uomo è pertanto «simile» a Dio. È l'unica creatura in grado di ascoltare Dio e di rispondere alla sua parola, di entrare in un rapporto di comunicazione, da soggetto a soggetto. Come tale l'uomo è l'interlocutore che Dio dà a se stesso. Il primo precetto dato all'uomo (Gn 2,16) conferma questa situazione originaria. È sollecitazione a prendere coscienza dello stato di dipendenza creaturale per vivere in pienezza la comunione. Nonostante questo status di privilegio, l'uomo, disobbedendo, rompe il rapporto (Gn e. 3); rivendicando per se stesso un'autonomia morale assoluta, si trasforma da amico in rivale di Dio. Ma Dio non desiste dal suo disegno, delezione di Abramo (Gn e. 12) da inizio ad un nuovo corso della storia dell'umanità. Mediante un libero atto di amore, Dio si ricostituisce un popolo, lo rigenera per farlo portatore di un messaggio di salvezza per l'intero genere umano. 1.3. L'esperienza del Sinai: il patto e la legge Le diverse forme di alleanza che Dio stipula, in successione di tempo, con i Patriarchi, culminano nel patto sinaitico (Es 19-24), in cui si ristabilisce la comunione con il popolo d'Israele. Il rito del sangue (leggere Esodo 20,3-8), con il quale il patto viene suggellato, è il segno di un rapporto nuovo, che lega Jahvè e il popolo in una stessa vita. L'alleanza è fondata sul riconoscimento della diversità dei due partners, i quali non stanno sullo stesso piano. Per questo l'intervento gratuito di Dio si accompagna al dono della Legge, all'offerta cioè all'uomo di alcune clausole fondamentali di comportamento, alle quali deve attenersi per conservare l'amicizia del suo Signore. Dio, allontanatosi, si è fatto nuovamente vicino, vuole con ciò ricordare all'uomo che Egli non cessa di essere un Dio lontano, inaccessibile. Il divieto del culto delle immagini e la proibizione di pronunciare il suo nome hanno come obiettivo quello di inculcare nell'uomo il senso della distanza infinita che lo separa da Dio. La legge — soprattutto quella morale contenuta nel Decalogo (Es 20,1-17) — è data all'uomo come strumento per vivere nella fedeltà all'alleanza. Essa non ha valore di fine, ma soltanto di mezzo, e non può costituire un elemento di autogiustificazione. La morale di Israele è essenzialmente una morale di alleanza, nel senso che l'obiettivo primario verso il quale tende è la crescita nella comunione con Dio. 1.4. Verso una nuova alleanza L'impotenza dell'uomo a rispettare il comandamento divino — impotenza efficacemente descritta da Paolo nella Lettera ai cristiani di Roma cc. 7-8 (leggere questi due capitoli) — mette in evidenza la situazione di grave lacerazione interiore in cui egli si trova. In questo contesto si fa strada la necessità di una nuova alleanza, incentrata sul mutamento del cuore dell'uomo e sul dono dello Spirito del Signore. I profeti post-esilici sottolineano questa necessità e preannunciano il compimento della alleanza nei tempi messianici (Ez 36,24-28). La legge esterna, scritta sulla pietra, verrà in quel giorno sostituita da una legge interiore, scritta nel cuore dell'uomo, e l'uomo potrà finalmente rispondere incondizionatamente a Dio (Ger 31,31-34). 1.5. L'«alleanza nuova» L'attuazione della nuova alleanza coincide con l'ingresso di Dio, mediante Gesù Cristo, nella storia umana. Il Verbo, che si fa carne condividendo fino in fondo la condizione umana è, nello stesso tempo, chiamata di Dio e risposta dell'uomo; è il sì gratuito e definitivo di Dio all'uomo e il sì altrettanto definitivo dell'umanità a Dio. L'alleanza si realizza, anzitutto, nella persona di Gesù, perchè in essa il divino e l'umano si incontrano in un rapporto di perfetta unità, che determina la pienezza della riconciliazione. Nel Figlio di Dio l'uomo ridiventa «figlio» in virtù di una trasformazione interiore che lo fa essere «nuova creazione», partecipe della natura divina, della vita stessa di Dio. L'opera di Gesù consiste in una rigenerazione e in una rinascita dell'uomo, nel dono di una vita nuova e diversa, che è partecipazione allo stesso mistero di Dio. Il pieno compimento di questo processo ha luogo nella pasqua di Cristo. Assoggettandosi alla morte (e alla morte di croce) Gesù riscatta l'umanità in un atto di amore infinito e la apre alla speranza di una vita senza fine nella risurrezione. L'impegno morale, cui l'uomo è chiamato, è la conseguenza di questa situazione. La partecipazione alla vita di Dio postula il vivere secondo Dio, seguendo Gesù, assumendolo cioè come modello di riferimento per le proprie scelte, vivendo con lui e in lui, immergendosi nei misteri della sua esistenza storica. 1.6 Necessario approfondimento Il Decalogo 25. Ogni popolo nuovo deve darsi, anzitutto, una costituzione. Quella d’Israele rispecchia la vita semplice dei clan semi-nomadi che all’origine lo formano. Grosso modo, prescindendo dai ritocchi e dagli sviluppi che furono aggiunti, “le dieci parole” attestano abbastanza bene il contenuto sostanziale della legge fondamentale del Sinai. La sua posizione redazionale (Es 20,1-17) direttamente davanti al “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22– 23,19) e la sua ripetizione (Dt 5,6-21), con qualche variante, all’inizio del “Codice deuteronomico” (Dt 4,44–26,19) già indicano la sua importanza preponderante nell’insieme della “Torah”. In ebraico quest’ultima parola vuol dire “istruzione, insegnamento”; ha dunque un senso molto più profondo della nostra parola “legge” utilizzata da quasi tutti i traduttori. Paradossalmente, nel suo tenore originale, il Decalogo riflette un’etica iniziale e potenzialmente molto ricca. a. Una etica iniziale 26. I limiti si constatano da tre punti di vista: l’esteriorità, la portata essenzialmente comunitaria, la formulazione spesso negativa dell’esigenza morale. 1. La maggioranza degli esegeti, cercando il senso letterale, sottolinea che originariamente ogni divieto concerneva azioni esteriori, osservabili e verificabili, ivi compreso il ‘hamad’ (desiderio) che introduce i due comandamenti finali (Es 20,17); esso difatti non esprime un pensiero o un disegno inefficace, totalmente interiore (“desiderare”) ma piuttosto uno stratagemma concreto per realizzare un disegno cattivo (“desiderio che si esprime in azioni”, “mirare a”, “disporsi a”). 2. Inoltre, una volta uscito dall’Egitto, il popolo liberato aveva un bisogno urgente di regole precise per ordinare la sua vita collettiva nel deserto. Il Decalogo risponde in linea di massima a questa esigenza nel modo che in esso si può vedere una legge fondamentale, una primitiva carta nazionale. 3. Otto dei dieci comandamenti sono formulati negativamente, costituiscono dei divieti, un po’ alla maniera di ringhiere di un ponte. Solo due hanno una forma positiva, quella di precetti da adempiere. L’accento è dunque messo sull’astensione da comportamenti socialmente dannosi. Ciò evidentemente non esaurisce tutte le virtualità della morale che in linea di massima ha come fine di chiarire e di stimolare l’agire umano nella realizzazione del bene. b. Un’etica potenzialmente molto ricca 2. rispettare la presenza e la missione di Dio nel mondo (ciò che il “nome” simboleggia) 3. valorizzare la dimensione sacra del tempo Sette valori orizzontali (riguardano le relazioni fra le persone umane): 1. onorare la famiglia 2. promuovere il diritto alla vita 3. mantenere l’unione della coppia marito e moglie 4. difendere il diritto per ognuno di vedere la propria libertà e dignità rispettata da tutti 5. preservare la reputazione degli altri 6. rispettare le persone (che appartengono a una casa, una famiglia, un’impresa) 7. 1asciare all’altro le sue proprietà materiali. Analizzando i dieci valori nel Decalogo, si nota che essi seguono un ordine decrescente (dal valore prioritario a quello meno importante), Dio al primo posto e le cose materiali all’ultimo; e, all’interno dei rapporti umani, si trova all’inizio della lista famiglia, vita, matrimonio stabile. Viene così offerta, per una umanità che affannosamente desidera di aumentare la sua autonomia, una base legale e morale che potrebbe verificarsi feconda e persistente che però è difficile da promuovere nel contesto attuale, dato che la scala dei valori più seguiti nel nostro mondo ha un ordine di priorità opposto a quello della proposta biblica: prima l’uomo, poi Dio; e persino, all’inizio della lista, i beni materiali, cioè, in un certo senso, l’economia. Quando, apertamente o meno, un sistema politico e sociale si fonda su valori supremi falsi, quando lo scambio dei beni o il consumo è più importante dell’equilibrio fra le persone, questo sistema è rotto sin dall’inizio e destinato presto o tardi alla rovina. Il Decalogo, invece, apre largamente la via a una morale liberatrice: lasciare il primo posto alla sovranità di Dio sul mondo (valori nr. 1 e 2), dare a ciascuno la possibilità di avere tempo per Dio e di gestire il proprio tempo in un modo costruttivo (nr. 3), favorire lo spazio di vita della famiglia (nr. 4), preservare la vita, anche sofferente e apparentemente non produttiva, dalle decisioni arbitrarie del sistema e dalle manipolazioni sottili dell’opinione pubblica (nr. 5), neutralizzare i germi di divisione che rendono fragile la vita matrimoniale (nr. 6), arrestare tutte le forme di sfruttamento del corpo, del cuore e del pensiero (nr. 7), proteggere la persona contro gli attacchi alla reputazione (nr. 8) e contro tutte le forme di inganno, sfruttamento, abuso e coercizione (nr. 9 e 10). 4) Una conseguenza giuridica 31. In una prospettiva prevalente di attualizzazione questi dieci valori che sono alla base del Decalogo offrono un fondamento chiaro per una carta dei diritti e delle libertà, valevole per tutta l’umanità: 1. diritto a un rapporto religioso con Dio, 2. diritto al rispetto delle credenze e simboli religiosi, 3. diritto alla libertà della pratica religiosa e, al riposo, al tempo libero, alla qualità di vita, 4. diritto delle famiglie a politiche giuste e favorevoli, diritto dei figli al sostegno da parte dei loro genitori, al primo apprendistato della socializzazione, diritto dei genitori anziani al rispetto e al sostegno da parte dei loro figli, 5. diritto alla vita (a nascere), al rispetto della vita (crescere/morire in modo naturale), all’educazione. 6. diritto della persona alla libera scelta del coniuge, diritto della coppia al rispetto, all’incoraggiamento e al sostegno da parte dello stato e della società, diritto del figlio alla stabilità dei genitori. 7. diritto al rispetto delle libertà civili (integrità corporale, scelta della vita, della carriera, libertà a muoversi e ad esprimersi). 8. diritto alla reputazione, al rispetto della vita privata, a una informazione non deformata. 9. diritto alla sicurezza e alla tranquillità domestica e professionale e diritto alla libera impresa. 10. diritto alla proprietà privata (compresa una garanzia di protezione dei beni materiali). Ma nell’ottica di una “morale rivelata” questi diritti umani inalienabili sono assolutamente subordinati al diritto divino, cioè alla sovranità universale di Dio. Il decalogo inizia così: “Io sono il SIGNORE, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Es 20,2; Dt 5,6). Questa sovranità divina si esercita non secondo uno schema autoritario bensì in un’ottica della liberazione della persona e delle comunità umane. Essa implica da parte dell’uomo, un culto esclusivo, un tempo consacrato alla preghiera personale e comunitaria, il riconoscimento del potere ultimo che Dio ha di regolare la vita delle sue creature, di governare le persone e i popoli, di esercitare il giudizio; in fine, il discorso biblico della sovranità divina suggerisce una visione del mondo secondo cui non solamente la Chiesa ma tutto è proprietà di Dio (cf. Es 19,5). In breve, basandosi sui valori fondamentali contenuti nel Decalogo, la teologia morale e anche la catechesi che ne deriva, può proporre all’umanità di oggi un ideale equilibrato che da una parte non privilegia mai i diritti a danno degli obblighi o viceversa e che, d’altra parte, evita lo scoglio di una etica puramente secolare che non tenga conto del rapporto dell’uomo con Dio. CAPITOLO IV LA MORALE DELL'ALLEANZA Gesù è la «nuova alleanza», «l'uomo nuovo», la sorgente e il modello di un'esistenza rinnovata, vissuta sotto la guida dello Spirito Santo. In Gesù ci è offerta in modo definitivo la «grazia» di Dio che diventa origine e sostegno di una nuova e più profonda responsabilità morale. 1.1. Dal dono all’impegno L'imperativo morale scaturisce direttamente dall'indicativo di salvezza: siamo salvati dall'amore di Dio, siamo chiamati a vivere come suoi figli: dobbiamo vivere la novità che ci è stata donata. L'essere stato fatto partecipe della vita nuova, obbliga il credente a «camminare in novità di vita», conformando la propria condotta a quella di Cristo. Se già nell'AT era chiaro che Dio impartisce i suoi comandi dopo aver elargito i suoi doni, questa verità acquista nel NT evidenza. L'amore gratuito di Dio costituisce l'uomo debitore di amore. E siccome tale amore è un amore infinito, ad esso deve corrispondere la totalità della donazione umana. 1.2. Un'esistenza pasquale San Paolo illustra il senso di questa chiamata chiarendo la logica pasquale dell'esistenza cristiana, mediante il simbolismo del Battesimo. Nella lettera ai Romani egli afferma: «Vi siete dimenticati che il nostro battesimo, unendoci a Cristo, ci ha uniti alla sua morte? Per mezzo del battesimo, che ci ha uniti alla sua morte, siamo dunque stati sepolti con lui, affinché, come Cristo è risuscitato dai morti mediante la potenza gloriosa del Padre, così anche noi vivessimo una vita nuova» (Rm 6,3- 4). La vita cristiana, che è immersione mediante il Battesimo nella stessa vita di Cristo, è un morire con lui, abbandonando il proprio egoismo e la propria autosufficienza, per accogliere il dinamismo della risurrezione. A sorreggere e orientare l'esistenza del cristiano non è allora più la legge esterna ma lo Spirito effuso nel cuore. Egli da all'uomo una nuova energia ed è principio ispiratore della condotta e criterio di discernimento nel campo delle scelte quotidiane. Il credente non è più sotto la legge, ma sotto la grazia. Egli gode di una perfetta libertà interiore, ed è chiamato a lasciarsi plasmare dall'azione dello Spirito, il quale produce in lui e attraverso di lui i frutti della verità e dell'amore. La categoria dell'alleanza, che fa da sfondo alla comprensione del significato della vita cristiana, ci consente di delineare i connotati fondamentali dell'agire morale. 1.3. Una morale dialogica La morale cristiana è dialogica ha come struttura fondamentale quella della chiamata e della risposta, e come obiettivo ultimo la comunione dell'uomo con Dio e con i fratelli. «La morale biblica non è una costruzione umanista, una tecnica del perfezionamento morale e dell'equilibrio sociale. Suppone una chiamata dell'uomo da parte di Dio. La risposta è l'obbedienza o il rifiuto» A. Gelin . Il primato è perciò della chiamata di Dio: è Dio che per primo ci invita alla comunione e ce la dona. La risposta è conseguente, e si manifesta nel dire di sì a lui. Si rinnova, in maniera sempre nuova, nella vita dell'uomo credente come la vicenda di Abramo, che ascolta la voce di Dio, che lo chiama. Si compie nell'esistenza credente la vicenda di Maria, la Vergine di Nazaret, che risponde con dedizione assoluta al Mistero che irrompe nella sua vita. Questo significa che l'impegno morale del cristiano non può avere come centro e come scopo la ricerca del perfezionamento umano, come è proprio di ogni etica umanista, ma l'incontro con Dio e con i fratelli. La vita cristiana è un perdersi per ritrovarsi; è fare dono di sé accettando la croce. Dio non è soltanto colui che viene a sanzionare dall'esterno la vita morale; è piuttosto colui che dall'interno la ispira, la domina e la costruisce. Per questo nell'esistenza del credente nulla è puramente profano: tutto è consacrato, tutto si rivolge a Dio, tutto gli rende gloria ed irraggia la sua santità. 1.4. Una morale «cristiana» inaugurata dalla venuta di Gesù. La vita del credente è così costantemente in tensione tra il «già» e il «non-ancora», tra l'impegno nella storia e il compimento della promessa. 1.5. Una morale esigente L'etica della «sequela» è impegnativa e rigorosa. Le parole di Gesù, infatti, non vanno intese come un pio «consiglio», rivolto a una ristretta cerchia di eletti, ma devono essere assunte come il comandamento nuovo di Dio. Non si può attribuire al Discorso della montagna il valore di una semplice indicazione del tutto aleatoria; riveste un carattere normativo per coloro che intendono diventare discepoli del Signore. Le esigenze del messaggio cristiano devono essere colte nel loro vero significato. Le norme proclamate da Gesù non devono essere lette secondo un'ottica precettistica, ma profetico- escatologica: sono norme che indicano un itinerario ed hanno la funzione di stimolare l'uomo a una permanente conversione. Lo scarto sempre esistente tra l'ideale di perfezione indicato dal Vangelo e il vissuto di ogni persona spinge l'uomo a prendere coscienza della propria povertà: non per chiudersi in sè, in uno stato di angoscia, ma per alimentare la propria fiducia nel perdono del Signore. Se è vero che l'etica del Vangelo reclama, il cambiamento della coscienza e del cuore, è anche vero che deve estendersi alla globalità dell'agire umano; deve correlare testimonianza personale e impegno politico, profezia ed efficacia storica. L'etica della nuova giustizia non può limitarsi a pura disposizione interiore o riguardare soltanto la vita privata. È un'etica dell'azione e dell'impegno sociale/pubblico. L'eccessiva spiritualizzazione delle istanze evangeliche e la loro privatizzazione hanno concorso a vanificare la credibilità del messaggio cristiano. Isolato nel chiuso della coscienza individuale, rischia di perdere la sua originaria tensione di novità/rinnovamento, impedendo alla comunità cristiana di esercitare la funzione di fermento critico nella storia degli uomini. 1.6. In comunione con Cristo Il recupero del significato più autentico della proposta morale evangelica è legato al riferimento diretto alla persona di Gesù Cristo. L'azione di Dio nei confronti dell'umanità si è resa definitivamente trasparente per mezzo di lui. Nella sua persona il futuro di Dio è iniziato come futuro di salvezza per gli uomini e per il mondo. Avendo attuato nella sua persona la perfetta riconciliazione tra il Padre e l'umanità, Gesù rende possibile al discepolo l'adempimento pieno delle istanze della legge e diviene il modello al quale ispirare costantemente le proprie scelte quotidiane. La «sequela» di Gesù è resa possibile dal Risorto, dalla presenza del Regno come evento, che è entrato a pieno titolo dentro la vicenda umana per trasformarla. Così la vita morale del credente nasce e matura nell'incontro e nella comunione con una persona e nell'azione interiore dello Spirito, che spinge l'uomo al rendimento di grazie e alla glorificazione del Padre. CAPITOLO VI IL COMANDAMENTO NUOVO La vita morale del cristiano ha il suo punto di riferimento nel comandamento dell'amore. Di fronte al moltiplicarsi di precetti, dell'esperienza di Israele, fenomeni di dissociazione personale e di osservanza puramente materiale, Gesù richiama l'attenzione sul centro del messaggio, sulla istanza fondamentale e irrinunciabile: la carità (Mt 22, 35-40). 1.1. Il duplice comandamento Già nell'antico ebraismo erano stati fatti numerosi tentativi di ricondurre a unità le prescrizioni della legge. I due precetti dell'amore di Dio e del prossimo, nei quali Cristo compendia «tutta la legge e i profeti» (Mt 22,40). Il precetto dell'amore di Dio faceva parte dell'antica professione di fede monoteistica, che veniva recitata al mattino e alla sera dal pio israelita; l'amore del prossimo era considerato il precetto generale al quale doveva ispirarsi l'intera condotta del popolo. Ciò non toglie che nel NT il comandamento dell'amore acquisti connotati nuovi, in rapporto alla rivelazione definitiva che Dio fa di se stesso in Gesù. In lui, infatti Dio e uomo si sono perfettamente riconciliati, abbattendo il muro dell'inimicizia che li separava. Amore di Dio e amore del prossimo sono concepiti come due momenti essenziali di un unico processo, come realtà strettamente interdipendenti. L'amore di Dio si esprime concretamente nell'amore del fratello (7 Gv 4,20-21); a sua volta, l'amore del fratello trova la sua sorgente nell'amore di Dio (7 Gv 4,10-11). Si realizza così un equilibrio tra religione e morale, che trasforma il culto in sacrificio della vita (Oc 1,27) e conferisce all'impegno etico una dimensione religiosa. 1.2. La novità dell'amore cristiano La vera novità del cristianesimo consiste nella manifestazione della natura dell'amore. La rivelazione che Dio è carità (7 Gv 4,7) e lo è in quanto è un Dio trinitario, comunione di persone (il Padre, il Figlio e lo Spirito) che si costituiscono donandosi, mette in evidenza la radicale gratuità dell'amore, il suo essere puro dono. La storia della salvezza non fa che confermare questa verità. La vicenda di Israele diventa comprensibile solo nell'ottica della predilezione divina: di un amore senza misura e senza contropartita. Gesù è la manifestazione di come Dio ama. Egli dona totalmente sè per l'uomo fino alla morte di croce (Gv 3,16). Il dono di Dio è appello alla risposta dell'uomo. L'essere amati ci fa debitori di amore; ci costringe ad uscire dall’egoismo per diventare concretamente «prossimo» a chi soffre, per alleviare le ferite e offrire solidarietà/ospitalità a chi si trova abbandonato; senza alcuna distinzione tra amico e nemico, per imitare Gesù, che ci ha amati anche se peccatori (Rm 5,6-8). Radicalità e universalità dell'amore trovano nel mistero di Cristo la loro più profonda motivazione. Egli non ama l'uomo perché è buono, ma vuole che sia buono perché lo ama. È come dire che l'amore cristiano non si fonda sul sentimento filantropico, ma sulla consapevolezza dell'essere stati amati dal Padre e del dovere di rendere tale amore verso i fratelli, amando come Dio ama. 1.3. Il primato dell'amore cristiano La carità cristiana si incarna nell'amore umano, assumendo la ricchezza e la varietà delle sue manifestazioni. Allo stesso tempo, lo purifica e lo trascende, inserendolo nel contesto dell'amore divino, di cui è manifestazione. L'amore è per il credente il criterio decisivo di giudizio nelle situazioni dell'esistenza umana. Per questo Paolo, nell’inno alla carità, ci ricorda che il dono delle lingue e della profezia, la fede e il distribuire ai poveri tutti i propri beni non valgono se manca l'amore (7 Cor 13,1-3). La distinzione essenziale è tra il «dare qualcosa» e il «dare se stessi»: il dono di sé costituisce l'unica vera testimonianza dell'amore. Il Dio della rivelazione cristiana è un Dio esigente. Non si accontenta di ricevere «qualcosa»; vuole noi, la nostra vita, il cuore. Vuole che il nostro amore per lui e per i fratelli si traduca in uno spogliamento di noi stessi; un amore gratuito, senza riserve, capace di fedeltà senza limiti. 1.4. Un amore che si traduce in virtù concrete Il primato della carità non esclude la necessità delle altre virtù morali. Esse sono il luogo concreto entro il quale l'amore si incarna, assumendo connotati definiti nelle situazioni. La giustizia, la verità, l'esercizio corretto della sessualità, il rispetto della vita sono le vie obbligate dell'amore. Nelle diverse situazioni della vita l'uomo è chiamato a testimoniare questi valori, che rappresentano la mediazione storica del comandamento fondamentale. Si capisce quanto sia inutile e falso opporre amore e comandamenti, carità cristiana e virtù morali: proprio perché i primi sono le mediazioni fondamentali, la via per vivere la carità, mentre le diverse virtù ne sono l'espressione concreta. La donazione totale di sé è sempre un ideale verso cui tendere, in un continuo sforzo di conversione. La messa in opera dei contenuti delle diverse virtù morali deve essere concepito come un passo necessario sulla strada della piena integrazione della persona nell'amore. 1.5. La carità, misura dell'agire morale La carità non deve essere considerata come un valore tra tanti. È il fondamento di tutti gli altri valori morali; è l'orizzonte entro il quale essi acquistano senso e vengono posti al servizio della piena realizzazione umana. L'amore è il tessuto connettivo della vita morale dell'uomo ed è il fine ultimo a cui tende. Senza la carità l'adesione ai valori morali è priva di significato. Ma, a sua volta, la carità ha bisogno del riferimento ad essi, se non intende ridursi ad un amare «a parole». Ogni azione umana deve essere misurata in base al grado di amore che esprime. È questo il criterio che Dio userà nei nostri confronti al momento del giudizio. Dio ci chiede un amore senza limiti. Un amore che tradotto in attenzione verso il fratello, verso i poveri e i sofferenti. Un amore che dilata gli spazi della misericordia e del perdono e manifesta l'infinita ricchezza del mistero di Dio. 1.6. Necessario approfondimento Il comandamento massimo e nuovo. Il testo di Matteo 22,40, da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti, costituisce un unicum all’interno del NT, esso contiene una dottrina profondamente radicata in tutto l’AT e nella stessa predicazione di Gesù. Si tratta del principio chiave dell’etica evangelica: il comandamento dell’amore del prossimo. In Mt22,34-40 la risposta di Gesù allo scriba che lo interroga unisce l’amore per Dio Dt6,5 e quello per l’uomo Lev19,18. Rispetto all’insegnamento giudaico esemplificato in rabbi Hillel del I sec. d. C: “Non fare al prossimo tuo ciò che odioso per te. Questa è tutta la legge, il resto è solo spiegazione”, la novità evangelica consiste nell’accostamento dei due comandi riguardanti Dio e il prossimo. Ovviamente l’amore per Dio e per il prossimo hanno due significati diversi; riferito a Dio, amare significa credere in Lui, temerlo, riconoscere in genere la sua presenza, la sua promessa e praticare i suoi comandamenti. Il lessico dell’amore è impiegato in Dt6,5 per esprimere il carattere dell’Alleanza con Dio come cosa che riguarda il cuore dell’uomo, cioè tutto l’uomo; per esprimere che la legge di Dio “prende” tutta la vita del credente. Il fatto che Gesù unisca amore per Dio e per il prossimo ci aiuta a comprendere che cosa sia per Lui l’amore per il prossimo. Il comandamento relativo a questo amore è quello al quale farà più frequente riferimento la predicazione apostolica e la tradizione cristiana. Nella formulazione di Mt il comando di amare il prossimo riprende il testo del Lv19,18 amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma nella sesta antitesi di Mt5,43 si dice amerai stesso soltanto nella misura in cui si apre all'altro, nel rispetto della sua alterità e aiutandolo a crescere. Emerge come il valore fondamentale, alla radice della vita morale, è il valore della giustizia, intesa come rispetto della dignità dell’uomo, come salvaguardia dei suoi diritti personali. D'altra parte, la persona non può penetrare fino in fondo nella ricchezza che la costituisce se non attraverso il mistero che la trascende, accogliendo cioè nella sua esistenza la presenza di un Altro, che si manifesta nell'Amore assoluto. La fede cristiana è risposta a questo bisogno. Essa ci immette nel dinamismo di una relazione, che ha origine in un atto di amore gratuito. La giustizia si trasforma così in carità come risposta all’iniziativa divina concretizzare nei rapporti umani. Non è più sufficiente evitare la violazione del diritto altrui. È necessario dare se stessi in un atto incondizionato di amore. Le norme morali sono per il credente l’indicazione della strada da percorrere per incarnare la carità nell'esistenza; sono il tentativo (parziale) le esigenze del comandamento fondamentale. Di qui il loro limite e allo stesso tempo la loro necessità, se si vuole evitare il pericolo dell'evasione dalla realtà e si vuole invece vivere la carità nel quotidiano. 1.5. Alle radici della moralità La moralità è definita dalla mediazione tra il mondo soggettivo della coscienza e il mondo oggettivo delle norme. Non sono due mondi separati, ma uniti e interdipendenti, se è vero che alla radice di essi vi è il mistero della persona. La coscienza dell'uomo non è una coscienza solipsistica, ma relazionale. L'agire umano deve essere valutato in rapporto all'opzione di amore/egoismo di trascendenza/immanenza che in esso si esprime. Ma l'azione non è in se stessa indifferente. L'albero buono produce frutti buoni e l'albero cattivo frutti cattivi. Dai frutti è dunque possibile risalire al mondo interiore della persona. Il contenuto materiale dell'azione è un segno prezioso, una spia importante per la produzione del giudizio morale. Non si deve tuttavia dimenticare che si tratta di un segno limitato e persino ambiguo. E che il criterio decisivo di valutazione del comportamento va ricercato più in profondità, nella verifica cioè del progetto complessivo di vita. CAPITOLO VIII LA LEGGE NATURALE Le norme della vita morale non hanno tutte lo stesso valore. Alcune sono infatti elaborate dall'autorità (civile o ecclesiale) per perseguire il bene comune in un preciso momento storico; altre hanno un fondamento più profondo, in quanto appaiono radicate nella stessa natura dell'uomo. 1.1. La legge che esprime la struttura originaria Le norme fondamentali, che esprimono le strutture, le dimensioni più importanti della persona umana sono «leggi naturali», sono precetti immutabili/ineludibili: come i precetti del Decalogo. La proclamazione dei dieci comandamenti nel contesto dell'Alleanza gli conferisce un significato nuovo: diventano espressione diretta della volontà di Dio (significato teologale). Il loro contenuto materiale non cessa di essere fondamentalmente un contenuto umano, che l'uomo è in grado di conoscere con la sua ragione. La conferma di ciò sta nel fatto che analoghi precetti sono contenuti in codici etici di altri popoli, che non hanno avuto una particolare rivelazione divina. Il fondamento di tali norme deve dunque essere ricercato nel mistero della creazione: ogni uomo, creato da Dio, porta inscritta nel proprio essere una legge coincidente con la sua struttura originaria, pensata dal Creatore. Per questo San Paolo, nella Lettera ai Rm, può affermare che anche i pagani, che non hanno conosciuto il vero Dio, sono inescusabili, quando contravvengono i dettami fondamentali della legge morale «Certo i pagani non conoscono la legge data da Dio; ma quando essi compiono ugualmente ciò che la legge comanda, è come se l'avessero dentro di sé. La loro condotta dimostra che nei loro cuori è scritto ciò che la legge prescrive. Lo dimostrano la loro coscienza e i ragionamenti che fanno tra di loro, con i quali, a volte si accusano, e a volte si difendono» (Rm 2,14-15). 1.2. La legge di una «natura» segnata dalla «storia» Oggi il concetto stesso di legge naturale è messo fortemente in discussione. Esso appare a molti legato a una visione statica dell'uomo, che non fa i conti con il carattere di storicità propria dell'esperienza umana. L'uomo, si dice, è un essere essenzialmente storico, che ricava le regole del suo comportamento dal contesto culturale in cui vive. Le profonde variazioni del costume, nelle varie civiltà, sembrano confermare ciò. D'altra parte, la riflessione sulla «natura» dell'uomo è approdata a esiti diversi nell'ambito delle scuole filosofiche e teologiche. In particolare vi sono alcuni teologi che avanzano critiche o riserve, partendo dai dati della Bibbia. La rivelazione cristiana ,dicono, non contiene una sola concezione dell'uomo rigidamente fissata, ma fa spazio a diverse maniere di pensare all'uomo, che risentono dell'influenza determinante dei vari contesti storico-sociali entro i quali si va realizzando l'unico progetto di Dio. Sembra dunque necessario ridefinire il concetto di «legge naturale», tenendo conto della costitutiva storicità dell'uomo. A rendere difficile tale compito concorre la situazione del mondo in cui viviamo. La cultura occidentale è segnata da un’oscillazione tra due opposti poli: quello di un rigido naturalismo, per il quale la dimensione storica dell'agire umano viene radicalmente negata, e quello della riduzione dell'essere dell'uomo alla cultura, riduzione a una comprensione del tutto relativizzata del comportamento umano. La prospettiva cristiana reclama il superamento tanto dell'una quanto dell'altra posizione: la persona umana infatti non è soltanto «natura» (senza storia), ne «storia» senza un fondamento creaturale («natura»). 1.3. Creazione e natura Nella Bibbia e nella tradizione cristiana la persona umana è definita anzitutto come «creatura» di Dio (cf Genesi cc. 1-2). L'idea biblica di creazione implica la necessità di attenzione a un dato originario, che non può essere dall'uomo manipolato, e l'esigenza di una sua continua trasformazione a opera dell'impegno umano. Tutto ciò che Dio ha creato ha un modo di essere definito, ma, allo stesso tempo, è affidato alla responsabilità dell'uomo, perché lo faccia «crescere» nella direzione del suo pieno compimento. L'atto creatore di Dio chiama dunque in causa la libera iniziativa dell'uomo, che Egli ha costituito fin dall'inizio dell'universo. E l'iniziativa umana è guidata da un progetto, che ha le sue radici nello stesso atto originario di Dio. 1.4. Salvezza in Cristo e natura Il dono della salvezza, che si realizza pienamente in Cristo, riveste d'altronde un carattere e un dinamismo storico: matura per stadi progressivi, assecondando in modo sempre nuovo e diverso le esigenze dello sviluppo umano. Basta leggere, in proposito, alcune tra le più belle parabole del Regno per scoprire come il «dono gratuito» di Dio sia sempre sorgente di nuova responsabilità umana (es., la parabola delle monete d'oro in Mt 25,14-30). Dalla rivelazione emerge perciò che il concetto di «natura» non può essere definito una volta per tutte, ma deve essere continuamente ridefinito alla luce dell’autocomprensione storica. Con l’attenzione di salvaguardare il nucleo originario della creazione nel processo dinamico, capace di accogliere le provocazioni del tempo. Il rapporto natura-cultura è dunque un rapporto dialettico e circolare. Solo a partire dalla concreta situazione storico-culturale l'uomo è in grado di comprendere in modo autentico con la propria «natura» (umana); mentre a sua volta la «natura» così com'è definita dal progetto creatore di Dio, costituisce un punto di riferimento per giudicare i processi storici nella loro capacità di liberazione. 1.5. Una legge naturale «umana» È necessario passare da una concezione «immutabile», della legge naturale a una concezione dinamica, che fa spazio alle istanze emergenti dal contesto reale entro che sviluppa l'esperienza dell'uomo. Per conoscere i contenuti in base ai quali l'agire umano deve attuarsi è necessario rifarsi alla struttura permanente dell'uomo (alla sua «natura»). Tuttavia ad essa non è possibile accedere se non passando attraverso il filtro della ricerca culturale, e aprendosi ai contributi delle diverse antropologie elaborate nel corso del cammino storico dell'umanità. Ciò evidenzia il carattere personalistico della natura umana che non può essere identificata totalmente nel suo aspetto biologico. È come dire che per cogliere le caratteristiche più profonde e peculiari, occorre fare appello al suo nucleo più intimo, cioè dagli elementi di conoscenza/libertà che le sono propri e, in un'ottica cristiana, al dinamismo dello Spirito, che anima l'esistenza del credente. La legge naturale umana riflette cioè la specificità dell'umano, la sua unità e complessità e il suo incessante divenire. 1.6. La legge dello Spirito L'uomo è (secondo l’espressione di sant'Ireneo) corpo, spirito e Spirito Santo. Tra queste dimensioni non c'è contraddizione, ma rapporto di tensione, poiché ciascuna di esse gode di una sua relativa autonomia. Compito dell'impegno morale è dare unità alla persona, in rispetto alla gerarchia dei valori dei diversi livelli dell'essere, in sintonia con le esigenze del messaggio evangelico. Lo Spirito Santo non mortifica le dinamiche della razionalità umana e l'istinto. Tende a coinvolgere le dinamiche nella costruzione di un progetto unitario che è tanto più umano quanto più integra in sè la gamma degli elementi che strutturano la personalità dell'uomo. La vita cristiana è vita secondo lo Spirito, alla cui legge occorre obbedire. È accoglienza del dono della carità, che viene da Dio e investe la realtà dell'uomo trasformandola nella prospettiva di un incessante cammino di conversione. Le istanze o richieste della legge naturale non sono Dio. Il senso del peccato è connesso al riconoscimento del giusto posto che spetta a Dio nella vita dell'uomo, alla capacità cioè di «stare davanti a Dio», mettendolo al centro delle proprie decisioni. 1.5. La dimensione personale del peccato Il peccato deve essere messo in rapporto con la responsabilità soggettiva dell'uomo per farne emergere la dimensione personale. L'agire dell'uomo riceve il suo significato dalle intenzioni della persona e dal progetto che egli dà alla sua esistenza. Gesù insiste nel ribadire, contro il formalismo dei farisei, il primato di «ciò che esce dall'uomo» e dunque dall'intenzionalità. A determinare l'essenza del peccato è pertanto la scelta del soggetto, l'atteggiamento egoistico e di ricerca di sé che è alla radice dell'agire. Questo suppone ovviamente che si reagisca nei confronti dell'attuale tentazione di ridimensionamento della libertà, per rivendicare il giusto spazio della responsabilità umana. Ma suppone soprattutto che tale rivendicazione tenga conto della essenziale storicità dell'uomo,. 1.6. La dimensione sociale e cosmica del peccato C'è infine un terzo aspetto del peccato, che esige ai nostri giorni di essere riscoperto: è l'aspetto propriamente sociale e persino cosmico. La rottura del rapporto con Dio ha come esito il determinarsi di uno stato di conflitto nei rapporti umani e nei rapporti con la natura. La storia della salvezza è segnata dal ripetersi di episodi terribili: dalla perdita della solidarietà e della spontaneità tra Adamo ed Eva, dall'uccisione di Abele e dalla costruzione della Torre di Babele, simbolo dell’incomunicabilità fra le persone. Anche la natura è coinvolta in questo processo con il prodursi di fenomeni sconvolgenti (diluvio, devastazioni, epidemie, ecc.) che mettono a repentaglio la vita dell'uomo. Sono soprattutto i profeti a delineare la situazione di ingiustizia e di oppressione generata dal peccato. Nel NT Paolo né da un'interpretazione teologica, descrivendo lo stato di morte, fisica e spirituale, in cui l'umanità vive, conseguenza dell'esplicarsi di forze oscure che gravano sul mondo. In particolare nelle lettere agli Efesini e ai Colossesi, parlando della signoria universale di Cristo risorto, l'apostolo accenna al «principe delle potenze dell'aria», alle «potenze di questo mondo», che Gesù Cristo ha vinto nella sua risurrezione e dalla cui schiavitù ci ha definitivamente liberati. La riflessione teologica contemporanea ha giustamente ricuperato questa dimensione, non limitandosi a sottolineare l'importanza che assumono i peccati contro la giustizia, ma aiutandoci a cogliere l'aspetto sociale che connota ogni peccato per l'inevitabile ripercussione che ogni azione umana ha sulla vita degli altri. Ma in particolare tale riflessione è venuta ponendo l'accento sulla valenza «strutturale» del peccato, cioè sulle oggettive situazioni di oppressione, provocate dal cristallizzarsi di strutture che ingenerano pesanti condizionamenti negativi sulla vita degli uomini. 1.7. Ritrovare davanti a Dio il senso del peccato II ricupero del senso del peccato esige oggi un'attenzione alla globalità delle sue dimensioni. Il che è possibile soltanto nel contesto di una forte esperienza di Dio: di un Dio che, elargendo costantemente all'uomo il suo perdono, lo sollecita alla conversione e alla riconciliazione. Dice in proposito Giovanni Paolo II: «Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull'uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili princìpi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto. È lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell'Alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del Magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, ed una prassi sempre più accurata del Sacramento della Penitenza» (cf Riconciliazione e penitenza, n. 18). CAPITOLO X LA CONVERSIONE CRISTIANA La coscienza della condizione di peccato provoca nell'uomo il bisogno della conversione. Quando l'uomo percepisce la gravità della rottura del rapporto con Dio e avverte che Dio nonostante tutto non lo abbandona, anzi lo persegue con il suo perdono si fa strada il desiderio di cambiare, di uscire dallo stato di inimicizia e di conflitto per ritrovare la gioia della comunione. La conversione è il cammino opposto a quello del peccato; è lo sforzo faticoso dell'uomo di purificare se stesso per tornare a essere trasparente davanti al Signore. 1.1. Ritornare a Dio Nella Bibbia tale cammino è descritto come un rivolgimento radicale, inversione di marcia. Il termine ebraico è «shub», usato per descrivere l'atteggiamento di conversione, indica il movimento fisico di un uomo che si gira e torna indietro. La conversione è concepita come un volgere le spalle agli idoli morti per «fare ritorno» al Dio della vita e della storia (Ger 8,4-5). Essa consiste nella scelta fondamentale tra l'adesione a Dio e il suo rifiuto, tra il tutto e il nulla. Israele riconosce nella liberazione dall'Egitto e nella stipulazione dell'alleanza sinaitica il momento costitutivo della propria storia e sente il bisogno di riappropriarsi di quell'esperienza, descritta dai profeti come il tempo del fidanzamento tra Dio e il suo popolo. Il peccato è l'abbandono di Jahvè, la rottura del patto. Ciò significa che la conversione deve avere anzitutto una valenza religiosa: deve cioè coincidere con il riconoscimento e l'adorazione del vero Dio. D'altra parte, si fa strada la convinzione, soprattutto nel periodo dell'esilio, che l'uomo è impotente da solo a raggiungere questo traguardo, e si crea per questo l’avvertita la necessità di un nuovo intervento di Dio, del dono di una nuova alleanza, fondata sul mutamento radicale del cuore ad opera dello Spirito. 1.3. Accettare Gesù Cristo Un analogo processo è presente anche nel NT. La conversione, come attestato dal termine «metànoia», è cambiamento di mentalità, trasformazione interiore. L'annuncio del mistero del regno di Dio, per il quale Gesù usa il linguaggio velato della parabola (cf Mt cc. 11-13), pone l'uomo di fronte a una decisione definitiva: il consenso incondizionato nella fede o il rifiuto scandalizzato di chi preferisce lasciarsi guidare dalla logica mondana (Mt 26,31-33). La persona di Gesù diventa così segno di contraddizione: benedizione per coloro che credono, maledizione per coloro che lo respingono in nome della sapienza umana. La conversione coincide con la fede in Cristo, con l’accettazione del mistero, che avvolge la sua persona, e con il dono totale di sé a Lui. Per accedervi è necessario, come dice l'evangelista Giovanni, andare oltre il «vedere», cioè accogliere nella fede la grazia della salvezza. 1.3. Accogliere la legge di Dio L'accento posto sulla dimensione religiosa della conversione non esclude la sua valenza etica. Essa è infatti presente come aspetto necessario lungo tutta la storia della salvezza. I libri sapienziali (Qohelet, Siracide, Giobbe, Proverbi, Sapienza, alcuni Salmi) mettono fortemente in evidenza la centralità della legge nella vita del popolo, il ruolo fondamentale di guida che essa riveste, in quanto espressione della Sapienza divina. L'orgoglio e l'autosufficienza, conseguenza del potere e della ricchezza, spingono l'uomo a trasgredire la volontà di Dio, avendone in cambio malattia e morte (Sir cc. 5-10). La conversione è riconoscimento da parte dell'uomo della propria fragilità e umile sottomissione al comandamento di Jahvè. È la risposta dell'uomo al dono di Dio: risposta che consiste nell'adeguare il proprio comportamento alle prescrizioni della legge divina. La rivelazione definitiva dell'amore misericordioso del Padre in Gesù di Nazaret da compimento alla salvezza, che è offerta a tutti coloro che lo accolgono. Ma la fede è coinvolgimento totale dell'uomo alla sequela di Gesù. Essa si trasforma cioè in appello morale a fare la volontà del Padre, ad aderire con la vita alla logica del Regno (Lc c. 13). Le istanze della legge antica appaiono insufficienti. Si tratta di ridiventare fanciulli, di prendere la propria croce, conformando la propria condotta allo spirito delle beatitudini, in cui è delineato il modo nuovo di agire del cristiano. 1.4. Fare Pasqua L'apostolo Paolo, nella sua riflessione teologica, riassume tutti gli elementi della conversione cristiana, integrandone gli aspetti religiosi ed etici. Partendo dalla constatazione dello stato di impotenza in cui versa l'uomo peccatore, assoggettato alla morte (fisica e spirituale) (Ef 2,1-6; Rm 8), egli collega la conversione al mistero pasquale. Mediante il totale abbandono alla volontà del Padre, cioè il dono totale di se stesso, Cristo ha inaugurato un ordine nuovo. La conversione diventa liberazione dal potere della morte e ammissione alla vita, che l'uomo attinge immergendosi nella morte e nella risurrezione del Signore e che è chiamato a rendere trasparente nelle scelte quotidiane. La vita sacramentale è l'ambito all'interno del quale si realizza la partecipazione a tale mistero, a partire dal quale deve strutturarsi l'esistenza. Il Battesimo, che è passaggio dalla morte alla vita e abbandono dell'«uomo vecchio» per rivestirsi dell'«uomo nuovo», produce quel rinnovamento interiore dell'uomo, che deve esternarsi nell'assunzione di nuovi atteggiamenti e di nuovi comportamenti: in uno stile nuovo di vita. La conversione, che ha inizio nella fede e nell'accoglienza della grazia che rimette i peccati, si traduce in un orientamento di carattere morale, che permea di sé l'intera esistenza umana. La vita cristiana è lotta nei confronti del male e sforzo per fare proprio il dinamismo interiore dello nostra risposta, la capacità di aprirci incondizionatamente a Dio e ci guida a ritrovare, di volta in volta, le modalità concrete secondo le quali consentire alla voce dello Spirito per rendere trasparente la nostra esistenza al piano salvifico del Signore. 1.4. Un nuovo modo di chiedere Questa maniera profondamente nuova di essere-al-mondo è l'orizzonte entro cui va inserito il momento più specifico dell'azione cultuale della preghiera. E così la preghiera non sostituisce mai il nostro impegno etico: impegno che ciascuno deve assumersi con lucidità e con coraggio. Anche se, al di là dei nostri sforzi, esistono pur sempre dei momenti nei quali il riconoscimento del limite e della precarietà umana appare altrettanto incontrovertibile. Dio, che ha affidato il mondo a noi stessi e alla nostra responsabilità, non ci abbandona; Egli resta il «Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra». Egli vuole che non ci aggrappiamo indebitamente a lui per risolvere problemi che siamo chiamati ad affrontare in prima persona, ma desidera, nello stesso tempo, che, dopo aver fatto tutto ciò che era in nostro possesso, ci apriamo con confidenza a lui, riconoscendoci «servi inutili» (cf Lc 17,10). La preghiera di domanda, allora, non diventa occasione per la nostra pigrizia e per la nostra passività. È invece il momento nel quale prendiamo consapevolezza della nostra condizione umana, della nostra grandezza e insieme della nostra miseria. Per questo siamo sempre chiamati a purificarla dai residui di «magismo», che la rendono meno trasparente, e a coniugare insieme — come ci insegna il «Padre nostro» — la richiesta del pane quotidiano e la richiesta del Regno, e affidandoci, in definitiva, al volere divino. 1.5. Pregare è «dire grazie» La preghiera di domanda è solo un aspetto del «pregare», e neppure il più importante. Il credente è chiamato in particolare a coltivare dentro di sé l'attitudine al ringraziamento e alla glorificazione del Signore. L'Eucaristia è, per definizione, rendimento di grazie. È come dire che il senso ultimo della preghiera consiste nel riconoscere da parte dell'uomo che tutto ciò che egli è e tutto ciò che ha viene dal Signore e nel vivere, di conseguenza, nell'ottica del ricambio e della ricerca della comunione. La logica cristiana è la logica del dono restituito, dell'offerta totale della propria vita a Dio in un atto di fiducia senza limiti. La mistica è il conseguimento di questa attitudine; è la tensione a scoprire il volto del Signore passando attraverso la mediazione dei fratelli e delle cose; è lo sforzo di cogliere l’al di dentro della realtà, con la convinzione che il mondo in cui abitiamo è segno della presenza di Dio, e con la nostalgia di un rapporto più pieno, quale potremo vivere quando lo contempleremo «faccia a faccia» così come egli è. La preghiera è, in ultima analisi, esperienza di Dio nel mondo ed esperienza del mondo in Dio. Il Dio cristiano non è un principio astratto, ma è il Dio della storia. È Colui che si è fatto compagno di viaggio dell'uomo, fino a condividerne la vita e a donarla per la sua salvezza. È il Dio dell'alleanza, insieme vicino e lontano, perché non riducibile a dimensioni umane. La preghiera è la consapevolezza di questa assoluta vicinanza e di questa infinita distanza. È vivere alla presenza di Dio e insieme percepirne l'assenza: una presenza che infonde speranza, che apre il cuore alla lode; un'assenza che invita al cammino e che rimanda l'uomo alle sue responsabilità storiche. 1.6. Pregare è guardare il mondo con occhi nuovi La certezza che il Signore accompagna i nostri passi ci consente di guardare con occhi nuovi gli avvenimenti, sapendo intravedere in essi i segni del Regno che faticosamente cresce, pur tra le ambiguità e le contraddizioni, e di alimentare in noi la tensione a un impegno, che è servizio alla causa della giustizia e dell'amore. Così la preghiera si trasforma in vita, e la vita in preghiera. E ha luogo quella osmosi vitale tra azione e contemplazione, tra presenza nel mondo e attesa del futuro imprevedibile e gratuito del Signore, che è il senso ultimo dell'identità cristiana. Pregare non è pertanto un pretesto per fuggire dalla realtà e dai problemi quotidiani, ma è invece un chiedere al Signore la forza per essere ancora più dentro, per saper leggere la storia come lui la legge e rinnovare il nostro stile di vita, rendendolo conforme alle esigenze evangeliche. Pregare è vivere alla presenza di Dio: diventare creature nuove sotto lo sguardo di Colui che, risorto dai morti, è la Novità, per essere nel mondo portatori di speranza. Concludiamo con un significativo richiamo del Catechismo degli adulti (Signore, da chi andremo?, p. 396): «Pregare con le labbra non basta: i sacrifici, le lodi, il ringraziamento suonerebbero falsi dove la preghiera non fosse già un trasformarsi in volontà di presenza e di testimonianza cristiana. Vita e preghiera non sono separate: l'una assume e arricchisce l'altra. Quanto più un'esistenza è marcata dalla fede, tanto più sente l'esigenza di lodare, ringraziare, domandare perdono con la preghiera». CAPITOLO XII IL VALORE DELL'OBBEDIENZA? In una società come l'attuale, caratterizzata dall'affermarsi della libertà individuale e dei sistemi democratici, l'obbedienza appare a molti come un retaggio del passato, un atteggiamento riservato ai deboli e ai pusillanimi, a coloro che non hanno il coraggio delle proprie scelte e si adeguano perciò in modo conformistico a quanto viene loro imposto. Questa impressione ha senz'altro un aspetto di verità. 1.1. La sacralizzazione dell'autorità La storia — anche quella recente — è purtroppo segnata da delitti e da crimini, consumati in nome di una malintesa obbedienza al potere costituito o da una cieca adesione alla ragion di Stato. È questo il motivo per cui don Lorenzo Milani, nella sua famosa lettera ai cappellani militari, giunge ad affermare — paradossalmente —che «l'obbedienza non è più una virtù». In realtà, l'assolutismo politico, che per molti secoli si è sviluppato in Occidente, ha gravemente concorso alla formazione di una mentalità e di un costume caratterizzati dalla passività e dalla mancanza di responsabilizzazione personale. Il principio di autorità veniva infatti sacralizzato, trasformandosi persino in criterio ultimo di giudizio del bene e del male, e la legge finiva per godere di una sovranità illimitata. L'obbedienza — a partire da quella familiare — era concepita come pura esecuzione di ordini, il cui contenuto non poteva essere fatto oggetto di interpretazione e tanto meno di discussione. Ciò che l'autorità comandava doveva essere eseguito senza esitazione per il fatto stesso di essere comandato. Si deve riconoscere che anche la Chiesa ha in parte recepito e poi ha contribuito, con la sua prassi, al consolidamento di questo atteggiamento. La rigida separazione tra Chiesa docente e Chiesa discente — separazione resa più acuta dall'assorbimento dei modelli di gestione del potere propri della società civile — favoriva lo sviluppo di un rapporto di totale dipendenza dei fedeli dalla gerarchia. Lo spazio del confronto e del dialogo, della corresponsabilità e della partecipazione, era quasi del tutto vanificato, mentre venivano inculcati comportamenti improntati alla piena sottomissione. 1.2. Una radicale contestazione Questa concezione dell'obbedienza — peraltro carica di equivoci — non poteva a lungo resistere. L'avvento della democrazia e il riconoscimento dei diritti fondamentali di ogni soggetto umano, nonché il dilatarsi del pluralismo ideologico e sociale, hanno finito per mettere sotto processo forme arcaiche di gestione dell'autorità, che erano ispirate a modelli di forte accentramento del potere o di stampo paternalistico. La contestazione dell'autorità si manifesta oggi a diversi livelli. Essa riguarda tanto il suo esercizio quanto la sua designazione, e giunge persino a mettere radicalmente in discussione la sua stessa necessità. L'insofferenza nei confronti del modo assolutistico con cui si è per tanto tempo espressa e il rifiuto dei tradizionali canali di trasmissione favoriscono la nascita di tendenze anarchiche e soggettivistiche. E così l'autorità viene spesso confusa con l'autoritarismo e assimilata a una funzione repressiva, che deve essere combattuta e sconfessata. 1.3. Un nuovo modello di «autorità» La ridefinizione del valore dell'obbedienza, del suo significato e delle modalità del suo esercizio, presuppone dunque il ricupero di una corretta concezione dell'autorità. Occorre abbandonare gli stereotipi del passato, senza per questo rinnegare l'importanza di un centro di unificazione della vita sociale, che consenta di dare ordinato sviluppo alla convivenza umana. Ogni comunità ha bisogno di punti di riferimento ai quali fare appello perché l'azione dei singoli rispetti le esigenze complessive del bene comune. della vita. Il soggetto è fin dall'origine presente a sé grazie alle forme della sua esperienza pratica. Anzi egli può dire “Io”, e rispettivamente può dire di sé, soltanto in forza dell'agire stesso, delle scelte che deve compiere in relazione al suo vivere insieme agli altri. Tale affermazione corregge un errore diffuso nella cultura, secondo cui la presenza a sé del soggetto (il cogito cartesiano) è pensata come una realtà data (un a priori), come figura dunque che non si costruisce giorno per giorno2. In realtà il soggetto non ha consapevolezza di sé se non nella relazione con gli altri. La questione teorica può essere presentata in questo modo: è certamente necessaria l'attenzione fenomenologica al processo psicologico e sociologico che dà forma al soggetto. Ma questa attenzione sembra rendere impossibile la comprensione del carattere assoluto3 dell'imperativo morale, il quale pure è attestato dalla stessa coscienza, che dice fai il bene, fai questo bene. Assoluto vuol dire che l’imperativo morale vuole essere ubbidito senza condizioni, indipendentemente dalle condizioni in cui ci si trova: occorre fare il bene senza se e senza ma. Mentre le relazioni di cui la coscienza si nutre, si distendono nel tempo e sembrano dare un carattere provvisorio e incerto ai valori che pur da esse emergono. Quindi, per spiegare l’assolutezza del dovere morale sembra che ci si debba allontanare dal processo dell’esperienza, col risultato di dissociare dovere morale ed esperienza. Alla stessa conclusione, di separazione tra dovere morale ed esperienza, si giunge se si affronta la questione sotto il profilo del rapporto religioso: infatti il carattere incondizionato dell’imperativo morale induce facilmente a trovare il suo fondamento in Dio. D'altra parte l’esperienza religiosa dice la prossimità immediata di Dio all'uomo. Per conseguenza abbiamo che l’imperativo viene direttamente da Dio, senza alcuna mediazione e senza che ci sia evoluzione storica nel soggetto. Alla luce di queste considerazione sembrano avere ragione coloro che non vogliono legare troppo la coscienza all’esperienza pratica4. 2. La nozione di dovere morale 2 Tale pregiudizio ha una lunga storia; esso è - tra l'altro - alla radice del moderno progetto 'illuminista', di emancipare l'uomo da ogni dipendenza dalla tradizione sociale ricorrendo appunto alle risorse del sapere della ragione. Più recentemente, il pregiudizio assume la forma della concezione 'trascendentale' del soggetto: esso sarebbe costituito come tale a monte rispetto alle forme della sua esperienza effettiva, e appunto nella sua costituzione trascendentale sarebbe condizione di quell'esperienza. Tale concezione appare largamente operante sulla stessa teologia, in K. Rahner e nei suoi numerosi discepoli moralisti. 3 L’indicazione morale generale “fa il bene” può avere solo due possibilità: l’ubbidienza o la disubbidienza. 4 In verità alcuni importanti pensatori hanno inteso correggere il pregiudizio dell’intellettualismo presente nella tradizione teologica e filosofica. Pensiamo in particolare a M. Blondel, M. Heidegger e P. Ricoeur4. Nella loro opera è però presente una forte difficoltà ad accettare il debito dell’io nei confronti dell’esperienza pratica. Questi autori temono che il riconoscimento di una 'storia' della coscienza morale, di un suo debito cioè nei confronti dell’aspetto pratico, possa compromettere la possibilità di spiegare il valore assoluto dell'imperativo morale, cioè la sua pretesa di essere ubbidito senza condizioni. Non entriamo nella discussione del pensiero di questi autori, ma il problema che essi pongono è obiettivo e va affrontato. La resistenza a riconoscere il debito del soggetto verso la sua esperienza pratica può essere meglio compresa considerando la nozione di dovere morale. La coscienza comune ci dice che buona in senso morale è l’azione che realizza il dovere. Se prestiamo attenzione a ciò che il soggetto è chiamato a fare, ci rendiamo conto della problematicità apparentemente insolubile (in termini filosofici si chiama aporia) di questa affermazione così comune. Ubbidire al dovere suppone per il soggetto di riconoscere nel dovere stesso la propria vera identità. Ma il soggetto inserito nelle relazioni ordinarie non finisce mai di interrogarsi sulla propria identità. Diciamo che il soggetto è sempre in costruzione, per questo motivo il dovere rischia di apparire estrinseco, come una ingiunzione autoritaria. D’altra parte se il soggetto fosse giunto a conoscere la sua identità, in modo definitivo, non avrebbe più bisogno di ubbidire al dovere. Infatti il dovere ha proprio il senso di dire qual è l’ identità giusta: l’ubbidienza in questo caso sarebbe inutile. 3. L’atto morale dell’uomo e il suo svolgimento nel tempo La soluzione del rapporto problematico tra dovere morale e atto libero dell’uomo che abbiamo presentato nel paragrafo precedente richiede di approfondire due elementi: il primo ci è già noto ed è il debito originario che il soggetto morale ha verso gli altri. Il fatto che egli è cosciente di sé in forza della relazione con gli altri. Il secondo elemento lo introduciamo ora e consiste nella distinzione sui diversi tempi dell'agire umano. A questo proposito distinguiamo un tempo nel quale l'agire appare spontaneamente facile al soggetto, e proprio attraverso la sua effettiva realizzazione il soggetto viene a coscienza di sé; e un tempo invece nel quale l'agire richiede la scelta libera del soggetto. Per riferimento a questo secondo tempo appunto l'agire è dovuto: non però in forza di una decisione autoritaria di altri, ma in forza della fedeltà nei confronti di se stesso; per tenere fede cioè a quello che egli è già divenuto. Volere, compiere un determinato atto, ad un certo momento, diventa una necessità per il soggetto. Ecco la risposta al problema di conciliare pluralità di esperienze e l’assolutezza dell’imperativo morale Questa necessità per altro dev'essere ben compresa. Non si tratta ovviamente di necessità materiale, che possa essere pensata secondo il modello del rapporto tra causa ed effetto, o comunque secondo il modello del rapporto tra determinante e determinato. Per chiarire il senso di tale necessità, pensiamo ad esempio al dovere che il figlio ha di ubbidire alla volontà del padre. Alla base del dovere del figlio sta l’evidenza di essere stato accudito e amato dal padre; il figlio ha scoperto una promessa di vita in ciò che il padre ha fatto per lui. Ora il comando del padre deve essere accettato come un altro elemento di quella promessa di vita, solo che quando il figlio è cresciuto ciò non avviene spontaneamente, ma occorre aderire liberamente (si pensi anche al comando di Dio nel giardino dell’Eden Gen 2-3). La necessità di volere, dunque, viene istituita attraverso le forme originarie dell'agire. Essa dev'essere descritta presso a poco in questi termini: l’uomo agisce in modo spontaneo, per es. con generosità nei confronti di chi gli manifesta generosità, ma soltanto a condizione che poi l'uomo aggiunga la decisione esplicita di essere generoso, la sua generosità iniziale diventerà parte della sua identità. In quell'agire spontaneo infatti sono obiettivamente implicite forme di apprezzamento del reale, che diventano compiutamente sue unicamente a condizione che in seconda battuta egli deliberatamente le adotti. Occorre che l'uomo voglia perché egli diventi effettivamente se stesso, diventi dunque soggetto in senso pieno. Introduciamo in tal modo una sorta di raddoppiamento della figura del soggetto, che corrisponde alla distinzione dei tempi dell'agire. Esiste in prima battuta un soggetto che compie azioni senza che il soggetto vi si senta implicato. Queste azioni sono strumentali, scambiare due parole con i colleghi, fare la spesa, ecc. Sono azioni che ogni altra persona potrebbe compiere al posto del soggetto. In tal modo l’agire non appartiene veramente al soggetto. Esiste poi un altro modo di essere soggetto; è quello secondo il quale il soggetto sceglie di agire sapendo che questa è la condizione del suo essere, la forma del suo libero venire all'esistenza. Perché l’agire possa essere mio, occorre che io riconosca come esso stia esattamente tra me e me, tra me come soggetto che vive le forme spontanee e me come soggetto che vive una scelta deliberata. L’atto libero è perciò il passaggio dalla prima alla seconda forma dell’agire. 4. L’azione e i suoi motivi Per chiarire la figura di questo raddoppiamento del soggetto, merita che venga brevemente ripresa l'analisi fenomenologica della figura dell'azione. In particolare introduciamo una breve considerazione sulla nozione di motivo dell'agire. Perché il soggetto possa agire è necessario che egli sia prima di tutto 'mosso'; più precisamente, che a lui si manifestino appunto motivi che inducono all'azione. Che cos'è un motivo? Il motivo assume in prima battuta la figura di un'azione che si prospetti al soggetto stesso come possibile e insieme promettente. La promessa di cui qui si dice ha questa figura generale: l'effettiva realizzazione dell'azione appare alla coscienza come un atto capace di dischiudere la via alla conoscenza - e insieme alla realizzazione - dell'enigmatico desiderio che fin dall'origine costituisce la segreta identità del soggetto stesso. La motivazione all'agire ha in tal senso sempre a che fare con l'incompiutezza del soggetto; il soggetto è infatti in cammino verso la propria identità. Quindi motivo dell’azione è il desiderio del soggetto di compiere se stesso. Il motivo, in quanto provoca appunto all'agire, induce il soggetto a entrare in una storia, a cercare attraverso la vicenda effettiva il dispiegarsi dell'evidenza che pure fin dall'inizio in qualche modo lo costituisce. Da tale vicenda egli attende il chiarimento e l'adempimento di quello che egli in certo modo già e, o meglio già desidera essere, ma ancora non conosce. La prima forma della coscienza del soggetto, quella abitualmente qualificata come 'psicologica', è infatti quella dischiusa dalla dalla cattiva volontà nell’azione del soggetto e degli altri uomini che reagiscono alla sua azione. Data la stretta connessione tra i due aspetti, diventa facile attribuire lo scarto tra promessa e risultati dell’azione alla cattiva volontà degli altri. Ma esiste anche l’esperienza dello scarto dovuta al nostro personale fallimento. Per comprendere la delusione che proviamo in relazione al comportamento altrui, può aiutarci l’analisi dell’incontro tra due persone. Nell’incontro iniziale tra due persone accade di sperimentare istintivamente un senso di fiducia reciproca, che suggerisce come sia bello che si intraprenda qualche iniziativa comune. Ma la prosecuzione del rapporto può mostrare che uno non onori il credito che l’altro spontaneamente gli ha concesso. Quest’ultimo soggetto, deluso, mostrerà più cautela o, in altre parole, la voglia di mettere l’altro alla prova; di agire cioè nei suoi confronti senza attese, con l'intento di saggiarne l'affidabilità. Un tale progetto esprime una mancanza di verità: l’azione non ha la verità di stringere una relazione di prossimità, ma solo quella di provare la reazione. Ma questo genera un circolo negativo, perché l’altro avvertendo di essere messo alla prova, si chiuderà in se stesso. Appare così compromesso l’evento quasi “magico”, nel senso che si era prodotto come una sorpresa bella, senza alcun progetto. Se la relazione continuerà, sarà solo su basi utilitaristiche, ma non avrà la caratteristica di relazione in cui impegnare la libertà nella forma di dedizione senza riserve. Il secondo aspetto dello scarto, dicevamo, è quello relativo al nostro agire. Anche qui è utile la descrizione fenomenologica; tutti facciamo l’esperienza che i nostri comportamenti spontanei vengono facilmente giudicati. Questa consapevolezza ci suggerisce di tenere un certo controllo su noi stessi. Il controllo può arrivare fino alla dissimulazione normale dei pensieri e dei sentimenti più profondi.La ragione di questo controllo è data, da una parte dall’idea che gli altri non abbiano alcun diritto di giudicarci, dall’altra parte dall’incertezza che noi stessi abbiamo sulla qualità del nostro sentire. La perdita della libertà Con questa operazione di nascondimento ci precludiamo in primo luogo la possibilità di capire la qualità morale dei nostri pensieri e sentimenti, perché tale qualità può emergere solo nella relazione con gli altri. Infatti i sentimenti debbono essere lasciati emergere e valutati per quello che sono. In secondo luogo, l’agire stesso perde il suo senso originario di essere via in cui la libertà si determina per rispondere alla promessa fatta dalla realtà. Se la relazione tra gli uomini non diventa via di realizzazione della promessa di bene e di libertà, essa resta solo come fatto pratico, che va gestito con criteri utilitaristici. Anzi appare che tale gestione sia più facile: i rapporti sociali appaiono molto più facili da “gestire” - come si dice - se vengono sistematicamente taciuti sentimenti e convincimenti più profondi. Una maschera serve meglio che un'identità personale, per vivere - o meglio per 'gestire' - tali rapporti. La volontà esplicita di non lasciarsi coinvolgere personalmente produce per altro il risultato di rendere tali rapporti sterili in ordine alla crescita personale. Un secondo risultato è il suggerimento (che ascoltiamo spesso da persone che sembrano molto razionali ed “esperte” della vita) che non bisogna cedere alla tentazione “buonistica” di volere davvero, di promettere, di legarsi, di assumere cioè la responsabilità dei propri comportamenti. L'iniziale - e inizialmente comprensibile - incertezza morale del soggetto, a causa di tale strategia cauta di vita, minaccia di trasformarsi in incertezza cronica. La libertà che si risparmia, per evitare l’impegno, è la libertà che insieme si perde. La fede necessaria La delusione relativa all’atto umano ha un aspetto che non è legato al cattivo comportamento morale mio o di altri, ma è proprio dell’agire stesso, nel senso che l’agire dell’uomo è fatto in modo tale che all’inizio sembra promettente e facile e poi esso può arrivare alla meta solo se questa è laboriosamente voluta. Ci sono perciò due tempi dell’agire: il tempo infantile in cui si è portati in braccio e il tempo adulto in cui si cammina con le proprie gambe. Questo tempo adulto è quello in cui viene messa alla prova la libertà, in quanto ad essa è chiesto di determinarsi nei confronti della promessa che la realtà presenta al soggetto. Il passaggio dall’essere sorpresi dell’età infantile alla decisione dell’età adulta si può fare solo attraverso la fede. Il fatto che la libertà dell’uomo sia messa alla prova è il riflesso del carattere religioso della promessa che la realtà fa all’uomo. In altre parole, l’uomo può giungere alla verità di se stesso solo accordando fiducia alla promessa iniziale. Se invece decidesse di provare la realtà, passerebbe la vita a provare, in uno sperimentalismo sterile, e non arriverebbe a costruire nessuna identità propria. Immagine eloquente di tale destino offrono le immagine proposte dalla simbolica biblica dell'esodo e dell’alleanza: è la libertà dell’uomo che viene provata con il comandamento (l’imperativo morale) che viene da Dio. L’imperativo morale è ciò che dà forma concreta alla fede, al riconoscimento cioè del disegno divino che sta all’origine del miracolo sorprendente della vita. Il comandamento dice che soltanto attraverso l’obbedienza effettiva alla volontà di Dio che in esso si esprime è possibile giungere a conoscere la verità della promessa iscritta nel disegno di Dio. Naturalmente il soggetto comprenderà l’imperativo morale attraverso una serie di esperienze che lo orienteranno man mano verso la decisione dell’ubbidienza. Quindi ci sono delle esperienze interlocutorie, che hanno un carattere di indicazione. Pensiamo tipicamente al tempo dell'infanzia, e più in generale all'età evolutiva. La stessa cosa per altro accade poi anche in ogni altra età della vita; per l’uno o l'altro aspetto infatti accadrà sempre che il soggetto non possa ancora decidere di sé, debba invece lasciarsi ancora istruire dall'esperienza effettiva. Ma questo non significa lo sperimentalismo di cui dicevamo sopra, è solo il tempo dell’attesa di conoscere l’imperativo, nei confronti del quale si è già disponibili (per esemplificare: è solo accettando come benefica la volontà di Dio su di me, che mi dispongo a ricercare i segni della vocazione specifica, che per me costituirà poi l’imperativo morale). Quindi già nel tempo in cui pure non paiono possibili decisioni ultime, l'agire deve assumere la qualità della fede, e dunque della disposizione assoluta di sé. Tale disposizione prende allora la forma dell'attesa di conoscere gli imperativi che di necessità verranno dall'esperienza successiva e dell'impegno pregiudiziale ad osservarli. Alcune immagini bibliche ci aiutano nella comprensione della qualità di fede dell’agire. Nel libro dell’Esodo, Mosè viene chiamato da Dio anzitutto attraverso il segno muto del roveto che arde e non si consuma. Al primo manifestarsi di quel segno, Mosè risponde così: Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo (Es 3,3). Nelle parole di Mosè è chiaro l’intento di sperimentare il fatto. Per questo motivo Dio fermò Mosè, rivolgendosi ora a lui con una parola e non con un segno, e con una parola che era un imperativo: gli ordinò infatti: Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! (Es 3,5). In tale comando possiamo riconoscere la prima forma del comandamento, quella di un divieto: non devi mettere alla prova la realtà 'meravigliosa', non è possibile strappare così il suo segreto del disegno di Dio. Occorre invece da subito adorare quel segreto, perché esso possa poi anche diventare manifesto. Occorre credere per vedere. Stessa istruzione ricaviamo dal racconto della vocazione di Samuele: di fronte alla voce sorprendente di Dio che lo chiamava, Samuele non cercò di scoprire da dove quella voce veniva; disse invece subito: Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta (1Sam 3,8); professò la propria disposizione alla obbedienza, e così meritò di udire distintamente quello che la parola di Dio aveva da dirgli. Merita di essere notata questa circostanza: Samuele può rivolgersi in quei termini al Dio sconosciuto, soltanto perché egli è stato istruito in tal senso dal vecchio Eli. Questo ci dice che c’è una condizione preliminare perché l’uomo possa rispondere con fede: è la lingua appresa, la parola, cioè la testimonianza di altri che apre lo spazio dell'agire intenzionale, dell'agire cioè capace di plasmare l'intenzione del soggetto stesso, e con l'intenzione la sua stessa identità. Il cammino morale si presenta con le stesse modalità con cui si apprende il linguaggio. L’ uomo non parla da solo, ma comincia a parlare solo attraverso l’ascolto. È l’esperienza della lingua degli altri che pian piano si sedimenta nella sua interiorità e genera poi la capacità espressiva. In un secondo tempo, l’uomo userà il linguaggio con una sua originalità e potrà dare addirittura un contributo alla stessa configurazione della lingua. Nella ricerca dell’imperativo morale, anche avendo la disposizione della fede, sarà necessario interrogare la realtà, fare esperienze, ma sarà un modo buono di interrogare. Infatti c'è una modalità buona dell'interrogazione che il soggetto propone alla realtà mediante le prime forme del suo agire, e c'è invece una forma cattiva e arrogante. Nel lessico biblico le due figure sono spesso definite attraverso la coppia degli umili e dei superbi. In tal senso è detto: Il Signore sostiene gli umili ma abbassa fino a terra gli empi (Sal 147,6). O anche, in senso equivalente, che: Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui (Sap 1,2). La tentazione del sospetto In relazione al rapporto uomo donna cerchiamo di chiarire il concetto di male morale, che sopra abbiamo definito rifiuto di volere o fuga dalla libertà. La prosecuzione del rapporto uomo donna comporta che, dopo l’esperienza iniziale di meraviglia e di gioia, si incontri la difficoltà della relazione, che spesso ha i caratteri dell’oscurità e della fatica. In queste nuove condizioni, l’uomo e la donna debbono fare i conti con l’idea, ciascuno per la sua parte, con il dubbio di essere stati ingannati. L’uomo può pensare di essere stato sedotto dalla donna, cioè di essere stato condotto là dove non sapeva e non voleva. La donna può pensare di essere vittima della forza dell’uomo, che all’inizio prometteva sicurezza, e che ora, invece, si presenta come disprezzo. Nei due casi si ripropone la stessa logica del sospetto circa le vere intenzioni dell’altro: esse sono forse altre rispetto a quello che le forme spontanee del primo incontro grato sembravano annunciare. Il passo successivo può essere quello di far diventare il sospetto quale motivo che esonera dall’impegno troppo ingenuamente assunto mediante i precedenti comportamenti spontanei. L'argomentazione potrà essere del genere: “non è stato/a ai patti”; oppure del genere: “non sapevo bene di che si trattasse, dunque non è possibile intendere i miei comportamenti precedenti come un vero impegno”. Il dubbio potrà cioè investire di volta in volta la qualità delle intenzioni dell'altro, o la qualità delle intenzioni proprie. In ogni caso, il dubbio si riferisce più radicalmente alla verità espressa dalle forme immediate dell’incontro. Se il dubbio diventa la ragione di disimpegno personale, è possibile che il rapporto si spezzi, ma è anche possibile che continui in altra forma: quella più cauta, più esperta in cui l’altro viene messo alla prova. La tentazione è quella di sospettare sempre delle intenzioni altrui e il peccato è proprio questo sospetto pregiudiziale. Il peccato riguarda l’intenzione dell’altro/a nei miei confronti, ma può investire più radicalmente l'affidabilità di quell’ordine che la realtà tutta spontaneamente suggerisce alla mia vita. La fiducia originaria - tipicamente, quella propria del bambino, autorizzata dal carattere sorprendente dell'esperienza originaria della vita - appare ora appunto soltanto infantile nel senso più deteriore. Il passaggio facile dal sospetto nei confronti di una compagna o di un compagno al sospetto che investe addirittura l'ordine cosmico non stupisce, quando si consideri l'obiettivo rilievo che l'esperienza dell'incontro reciproco tra uomo e donna assume in rapporto alla percezione significativa del reale tutto. Il peccato come sospetto nella Bibbia Nella Bibbia il sospetto è la forma principale attraverso cui si manifesta il peccato. Il sospetto è esattamente l’opera di satana, definito esattamente come colui che sospetta. Nel libro di Giobbe, satana non crede alla gratuità dell’amore di Giobbe per Dio e per questo chiede che sia sottoposto alla prova (cc. 1-2). Anche i Salmi hanno frequenti riferimenti alle prove a cui gli empi sottopongono i giusti. La figura di satana appare poi anche nelle visioni della letteratura apocalittica; anche lì è qualificato appunto come l'accusatore: «Satana era in piedi alla sua destra per accusarlo» (Zc 3,1); «... è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno e notte li accusava davanti al nostro Dio» (Ap 12,10). La figura del serpente di Gen 3, interpretata da Sap 2,24 come figura del diavolo, la cui invidia introduce la morte nel mondo, è fin dall'inizio rappresentata come la figura di colui che suggerisce il sospetto nei confronti di Dio, e genera in tal modo lo stesso sospetto reciproco tra uomo e donna. La stessa figura del sospetto appare decisiva per intendere l'ostilità reciproca tra i fratelli, e addirittura il fratricidio (Gen 4,1-16). Il sospetto è figura tanto importante, perché è proprio attraverso di esso che l’uomo tenta di evitare il proprio coinvolgimento, la prova di sé, la necessità di credere. Nella Bibbia si illustra questo peccato in riferimento all’esperienza umana universale con la vicenda di Adamo e di Eva (Gen 3), e con riferimento a Israele con la ribellione nel deserto (Esodo e Numeri). 8. Il ruolo della cultura nell’agire morale Il passaggio dall'agire spontaneo e 'infantile' alla scelta libera si configura sempre e di necessità come una seconda nascita. Solo con la libertà che si determina si ha la vita dello spirito; il compimento della libertà si ha quando essa si affida non solo alla promessa del reale, ma, in ultima istanza alla promessa di Dio. Questo passaggio necessario è molto complesso, perché vi agiscono processi psicologici, processi culturali e le stesse scelte libere del soggetto. Possiamo avere un primo chiarimento di questa complessità se ci chiediamo quale sia il ruolo svolto dalla cultura8. La cultura offre alla stessa coscienza personale una prima istruzione dei significati dell'agire. Ma queste indicazioni hanno un doppio profilo: da un lato sono assolutamente necessarie; d’altro lato esse sono insufficienti. Sono necessarie9 perché il soggetto ha bisogno di testimonianze che gli facciano comprendere il senso dell’agire buono, nel quale è racchiusa la promessa di vita buona e di senso. Sono 8 La nozione di cultura a cui ci riferiamo è quella antropologica; dunque quella che intende per cultura il complesso delle regole sociali che indicano i significali della vita. 9 L’esperienza a cui fare riferimento è anzitutto quella infantile intesa nella sua accezione letterale; nell'esperienza che il bambino fa nel suo rapporto con i genitori, e più in generale con l'adulto. Il processo però poi si ritrova nella stessa esperienza dell'adulto. Il passaggio dal primo sentimento grato nei confronti della vita al proposito pratico è reso possibile dalla fissazione dell'esperienza grata in immagini della vita buona intorno alle quali realizzare il consenso di tutti. Appunto alla elaborazione di tali immagini, provvedono le forme della cultura. Gli stessi adulti che sono i primi soggetti che propongono ai bambini le immagini della vita buona, fanno riferimento per il loro comportamento a ciò che la cultura insegna essere buono nella relazione genitori figli. Tra le forme della cultura rilievo essenziale ha la parola. Una tale importanza deriva dal legame radicale che sussiste tra parola e coscienza. L’infante anche prima di parlare ha la coscienza, ma è soltanto tramite la parola che la coscienza nascente del bambino può esprimersi nella storia: può esprimersi nei confronti di altri, e rispettivamente può riconoscere gli altri ed esprimere insieme loro riconoscenza; può anche chiedere, esprimere così un'attesa di riconoscimento. La parola e quindi il rapporto di reciprocità sono poi condizione della coscienza personale intesa in particolare come identità del soggetto con se stesso. Ora, la parola suppone la lingua, e dunque quegli elementi di comunanza tra gli uomini che sono impliciti nel codice della lingua. La lingua è un “codice”, un repertorio di significati aperto a tutti. La parola suppone però anche altro rispetto alla lingua; suppone prossimità pratica, la realtà che la parola esprime. La vita come relazione di prossimità, che viene ad espressione nella parola, è sotto altro profilo plasmata dalle forme del costume, dell’éthos inteso quale insieme di regole della vita umana, e più in generale da tutte le forme della cultura. insufficienti, perché il soggetto libero, di fronte a queste testimonianze deciderà di se stesso, solo se le riterrà affidabili. Quindi la vita dello spirito, che abbiamo chiamato seconda nascita dovuta all’esercizio della libertà, non è il risultato di un processo educativo. Questa seconda nascita non può mai essere considerata come un fatto compiuto; è invece atto che deve essere sempre da capo ripreso; è un permanente debito o un dovere di sempre del soggetto. Si può dire che la verità più profonda del dovere morale è il riconoscimento di un debito permanente che l’uomo ha di decidere di sé. Ciò ci obbliga a richiamare l’analisi della liberta svolta sopra, con la considerazione dei tempi della libertà. Abbiamo visto che esiste una scansione che conduce dal provvisorio al definitivo, al momento in cui riconosciuto il tempo pieno (che nel Vangelo coincide con la presenza di Gesù), la libertà si determina in modo incondizionato. Questa concezione della libertà comporta che il soggetto umano viva l’esperienza della ripresa di se stesso e non invece della continua ricerca di nuovi esperimenti. La Bibbia ci istruisce abbondantemente sul tema della ripresa, ma prima svolgiamo alcune considerazioni in relazione alla sua completa assenza nella cultura contemporanea. A questo proposito, riprendiamo brevemente la nozione di atto libero: esso è l’atto mediante il quale si riconosce insieme l'imperativo proposto dalla coscienza espresso da un tempo particolare (kairós, ovvero tempo pieno di significato e di libertà), un tempo che finalmente consente la disposizione di sé da parte del soggetto; in tal senso, da un tempo pieno. L’atto libero è strutturalmente articolato nei due momenti: quello dell'agire mediante il quale il soggetto si cerca, e rispettivamente quello dell'agire mediante il quale il soggetto invece si dona, o comunque dispone di sé stesso. La dimenticanza della necessità di decidersi Ora la cultura contemporanea si concentra sul primo momento, quello della ricerca e non approda quasi mai al secondo momento, quello in cui il soggetto decide di sé. Dimenticare il secondo momento dell’atto libero, significa negare la libertà dell’uomo. Figura emblematica di questa situazione culturale è quella di Ulisse, l’eroe che cerca sempre, senza mai approdare alla patria, perché non crede che ci sia patria. Per lui e per la cultura contemporanea non esiste una terra promessa verso cui dirigersi decisamente (si veda la condizione esistenziale etica dell’uomo contemporaneo, che abbiamo delineato nel capitolo primo). Per questo l’eroe preferisce vagare e vivere le emozioni delle nuove esperienze come risposta alle sue aspirazioni. In questo senso egli non è libero. La parola, oltre ad essere espressione di un codice sociale di significati, per altro lato si configura invece come atto singolare di colui che dice. Singolare è tale atto, perché esso comporta per sua natura la disposizione di sé da parte del soggetto. Dicendo una parola sua, l'uomo insieme accetta un patto, si lega, promette, entra in una alleanza, accetta una legge. Può fare tanto, a misura che riconosca la corrispondenza obiettiva di quanto il codice sociale della vita prescrive con quanto intende - sia pure in forma soltanto iniziale - la sua originaria e ancora inespressa esperienza grata della vita. "il senso dell'uomo", ma questo senso dell'uomo non ci si dischiude se non nel senso di Dio, infatti l'antropologia (visione dell'uomo) cristiana è in realtà un capitolo della teologia. Come dire: non è possibile capire l'uomo se non si comprende Dio, Gesù svela il Padre all'uomo, ma contemporaneamente svela l'uomo a se stesso. Per questo stesso motivo la DSC può affermare che senza il Vangelo non c'è soluzione della questione sociale. La frase, pronunciata da Leone XIII nella Rerum Novarum, cioè all'inizio della storia moderna della DSC, è stata ripresa e rilanciata nel 1991 da Giovanni Paolo Il nella Centesimus annus. In quanto annuncio di Cristo nelle realtà temporali (economia, lavoro, politica ... ) la DSC appartiene alla missione della Chiesa, alla sua vocazione a santificare il mondo e ad animare cristianamente la società. E' manifestazione della carità apostolica della Chiesa e parte integrante della sua ansia pastorale a servizio di tutta l'umanità. Come dice la Populorum Progressio (n. 2) la DSC è la luce del Vangelo proiettata sulle questioni sociali, come dice la Sollecitudo rei, socialis (n. 8) essa è l'applicazione della parola di Dio alle realtà storiche. Questo incontro tra il Vangelo e le realtà sociali ed economiche diventa guida dell'intelligenza e della volontà degli uomini a creare forme di vita sociale conformi alla dignità umana e al disegno di Dio, diventa formazione delle coscienze alle esigenze del vero bene comune, diventa educazione alla libertà creativa dell'uomo che vuole costruire la propria vita su questa terrà secondo la verità, superando violenze e ingiustizie, discriminazioni e solitudine; diventa illuminazione del disegno originario che ci lega gli uni e gli altri; diventa sapienza sociale, cioè ordinazione dell'agire umano ai fini ultimi dello stare insieme in comunità. Vediamo allora, per contrasto, che cosa non è la DSC. Essa non è prima di tutto una ideologia, ossia un sistema, una visione di parte che assume a priori degli assunti teorici e pretende di piegare ad essi la realtà, anche con la violenza, che pretende di contrapporsi ad altri sistemi con i quali combatte per il potere, che è finalizzata al dominio, che divide gli uomini anziché unirli e li fa lottare gli uni contro gli altri, che pur essendo una visione di parte pretende di essere assoluta e diventa quindi intollerante. In secondo luogo essa non è un prontuario di ricette pratiche, perché la Chiesa non ha modelli politici prefabbricati e unici (OA 4; CA 43) da suggerire, né soluzioni tecniche per i problemi della società. La competenza della Chiesa è un'altra, essa è portatrice della sapienza del Vangelo e non scrive manuali di politica o di economia. Per questo ci sono i politici e gli economisti. Infatti la DSC ha ben chiaro il principio della autonomia delle realtà terrene le quali chiedono alla Chiesa un orientamento etico e religioso ma non le mediazioni e le soluzioni tecniche. Rammentiamo da dove siamo partiti: solo nella luce di Cristo la DSC si occupa del resto. In terzo luogo la DSC non è una terza via rispetto al capitalismo liberale e al socialismo collettivista. Essa critica entrambi ma non è né un compromesso tra i due, né una terza soluzione che eviti gli aspetti negativi dell'uno e dell'altro. La DSC non si colloca sul piano della competizione con le ideologie, essa si colloca al di sopra, più in alto, in quanto si occupa dell'uomo e della società secondo il piano di Dio. In quarto luogo la DSC non è una sociologia cristiana, non è riconducibile a nessuna scienza umana, anche se orienterà, come vedremo, la sociologia e le altre scienze umane, le quali non sono completamente autonome da una visione dell'uomo (antropologia) e dall'etica. Da ultimo occorre ricordare che la DSC non è un insieme di orientamenti morali validi solo per i cristiani o i cattolici, ma valida “per tutti gli uomini di buona volontà”, in quanto, come vedremo tra poco, le sue verità sono anche verità di ragione. 2. QUALI SONO LE FONTI DA CUI SCATURISCE LA DSC? Le Fonti sono rappresentate, 1. prima di tutto dalla Parola di Dio. La DSC, infatti, appartiene prima di tutto ai compiti del Magistero, è magistero il quale, si sa, ha come limite invalicabile la Parola di Dio della quale si pone a servizio. E' appunto dalle 'cose antiche" del Vangelo e del deposito della fede che la Chiesa trae i principi con cui affrontare le nuove questioni sociali che via via lungo i decenni emergono alla ribalta. La prima fonte è quindi la (a) Sacra Scrittura correttamente interpretata, ma anche (b 1) l'insegnamento dei Padri della Chiesa, dei grandi teologi cristiani e della Tradizione viva della Chiesa. E' chiaro inoltre che lo stesso (b 2)Magistero è una fonte della DSC, infatti, fin dalla Rerum Novarum e quindi da Leone XIII, tutti i Pontefici sono stati ben consapevoli di esercitare, emanando un'enciclica, la loro specifica funzione apostolica di insegnamento della fede autentica e di guida della Chiesa. 2. Un'altra fonte di notevole importanza è il diritto naturale, la legge morale che emana dalla essenza stessa della persona e che indica dei fini che la volontà deve seguire se vuole agire in conformità con la natura profonda dell'essere umano. Questo diritto naturale è comprensibile, in gran parte, anche dalla semplice ragione umana, quindi la DSC contiene delle verità di fede e anche delle verità di ragione, senza che le due si contrappongano a vicenda. Certo, la DSC non è una filosofia, ma questo non significa rinunciare alla ragione umana. In Cristo, dicevamo, Dio e uomo si sono uniti e quindi la natura e la grazia, la ragione e la fede. Ecco perché la DSC può rivolgersi a tutti gli uomini di buona volontà e non solo ai cattolici. Ed ecco perché non ci potrà essere contrasto tra quanto afferma la DSC e quanto sostiene la retta filosofia o quanto stabiliscono le scienze umane non manipolate ideologicamente (Il Vangelo rende chiara a tutti la legge naturale). All’inizio della Centesimus Annus, al paragrafo 4, Giovanni Paolo II sostiene che Leone XIII si era ispirato anche a studi scientifici promossi dai laici, all’azione a movimenti promossi da associazioni cattoliche e alle concrete realizzazioni in campo sociale attuate in quei tempi. Si può dire allora che una fonte delle encicliche sociali sono anche il pensiero cattolico e le realizzazioni del movimento cattolico? Certo tutto questo può essere strumento di ispirazione per la formulazione di un’enciclica, ma è senz’altro un materiale oggetto di discernimento e quindi non può essere considerata una fonte alla stessa stregua delle due principali: parola di Dio e diritto naturale (per la Mater et Magistra le fonti della DSC sono Vangelo e diritto naturale, cf. n° 9). 3. CHE COSA OFFRE La DSC appartiene alla missione profetica di Cristo e della Chiesa. Quindi prima di tutto ci offre un annuncio (Cf. Sollecitudo rei socialis, 41). Nel passo preso dal paragrafo 54 della Centesimus annus da cui siamo partiti abbiamo appunto letto che la DSC "annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo". All'origine della DSC c'è quindi l'annuncio di un rinnovamento radicale dei rapporti umani fondati sulla carità, l'annuncio di una vera e propria prassi di liberazione. Questa è la sua dimensione profetica. In secondo luogo e in modo strettamente connesso all'annuncio ma da esso dipendente, la DSC ci offre anche una denuncia. E' questo il suo aspetto critico. Ingiustizie, strumentalizzazioni, ideologie totalitarie, sistemi economici disumani, sfruttamento e sottosviluppo, materialismo e disprezzo per l'uomo trovano nei principi della DSC un atto di accusa. Si badi bene comunque che il positivo prevale sul negativo, che l'annuncio precede e fonda la denuncia; per esempio. la DSC annuncia che i beni sono destinati a tutti e quindi denuncia i monopoli e le indebite concentrazioni di ricchezza. Più precisamente, comunque, si può dire che la DSC offre all'uomo dei principi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttive di azione (Cf. Octogesima adveniens, n. 42; Istruzione Libertatis conscientia della Congregazione per la dottrina della fede, n. 72). I principi di riflessione sono per esempio quelli relativi alla dignità della persona, alla sua originaria socialità, all'importanza della famiglia, alla funzione strumentale dello Stato, alla destinazione universale dei beni, alla originaria solidarietà tra gli uomini, al lavoro inteso non come merce ma come attività umana (sono in diretta relazione con il diritto naturale). I criteri di giudizio sono per esempio il principio di sussidiarietà, la funzione sociale dello proprietà privata, la prevalenza dei lavoro sul capitale, la priorità da darsi ai poveri (si tratta di elaborazioni teoriche a partire dai principi). Direttive di azione sono per esempio le indicazioni su cosa dovrebbe fare il datore di lavoro, il lavoratore o i pubblici poteri in caso di disoccupazione, quali vie si dovrebbero battere per avere una reale democrazia, cosa dovrebbero fare i governi per aiutare i paesi in via di sviluppo, come dovrebbero agire le agenzie internazionali per procurare la pace. Non sono che alcuni esempi, sufficienti però a mostrare due elementi molto importanti della DSC. Prima di tutto il fatto che essa è un corpus dottrinale coerente e ben compaginato. Non certo un “sistema” chiuso in se stesso e insensibile ai mutamenti storici, ma nemmeno una vaga ispirazione a dei valori non meglio precisati. No, la DSC è "una vera dottrina, un corpus, che le permette di analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che ne derivano" (CA 5). Se essa è un corpus organico e ben compaginato vorrà dire che non è lecito prendere qualche spezzone della DSC, ma bisogna assumerla nella sua totalità. In secondo luogo il fatto che alla DSC inerisce costitutivamente una vocazione progettuale. Certamente essa non offre un progetto di società ben definito in tutti i particolari e costruito a tavolino. Come ben dice la Octogesima adveniens al n. 4 (e come ribadisce la Centesimus annus al n. 43) non spetta al magistero della Chiesa offrire modelli di società unici e prefabbricati: “ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale”. Ma questo non significa che dalla DSC non possano e non debbano emanare delle linee di ampio respiro che orientino la capacità progettuale dei cristiani e di tutti gli uomini, dei politici e delle comunità. Il Prof. Mario Toso la chiama - con felice espressione - una progettualità germinale, non definita nei minimi particolari ma nemmeno che rinuncia a orientare i progetti umani lasciando tutto in mano all'improvvisazione estemporanea. Il fatto che ci dia anche delle direttive d'azione, ci induce a riflettere sul fatto che quello della DSC è un sapere teorico - pratico. Giovanni Paolo Il (CA 57) sostiene infatti che la DSC è per essere incarnata, è per l'azione, è per la vita. Non è solo una teoria, un insieme di bei principi. Del resto essa è Vangelo sociale, e il Vangelo non è una teoria. 4. EVOLUZIONE DELLA DSC Ci si può chiedere quando sia nata la DSC e se essa sia sempre rimasta uguale o sia in seguito cambiata. La sua data di nascita è il 1891, quando Leone XIII pubblicò la Rerum Novarum. Ma non si deve pensare che la Chiesa, prima di allora, non avesse una sua dottrina sociale. Forse che distinzioni concettuali fondamentali da allora rimaste come patrimonio irrinunciabile: lavoro soggettivo e lavoro oggettivo, datore di lavoro diretto e indiretto... La Sollicitudo rei socialis (1987) nasce per commemorare il ventesimo anniversario della Populorum Progressio. E' pervasa da un senso di sconfitta davanti al fallimento delle speranze di venti anni prima. Il divario tra ricchi e poveri è aumentato e il quadro si è reso più complesso. C'è ormai un sottosviluppo anche nei paesi dei supersviluppo, come esistono nei paesi poveri sacche di ricchezza oligarchica che suscitano scandalo. L'enciclica elabora la categoria teologica delle "strutture di peccato". La SRS è inoltre importantissima perché nei famosi paragrafi 3 e 41 stabilisce con grande chiarezza cosa sia la DSC. La Centesimus annus è la grande enciclica dei terzo millennio. Essa, dopo i grandi fatti dei 1989, pone al centro della questione sociale il problema di Dio e chiede un impegno di tutti per un nuovo modello di sviluppo fondato sulla trascendente dignità della persona umana. Il crollo dei regimi comunisti ha riproposto anche all'Occidente il monito che una società atea è destinata a non rispettare i diritti umani e quindi ad essere prima o dopo travolta. Per questo la società occidentale e il suo sistema socio economico non possono dire di essere i vincitori dei confronto, anzi c'è il pericolo che dopo l'89 si diffonda nell'Occidente una cultura neocapitalistica radicale assai negativa. Il Papa affronta quindi i temi della democrazia relativista nell'Occidente, della crisi dello Stato assistenziale, della cultura della nazione, dello sviluppo della società civile, del consumismo e della necessità di stili di vita nuovi, delle nuove forme di alienazione, alienazione che consiste soprattutto nell'allontanamento da Dio. Considera il profitto un valido sintomo dei benessere dell'azienda ma non l'unico, chiede che si lotti per una vera ecologia umana, a cominciare dalla famiglia, desidera che l'uomo non sia schiacciato tra il mercato e lo Stato, sostiene che la maggiore risorsa per l'uomo è l'uomo stesso. Queste sono le principali encicliche sociali, ma non andrebbe dimenticato che ci sono spunti molto importanti di dottrina sociale in altri documenti, come per esempio: le esortazioni apostoliche postsinodali Familiaris Consortio (sulla famiglia) e Christifideles laici (sui laici), oppure la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della Fede su "Libertà cristiana e liberazione" che porta il titolo Libertatis conscientia, oppure il documento della Congregazione per l'educazione cattolica sull'insegnamento della DSC nei seminari. 6. IL SOGGETTO DELLA DSC A chi appartiene la DSC? Chi se ne deve far carico? Chi la deve diffondere, incarnare? A chi spetta studiarla? Chi deve progettare riforme sociali ispirate ad essa? Chi la deve insegnare?. Non si può rispondere a questa domanda se non tenendo conto di cosa sia la DSC, cioè di quanto abbiamo detto nel primo paragrafo. Là abbiamo sostenuto che la DSC è parte integrante dell'evangelizzazione. Allora non resta che chiederci: chi è il soggetto dell'evangelizzazione? La risposta non può che essere una: l'intera comunità ecclesiale. Ma allora, se la DSC è parte dell'evangelizzazione, anche il soggetto di questa non può che essere l'intera comunità ecclesiale in tutte le sue componenti. Non quindi questo o quello, non il parroco o il Vescovo, non il Papa o i laici, non i cristiani impegnati nel sindacato o in politica o i professori di teologia, ma tutti, organicamente tutti. E siccome nell'unità organica della Chiesa ognuno ha dei particolari carismi, la DSC dovrà essere servita da ognuno secondo il proprio particolare carisma. Il Magistero (il Papa e i Vescovi) hanno il compito di insegnare la DSC. Il Vescovo ha nella sua diocesi il compito di insegnare la DSC, di sorvegliare sul suo insegnamento e sulla sua incarnazione. I religiosi avranno il compito di lasciare intravvedere nella loro vita la giustizia, la pace, la libertà, la verità che la DSC vuole incarnare nel mondo. I parroci annunceranno la DSC dall'altare e guideranno la loro comunità a viverla. I catechisti la insegneranno perché la DSC, se è evangelizzazione, deve entrare nella normale catechesi dei giovani e degli adulti. I Consigli pastorali dovranno elaborare dei piani di pastorale sociale coordinando il lavoro della loro realizzazione. I teologi dovranno studiare e tentare, in spirito ecclesiale, nuove piste di riflessione sulla DSC, specialmente i teologi moralisti. I laici impegnati nelle realtà secolari cercheranno di conoscere la DSC e poi di incarnarla sul lavoro, nella professione, nel sindacato, nel quartiere ... Le famiglie riscopriranno la soggettività sociale e politica della famiglia e quindi seguiranno la DSC nei loro percorsi di catechesi e di formazione. I giovani e gli adulti, all'interno dei loro gruppi, si educheranno alla DSC sapendo che così facendo si educano alla fede cristiana e ad essere cristiani adulti, capaci cioè di una testimonianza globale anche nel sociale. I professori universitari, gli intellettuali, i ricercatori, gli studiosi collegheranno le loro discipline con la DSC e metteranno il loro sapere i servizio di una mediazione tra la DSC e i rispettivi ambiti di competenza. I docenti e gli animatori dei seminari e degli Studi teologici introdurranno la DSC nei loro insegnamenti, come pure i docenti degli Istituti di scienze religiose. I giornali cattolici e le emittenti televisive dedicheranno spazio alla DSC mettendosi al servizio della evangelizzazione dei sociale. A tutti spetta il compito del discernimento e dello scrutare i segni dei tempi alla luce della DSC. La DSC è garanzia dei corretto pluralismo dei cristiani e nello stesso tempo è fonte della loro unità di pensiero e di azione. 7. I PRINCIPI PERMANENTI In estrema sintesi si possono indicare i principi Fondamentali della DSC, le colonne portanti della sua visione della persona e della società. a - principio di personalità. La persona umana è il principio, il soggetto e il fine della società. Da essa scaturisce la socialità in quanto la persona è originariamente sociale e bisognosa di socialità. La società non può costruirsi contro la persona ma tramite di essa, valorizzandone la partecipazione e le capacità. Fine della società è aiutare la persona a crescere come tale, la società è luogo di umanizzazione. Il potere - ogni potere - è a servizio della persona e del bene comune, ha quindi sempre e solo un valore strumentale. Per tutto ciò la politica ha legami strutturali e irrinunciabili con la morale. Una società che non rispettasse la “trascendente dignità della persona umana” si trasformerebbe presto in totalitarismo. Solo su tale dignità si possono fondare i diritti dell'uomo, a cominciare da quello della vita e della libertà religiosa. b - principio di solidarietà. I rapporti di interdipendenza planetaria, l'uguaglianza fraterna tra gli uomini, l'essere accomunati in un unico destino fondano le esigenze di solidarietà che consiste nel sentirsi tutti responsabili di tutti. La solidarietà non è un vago sentimento pietistico per i poveri, ma è l'impegno perseverante di lottare per il bene di tutti. La solidarietà va quindi organizzata, deve tener conto della carità e della giustizia, deve rispettare il principio di sussidiarietà per non scadere in assistenzialismo. Solidarietà vuoi dire attenzione agli ultimi, preminenza del lavoro sul capitale, programmazione di uno sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, superamento delle logiche particolaristiche e di chiusura, nuova etica mondiale. c - principio di sussidiarietà. Gli organi della società più lontani dalla persona non devono sostituirsi a quelli ad essa più vicini o alla persona stessa nello svolgimento di quanto possono fare con le proprie forze, ma devono piuttosto aiutarli a fare da sè, fornendo loro gli strumenti opportuni. Quando, per l'eccezionalità di certe carenze degli organismi di base della società è utile che gli organi superiori - per esempio lo stato - intervengano, devono farlo a titolo di supplenza, lavorando affinchè quegli organi possano riprendere fisiologicamente a provvedere a se stessi. Lo Stato non deve assorbire in sè o mortificare le energie e fiaccare la responsabilità delle famiglie, dei corpi intermedi, delle imprese ... La persona, la famiglia e la società vengono prima dello Stato e hanno diritti e doveri propri. d - principio del bene comune. Lo scopo della società è il bene comune ossia quella situazione in cui ogni uomo possa diventare più uomo. Questo comporta una visione globale delle problematiche sociali: la giustizia non deve andare a discapito della libertà, lo sviluppo a discapito della giustizia o della salvaguardia del creato, la pace e l'ordine a scapito della libertà dei popoli e della autodeterminazione. li bene comune è un concetto qualitativo ed etico, non quantitativo. Esso non coincide con il “benessere” e non consiste nella somma dei benessere individuale. Il bene comune è la buona vita dell'intera comunità politica, è il bene di tutto l'uomo e di tutti gli uomini. Il principio dei bene comune significa che si lotti contro i monopoli, che si trovino strade per funzionalizzare socialmente la proprietà privata, che si promuovano forme di collaborazione, che si lavori per una democrazia riempita di contenuti, non solo formale ma pienamente umanistica. e - Principio di partecipazione. La libertà va intesa in modo propositivo, come adesione e progetto, come partecipazione. Ciò implica una valorizzazione della società civile e la creazione di sistemi politici aperti al basso, trasparenti. Richiede di superare i vari individualisti e privatismi per favorire la collaborazione e il dialogo, l'apertura comunitaria. Il raggiungimento del bene comune, lo sviluppo, la costruzione della democrazia autentica devono essere perseguiti con la partecipazione degli interessati. La partecipazione è un diritto delle persone e dei popoli. f- destinazione universale dei beni e funzione sociale della proprietà privata. I beni dei creato sono destinati a tutti. Non solo quelli materiali ma anche quelli immateriali come le conoscenze, le informazioni, le tecnologie, la cultura, l'arte sono beni destinati a tutti. La proprietà privata è un diritto naturale ma subordinato a quello della destinazione universale dei beni. La proprietà privata è uno dei mezzi per assicurare la destinazione universale dei beni, quando ne costituisse un impedimento dovrebbe esserne rivista la modalità in quanto la proprietà privata ha anche una funzione sociale. g - scelta preferenziale per i poveri. Non è una scelta esclusiva da parte della Chiesa, nè è contraria ad altri. Certo che, fin dalla Rerum Novarum, la DSC dice che i ricchi e i potenti sanno proteggersi da soli, sono i poveri, tutti i poveri in qualsiasi forma vivano la loro povertà, sono i deboli che bisogna aiutare. l’economia in balia di un capitalismo selvaggio, tuteli i diritti dei deboli e inquadri l'attività economica in una cornice giuridica di diritti doveri. Chiede che lo stato intervenga per tutelare il bene comune e i beni pubblici dalla pirateria dei privati. Il limite? Il punto di equilibrio? Dovrà essere cercato di volta in volta dalla libertà umana, tenendo conto di questi due principi della Dsc che devono essere armonizzati. I quali, in verità, non sono poi opposti ma complementari, l'uno non può stare senza l'altro. Se infatti si devono valorizzare le società inferiori e la persona umana, è perché queste possano dare meglio il loro aiuto al bene comune, perché cioè possano esprimere meglio la loro solidarietà, non perché si isolino perseguendo scopi totalmente individuali e privatistici. Così, quando i poteri pubblici intervengono è per ricostruire un’uguaglianza che possa permettere a tutti di essere protagonisti e non solo ad alcuni. Come si vede la sussidiarietà è per la solidarietà e viceversa. 4. SUSSIDIARIETA’ E RIFORMA DELLO STATO ASSISTENZIALE Lo Stato assistenziale non tiene conto del principio di sussidiarietà. Infatti, esso eroga sussidi ai cittadini, in modo indiscriminato, mortificando quanto essi potrebbero fare da soli. Lo Stato assistenziale invade campi che non sarebbero propri dello Stato, occupa settori economici che potrebbero essere lasciati all'iniziativa privata o della società civile. Rende passivi i cittadini perché li deresponsabilizza: di fronte ad ogni problema essi ritengono che ci debba pensare lo stato. Mortifica le loro iniziative, induce a fare poco e male, propugna un egualitarismo piatto in cui le doti e l'impegno personale non sono valorizzati. Non educa i cittadini alla solidarietà: è come se dicesse loro di preoccuparsi solo del loro privato, assumendosi esso tutti gli oneri del pubblico. Burocratizza e rende anonimi (e spesso non funzionanti) tutti i servizi. Abbiamo analizzato la riforma dello Stato assistenziale in un altro capitolo al quale rimandiamo per completezza (vedi sotto). Qui ci preme ricordare che una seria riforma (non uno smantellamento) dello Stato assistenziale richiede l'applicazione del principio di sussidiarietà. Lo Stato deve occuparsi del bene comune e lasciare ampi spazi d'iniziativa non solo privata, ma anche pubblica alle persone e alle molteplici realtà della società civile. Senza togliere di mezzo le istituzioni e il ruolo pubblico fondamentale in taluni settori (anzi facendoli funzionare meglio) occorre lasciare che si attivino autonomamente altri soggetti, che la scuola e l'educazione possa essere fatta su un piano di parità dalle famiglie e dalle loro associazioni, che accanto ad una economia privatistica se ne aggiunga un'altra di solidarietà sociale, che la lotta al disagio sia fatta da associazioni adatte debitamente aiutate e controllate, che i mezzi d'informazione siano gestiti in un clima di reale pluralismo dai protagonisti della società civile, che la lotta alle nuove forme di disagio sia fatta dai gruppi di volontariato non in alternativa alle istituzioni. Il principio di sussidiarietà implica che lo Stato di fronte alla società - singoli cittadini, famiglie, gruppi intermedi, associazioni e imprese - non debba fare di più ma neanche di meno, che offrire un aiuto all'autonomia. In base a questo principio lo Stato dovrebbe svolgere tre funzioni: - Funzione promozionale: ossia aiutare le articolazioni sottostanti così da metterle in condizione di sostenere i singoli cittadini nello sviluppo di una vita degna dell'uomo. - Funzione protettiva: proibire a questi stessi destinatari di intervenire nell'ambito di vita e di azione delle articolazioni sottostanti se queste sono nella condizione di regolarsi autonomamente e di gestire in proprio i loro compiti. Se queste articolazioni non riescono ad espletare i loro compiti con le proprie forze, per cui, ad esempio, non riescono a far fronte ad impegni educativi o assistenziali che si sono assunti, il principio di sussidiarietà impone allo Stato di non assumere subito su di sé questi compiti, ma di cercare vie di rafforzamento delle energie e delle capacità in modo da aumentarne l'autonomia, intesa non come chiusura in se stesse. Il principio di sussidiarietà, quindi, possiede una duplice dimensione: una che attiva lo Stato o altro destinatario, l'altra che limita questo intervento o protegge nei confronti di questo intervento - Funzione di responsabilizzazione degli attori: difende lo Stato e gli altri destinatari dei doveri di sussidiarietà da un sovraccarico di compiti. Nel principio, infatti, è contenuto un obbligo per lo Stato di respingere i compiti, e i relativi oneri, che singoli cittadini o comunità subordinate pretendono di scaricare su di esso, pur essendo in grado di assolverli. Inoltre, difende lo Stato sociale e il suo sistema di prestazioni da un eccesso di rivendicazionismo (quando cittadini e gruppi si aspettano tutto dallo Stato), dato che parte dalla premessa secondo la quale la responsabilità primaria nell'impostazione della propria vita spetta alla persona e alle relazioni di mondo vitale prossime alla persona, cioè alla famiglia e alle formazioni sociali intermedie tra cui gli organismi di Terzo settore. 5. ASPETTI ECONOMICI Indubbiamente lo Stato ha dei compiti in economia, ma svolgendoli, non deve prevaricare sui naturali soggetti economici: i singoli e le associazioni. La Centesimus annus tratta piuttosto ampiamente dei compiti e i limiti dello Stato in economia (vedi n. 48). Ricordare allo Stato il rispetto del principio di sussidiarietà non vuol dire estrometterlo dall'ambito economico, come affermano i sostenitori di un mercato senza regole. Lo Stato deve "sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico", deve “assecondare l'attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi", deve "intervenire quando si creino situazioni di monopolio che creino remore o ostacoli per lo sviluppo". Inoltre lo Stato può svolgere "funzioni di supplenza in situazioni eccezionali quando settori o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione sono inadeguati al loro compito". Quando ciò avviene, tuttavia, lo Stato deve intervenire solo per evidenti ragioni di salvaguardia del bene comune , limitatamente nel tempo, per non sottrarre stabilmente a quei settori d'impresa le competenze loro proprie e per non dilatare eccessivamente l'ambito dell'intervento statale a danno della libertà economica e civile. Come si vede, gli orientamenti della Centesimus annus circa l'intervento dello Stato in economia sono improntati chiaramente al principio di sussidiarietà. Lo Stato deve sostenere, aiutare, creare un quadro giuridico in cui l'attività economica si possa esplicare in sicurezza, vegliare sul rispetto dei diritti umani e del bene comune. Può anche intervenire direttamente, ma solo con interventi di supplenza, temporanei e con l'intento di ricostruire le possibilità perché le aziende facciano da sé. Il principio di sussidiarietà è quindi contrario sia allo statalismo sia al liberalismo selvaggio, perché il primo non tiene conto della sussidiarietà e il secondo della solidarietà e del bene comune. La situazione dell'Italia, ma anche di altri Stati dell'Occidente e dell'Oriente europeo è tale da esigere in questo momento un ripensamento della presenza dello Stato in economia. Secondo il principio di sussidiarietà la risposta non può essere quella della privatizzazione ad ogni costo e in ogni caso. La sussidiarietà richiede che lo Stato si ritiri dalle attività economiche che non gli competono, ma la solidarietà richiede che lo Stato mantenga in proprio le attività economiche e la fornitura di servizi che sono definibili come "strategici", ossia di fondamentale importanza per la giustizia e l'equità sociale. Inoltre è evidente che lo Stato non dovrà vendere aziende che funzionano economicamente bene, né dovrà vendere ad ogni prezzo e a chiunque, con il rischio di creare situazioni di monopolio o di strapotere privato. Sarà difficile realizzare il grande compito di nazionalizzazione dello Stato assistenziale in economia senza l'ausilio della luce che viene dal principio di sussidiarietà. Infine il principio di sussidiarietà richiede che si operi affinché si concretizzi una reale democrazia economica, l'accesso alla proprietà e alla produzione della ricchezza sia aperto a tutti, si potenzi un'economia in cui accanto ai gruppi privati e allo Stato ci sia anche un terzo elemento, quello della società civile, perché l'economia di cooperazione di solidarietà sociale abbia un suo ruolo rilevante, protetto e sostenuto dalla legge. 6. ASPETTI POLITICI Sussidiarietà e democrazia. L'applicazione dei principio di sussidiarietà è indispensabile per realizzare una democrazia compiuta, cioè né solo formale né appiattente le persone e i gruppi dall'alto. Non solo formale, perché le libertà bisogna non solo prevederle giuridicamente, ma anche permetterle e favorirle praticamente. La libertà della persona ha bisogno, per esercitarsi, di attivarsi nella famiglia e in molteplici gruppi e associazioni vicine alla situazione di vita della persona (i cosiddetti mondi vitali). Viceversa, la libertà sarebbe astratta; deve essere libertà nella famiglia e con la famiglia, con le associazioni tra famiglie, nel gruppo di volontariato, nelle associazioni di quartiere, nelle organizzazioni scolastiche o per il tempo libero, nei gruppi assistenziali o dì solidarietà ... In altri termini la libertà deve essere una libertà organica. E poi non appiattente, dicevamo, perché la democrazia non è egualitarismo piatto, uniformità grigia, irregimentazione più o meno coatta, ma è, appunto, valorizzazione degli apporti che tutti possono dare. Non è vera democrazia né quella troppo individualista né quella collettivista o statalista. E' vera democrazia quella che valorizza i corpi intermedi, le spontanee associazioni tra cittadini, quella che potenzia la società civile. Partiti e Sistema politico L'attuale crisi politica e dei partiti politici è in gran parte frutto di una mancata applicazione del principio di sussidiarietà. Infatti si è ritenuto che il luogo unico della progettualità politica fossero i partiti e il livello proprio della politica fosse quello dello Stato. Secondo il principio di sussidiarietà, invece, esistono altri luoghi di elaborazione politica diversa dai partiti. Le associazioni, la cooperazione, il volontariato, i gruppi politici locali, le circoscrizioni amministrative locali sono e devono essere considerati soggetti politici a pieno titolo, anche
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