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Guide e consigli
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Dispensa Pneumologia e Chirurgia toracica, Dispense di Pneumologia

219 pagine in PDF con immagini, tabelle e testo ricercabile.

Cosa imparerai

  • Come l'OSAS influenza la salute?
  • Quali sono le cause funzionali dell'ipossiemia?
  • Come si diagnostica l'OSAS?
  • Come si classifica l'ipossiemia?
  • Che muscoli sono operativi durante la respirazione normale?

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 04/11/2022

michela_nigro
michela_nigro 🇮🇹

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17 documenti

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Scarica Dispensa Pneumologia e Chirurgia toracica e più Dispense in PDF di Pneumologia solo su Docsity! 1 Fisiologia dell’apparato respiratorio La funzione fondamentale dell’apparato respiratorio è quella di espletare gli scambi gassosi alveolo-capillari, ovvero permettere l’ossigenazione del sangue e la sua depurazione dall’anidride carbonica. La respirazione esterna, definita anche polmonare, deve svolgersi in perfetta sintonia con la respirazione interna, o cellulare, la quale si realizza tramite le varie reazioni concatenate della glicolisi e del ciclo di Krebs, che hanno luogo nei mitocondri. Il principio fondamentale del funzionamento dell’apparato respiratorio si basa su un’intima connessione tra aria e sangue, ed è proprio dalla necessità di garantire un rapporto anatomo-funzionale estremamente intimo tra questi due compartimenti che si sviluppano l’organogenesi, l’anatomia e la fisiologia polmonare. Tutta la rete di arborizzazione aerea del polmone è fittamente circondata da un analogo sistema di ramificazione vascolare ulteriormente circondato dal rivestimento della pleura, che possiede due foglietti, parietale e viscerale. Fondamentale per un corretto funzionamento dell’apparato respiratorio è non soltanto l’intimo rapporto dinamico tra aria e sangue all’interno del polmone, ma anche la connessione che fisiologicamente si stabilisce tra i polmoni e la gabbia toracica. I movimenti della gabbia toracica fondamentali per la dinamica ventilatoria polmonare consistono di due fasi:  fase inspiratoria;  fase espiratoria. L’inspirazione è un fenomeno attivo: richiede il consumo di energia muscolare, utile all’attivazione dei muscoli inspiratori. In condizioni fisiologiche, prendono parte all’inspirazione il diaframma ed i muscoli intercostali esterni. La contrazione del diaframma causa il suo abbassamento e l’aumento del diametro longitudinale cranio-caudale della gabbia toracica, mentre quando si contraggono e si sollevano i muscoli intercostali esterni aumenta il diametro trasversale della gabbia toracica. L’espirazione, invece, è un fenomeno passivo, e la forza che la governa è una forza di ritorno elastico polmonare. Esiste fisiologicamente una naturale tendenza della gabbia toracica ad espandersi, in virtù delle forze muscolari che agiscono sui suoi costituenti, cui si contrappone la naturale tendenza del polmone a collassare su se stesso in virtù del ritorno elastico polmonare. Molte condizioni patologiche possono originare da un’alterazione di questo fisiologico meccanismo di sinergia toraco-polmonare, sinergia in cui gioca un ruolo importante anche la pleura. Muscoli respiratori inspirazione espirazione respirazione normale contrazione di:  intercostali esterni  diaframma rilasciamento di:  intercostali esterni  diaframma respirazione forzata  scaleno anteriore, medio e superiore  sternocleidomastoideo (capo sternale e clavicolare)  succlavio  elevatori delle coste  piccolo pettorale  gran pettorale  elevatore della scapola  trapezio  dentato anteriore e posteriore superiore  gran dorsale  intercostali interni  trasverso dell’addome  obliquo esterno  obliquo interno  retto dell’addome  dentato posteriore inferiore 2 In condizioni normali sono operativi solo due gruppi di muscoli inspiratori (diaframma e muscoli intercostali esterni); tutti gli altri, situati nel collo, nell’addome o nel torace, non lavorano in condizioni fisiologiche e per tale motivo sono definiti muscoli ausiliari o accessori della respirazione: quando entrano in funzione, indicano la presenza di un’alterazione dell’equilibrio fisiologico della normale respirazione. Componente ventilatoria Quando un soggetto di media corporatura effettua degli atti respiratori a riposo, in condizioni fisiologiche si verifica una mobilizzazione di volume denominato volume corrente, che è pari a 500 ml. Questo volume assicura l’adeguato espletamento degli scambi gassosi a livello alveolo-capillare. Se si volesse aggiungere al volume corrente il massimo della quantità di aria inspirabile e si facesse seguire ad un’inspirazione massimale un’espirazione massimale, si otterrebbe un’entità detta capacità vitale, che è dunque la somma di:  volume corrente;  volume di riserva inspiratoria;  volume di riserva espiratoria. La capacità vitale può ammontare, in un soggetto di corporatura normale, a circa 5 l. Anche dopo aver espirato tutta l’aria contenuta nei polmoni, rimane sempre negli stessi un quantitativo d’aria denominato volume residuo. Sommando il volume residuo alla capacità vitale, si ottiene la capacità polmonare totale, ossia la massima quantità di aria immagazzinabile nei polmoni in seguito ad un’inspirazione massimale. La spirometria consente di misurare la capacità vitale, ma non la capacità polmonare totale e il volume residuo: questo perché essa si basa sulla mobilizzazione di aria che viene soffiata attraverso un boccaglio connesso ad un tubo a sua volta collegato allo spirometro. Il volume residuo, essendo non mobilizzabile, richiede metodiche quali la pletismografia corporea. 5 Studio dei gradienti delle pressioni parziali di ossigeno e anidride carbonica L’ossigeno, a livello della barriera aria-sangue, si trasferisce dall’alveolo verso il sangue venoso, proveniente dall’arteria polmonare. L’arteria polmonare contiene sangue venoso perché origina dal ventricolo di destra, che riceve sangue dall’atrio di destra, che a sua volta riceve sangue dalle vene cave. Il vaso in questione si chiama arteria polmonare anche se contiene sangue venoso, perché nasce dal cuore: tutti i vasi che originano dal cuore si chiamano arterie, a prescindere dal tipo di sangue che contengono. Una volta che il sangue entra a contatto con la rete capillare-alveolare, cioè con gli alveoli, è essenziale che l’ossigeno passi dall’area alveolare al sangue venoso per ritrasformarlo in sangue arterioso. Per capire come funziona il gradiente alveolo-capillare dell’ossigeno, si deve fare riferimento, innanzitutto, alla pressione parziale d’ossigeno nell’aria atmosferica. A livello del mare, la percentuale dell’ossigeno è del 21%, cioè rappresenta un quinto della miscela gassosa respirata. La pressione totale esercitata dai gas nella miscela gassosa d’aria respirata consta di 1 atm, corrispondente a 760 mmHg, che si convertono, per comodità di calcolo, in 750 mmHg. Per capire qual è la pressione parziale d’ossigeno dell’aria bisogna dividere 750 per 5, che corrisponde a circa 150 mmHg. Quando arriva a livello alveolare, però, la pressione parziale di ossigeno diventa di circa 100 mmHg, perché lungo il tragitto nelle vie aeree di conduzione l’aria viene umidificata, per cui vi si aggiunge la pressione parziale del vapore acqueo, che chiaramente riduce il valore della pressione parziale dell’ossigeno. Non solo, bisogna considerare, infatti, che a livello alveolare l’ossigeno viene continuamente ed avidamente captato dal sangue venoso, deve riossigenarsi e diventare arterioso. Questo è il motivo per cui la pressione parziale alveolare dell’ossigeno è di 100 mmHg. Viceversa, a livello del versante venoso del capillare polmonare, questa pressione parziale di ossigeno è di 40 mmHg, perché l’ossigeno è stato ceduto ai tessuti per soddisfare le esigenze della respirazione cellulare interna o mitocondriale, che si articola attraverso le complesse catene di reazioni della glicolisi aerobia e del ciclo di Krebs, che consumano ossigeno e producono anidride carbonica; questo è il motivo per cui il sangue venoso contiene una bassa pressione parziale di ossigeno. Il gradiente alveolo-capillare dell’ossigeno è di 60 mmHg, ossia 100 meno 40 mmHg. È questo gradiente che spinge l’ossigeno dall’alveolo verso il sangue venoso: questo scambio gassoso finirà quando la pressione parziale d’ossigeno a livello del sangue capillare diventerà di 100 mmHg, cioè quando il valore della pressione parziale dell’ossigeno a livello venoso (di 40 mmHg) si eguaglierà al valore di pressione parziale di ossigeno che vige a livello alveolare (di 100 mmHg). Per realizzarsi questo equilibrio tra le due pressioni parziali di ossigeno a livello alveolare e a livello del sangue capillare, che a questo punto lascia i polmoni, è necessario, in condizioni fisiologiche e a riposo, un tempo di circa 0,25 secondi. Il tempo di contatto tra l’area alveolare e il sangue capillare è, invece, di ben 0,75 secondi. È come, quindi, se l’organismo mettesse a disposizione 75 secondi, cioè ben 3 volte il tempo che serve per effettuare lo scambio gassoso di 25 secondi, e lo fa per garantire un fenomeno che prenda luogo nella maniera più veloce ed efficace possibile, con una notevole riserva funzionale, che è molto importante, per esempio, in caso di attività fisica. 6 Normalmente il valore della ventilazione polmonare per minuto in condizioni fisiologiche è di 5 l. La ventilazione polmonare è il prodotto della frequenza respiratoria per il volume corrente meno lo spazio morto respiratorio. Quindi la ventilazione polmonare, in condizioni di sforzo, può aumentare con l’aumento della frequenza respiratoria, che a riposo è di 15 atti respiratori/min, ma durante lo sforzo fisico può arrivare a 25-30-35-40 atti respiratori/min. Per aumentare la ventilazione, oltre ad incrementare la frequenza respiratoria, un altro fattore del prodotto che aumenta è il volume corrente, che normalmente è 500 ml e durante lo sforzo fisico può diventare massimo di 1,5-2 l. Durante lo sforzo fisico, oltre ad aumentare la ventilazione, aumenta anche la perfusione, per bilanciare la ventilazione, con un aumento della gittata cardiaca. La gittata cardiaca è il prodotto tra la frequenza cardiaca e la gittata sistolica. Quindi la frequenza cardiaca, da 70-80 battiti/min, può arrivare a 150-200 battiti/min e la gittata sistolica può incrementarsi da 70 ml fino a 150 ml per mantenere un rapporto ventilazione/perfusione che in condizioni ideali dovrebbe essere uguale a 1, mentre in condizioni reali è uguale a 0,8. Se si fa uno sforzo fisico, chiaramente, aumenta la velocità del sangue, perché arriva più sangue nell’unità di tempo alla circolazione capillare- alveolare, per cui se aumenta la velocità del sangue, si riduce il tempo di contatto. Ciononostante, l’atleta non va in ipossiemia, ma andrebbe in ipossiemia se questo trasferimento dall’alveolo al sangue avvenisse nel tempo limite, cioè se a riposo lo scambio dell’ossigeno impiegasse 0,75 secondi. Questo non succede grazie alla presenza della riserva funzionale, per cui l’atleta va incontro ad un aumento della velocità del sangue circolante e ad una riduzione del tempo di contatto aria-sangue, cioè ossigeno-sangue, e, nonostante questo, l’ampia riserva funzionale temporale su cui può contare lo scambio gassoso (di 0,75 secondi) non dà luogo a fenomeni di ipossiemia. Per quanto riguarda il gradiente dell’anidride carbonica, a livello del sangue questa pressione parziale è alta, perché la respirazione cellulare interna mitocondriale non solo consuma ossigeno, ma produce anche anidride carbonica, dando luogo ad una pressione parziale di 40-45 mmHg, che a livello alveolare è di 40 mmHg. Il gradiente alveolo-capillare dell’anidride carbonica è di 5-6 mmHg, mentre quello dell’ossigeno è di 60 mmHg. Questa differenza si spiega nel seguente modo: attraverso la barriera aria-sangue, il trasferimento dell’ossigeno e dell’anidride carbonica consiste in uno stesso percorso, ma con direzione inversa. Il gradiente dell’anidride carbonica è molto più basso di quello dell’ossigeno, perché l’anidride carbonica ha, rispetto ad esso, una diffusibilità di circa 20 volte superiore. L’anidride carbonica ha un peso molecolare maggiore dell’ossigeno, per la presenza dell’atomo di carbonio (CO2), eppure si muove più velocemente. In questo caso, la cosa si spiega con il fatto che l’anidride carbonica è più diffusibile attraverso la barriera aria-sangue: questa, infatti, è costituita dagli pneumociti alveolari e dalle cellule endoteliali vascolari, tutte cellule che sono rivestite da una membrana con doppio strato fosfolipidico, attraverso cui passa più facilmente l’anidride carbonica per il fatto di possedere quell’atomo di carbonio che le consente di transitare molto più agevolmente attraverso il bilayer. Una volta, invece, che nel sangue arriva l’ossigeno, è quest’ultimo ad essere molto più diffusibile, in quanto è idrosolubile e può sciogliersi nel sangue stesso. Emoglobina e ossigeno – studio della curva di dissociazione In realtà l’ossigeno rimane fisicamente disciolto nel sangue solamente in piccola quantità perché, in quantità molto maggiore, va a legarsi all’emoglobina, che ne fa da veicolo. L’emoglobina deve avere una sufficiente affinità ed avidità per l’ossigeno, in modo da captarlo e legarlo a livello del sangue alveolare, ma deve anche avere la capacità di cederlo a livello periferico (tissutale). L’emoglobina, dunque, riesce a svolgere perfettamente il suo lavoro in quanto la curva della sua dissociazione dall’ossigeno è caratterizzata da una forma definita sigmoide o a esse italica. 7 Partendo dall’alto vi è un plateau, con poi un brusco pendio al di sotto di certi valori. Andando per gradi, la curva di dissociazione dell’ossiemoglobina è espressa da una rappresentazione grafica sotto forma di assi cartesiani, in cui sulle ascisse è rappresentata la pressione parziale dell’ossigeno e sulle ordinate la percentuale di saturazione dell’emoglobina. Si è detto che quando le pressioni parziali di ossigeno nel sangue si equilibrano, si bilanciano perfettamente fra aria alveolare e sangue capillare, e la pressione parziale dell’ossigeno nel sangue ormai diventato arterioso è di 100 mmHg. Quindi, se si parte da 100 mmHg di pressione parziale di ossigeno, si avrà una saturazione ossiemoglobinica del 97-98-99%. Non sarà mai del 100%, in quanto c’è una fisiologica quota di shunt, quel sangue che proviene dal circolo bronchiale e in parte dal circolo coronarico che non si ossigena perché bypassa la circolazione polmonare. Se la pressione parziale di ossigeno scende a 90 mmHg, la saturazione ossiemoglobinica sarà sempre la stessa, del 97-98%. Se scende a 85-80 mmHg, la saturazione percentuale dell’emoglobina sarà sempre uguale, 97-98%. Bisogna arrivare addirittura a 60 mmHg per avere una saturazione ossiemoglobinica del 90%, ed è questo il limite critico che definisce la soglia dell’insufficienza respiratoria. 10 Il test è molto sensibile, ma poco specifico, in quanto l’iperreattività bronchiale può essere presente anche in soggetti con bronchite cronica, obesità, rinite allergica, ecc. e la differenza dai soggetti sani è solo quantitativa. Pertanto il test ha uno scarso potere predittivo positivo per la diagnosi di asma in soggetti senza storia clinica, ma un buon potere predittivo negativo per l’esclusione di asma in presenza di sintomi suggestivi. Fra gli stimoli indiretti, i più utilizzati sono l’esercizio fisico, l’aria secca e le soluzioni iperosmolari. La risposta viene definita positiva quando il FEV1 si riduce oltre il 10% del valore di base. Questi test hanno scarsa sensibilità, ma assoluta specificità, in quanto non causano alcuna risposta nei soggetti non asmatici. Misura della capacità di diffusione La capacità di diffusione polmonare può essere misurata sia con un singolo respiro, sia con respiri multipli (4 minuti) di una miscela contenente basse concentrazioni di CO (DLCO). Il metodo del respiro singolo è di prima scelta sia per scopi clinici che per lo screening delle malattie respiratorie. Questa tecnica si basa sulla misura della quantità di CO trasferita dagli alveoli al sangue durante un’apnea inspiratoria secondo la legge di Fick: 𝑉𝑔𝑎𝑠 = 𝐴 × 𝐷 𝑇 (𝑃1 − 𝑃2) La manovra consiste nel fare espirare il soggetto in esame lentamente fino a VR e, quindi, fargli inalare, con un’inspirazione di 2-4 s fino al raggiungimento di almeno il 90-94% del CPT, una miscela di gas contenente 0,3% di CO e un gas inerte, generalmente He al 10%. Terminata l’inspirazione, il soggetto trattiene il respiro per 10 s, quindi svuota i polmoni fino a VR in 4-5 s. Le concentrazioni alveolari dei gas vengono determinate nella fase dell’espirazione durante la quale raggiungono un plateau o mostrano minori variazioni. 11 Insufficienza respiratoria L’insufficienza respiratoria è una condizione caratterizzata da alterazioni delle pressioni parziali dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue arterioso. Si parla di insufficienza respiratoria quando la pressione parziale dell’ossigeno scende al di sotto di 60 mmHg, ovvero quando la saturazione ossiemoglobinica scende al di sotto del 90%. Al di sotto dei 60 mmHg inizia il pendio discendente della curva, per cui anche lievi diminuzioni della pressione parziale di ossigeno, ad esempio da 60 a 50 mmHg, causeranno brusche cadute della saturazione ossiemoglobinica. È fondamentale conoscere questi parametri: una saturazione ossiemoglobinica del 50% significa che il paziente sta morendo, che la pressione parziale dell’ossigeno sarà di 26,9 mmHg (ultimo quarto della riserva funzionale). Si definisce P50 la pressione parziale di ossigeno che corrisponde ad una saturazione ossiemoglobinica del 50% e che è pari a 27 mmHg. La P90, invece, corrisponde alla pressione parziale di ossigeno che esprime una saturazione percentuale ossiemoglobinica del 90% e che quindi sarà pari a 60 mmHg. Diagnosi La diagnosi di insufficienza respiratoria è una diagnosi clinica, ma richiede sempre la misurazione della pressione parziale dei gas nel sangue arterioso (emogasanalisi). NON richiede la spirometria, che è, invece, fondamentale per la diagnosi di insufficienza ventilatoria. Classificazione parziale – ipossiemica o di tipo 1 globale – ipossiemico-ipercapnica o di tipo 2 PaO2 < 60 mmHg PaO2 < 60 mmHg + PaCO2 > 45 mmHg in base alla modalità di comparsa in base alla rapidità di comparsa  latente (evidenziata dallo sforzo)  manifesta (presente a riposo)  acuta  cronica  riacutizzata 12 Cause funzionali di ipossiemia  Ipoventilazione alveolare, che può originare a livello del sistema nervoso centrale, a livello polmonare o della gabbia toracica. Se si riduce l’apporto di aria agli alveoli per qualsiasi causa polmonare o extrapolmonare, si verifica un’ipoventilazione alveolare;  disomogeneità del rapporto ventilazione/perfusione (spazio morto fisiologico o effetto shunt). Questa situazione si ha quando questo rapporto si discosta molto da 1, aumentando tendenzialmente fino all’infinito e riducendosi tendenzialmente fino a zero. Se il rapporto ventilazione/perfusione aumenta, alcuni autori affermano che aumenta lo spazio morto fisiologico, ma più appropriatamente si instaura una condizione di “ventilazione sprecata”, nel senso che c’è più aria rispetto al sangue che può essere ossigenato da quest’aria;  shunt artero-venosi. Si verifica la situazione opposta alla precedente: il sangue che arriva alla circolazione capillare è in quantità normale, ma manca l’aria, o questa è in quantità insufficiente per ossigenare il sangue. In tale situazione si verificherà un effetto shunt: non c’è una commistione, ma il sangue venoso, arrivato agli alveoli, non si ossigena adeguatamente, perché trova poco ossigeno e torna al cuore scarsamente ossigenato. Non c’è stata alcuna commistione, ma è come se ci fosse stata, perché il sangue ha bypassato il meccanismo dell’ossigenazione ed è rimasto poi povero di ossigeno (effetto shunt). Lo shunt vero e proprio è quello in cui, invece, si mescolano fisicamente sangue arterioso e sangue venoso, per un difetto del setto interatriale, per un difetto del setto interventricolare o per una fistola arterovenosa.  alterazioni della diffusione alveolo-capillare dovute, ad esempio, ad un ispessimento della barriera aria- sangue, che rappresenterà un ostacolo alla diffusione principalmente dell’ossigeno, visto che l’anidride carbonica, essendo molto più diffusibile, potrà comunque passare attraverso una barriera aria-sangue ispessita. Cause di ipercapnia  Ipoventilazione alveolare;  disomogeneità del rapporto ventilazione/perfusione. Mancano le altre due cause tipiche dell’ipossiemia: a. l’anidride carbonica è più diffusibile e più liposolubile per la presenza dell’atomo di carbonio, quindi non risente di un eventuale ispessimento della membrana alveolo-capillare; b. manca anche lo shunt, che è causa di ipossiemia ma non di ipercapnia, perché se si mescolano la pressione parziale dell’ossigeno nel sangue arterioso di 100 mmHg e la pressione parziale di ossigeno nel sangue venoso di 400 mmHg c’è sicuramente ipossiemia. Se si mescola, invece, la pressione parziale di anidride carbonica nel sangue arterioso (40 mmHg) con la pressione parziale di anidride carbonica del sangue venoso (46 mmHg), non succede nulla, e non si ha lo shunt come causa di ipercapnia. 15 Per leggere correttamente un’emogasanalisi, bisogna guardare come primo parametro la pressione parziale dell’ossigeno; successivamente si guarda la pressione parziale di anidride carbonica, quindi la prima risposta che bisogna darsi è alla domanda se il soggetto ha o meno insufficienza respiratoria e di quale tipo si tratta. Solo dopo aver fatto questa valutazione, bisogna verificare l’equilibrio acido-base, cioè analizzare il pH, che presenta un range di normalità tra i valori di 7,36 e 7,44. Ultimo parametro da considerare sono i bicarbonati (HCO3-), con concentrazione normale di 24 mmol/l, ma un range di valori compreso tra 22 e 26 mEq o mmol/l identifica un equilibrio acido-base nella norma. Altri importanti parametri sono l’eccesso o difetto delle basi (indicato con sigla BE), che è compreso tra -2 e +2 mmol/l e la FiO2, cioè la frazione percentuale di ossigeno presente nella miscela gassosa. Dopo aver chiarito se c’è un’insufficienza respiratoria o no, si passa a considerare se esiste o meno nel quadro emogasanalitico una situazione di acidosi o alcalosi compensata o scompensata. Equazione di Henderson-Hasselbalch Per capire bene le alterazioni dell’equilibrio acido-base all’emogasanalisi, si fa riferimento all’equazione di Henderson-Hasselbalch. Secondo quest’equazione, il pH è uguale ad una costante pK (pari a 6.1) sommata al logaritmo della concentrazione del sale in rapporto all’acido. Al posto del sale si può sostituire il bicarbonato, cioè gli ioni bicarbonato HCO3- e al posto dell’acido si può sostituire l’acido carbonico H2CO3, che poi in acqua si dissocia proprio in acqua e anidride carbonica. Se nell’equazione di Henderson-Hasselbalch “modificata in senso medico” al numeratore ci sono i bicarbonati e al denominatore l’anidride carbonica, bisogna allora considerare che il numeratore è influenzato dalla funzione polmonare e il denominatore è influenzato dall’attività renale. Acidosi respiratoria e metabolica Nell’insufficienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica aumenta la CO2. Se aumenta la CO2, aumenta il denominatore dell’equazione, di conseguenza si riduce il pH. Se si riduce il pH interviene il rene attraverso il riassorbimento dei bicarbonati. Quando aumenta la CO2 perché, per esempio, c’è un’insufficienza respiratoria causata da malattie broncopolmonari o da sedativi, da eccesso di morfina, da alterazioni muscolari o da lesioni cerebrali, si ha acidosi respiratoria e il rene aumenta il riassorbimento dei bicarbonati per compensare l’acidosi respiratoria su base ipercapnica. Quando si verifica, invece, l’acidosi metabolica perché si presenta un accumulo di corpi chetonici, come nel diabete scompensato o perché c’è un’acidosi lattica, per incremento dello sforzo fisico anaerobio, o perché c’è una perdita di bicarbonati con la diarrea, diminuisce il numeratore, e il denominatore, per compensare la riduzione del numeratore, deve diminuire anch’esso, cioè deve aumentare l’eliminazione della CO2 per compensare il pH. 16 Alcalosi respiratoria e metabolica L’alcalosi respiratoria consegue ad una riduzione primitiva della CO2 ematica → ipocapnia = PaCO2 < 35 mmHg. Per generare un’alcalosi respiratoria basta iperventilare, infatti l’iperventilazione determina ipocapnia e alcalosi respiratoria. L’iperventilazione può essere causata da:  febbre;  ansia;  lesioni cerebrali. Altre cause di alcalosi respiratoria sono:  fibrosi e interstiziopatie polmonari;  TEP. L’alcalosi respiratoria verrà corretta con una maggiore eliminazione di bicarbonati per un ridotto riassorbimento degli stessi. Può verificarsi anche un’alcalosi metabolica per un aumento di bicarbonati, per esempio per una perdita di acidi a causa di un vomito intenso o per l’uso di diuretici quali la furosemide. In questo caso, l’alcalosi metabolica potrebbe essere compensata da un aumento del denominatore dell’equazione di Henderson-Hasselbalch, cioè per una ritenzione di CO2, per un’ipoventilazione. Può verificarsi un’alcalosi respiratoria, per esempio, in caso di embolia polmonare: nell’embolia polmonare si verifica innanzitutto una disomogeneità del rapporto ventilazione/perfusione, determinata da un effetto di ventilazione sprecata, e nello specifico, l’aumento del rapporto ventilazione/perfusione causa ipossiemia. 17 L’ipossiemia innesca quel meccanismo di compenso mediato dall’attivazione dei chemocettori aortici e carotidei e genera iperventilazione. L’iperventilazione non correggerà l’ipossiemia, ma farà eliminare più CO2, e innescherà un’alcalosi respiratoria scompensata se non ci sarà il compenso renale, compensata se questo ci sarà. Quindi l’alcalosi respiratoria consegue ad una diminuzione della CO2 ematica, ossia ad una condizione di ipocapnia, e ciò richiede un aumento della ventilazione, soprattutto nel caso della tromboembolia polmonare, ma anche nelle interstiziopatie. Nella fibrosi polmonare, infatti, si ha un iniziale quadro emogasanalitico di alcalosi respiratoria. L’alcalosi respiratoria, dunque, è compensata quando diminuisce il riassorbimento dei bicarbonati, non compensata se i bicarbonati rimangono normali. Ovviamente, l’alcalosi metabolica rimane con un pH aumentato se l’aumento dei bicarbonati non è compensato da un bilanciamento della ventilazione. Se si riduce, invece, la ventilazione, allora l’anidride carbonica trattenuta compensa il pH alcalino. Ossigenoterapia Si basa sulla somministrazione di ossigeno, che ha i seguenti scopi:  diminuzione del lavoro respiratorio;  decremento della tensione alveolare di ossigeno;  prevenzione dell’ipossia tissutale. Si può effettuare con delle cannule nasali, che rientrano nei sistemi a basso flusso, che non aumentano di molto la FiO2, o con la maschera di Venturi. Quest’ultima permette di effettuare una fine regolazione della FiO2 per la correzione della pO2. Si tende a mantenere la pO2 a 63-64 mmHg, senza arrivare mai a 80-90 mmHg, perché non conviene abolire completamente lo stimolo ipossiemico, che rappresenta sempre un vantaggioso drive di input per l’attività ventilatoria. devices per somministrazione di ossigenoterapia sistemi a basso flusso sistemi ad alto flusso  cannule nasali  maschere semplici  cateteri transtracheali  maschere Venturi  maschere reservoir  maschere tracheali (Venturi)  humidified high flow nasal cannula (HFNC) Da qualche anno sono disponibili dei sistemi molto elaborati di ossigenoterapia umidificata ad alti flussi, che possono garantire addirittura una FiO2 del 100%, cioè determinare una respirazione a base di una miscela d’aria che comprende soltanto ossigeno al 100%, senza azoto. 20 OSAS: sinonimi  OSAS – OSA – SAS;  sindrome delle apnee ostruttive notturne;  sindrome delle apnee notturne;  sindrome delle apnee nel sonno;  apnee morfeiche;  sindrome di Pickwick roncopatia. Epidemiologia L’OSAS, presente nel 4% degli uomini e nel 2% delle donne in Europa, è il più comune disturbo organico del sonno e causa eccessiva sonnolenza diurna. L’OSAS è un fattore di rischio per ipertensione, malattia coronarica e scompenso cardiaco, e svolge un ruolo nella morte improvvisa cardiovascolare. Il rischio di malattia cerebrovascolare è più elevato nei pazienti con grave OSAS rispetto alla popolazione generale. Diagnosi clinica  Raccolta dei dati anamnestici;  esame obiettivo generale;  valutazione della funzione cardiorespiratoria;  valutazione del grado di sonnolenza → monitoraggio cardiorespiratorio notturno. I termini polisonnografia e monitoraggio del sonno sono spesso usati come sinonimi, ma si riferiscono, in realtà, a due esami differenti:  la polisonnografia si avvale del tracciato elettroencefalografico per valutare le fasi del sonno (REM o non- REM), durante le quali si verificano i risvegli (più frequenti in fase REM);  il monitoraggio cardiorespiratorio completo non si avvale dell’EEG, per cui non individua in che fase sono presenti le apnee e non valuta i microrisvegli (arousal). È comunque utile alla diagnosi. La diagnosi dell’OSAS non può prescindere, comunque, da una valutazione strumentale per l’intera durata della notte. Prima di avviare un paziente con sospetta OSAS al percorso diagnostico strumentale, devono essere ricercati i seguenti sintomi: sintomi notturni sintomi diurni  russamento intenso  sonno non riposante  apnee riferite dal partner  ripetuti risvegli con sensazione di soffocamento (choking)  nicturia  eccessiva sonnolenza diurna  cefalea mattutina  astenia  riduzione della memoria  difficoltà di concentrazione  rallentamento dei tempi di reazione  decadimento delle funzioni psicocognitive  depressione, irritabilità  disfunzione erettile, riduzione della libido Per valutare il grado di sonnolenza diurna, ci si avvale solitamente della Epworth Sleepiness Scale. Che probabilità ha di appisolarsi o di addormentarsi nelle seguenti situazioni, indipendentemente dalla sensazione di stanchezza? 0 = non mi addormento mai; 1 = ho qualche probabilità di addormentarmi; 2 = ho una discreta probabilità di addormentarmi; 3 = ho un’alta probabilità di addormentarmi. 21 Situazioni  Seduto mentre leggo;  guardando la TV;  seduto, inattivo in un luogo pubblico (a teatro, ad una conferenza);  passeggero in automobile, per un’ora senza sosta;  sdraiato per riposare nel pomeriggio, quando ne ho l’occasione;  seduto mentre parlo con qualcuno;  seduto tranquillamente dopo pranzo, senza avere bevuto alcolici;  in automobile, fermo per pochi minuti nel traffico. Risultato. Se il punteggio è superiore a 10, è indicativo di sonnolenza diurna eccessiva. Tra i segni da valutare c’è il BMI (patologico se > 29), la circonferenza del collo (patologica se > 43 cm nell’uomo e > 41 cm nella donna: il grasso va ad ostruire le vie aeree e a rendere flaccide le pareti del collo). A questa lassità di parete si aggiunge l’ipotono dei muscoli dilatatori delle alte vie aeree e, in decubito supino, si può avere il collabimento delle pareti. Il russamento si ha quando queste pareti (del palato molle in particolare) vengono messe in vibrazione, fattore che contribuisce al collabimento delle vie aeree e quindi causa ipopnea o apnea per riduzione del calibro. Le condizioni che predispongono all’ostruzione delle alte vie aeree sono:  deviazione del setto nasale;  ipertrofia dei turbinati;  ipertrofia delle tonsille, delle adenoidi (soprattutto nei bambini, generalmente si risolve con un’adenotonsillectomia);  retrognazia;  altre conformazioni craniofacciali o orofaringee che possono predisporre al collabimento delle vie aeree. È utile, dunque, sottoporre il paziente ad una valutazione otorinolaringoiatrica e/o maxillo-facciale. È spesso utilizzata la scala di Mallampati per la valutazione dell’ostruzione faringea in condizioni basali di veglia. I soggetti che appartengono alle classi III e IV andranno più facilmente incontro al collabimento delle pareti faringee durante il sonno. La diagnosi finale, ottenuta in seguito agli esami strumentali, si basa sui seguenti segni:  russamento abituale e persistente da solo o con altri sintomi o segni;  almeno due degli altri sintomi, diversi dal russamento abituale e persistente (pause respiratorie + risvegli con soffocamento o pause respiratorie + sonnolenza diurna o risvegli con soffocamento + sonnolenza diurna);  presenza di un sintomo diverso dal russamento abituale e persistente + almeno due segni;  presenza di un sintomo diverso dal russamento abituale e persistente + almeno un segno in soggetti in cui il russamento non è accertabile (il paziente dorme solo). 22 Diagnosi strumentale Innanzitutto si applica un saturimetro al dito per capire se ci sono desaturazioni legate o meno agli eventi respiratori: le desaturazioni legate all’evento sono dette fasiche, mentre quelle non legate all’evento sono le desaturazioni toniche; poi si valutano i movimenti toracici e addominali con delle fasce, per stabilire se l’apnea è ostruttiva o centrale. Per il flusso aereo, si usano o le cannule nasali o il termistore (per il flusso orale). Queste tre sono le misurazioni dalle quali non si può prescindere, cui eventualmente si aggiungono le valutazioni tipiche della polisonnografia. La polisonnografia (PSG) è il monitoraggio di molteplici parametri fisiologici nel sonno, e rappresenta l’attuale gold standard diagnostico per lo studio e la classificazione dei disturbi del sonno, in particolare per la sindrome delle apnee notturne. La PSG implica una notte di sonno in laboratorio o al proprio domicilio, durante la quale sono registrati diversi segnali neurofisiologici e cardiorespiratori:  movimenti oculari rapidi;  elettroencefalogramma, per valutare le fasi del sonno ed i risvegli;  il movimento di torace e addome, per la dinamica respiratoria;  l’elettrocardiogramma;  l’elettromiogramma degli arti inferiori e del massetere;  l’ossimetria;  il flusso aereo oronasale (termistore o cannula). Monitor del sonno portatili vengono utilizzati negli ospedali, nei centri del sonno o a domicilio. Mentre la saturimetria notturna valuta solo la saturazione durante la notte, il monitoraggio o la polisonnografia valutano la presenza di eventi respiratori associati a desaturazione (o le desaturazioni anche senza eventi). Nella PSG diagnostica vengono valutati… indici respiratori indici neurologici indici cardiaci  numero, tipo e durata delle apnee  andamento della SaO2;  durata ed intensità del russamento;  rapporto tra AHI (apnea– hypopnea index) e posizione del corpo  efficienza del sonno e profilo ipnico  relazione tra AHI e fasi del sonno  numero e tipo di risvegli  numero di movimenti periodici delle gambe  frequenza cardiaca ed aritmie  monitoraggio della pressione arteriosa Per non sottostimare gli eventi, il paziente deve aver mantenuto una posizione supina per almeno il 40-50% del tempo della misurazione. L’indice AHI (indice di apnea/ipopnea per ora di sonno):  è normale se < 5;  svela un’OSAS di grado lieve se compreso tra 5 e 15;  svela un’OSAS di grado moderato se compreso tra 15 e 30;  svela un’OSAS di grado severo se > 30. Dunque, per dire che c’è un’OSAS, devono essere presenti gli eventi, che devono essere di tipo ostruttivo, e ne si deve definire l’entità mediante l’indice AHI. Dopo di ciò, si valuta se questi eventi si associano a desaturazione, di cui vanno definite l’entità e la frequenza. 25 L’OSAS può determinare anche ipertensione arteriosa polmonare, oltre che sistemica: normalmente, il circolo polmonare è ad alta capacitanza ma a bassa pressione, perché mantiene basse le resistenze ma, se c’è una desaturazione, si avrà inizialmente una vasocostrizione ipossica e poi un rimodellamento dei vasi. Ciò, in cronico, porterà ad un cuore polmonare, uno sfiancamento delle sezioni destre del cuore che devono pompare contro una pressione che si è elevata. OSAS e asma  Riflessi neuromeccanici: l’aumentato tono vagale indotto dagli episodi apnoici può rappresentare un trigger per l’asma notturno; l’ipossia può aumentare l’iperreattività bronchiale; la stimolazione meccanica e la flogosi delle alte vie aeree indotte dall’OSAS possono stimolare riflessi broncocostrittori. L’aumentata pressione negativa intratoracica sviluppatasi durante le apnee può aumentare il volume ematico capillare polmonare, con riduzione dei volumi polmonari e peggioramento della broncocostrizione notturna e dell’asma notturno;  reflusso gastroesofageo (GER): i pazienti con OSAS hanno aumentata prevalenza di GER. Il reflusso acido durante il sonno rappresenta un trigger per broncocostrizione ed asma notturno, sia tramite i riflessi vagali indotti dalla presenza di materiale gastrico in esofago, sia tramite episodi di microaspirazione di materiale gastrico;  aumento ponderale: l’OSAS induce insulinoresistenza e può determinare aumento ponderale anche attraverso la sonnolenza e la riduzione dell’attività fisica. L’obesità, di per sé, rappresenta un fattore di rischio per l’asma e contribuisce a peggiorarne il controllo. Obesità ed OSAS determinano aumento della leptina, con azione proinfiammatoria;  infiammazione locale e sistemica: è causata dai ripetuti traumi meccanici a carico della mucosa delle alte vie aeree e dallo stress ossidativo sistemico indotto anche dalle desaturazioni, con rilascio locale e sistemico di citochine e mediatori proinfiammatori. L’OSAS determina l’aumento di leptina, VEGF, CRP, TNF-α, NO esalato, neutrofilia dell’espettorato, Cys-LTR, IL-6, pentano, bradichinine, VIP, ecc.;  l’infiammazione cronica indotta da asma e rinite a livello della mucosa delle vie aeree può determinare una riduzione dei diametri delle alte vie aeree e aumentare la loro collassabilità;  gli episodi broncostruttivi possono indurre una riduzione dei diametri inspiratori ed espiratori delle vie aeree superiori;  la deprivazione e frammentazione del sonno esacerbata dai sintomi asmatici e rinitici può aumentare la collassabilità delle alte vie aeree;  terapie steroidee, soprattutto sistemiche, possono determinare un aumento della collassabilità ed una riduzione dei diametri a livello faringeo. 26 Con l’apnea, inoltre, si verifica uno sforzo inspiratorio, aumenta la depressione intrapleurica, il richiamo di sangue venoso alle sezioni destre del cuore e si avrà una dilatazione dell’atrio di destra, con aumento del peptide natriuretico atriale e nicturia. Questo aumento di sangue nelle sezioni di destra associato al possibile sfiancamento dovuto ad ipertensione polmonare sposta il setto interventricolare verso sinistra e quindi porta a un ridotto riempimento telediastolico a sinistra. Le sezioni sinistre, oltre a riempirsi di meno, devono pompare contro un’aumentata pressione sistemica e quindi si avrà una bassa gittata, il cuore diventerà ipertrofico e si slatentizzerà la presenza di placche aterosclerotiche nel circolo coronarico (infarto) o nel circolo cerebrale (ictus). La depressione intrapleurica aumenta, inoltre, il reflusso gastroesofageo, che può fare aumentare il broncospasmo, per esempio nei soggetti con asma. L’ipertono simpatico, aumentando la frequenza cardiaca, può slatentizzare delle aritmie (che possono anche essere mortali durante il sonno), portare ad ipertensione sistemica e ad aumento del rischio cardiovascolare. 27 La destrutturazione del sonno creerà un’alterazione del ritmo circadiano e quindi una ridotta produzione di ormoni, di testosterone in particolare, con disfunzione erettile, oppure può portare, nella donna, allo sviluppo di ovaio policistico. I soggetti affetti da OSAS presentano un aumento della mortalità per cause cardiache durante le ore comprese tra le 24 e le 5 del mattino. Terapia  Ventilazione meccanica;  misure comportamentali;  apparecchi ortodontici;  terapia chirurgica;  terapia farmacologica? La terapia principale si fa con il C-PAP, ventilatore a pressione continua, per mantenere pervie le vie aeree. Per capire a quale pressione settare l’apparecchio, bisogna vedere a quale pressione vengono corretti gli eventi, quindi va fatta una titolazione con l’auto C-PAP: prima si impostano una pressione minima e una massima e, una volta in funzione l’apparecchio, in base alle resistenze che incontra, questo manda una pressione. Si scaricano i dati dopo quattro giorni vedendo qual è la pressione al 90° percentile, ossia quale pressione ha risolto i problemi per la maggior parte del tempo e di quanto si è abbassato l’indice AHI e si applica il ventilatore normale (C-PAP) a quella pressione. Con l’auto C-PAP, in pratica, c’è una variabilità di pressione che non risolve lo stato infiammatorio e lo stress ossidativo; esso risolve gli eventi respiratori ma non diminuisce il rischio cardiovascolare, quindi non può essere utilizzato continuativamente. 30 Eziopatogenesi e classificazioni dell’asma L’asma non è una malattia ereditaria, perché non viene trasmessa secondo le leggi di Mendel e non è relativamente rara (es. fibrosi cistica, con una frequenza di circa 1/5000 nati); per definizione, le malattie ereditarie che si trasmettono con le leggi di Mendel interessano un locus genico che poi determina lo stato di portatore o malato, a seconda delle sue modalità di trasmissione, ma è un’alterazione monogenica e assolutamente indipendente dai fattori ambientali, che sono del tutto ininfluenti sul fenotipo. Nelle malattie familiari, invece, come l’asma, è assolutamente necessaria l’interazione tra predisposizione genetica e ambiente per avere un determinato fenotipo. La dimostrazione che l’asma non è una malattia ereditaria dipende dal fatto che la trasmissione non è legata ad un singolo gene, ma in realtà tutti i cromosomi presentano loci in cui sono stati individuati geni che potenzialmente possono indurre la comparsa dell’asma se si entra in contatto con fattori ambientali. Il braccio lungo del cromosoma 5, che presenta un raggruppamento di loci genici riferiti al cluster di geni che codifica per le citochine Th2 linfocitarie, sicuramente rappresenta una zona del genoma hot più di altre, però l’asma è una malattia poligenica, in cui non è un singolo gene, un singolo locus, a conferire la suscettibilità individuale, ma piuttosto una costellazione, un mosaico di polimorfismi genici che deve configurarsi nell’individuo e che viene acquisito da parenti nel suo albero genealogico (ma sicuramente non segue le leggi di Mendel). Il concetto di fenotipi dell’asma lo aveva compreso già nel 1860 Henry Hyde Salter, che identificò un criterio di classificazione fenotipica dell’asma che è valido ancora oggi: propose, infatti, una classificazione in asma estrinseco ed asma intrinseco, basata sulla natura e sul meccanismo apparente di vari stimoli (es. pelo di animale) che inducevano broncospasmo. Oggi, in realtà, si usa parlare più di asma allergico e non allergico, ma il concetto di fondo è lo stesso. Più recentemente, il concetto di fenotipo è stato integrato con quello di endotipo, che è sostanzialmente l’insieme dei meccanismi biologici e biopatogenetici che sono alla base dell’espressione di quel determinato fenotipo, mentre il fenotipo è l’interazione tra genoma ed esposoma. In epoca moderna, la più autorevole studiosa del rapporto endotipo/fenotipo nell’asma è la dottoressa Selly Wenzel dell’università di Pietersburg in Pennsylvania. L’epoca moderna dell’asma è stata inaugurata con questi schemi che ne riguardano la fenotipizzazione in età pediatrica e in età adulta: in realtà, comunque, in entrambe è valida la distinzione in asma allergico e asma adulto, perché la dottoressa pone un’orbita allergica sia nell’asma pediatrico che in quello adulto. Si ha l’asma allergico, mentre tutto ciò che non è allergico rientra nell’asma non allergico: ciò che cambia è la dimensione della galassia, che è più grande nell’asma del bambino piuttosto che in quella dell’adulto, e ciò è confermato da notissime osservazioni epidemiologiche che dimostrano come nell’asma del bambino/adolescente l’allergia è frequentissima, mentre nell’asma dell’adulto è meno frequente. 31 Se si vuole entrare veramente nell’endotipizzazione dell’asma, si deve conoscere bene l’insieme dei network cellulari e molecolari che sono alla base dello sviluppo e della progressione della malattia: non vi è dubbio che in questo contesto conoscere i meccanismi infiammatori è fondamentale, tant’è che i più moderni tentativi di endotipizzazione si basano sulla caratterizzazione dei differenti endotipi infiammatori. In questo contesto, sono stati individuati quattro principali profili endotipici dell’infiammazione: esiste un profilo molto importante di flogosi asmatica che è l’infiammazione eosinofila, da cui comunque parte una distinzione in asma eosinofilo allergico e asma eosinofilo non allergico; poi esiste l’asma misto eosinofilo e neutrofilo, in cui i due pattern flogistici coesistono; il profilo neutrofilo, raro; l’asma paucigranulocitico (poche cellule infiammatorie): questo quadrante può dipendere da fattori non infiammatori, ed è dunque per questo che si afferma che non sempre, ma solo spesso l’asma ha base infiammatoria. Per quanto riguarda l’asma eosinofilo, non vi è dubbio che il tipo allergico sia fondamentale, soprattutto nel bambino, nell’adolescente e in qualche adulto, ma sicuramente in moltissimi bambini l’asma è eosinofilo allergico. Si sviluppa in virtù di una suscettibilità individuale a sviluppare allergia, una suscettibilità che, se non esistesse, non porterebbe né ad allergia né ad asma allergico. La differenza tra chi è allergico e chi non lo è sta nel fatto che i non allergici possono esporsi ad allergeni inalatori senza che succeda niente, perché gli allergeni – stagionali o perenni – diventano patogeni solo per chi ha una suscettibilità individuale. Nell’asmatico allergico, la sua predisposizione individuale si estrinseca anche per la presenza di una fragilità dell’epitelio bronchiale di rivestimento, che in condizioni normali è, invece, una barriera molto efficiente a sostanze e ad agenti patogeni. Nel contesto, dunque, di una tendenza al danno epiteliale bronchiale, l’allergene provoca un danno, in quanto dotato di intrinseche attività proteolitiche che causano un ulteriore danno alla continuità dell’epitelio bronchiale. Gli allergeni sono in grado di interagire con specifici recettori dell’immunità innata, tra cui i TLR: questa interazione accende delle spie d’allarme, che nel caso del danno epiteliale sono le allarmine, citochine innate (si attivano in particolare la linfopoietina stromale timica, IL-25, IL-33). Queste citochine innate, soprattutto l’LST, inducono le cellule dendritiche ad un processo di maturazione che le porterà ad attivare una risposta immunitaria adattativa acquisita di natura Th2-linfocitaria, per cui si comprende come ci sia una stretta relazione tra meccanismi dell’immunità innata e meccanismi della risposta adattativa. Se il soggetto è allergico, si ha la maturazione di queste cellule in un contesto citochinico e chemochinico adeguato che porta alla estroflessione di lunghi prolungamenti citoplasmatici che si insinuano tra le cellule epiteliali bronchiali e vanno a captare gli allergeni sulla superficie. L’allergene viene inglobato, internalizzato nel citoplasma, le cellule dendritiche lo elaborano, ne inducono una degradazione proteolitica (catepsina) e lo presentano sulla membrana cellulare. Con questo allergene modificato esposto sulla membrana cellulare, nel contesto delle molecole dell’MHC II, queste cellule migrano verso i linfonodi toraco-mediastinici, presentano questi antigeni ai linfociti T naïve (indifferenziati) che interagiscono mediante il TCR e, in funzione di questa interazione, che il professor Steven Paulgate dell’università di Southampton ha definito sinapsi immunologica, i linfociti si differenziano in linfociti Th2, che in realtà hanno almeno un duplice destino: in gran parte vengono richiamati da fattori chemiotattici rilasciati dall’epitelio bronchiale a livello delle vie aeree, mentre in piccola parte viaggiano anche verso le aree B-dipendenti dei follicoli linfatici del tessuto linfatico presente anche a livello della mucosa bronchiale, dove si costituiscono altre sinapsi immunologiche tra Th2 e linfociti B che producono Ab. Questi anticorpi, nei non allergici, appartengono soprattutto alle classi IgM e IgG, utili per la difesa dalle infezioni successive, mentre nei soggetti allergici si verifica uno shift nella produzione di anticorpi verso una sintesi prevalente di IgE, gli Ab dell’allergia: questo fenomeno è detto anche atopia (che è, appunto, una produzione abnorme e fuori luogo di anticorpi IgE). Anche questa sinapsi ha bisogno di molecole che la favoriscano, dell’MHC e del TCR e BCR, ma ha bisogno di due citochine, IL-4 e, in parte, IL-13, prodotte dai Th2, che sono responsabili dello switch isotipico, cioè del passaggio alla produzione di IgE in grandi quantità in seguito alla ricombinazione genica. Le IgE sono fondamentali sia nella fase di sensibilizzazione, sia nella fase effettrice, sia nell’immunoflogosi cronica. 32 L’IL-4 non è solo la citochina prodotta dai linfociti T, ma è anche la citochina fondamentale per indurre la maturazione, la differenziazione e l’attivazione dei linfociti Th2, ovvero la sinapsi immunologica sarebbe insufficiente se non fossero presenti grandi quantità di IL-4, prodotta dai mastociti e dai basofili. Senza IL-4 non si svilupperebbe nemmeno la sinapsi tra Th2 e B-cell naïve (nell’autoimmunità sono coinvolti i linfociti Th1 e la citochina fondamentale è l’IL-12, prodotta dalle cellule dendritiche. IL-12 attiva STAT4 e TBE; esistono anche i linfociti Th17, che servono nell’infiammazione neutrofila: la citochina fondamentale per la differenziazione di queste ultime è IL-23, prodotta dalle cellule dendritiche). Questa è la parte della sensibilizzazione allergica che si verifica al primo incontro con l’allergene, che si va a fissare sulla membrana dei mastociti e dei basofili: dal punto di vista sintomatico non ci sono segni, ma vi è solo produzione di IgE. Le IgE, tuttavia, si legano ai recettori ad alta affinità per esse per cui, al successivo incontro con l’allergene, si verifica un legame con le IgE specifiche nei suoi confronti e, a livello dei mastociti e dei basofili, si ha la fase effettrice con un cosiddetto legame a ponte tra le IgE: l’allergene o gli allergeni, mediante gli epitopi, si legano a frammenti Fab di Ab adiacenti e quindi si ha un’aggregazione. In conseguenza a ciò, si ha la degranulazione dei mastociti e dei basofili, con liberazione di mediatori come istamina ed altre sostanze, che darà la sintomatologia caratterizzata da broncospasmo, per cui il paziente inizierà a stare male. Questo è ciò che accade immediatamente, nell’arco di pochi minuti dall’esposizione, mentre a distanza di ore si ha la risposta tardiva dovuta all’infiltrazione flogistica, che si caratterizza soprattutto per l’afflusso a livello bronchiale degli eosinofili: questi maturano dai progenitori nel midollo, si attivano, sopravvivono, giungono per chemiotassi nei bronchi per azione dell’IL-5, che è una citochina Th2-linfocitaria. Le principali citochine prodotte dai Th2 sono: IL-4 e IL-13, che inducono lo switch isotipico, IL-5, che è la principale citochina pro-eosinofila, IL-9 per l’attivazione mastocitaria. Recentemente si è visto che esistono altre cellule dell’immunità innata delle ILC di tipo 2, che non esprimono né il TCR né il BCR e quindi non sono linfociti, ma cellule linfoidi perché producono citochine: IL-5, IL-13, scarsissime o nulle quantità di IL-4. Si differenziano per la produzione citochinica dai linfociti Th2, e contribuiscono con essi a produrre IL-5, che è responsabile dell’eosinofilia. Le ILC2 sono attivate dalle allarmine, per cui queste citochine dell’immunità innata sono molto potenti perché, da una parte, inducono l’attivazione delle cellule dendritiche verso gli eventi che portano all’attivazione dei Th2, quindi contribuiscono ad indurre attraverso le cellule dendritiche la risposta immunitaria adattativa acquisita Th2-dipendente, ma potenziano anche la stessa risposta immunitaria innata mediante l’attivazione diretta delle ILC2. L’asma allergico, dunque, è in realtà espressione di un insieme di processi di attivazione legati sia all’immunità innata sia all’immunità adattativa acquisita che si potenziano e si complementano reciprocamente per dar luogo alla flogosi eosinofila allergica. Tutto ciò accade nell’allergico e non nel non allergico, perché è presente il ruolo dei linfociti T e B regolatori che modulano la risposta immunitaria: chi non è allergico si può esporre a milioni di particelle allergeniche senza che accada nulla, perché è protetto da meccanismi di immunoregolazione mediati dai linfociti B e T regolatori che producono IL-10 e TGF-β, che sono responsabili del conferimento dello stato di immunotolleranza. Queste due citochine, fondamentalmente, impediscono ai linfociti B di produrre IgE e inducono la produzione di IgG4, che sono anticorpi bloccanti che competono con le IgE per gli stessi epitopi. Dunque si legheranno non le IgE, che vi sono in caso di soggetto non allergico, ma le IgG4, che sono Ab bloccanti e sostanzialmente neutralizzano gli Ag. Le citochine inducono anche la differenziazione delle cellule dendritiche che inducono tolleranza immunologica, a differenza delle allarmine, che sono proinfiammatorie. I soggetti allergici sviluppano questa complessa risposta perché è presente un deficit di Treg e Breg, e questo causa un deficit nell’immunotolleranza, a causa di alterazioni geniche. Oltre all’asma eosinofilo allergico esiste anche un asma non allergico, perché nel primo la principale sorgente di IL- 5 sono i Th2, mentre nel secondo i principali elementi produttori sono le ILC, che producono IL-5 e danno eosinofilia, ma non producono IL-4 responsabile dello switch (dunque la differenza tra Th2 e ILC sta in questo). 35 In questa forma asmatica, le cellule più importanti sono i neutrofili ma, come l'infiammazione eosinofila è coordinata da cellule linfocitarie linfoidi, così lo è anche la flogosi neutrofila: in questo caso vi saranno i linfociti Th1, ma soprattutto i Th17, così denominati perché producono le interleuchine 17 A e F, che sono delle citochine con un potente potenziale pro-neutrofilo, perché a loro volta agiscono su recettori espressi su numerose cellule strutturali e infiammatorie quali le cellule dell'epitelio bronchiale, i fibroblasti, ma anche le cellule della serie monocitario- macrofagica, inducendo la produzione di numerosi fattori chemotattici per i neutrofili tra i quali l’IL-8 → ne deriva una flogosi neutrofila importante. Anche in questa forma di asma (asma di tipo non 2) si possono trovare le ILC, in questo caso di tipo 3, che producono interleuchine 17 A e F, le quali si sommano all'interleuchina prodotta dai Th17.  Linfociti Th1: producono soprattutto TNF-α e interferon-γ;  linfociti Th2: producono IL-4, IL-5, IL-13 e IL-9;  linfociti Th17: producono IL-17 A ed F. Esistono dei casi in cui si combinano diversi pattern infiammatori: un esempio classico è l’asma del fumatore (circa il 30% dei pazienti asmatici è anche fumatore). Al quadro patogenetico dell’eosinofilia si associa l’azione patogena del fumo di sigaretta, che si traduce soprattutto in un’attivazione dei meccanismi di tipo non-2, incrementando la flogosi neutrofila: si realizzano, così, quadri misti, di tipo eosinofilo-neutrofilo. Nelle analisi istopatologiche condotte su biopsie bronchiali di pazienti asmatici molto gravi, i livelli di espressione delle IL-17 A e F correlano con la gravità dell'asma, per cui si può giungere alla conclusione che l'asma neutrofilo è sempre molto grave. Un’altra forma di asma neutrofilo, quindi di tipo non-2, è quello associato all'obesità, che riguarda soprattutto il sesso femminile: le cause non sono ben delineate, ma molto probabilmente si ha un ruolo importante degli ormoni. Oltre al SARP, vi è un altro valido network stavolta europeo, l’European Network For Understanding Mechanisms Of Severe Asthma (ENFUMOSA), che già parecchi anni fa ha evidenziato nell’espettorato indotto come all’asma grave si associasse una flogosi neutrofila. Negli ultimi anni sono nate altre tipologie di network a livello nazionale, ad esempio un importantissimo registro belga dell’asma grave, ma soprattutto, in Italia, il SANI (Severe Asthma Network in Italy). Un altro studio portato avanti dal SARP ha evidenziato come, all’aumentare della gravità dell’asma, i neutrofili assumano un ruolo sempre più preponderante, o insieme agli eosinofili o da soli. In realtà esistono delle forme di asma grave in cui c’è una duplice attivazione Th2 e Th17 linfocitaria che è evidenziata dalla presenza nel BAL (liquido di lavaggio bronco-alveolare), di prodotti di entrambe le vie cellulari quali IL-4, che può coesistere con elevati livelli di IL-17. D'altra parte, si è già visto come ci siano cinque principali endotipi di asma: l'asma eosinofilo allergico, l'asma eosinofilo non allergico, l'asma misto eosinofilo-neutrofilo, l'asma predominantemente neutrofilo e l'asma paucigranulocitico. L'asma paucigranulocitico è una forma di asma in cui c'è una modesta componente granulocitico- infiammatoria sia neutrofila sia eosinofila: il perché non si sa, potrebbe trattarsi di un iniziale asma eosinofilo trattato con cortisone inalatorio, oppure di un asma che si sviluppa già come paucigranulocitico, e in quest'ultimo caso il meccanismo patogenetico lo si può imputare principalmente ad alterazioni della muscolatura liscia piuttosto che a profili biopatogenetici infiammatori, per cui le modificazioni muscolari che avvengono sia in senso broncocontratturante sia in senso di rimodellamento strutturale della parete bronchiale sono sostenute non tanto da citochine quanto, per esempio, dall'ACh che, liberata dai neuroni vagali, ha una potente azione broncocontratturante e forse pro-rimodellante; questo tipo di patologia spiega la definizione moderna di asma che viene definita come una malattia cronica usualmente, frequentemente, ma non sempre esclusivamente infiammatoria. 36 L'asma grave, soprattutto, va incontro a frequente riacutizzazione della sintomatologia, e purtroppo queste riacutizzazioni predispongono ad un’accelerazione del ritmo di progressivo deterioramento della funzione respiratoria nel tempo e ciò porta all'instaurarsi di un circolo vizioso, perché più l'asma è grave, cioè più l'ostruzione bronchiale è marcata, maggiore è la predisposizione, ma più un paziente va incontro a riacutizzazioni, più peggiora il ritmo della naturale progressione della patologia, anche se per fortuna oggi ci sono armi terapeutiche molto importanti che mirano a bloccare questi circuiti. I principali trigger di riacutizzazione dell'asma sono soprattutto i virus respiratori, ma anche gli allergeni e alcuni farmaci, tra cui, ovviamente, il principale è l'aspirina. Inoltre, nell'ambito del fenotipo del frequente riacutizzatore, non si devono trascurare alcuni particolari sub-fenoendotipi quali quelli dell'asmatico frequente riacutizzatore portatore di bronchiectasie: si tratta di dilatazioni bronchiali e bronchiolari caratterizzate da un aumento del lume bronchiale e bronchiolare e da un'alterazione infiammatoria e distrofica delle pareti bronchiali che diventano sedi di deposito di muco, deposito che diventa un luogo favorevole a infezioni (soprattutto batteriche) che inducono un’infiammazione neutrofila che predispone a queste frequenti riacutizzazioni. In ambito clinico, una volta fatta la diagnosi, è necessario classificare, per quanto possibile, il fenoendotipo, e oggi ciò è in parte permesso dal fatto che esistono dei biomarcatori che consentono in maniera accurata e anche piuttosto semplice di stratificare i pazienti. L'IgE, ad esempio, è un importante marker di asma allergico, dunque asma di tipo 2. Anche la presenza di eosinofilia depone per la diagnosi di asma di tipo 2, che potrebbe essere allergico o meno, e questo lo si potrà valutare con la ricerca delle IgE. La periostina è un altro biomarcatore di asma di tipo 2, anche se nella pratica clinica di routine non è molto usata: essa è una proteina della matrice extracellulare, prodotta soprattutto dalle cellule epiteliali bronchiali, che viene riassorbita attraverso la circolazione bronchiale nel circolo sistemico, dove può essere dosata; è teoricamente, più che praticamente, importante nell'asma di tipo 2, perché l'espressione di periostina è indotta dalle citochine Th2 linfocitarie, soprattutto l’IL-13. Molto più utile è, invece, determinare la concentrazione di NO nell'aria espirata; oltre che avere un'azione vasodilatante molto potente, esso è un potente broncodilatatore endogeno. In condizioni normali, viene prodotto nelle vie aeree dalla nitrossido-sintetasi (NOS) cosiddetta costitutiva, che fisiologicamente produce l’NO che serve per mantenere dilatati i bronchi; in condizioni di flogosi bronchiale, come nell'asma, la quantità di NO aumenta esponenzialmente per attività non più della NOS costitutiva, ma della NOS inducibile, iNOS, la quale è indotta, ancora una volta, dall'IL-13, per cui i valori di NO nell'aria espirata aumentano (al di sopra di 30 parti per miliardo di parte per miliardo di particelle aeree) notevolmente nei pazienti con asma di tipo 2. Per l'asma di tipo non-2, non si può assolutamente usare la determinazione dei livelli di neutrofili nel sangue, per cui non ci sono biomarcatori utili (in questo caso la stratificazione fenoendotipica viene fatta per esclusione). 37 Concludendo, nell'ambito dell'asma di tipo 2 si riconoscono: l'asma allergico, soprattutto in bambini e adolescenti (early-onset), l'asma eosinofilo non allergico, che insorge tardivamente (late-onset eosinophilic asthma), l'asma indotto da esercizio fisico, che generalmente è di grado lieve, non severo e colpisce bambini e adolescenti durante lo sport e, infine, l'asma indotto da aspirina. Sul versante, invece, dell'asma di tipo non-2 vi sono: l'asma neutrofilo associato, ad esempio, al fumo di sigaretta o alle bronchiectasie, l'asma delle donne obese che presentano flogosi di tipo non-2 neutrofila, e l'asma paucigranulocitico. All’asma, tuttavia, non è associata solo l'infiammazione, ma anche il rimodellamento strutturale della parete bronchiale, in realtà correlato all’infiammazione, infatti gli eosinofili, ad esempio, non rilasciano solamente citochine e chemochine proinfiammatorie, ma anche fattori di crescita come il TGF-β, importante proprio per il rimodellamento strutturale; esso, nell'asma, interessa tutti gli strati della parete: epitelio, connettivo subepiteliale, muscolatura liscia, vasi. Spesso questa condizione deriva dalla riattivazione dell'unità trofica epitelio-mesenchimale, la quale è una complessa e articolata unità funzionale che si snoda nell'ambito delle azioni dell'epitelio bronchiale e del sottostante strato mesenchimale fibroblastico subepiteliale. Essa ha un ruolo fisiologico molto importante durante lo sviluppo nella ramificazione dell'albero bronchiale e bronchiolare: si tratta di un processo molto lungo, che inizia prima della nascita e continua per 18-20 anni. Se, dopo quest'età, l'unità trofica si riattiva o se c'è un'eccessiva attivazione già durante l'infanzia, si instaura una condizione di rimodellamento strutturale e non una fisiologica arborizzazione. Ciò potrebbe accadere a causa della fragilità dell'epitelio bronchiale dovuta alla predisposizione genetica che presenta il paziente asmatico e al contribuire dei fattori ambientali (allergeni, farmaci, fattori atmosferici, fumo di tabacco...). Per effetto di queste condizioni lesive, l'epitelio bronchiale danneggiato rilascia fattori di crescita, soprattutto TGF-β, che causa un'iperattivazione dei fibroblasti portando non solo ad un'iperproduzione degli stessi, ma anche ad una maggiore presenza di proteine della matrice extracellulare (collagene, fibronectina, ecc.); infine, quest'eccessiva presenza di fattori di crescita porta a un ispessimento della muscolatura liscia delle vie aeree. Purtroppo, oltre alle modificazioni già viste, nell'asma in generale e nell'asma grave in particolare, esiste spesso un notevole ispessimento dello strato della muscolatura liscia delle vie aeree per fenomeni di ipertrofia e soprattutto di iperplasia; addirittura anche i vasi bronchiali si alterano, per fenomeni di neoangiogenesi che causano l'incremento della componente vascolare bronchiale; ciò ha due conseguenze negative, perché l'aumento dei vasi, insieme ai fenomeni già citati, contribuisce all'ispessimento della parete bronchiale (più la parete si ispessisce, più si riduce il lume delle vie aeree disponibile al passaggio di aria), ma l'eccessiva vascolarizzazione causa anche un maggiore afflusso di mediatori infiammatori a livello della parete bronchiale, con tutte le conseguenze flogistiche che ne derivano. Oggi è possibile studiare il rimodellamento strutturale legato all'asma tramite la TC ad alta definizione e risoluzione che evidenzia, nell’asma grave e non nell’asma lieve, un ispessimento della parete bronchiolare che correla bene con l’ispessimento dello strato reticolare per fibrosi subepiteliale, che è sicuramente il marker istopatologico più importante di remodeling strutturale dell’asma. C'è da dire, infine, che queste alterazioni strutturali e flogistiche interessano sia le vie aeree di grosso calibro sia quelle periferiche, e questo sarà importante durante lo studio della terapia, in quanto i farmaci inalatori sono in grado di raggiungere, ad oggi, anche le vie aeree di calibro inferiore, a differenza di quanto accadeva qualche anno fa. 40 Questa è la spirometria di una paziente asmatica, si vede la curva flusso-volume in tre colori diversi:  quella in blu esprime l'ostruzione bronchiale e si evidenzia con una manovra espiratoria forzata che deve durare sei secondi. Il FEV1 è il volume espiratorio massimo che viene espulso nel primo di questi sei secondi di capacità vitale, per cui si fa fare al paziente una manovra di capacità vitale forzata. L'aria che esce nel primo secondo di espirazione è il VEMS o FEV1, che in condizioni fisiologiche normali è circa il 75% della capacità vitale per cui, dato che in un soggetto sano la CV è circa 5 litri, il 75% viene espulso e analizzato dallo spirometro nel primo dei sei secondi di durata della manovra. Nel caso in cui questa percentuale si riduca, significa che vi è una limitazione. In questo caso (spirometria a fianco) il FEV1 era il 68/69% del valore teorico normale di questa paziente, mentre l'indice di Tiffeneau, cioè il rapporto tra FEV1 e CV, che è normalmente 75/80%, era invece 56%;  la curva rossa è la curva flusso-volume dopo test di reversibilità, che è molto simile a quella nera, che sarebbe la curva flusso-volume fisiologica del paziente se non avesse l'asma. Dopo broncodilatazione il FEV1, da 1,8 litri, è passato a 2,6 litri, mentre il valore in percentuale è aumentato di oltre il 40%. Nei pazienti con asma, i valori di FEV1 e l’indice di Tiffeneau devono essere valutati nel corso del tempo perché, nel caso di asma grave, soprattutto late-onset, tende ad esserci un declino progressivo della funzionalità respiratoria nel tempo; in più, esclusivamente nell'asma grave, tende ad esserci un incremento progressivo del volume residuo per una questione di intrappolamento d'aria intralveolare conseguente all'ostacolata espulsione dell'aria, conseguenza soprattutto in espirazione della broncostruzione. 41 Nello stato di male asmatico è necessario, più che una spirometria, fare un’emogasanalisi: in caso di crisi non particolarmente grave, l'emogasanalisi evidenzierà un'alcalosi respiratoria, perché l'ipossiemia stimola il drive ventilatorio → iperventilazione → ipocapnia → alcalosi. L'alcalosi respiratoria, dunque, è tipica della crisi asmatica NON grave. Man mano che lo stato di male asmatico diventa più grave, il paziente riuscirà sempre di meno a iperventilare, per cui l’alcalosi si attenuerà fino al punto in cui il pH e l'anidride carbonica saranno normali; tuttavia, questo punto di incontro (nella slide a dx), detto crossover point, è espressione del fatto che la muscolatura respiratoria sta cedendo, il paziente non riesce più a iperventilare perché il carico di lavoro è troppo. Si tratta di una condizione molto grave. Da questo momento in poi, ci potrà essere un rapidissimo peggioramento con notevole incremento della pCO2, riduzione del pH per un'acidosi che potrà diventare anche mista: respiratoria per l'aumento della CO2, metabolica per l'accumulo di acido lattico conseguente al metabolismo anaerobio dovuto alla carenza o mancanza totale di ossigeno. Questa condizione può essere fatale per il paziente. Il misuratore del picco di flusso è uno strumento molto semplice che può essere acquistato in farmacia e usato dal paziente a domicilio: si tratta di uno strumento digitale che, in seguito ad espirazione, registra il picco di flusso, e dovrebbe essere utilizzato dal paziente asmatico ogni giorno, mattina e sera. Il valore del picco di flusso nel soggetto non asmatico è costante, varia del 5 o 10% massimo, mentre nel paziente affetto è soggetto ad oscillazioni importanti, tant'è vero che, oltre all'iperreattività bronchiale che lo caratterizza, il soggetto asmatico presenta anche labilità bronchiale, cioè variabilità del flusso aereo e, in effetti, più questo picco di flusso è variabile, maggiore è la gravità della patologia per una maggiore instabilità delle vie aeree. L'iperreattività bronchiale è studiata tramite dei test di broncocostrizione utilizzando agenti broncocontratturanti distinti in diretti e indiretti. Il più usato è la metacolina (diretto), ma sarebbe meglio usare gli indiretti che sono, però, poco usati. La metacolina viene inalata in rapida successione dal paziente e si valuta la diminuzione del FEV1: se ciò determina il 20% di decremento del FEV1, si blocca il test. Si mira a raggiungere la P20, cioè la dose provocativa di metacolina che causa la riduzione del 20% del FEV1: ovviamente, più è bassa la P20, maggiore è la gravità della patologia. Esistono tanti altri test indiretti, importanti perché possono attivare cellule infiammatorie come i mastociti, come ad esempio il test al mannitolo: esso è un agente osmotico che altera l'osmolarità del microambiente alveolare, la quale attiva i mastociti, che sono sensibili alle alterazioni osmotiche. Questi mastociti rilasciano mediatori dell'infiammazione per cui questo test, a differenza di quello alla metacolina, è rivelatore di uno stato infiammatorio. In questo caso si usa la P15, cioè la dose provocativa di mannitolo che causa il 15% di riduzione del FEV1: ovviamente, più bassa è la P15, maggiore è la gravità dell'asma. 42 Una volta stabilita la diagnosi di asma, per un’ulteriore valutazione fenoendotipica, si possono fare le prove allergiche cutanee mediante prick test. Dopo aver fatto la diagnosi di asma si ha la possibilità, verificando eosinofili ematici, IgE e test cutanei, di stratificare l'asma nelle forme di tipo 2 e di tipo non-2: asma non-Th2 asma Th2 eosinofilia X ✓ IgE elevate ✓ ✓ ✓ iperresponsività delle vie aeree ✓ ✓ ✓ prove cutanee positive per l’allergene ✓ ✓ ✓ fibrosi subepiteliale X ✓ depositi anormali di mucina ✓ ✓ ✓ Terapia Obiettivi della terapia dell’asma  Attenuazione dei sintomi diurni e notturni;  miglioramento della funzione respiratoria;  attenuazione dell’iperresponsività bronchiale;  controllo e prevenzione delle riacutizzazioni, dato che la malattia si esprime clinicamente mediante episodi critici, che rappresentano il pericolo più grande per il paziente. Ad oggi, questi obiettivi sono perseguibili con successo, almeno per quanto riguarda l’asma di tipo 2. 45 In realtà, per molto tempo, fino a pochi anni fa, per la terapia di combinazione dell’asma con steroide + broncodilatatore LABA (long-acting β2 agonist) si utilizzavano solo due tipi di LABA, il salmeterolo ed il formoterolo, farmaci che presentano delle diversità:  il salmeterolo è molto lipofilo, per cui si àncora a livello del doppio strato fosfolipidico lipogeno della membrana cellulare in prossimità dei recettori β2 adrenergici che, come tutti i recettori accoppiati a proteine G, sono formati da sette domini idrofobi transmembrana lipofili. Per questa sua natura lipofila, dunque, il salmeterolo è in grado di ancorarsi garantendo una lunga efficacia;  una lunga efficacia è garantita anche dal formoterolo, che ha, invece, delle caratteristiche intermedie di lipofilia e di idrofilia che lo rendono simile al salmeterolo dal punto di vista della lipofilia, ma simile al salbutamolo dal punto di vista dell’idrofilia. Il salbutamolo è un farmaco broncodilatatore a breve durata d’azione, a differenza del salmeterolo, che ha un’azione più lenta. Le sue caratteristiche di idrofilia e di lipofilia consentono al formoterolo di essere tanto rapido come il salbutamolo quanto di lunga durata come il salmeterolo. Nell’implementazione della terapia combinata steroide + LABA, questi concetti risultano essere molto importanti: per esempio, combinando il beclometasone dipropionato con il salmeterolo, si realizza, mantenendo un basso dosaggio dello steroide – in caso di asma lieve – un aumento del picco di flusso respiratorio nettamente superiore rispetto ad un trattamento con beclometasone dipropionato a dosaggio doppio (sempre in caso di asma lieve). Nell’asma moderato, è molto meglio associare il salmeterolo al beclometasone, anche se oggi non si usa più, perché vi sono terapie più moderne rispetto al raddoppiare il dosaggio dello steroide lasciandolo in monoterapia, aumentando i rischi e con un effetto terapeutico decisamente modesto. In realtà, questo stesso concetto è stato dimostrato in recenti studi anche per l’associazione budesonide + formoterolo, che si è rivelata essere molto più efficace in combinazione con un dosaggio basso di budesonide rispetto che con dosaggi molto alti di budesonide utilizzata da sola. Lo studio che ha definitivamente consacrato l’utilità della combinazione steroide + LABA nel trattamento dell’asma è stato lo studio GOAL, che ha evidenziato come la combinazione salmeterolo + fluticasone propionato sia superiore al solo fluticasone nel migliorare il controllo della malattia. È stata, poi, introdotta, una nuova strategia definita SMART che si basa sull’utilizzo di steroide + LABA non solo per la terapia continuativa, ma anche al bisogno; prima della strategia SMART, infatti, lo schema della terapia dell’asma si basava sulla combinazione steroide + LABA regolare e continua e broncodilatatore a breve e rapida durata d’azione in caso di bisogno. 46 Questo concetto è stato rivoluzionato dalla strategia SMART in quanto, se il paziente ha maggiore bisogno all’occorrenza di farmaco sintomatico, è perché peggiorano i suoi sintomi; quindi, non soltanto peggiora il broncospasmo, ma peggiora soprattutto l’infiammazione, e allora è meglio soddisfare questo bisogno non con un semplice broncodilatatore, ma con l’associazione antinfiammatorio (steroide) + broncodilatatore che si ripete al di là dello schema regolare al mattino e alla sera, anche in caso di bisogno, ottenendo una più efficace riduzione delle riacutizzazioni della malattia asmatica. L’efficacia della strategia SMART è stata dimostrata nell’asma grave oltre che nell’asma moderato. Oltre alla combinazione budesonide + formoterolo, sono state individuate altre combinazioni, come fluticasone propionato + formoterolo e beclometasone dipropionato + formoterolo (strategia MART), in cui di fondo è stato cambiato il nome della terapia, ma il principio resta lo stesso: si tratta sempre di una strategia terapeutica short-acting al bisogno, da sommare a quella regolare in grado di migliorare la sintomatologia del paziente. È possibile adottare questo schema terapeutico – al bisogno – solo con il formoterolo, per le caratteristiche di rapida efficacia necessarie in virtù di un’immediata risoluzione dei sintomi (sempre in associazione con il corticosteroide, i LABA non si somministrano MAI da soli), mentre il salmeterolo è più lento e opportuno nella terapia regolare. Esiste anche la combinazione fluticasone propionato + formoterolo, ma a suo riguardo nessuno studio ha dimostrato efficacia nella strategia regolare e al bisogno, anche se teoricamente sarebbe utilizzabile. L’evoluzione, forse, più moderna della terapia di associazione di CS + LABA è quella fluticasone furoato + vilanterolo: è l’unica associazione che prevede una sola somministrazione al giorno, dato che tali due farmaci hanno un’emivita di 24 h e, rispetto al fluticasone furoato da solo (1/die) e al fluticasone propionato (2/die) è più efficace sia nell’incrementare il FEV1, ovvero la funzione respiratoria, sia, soprattutto, nel ridurre più efficacemente il tasso periodico di riacutizzazioni dell’asma rispetto allo steroide da solo. 47 La combinazione steroide + LABA è alla base, quindi, della terapia dell’asma, e non è una semplice somma dell’azione terapeutica antinfiammatoria e broncodilatante dei due farmaci; questo concetto, infatti, trova le sue basi, nella natura, che ben prima delle case farmaceutiche ha intuito questa potenziale sinergia, posizionando nello stesso organo – la ghiandola surrenalica – i siti di produzione del cortisolo (corticale) e dell’adrenalina (midollare), ovvero i propulsori, rispettivamente, di tutti i corticosteroidi e di tutti i β2-agonisti (short, long e ultra long-acting). Perché l’interazione corticosteroide + LABA non è una semplice somma di effetti antinfiammatori e broncodilatanti? Per rispondere a questa domanda, bisogna prima comprendere come agiscono i β2-agonisti. Essi agiscono attivando la via del cAMP, perché i recettori β2-adrenergici sono accoppiati tramite la proteina Gs (stimolatrice) alle adenilato ciclasi, che catalizzano la sintesi di cAMP a partire da ATP. cAMP, infine, attiva la PKA cAMP-dipendente, che fosforila una serie di substrati cellulari coinvolti nel rilasciamento della superficie bronchiale. Non solo, la PKA può anche determinare la fosforilazione del recettore dei glucocorticoidi che, in assenza del ligando endogeno (steroide), si trova nel citoplasma, ancorato a proteine come le heat shock proteins. All’arrivo del ligando, invece, che può essere l’ormone endogeno o un farmaco, questo, essendo liposolubile, attraversa facilmente la membrana cellulare per diffusione passiva e penetra nel citoplasma, dove si lega al recettore glucocorticoide, attivandolo e inducendone la traslocazione nel nucleo, che è notevolmente potenziata dai β2-agonisti attraverso cAMP. 50 Su queste basi, è stato sviluppato un anticorpo murino che presenta, a livello dei frammenti Fab, i determinanti anticorpali in grado di reagire specificamente con le IgE umane. Mediante ingegneria molecolare, poi, non tutto il frammento Fab, ma soltanto le regioni amminoacidiche ipervariabili che all’interno del Fab conferiscono la specificità anticorpale anti-antigene, in questo caso anti-IgE umane, sono state incorporate nell’anticorpo umanizzato che si utilizza in terapia e che si chiama omalizumab: si tratta di un’IgG, di un anticorpo umano, per il 95%, che solo per il 5% conserva un residuo dell’anticorpo di topo originario. Omalizumab è un anticorpo umanizzato che si lega al dominio Cε3 del frammento costante delle IgE umane, cioè a livello di quel dominio che interagisce con i recettori sia ad alta, sia a bassa affinità. Se si lega omalizumab, le IgE non possono interagire con i loro recettori: in altre parole, omalizumab forma con le IgE umane degli immunocomplessi che di fatto neutralizzano, “zavorrano” le IgE umane impedendo loro di andare a legarsi ai recettori ad alta e bassa affinità espressi dalle cellule immunoflogistiche e strutturali della parete bronchiale delle vie aeree. E allora omalizumab inibisce tutti gli effetti cellulari IgE- dipendenti, cioè inibisce, per esempio, la degranulazione mastocitaria, la facilitazione IgE-dipendente della presentazione dell’antigene da parte delle cellule dendritiche ai linfociti T, perché sia le cellule dendritiche sia i mastociti, i basofili, esprimono i recettori per le IgE, ma anche gli eosinofili esprimono recettori per le IgE, e le IgE inibiscono l’apoptosi degli eosinofili, cioè sono dei potenti segnali di sopravvivenza degli eosinofili, non così potenti come l’IL-5, ma comunque sono dei segnali di sopravvivenza. Se la loro azione, dunque, è inibita dall’omalizumab, l’effetto terapeutico di questo anticorpo monoclonale si traduce nell’induzione dell’apoptosi. 51 Ovviamente, per accedere alla terapia anti-IgE, l'asma di tipo 2 deve essere IgE-mediata, per cui devono essere positivi i prick test cutanei, il PRIST e il RAST, cioè le IgE totali dosate mediante PRIST devono essere comprese tra 30 e 1500 UI/ml di siero. Oltre a questi criteri di eleggibilità, esistono dei biomarcatori predittivi della risposta all’omalizumab, che sono:  presenza di elevati livelli di eosinofili nel sangue;  elevati livelli di periostina;  elevati livelli di NO nell’aria espirata. Il paziente allergico con asma grave, in presenza di questa triade di marker, molto probabilmente sarà ben responsivo alla terapia con omalizumab. 52 Le più importanti, gravi, pericolose per la vita espressioni cliniche dell’asma in generale, dell’asma grave in particolare, sono le riacutizzazioni o esacerbazioni asmatiche, il cui tasso annuale viene drasticamente ridotto da omalizumab, come dimostrano i trials randomizzati e controllati. Nello studio a sinistra, in particolare, condotto dal Prof. Cazzola dell’Università di Tor Vergata, è stato confermato che l’omalizumab riduce drasticamente le esacerbazioni dell’asma. Un’altra nozione fondamentale è che omalizumab è tanto più efficace quanto più l’asma è senza comorbidità e che, come tutti i farmaci biologici, non è mai un farmaco sostitutivo, ma aggiuntivo. Tra l’altro, sebbene sia efficace in tutte le fasce d’età, la sua efficacia è tanto maggiore quanto minore è l’età. In realtà, però, a prescindere dall’età, le riacutizzazioni diminuiscono in quasi tutti i pazienti trattati, e questo effetto si consolida nel tempo (è dimostrabile anche dopo 9 anni). Le riacutizzazioni crollano e, concomitantemente alla riduzione delle esacerbazioni, si verifica anche un incremento del FEV1 (un aumento, quindi, del calibro bronchiale, con miglioramento della funzione respiratoria). Anche l’incremento del FEV1, che può sfiorare o raggiungere i 300 ml di incremento nel corso degli anni, negli anni si consolida e si mantiene (5 o anche più anni). Negli USA, addirittura, si è visto che il trattamento pre-stagionale con omalizumab abbatte i picchi di riacutizzazione di asma grave nei bambini. Per trattamento pre-stagionale si intende un trattamento iniziato prima dell’autunno, in quanto in autunno, nei bambini con asma grave, si verifica il secondo picco di riacutizzazione, addirittura più grave del picco stagionale della pollinazione, anche perché il bambino viene a contatto con virus quali il Rhinovirus, causa frequente di riacutizzazioni asmatiche. Ciò succede perché i bambini asmatici non producono adeguate quantità di proteine antivirali, come IFN-α, mentre omalizumab ne ripristina la produzione, e quindi evita al paziente l’assunzione di dosi massive di corticosteroidi orali. La capacità di prevenire le riacutizzazioni è stata dimostrata anche nel paziente non allergico, in cui comunque questo farmaco non è somministrabile: alcuni studi, tuttavia, evidenziano un’efficacia anche in questi soggetti perché omalizumab è un anti-IgE non selettivo, nel senso che non blocca solo le IgE anti-polline o anti-acari della polvere, ma anche quelle anti-virali, anti-super antigeni batterici, anti-sostanze occupazionali responsabili dell’asma professionale. I recettori per le IgE non sono espressi soltanto nei mastociti basofili ed eosinofili, ma anche a livello delle cellule dendritiche, non solo quelle mieloidi presentanti l’antigene, ma anche le cellule dendritiche plasmocitoidi, che sono quelle che proteggono dalle infezioni virali producendo interferone. Purtroppo, però, queste cellule esprimono dei recettori con alta affinità per le IgE che, quando legano le IgE di qualsiasi tipo, purtroppo portano ad un’inattivazione dei loro meccanismi di protezione antivirale: se, cioè, un’IgE qualsiasi, non solo antiallergenica ma anche antivirale, si lega al recettore espresso dalle cellule dendritiche plasmocitoidi, questa IgE non farà più produrre interferon-α alle cellule plasmocitoidi. Con l’omalizumab, invece, viene ripristinata questa capacità della cellula dendritica plasmocitoide di produrre interferoni e quindi di esplicare un’efficace protezione antivirale. Tra l’altro, omalizumab migliora il FEV1, e questo è stato visto anche nei pazienti non allergici o, almeno, in alcuni pazienti che non erano ancora allergici. Questo, evidentemente, perché questo farmaco ha, in senso lato, una potenzialità di meccanismo antivirale legata alla capacità di ripristinare l’azione antivirale delle cellule dendritiche plasmocitoidi. 55 L’IL-4 e l’IL-13 esplicano degli effetti biologici in parte, anche se non completamente, sovrapponibili, ridondanti, e quindi, sia a livello delle cellule immunoflogistiche che strutturali delle vie aeree, sarebbe estremamente poco efficace utilizzare un anticorpo come pascolizumab: questo, infatti, inibisce l’IL-4, ma non l’IL-13. Dupilumab, invece, si comporta come un duplice antagonista recettoriale sia dell’IL-4, sia dell’IL-13: è già stato approvato ed è disponibile per il trattamento della dermatite atopica e sta rivelando, negli studi sperimentali, un’ottima attività terapeutica verso la poliposi nasale. Molto efficace, però, si sta rivelando nella terapia dell’asma grave. È stato dimostrato, infatti, che diminuisce nettamente le riacutizzazioni di asma grave quando viene utilizzato al dosaggio di 200-300 mg sottocutanei e migliora anche il FEV1. Un altro farmaco in sperimentazione, anticorpo completamente umano, è il tezepelumab, inibitore della linfopoietina timica stromale, un’ammina. Quando si utilizza questo farmaco, si riducono drasticamente le reazioni di asma grave e si riduce la frazione di NO nell’aria espirata. Feviviprant, invece, è un farmaco non biologico, ma un composto a basso peso molecolare che si somministra per via orale: è un antagonista del recettore CRTH2 della prostaglandina D2, che è prodotta in grandi quantità soprattutto, ma non solo, dai mastociti attivati dalle IgE o dalla stessa linfopoietina timica stromale. La prostaglandina D2 va a stimolare il recettore CRTH2 espresso dai linfociti Th2, dagli eosinofili, ecc., cioè dalle principali cellule flogistiche coinvolte nell’asma eosinofilo di tipo 2. Il feviviprant è molto efficace nel ridurre l’eosinofilia bronchiale e nel migliorare la funzione respiratoria, con incremento del FEV1. Esiste, poi, l’immunoterapia specifica, che si può effettuare per via sottocutanea o per via sublinguale: questa provvede ad una sorta di desensibilizzazione mediante introduzione nell’organismo di terapie geniche che ripristinino l’attività funzionale dei linfociti T e B. Per quanto riguarda, invece, l’asma di tipo non-2, i risultati non sono altrettanto positivi: uno studio effettuato sul brodalumab, antagonista del recettore dell’IL-17 nell’asma di tipo non-2, non ha dato risultati positivi, anzi, ha dato luogo ad infezioni da Candida come effetto collaterale. Peggio ancora, gli anti-TNF-α hanno dato risultati disastrosi nell’asma grave: una sperimentazione di 10 anni fa con queste molecole è stata bloccata perché non solo non era efficace nell’asma grave, soprattutto di tipo non-2, ma induceva effetti sistemici terribilmente gravi come sepsi, polmoniti, slatentizzazione della TBC, tumori. Per il trattamento dell’asma grave di tipo non-2 sono stati, successivamente, tentati dei trial con il macrolide azitromicina, non tanto per le sue proprietà antibatteriche, ma perché è un inibitore dell’infiammazione neutrofila in quanto inibitore della sintesi di IL-8 che induce la chemiotassi neutrofila. Nell’asma paucigranulocitico e in quelle forme in cui prevale un interessamento della muscolatura liscia delle vie aeree, è possibile effettuare una termoplastica bronchiale (bruciatura per via endoscopica della muscolatura liscia delle vie aeree), la risposta alla quale ha una grande variabilità individuale, e il cui successo è sicuramente dovuto non solo alla distruzione della muscolatura liscia, ma anche alla deafferentazione del sistema vagale, che è il principale sistema broncocostrittore. 56 Ipertensione polmonare L’ipertensione polmonare è una condizione in cui aumenta la pressione nel circolo polmonare perché aumentano le resistenze, mentre la portata non varia. Anatomia e fisiologia Il circolo polmonare è un circolo di tipo funzionale: non apporta ossigeno alle cellule dell’apparato respiratorio, ma è deputato a portare il sangue venoso, ricco di anidride carbonica e povero di ossigeno, al polmone, affinché possa essere ossigenato e depurato dall’anidride carbonica, per poi essere rimesso in circolo. Nell’arteria polmonare scorre sangue venoso che parte dal ventricolo destro, si immette nel polmone e segue tutte le diramazioni bronchiali. Nel percorso, si formano le arteriole precapillari, i capillari che vanno a circondare gli alveoli, e proprio a questo livello avviene lo scambio gassoso. Una volta avvenuto lo scambio, il sangue passa nelle venule postcapillari, che ormai portano sangue arterioso, ovvero ricco di ossigeno e povero di anidride carbonica. Le venule confluiscono tra di loro, e si avranno due vene polmonari a destra e due a sinistra, che andranno a sfociare nell’atrio di sinistra. Il sangue ossigenato prosegue, quindi, nel ventricolo di sinistra, nell’aorta e, infine, nel circolo sistemico. La circolazione polmonare è una circolazione ad alta capacitanza, ma a bassa pressione: ciò vuol dire che tutto il sangue che confluisce nel circolo sistemico passa dal polmone attraverso l’arteria polmonare mantenendo basse le pressioni: la pressione, infatti, nel circolo polmonare, è di circa 10-15 volte più bassa rispetto alla pressione nella circolazione sistemica. La portata è sempre la stessa, per cui per mantenere bassa la pressione bisogna mantenere basse le resistenze, ed è ciò che avviene nella circolazione polmonare grazie alla composizione strutturale dei vasi del circolo polmonare stesso. Qui, infatti, i vasi hanno una minore componente muscolare, ma una maggiore componente elastica; sono facilmente dilatabili o comprimibili, per cui si modificano riuscendo a mantenere bassa la pressione. La pressione è data dal flusso moltiplicato per la resistenza: per mantenere bassa la pressione, dato che il flusso, o portata, non si modifica, bisogna mantenere basse le resistenze. Le resistenze si riducono ulteriormente quando aumenta il flusso grazie alle caratteristiche dei vasi: è possibile che i vasi normalmente perfusi si dilatino e che si perfondano dei vasi che normalmente non vengono perfusi. Normalmente, infatti, a riposo la ventilazione è maggiore agli apici rispetto che alle basi, mentre la perfusione è maggiore alle basi per la forza di gravità. Quando c’è uno sforzo aumenta il flusso, cioè la richiesta e la portata, e succede che i vasi delle basi si dilatano, mentre vanno ad essere perfusi i vasi degli apici. Per garantire gli scambi anche sotto sforzo, la ventilazione si modificherà e aumenterà alle basi, mantenendo sempre un adeguato rapporto ventilo-perfusivo. L’ambiente del circolo polmonare è dato dalle arteriole precapillari, dai capillari e dalle venule postcapillari. 57 Normalmente, la pressione è di 16 mmHg a livello delle arteriole precapillari e di 8 mmHg a livello delle venule postcapillari. L’aumento, invece, della pressione nel circolo polmonare può essere dovuto: a. a un rimodellamento delle arteriole precapillari; b. ad un aumento di pressione a livello delle venule postcapillari. La prima situazione si può verificare, per esempio, in seguito ad una patologia del parenchima polmonare, oppure per un rimodellamento sine causa a carico delle arteriole. La pressione aumenterà da 16 mmHg a valori sopra 35 mmHg, mentre la pressione nelle venule postcapillari si manterrà bassa. Le venule postcapillari confluiscono nelle vene polmonari e poi queste si gettano nell’atrio di sinistra. Se per un problema valvolare o di scompenso cardiaco le sezioni sinistre del cuore non sono in grado di pompare sangue in maniera adeguata o c’è una stasi, aumenta la pressione a monte, quindi aumenta la pressione nelle venule postcapillari. In questo caso si avrà un aumento > 15 mmHg a livello delle venule postcapillari a causa di un problema cardiaco. Definizione Si definisce ipertensione polmonare l’incremento della pressione arteriosa polmonare media a riposo (PAPm) > 25 mmHg valutata tramite cateterismo cardiaco del cuore destro. Si parla di pressione media e non diastolica o sistolica. Sia la pressione precapillare, sia la postcapillare devono essere maggiori di 25 mmHg. Un altro valore da considerare è la pressione di incuneamento, che valuta la pressione nelle venule postcapillari: se è < 15 mmHg, vuol dire che l’ipertensione è solo a carico delle arteriole precapillari. Se associato alla PAPm aumentata vi è anche un aumento della pressione di incuneamento, significa che la pressione polmonare è aumentata per un problema cardiaco, che ha determinato a sua volta un incremento pressorio nel compartimento venoso postcapillare. La pressione di incuneamento si valuta tramite cateterismo venoso destro, con un catetere che giunge fino all’atrio di sinistra, riflettendo la pressione delle venule postcapillari. L’ipertensione arteriosa polmonare (PAH), dunque, è una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di ipertensione polmonare precapillare in assenza delle possibili cause note. Include differenti forme che hanno in comune un similare quadro clinico e presentano modificazioni fisiopatologiche del microcircolo polmonare potenzialmente identiche.  Pressione polmonare media a riposo (mPAP) ≥ 25 mmHg:  lieve: 25-35 mmHg;  moderata: 36-45 mmHg;  grave: > 45 mmHg;  pressione polmonare di incuneamento ≤ 15 mmHg;  resistenza vascolare polmonare > 3 Wood. 60 Le sostanze vasocostrittrici e vasodilatanti, proliferative e antiproliferative in equilibrio non sono prodotte solo dall’endotelio, che rimane comunque un attore principale, ma anche a livello sistemico. La serotonina, ad esempio, è una sostanza vasocostrittrice presente nelle piastrine, ma che è prodotta dall’intestino. L’endotelio è il primum movens del rimodellamento vascolare, ma a questa infiammazione partecipano anche le piastrine e le cellule muscolari. Si ha, inizialmente, vasocostrizione, che nelle patologie respiratorie può essere ipossica. Ad esempio, in caso di assunzione di farmaci anoressizzanti, che provocano un alterato assorbimento intestinale, viene prodotta più serotonina che viene, poi, inglobata nelle piastrine e liberata quando esse aderiscono all’endotelio. 61 Questi farmaci possono determinare anche un’attivazione dei maxicanali del potassio, che determinano una depolarizzazione della membrana cellulare, quindi un rilascio di calcio per la vasocostrizione. Lo step successivo è il rimodellamento della parete, che prevede:  ispessimento dell’intima, che può essere eccentrico o concentrico;  iperplasia e ipertrofia delle cellule muscolari lisce della parete del vaso;  fibrosi dell’avventizia per deposizione di matrice extracellulare, fibre elastiche e collagene;  formazione di lesioni plessiformi all’interno del vaso: queste sono un groviglio di capillari che si formano all’interno dell’arteriola precapillare. Possono essere una risposta allo stato di ipossia generatosi e al loro interno si può formare un trombo o possono essere infiltrate da essudato infiammatorio. Tutti questi elementi portano a un rimodellamento del vaso, che può avvenire non solo a livello delle arteriole, ma anche delle venule postcapillari e dei capillari: si ha, quindi, un rimodellamento di tutto il microcircolo polmonare. Il rimodellamento del vaso può essere dovuto a cause geneticamente determinate, ad esempio a mutazione di BMPR2, recettore extracellulare cui si lega TGF-β. Normalmente, la sua attivazione porta all’attivazione, a sua volta, di BMPR1, recettore intracellulare che attiva la cascata di fosforilazione delle proteine intracitoplasmatiche, le SMAD, secondi messaggeri. Se si verifica, invece, una mutazione del recettore BMPR2, si attiva la proliferazione delle cellule che portano a rimodellamento del vaso, e ciò significa che il recettore ha, fisiologicamente, un’azione antiproliferativa. La mutazione di BMPR2 è una mutazione autosomica dominante a bassissima penetranza, per cui vuol dire che vi devono essere delle cause ambientali per determinarne la manifestazione, e infatti non avviene molto frequentemente. 62 Se c’è solo una vasocostrizione il danno è reversibile, mentre se si innesca il rimodellamento, il danno diventa irreversibile. Nella BPCO, per esempio (terzo gruppo della classificazione), per un alterato rapporto ventilo-perfusivo e difetti della perfusione o diffusione, si ha un’insufficienza respiratoria, una carenza di ossigeno. Questa porterà a una vasocostrizione ipossica. Di solito, la BPCO è associata a un aumento funzionale della pressione del circolo polmonare, ma non si tratta di un aumento importante. Nella fibrosi, invece, in cui i processi proliferativi e riparativi sono accentuati perché fanno parte della patologia stessa, non c’è soltanto la vasocostrizione ipossica, ma vengono attuati tutti i rimodellamenti sulla parete del vaso, quindi si avrà un’ipertensione polmonare secondaria molto più grave, perché irreversibile, rispetto a quella reversibile che si crea nella BPCO. Un vaso in cui vi è un rimodellamento è ovviamente un vaso che ha un calibro minore, quindi una resistenza aumentata. Quando il ventricolo destro si trova a dover pompare contro una pressione più alta, inizialmente c’è un’ipertrofia, successivamente si passa allo sfiancamento: il muscolo cardiaco non è più in grado di sostenere quella pressione; si avranno la dilatazione del ventricolo di destra, dell’atrio di destra e un’insufficienza tricuspidalica. All’ecocardiogramma, infatti, il rigurgito tricuspidalico è un segno indiretto dell’ipertensione polmonare. Quando si fa una valutazione di un paziente all’ecocardiogramma e c’è un aumento del rigurgito tricuspidalico, si parla di pressione polmonare sistolica, perché il rigurgito a livello della tricuspide riflette il valore della pressione sistolica. Quindi, in sequenza, avvengono prima un’ipertrofia delle sezioni destre del cuore, poi una dilatazione del ventricolo seguita da una dilatazione dell’atrio destro, un’insufficienza della tricuspide e una dilatazione della cava che va a gettarsi nell’atrio di destra. In seguito a sfiancamento delle sezioni destre del cuore, si verifica lo spostamento del setto interventricolare, quindi si riduce il volume a disposizione dell'incremento telediastolico del ventricolo di sinistra e si avrà una ridotta gittata da parte di quest’ultimo, che in un cuore ipertrofico può generare anche delle angine, delle ischemie. Si ha un aumento della pressione, che però si manifesterà clinicamente soltanto quando il cuore non sarà più in grado di compensare questa situazione. 65 Prima di tutto, però, il paziente va inquadrato con il cateterismo cardiaco destro, perché solo con esso si ha la diagnosi di certezza e si può stabilire se l’ipertensione è precapillare o capillare. cateterismo cardiaco destro cateterismo cardiaco sinistro  pressioni Adx, Vdx, AP s/d/M, capillare polmonare wedge  SaO2 in VCS, Adx, Vdx, AP, Asx e vene polmonari (se comunicazione interatriale)  PC, IC, RAP, RAS  pressione e saturazioni in Ao, Vsx  angiografia in Vsx se sospetto DIV  coronarografia (non sempre necessaria) Diagnosi eziologica: esami strumentali  Prove di funzionalità respiratoria con DLCO;  scintigrafia polmonare perfusionale ventilatoria;  TC polmone ad alta risoluzione;  angio-TC polmonare;  ecoaddome. Test di vasoreattività polmonare – nuova definizione di responder  Normalizzazione della PAP:  PAP media < 40 mmHg;  riduzione mPAP > 10 mmHg;  portata cardiaca normale o aumentata;  mantenimento classe funzionale I o II per molti mesi in terapia cronica con Ca++-antagonista. Pazienti responder < 10%. Nei soggetti che hanno ipertensione polmonare precapillare, quindi aumento della pressione media dell’arteria polmonare sopra i 25 mmHg e pressione di incuneamento al di sotto dei 15 mmHg, si fa il test di vasoreattività con il cateterismo: si fa di solito con l’ossido nitrico, ma anche con l’epoprostenolo. Se vi è una riduzione di almeno 10 mmHg della pressione dell’arteria polmonare, o comunque questa va al di sotto dei 40 mmHg, allora c’è reversibilità, cioè il test di vasoreattività è positivo e risponde all’ossido nitrico. È importante per impostare la terapia perché solo i pazienti responder, che hanno una vasoreattività, si possono trattare con i calcio-antagonisti, che sono dei vasodilatatori aventi un’azione inotropa negativa e che determinano ipotensione. Potrebbero, quindi, essere controproducenti, dato che c’è già una bassa gittata sistolica, ma non nei soggetti responder. Terapia Con la terapia si cerca di ridurre lo scompenso cardiaco destro, di migliorare i sintomi, soprattutto la dispnea, e di ridurre il rimodellamento dei vasi. I soggetti che hanno un’ipertensione polmonare postcapillare seguiranno la terapia dello scompenso: diuretici, digitalici, inotropi positivi. Se, invece, il soggetto ha un’ipertensione polmonare secondaria a patologia respiratoria, si darà una terapia per la stessa patologia respiratoria. Nel gruppo 1 è possibile dare dei farmaci antipertensivi polmonari che possono essere:  i calcio-antagonisti nei pazienti responder;  gli inibitori dei recettori dell’endotelina: il bosentan che agisce sui recettori A e B dell’endotelina 1; il sitaxentan, che agisce direttamente solo sul recettore B, attivandolo;  gli inibitori della 5-PDE, come il sildenafil;  gli analoghi delle prostacicline per endovena o per via inalatoria. Iloprost ha una bassa emivita, perciò bisognerebbe fare un aerosol ogni 6 ore. 66 Terapia – Ca++-antagonisti Nifepidina  Indicata solo nei responder I-II classe WHO:  IC > 2,1 l/min/m2, SaO2 venoso misto > 63%, Padx media < 10 mmHg;  massimo dosaggio tollerato: 60-120 mg/die;  ipotensione sistemica:  tachicardia riflessa;  ipertono simpatico;  ischemia Vdx. Terapia – prostaglandine  Epoprostenolo (e.v.);  iloprost (e.v., inalazione);  teprostinil (sottocute);  beraprost (per os). È stata, di recente, impostata una terapia anche per l’ipertensione polmonare secondaria a malattia embolica con riociguat. Mentre il sildenafil inibisce la 5-fosfodiesterasi, quindi inibisce la degradazione del cGMP, questo farmaco agisce attivando la produzione del cGMP citoplasmatico e promuovendo la vasodilatazione; il nome commerciale è Adempas ®, ed è efficace per i pazienti sia del primo gruppo sia del quarto gruppo. Se ci dovesse essere un’ipertensione molto grave, si può fare una settoplastica per creare uno shunt e permettere che le pressioni nelle sezioni destre del cuore possano diminuire. Si parla di cuore polmonare cronico in pazienti che sviluppano ipertensione polmonare conseguente a patologie respiratorie. Settostomia atriale  Palliativo – indicazione in classe funzionale IV (PAPs sovrasistemica con aumento delle pressioni in atrio destro) e terapia medica inefficace;  creazione di comunicazione interatriale mediante perforazione del setto interatriale con ago trans-settale e dilatazione con palloncini di diametro crescente;  lo shunt dx → sx determina desaturazione lieve-moderata (75-85%);  riduzione PAdx media e PVdx telediastolica;  aumento della portata cardiaca sistemica. In caso di ipertensione polmonare secondaria a tromboembolia, si può cercare di ricostituire il vaso con una trombo- endoarterectomia polmonare, ma questo solamente nei centri specializzati e quando il vaso non è troppo incuneato perifericamente. Trapianto di polmone  Classe funzionale IV;  limitata donazione di organi;  lunga lista di attesa;  morbilità;  mortalità. 67 BPCO Epidemiologia La BPCO è attualmente la quarta causa di morte nel mondo, e si prevede diventerà la terza causa di morte entro il 2020. Più di 3 milioni di persone sono morte di BPCO nel 2012, equivalenti al 6% delle morti globali. La tendenza di questa patologia è in netto contrasto con quella delle altre patologie croniche, come quelle cardiovascolari e cerebrovascolari (in netta discesa), le neoplasie, il diabete mellito (in lievissimo aumento) e gli incidenti stradali come causa di morte. Definizione GOLD 2011 Chronic Obstructive Pulmonary Disease (COPD), a common preventable and treatable disease, is characterized by persistent airflow limitation that is usually progressive and associated with an enhanced chronic inflammatory response in the airways and the lung to noxious particles or gases GOLD 2019 Chronic Obstructive Pulmonary Disease (COPD) is a common, preventable and treatable disease that is characterized by persistent respiratory symptoms and airflow limitation that is due to airway and/or alvolvar abnormalities usually caused by significant exposure to noxious particles or gases La definizione non delinea, però, quali sono le patologie che sottendono la BPCO, la quale comprende alcuni fenotipi che possono essere ricondotti a due entità fondamentali: la bronchite cronica ostruttiva e l'enfisema polmonare. Nel 2008, P.J. Barnes affermò che il termine BPCO include un gruppo di malattie comprendenti la bronchite cronico-ostruttiva e l'enfisema polmonare, caratterizzate da una patologica limitazione del flusso aereo nell'apparato respiratorio. Molto spesso la BPCO è causata dal fumo di sigaretta, particolare non evidenziato dalla definizione ripristinata recentemente. Può essere causata anche da altri agenti inquinanti atmosferici e, occasionalmente, da alterazioni genetiche risultanti in un deficit della proteina α1- antitripsina. 70 Importanza del volume residuo nei pazienti con BPCO. Oltre al FEV1, nella BPCO è importante valutare anche dei parametri come:  il volume residuo (aria che rimane nei polmoni dopo un'espirazione forzata, più importante nella BPCO che nell'asma);  la capacità inspiratoria. È chiaro che se c'è una riduzione del ritorno elastico polmonare (enfisema), l'aria si accumula e il paziente non riesce durante l'espirazione a mandarla fuori in modo opportuno: questo aumento di aria è proprio il volume residuo. Anche nella bronchite cronica, se si ha un’ostruzione durante l'espirazione, si ha accumulo di aria. In ogni caso, questo intrappolamento d'aria prende il nome di iperinsufflazione polmonare, che è la principale condizione responsabile della dispnea e della ridotta tolleranza all'esercizio fisico nei pazienti con BPCO. Nell'asmatico, invece, la dispnea dipende dal broncospasmo che, se risolto, si associa a scomparsa della dispnea. Anche il volume residuo va valutato nel tempo nei pazienti con BPCO, in quanto, in questi, c'è una tendenza al progressivo incremento nel tempo di tale parametro. Così come si riduce il FEV1 nel tempo, si ha anche un progressivo aumento del volume residuo e si riduce, inoltre, la capacità inspiratoria. Tra l'altro, nei pazienti con BPCO, con il passare del tempo, è sempre più disarmonico il rapporto tra i vari volumi polmonari, perché il volume residuo aumenta, la capacità inspiratoria diminuisce, la capacità vitale si riduce, ma la capacità polmonare totale aumenta. La capacità polmonare totale è la somma della capacità vitale (somma tra volume corrente, volume di riserva inspiratorio e volume di riserva espiratorio) e del volume residuo. Se aumenta, quindi, la capacità polmonare totale in pazienti in cui la capacità vitale si riduce, significa che il parametro che cambia e che aumenta è proprio il volume residuo. In merito a ciò, il professor Macklem ha elaborato una teoria secondo cui nella BPCO, più che il FEV1, è importante il volume residuo, perché se il FEV1 si riduce non è una conseguenza della broncostruzione pura; non è, quindi, la riduzione del FEV1 la causa dell’iperinsufflazione, ma piuttosto, invece, la riduzione del FEV1 è la conseguenza dell'aumento del volume residuo. In fondo, cos’è esattamente il FEV1? È il volume di aria espirata nel corso del primo secondo di un’espirazione forzata. E l'espirazione forzata serve ad espellere che cosa? La capacità vitale. Il FEV1 che porzione rappresenta, nel soggetto normale, della capacità vitale? Il 75-80%. Dunque il FEV1 non è altro che una percentuale della capacità vitale, sicuramente ridotta nel soggetto con BPCO. Pertanto, se si riduce la capacità vitale, anche il FEV1, che ne è una parte, si riduce. Se aumenta il volume residuo, si riduce la capacità vitale, di conseguenza se aumenta il volume residuo diminuisce, ovviamente, anche il FEV1. Quindi, nella BPCO, il momento iniziale dell'alterazione fisiopatologica alla base della malattia non è la riduzione del FEV1, come nell'asma, bensì l'aumento del volume residuo, che aumenta man mano che progredisce la malattia, portando ad un aumento della capacità polmonare totale per una riduzione della capacità vitale. L'aumento del volume residuo, in sostanza, avviene a discapito della capacità vitale che diminuisce, con diminuzione del FEV1 che ne è una sua parte. In conclusione, il professor Macklem ribadisce che, infatti, è proprio l'intrappolamento d'aria, l'iperinsufflazione polmonare, l'aumento del volume residuo a determinare la riduzione del FEV1, che è conseguenza e non causa dell'aumento del volume residuo. Per questo, nei pazienti con BPCO è fondamentale fare anche la pletismografia corporea, indagine che consente di arrivare a determinare il volume residuo. La spirometria, per definizione, analizza l'aria mobilizzata, e il volume residuo non lo è, per cui tale indagine non consente di valutare il volume residuo. Alterazioni della diffusione alveolo-capillare. Il paziente con BPCO che inizia ad avvertire dispnea tende a limitare l’esercizio fisico, ma ciò peggiora la situazione, perché l’inattività porta a perdita di trofismo non solo degli arti, ma anche della muscolatura della gabbia toracica. Pertanto, l’incremento del volume residuo diminuisce anche la capacità inspiratoria. Poi, ovviamente, alla limitazione del flusso aereo può conseguire anche un’alterazione degli scambi gassosi alveolo- capillari, quindi un’ipossiemia; oltre a questa, si può verificare ipercapnia: mentre l’ipossiemia è legata soprattutto al deficit del flusso aereo, l’ipercapnia è legata alla disfunzione della muscolatura respiratoria, un deficit di pompa muscolare. 71 Un’altra causa di ipossiemia è l’alterazione della diffusione alveolo-capillare tipica degli enfisematosi, per la legge di Fick, secondo cui la diffusione di un gas, attraverso una membrana semipermeabile, è direttamente proporzionale alla differenza di pressione alveolare, alla superficie di scambio, alla diffusibilità del gas e inversamente proporzionale allo spessore della barriera. Questo perché la distruzione parenchimale dell'enfisema polmonare causa una riduzione della superficie di scambio sia sul versante ventilatorio che su quello perfusionale. L’enfisema, infatti, è l'iperdistensione alveolare associata alla distruzione dei setti, con conseguente distruzione anche dei vasi. Alterazioni del circolo polmonare. Nei pazienti con BPCO si possono ritrovare anche delle alterazioni del circolo polmonare, per cui aumenta la pressione polmonare che è fisiologicamente molto bassa, molto più bassa della pressione sistemica, in quanto nel circolo polmonare la bassa pressione è dovuta alle basse resistenze. È chiaro che se la pressione equivale sempre al prodotto tra flusso e resistenze, e se il flusso polmonare equivale a quello sistemico, ma le resistenze vengono mantenute basse grazie alla vasodilatazione e al reclutamento delle unità capillari, allora la pressione nel complesso sarà più bassa. Nella BPCO, la pressione polmonare aumenta e questo diventa motivo di affaticamento del cuore destro, cioè sovraccarico ventricolare destro e quindi cuore polmonare. Uno dei principali fattori responsabili dell'ipertensione polmonare nei pazienti con BPCO è la vasocostrizione ipossica: se c'è deficit ventilatorio, ipossia, si attiva un riflesso vasocostrittore, perché in questo modo si tende a deviare il flusso ematico verso distretti più ventilati. Questo riflesso, inizialmente motivato da “buoni propositi” dell'organismo, in realtà si traduce in un danno ulteriore perché, riducendosi il calibro dei vasi, aumentano le resistenze. Per questi pazienti è importante l’ossigenoterapia, per revertire la vasocostrizione ipossica. Altro elemento da considerare è la policitemia, un aumento dei globuli rossi in circolo dovuto ad un incremento della produzione dell'eritropoietina da parte del rene, con un conseguente aumento della viscosità del sangue che, per la legge di Poiseuille, fa aumentare le resistenze e, dunque, la pressione. In conclusione, un'ottima ossigenazione consente di ridurre la pressione del circolo polmonare e, nel complesso, inoltre, la pressione polmonare dipende anche da una predisposizione genetica, oltre che dai meccanismi precedentemente citati. In aggiunta a ciò, l’ipertensione polmonare è sicuramente più accentuata in pazienti con interstiziopatie polmonari rispetto ai pazienti con BPCO, con prognosi peggiore, ovviamente, nei primi. Patogenesi Fattori di rischio certi  fumo di sigaretta  deficit di α1-AT parzialmente documentati  inquinamento atmosferico  ridotto peso alla nascita  infezioni respiratorie in età infantile presunti  iperreattività bronchiale/atopia  infezioni da adenovirus  deficit dietetici (es. vitamina C)  terreno costituzionale α1-AT è una proteina con funzione antielastasica: è prodotta dal fegato, viene immessa nel circolo che raggiunge i polmoni, poi gli alveoli, dove ha funzione di proteggere il polmone dagli attacchi delle elastasi (proteasi rilasciate dalle cellule infiammatorie, quali soprattutto granulociti neutrofili e macrofagi, che liberano enzimi proteolitici che distruggono la matrice elastica del polmone provocando l'enfisema). Se si fa il dosaggio, in un fumatore, dell’α1-AT, la si trova a livelli normali, ma nel fumatore l'antitripsina non funziona perché è inattivata dallo stress ossidativo indotto dal fumo di sigaretta, quindi non serve dosarla perché il suo valore risulterà normale, ma la proteina non sarà funzionale. 72 In realtà, però, il deficit di α1-antitripsina è l'unica condizione in cui il genotipo determina il fenotipo (il paziente svilupperà una condizione di enfisema polmonare primitivo). Nella maggioranza dei casi, invece, la BPCO non è una malattia genetica congenita, ma è una patologia che nasce dall'interazione tra una predisposizione individuale a svilupparla e l’esposizione ad agenti ambientali (soprattutto fumo). Lo stress ossidativo, attraverso questa eccessiva liberazione a livello broncopolmonare rispetto ai radicali ossidanti ed all’ossigeno, determina il danno ossidativo delle macromolecole biologiche, la perossidazione dei lipidi, il danno del DNA, la carbonilazione delle proteine, perché allo stress ossidativo si associa lo stress carbonilico. 75 L'IL-17 può essere prodotta non solo dai linfociti Th17, ma anche dalle ILC3 (type 3 innate lymphoid cells), che contribuiscono alla patogenesi infiammatoria della BPCO (nella BPCO, infatti, le ILC3 sono nettamente aumentate rispetto ai soggetti che non hanno la patologia). Oggi le IL-17 ed i loro recettori sono target importanti per terapie sperimentali antinfiammatorie: l’anticorpo monoclonale diretto contro l'IL-17A, per esempio, a livello sperimentale riesce ad abolire la flogosi neutrofila in un modello sperimentale in cui alcuni topi vengono esposti all'azione congiunta del fumo di sigaretta e di Haemophilus influenzae, che è uno dei principali agenti batterici responsabili della riacutizzazione di BPCO. IL-17A e IL-17F, dunque, svolgono un ruolo fondamentale nella patogenesi della BPCO soprattutto per quanto riguarda la flogosi neutrofila, che nella BPCO è più diffusa rispetto che nell’asma. Nella BPCO l’infiammazione può essere neutrofila o macrofagica e, in alcuni casi, eosinofila; nell’asma, invece, molto spesso è eosinofila e meno spesso neutrofila. IL-17A e IL-17F agiscono con numerosi meccanismi cellulari di trasduzione dei segnali, tra i quali molto importante è l'attivazione delle MAP-chinasi, in particolare la p38, che è uno dei principali sistemi di trasduzione dei segnali attivati dallo stress ossidativo attraverso il fumo di sigaretta, che portano ad una serie di alterazioni cellulari e molecolari responsabili dell’infiammazione neutrofila. 76 IL-17 attiva le MAP-chinasi, soprattutto p38 e, purtroppo, la conseguenza di questa attivazione è lo sviluppo, secondo una cascata di fosforilazione, di una serie di fenomeni che portano alla flogosi neutrofila e al rilascio di chemochine come IL-8 e il leucotriene B4. I neutrofili rilasciano elastasi ed enzimi proteolitici, che provocano ipersecrezione di muco e, soprattutto, distruzione della matrice elastica polmonare. Th17 e CXCL3, attraverso la liberazione di IL-17, partecipano anche ad altri fenomeni infiammatori, fibrotici peribronchiolari ed autoimmunitari. 77 Altri sottogruppi di MAP-chinasi sono JNK (c-Jun N-terminal kinase) ed ERK. La forma fosforilata attiva della MAP-chinasi p38 è maggiormente espressa nei fumatori affetti da BPCO non solo a livello dei macrofagi alveolari, ma anche a livello dei setti interalveolari, dove esistono dei linfociti T in cui si attiva la MAP-chinasi p38. L’immagine rappresenta un’iperdistensione alveolare, in cui è presente un abnorme ampliamento degli spazi aerei distali ai bronchioli terminali. L’iperdistensione alveolare si associa ad un setto interalveolare integro nella parte indicata dalla freccia in alto a destra, distrutto in quella indicata in basso a sinistra. Il livello di espressione della forma fosforilata attiva della MAP-chinasi p38 correla con la severità della limitazione del flusso aereo. Maggiore è la limitazione, cioè più basso è il FEV1, più intensa è l’espressione della forma fosforilata attiva della MAP-chinasi p38. Man mano che il FEV1 diminuisce, aumenta la presenza di MAP-chinasi p38 fosforilata iperattiva, per esempio nell’espettorato dei pazienti con BPCO. 80 Esistono altri fenomeni come l'apoptosi delle cellule epiteliali alveolari degli pneumociti, che è un momento importante nell’iniziale patogenesi dell'enfisema polmonare, che è l'innesco dei meccanismi distruttivi, i quali in gran parte sono dovuti ad uno squilibrio tra proteasi (elastasi, metalloelastasi, elastasi neutrofile, proteasi neutrofilo- macrofagiche che distruggono l'elastina) ed antiproteasi (α1-AT). Nel paziente con BPCO, si verifica uno squilibrio del rapporto proteasi/antiproteasi perché le proteasi aumentano, in quanto rilasciate in eccesso dalle cellule infiammatorie neutrofilo-macrofagiche implicate nel processo infiammatorio, ma questo incremento delle proteasi e delle elastasi porta ad una riduzione della funzione dell'α1-AT che viene ossidata dallo stress ossidativo, soprattutto a livello del sito attivo dell'enzima. L'α1-AT funziona come enzima antielastasico, antiproteolitico mediante un rapporto stechiometrico 1:1 tra proteasi e antiproteasi. A livello del sito attivo di α1-AT esistono dei residui amminoacidici come la metionina 358, che svolge una funzione fondamentale nel ruolo catalitico di questo enzima. Il fumo e lo stress ossidativo inducono l'ossidazione della metionina 358, ossidando il sito attivo ed inattivando così l'α1-AT. Lo squilibro proteasi/antiproteasi è alla base della distruzione della matrice elastica polmonare (caratteristica saliente dell'enfisema polmonare) e si verifica proprio per questo sbilanciamento: aumento delle proteasi e disfunzione dell'α1-AT ossidata la quale, anche se presenta livelli normali, essendo ossidata, è disfunzionale. Molto spesso, i pazienti con BPCO presentano una serie di comorbidità, quali patologie cardiovascolari (le più frequenti), muscolo-scheletriche, depressione. Diagnosi Criteri di valutazione differenziale tra asma e BPCO. Il principale criterio di differenziazione è la dispnea: nell’asmatico è occasionale e accessionale e si manifesta sotto forma di crisi dispnoiche sibilanti, che possono regredire spontaneamente o per effetto della terapia, dando luogo a periodi intercritici più o meno lunghi. Nella BPCO, invece, è persistente e progressiva, inizialmente da sforzo intenso, poi da sforzi più lievi e, infine, a riposo. 81 Altra differenza risiede nella tosse, che nell'asma è secca ed è più frequente di notte, a differenza della BPCO, in cui è con catarro e si verifica maggiormente al mattino, dopo un lungo accumulo delle secrezioni bronchiali durante la notte. Dal punto di vista prognostico, l'asma ha sicuramente prognosi positiva e generalmente migliora con l'età in quanto, con il passare del tempo, migliorano le cure. La BPCO, invece, porta ad un progressivo ed inesorabile deterioramento funzionale e non migliora assolutamente con il tempo, anzi, peggiora. Anche l'età è diversa: la BPCO è tipica soprattutto degli anziani, mentre spesso, invece, l'asmatico è giovane (ad eccezione dell'asma late-onset). Eterogeneità dei quadri di BPCO. Parlando dell’eterogeneità fenotipica del paziente con BPCO, vi è una distinzione rigida e didattica, ma sempre valida, tra paziente enfisematoso e paziente bronchitico cronico. Il primo ad identificare questa eterogeneità tra i pazienti con BPCO fu il professor Dornhorst, a Londra, negli anni Cinquanta, parlando di due tipi di pazienti: il blue bloater (pletorico, cianotico e sovrappeso, bronchitico cronico) e il pink puffer (enfisematoso, con una dispnea sbuffante, senza cianosi, più cachettico del primo). Nel bronchitico cronico, la dispnea insorge temporalmente dopo la tosse ed il catarro, a differenza dell’enfisematoso puro, in cui il deficit di ritorno elastico determina subito la dispnea. Vi sono, poi, tante altre variazioni, difficili da essere marcatamente distinte, perché molto spesso questi quadri si sovrappongono dando luogo a fenotipi diversi, in cui la componente bronchitica ed enfisematosa si combinano in modo differente. Il paziente enfisematoso si caratterizza per una progressiva perdita di peso, che riguarda soprattutto la massa magra: si perde muscolatura negli arti ma anche nel torace, elemento sicuramente negativo in quanto si ha atrofia della muscolatura respiratoria. In uno studio pubblicato da Fletcher e Peto, si evidenzia cosa succede nei soggetti suscettibili al fumo. Se un soggetto è suscettibile al rischio fumo, fumando sempre ridurrà il FEV1, ma arriverà prima all’insufficienza respiratoria e alla morte rispetto al paziente non fumatore o che smette di fumare relativamente presto. È importante che un paziente smetta di fumare possibilmente prima dei 40-50 anni, perché se lo fa dopo, le alterazioni legate allo stress ossidativo hanno ormai preso una progressione autonoma anche quando è cessata la causa che le ha generate. Un’altra indagine di rilevante importanza, oltre alla spirometria e alla pletismografia, è l’emogasanalisi arteriosa, soprattutto in pazienti che presentano un deficit ventilatorio ostruttivo molto importante. Un’altra caratteristica clinica tipica della BPCO sono le riacutizzazioni, ovvero la tendenza ad un peggioramento dei sintomi (soprattutto la dispnea) che richiede un aggiustamento della terapia. Le riacutizzazioni, inoltre, sono associate ad un aumento della mortalità. Nel processo di riacutizzazione, aumenta l’iperinsufflazione polmonare per un aumento del volume residuo ed aumentano anche i meccanismi flogistici. I patogeni responsabili di riacutizzazioni sono Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae e Moraxella catarrhalis. 82 Nell'ambito dell'iniziativa GOLD, è stato definito uno schema che suddivide i pazienti in quattro quadranti, sulla base dei sintomi e delle riacutizzazioni. Nel quadrante A, i pazienti hanno pochi sintomi e poche riacutizzazioni. Nel quadrante B, i pazienti hanno poche riacutizzazioni e molti sintomi. Nel quadrante C, i pazienti hanno molte riacutizzazioni e pochi sintomi. Nel quadrante D, i pazienti hanno molte riacutizzazioni e molti sintomi (quadro più grave). Esistono, poi, dei questionari che valutano nel tempo la gravità della BPCO. Il questionario mMRC, ad esempio, determina il grado della dispnea. 85 Ci può essere anche un overlap tra bronchite cronica, enfisema ed asma: per riferirsi ad esso, qualche anno fa è stato designato l’acronimo ACOS (Asthma COPD Overlap Syndrome), che descriverebbe una condizione di overlap di alterazioni tipiche sia dell’asma, sia della BPCO, ad esempio una dispnea in parte variabile e in parte persistente. Inoltre, tale concetto sottintende che un bronchitico cronico potrebbe sviluppare una componente eosinofila (più tipica dell'asma), così come un asmatico potrebbe sviluppare una componente neutrofila (per esempio nel caso di un giovane allergico che inizia anche a fumare). Terapia 86 La terapia di base della BPCO si fonda sul trattamento broncodilatante, eventualmente integrato, in alcuni pazienti, con corticosteroidi inalatori. Ciò è fondamentale perché, mentre nella terapia dell’asma mai si deve utilizzare il broncodilatatore a lungo termine LABA o LAMA da solo, ma sempre in aggiunta alla terapia corticosteroidea inalatoria, nella BPCO è esattamente il contrario. I farmaci, dunque, fondamentali per il trattamento della BPCO sono i broncodilatatori, soprattutto nelle formulazioni a lunga durata d’azione, i LABA e i LAMA, che esplicano la loro attività terapeutica come broncodilatatori e, soprattutto, come desufflatori polmonari. I LABA e i LAMA sono tanto efficaci nel trattamento della BPCO perché si tratta di farmaci in grado di contrastare molto efficacemente l’ipertono colinergico broncomotore, che rappresenta l’unica componente sostanzialmente reversibile nella patogenesi della limitazione del flusso aereo di questi pazienti, visto che contro la distruzione elastica dell’enfisema polmonare non si può fare nient’altro se non un trapianto di polmone. Ciò che, invece, si può fare in terapia nella BPCO è soprattutto attenuare, se non neutralizzare, l’ipertono colinergico vagale parasimpatico. Questo ipertono colinergico parasimpatico è sostenuto da eccessivi livelli di acetilcolina presenti nelle vie aeree dei pazienti con BPCO rispetto ai pazienti che non hanno questa malattia. Ovviamente, tale eccessiva quantità di acetilcolina nelle vie aeree sbilancia i normali meccanismi di regolazione omeostatica del carico bronchiale. Fondamentalmente, la concezione dell’equilibrio fisiologico finalizzato all’omeostasi del tono broncomotore si fonda su un’azione broncocostrittrice del vago, del tono parasimpatico colinergico mediato dall’acetilcolina, alla quale si contrappone l’azione dell’adrenalina piuttosto che della noradrenalina. Questo succede perché nelle vie aeree umane esiste una densa innervazione colinergica implementata dalle ramificazioni del nervo vago che rilascia acetilcolina, che è il principale neurotrasmettitore broncocostrittore. 87 In condizioni fisiologiche, l’omeostasi del tono broncomotore è garantita dall’azione contrapposta tra il vago, cioè l’acetilcolina, ad azione broncocontratturante, e il sistema adrenergico broncodilatante. Nelle vie aeree umane, tuttavia, esiste una scarsissima innervazione noradrenergica simpatica, a differenza di quella molto abbondante parasimpatica colinergica vagale, e allora, non essendoci molte fibre simpatiche a differenza delle abbondanti fibre parasimpatiche, l’acetilcolina può essere antagonizzata dall’adrenalina circolante prodotta dalla midollare del surrene. È, dunque, soprattutto l’adrenalina il mediatore broncodilatatore che contrasta l’azione del vago e da questo dualismo, che non esiste soltanto a livello delle vie aeree ma in quasi tutte le funzioni viscerali, deriva la regolazione omeostatica del tono vagale che garantisce la pervietà delle vie aeree in condizioni fisiologiche. Se, tuttavia, c’è uno sbilanciamento rispetto alla situazione normale per cui vi è troppa acetilcolina, come nei pazienti con BPCO, l’adrenalina presente in quantità fisiologiche non riesce a contrastare efficacemente l’azione broncocontratturante dell’acetilcolina in eccesso per cui, evidentemente, per ripristinare, o almeno attenuare gli effetti di questo squilibrio, è necessario ricorrere a un potenziamento farmacologico dei meccanismi broncodilatatori. Questo ipertono vagale parasimpatico colinergico deriva in gran parte dall’attivazione di riflessi vagali parasimpatici che partono dalla periferia afferente, per esempio per effetto di stimolazioni delle terminazioni vagali periferiche ad opera del fumo di sigaretta, degli inquinanti atmosferici, delle infezioni respiratorie… Qualsiasi stimolo che attivi questi riflessi vagali determina, attraverso una stazione nel sistema nervoso centrale a livello del tronco encefalico, l’attivazione di un vero e proprio riflesso con l’attivazione della via efferente del vago, che contrae sinapsi nei gangli parasimpatici. In questa slide, i gangli parasimpatici sono raffigurati in maniera disordinata da un punto di vista anatomico, per esigenze didattiche. In realtà, infatti, i gangli parasimpatici del vago stanno a ridosso della parete bronchiale, per cui esistono lunghe fibre parasimpatiche vagali colinergiche pregangliari e corte fibre parasimpatiche colinergiche vagali postgangliari. Il rilascio di acetilcolina da parte delle fibre parasimpatiche colinergiche vagali postgangliari induce la stimolazione dei recettori muscarinici M3 postgiunzionali localizzati a livello delle vie aeree che sicuramente prevalgono, almeno nelle vie aeree umane, sugli M2. 90 Esistono, dunque, diverse basi farmacologiche che spiegano l’efficacia di queste combinazioni LABA-LAMA nella terapia della BPCO, anche se la GOLD le relega in una posizione non preminente, perché ben 3 quadranti su 4 prevedono un solo broncodilatatore nel trattamento iniziale della malattia. Tra l’altro queste interazioni, che garantiscono un sinergismo a livello postgiunzionale, si estendono e si complementano anche a livello pregiunzionale, perché a livello pregiunzionale esistono dei recettori β2-adrenergici che inibiscono il rilascio di acetilcolina quando stimolati dal LABA. L’azione di questi recettori β2-adrenergici pregiunzionali è potenziata dagli autorecettori M2 che, anch’essi, inibiscono il rilascio di acetilcolina, soprattutto se lasciati liberi di funzionare anche dai moderni LAMA, i quali li bloccano solo brevemente. Non solo, oltre all’ottimizzazione della broncodilatazione, le combinazioni LABA- LAMA garantiscono anche l’estensione dell’attività broncodilatante a tutto l’albero respiratorio, perché i recettori muscarinici bloccati dai LAMA prevalgono a livello delle vie aeree centrali prossimali di grosso calibro, mentre la densità dei recettori β2-adrenergici si incrementa progressivamente procedendo verso le vie aeree distali di piccolo calibro presenti alla periferia dell’albero respiratorio. Sulla base di queste nozioni farmacoterapeutiche, negli ultimi anni sono stati sviluppati degli approcci che garantiscono, attraverso un’inalazione da un singolo dispositivo, l’erogazione di due farmaci, per cui esistono 4 accoppiamenti LABA-LAMA. Il primo ad essere stato introdotto in terapia è stato quello tra il LABA indacaterolo e il LAMA glicopirronio, approccio poi integrato dall’aggiunta di altri dispositivi con altre combinazioni. La combinazione LABA-LAMA indacaterolo-glicopirronio è stata studiata mediante un complesso programma di trial clinici denominato IGNITE, che comprendeva vari trial, ad esempio lo studio SHINE, che ha dimostrato come la combinazione indicata originariamente come QVA149, che significa indacaterolo più glicopirronio, era superiore rispetto alle monocomponenti per quanto riguarda la capacità di aumentare maggiormente il FEV1 trough di valle, ossia il FEV1 ai suoi valori più bassi, cioè il FEV1 presomministrazione di terapia broncodilatante. Se, per esempio, la combinazione indacaterolo-glicopirronio si somministra ogni 24 ore, il FEV1 di valle si valuta 24 ore dopo l’ultima somministrazione o immediatamente prima della successiva. La superiorità non è solo in termini di incremento di FEV1, ma soprattutto di miglioramento della dispnea e, mediante un parametro che si chiama Transitional Dyspnea Index, è possibile verificare come la combinazione LABA-LAMA indacaterolo-glicopirronio sia superiore non solo al placebo, ma anche al solo tiotropio, ad un solo LAMA, nell’aumentare più efficacemente il TDI (Transitional Dyspnea Index), cioè nell’attenuare più efficacemente la dispnea, come ha evidenziato lo studio BLAZE. 91 Il fondamento fisiopatologico di questo effetto farmacologico è la desufflazione polmonare. Lo studio BRIGHT, del programma IGNITE, infatti, ha evidenziato come la capacità respiratoria sia maggiormente aumentata dalla combinazione indacaterolo-glicopirronio rispetto non solo al placebo, ma anche al solo LAMA tiotropio. A questo aumento della capacità inspiratoria garantito da indacaterolo più glicopirronio corrisponde una serie di effetti derivanti dalla desufflazione polmonare, che si traduce anche in una prevenzione più efficace delle riacutizzazioni della BPCO, come ha dimostrato lo studio SPARK del programma IGNITE. Ci si potrebbe chiedere cosa c’entri la broncodilatazione con le riacutizzazioni: c’entra perché è vero che le riacutizzazioni si fondano anche sull’incremento dell’infiammazione, ma questa infiammazione è molto spesso scarsamente sensibile al corticosteroide inalatorio, in quanto questo è poco efficace verso la flogosi neutrofila, mentre è efficacissimo verso l’infiammazione eosinofila. Lo stress ossidativo, inoltre, inibisce l’azione dei corticosteroidi. Mechanisms by which LABA/LAMA may decrease the frequency of COPD exacerbations Si è detto che lo stress ossidativo inibisce l’azione dell’istone deacetilasi in quanto, attivando la fosfoinositide 3- chinasi, porta alla fosforilazione, all’inattivazione e alla degradazione proteolitica delle istone deacetilasi che, in fin dei conti, hanno un effetto antinfiammatorio perché, ricompattando il DNA, ne mascherano i siti di riconoscimento per i fattori trascrizionali che attivano i geni proinfiammatori, e le istone deacetilasi sono dei target molto importanti del meccanismo molecolare dell’azione dei cortisonici. 92 I cortisonici esplicano i loro effetti antinfiammatori attraverso una serie di meccanismi pleiotropici, tra i quali anche il reclutamento e l’attivazione dell’istone deacetilasi ma, se essa è inibita dallo stress ossidativo, questo inibisce anche l’azione dei corticosteroidi, che già di per sé non sono così efficaci verso l’infiammazione neutrofila. Nelle riacutizzazioni, dunque, c’è una scarsa risposta ai corticosteroidi, ma sono, invece, efficaci i broncodilatatori, soprattutto a lunga durata d’azione, perché desufflano i polmoni. In effetti, la desufflazione polmonare è il meccanismo per cui le combinazioni LABA-LAMA sono in grado anche di prevenire le riacutizzazioni entro certi limiti, oltre a migliorare la dispnea, il FEV1 ecc. Lo studio FLAME ha evidenziato, sempre nel programma IGNITE, come addirittura la combinazione LABA-LAMA indacaterolo + glicopirronio sia superiore alla combinazione ICS-LABA, già vista nell’asma, fluticasone propionato- salmeterolo, nel prevenire più efficacemente le riacutizzazioni moderate e gravi di BPCO. Questo perché, fondamentalmente, le riacutizzazioni di BPCO, che consistono in un aggravamento dei sintomi, soprattutto tosse, catarro e dispnea, richiedono un incremento della terapia. Si è, però, anche visto che, durante le riacutizzazioni, l’iperinsufflazione polmonare peggiora, perché il volume residuo aumenta ancora di più e la capacità inspiratoria si riduce ulteriormente rispetto alle fasi di relativa stabilità clinica della malattia, per cui un’azione desufflante, pur non essendo antinfiammatoria, ha comunque un effetto positivo anche per quanto riguarda le riacutizzazioni. Clinically important deteriorations (CIDs)  Deterioration in health-related quality of life defined as ≥ 4-unit increase from baseline in SGRQ total score;  decrease of ≥ 100 ml from baseline in trough FEV1;  occurrence of an on-treatment moderate-to-severe COPD exacerbation. Esistono, poi, le CID, di recente introdotte nella pratica clinica, che valutano i deterioramenti clinicamente importanti nella BPCO secondo il punteggio SGRQ (St. George's Respiratory Questionnaire). È stato visto che la combinazione indacaterolo-glicopirronio è in grado di attenuare più efficacemente questi tre parametri rispetto al tiotropio da solo e anche rispetto alla combinazione salmeterolo-fluticasone, a conferma dell’effetto anti-riacutizzante di prevenzione della dualterapia LABA-LAMA. Non solo, ma i pazienti BPCO molto spesso hanno delle comorbidità cardiovascolari, nell’ambito delle quali molto importante è la cardiopatia ischemica. Ebbene, la riacutizzazione della BPCO, oltre a peggiorare la BPCO e la funzione respiratoria, peggiora anche la comorbidità cardiovascolare, perché i polmoni sono iperinsufflati dalla BPCO, dunque tendono ad occupare più spazio di quello a loro riservato e ciò comporta una compressione sul cuore. Le sue escursioni sisto-diastoliche sono limitate, ma soprattutto questo stress meccanico può determinare il rilascio di fattori di crescita che portano al rimodellamento ventricolare sinistro, e il rimodellamento ventricolare sinistro è il germe dell’ipertrofia ventricolare sinistra, che è a sua volta il germe dello scompenso cardiaco. È stato visto con esperimenti di risonanza magnetica cardiaca che se aumenta il volume residuo, cioè se aumenta l’iperinsufflazione polmonare in pazienti con BPCO, aumenta anche la massa ventricolare sinistra. Lo studio CLAIM ha dimostrato che la combinazione indacaterolo-glicopirronio non solo desuffla i polmoni ma, facendo ciò, è in grado anche di aumentare il volume telediastolico ventricolare sinistro e la frazione di eiezione ventricolare sinistra. Un’altra combinazione LABA-LAMA è quella umeclidinio (LAMA)-vilanterolo (LABA), che aumenta il FEV1 meglio delle singole monocomponenti, ma soprattutto migliora la dispnea incrementando il Transition Dyspnea Index più efficacemente del solo umeclidinio o del solo vilanterolo. L’effetto fondamentale è, ancora una volta, la riduzione del volume residuo e l’aumento della capacità respiratoria, quindi la desufflazione polmonare. Questa azione desufflante è in grado, entro certi limiti, di prevenire la riacutizzazione della BPCO, ma anche per la combinazione umeclidinio/vilanterolo è possibile ottenere un miglioramento delle CID, sia rispetto alle singole componenti, sia rispetto al solo tiotropio. Proprio il tiotropio è presente in un’altra efficace combinazione con il LABA olodaterolo, anch’essa studiata mediante un complesso programma di studi clinici denominato TOviTO. Il programma TOviTO comprendeva gli studi TONADO 1 e 2 che hanno evidenziato come la combinazione tiotropio-olodaterolo sia più efficace nell’incrementare il FEV1 di valle predose rispetto alle singole componenti della combinazione, così come nel profilo del FEV1 nelle 24 ore lo studio ENERGITO ha dimostrato la superiorità della combinazione rispetto alle singole componenti. 95 Lo studio PEACE ha evidenziato come la carbocisteina abbia vinto sul placebo grazie alle sue proprietà antiossidanti nel ridurre le riacutizzazioni di BPCO. Lo studio PANTHEON, invece, ha dimostrato come la N-acetilcisteina al dosaggio di 1200 mg al giorno e non al dosaggio di 600 mg (dose per attività mucolitica) è in grado di prevenire più efficacemente le riacutizzazioni. Altro farmaco è l’azitromicina. Esso è un antibiotico appartenente alla classe dei macrolidi che può essere utilizzato a cicli ripetuti nella terapia della BPCO per una potenziale azione antinfiammatoria nel prevenire le riacutizzazioni dovute alla triade Haemophilus, Pneumococcus, Moraxella catarrhalis. L’azitromicina sarebbe in grado di spegnere l’attività di geni proinfiammatori nell’infiammazione neutrofila. Esistono, infine, terapie non farmacologiche altrettanto importanti, come la vaccinazione sia antinfluenzale, sia antipneumococcica, che prevengono le riacutizzazioni infettive (non le annullano, ma ne riducono il tasso annuale). È importante anche la riabilitazione respiratoria, soprattutto per evitare la rinuncia all’attività fisica a causa della dispnea e l’intolleranza all’esercizio fisico: può consistere anche in semplici passeggiate lunghe su terreni pianeggianti, a passo lento con riposo. 96 Interstiziopatie polmonari Per interstiziopatia polmonare, o malattia interstiziale polmonare (o anche pneumopatia infiltrativa diffusa o pneumopatia interstiziale; sigla ILD dall'inglese Interstitial Lung Disease) si intende un quadro anatomopatologico costituito da un'alterazione dell'interstizio polmonare (il tessuto di rivestimento degli alveoli polmonari), causata da un'infiammazione polmonare diffusa, che spesso progredisce fino alla fibrosi, che compromette gli scambi gassosi. Il termine interstiziopatia polmonare viene utilizzato per descrivere queste patologie indipendentemente dal fatto che il processo morboso abbia origine dall'interstizio o da altre localizzazioni nell'ambito del parenchima polmonare. Prese singolarmente, le patologie sono piuttosto rare (a volte anche molto rare), ma insieme rappresentano la causa più frequente di malattia polmonare cronica non ostruttiva, e costituiscono il 15-20% di tutte le malattie croniche del polmone. Classificazione 97 La classificazione delle interstiziopatie polmonari risulta estremamente complessa. Le patologie polmonari che costituiscono le interstiziopatie sono:  fibrosi polmonare idiopatica: rappresenta, secondo alcune casistiche, il 55% dei casi di IP. È una malattia, oltre che la più grave nell’ambito delle IP, ad eziologia sconosciuta e difficilmente diagnosticabile. La FPI rappresenta il sottogruppo più importante nell’ambito di questo capitolo;  interstiziopatie ad eziologia autoimmune. Si configurano nell’ambito di:  artrite reumatoide;  sclerosi sistemica;  LES;  sindrome di Sjögren;  altre connettiviti. Risulta fondamentale procedere con valutazione degli autoanticorpi per definire, qualora ci fosse, una base autoimmunitaria delle IP;  polmoniti da ipersensibilità;  sarcoidosi, malattia altamente responsiva alla terapia poiché se ne conosce bene la patogenesi;  altre interstiziopatie:  da farmaci: l’amiodarone, farmaco antiaritmico, è in grado di indurre gravi fibrosi polmonari conseguenti a interstiziopatie polmonari, per fortuna reversibili entro certi limiti temporali. Allo stesso modo agisce la bleomicina, farmaco antineoplastico. Anatomia patologica Dal punto di vista istopatologico, la fibrosi polmonare idiopatica si associa al quadro definito UIP (Usual Interstitial Pneumonia) sin dall’inizio della sua storia naturale, mentre le interstiziopatie su base collagenopatica presentano un quadro istologico definito NSIP (Non-specific Interstitial Pneumonia). A questi diversi quadri anatomopatologici sottendono patogenesi, terapie, prognosi diverse. Un quadro NSIP non adeguatamente trattato può evolvere progressivamente verso il quadro UIP, ciò significa che NSIP può e deve essere trattato. Dipendendo in gran parte da fenomeni patogenetici autoimmuni, risponde bene alle comuni terapie immunosoppressive.  La NSIP si caratterizza per una struttura alveolare abbastanza ben conservata, con infiltrati infiammatori molto evidenti nei setti interalveolari;  la UIP si caratterizza per una struttura alveolare completamente sovvertita; esistono foci fibroblastici e bronchiectasie da trazione, poiché il tessuto fibrotico esercita una trazione sulle pareti bronchiali, dando luogo a formazioni cistiche. La sopravvivenza è nettamente inferiore e quindi la mortalità è nettamente maggiore per la UIP rispetto alla NSIP.
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