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Dispensa storia della filosofia moderna, Appunti di Filosofia

Appunti di tutte le lezioni di filosofia moderna prof lomonaco

Tipologia: Appunti

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marcomattera97
marcomattera97 🇮🇹

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Scarica Dispensa storia della filosofia moderna e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! Storia della filosofia moderna Appunti di Giuliana Bovenzi Lezione 1 e 2: Introduzione al pensiero di Cassirer Cassirer nasce in Breslavia nel 1874 e muore nel 1945 a New York: è stato un filosofo tedesco naturalizzato svedese, di origine ebraica. Studierà a Berlino dove potrà seguire le lezioni su Kant, Paulsen e Simmel, a Marburgo studia filosofia e segue i corsi di Cohen e Natorp. Nel 1898 scrive la prima stesura di Leibniz System; nel 1919 ottiene la cattedra all’università di Amburgo e nel 1929 ne diviene rettore; nel 1933, con l’avvento al potere di Hitler, lascia la Germania perchè ebreo e fino al 1935 insegna ad Oxford: in Italia Giovanni gentile si era perfino battuto per censurare le sue opere. Si traferisce all’università di Göteborg per qualche anno e dal 1941 insegnerà negli Stati Uniti come professore nell’università di Yale. Tra le sue opere meritano di essere ricordate: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna, Sostanza e funzione, Vita e dottrina di Kant, Filosofia delle forme simboliche, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento, La filosofia dell’illuminismo, Saggio sull’uomo. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’eta moderna (1906-1941): Negli scritti sulla storia del problema della conoscenza (tradotto in italiano con il fuorviante titolo di Storia della filosofia moderna), l’impostazione si era venuta evolvendo da un iniziale interesse volto quasi esclusivamente alla trattazione dei problemi gnoseologici riferiti alle scienze esatte, ad una più ampia considerazione delle diverse forme culturali. Ed è nello studio sul concetto d’unione, che nella scienza moderna si è venuto sostituendo a quello di sostanza, che Cassirer mette in luce l’importanza del linguaggio e quindi del segno nella costituzione degli oggetti di cui si occupa la scienza. Nel suo scritto Sostanza e funzione del 1910 Cassirer intende mostrare come la filosofia kantiana s’inserisca intrinsecamente nello sviluppo della scienza a partire da Galileo, giungendo alla conclusione che l’ontologia deve lasciare il passo all’analitica dell’intelletto, cioè ad uno studio delle condizioni apriori e perciò storiche e trascendentali, che presiedono alla formazione dell’oggetto d’indagine delle diverse scienze. Analizzando i caratteri della scienza moderna, Cassirer rileva che al concetto di sostanza è andato progressivamente sostituendosi quello di funzione. Termini come energia, etere, atomo, spazio e tempo, non designano realtà concrete, ma rappresentano esclusivamente simboli per la descrizione di un contesto di possibili relazioni. Di qui nasce l’importanza del linguaggio rispetto agli altri oggetti dell’indagine epistemologica, in quanto la sua natura relazionale influenza la costituzione del mondo oggettivo. Il confronto critico con Hegel Il problema dell’Erkenntnisproblem (problema della conoscenza) veniva spostato dal piano di una storia del problema gnoseologico alla considerazione del progressivo affermarsi dell’autonomia spirituale dell’uomo.  Dal rinascimento all’idealismo postkantiano si tratta di seguire la rivendicazione dell’attività libera dell’uomo senza cadere in una deviazione metafisica. In tale intenzione teorico-storiografica agisce la più generale contrapposizione tra idealismo critico e idealismo assoluto che Cassirer, nel paragrafo conclusivo del capitolo su Hegel di Erkenntnisproblem del 1920, aveva fatto emergere, osservando che lo spirito nella filosofia dell’idealismo assoluto non è mai passato né futuro ma «momento attuale». Tutto il divenire dell’idea si concentra in «un unico punto supremo» che fa perdere di «significato indipendente» a tutto «l’intero sviluppo precedente». L’idealismo cassireriano non sarà mia un idealismo assoluto: egli pertanto distingue il proprio idealismo da quello di Hegel definendolo “critico”: rigetta l’idealismo hegeliano perché questo rischia di non aprirsi mai nè al futuro nè al passato, in quanto quello che conta dell’idea di Hegel è l’essere attuale, il momento di attualità, che non deve essere mai smentito da una sostanza immanente all’eterno presente. Il punto fondamentale di divergenza sta nel diverso rapporto con il concetto e l’intuizione del tempo: per lo storico il tempo è l’autentica ed unica dimensione del suo pensiero; è l’elemento in cui la storia vive, si muove e ha realtà. La storia deve pertanto sempre considerare la verità come un frutto del tempo (veritas filia temporis). Ma la filosofia speculativa non può accettare questa impostazione: anche quando si interessa ai fenomeni del tempo, al flusso e al riflusso della storia, questa sfera non la soddisfa; essa tende a contemplare il regno della realtà sub specie aeternitatis. Non a caso ricordiamo il motto hegeliano “tutto ciò che è reale è razionale e viceversa” cioè la realtà è concepibile solo in quanto razionalità. Tutto ciò che non è concepibile nella razionalità è l’accidentale. L’idealismo speculativo di Hegel si presenta come il processo mediante il quale la metamorfosi spirituale del tempo si realizza: tempo e storia non sono altro che l’autoattualizzazione dell’Idea assoluta. Presa in sé, l’Idea va esente da tutti i condizionamenti e le determinazioni del tempo, non ha passato, né futuro, è assoluta e onnipresente. E la filosofia tiene insieme l’arte e la religione, le unifica in una visione spirituale unitaria, innalzandole, così, alla sfera del pensiero autoconsapevole. Con ciò Hegel è convinto di aver realizzato l’autentica conciliazione di libertà e necessità. La via attraverso la quale lo spirito assoluto giunge a se stesso è una via necessaria; il punto di arrivo in cui questa via sbocca è l’autocoscienza ossia l’assoluta libertà dello spirito. In un saggio del 1936 Cassirer ritorna sui contrassegni dell’idealismo «critico»,  per avvertire che esso si pone un compito diverso, perché non pretende di comprendere il contenuto e la mèta della cultura alla luce di una deduzione logica di ogni suo singolo momento temporale né intende offrire una descrizione metafisica del piano universale di sviluppo. Non pensa che i singoli stadi e processi mediante i quali l’universo della cultura si costruisce manchino di un’effettiva e reale unità, che null’altro siano se non frammenti sparsi, singole espressioni della mente umana in una pluralità di direzioni divergenti. Essi, invece, malgrado le loro differenze, posseggono un’unità intrinseca che non può essere definita né spiegata in termini metafisici o descritta in formule di mera sostanzialità ma neppure nei modi di un sistema storico, naturalistico e fatalistico. Cassirer propone un diverso rapporto tra storia e filosofia in relazione all’intuizione di tempo e al concetto di idea che Cassirer  definisce come compito infinito e puro dover essere in assonanza a quell’idealismo critico che ha come fonte Kant e quel mondo comune cui appartiene ogni coscienza individuale. Denunciato, allora, il carattere arcaico del «naturalismo» positivistico, si trattava di sostenere con la rivoluzione copernicana kantiana un criterio generale di unificazione del sapere: non tanto una unificazione di contenuti ma di unificazione di significati, intesa e definita in termini funzionali, vale a dire in termini di relazioni, di operazioni e di azioni. E ciò perché non si tratta di un qualcosa di dato, ma di un’idea-ideale da intendere dinamicamente. Essa dev’essere “prodotta” e nelle condizioni di tale produzione stanno il significato e  il valore etico della cultura. L’idealismo critico nè descrive analiticamente le forme, quelle della natura e della scienza, della religione, della storia e dell’arte. Dopo la fase di adesione al neokantismo della scuola di Marburgo, egli teorizza una filosofia della cultura fondata sulla funzione dei simboli nel mito, nella scienza, nella religione, nella tecnica. Il punto di partenza neocriticistico di Cassirer agisce soprattutto nelle opere di carattere storico, in cui resta fedele al privilegiamento del problema filosofico della conoscenza. Però, se l’interpretazione kantiana deve molto a Cohen, essa rappresenta una novità laddove, pur ribadendo la normatività della struttura logica dell’esperienza scientifica, ammette la possibilità di più forme che rendono possibile non soltanto la scienza, ma anche la morale, l’arte e la religione. Se per Cassirer la cultura non è altro che l’oggettivazione dello spirito - in senso lato - in forme simboliche, sarà più agevole comprendere le ragioni del suo spiccato interesse per i codici attraverso cui si esprimono le oggettivazioni dello spirito: appunto il mito, il linguaggio, la tecnica. Veniva in questo modo favorito l’ampliamento della rivoluzione copernicana a tutte le forme della cultura, riconosciute nella loro irriducibile autonomia, cioè alla filosofia delle forme simboliche . Non soltanto di ampliamento si tratta, ma anche di un autentico mutamento di prospettiva. Nella Filosofia delle forme simboliche (1923-1925, 1929) permane, infatti, l’esigenza sistematica, caratteristica del neocriticismo marburghese, la quale però si realizza in una “critica della cultura” in cui si considera ogni attività spirituale nella sua forma caratteristica, nel suo “ esser così”, in una ricchezza di forme che rispecchia quella della vita. Scopo principale di tutte le forme della cultura è di edificare un mondo comune del pensiero e del sentimento, un mondo umano che vuol essere un cosmo unitario in cui ogni coscienza individuale partecipa, costruendolo autonomamente con le proprie forze. Il compito della moderna filosofia della cultura sta nel tenere in unità tutte le differenti forme e articolazioni del sapere, fondando quella pluralità delle manifestazioni della Kultur sulla possibile «costruzione di un mondo comune» che ha come centro unificatore l’agire umano. Nello sviluppo del problema della fondazione della logica delle Kulturwissenschaften la filosofia della cultura tende a eludere «tanto la Scilla del naturalismo quanto la Cariddi della metafisica di simbolo mito e cultura». Lo studio si concentra sulle facoltà operanti, sulle attività mentali necessarie alla produzione delle «opere» di cultura. Solo se si riuscirà a gettare uno sguardo sulla natura di queste facoltà e a comprenderle nella loro struttura, per concepire come differiscono l’una dall’altra pur nella cooperazione reciproca, si raggiungerà una visione “nuova” del carattere della cultura. In essa bisogna prendere le distanze da una logica di tipo formale in cui il concetto è frutto di astrazione di tutte le caratteristiche particolari dei singoli oggetti, tendendo, quindi, ad un modello universale astratto. Lo scopo della riflessione cassireriana degli anni Quaranta sarà dunque quello di sottolineare i contributi di una concezione trascendentale della logica che fa del concetto un autentico strumento di comprensione dei diversi ambiti dello spirito, un determinato punto di vista a priori che costituisce un particolare tipo di comprensione del mondo. Così ogni forma simbolica è una forma di pensiero in cui ciascun fenomeno culturale è circoscritto al mondo dell’«obiettività naturale» e, come ogni altro oggetto, possiede «una sua posizione nello spazio e nel tempo». La cultura non può essere cosi spiegata e definita in termini di necessità ma di libertà, intesa in un senso etico anziché metafisico. Coerente è l’opposizione a Simmel che parla di «tragedia della cultura», teorizzando un contrasto tra la vita del soggetto che crea valore e i valori stessi oggettivati e resi privi di vita in tale oggettivazione. Il che induce a sottolineare il perdersi della vitalità soggettiva nelle forme dello spirito oggettivo. Per Cassirer il rischio di tale diagnosi è l’approdo a un “misticismo”, mentre la polarità nel rapporto tra soggetti diversi, mediato dai prodotti della cultura che «è “dialettica, cioè drammatica», resta affidata al continuo lavorio degli uomini e al loro agire spirituale, insicuro della mèta ma inarrestabile”. Pur stimolata dal pensiero di Hegel, la scuola di Marburgo accusava tuttavia la sua dialettica di uccidere lo spirito oggettivo. Il neokantismo pensava che la filosofia fosse in grado di dare unità alla cultura; Cassirer si spinse oltre e cercò, tra il 1910 e il 1920 circa, di approfondire i fondamenti storici della “sua” filosofia delle forme simboliche, prendendo però le distanze dai suoi maestri già a partire dalle loro convinzioni circa una presunta superiorità culturale della Germania contemporanea e, quindi, convinti di una missione culturale su scala universale. Dal medium della forma non si può uscire come Cassirer avverte allontanandosi dai neocriticisti, Cohen e Natorp, ai quali era mancato il senso della pluridimensionalità della logica del principio formatore spirituale che si realizza nella totalità delle diverse forme della cultura. Di queste ultime il ricercato ordinamento non si arresta a una formula universale che esprima la natura assoluta dello spirito e la sequenza necessaria dei suoi singoli fenomeni, né pretende di descrivere o predire il corso futuro della storia della cultura. Intende, invece,  giungere ad una sorta di grammatica e di sintassi dello spirito umano, a una rassegna delle sue varie forme,  al farsi un’idea delle regole generali che le governano. Tali regole non obbediscono a uno schema predeterminato che possa essere descritto una volta per tutte sulla base di un procedimento apriori. Quando Cassirer definisce morfologia dello spirito le forme simboliche, contrappone Goethe a Hegel, rimproverando a quest’ultimo di aver partorito un universo assoluto, strettamente vincolato ai limiti fissati alle possibilità del pensiero soltanto per chiudere, con estrema arroganza intellettuale, il proprio sistema filosofico. Negli stessi anni, come si attesta in Libertà e forma , all’avvicinamento di Cassirer a Goethe si affianca il recupero del Kant della Critica del Giudizio . In Vita e dottrina di Kant (1918)  si conferma una prossimità ideale alla parte seconda della Critica del Giudizio  in cui Kant si occupa di forme viventi, dell’individuo e dell’organismo (non una mera somma di parti, ma come il tutto delle parti), di quegli organismi complessi che sono le culture. Cassirer pubblica, tra gli anni ’30 e i’40, una serie di saggi raccolti da Kristeller, il cui titolo è in origine Dall’Umanesimo all’Illuminismo e oggi nota come Da Cusano a Leibniz. Sin dai titoli di questi importanti testi che precedono i saggi cassireriani si nota come la questione decisiva riguardi il rapporto tra Umanesimo e Rinascimento e la tradizione che l’ha preceduto. Il primo problema riguarda la continuità/discontinuità, problema che Burckhardt risolve sostenendo la tesi della discontinuità: la moderna età umanistico-rinascimentale è nuova perché si afferma in essa il principio dell’individualità, motivo dirompente ed estraneo al Medioevo. La tesi della discontinuità è messa in discussione, invece, da Burdach, il quale sostiene che non si può parlare di una cesura, in quanto la stessa idea di individualità è erede di una serie di esperienze maturate nel Medioevo: la storia non fa dunque salti, ma procede senza motivi di discontinuità. Su questo problema interverrà anche Cassirer, come anche sulla questione dell’Umanesimo, ovvero quello riguardante il problema tra filosofia e Umanesimo. Ci si chiede se esso abbia, cioè, solo ripreso gli studi classici o li abbia anche estesi a studi moderni sulla grammatica e la retorica. Secondo Kristeller, l’Umanesimo rimane fermo alla tradizione scolastica senza innovare il motivo filosofico. Garin, invece, sottolinea che l’Umanesimo esprime una visione del mondo e c’è, dunque, una sua filosofia, in quanto esso guarda al passato con spirito moderno, esercitando un distacco profondo e acquistando il senso della storicità del reale. Per Garin, la filologia dell’Umanesimo non è più semplice analisi testuale, bensì è esercizio critico. Egli ritiene importante l’esperienza di Valla che, ai suoi occhi, ha sposato l’erudizione con un senso del documento capace di dare un’interpretazione innovativa del rapporto tra Stato e Chiesa, potere temporale e spirituale. Secondo Garin, la scoperta della Falsa donazione di Costantino ha avuto dei risvolti prativi di grande rilevanza. Quando Garin scrive Dell’Umanesimo italiano (1948), a seguito del conflitto mondiale, egli prende posizione nei confronti di altre due grandi voci della cultura europea, che si erano interrogati sullo stesso problema, ovvero Sartre (Lettera sull’Umanesimo) e Heidegger. La presa di posizione gariniana si schiera contro la lettura heideggeriana dell’Umanesimo, che, a detta di Garin, mette in crisi la filologia, non conferendole quella forma di sapere critico che essa ha assunto. Heidegger depotenzia la filologia, considerandola strumento inefficace, subordinato alla tradizionale metafisica quando per Garin è, in realtà, l’opposto. Nei momenti di crisi, ancora oggi, ritorna l’interrogazione sull’umano. Soprattutto, si tende ad isolare dell’Umanesimo non solo quella dimensione pacificata che vede in esso l’età delle humanae litterae, degli equilibri politici e culturali, ma anche il portato tragico di questo periodo, derivato dal fatto che la filosofia dell’Umanesimo è una filosofia pratica e aperta ai problemi della vita civile, e, perciò, dotata di dimensione fortemente drammatica. Questo, tuttavia, non è l’approccio cassireriano: quando l’autore si confronta con queste grandi tesi, ritorna al suo problema fondamentale, ovvero quello del linguaggio. Per egli, infatti, anche per capire la novità del Rinascimento bisogna affidarsi a quella che definisce mutazione semantica: si può stabilire l’autentico significato storico di un’idea maturata nel Rinascimento solo capendo come questa stessa idea muti di significato. Egli porta l’esempio della tradizionale teoria dell’impetus, la quale ha preceduto il moderno studio galileiano sulla dinamica. Ma, cogliendo la mutazione nel linguaggio e nel metodo, Cassirer nota che Galileo ha introdotto una novità fondamentale, ovvero il metodo compositivo e risolutivo per dimostrare le leggi della caduta dei gravi. Galileo applica, cioè, il metodo matematico, introducendo un radicale cambiamento rispetto alle teorie del XV secolo. Cassirer evidenza come Galileo utilizzi la matematica per comprendere il reale: non si tratta dunque più di una matematica intesa in senso metafisico, non più un pitagorismo antico, ma sempre di più essa si adatta alla classificazione quantitativa della materia. La matematica offre sostegno al calcolo e alla misura delle quantità, non serve essa ad ordinare un mondo fatto di essenze, bensì a misurare e a regolare le esistenze. Il Medioevo distingueva tra scienza e sapienza, tra conoscenza di cose naturali e sovrannaturali; il moderno, invece, attenua, se non addirittura elimina questa distanza. Sia la conoscenza del mondo lunare che quella del mondo sublunare sono sottoposte a studi di carattere matematico. Galileo introduce una nuova ermeneutica: quando lo scienziato pisano dice che il mondo della natura è scritto in termini matematici da Dio, egli sta sottolineando questa coappartenenza di natura e matematica. Ciò non tocca il significato del testo biblico, ispirato da Dio e rivolto al suo popolo. La matematica è la nuova ermeneutica, che non è più teologica, ma sempre più umanistica, figurativa e simbolica. Cassirer si confronta con la lettura di Kristeller, che aveva negato all’Umanesimo una sua filosofia e lo aveva giudicato coerente con la tradizione scolastica. Cassirer condivide di più le tesi storiografiche di Garin, imperniate su una nuova filologia e filosofia che guardano al passato con occhi nuovi, conquistando cosi un originale senso critico. Centrale è ancora il problema del linguaggio, un divenire che aspira all’unità e all’universale e che segna il destino dell’affermazione moderna della soggettività da Cassirer riconosciuta in Montaigne, autore noto per i suoi Saggi, che conoscono una elaborazione durata decenni e si ispirano non alla filosofia tradizionale ma a quello che Montaigne è in quanto soggettività con le sue esperienze di vita: secondo lui vivere si dà soltanto nel divenire. L’individualità di Montaigne non rinuncia a un riferimento all’universale e Cassirer sa bene che l’aspirazione di Montaigne non è solo al particolare, bensì ad un individuale che deve imparare a farsi universale. Nell’autore dei Saggi c’è ancora una dialettica tra soggetto individuale e natura, intesa come l’insieme di tutti i viventi. Da questo punto di vista Montaigne è ancora rinascimentale: da un lato l’affermazione delle prerogative dell’individualità, dall’altro le resistenze della natura. Si pensi che Montaigne arriva ad accettare la malattia come parte integrante della vita; la morte va vissuta nella vita, nè è un momento. Celebre l’esempio dell’andare a cavallo, che da un lato implica il rischio di cadere, dall’altro significa mantenersi in equilibrio. Si tratta di una metafora della vita: la caduta è sempre possibile e in essa si esperisce il senso della fine all’interno dell’esperienza vitale del cavalcare. La morte non è un altrove, ma essa è inclusa nella vita. Per Montaigne non possiamo comunicare mai più con l’essere, perché siamo un divenire incostante e contraddittorio. Il fatto stesso che Cassirer pubblichi saggi di storia della filosofia significa imitare la forma espressiva utilizzata da Montaigne, che non scrive un trattato di morale. Cassirer imita Montaigne, tant’è che gli ultimi saggi cassireriani non realizzano un’opera in più volumi ma restano saggi. Qual è dunque il punto di vista cassireriano all’interno del saggio sull’Originalità del Rinascimento e perché esso è originale? In fondo, per Cassirer, il Rinascimento esprime nuove forze ed un equilibrio espresso in un assetto radicalmente nuovo. Si tratta di concepire Medioevo e Rinascimento non per qualificare con nomi determinati per gli storici, bensì per definire dei tipi ideali, secondo l’espressione introdotta da Weber. Non si può positivisticamente ridurre il Rinascimento a mero insieme di fatti o contenuti, ma si deve guardare all’equilibrio delle forze in campo: Medioevo e Rinascimento sono, infatti, due potenti correnti di idee. Non si può isolare un solo tratto dell’età del Rinascimento, perché Cassirer sa perfettamente (come egli scrive alla fine del saggio) che « l’acqua che il fiume porta con sé muta con grande lentezza. Le stesse idee affiorano continuamente e durano per secoli. La forza e la tenacia della tradizione non verrà mai sopravvalutata. In questo senso si potrebbe dire ripetere il solito luogo comune che non c’è nulla di nuovo sotto il sole». C’è, dunque, una ripetizione di idee maturate precedentemente: Cassirer sembrerebbe quindi aderire alla tesi della continuità tra Medioevo e Rinascimento. Tuttavia, questa dimensione di continuità non deve portare allo storico ad interrogarsi ancora sulla sostanza di alcune idee, bensì a ricercarne la funzione. Lo storico non deve stabilire il contenuto delle idee, ma la loro dinamica. La tesi della continuità viene, sotto questo aspetto, innovata. Dietro le idee non c’è una sostanza che permane, ma c’è una funzione. Cassirer cita Pico della Mirandola, il cui centro di interesse è il problema della libertà, che di per sé non costituisce una novità: la novità sta piuttosto nella nuova funzione che la libertà assume nel suo pensiero filosofico e religioso. L’originalità del Rinascimento, per Cassirer, non sta tanto nei nuovi contenuti creati, quanto piuttosto nelle nuove energie ridestate e nell’intensità con la quale aggirano tali energie. Il Rinascimento si comprende nel passaggio dalla storia della sostanza alla storia delle funzioni. I contenuti possono anche rimanere sempre gli stessi, l’attenzione va concentrata sulle nuove funzioni che esse assumono. Il moderno non è nuovo perché cambiano gli oggetti di riflessione, ma perché nuovo è il linguaggio. Si dà una continuità, ma questa fintanto che si indaga la dinamica delle idee. Solo così è possibile una nuova storia della filosofia. Lezione 4 Cassirer manifesta un interesse profondo nei confronti della figura di Galileo il quale tradizionalmente viene presentato nella triade “Bacone-Galileo-Cartesio”, coloro che, cioè, con l’età moderna, rappresentano gli iniziatori di un nuovo metodo: a ciascuno il suo proprio metodo, a cui arriva percorrendo una strada diversa dagli altri, ma con un comune obiettivo, ovvero quello di distruggere la tradizione scolastica e i modelli aristotelico-atomisti, che avevano influenzato la filosofia fino all’età moderna. La figura di Galileo è una di quelle più approfondite dalla filosofia della scienza del Novecento. Questo perché il particolare periodo storico segnato da eventi di una certa portata (come ad esempio le guerre mondiali), ha spesso portato a porsi delle domande sul ruolo della scienza e, di conseguenza, anche sull’iniziatore della scienza moderna, appunto Galileo. Tra i filosofi che hanno sviluppato una riflessione di questo tipo spicca anche Cassirer: la figura di Galileo è presente in lui fin dal 1906 e lo sarà fino alla fine, sempre con sfumature diverse. Essendo neokantiano della scuola di Marburgo (almeno prima di inaugurare il periodo della filosofia delle forme simboliche), alla base di tutto il pensiero cassireriano vi è la convinzione secondo cui la rivoluzione trascendentale kantiana è figlia della rivoluzione scientifica. Questo rappresenta uno dei motivi che spinge l’autore ad occuparsi dello scienziato pisano. Più precisamente, Cassirer si interessa a Galileo perché alla base della sua idea di mutazione semantica vi è, in realtà, un cambiamento della rivoluzione scientifica. Questo significa che, nella visione di Cassirer, la rivoluzione scientifica, sviluppandosi, porta alla rivoluzione trascendentale. È importante dire cos’è la mutazione semantica: per gli studiosi del linguaggio i fenomeni di cambiamenti fonetici e semantici costituiscono l’unica nostra possibilità onde spiegarci i fatti del linguaggio. Nei cambiamenti semantici si conservano le vecchie forme della lingua, ma si trasformano i loro significati fino a diventare gli opposti talvolta. Ciò vale anche per le mutazioni semantiche nella storia, ma il significato storico di una data idea non è tanto facilmente deteriorabile quanto il significato filologico di un vocabolo. Nel primo capitolo sull’Originalità del Rinascimento, Cassirer scrive che la rivoluzione scientifica di cui Galileo era portatore non è nata all’improvviso e tutta in una volta, come Atena dalla testa di Giove, ma necessita di una lenta preparazione tanto in campo empirico quanto nel logico e metodologico. In altre parole, il famoso metodo risolutivo e compositivo galileiano non è un’invenzione dello scienziato pisano, bensì rappresenta la trasformazione di un’idea presenta già a partire da Agostino, Ruggero Bacone o Guglielmo da Ockam. Ma tutte queste analogie non provano nulla in quanto è noto il fatto che la matematica avesse costituito un elemento di cultura assai prima del Rinascimento ma sarà solo con esso che diviene una forza nuova nella cultura. Ricordiamo pertanto che nella filosofia medievale troviamo una biforcazione della conoscenza, che troviamo per la prima volta in Agostino, tra scientia e sapientia. La scienza si occupa del regnum naturae, la sapienza del regnum gratiae. L’incontestabile priorità della sapienza sulla scienza è stabilita senza discussione da tutti i pensatori del Medioevo. Secondo questa distinzione la scienza matematica della natura è scienza del mondo creato, non può pretendere a parità di diritti con la metafisica e la teologia che sono scienze dell’eterno. Con Galileo tutto ciò muta radicalmente, per lui le matematiche non sono un ramo della conoscenza ma l’unico criterio valido per essa. Senza di essa non si può avere verità alcuna ed ogni verità soprannaturale che la contraddica è pura apparenza. Cosi la rivoluzione trascendentale rappresenta l’ultimo tassello di una mutazione semantica della rivoluzione scientifica. Affrontare Galileo significa da una parte cogliere quanto dal Medioevo a Galileo si sia evoluto da un punto di vista di mutazione semantica, dall’altra significa capire quanto da Galileo e altri pensatori, quali Leibniz, si sia poi realizzato nella rivoluzione trascendentale kantiana. A partire dal 1906, nonostante la distanza dal lessico e dalla teoria delle forme simboliche, Galileo assume posizione centrale in Cassirer, non solo come scienziato, ma quale protagonista del passaggio ad una nuova etica. Dal 1906, anno della monumentale storia della filosofia moderna, all’ultimo Cassirer, quello della filosofia della cultura che si esprime nel Saggio sull’uomo, Galileo è protagonista fondamentale di un’evoluzione. La rivoluzione scientifica diventa essenziale per compiere il passaggio alla rivoluzione trascendentale, ed in seguito alla rivoluzione delle forme simboliche, fino ad arrivare ad una nuova etica. Galileo ha trasformato il modo di porsi dell’uomo nei confronti del mondo. Egli stesso si esprimeva dicendo di aver visto con occhi nuovi una scienza nuovissima di soggetto vetustissimo. I suoi occhi nuovissimi sono gli occhi della rivoluzione scientifica, sono vero e proprio manifesto dell’antropocentrismo rinascimentale: l’uomo non si pone nei confronti della natura come osservatore passivo della creazione di Dio, ma come colui che può misurarla, conoscerla e agire su di essa e dunque come soggetto non come oggetto. A differenza di altri pensatori del Novecento, Cassirer non dedica a Galileo una monografia, bensì una serie di riferimenti in qualità di studioso della filosofia rinascimentale. Questa rappresenta il primo tassello di un’evoluzione che porta allo sviluppo della filosofia kantiana. Cassirer compie una vera e propria revisione gnoseologica, perché, a suo dire, il procedimento per attuare la conoscenza deve basarsi sul concetto di storia delle idee. A questo proposito assume una forte importanza simbolica l’immagine fornitaci da Cassirer dell’acqua che scorre nel fiume: lo storico delle idee è ben consapevole che l’acqua che il fiume porta con se muta con grande lentezza, allo stesso modo fanno le idee le quali affiorano continuamente e durano per secoli. Ma non si tratta di occuparsi per lo storico della sostanza delle idee, quanto piuttosto della loro funzione. In altre parole egli va indagando non tanto il contenuto quanto piuttosto la dinamica delle idee. Ed è proprio questa che accade col passaggio dal medioevo al rinascimento: vi è un mutamento della dinamica delle idee, al di là del contenuto, vi sono nuove energie ed intensità in gioco. Il passaggio dalla sostanza alla funzione rappresenta proprio la revisione gnoseologica operata da Cassirer e battezzata nel 1910 con la pubblicazione di Sostanza e funzione. L’autore sostiene che per realizzare una tale revisione gnoseologica occorre partire da Galileo, Newton ed Eulero fino alle basi filosofiche delle scienze esatte, ovvero a Leibniz e Kant. Il punto fondamentale su cui Cassirer si interrogherà è il moto. Galileo compierà infatti la grande trasformazione dell’idea di moto, il quale fino allo scienziato pisano apparteneva al regno del transeunte, viene, adesso, elevato al regno delle pure forme. Il moto non appartiene più agli oggetti sostanziali ma diventa un principio: non esiste più quella differenza aristotelica tra moto celeste e terrestre, il moto diventa unico. L’esigenza è quella di chiarire la storia della filosofia moderna nel suo sviluppo, mettendola in relazione con la scienza esatta. Viene, quindi, avviato il discorso sulla ricostruzione della storia della matematica. Non poteva essere altrimenti, dal momento che per Galileo il grande libro della natura è scritto in lettere diverse da quelle del nostro alfabeto, e, cioè, in triangoli, quadrati, coni e piramidi. La concezione cassireriana va strettamente coniugata al concetto di storia della matematica, in quanto con Galileo la scienza diventa esatta. Il galileiano metodo compositivo, fatto di sensate esperienze e necessarie trasformazioni, opera una vera rivoluzione nell’ambito di tutta la storia della matematica. In Sostanza e funzione, Cassirer vuole mostrare come la filosofia kantiana si inserisca intrinsecamente nello sviluppo della scienza moderna a partire da Galileo fino ad Einstein. Ciò che avviene non è che il passaggio dall’ontologia all’analitica dell’intelletto, passaggio che comincia con Galileo e arriva fino ad Einstein. Analizzando il mondo della scienza moderna Cassirer evidenzia come al termine di sostanza sia andato sostituendosi quello di funzione: termini come energia, etere, atomo, spazio e tempo non designano realtà concrete, ma rappresentano simboli per la descrizione di un contesto di possibili relazioni. Di qui nasce l’importanza del linguaggio. I saggi che Cassirer scrive su Galileo appartengono ad un periodo compreso tra il 1930-1945, durante gli anni dell’esilio cassireriano. Si tratta di un periodo particolare per la scienza, in cui i pensatori del Novecento si interrogano sul progresso e sul ruolo dell’intellettuale e dello scienziato in un momento storico così tragico. Fu Kristeller, grande allievo di Cassirer, che dopo la morte del maestro, a raccogliere e mettere insieme i saggi. Il filo conduttore in essi è rappresentato, come abbiamo visto, da quella che viene definita come la mutazione semantica di tutta una serie di idee. Tra essi compaiono tre saggi dedicati a Galileo Galilei, in cui il pensiero dello scienziato pisano viene inserito nella visione filosofica cassireriana dell’uomo che conosce per simboli, che in sé non hanno un’esistenza fattuale, ma solo un significato. Galileo ha contribuito a questa conoscenza: il suo metodo, basato su un’ipotesi, gli ha permesso di fondare una nuova scienza. Se non fosse partito da un’idea, egli non sarebbe mai arrivato a formulare la legge d’inerzia. Egli, infatti, usa l’esperimento per dimostrare che la sua ipotesi è giusta. In realtà, nel formulare il suo metodo di sensate esperienze e necessarie dimostrazioni, secondo la lettura cassireriana, parte da un’ipotesi, un’idea, non dall’esperienza. Per Cassirer, Galileo è, dunque, un logico. Partendo da questo carattere di costanza e necessità risulta immediatamente che non tutti i fenomeni offertici dalla natura possono pretendere lo stesso modo di oggettività, di verità empirica. La nostra conoscenza empirica si divide in due classi: le vere qualità oggettive della materia e le determinazioni derivate e accidentali. Di quest’ultimo tipo sono tutte le percezioni immediate dei sensi cioè tutto ciò che conosciamo della natura. Basta trasportare questo principio dal campo fisico al campo religioso per giungere al problema e alla tesi fondamentale dello scritto di Herbert of Cherbury, secondo cui la verità religiosa è sottoposta allo stesso criterio della fisica. Questo è il punto centrale di tutta la questione: la rivoluzione compiuta da Galileo è quella della ragione e gli occhi nuovissimi con cui l’uomo si pone nei confronti di cose vetustissime sono quelli della ragione. Perciò, per Cassirer, Galileo è un logico a tutti gli effetti. Allo stesso modo, quando Grozio scrive nella sua opera che il diritto esisterebbe anche se Dio non esistesse, egli intende dire che il concetto di giustizia deve essere ricavato in modo universalmente valido nella ragione umana. Il fatto che Galileo sia iniziatore della rivoluzione scientifica non riguarda esclusivamente l’ambito della scienza, ma tutti i settori. Ecco perché questi tre autori, apparentemente così distanti l’uno dall’altro, sono uniti dal comune riposizionamento, compiuto da ciascuno di loro, al centro dell’universo. Questo riposizionarsi trasforma tutti i concetti scolastici. Questo è il senso del distruggere la scolastica, il rivedere tutta una serie di concetti da una nuova posizione, inaugurata da Galileo, il quale ha visto nell’uomo una ragione e una forza tali da paragonarlo a Dio. Tra le tesi di Galileo vi è, di fatti, quella secondo cui tra il sapere in senso stretto di Dio e quello dell’uomo non c’è differenza essenziale, ma, anzi, vera adeguazione. Per giustificare una tale tesi, Galileo distingue tra un contenuto estensivo e uno intensivo: nel primo senso l’intelletto umano, se paragonato al divino, sarebbe certamente un nullo; nel secondo senso, cioè considerando l’intelligere riguardo alla perfezione e non alla quantità, si può, allora, dire che il sapere matematico è pari al divino. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, ma non più alla maniera letta nel periodo della scolastica, ma per capacità intensiva di comprendere. Grozio adatterà questa prospettiva alla sfera del diritto, sostenendo che anche qui non occorre si fermi alla contemplazione del caso empirico e singolo ma bisogna elevare a veri assiomi, alla visione dei rapporti universali. Solo cosi si può illuminare l’indipendenza del loro particolare oggetto, l’autonomia delle scienze naturali e del diritto. Questa distinzione tra l’intelligere divino e quello umano estensivo/intensivo fu un altro dei capi di accusa durante il processo intentato a Galileo. Quando Urbano VIII, il quale da cardinale Barberini era stato uno dei sostenitori di Galileo, fu eletto a papa, la sua elezione fu ben vista da tutti i sostenitori di Galileo. Ma cosa intervenne poi per mutare l’intenzione del papa e la sua presa di posizione rispetto alla scienza di Galileo? Come ci racconta Cassirer, sappiamo che Urbano VIII in una delle conversazioni che ebbe con Galileo a proposito del nuovo sistema cosmologico obiettò lui che per quanto potessero essere valide le sue supposizioni matematiche e fisiche, l’onnipotenza di Dio non è legata alle regole che valgono per noi ma procede per leggi proprie. Galileo fu poi costretto ad ammettere questa argomentazione nella sua opera per ordine del papa: l’obiezione venne dunque aggiunta in appendice con la nota che sottolineava il fatto che venisse da parte di una personalità alta e dotta. Questo tipo di sottolineatura fu fatale per Galileo, in quanto i suoi avversari fecero credere al papa che non si trattasse affatto di un riconoscimento ma di una derisione. Questo perchè chiaramente questa nota stonava con tutto il contesto e le tesi dell’opera: Galileo oramai aveva rotto una volta e per sempre col principio del verbo ispirato, tornare indietro non era possibile. Le due accuse rivolte a Galilei non sono basate dunque sulla teoria copernicana. Il De rivolutionibus (1545) non fu, infatti, fin da subito indicato nell’indice dei libri proibiti. Lo stesso Copernico aveva, di fatti, dovuto precedere il testo da un’introduzione in cui egli stesso affermava che il Sole al centro dell’universo stava comunque a simboleggiare l’illuminazione divina e il suo era un cosmo chiuso. Le condanne a Galileo non furono dovute al fatto che egli avesse sposato la visione copernicana, ma al fatto di averla portata avanti e di aver, per così dire, distrutto il cosmo chiuso aristotelico. La nuova visione del cosmo è espressione del vero spirito rinascimentale. Non c’è stato spirito rinascimentale che, più di Galileo, abbia operato una rivoluzione di questa portata. Per questo la figura di Galileo non può che essere centrale in tutti i pensatori del Novecento che si interrogano sulla scienza moderna. Nella sua storia della filosofia attraverso la storia delle idee, Cassirer pone la figura di Galileo centrale, non solo per le sue scoperte scientifiche o per leggi della dinamica, ma per tutta la simbologia cassireriana. Galileo rappresenta la rivoluzione nella sua totalità. Altra grande rivoluzione compiuta da lui nell’ambito rinascimentale sta nell’aver valorizzato nuovamente quelle che Aristotele aveva definito come scienze poietiche, ovvero le attività pratiche. Basti pensare che Galilei fa uso del cannocchiale per le sue scoperte astronomiche, il che vale a dire che lo strumento assume un valore diverso rispetto alla concezione della scienza poietica nella divisione aristotelica in scienze teoretiche, pratiche e poietiche. Nel Dialogo Galilei affronta, appunto, un dialogo tra tre personaggi, Simplicio, Sagredo e Salviati, che stanno a rappresentare rispettivamente lo scienziato galileiano, il teorico aristotelico e lo studente che pone le domande e che propende per le teorie del primo. La forma dialogica è tipica del Rinascimento: la maggior parte degli scritti rinascimentali è in forma dialogica. Il dialogo è contenuto, non sotto forma per i rinascimentali, in quanto attraverso di esso è possibile far passare le proprie teorie evitando una condanna all’Indice dei libri proibiti, e, al tempo stesso, di confrontarsi. Basti pensare che, nel lontano Quattrocento, anche Machiavelli quanto Bruno scrivono in forma di dialogo. Altra figura che Cassirer accosta a Galilei è quella di Giordano Bruno: il punto in comune tra i due, a suo dire, è il problema dell’infinito: gli infiniti universi di Bruno non sono poi così lontani dall’infinito universo galileiano. La lettura che Cassirer offre di questi autori si distanzia da qualsiasi interpretazione manualistica: nei manuali solitamente si trova la triade Bacone-Galileo-Cartesio. Da Cassirer, invece, Bacone non è mai citato, perché, se è vero che anch’egli aveva come obiettivo la distruzione del vecchio sapere (pars destruens), in realtà, egli procede solo attraverso un metodo induttivo-estensivo, laddove Galilei usa un metodo induttivo ma di tipo intensivo. Galileo, cioè, raccoglie, non espande. Nel metodo baconiano l’esperimento portava ad allargare sempre di più il campo della ricerca; l’empirismo/sperimentalismo galileiano parte, invece, da un’ipotesi che, solo dopo essere stata teorizzata, è sottoposta a verifica. Questo è il motivo per cui Cassirer non cita Bacone, preferendo accostare Galileo a Cartesio e Leibniz, due grandi logici/razionalisti della storia delle idee.   Lezione 5 Nel secondo dei saggi dedicati a Galileo, Scienza nuova e spirito nuovo, Cassirer sottolinea quale siano stati i temi del nuovo spirito galileiano. Da un punto di vista cassireriano, ovvero in termini di mutazione semantica, la scienza nuova di Galileo ha cambiato dei temi fondamentali: la matematica, il dualismo platonico, il dualismo aristotelico e il concetto di moto. Cassirer dunque vuole mettere in evidenza le tematiche sulle quali con Galileo si ha un vero e proprio cambiamento di posizione. La prima tematica affrontata è quella dell’osservazione empirica e della deduzione matematica. Cassirer evidenzia come, nell’ultima opera galileiana, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, pubblicata quando lo scienziato aveva ormai più di settant’anni, Galileo chiarisca il metodo dell’osservazione empirica e della deduzione matematica. Galileo è, infatti, l’unico che riesce ad unire, in un certo senso, il metodo degli empiristi e dei razionalisti. Al tempo stesso, però, è importante tenere presente che il metodo empirista galileiano, come sottolinea più volte Cassirer, non ha nulla a che vedere con il metodo sperimentale baconiano. Proprio per essere riuscito ad usufruire di entrambi, Galileo può esser considerato come colui che ha aperto la strada a questi due metodi del razionalismo e dell’empirismo (si pensi a Cartesio, Spinoza, Leibniz…). Quando Kant analizzò il famoso giudizio degli empiristi e dei razionalisti per poter formulare il suo giudizio sintetico apriori, secondo Cassirer, dovette risalire a Galileo. Nella seconda edizione della Critica, Kant scrive: «Quando Galileo fece rotolare su un piano inclinato palle di un dato peso da lui stesso determinato…scaturì nuova luce per tutti gli studiosi della natura […]». (pp. 211-212) Kant attribuisce a Galileo un ruolo fondamentale: il concetto galileiano di esperimento è visto da lui nelle leggi stesse di Galileo. Kant è il primo a riconoscergli il merito di aver creato la legge, colui che da questa procede, poi, all’esperimento. «Compresero che la ragione ha cognizione soltanto di ciò che essa stessa produce - scrive sempre Kant - che deve procedere seguendo i principi del proprio giudizio secondo leggi fisse e costringere la natura a rispondere alle sue domande». Nel portare avanti il concetto di esperimento, Galileo non parte dall’osservazione. Questa non fa altro, infatti, che verificare l’ipotesi che lo scienziato si era posto. Non si tratta, dunque, di un esperimento estensivo, al pari di quello baconiano, che porta alla formulazione della legge quanto piuttosto di una legge che si deve verificare per il tramite dell’esperimento. La rivoluzione galileiana sta nel rapporto tra esperimento e ipotesi: quest’ultima deve precedere il primo. Non è casuale il fatto che Cassirer abbia ripreso il giudizio kantiano nei confronti di Galileo. Tutti i saggi cassireriani hanno, infatti, l’obiettivo di dimostrare che la rivoluzione trascendentale kantiana non nasce all’improvviso ma rappresenta il frutto di tutta una serie di contributi offerti da Galileo, Ficino, Pico della Mirandola, Keplero. Ognuno di questi autori, cioè, non ha fatto altro che aggiungere un tassello affinché Kant abbia poi realizzato la sua rivoluzione trascendentale. Nell’ultimo capitolo, Cassirer vede addirittura in Leibniz colui che, per primo, ha utilizzato i concetti di spazio e tempo in senso kantiano, quasi come fosse stato a un passo dalla rivoluzione trascendentale. Altro punto affrontato da Cassirer nel saggio riguarda il problema della difesa di una nuova idea sistematica della verità, celebrata, secondo l’autore, nella lettera a Benedetto Castelli del 1613. Come abbiamo visto si tratta di uno dei motivi principali della condanna a Galilei poiché essa esprime una nuova filosofia della scienza e una nuova valutazione della funzione del pensiero scientifico. Non esiste autorità umana o divina, secondo Galilei, che può essere posta al di sopra dell’autorità dell’esperimento e della deduzione matematica. Galilei innalza la matematica al di sopra di ogni verità nella lettura della natura. Non esiste alcuna concezione del Verbo ispirato: l’unico modo per conoscere la natura è attraverso le leggi che la governano. La matematica rappresenta il punto fondamentale della nuova visione della natura, il ponte tra il pensiero umano e il divino. Questo vuol dire che non esiste un abisso incolmabile dal punto di vista qualitativo-intensivo tra queste due forme di pensiero, nessuna differenza radicale tra la nostra intelligenza finita e l’intelletto divino. Facendo questo Galileo andò a solcare quel muro invalicabile istituito nel medioevo tra la conoscenza umana e quella divina, immanente e trascendente. Secondo lui, non appena si raggiunge la verità reale, ovvero la matematica, questo muro artificiale cade. “Dove parla la ragione, parla Dio, e Dio non può contraddire se stesso, non può andare contro le sue regole logiche”. Se c’era una verità questa doveva essere una ed indivisibile in quanto la verità è necessità e la necessità non ammette gradi. Inutile dire che con queste affermazioni Galileo aveva tagliato tutti i ponti con la chiesa. Anche Vico si rifarà a Galileo nella concezione estensiva ed intensiva della conoscenza umana e divina: egli usa il termine «intelligere» e «cogitare» per rappresentare la concezione galileiana di un rapporto uomo-Dio che cambia. L’uomo è a immagine e somiglianza di Dio per la capacità di conoscere e di creare in senso intensivo. Dio, dirà Vico, può conoscere e creare tutto, l’uomo soltanto ciò che fa. Il nuovo rapporto Dio-uomo è il punto di partenza galileiano. Facendo della matematica l’unica possibilità di leggere la natura, Galileo dota l’uomo della potenza di conoscere la natura, una capacità che lo rende simile a Dio, sempre in senso intensivo. Il secondo grande dualismo, oltre quello della doppia verità razionale-divina, affrontato da Galileo è quello platonico. Lo scienziato pisano si definisce platonico, ma sul platonismo di Galileo hanno scritto tutti i filosofi degli anni ’30 - ’40 (come Koyrè e Banfi). Il problema era coniugare il platonismo di Galileo con Platone, dal momento che per quest’ultimo la matematica appartiene al mondo delle idee e non a quello fisico. Platone distingue matematica e fisica: la prima è indirizzata al mondo delle idee, immutabili ed eterne, la seconda nei limiti dei fenomeni naturali che non hanno esistenza reale. Galileo compie una grande rivoluzione attraverso l’inserimento della matematica nel mondo fisico, sempre per il fatto che la natura fisica è scritta in termini matematici. Questa nuova scienza poneva la natura stessa nel campo della necessità piuttosto che quello della contingenza poiché essa non è un mistero per l’intelletto umano, anzi, è un libro aperto leggibile da chiunque abbia gli strumenti per farlo. Se intendiamo la natura in questo modo la conoscenza geometrica e quella fisica sono equivalenti rispetto al loro valore logico. Galileo riduce la distanza platonica tra mondo fisico e mondo matematico grazie al concetto di moto. Per Galilei, infatti, il moto non appartiene al mondo oggettivo inteso come mutevole e transeunte, ma è un’idea, un principio. Lo stesso Aristotele, nonostante avesse detto che il moto apparteneva alla forma sostanziale dell’essere, alla fine aveva comunque distinto tra quello celeste e quello terrestre. Sia Platone (con il suo dualismo netto, in quanto il moto appartiene, per egli, al divenire, e in quanto divenire non può essere un’idea, che è, invece, perfetta, eterna ed immutabile) che Aristotele studiano le conseguenze del moto, ciò che esso produce. Al contrario, Galileo va a vedere il moto alle sue origini. Solo così esso diventa principio, legge. Contro la visione aristotelica, non esiste per Galileo un moto terrestre e uno celeste perché esso è unico, così come non c’è un moto esclusivamente nel mondo fisico, contro la concezione platonica. Mediante l’esperimento della caduta dei gravi, Galilei riesce a dimostrare che il moto è uno e che la natura è, di conseguenza, uniforme poiché tutti i gravi cadono ubbidendo alle identiche leggi ed a velocità uguale. Per concepire la natura come un sistema governato da leggi inviolabili ed universali, l’uomo doveva, però, rinunciare ad una visione teleologica della natura, nonché al concetto di finalità, il quale aveva dominato tutta la fisica e la metafisica aristotelico-atomistica, quindi medioevale. Non esiste più, per Galileo lo studio del mezzo e del fine; ad essi si sostituiscono i concetti di spazio, tempo, numero, quantità e misura. Rinunciare al finalismo fu una delle grandi rivoluzioni galileiane, per la quale egli supera perfino Copernico e Keplero, i quali continuavano a ragionare nel quadro di un finalismo. Lo stesso Copernico aveva sostenuto la centralità del Sole da un punto di vista teleologico. Anche per Keplero, secondo Cassirer, il pensiero matematico e la speculazione estetica si compenetravano, ma fu Galileo il primo a rinunciare al finalismo nella lettura della natura. Il metodo di analisi e sintesi, o meglio compositivo-risolutivo galileiano, è nuovo rispetto a quelli passati e a quello del suo stesso predecessore, Bacone. Questo metodo prevede un duplice modo di procedere: analisi e sintesi, risoluzione e composizione. Il pensiero scientifico deve scomporre i fenomeni naturali commessi, in modo da ricostruirli dai loro elemento e deve differenziarli in modo da integrarli. Anche Goethe, nella sua opera (Teoria dei colori), considerò Galileo, e non Bacone, il vero padre dell’empirismo moderno, proprio in virtù del suo metodo di semplificazione. Bacone, infatti, quando, nella pars costruens, deve ricostruire il sapere dopo la pars destruens, crea le teorie delle tavole in maniera estensiva, i suoi esperimenti sono infiniti. Il metodo galileiano deve, invece, basarsi sulle nature semplici. Tutti gli autori che, come Cassirer, riaffrontano lo studio di Galileo negli anni ’30 - ’40, si interessano a questi temi già trattati, ma rivisitati alla luce di una posizione completamente nuova. È importante inoltre ricordare la grandezza di Galileo in relazione al raggiungimento di fini cosi immensi nelle sue scoperte con tanta semplicità ma soprattutto inadeguatezza di mezzi. Egli non possedeva nè un laboratorio di fisica nè un apparato tecnico nel nostro senso moderno ma inventò e costruì da se molti strumenti. Inoltre non bisogna tralasciare la personalità di Galilei oltre al suo genio intellettuale: ed è cosi che questo saggio termina con una nota etica. Lo spirito nuovo galileiano è, infatti, anche etica della scienza. Cassirer, a differenza di altri autori, tra cui il drammaturgo Brecht, vede l’abiura di Galileo come un atto profondamente etico. L’abiura rappresenta la scelta dello scienziato che crede nel suo pensiero e abiura per poter continuare a fare scienza. Non a caso, dopo l’abiura, Galileo, a settant’anni, recluso senza amici o strumenti adatti, pubblica la sua ultima opera “discorsi intorno alle due scienze”. Continuando la sua opera in quelle circostanze egli si dimostra un grande scopritore non solo nell’ambito scientifico ma anche morale. “Credere nel tuo proprio pensiero, scriveva Emerson, credere che ciò che tu ritieni vero per te stesso è vero per tuti gli uomini. Questo è il genio” Bisogna tenere sempre presente che lo storico delle idee parte sempre da due motivazioni: una soggettiva di carattere morale, politico ed etico; l’altra di tipo oggettivo, che deve avvalersi di un metodo filologico-erudito. Il lavoro di Cassirer, negli anni ’30-’40, è spinto da una motivazione politica molto forte. Ci si interroga sul ruolo dello scienziato in un periodo di grande crisi. Nel terzo dei saggi dedicati a Cassirer si affronta il problema del platonismo galileiano. Nel Rinascimento, gli studiosi amavano definirsi platonici o aristotelici, e questo anche in merito ad un’altra grande disputa rinascimentale, quella tra mortalità e immortalità dell’anima: gli aristotelici, stando alla traduzione del De anima dal punto di vista di Averroè, sostenevano la mortalità dell’anima; i platonici, invece, la sua immortalità. Cassirer si interessa al platonismo di Galilei, entrando in contrasto con il punto di vista di Koyrè, altro grande filosofo del Novecento. Cassirer sottolinea l’esistenza di vari tipi di platonismi: nella filosofia antica c’è il platonismo scettico accanto al platonismo mistico di Plotino e degli altri rappresentanti della scuola neoplatonica, nel Medioevo quello religioso di sant’Agostino e quello logico di Scoto Eriugena e quello romantico di Schelling, ma quello di Galileo, se esiste, non ha nulla a che vedere con essi, bensì appartiene, secondo Cassirer ad un mondo del tutto differente. Koyrè aveva definito il platonismo galileiano come un matematicismo. Tuttavia, per Cassirer non si può identificare il platonismo con il matematicismo: Platone aveva, infatti, più volte sostenuto l’impossibilità di trovare la verità reale e valevole nel campo delle cose fisiche. Per Platone era incolmabile quell’abisso tra mondo sensibile e mondo intellegibile. Con Cartesio si assiste ad una vera e propria riforma della filosofia, la quale non deve partire né dalle teorie metafisiche né da quelle empiriche, ma solo da quelle matematiche. La matematica assume in Cartesio un ruolo decisivo, come già aveva assunto in Galileo, in virtù del fatto che la natura è, per lo scienziato pisano, scritta in linguaggio matematico. La matematica diventa punto fondamentale, e non solo come espressione di numeri, ma, soprattutto, come espressione di un simbolo. I temi cartesiani principali riguardano il suo metodo (prima analitico e poi sintetico), tematiche prese dalle sue Meditationes e, infine, il problema del dubbio. Anche per quest’ultimo Cassirer compie lo stesso discorso della mutazione semantica. Egli analizza, infatti, il dubbio a partire da quello degli scettici, il cui dubbio non porta a nulla, in quanto, dubitando di tutte le filosofie precedenti, essi non offrono nuove proposte per poi passare al dubbio agostiniano, che è negativo, perché conduce l’anima verso il peccato e l’errore. Alla luce della nuova posizione dell’uomo nei confronti del mondo, il dubbio cartesiano è radicalmente diverso da quello dei suoi predecessori. Il suo dubbio è propositivo, mettendo in discussione tutto ciò che appare e, addirittura, la certezza della matematica, esso diventa il punto chiave perché si possa arrivare all’unica certezza, espressa dal «cogito ergo sum», ovvero la certezza della propria esistenza in qualità di essere pensante. Il «cogito» cartesiano non può, però, compiere ciò che farà l’«io penso» kantiano e questo perché Cartesio, non mettendo in discussione il dualismo tra res cogitans e res extensa, necessita delle prove dell’esistenza di Dio per dimostrare l’esistenza del mondo. L’argomento agostiniano della realtà della coscienza non è applicato da Cartesio allo stesso modo. Per Agostino, la certezza che l’anima ha in sé un valore gnoseologico è la più sicura delle esperienze mentre per Cartesio il «cogito ergo sum» non ha valore di esperienza, quanto piuttosto quello di verità prima e fondamentale della ragione, che ha evidenza di certezza immediata ed intuitiva. Cartesio arriva alla prima certezza mediante l’intuizione, la quale precede ogni tipo di ragionamento. Come Galileo, anche Cartesio cerca elementi semplici ed intellegibili per se stessi, ma mentre il primo scopre la forma fondamentale e intuitiva del moto, capace di rendere intellegibile tutto il divenire fisico, il secondo aspira, invece, alle verità fondamentali della coscienza. Con Galileo il moto diventa principio, passando, così, dal mondo del transeunte a quello della certezza. Cartesio va al di là del mondo fisico, superando lo scienziato pisano proprio perché la sua indagine non rimane ancorata al solo mondo della natura, ma va oltre sporgendosi nel mondo della coscienza. In questo consiste il razionalismo cartesiano: il primato dell’autocoscienza sta nella chiarezza e nella distinzione, ovvero nell’evidenza. Nella prima delle quattro Regulae, Cartesio afferma che una cosa può essere definita come vera solo se è evidente, cioè, appunto, chiara e distinta. Anch’egli scriverà un trattato sul mondo (Le Monde), che però decide di non pubblicare per via dei contenuti che nè avrebbero sicuramente causato la condanna all’Indice dei libri proibiti. Per poter far circolare le idee in esso contenute, Cartesio definisce il testo, che il più vicino alla visione copernicana e galileiana del cosmo, come una favola. I concetti fondamentali del metodo cartesiano sono: •chiarezza, ciò che si presenta in maniera intuitiva dinanzi allo spirito (il che vuol dire che l’intuito, ciò gli antichi chiamavano «nous», è la prima forma di conoscenza); •distinzione, ciò che è perfettamente limpido e nettamente determinato; •Idee innate, poste nella mente umana da Dio, tra cui la stessa idea del divino; •Il metodo cartesiano è una teoria dell’intuito proprio perché la possibilità di raggiungere l’evidenza, cioè la chiarezza e la distinzione, si guadagna mediante l’intuizione. La deduzione, invece, rappresenta un secondo momento, un’attività della mente riducibile all’intuito. Una delle più importanti delle opere cartesiane, definita come l’opera senza Dio, prende il titolo di «Regulae ad diretionem ingenii», che ha, appunto, lo scopo di mostrare quale siano le regole atte a direzionare l’ingegno, utili alla conoscenza. La regola dodicesima espone la teoria delle nature semplici, per sé note, in quanto oggetto di intuizione immediata da parte dell’intelletto. Tali nature semplici vanno scovate in quest’ultimo mediante analisi. Di tutte le regole Cartesio nè individua, infine, quattro: evidenza, analisi, sintesi, enumerazione. Esse sono un complesso di procedure il cui scopo è quello di disporre le nozioni secondo serie lineari, che vanno dal complesso al semplice e viceversa. L’enumerazione, o induzione, passa in rassegna le parti per assicurarsi che nessun elemento utile alla soluzione del problema sia stato tralasciato. A differenza delle Regulae, di cui l’autore sottolinea il valore metodologico e non ontologico, nel Discorso sul metodo, originariamente concepito come introduzione alla Geometria e alla Diottrica, poi pubblicato a parte, attraverso la forma di autobiografia filosofica e, quindi, tramite il percorso da lui descritto in forma di racconto per spiegare come egli sia arrivato alle regole del metodo e alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, tutti gli episodi biografici sono inseriti al solo scopo di dimostrare quanto questi siano stati funzionali alle sue scoperte speculative. Si tratta di una biografia filosofica. Altro tema cartesiano centrale è quello della «mathesis universalis», espressione che serve a indicare la scienza generale, che verte sulle materie comuni a tutte le scienze matematiche. Essa non è altro che la base di tutte le scienza, ovvero la logica. Cartesio porta avanti l’idea di un’unità delle scienze sulla base della logica. La «mathesis» è una forma di analisi algebrica, capace di unire i vantaggi dell’analisi degli antichi con l’algebra dei moderni, nell’ambito settoriale della geometria analitica. Più in generale essa è la scienza che si propone di spiegare tutto ciò che può essere indagato riguardo l’ordine e la misura, senza riferimento ad alcuna materia. Leibniz la definirà «arte combinatoria», cioè un calcolo logico che, partendo da poche nozioni primitive e utilizzando un linguaggio simbolico, possa servire a costruire un sistema di concetti di valore incontrovertibile. Nella fenomenologia husserliana l’espressione è, invece, ripresa per indicare la logica formale e pura, come scienza eidetica dell’oggetto in generale. Cartesio si occupa anche di geometria, fisica e ontologia: egli si distacca dalla logica aristotelica. Gli unici oggetti che, inizialmente, si presentano con evidenza chiara e distinta sono quelli matematici, le nozioni metafisiche e i principi primi della fisica. Fondamentale è la prova dell’esistenza di Dio. Quando, infatti, Cartesio passa dal dubbio metodico a quello iperbolico, egli trova difficoltà ad andare avanti. Per uscire fuori dal dubbio iperbolico egli deve, quindi, usare la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Le Meditazioni cartesiane presentano un’impostazione scolastica sulla scia delle Meditazioni di Ignazio, il che entra in contrasto con il suo aver rigettato l’educazione gesuitica ricevuta nel collegio di La Flèche, che a suo dire non gli aveva lasciato nulla. Nonostante il rifiuto dell’impostazione gesuitica, dunque scolastica, questa è, tuttavia, presente nelle Meditazioni, anche se il contenuto delle sue riflessioni è moderno. Alla base dell’opera non c’è più Dio, perché se è vero che, alla fine, Cartesio ricorre all’esistenza di Dio per dimostrare quella del corpo, ma il primo vero cartesiano rimane pur sempre il «cogito». Cassirer, che accetta il Cartesio scientifico delle Regulae e del Discorso sul metodo, trova, invece, nel Cartesio delle Meditazioni un limite, lo stesso che Husserl individua nelle Meditazioni cartesiane, quando rilegge quelle cartesiane alla luce del suo metodo fenomenologico, concludendo che, nella III Meditazione, Cartesio cade nuovamente nei tentacoli della scolastica. Nella concezione cartesiana si trova un forte dualismo tra res cogitans e res extensa, ma, in realtà, la seconda si riduce alla prima. Il che non vuol dire annullare il dualismo, ma significa che la cosa estesa si coglie con l’intuizione. La cosa su cui dunque egli si rivela più debole consiste in quel tentativo banale di risolvere res extensa e res cogitans unendole in una ghiandola pineale.   2. Cartesio e l’idea sull’unità della scienza Come tutti i filosofi rinascimentali, Cartesio ha come obiettivo quello di distruggere e rivedere l’ipse dixit aristotelico, dimostrando l’unità della scienza. Da questo concetto unitario di scienza scaturisce quello di «mathesis universalis», la quale deve essere alla base di tutte le scienze. Per Cartesio l’unità della scienza è garanzia della loro verità, per il fatto che scaturisce immediatamente dalla luce della ragione. Se, infatti, l’intelletto è uno ed illumina con la sua luce indistintamente le varie scienze, unica è anche la scienza. La concezione tradizionale della verità di fronte alla quale Cartesio si trovava era l’adeguazione del nostro intelletto alla cosa (aedequatio rei et intellectus). Questa adeguazione non può venir raggiunta e garantita in modo più completo che nell’adattamento dell’intelletto alla cosa. A questa concezione Cartesio oppone la sua idea del vero metodo della conoscenza: l’intelletto non è un camaleonte che cambia a seconda della scienza che incontriamo, ma, essendo uno, anche la scienza deve essere necessariamente una. La struttura del sapere non ha per Cartesio origine esteriore, essa è determinata e regolata una volta per sempre dalla natura stessa dell’intelletto. Con Cartesio si compie una sorta di rivoluzione per la quale non è più l’intelletto adeguarsi alla cosa, ma questa che si adagia al nostro intelletto. Il metodo cartesiano si propone, dunque, di evitare che la luce della conoscenza si disperda. La metafora della luce è comune in molte delle opere cartesiane. Cassirer scrive, infatti, che la nuova metodologia cartesiana ammette una sola luce diretta che, nata dalla conoscenza che la ragione ha di se stessa, irradia su tutti gli altri oggetti accessibili alla conoscenza. Per fare questo è necessario attuare il passaggio da un linguaggio dell’immaginazione a un linguaggio logico, attraverso il quale poter concludere l’unicità dell’intelletto. Cartesio usa anche la metafora delle maschere: egli sostiene che le scienze della tradizioni siano mascherate e solo colui che saprà togliere loro la maschera sarà in grado di vederle in tutto la loro bellezza ed il loro splendore. Cosa c’ha impedito finora di guardare in faccia il sapere? Il fatto che finora la riflessione poneva l’accento sull’oggetto conosciuto invece di occuparsi della funzione del conoscere e del capire. Si prestava attenzione al conosciuto ma non al significato della conoscenza. Non ci si chiedeva mai, sottolinea Cassirer, cosa costituisse la conoscenza in quanto tale, in che cosa essa di distinguesse dagli altri modi di conoscere. Un’altra metafora utilizzata da Cartesio è quella della serie dei numeri: nella considerazione degli elementi della serie dei numeri, possiamo attribuire a ciascuno di loro una determinata natura e quindi una certa individualità. La serie dei numeri non è omogenea nel senso che non vi si trovi diversità o differenza specifica. Locke, ad esempio, da empirista, sosteneva che tra i numeri non può esserci altra differenza se non quella del più e del meno. Leibniz a questo proposito sottolinea piuttosto che anche “i numeri non sono differenti quantitativamente ma sono dissimili poiché un numero pari può venir dimezzato ma 8non il dispari ad esempio…”. Ogni numero dunque è anch’esso un oggetto particolare ma quanto caratterizza i numeri è il fatto che rivelano, proprio nella loro particolarità, un principio unico dal quale possono essere dedotti. Ora questa stessa natura la ritroviamo tutto il sapere. Cartesio dunque, non avendo nulla a che vedere con l’empirismo e non avendo alcuna intenzione di guardare al numero in sé, cioè al numero come quantità, vede, invece, in esso un principio, quello della serie ordinata. I numeri cosi non vanno a costituire più un semplice aggregato, ma un sistema coerente e solido. È nella natura stessa del numero il presentarsi sotto forma di serie ordinata. Con questa metafora Cartesio vuole dimostrare la catena scientiarum: le scienze sono, cioè, come i numeri, concatenate in un’unica catena ordinata, in cui ogni scienza successiva è contenuta in quella precedente. Per dimostrare ciò, è necessario, tuttavia, smascherare le vecchie scienze. Questo smascheramento è realizzato nel Discorso sul metodo. Per quanto riguarda la prima scienza, la logica, Cartesio si trova dinanzi alla logica aristotelica, che egli ritiene fondamentalmente corretta, in quanto essa va dall’universale al particolare lungi da ogni forma di empirismo, ed è deduttiva, perché partendo dalle due premesse, maggiore e minore, arriva alla conclusione. Tuttavia, si tratta pur sempre di una logica formale, che ha come limite quello di non accrescere la conoscenza, nonostante la correttezza del ragionamento. Altro limite sta nel fatto che Aristotele concepisca la logica come una disciplina distaccata dalle altre. Cartesio sostiene, invece, che compito della logica deve essere quello di aumentare la conoscenza, ma soprattutto di non essere una scienza autonoma, quanto piuttosto la base di tutte le scienze, come principio fecondatore e vivificatore. Essa, invece che insegnarci ciò che già sappiamo ci mostra la via per trovare il nuovo. Alla logica aristotelica si contrappone dunque quella che Leibniz definirà, in seguito, logica inventionis. Già le Regulae sostengono il principio della concatenazione delle scienze sulla base della logica. Cartesio spiega come le sue regole non hanno valore ontologico ma gnoseologico, in quanto esse servono alla conoscenza. La logica serve proprio a direzionare l’ingegno. L’unità della conoscenza non è un punto d’arrivo, bensì il fondamento originario, solo a partire dal quale si configura la pluralità del sapere e dell’essere. La prima regola afferma, infatti, che il fine degli studi deve essere quello di guidare la mente nella formulazione di giudizio sicuri e veri intorno a tutte le cose che si presentino. Dalla sostanza aristotelica, garante dell’universalità ontologica, si passa all’esercizio corretto della mente in cui risale l’universale sapienza. Già dalla prima regola è, quindi, evidente la dipendenza reciproca delle scienze nella catena scientiarum, tenuta insieme dalla logica. Altro problema affrontato da Cartesio riguarda la geometria: egli parte dalla geometria sintetica per poi formulare la sua geometria analitica. Entrambe partono da un’idea, ma il limite della geometria sintetica sta nel fatto che essa si basa sull’intuizione immaginativa delle figure. In questo modo, per quanto il procedimento sia corretto, in quanto parte da un’intuizione, la geometria sintetica manca, però di un’unità: per ogni idea si ha, infatti, una figura, quindi si ha una pluralità di figure. La geometria sintetica peccava in questo modo di pluralismo. Facendo, invece, corrispondere la struttura geometrica a quella numerica si ha una sua concettualizzazione, in virtù della quale essa diventa universale. Non c’è più bisogno di avere tante figure quante sono le idee, ma basta un solo simbolo, il numero. Per arrivare alla geometria analitica bisogna trasformare la forma e la figura in numero. Non c’è, però, taglio netto tra regno dei numeri e quello delle forme. Cade cosi la maschera che aveva fin ad allora nascosto questi problemi: dietro la varietà apparentemente irriducibile delle forme geometriche percepiamola “natura semplice” del numero. La stessa via, che conduceva dalla aritmetica alla geometria, conduce, poi, dalla geometria alla fisica. Come, infatti, il mondo geometrico è ricondotto al numero, anche la res extensa, quindi il mondo fisico, deve trovare un principio unificatore, che è il moto. Con l’introduzione di questo concetto egli toglie immediatamente l’apparente eterogeneità e riduce tutti i fenomeni della natura ad unità primordiale. Il Trattato sul mondo di Cartesio ci mostra come da questa unità, con il concorso del moto, si sviluppi poi tutto il mondo sensibile in tutta la sua varietà: basta conoscere le poche nature generali che concepiamo chiaramente e distintamente ovvero il numero, la figura ed il moto. Cartesio unisce, così, logica, geometria e fisica, nella sua catena scientiarum, attraverso un procedimento logico che individua un principio logico anche dell’estensione spaziale, che è la materia del mondo fisico. Questo vale per la fisica inorganica. Ma c’è anche una fisica organica: quando passiamo al dominio della natura organica ci si pone dinanzi un nuovo muro divisorio che pare insormontabile. È possibile dedurre la varietà delle forme di vita da quella materia tanto omogenea e uniforme? Oppure ci si trova costretti ad introdurre un principio vitale autonomo? Conosciamo tutti, dice Cassirer, le ragioni di cui si servì Cartesio per combatter l’introduzione di un principio di questa specie. Viene in suo aiuto la scoperta di Harvey della circolazione del sangue alle quali Cartesio dedica ampio spazio. Questo significa che anche la circolazione sanguigna è basata sul principio del moto. Per Cartesio, cioè, la scoperta di Harvey non è soltanto il frutto di un osservazione empirica, ma, da logico qual è, da questa scoperta egli capisce che il moto si sposta dal mondo della fisica inorganica a quello della fisica organica. Il che vale a dire che anche l’uomo appartiene alla catena scientiarum. A poco a poco, il metodo ha progredito dalla serie ordinata dei numeri allo spazio, da questo alla materia, e da quest’ultima alla fisica vitale. La catena scientiarum si arresta, invece, solo dinanzi al problema della metafisica. È evidente dunque che Cartesio andava contro quella che era la separazione stabilita della fisica peripatetica tra mondo superiore e mondo inferiore, tra mondo celeste e mondo sublunare. Tra questi due mondi esisteva un vero e proprio contrasto, erano formati da elementi differenti ed ubbidivano a leggi di moti altrettanto differenti. Il trattato sul mondo taglia questa rottura non solo di fatto, come fecero Galileo e Keplero, ma di principio: non poggiando solo su ragioni fisiche ma anche gnoseologiche e di metodo. Il mondo non può essere scisso in due ragioni poiché questa divisione annienterebbe l’unita della scienza, principio sovrano della filosofia cartesiana. Lezione 7 La domanda che si pone ora Cassirer è: possiamo continuare a seguire questo corso finora delineato anche se ci inoltriamo nelle ragioni dei problemi metafisici? Ed è proprio su questo punto che il metodo cartesiano viene messo a dura prova: esso doveva mostrare di non essere solo un processo logico ma un vero fondamento dell’ontologia, della conoscenza della realtà. Esiste tra pensiero e realtà quel rapporto necessario che il metodo è costretto a presupporre e ad esigere da tutti gli elementi che prende a considerare nel suo progresso continuo? E come ne si può garantire l’esistenza? Non va cosi introducendosi nella nostra conoscenza, insieme a ciò che chiamiamo realtà, un elemento irrazionale che potrebbe essere a rigore concepito ma mai completamente dedotto nè sviluppato dai primi fondamenti della conoscenza con metodo deduttivo? La teoria dell’errore fu letta e interpretata da Natorp (neokantiano) il quale ha voluto dimostrare la filosofa cartesiana simile a quella “critica”: ma questa visione fallisce in quanto vi sono in campo punti di vista troppo contraddittori e differenti: vi è una mescolanza disparatissima di punto di vista poiché si va dalla logica alla metafisica, alla morale per finire alla religione. Questo problema sta fondamentalmente nel rapporto tra intelletto e volontà, tra perceptio e volitio. Nasce l’errore quando le sfere delle due attività non coincidono e una oltrepassa l’altra. Giudichiamo erroneamente quando la nostra volontà ci spinge a pronunciare un giudizio laddove ci mancano vere basi di giudizio e idee chiare e distinte. L’intelletto in quanto tale dovrebbe in questi casi astenersi dal giudizio, ma è la volontà a spingerlo ad una decisione. L’errore è comprensibile solo se capiamo che esso accade quando la volontà agisce prima che l’intelletto abbia avuto la famosa idea chiara e distinta. Cartesio può quindi risolvere il problema dell’errore solo in quanto lo trasferisce dalla logica all’etica in quanto ne rende responsabile la libera volontà. Ma con ciò non viene introdotto un elemento irrazionale che minaccia di annullare l’unità del metodo cartesiano e di far saltare il sistema chiuso della teoria della conoscenza? Questa preoccupazione si può ribattere dicendo che il concetto di libertà non viene qui introdotto in modo arbitrario, non si presenta come un deus ex machina per risolvere un problema che non sarebbe solubile con i mezzi della logica, ma fa parte della totalità del sistema cartesiano e vi s’inserisce quale fattore necessario. Il problema della libertà non entra nella logica cartesiana in azione solo alla fine ma esiste fin dall’inizio. La verità non può venire dal di fuori ma deve e può essere trovata solo da colui che sa cercarla nel modo giusto. L’errore non si presenta solo come un difetto logico ma anche etico: è mancanza e colpa. Vediamo dunque la soluzione metafisica data da Cartesio al problema dell’errore. Qui si trattava del problema della teodicea cioè ci si chiedeva se era possibile spiegare l’errore senza farlo ricadere su Dio o attribuirlo ad una casuale imperfezione della sua creazione. L’introduzione del concetto di libertà deve risolvere appunto questo problema: Dio avrebbe potuto evitare l’errore, ma avrebbe defraudato l’uomo della libertà, negandogli cosi ciò su cui si basa tutto il suo valore: il libero arbitrio. Rifiuta questo errore attribuendo l’uomo la possibilità e la scelta tra vero e falso, tra bene e male. Se cosi non fosse l’uomo non sarebbe altro che un automa, “una marionetta nelle mani di Dio”. Non si può abolire l’errore, essendo esso lo stigma della nostra natura finita. Bisogna soltanto cercare di porvi dei limiti definiti, ragion per cui bisogna affidarsi ad un metodo che ci guidi con sicurezza dall’una e dall’altra idea chiara e distinta permettendoci cosi di decidere quale sia il giudizio più lecito o quando è il caso di una sospensione di quest’ultimo. Come abbiamo visto, la costruzione della fisica quanto della logica seguono lo stesso procedimento della spiegazione generica che volge a concepire il composito partendo dal semplice, e questa esigenza può venir soddisfatta solo se lo sviluppiamo a partire dai suoi primi elementi. E se il metodo del dubbio ci insegna i veri fondamenti ed a diventare padroni di noi stessi, la costruzione del mondo partendo dai suoi primi elementi e la conoscenza delle sue prime leggi ci fa padroni della natura. In ogni caso la via che Cartesio percorre resta quella del cogito: l’io pensante deve inabissarsi in se stesso nella pura contemplazione onde trovare partendo da questo centro proprio la via al sapere del mondo ed all’azione in esso. Si conosce dunque l’ordinamento della natura solo quando si è riusciti a fondare sicuramente quello dell’intelletto poiché è dalla sua conoscenza che dipende ogni altra cosa. Ma se per Cartesio il passaggio dalla logica alla fisica avviene quasi naturalmente, non sarà cosi per la metafisica. Qui è la conoscenza stessa, la verità, che diventa il problema. Non possiamo aver fede nella verità delle nostre idee e dei nostri giudizi, anche se per noi non sono chiari ed evidenti, senza ancorarli, fondarli su terreno metafisico, nell’essere di Dio. Origine e condizione per tutte le verità diventa la veracitas dei: l’intelletto ora dipende da un’altra potenza che è fuori di lui e lo trascende. L’autonomia della ragione affermata ed eseguita da Cartesio pare essersi mutata in eteronomia (condizione per cui un soggetto agisce ricevendo fuori da se stesso la norma e la ragione della propria azione). L’essere di Dio non può venire dimostrato se non sulla base dell’idea chiara e destina che nè abbiamo. Solo l’intellectus archetypus è capace di assoluta verità. Ed anche in questo trapasso alla metafisica la verità rimane il vero e proprio assoluto: solo ciò che esiste di fronte ad essa può pretendere sostanzialità ontologica. Il principio della filosofia cartesiana rimane lo stesso anche se Cartesio ha trovato necessario giustificarlo mediante non più se stesso ma qualcosa di altro cioè l’esistenza di Dio. Perchè Dio non è un essere fuori ed al di sopra della ragione quanto piuttosto l’espressione della ragione stessa. Il Dio di Cartesio in questo senso è la ragione universale. La legittimazione della verità tramite Dio non implica la modificazione di essa ma la conferma e rende perfetta. Quello di Cartesio è un Dio che viene dopo il cogito secondo Cassirer, dopo aver riconosciuto il fatto che io mi riconosco come un essere pensante: dunque neanche qui Cartesio esce dal ciclo del cogito sum. Lezione 8 La modernità dell’opera in questione si evince in particolare dalla scelta stilistica dell’autobiografia, dunque nella forma della scrittura in generale. L’autobiografia qui si presenta in un forma radicalmente nuova rispetto ai vecchi modelli autobiografici tradizionali come quello del pensiero agostiniano cioè Le confessioni. Il genere autobiografico qui non ha una tendenza di interesse concentrata prettamente sulla dimensione interiore ma c’è un’apertura che si manifesta nel rapporto con il mondo esterno, con l’alterità, il soggetto si apre al lettore. Per quanto riguarda la biografia di Cartesio: egli nacque in Francia a la Haye in una famiglia nobile, fu educato dai gesuiti del convento di la Fleche dove approfondì oltre i classici lo studio della matematica e della filosofia scolastica. “Studiare è come viaggiare, tramite il conversare con gli uomini del passato”. L’esperienza del viaggio è per lui fondamentale, in quanto lo aiuta a comprendere il presente tramite lo studio del passato. Egli studiò diritto presso l’università di Poitiers per poi arruolarsi nel 1618 nell’esercito del principe protestante olandese Maurizio di Nassau in guerra contro gli spagnoli. Tra il 1623-25 viaggiò in Italia e dal 1625 al 1628 visse in Francia dedicandosi alla filosofia ed agli esperimenti di ottica. Si trasferì poi in Olanda, dove visse in diverse città, paese che gli garantì la possibilità di comporre in tranquillità le sue opere lavorando alla filosofia e all’ottica. Il discorso sul metodo, pertanto, vuole essere introduttivo alle tre scienze della diottrica, le meteore e la geometria pubblicati nel 1637. Nel 1649, dopo le sue pubblicazioni, fu invitato alla corte di Stoccolma per dare lezioni di filosofia alla regina Cristina di Svezia ed ammalatosi di polmonite morì l’anno seguente. Possiamo fare filosofia solo se teniamo aperta la dimensione della verità come ricerca. L’amore per la verità deve esser estensione volta alla conquista, una prudente ricerca che vive questo bisogno di contemplare il vero. Il problema della scienza universale, di elevare la natura al suo massimo di perfezione e la spiegazione di queste che è possibile anche in chi non le ha mai studiate. Vedremo poi la condizione di questa possibilità. Sono diverse le lettere importanti: la lettera del 1635 a Costantino Huygens, segretario del principe d’Orange, nella quale chiedeva la possibilità di pubblicare i suoi recenti studi di geometria, diottrica e sulle meteore; quelle del 1636-7 a Marsenne nelle quali spiega il titolo dell’opera analizzando il termine metodo in particolare (dice discorso perchè non vuole permettere più di quello che può dare, consapevole di aver esplicato una parte del metodo per approcciare le scienze). Inoltre nella lettera a Costantino Huygens egli sottolinea il fatto che ciò che si propone di fare non è insegnare ma parlare del metodo cioè si parla qui di pratica non di teoria. In altre parole si potrebbe dire che egli intende effettuare una “pratica di studio”. Il suo progetto ha l’ambizione di arrivare dal particolare all’universale, cioè si tiene su una scienza universale che però analizza ed assaggia testi particolari. Lo scopo di Descartes dunque è quello di realizzare una saldatura tra gli studi specifici ed il metodo di approccio ad essi alla luce di un’esperienza personale, una storia della sua personalità. Per Alquiè le sei parti dell’opera corrispondono ad una storia, logica, morale, metafisica, esposizione scientifica ed un appello ai lettori. Quest’opera è la messa a punto di esperienze scientifiche e filosofiche maturante in diversi momenti e tenuti uniti, da un disegno autobiografico e dalle letture a la Fleche, alle esperienze di guerra, agli atteggiamenti prudenziali in morale, ai problemi di metafisica, all’attitudine dell’impegno pratico nella scienza. Il discorso è stato interpretato come la metafora del viaggio solitario e nelle tenebre di quelle che erano le conoscenze tradizionali e l’erudizione scolastica, tenebre illuminate, come cita Garin, con gli “occhi del gatto” che hanno in essi stessi la luce nel senso di un’autonomia della ragione. Nella premessa della diottrica c’è una pretesa dell’ideale di scienza razionale che secondo Cartesio deve procedere dai sensi all’unità di scienza e tecnica. Nella geometria inoltre egli dimostra il proprio metodo, e nel 1637 scrive sempre a Marsenne sottolineando questa cosa. C’è un altro elemento importante: la modernità di Cartesio sta, come abbiamo visto, nella forma in cui propone la sua teoria sul metodo dunque nella lingua. Dunque nella volontà non di stendere un trattato ma nel discorrere, nella comunicazione (riferimento al lettore). In una delle ultime pagine egli è attento ad osservare rivolgendosi al lettore che scrive “in francese e non in latino…”. “Scrivo in francese perchè non mi rivolgo alla lingua dei precettori e non è la lingua dei libri antichi ma è la lingua che consente ai miei interlocutori di servirsi della loro ragione naturale pura e semplice” Quello che conta dunque è che la lingua non sia solo un mezzo espressivo ma che permetta a tutti di partecipare al discorso e praticare l’esercizio filosofico tramite la ragione. Già nella premessa egli dimostra di essere attento a quelle che possono essere le esigenze del lettore “se questo discorso dovesse sembrare troppo lungo lo si può dividere in 6 parti…”. La prima parte si apre con un riferimento al buon senso che deve guidare l’uso della ragione. “Consiste in ciò quello che chiamo buon senso ovvero ragione…” La cosa fondamentale per dare un nuovo metodo per le proprie indagini scientifiche è far riferimento a questa natura identica a tutti gli uomini. Tutti devono concordare con l’uso e la pratica della ragione, fondamentali per Cartesio in quanto non basta essere capaci delle più grandi virtù ma bisogna praticarle ed essere attenti a come le traduciamo in pratica. La cosa più importante è sostenere e riabilitare la ragione ed il suo uso, dunque la ricerca di verità, “so bene quanto siamo soggetti ad ingannarci per ciò che ci concerne….ma sarò lieto di mostrare quali vie ho seguito e di dipingere la mia vita come in un quadro”. Lo scopo dell’opera, cioè di evidenziare un metodo, nasce dunque dalla propria esperienza personale. Il discorso sul metodo nasce da un atteggiamento prudenziale, dalla consapevolezza della propria ignoranza e come una storia intesa come esperienza personale. C’è una critica nei confronti della filosofia tradizionale da parte di Cartesio secondo cui essa si limita a “disputare”. Egli prese la decisione di non indagare più altra scienza se non nulla che poteva trovare in sé: egli mirava ad avere come punto di riferimento il proprio io dentro il gran libro del mondo. Da qui l’importanza e la potenza del viaggio che ci permette di entrare in contatto con diverse pluralità che incontriamo e che ci permettono di indagare ancora più affondo noi stessi.) (confronti. Montaigne, cannibali, alterità + “non faccio il filosofo ma parlo della mia vita, della mia esperienza”) (svolta antidogmatica della filosofia francese) Le credenze, l’erudizione cioè le conoscenze prive di esperienze, ci rendono incapaci di ragionare. Il metodo cartesiano nasce da questo movimento spaziale-intellettuale: andare oltre i miei libri tradizionali quanto oltre i posti in cui ho vissuto per indagare la sua persona tramite il mondo. Lezione 9 Cosi come il libro della natura di Galileo è scritto in termini matematici, anche quello di Cartesio lo è: esso non si presenta come un testo sacro. Anche Galileo ha avvertito l’esigenza di un linguaggio universale, della capacità di poter rivolgersi a tutti coloro dotati di ratio. Entrambi prendono come riferimento l’uomo nella sua variabilità, si ha cosi una visione dinamica della filosofia la quale non è più ancella della teologia, ma si libera finalmente da questa (libertas filosofandi). Passiamo ora alla parte seconda dell’opera cioè quella dell’io cartesiano ed i precetti del nuovo metodo. “Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre ancora in corso; e tornando verso l’esercito dopo l’incoronazione dell’imperatore, l’inizio dell’inverno mi colse in una località dove, non trovando compagnia che mi distraesse, e non avendo d’altra parte, per mia fortuna, preoccupazioni o passioni che mi turbassero, restavo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di occuparmi dei miei pensieri.” Questo incipit dimostra ancora una volta che questa meditazione cartesiana si svolge in uno spazio e tempo ben definito: se leggiamo l’esordio lo capiamo subito. Si parla qui dell’uomo e della sua storia collocata in una determinata condizione spazio temporale cioè la Germania al tempo degli eventi della Guerra dei Trent’anni. La scena è fortemente umanizzata dall’immagine data dall’occasione a cui lui fa riferimento cioè il poter meditare in una stanza riscaldata (paura del freddo in virtù di una brutta polmonite in età giovanile non curata bene) senza distrazioni né passioni. Dunque la condizione della riflessione deve essere improntata ad un modello stoico, la tranquillità dell’animo (tranquillitas animi). La sua vuole essere una ragione sicuramente certa ed evidente (non dipendente dal particolare) eppure la razionalità deve essere sintomo di una condizione che ricorda l’atarassia. Ritorna poi la descrizione della capacità di un uomo solo di ordinare i pensieri pari all’idea di avere un unico architetto che deve rifare la città e non più menti molteplici che non concordano e non raggiungono alcuna sintesi. Viene ribadita dunque quest’esigenza di unità: Cartesio sottolinea che non basta solo partire dalle opere altrui ma fare il lavoro in autonomia vista la difficoltà che si incontra nell’intervento sulle opere altrui. Continua poi sostenendo che le testimonianze libresche non servono perchè col tempo c’è stato un’eccessivo accumularsi di opinioni che non giovano al raggiungimento del vero, per il quale servono semplici ragionamenti che possono fare tutti gli uomini dotati di buon senso. Quest’educazione libresca e pedante ha solo offerto opinioni probabili che hanno inibito l’uso della ratio dei giovani fanciulli. (Vico capovolgerà poi questa tesi) Come per la ricostruzione della città anche per la ricostruzione del sapere, che serve per dare nuove fondamenta alla scienza moderna, non occorre “abbattere tutte le case” e dunque eliminare tutte le conoscenze pregresse perchè possiamo abbandonare le opinioni accolte come credenze senza rigettare tutte le fondamenta: in questo modo rendiamo non solo possibile ma anche accettabile il cambiamento. Per fare tutto ciò è necessario un’opera di messa in crisi del sapere tradizionale. Lo scopo è si quello di acquisire migliori convincimenti, ma soprattuto di renderli conformi al criterio della ragione. Si da un’altra metafora (le vie maestre che serpeggiano tra le montagne) per sottolineare che bisogna procedere con cautela e con ragione per opporci alla credenza e soprattutto per avere una direzione. Bisogna dunque essere consapevoli che l’esperienza di vita è fatta di divergenze al punto di essere stato quasi costretto a dirigersi da sé: ancora una volta si conferma la via autobiografica per la volontà di Cartesio di dare la sua personale esperienza e visione. La sua posizione va oltre la filosofia in se ma è data dall’esperienza della pluralità che richiede metodo: questo dinamismo non può essere una via di fuga ma va orientato. Non si tratta di rifiutare tutto ciò che precede la formazione giovanile o di abbandonare tutte le credenze ma di sottoporle al vaglio della ragione. “Io mi dedicavo lentamente a cercare il vero metodo per giungere alla conoscenza di tutto cioè che fosse alla portata della mia intelligenza” C’è qui una dimensione della possibilità che si oppone all’opinione non verificabile: l’esigenza di verificare il sapere. Cartesio cerca di fissare quelli che saranno le quattro regole del nuovo metodo: per far ciò incomincia a ricordare quelle tappe che lo avevano portato da giovane a studiare logica, analisi geometrica, e algebra (arti principali della matematica). La nuova esigenza abbiamo visto che è quella di non poter più accettare la conoscenza come un sistema di verità date, ma essa deve essere innovativa: deve cercare nuovi contenuti all’altezza del proprio tempo che siano regolati dal buon senso. E la logica tradizionale spiegava solo ciò che già si sapeva, soprattutto nel caso di Lullo, procedendo per sillogismi senza innovarne i contenuti. Il metodo dunque presuppone delle fasi che non possono essere nè annichilite nè alterate: per verificare bisogna far riferimento al passato. Vediamo che la geometria e l’algebra degli antichi si occupavano rispettivamente di figure e di dati oscuri che ostacolavano la formazione di una scienza. Prima di enunciare i quattro precetti del metodo cartesiano, egli introduce un’osservazione interessante: per distinguere l’arte logica da quella geometrica pensò di dover cercare un altro metodo che riprendesse i vantaggi del metodo antico ma privo dei difetti di questo (pag 31-2)(confronti. Vico). I quattro precetti vanno pensati come pochi ma fondamentali e da rispettare in toto: essi sono dunque l’evidenza, il processo di suddivisione e di analisi, la sintesi e l’enumerazione: 1) “La prima era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale; ossia evitare con cura la precipitazione e la prevenzione, giudicando esclusivamente di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e distinto da non offrire alcuna occasione di essere revocato in dubbio.” La prima regola del metodo dunque impone di non accogliere con precipitazione come vero ciò non è evidente, ma cosa è evidente? Evidente per Cartesio può essere solo ciò che è chiaro e distinto. Cartesio gioca sempre con queste coppie: chiaro/distinto, oscuro/ confuso. Chiaro è tutto ciò che comprendo pienamente con il concetto. Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcu- na ragione di credere ch’io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale.” L’io penso dunque sono si delinea come principio primo del filosofare, la base di questa “nuova città” che riconosce il soggetto come qualcosa che pensa: questo primo principio nasce dal superamento delle stravaganti ipotesi degli scettici. Qui Cartesio raggiunge la verità principale applicando il criterio della chiarezza e della distinzione, precetto fondamentale del suo metodo. P61 C’è un altra questione a questa legata, il riconoscere la cosa in quanto evidente grazie alle caratteristiche di una conoscenza chiara e distinta applicata all’io. “E avendo notato che non c’è niente altro in questo io penso, dunque sono, che mi assicuri di dire la verità, se non il fatto di vedere molto chiaramente che, per pensare, bisogna essere, giudicai che potevo prendere come regola generale che le cose che concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono tutte vere; e che c’è solo qualche difficoltà a vedere bene quali sono quelle che concepiamo distintamente.” Ci rifacciamo qui alla dinamica del rapporto veglia-sonno: Cartesio riconosce che abbiamo gli stessi pensieri sia nella dimensione di veglia che in quella onirica, sottolineando cosi che questo primo principio fondamentale è tale perchè ha una sua costanza e consistenza. Il pensiero è ciò che permane. Questa idea del pensare l’io penso necessita dunque di essere metafisicamente fondata non dall’esterno ma dall’interno, da un Dio non trascendente ma immanente. La questione dell’essere pensiero richiede una garanzia interna all’io non esterna: un rapporto tra l’imperfezione dell’io garantita da un essere perfetto che l’io rincorse in se. Questo punto nodale della relazione tra perfetto ed imperfetto si coglie nell’essere del pensiero, che appartiene al soggetto imperfetto il quale però per spiegare l’origine del pensiero necessita dell’ausilio di un essere più perfetto che lo vada a fondare dall’interno (se no resta un io limitato) p63. In noi quindi c’è un’origine perfetta dell’io che pensa nel quale c’è necessariamente un rapporto tra io e Dio, tra imperfezione e perfezione. Lezione 11 La ragione deve fondarsi su qualcosa di indubitabile, questo qualcosa apre la parte quarta, come abbiamo visto, e si declina nella ricerca di essere qualcosa nel momento in cui si scopre di essere pensiero. Cartesio si rende conto mentre pretendeva di pensare che qualcosa fosse falso, che già la pretesa implicava un’attività di pensiero. Anche quando fingo esercito un’attività di pensiero: si tratta di considerare il criterio della conoscenza chiara e distinta che bisogna applicare all’io. Bisogna scovare l’origine di un essere che sia più perfetto del mio essere pensiero e che però non sia esterno all’io: bisogna riconoscere l’idea di un essere più perfetto del mio, perchè solo cosi l’affermazione di io penso dunque sono è vera e fondata: le condizioni per avere ciò è che essa non venga dal nulla e che non possa derivare da me. Necessitiamo dunque di quest’idea che non proviene nè da me nè dall’esterno: questo è il punto d’approccio a Dio. Dio è quell’idea di un essere perfettissimo, questa cosa include l’esistenza dell’essere. Questa inclusione si da per definizione, non si raggiunge come si raggiungono le verità della geometria. “Tornando ad esaminare quest’idea di un essere perfetto trovai che l’esistenza era compresa in questa” Il dato caratteristico è che nessuno mi garantisce una corrispondenza della definizione geometrica alla verità della realtà, in Dio invece c’è quest’identità di essenza ed esistenza. Quando pronuncio la parola Dio in qualche modo faccio riferimento ad una convergenza di essere ed esistenza per definizione, per questo si parla di un’idea perfettissima. È cosi che viene introdotta l’esigenza della nozione di Dio. Il metodo si avvale delle regole di chiarezza e distinzione e si applica ad un essere definito come l’io che per essere garantito e per fare tutto ciò necessita di un essere perfetto: il metodo necessita della metafisica per affermarsi. Cartesio si muove contro la tesi scolastica secondo cui “nulla è nell’intelletto che non sia prima nei sensi” prendendo dunque le distanze da questa tesi. Questa idea presuppone che si dia in particolare grande valore al senso della vista, il quale, secondo Cartesio, non ci assicura la verità degli oggetti poiché i nostri sensi non possono assicurarci nulla se non interviene il nostro intelletto. Dunque non si da e non si può avere una priorità di conoscenza tramite i sensi o l’immaginazione: egli si preoccupa che non si dia priorità alla conoscenza sensibile o immaginativa perchè facendo ciò si metterebbe in crisi l’intelletto. Se noi dessimo valore all’immaginazione e non ai sensi ci comporteremmo come se l’intelletto non intervenisse e non avesse il valore che ha. “Gli spiriti migliori se non presuppongo l’esistenza di Dio non possono dare alcuna ragione che sia sufficiente ad eliminare i dubbi della conoscenza sensibile. Il criterio di verità delle idee chiare e distinte è garantito solo da Dio. L’idea di Dio ci consente di contraddistinguere le fantasticherie del sogno dalla verità dei pensieri coscienti.” Se noi abbiamo idee chiare e distinte, questo c’è garantito da quest’idea di Dio che è in noi e che in Cartesio un’idea innata. E naturalmente non possiamo attribuire la falsità delle nostre idee a Dio ma ai nostri limiti. La ragione degli uomini non nasce come adulta ma proprio governata dalle fantasticherie secondo Vico mentre per Cartesio queste sono da escludere nello stato di veglia rispetto alle idee chiare e distinte. Qui il registro cartesiano si modifica perchè aveva anche equiparato lo stato di veglia a quello di sonno che deve però in questo contesto distinguerli. Quando si atteneva alla scoperta della matematica Cartesio disse che quando entra in gioco l’idea di Dio queste dimensioni vanno distinte perchè per quanto alle volte possa sembrarci che al risveglio le idee del sogno sono chiare e distinte, se noi diciamo che essa fonda le nostre conoscenze allora non possiamo equiparare le due dimensioni perchè nello stato di sonno non ci sono solo le conoscenze matematiche ma anche tante fantasie e confusioni. Dobbiamo quindi dire che questa condizione deve indurre l’uomo a preferire la posizione di veglia rispetto a quella di sonno. Tutto ciò perchè Cartesio vuole costruire un metodo che sia metafisicamente fondato dunque la metafisica diventa la condizione per la conoscenza. Alla fine della parte quarta Cartesio sottolinea che è facile pensare che le fantasticherie che riconosciamo quando dormiamo non debbano in nessun modo farci dubitare della verità dei pensieri che abbiamo nella veglia: ciò è consentito dall’idea di Dio. Bisogna ricordare però che sia quando siamo svegli che quando dormiamo dobbiamo lasciarci convincere dall’evidenza della nostra ragione e non dalle fantasticherie. Tutte le idee proveniente dai sensi non hanno una stabilità nè nel sogno nè nella veglia: in entrambe le dimensioni dunque deve valere il criterio dell’evidenza razionale. La ragione ci consente di distinguere le chimere dalle realtà vere. Questo è il punto d’arrivo della parte quarta. Si chiude cosi sostenendo che dobbiamo preferire la veglia al sonno perchè solo qui abbiamo un’evidenza razionale fondata da Dio in noi. Questa sezione metafisica è posta stesso dal metodo: noi attraverso una conoscenza metodica che si affida alle quattro regole indicate in precedenza, giungiamo ad una conoscenza chiara e distinta che per noi essere finiti non ha un’autonomia in quanto siamo esseri imperfetti. Il razionalismo moderno non nasce da un’idea astratta di ragione, non bisogna pensare questo del pensiero di Cartesio, egli vuole semplicemente ridurre il concreto ad una stabilità che può essere data solo dalla ragione. Il fondamento metafisico garantisce una fonte autentica di verità altrimenti la nostra ragione è esposta alla variabilità, alle fantasticherie mentre necessitiamo di una garanzia. Cartesio tratta della materia ma non si sofferma più su quelle forme o qualità che erano state oggetto di dispute nelle scuole cioè presso gli scolastici. La posizione della materia e la riflessione su questa è dipendente da quelle leggi fissate da Dio per la natura che non hanno nulla a che fare con le polemiche degli scolastici. La conoscenza moderna si definisce come conoscenza razionale di corpi materiali che non hanno forma o qualità. Le leggi della natura valgono solo per il mondo che Dio ha creato e valgono per tutti gli esseri. Queste valgono dal presupposto che Dio abbia creato la ratio congiunta al corpo. Questa premessa fondamentale ci fa capire che qui si da un’altra posizione tipicamente cartesiana, noi esseri umani possediamo un’anima ragionevole unita al corpo: gli animali ci assomigliano ma non hanno traccia di pensiero. “Esaminando le funzioni che in conseguenza di ciò avrebbero potuto trovarsi…tali funzioni sono sempre le stesse per cui gli animali privi di ragione assomigliano a noi senza che si possa trovare in loro le funzioni che dipendono dal pensiero che appartengono solo a noi uomini” Si scopre la relazione con il corpo dopo aver definito quella con Dio creatore dell’anima ragionevole che ci appartiene in modo esclusivo: questa relazione è esattamente ciò che ci contraddistingue dagli animali. La parte V è dedicata alla fisica e tocca non solo il mondo esterno ma anche il nostro mondo inteso come corporeità. Qui Cartesio introduce la spiegazione del movimento del cuore e dunque la circolazione del sangue, elemento in comune tra uomini e animali. Egli sostiene di aver ricevuto dalla cultura anglosassone e in particolare da Harvey questa riflessione sullo scorrere del sangue che parte dal cuore e vi ritorna tramite tutti i passaggi dalle vene e delle arterie rendendo il processo come una circolazione perpetua. Questo elemento dinamico dimostra il movimento che dà forza e vita ai corpi: tutto ciò che aveva trattato nel volume del De homine. Essendo considerato il corpo come macchina creata da Dio e quindi perfetta, esso non risponde a due prerogative dell’uomo: linguaggio e azione cognitiva. Egli attacca l’idea che ci siano delle macchine artificiali costruite ad imitazione dell’uomo ma per riconoscere il vero dall’imitazione basta ricorrere alla possibilità dell’uso di parole e del linguaggio e di conseguenza attuare azioni cognitive. Cartesio vuole dire che ci sono in teoria macchine confrontabili col nostro essere ma questa non può che essere un’ analogia perdente perchè per quanto queste possano rispondere a stimoli non potranno mai avere la particolare disposizione per ogni azione particolare. Cioè hanno una specificità nella mera capacità di rispondere a diverse sollecitazioni mentre la macchina umana ha la capacità di agire in ogni circostanza particolare della vita grazie alla ratio. Ed è qui che si coglie la differenza tra uomini ed animali, qui la questione del corpo ci può render simili agli animali ma la ratio ci contraddistingue da essi. La specificità dell’uomo sta nell’elaborazione e coappartenenza tra pensiero e linguaggio. Il logos qui non è antico logos inteso come riflesso della verità ma è moderno in quanto ricerca e riconosce la verità non cessando di essere attività. Non bisogna confondere le parole con i movimenti naturali: gli animali secondo Cartesio non parlano non potendo proferire parole al di la dei segni che possono fare. (confronti. Montaigne: le funzioni degli animali sono tante acute quanto quelle dell’uomo) Lezione 12 Cartesio riprende una serie di questioni legate all’accusa rivolta al suo trattato di fisica, come si vede nell’incipit della parte sesta in cui si riproduce il problema del tentativo di tornare e ritornare sulla decisione di pubblicare o meno il testo le Monde. Egli accenna alle ragioni che lo indussero pertanto a non pubblicarlo: una su tutte la consapevolezza di mantenere elevato il livello di criticità e non aderire allo schema scolastico-tradizionale, cioè il mestiere di fare libri, rinnovare il modo di fare filosofia non coinciderà mai con la pubblicazione dei testi. La filosofia non nasce per fare libri ma come riflessione critica sul sapere e sulla pratica di questo sapere. Questo esordio conferma un andamento autobiografico del discorso da un lato mentre dall’altro evidenzia l’opposizione delle idee nuove che si discostano dal concetto di principio, inteso come l’insieme dei vecchi modelli teorici che secondo Cartesio peccano di astrattezza in quanto non sperimentati. Il fine delle sue idee è che la scienza, la ricerca scientifica, va comunicata non occultata. E questa ricerca della verità è finalizzata al bene di tutti gli uomini. È evidente qui (p111) il legame tra la conoscenza scientifica e la ricerca dell’utilità, del bene comune (aspetto sottolineato anche da Vico). La filosofia è, secondo Cartesio, ragione critica che si oppone alla filosofia speculativa che si insegna nei collegi: rompendo cosi il legame con l’erudizione e la scolastica in generale. Egli pone attenzione alla questione della scienza moderna che è sempre di più una scienza degli effetti, si potrebbe dire che qui Cartesio mette in discussione, non solo la filosofia aristotelica, ma soprattutto la filosofia scolastica che non aveva esitato a privilegiare i principi e le cause. Qui c’è un altro tema che va sottolineato, questa filosofia utile (pratica) e non speculativa, punta a impiegare la conoscenza dei corpi, luogo in cui si danno gli effetti, col fine di dominare con la tecnica la realtà e la natura. Questa punta a fare dei filosofi scienziati “padroni della natura”. La questione dell’esperienza qui viene analizzata cercando di scoprire i principi o cause prime di tutto ciò che esiste seguendo un ordine: la conoscenza moderna è ordinata se no non è conoscenza. Egli ha cercato di scoprire i principi innanzitutto tornando ad una qualificazione positiva di questi: non si riferisce qui alla scolastica ma potremmo piuttosto leggere un ritorno ad Aristotele fortemente condizionato da una necessità di ipotizzare Dio come creatore di verità prime. C’è una forma di immanentismo: Dio è creatore delle verità eterne che però sono sempre in noi. P115 Qui c’è un attenzione particolare alle esperienze della natura, la mente passa in rassegna le conoscenze che i sensi propongono ma resta il problema di fare esperimenti e tentarne di nuovi: di non creare uno iato tra il potere della ragione e la dimensione esperenziale. Per fare ciò Cartesio aveva provato a redigere il trattato sul mondo, il quale consentiva di far conoscere l’utilità che il pubblico può trarre dagli esperimenti: esso serviva a comunicare dunque gli esperimenti fatti e a programmare quelli da fare. In questa parte sesta torna il rapporto tra il carattere deduttivo della ragione e l’attenzione allo sperimentalismo visto che la verità progredisce solo tramite esperienze. Resta però sul piano personale quello che è il rischio di metter per iscritto le proprie tesi perchè la paura ossessiva di Cartesio è quella di pubblicare le proprie argomentazioni le quali potrebbero diventare oggetto di polemiche e controversie. La scelta di non voler scadere nelle polemiche è coerente con la polemica contro i colleghi: scadendo in esse la sua formazione farebbe parte di una formazione di carattere tradizionale. Verità non è mai possesso ma ricerca, è una lotta in battaglia. L’obiettivo è la conquista dei principi che ordinano la conoscenza e quindi la verità. Non bisogna lottare tra tesi, la filosofia non deve scadere a retorica, in quanto essa mira alla ricerca della verità. Cartesio si confessa come filosofo in grado di poter conquistare la verità e renderla utile in virtù del fatto che egli è l’unico capace di conseguire con metodo una verità in divenire poiché lo fa attraverso principi che non appartengono alla filosofia speculativa. È l’unico non perchè non ci siano intelligenze superiori alla sua ma quanto piuttosto perchè egli ha da se i suoi principi, non dipende da nessuno rafforzando quindi il concetto di autonomia e libertà. La polemica contro gli imitatori è una polemica contro coloro che non cercano la propria verità ma la prendono da altri, senza avere alcuna autonomia di pensiero. Con imitatori si intendono i seguaci di Aristotele: essi “sono come l’edera” perchè come essa non puntano a superare in altezza l’albero che l’ha prodotta ma rischiano di ricadere una volta arrivati alla cima, cosi loro attribuiscono soluzioni che in realtà Aristotele non aveva neanche pensato. Anche qui torna la metafora della luce capovolta: gli imitatori sono ciechi in quanto non vedono nè cercano la verità. Questa metafora fa capire come questa sia la strada che il filosofo non deve mai battere, ma deve piuttosto dialogare e comunicare secondo ragione e non attrarre a se in modo passivo. Non bisogna convincere in senso di oscurare la vista, cioè la luce della ragione. Non bisogna seguire l’ipse dixit poiché questo modo di praticare la filosofia è delle intelligenze mediocri. A questo tema si associa anche in positivo la prerogativa dei migliori ingegni (ingegno: saper cercare), i quali non hanno alcun bisogno di seguire i cechi e si avvalgono del verosimile. Cartesio riconosce il valore di questa posizione intermedia: egli a differenza di Vico non fonda la sua conoscenza sul verosimile ma riconosce che i migliori ingegni, i quali quando non riescono conoscere per principi evidenti, confessano la loro ignoranza e seguono il verosimile. Essi sono consapevoli che la verità è in fieri cioè è da raggiungere. Cartesio in questa parte conclusiva dunque riprende il modello di sapienza moderna volta ad una filosofia pratica che punti sul tema dell’autonomia e della responsabilità. Il motivo dominante è quello della tranquillità d’animo, ideale del saggio stoico, che non fa filosofia per gloria ma per animo. Questa tranquillitas animi ha il compito di regolare la vita del filosofo. Cartesio sottolinea l’importanza del motivo relazionale della filosofia: essa è un fare, un’azione. È per questo necessaria l’esperienza per confermare i propri principi: la filosofia deve evitare le dispute non le relazioni. Sembra scadere in una posizione personale quando invita i lettori a dirgli le loro opinioni o meglio le obiezioni alle quali darà risposte nel suo libro, ma in realtà questo fa parte del suo metodo. Egli entra cosi in dialogo con i lettori assumendo di conseguenza la responsabilità di perfezionare le risposte alle obiezioni sollevate. Dunque quell’autonomia che professa non va intesa in modo autarchico di chiusura all’alterità. L’autonomia presuppone la posizione dell’io che ricerca la verità e non la possiede, dunque non può essere in alcun modo indifferente agli altri. La filosofia è sempre filosofia con altri. C’è da sottolineare però, oltre l’autonomia, anche la relatività delle certezze acquisite: Cartesio in fondo le sue opinioni non le giustifica solo in quanto nuove ma in quanto semplici e conformi al senso comune ragion per cui devono valere per tutti gli uomini dotati di buon senso. Egli in questo senso non ha fatto altro che rischiarare queste verità a coloro che son dotati di raziocinio. La conoscenza della natura è necessaria qui per trarre delle regole che siano utili. Ritorna qui il tema dello scrivere in francese il quale è finalizzato a questa dimensione orizzontale del sapere: solo cosi gli uomini di buon senso possono accogliere le verità che lui ricerca e solo con essi può parlare dei progressi che spera di far nelle scienze e non farsi distrarre da altri progetti, consapevole che questa affermazione non gli da buon apparenza all’esterno. Egli non vuole essere né stimato né celebrato ragion per cui rifiuta qualsiasi tipo di cariche che possano offrigli poiché non è in debito con nessuno se non con chi gli fornisce una tranquillità d’animo. Il meccanicismo cartesiano dipende da questa scienza meccanico-matematica e dalle sue premesse, scienza che intende spiegare i problemi della vita. La dimensione fisiologica e vitale che si dà in Cartesio, secondo Cassirer, dipende dalla soggettività da cui il pensatore prende le mosse, quella della geometria e del metodo. Quando Cartesio parla di soggettività, egli non fa mai riferimento all’individuo senziente, ovvero empirico: tale soggettività è, in qualche modo, più estesa, e deve spiegare l’empirico senza lasciarsene condizionare rappresentando la forma fondamentale di espressione dell’io kantiano. Da questo punto di vista, le accuse di materialismo rivolte a Cartesio sono inadeguate, in quanto la filosofia cartesiana, spesso associata al materialismo antico, democriteo, non è affatto materialista: essa, piuttosto, si gioca sulla posizione idealistica del metodo, sulle condizioni di possibilità della conoscenza. La filosofia cartesiana, in altre parole, non può essere materialistica, in quanto essa non ridurrebbe mai a materia i fenomeni naturali. La soggettività coincide in Cartesio, secondo Cassirer, con il concetto puro della matematica. Anche rispetto al movimento, Cassirer riprende le tesi classiche per spiegarlo nei termini di un concetto che definisca i corpi secondo l’unità del movimento stesso, non determinando le parti empiriche, ma stabilendo una fondamentale misura di partenza, coerente con l’esigenza di fondare una scienza universale. Con Cartesio nasce l’idea di moto come quantità costante, che consente di misurare il divenire nella spazialità. Grandezza, estensione, posizione e movimento dei corpi sono rivolte a quantità costanti. Si tratta di stabilire le condizioni logico- matematiche dell’esperienza possibile. Cassirer ricava da queste un’interpretazione che mira ad una spiegazione della natura che risalga dal movimento degli enti alle leggi naturali del divenire, le quali sono ricavabili dai primi concetti geometrici, i quali, a loro volta, servono a misurare l’invarianza della quantità di moto. Cassirer può, infine, affermare che la riduzione cartesiana di tutto l’accedere naturale a processi di pressione e di urto deriva da motivi del razionalismo, mai da concessioni a un modo sensibile e immediato da rappresentare. La concezione cartesiana non dipendeva, per Cassirer, per nulla, da un suo restare ingenuamente fermo a modi comuni di vedere, ma risaliva a principi concettuali della sua stessa fisica, secondo i quali la causalità doveva rappresentare la legge del distribuirsi della quantità di moto nello spazio in ogni dato istante. Non si tratta di depotenziare il cartesianesimo riferendo la casualità solo a parti di materia che entrano tra loro in contatto, il che significherebbe tradire il significato cartesiano del fare scienza. Cartesio vuole affermare un concetto di legalità dell’ordine naturale, stabilendo un assunto generale che sia univoco e continuo. Il movimento dei corpi non deve essere conosciuto in base a determinazioni esterne, ma del pensiero, le quali riducono il problema all’unità e alla continuità, trascendendo il campo della variabilità. Il metodo è una via d’accesso alla verità, della quale si presuppone l’unità e la legalità. Per conoscere la verità occorre, cioè, avere il senso della unità e della legge della natura, che dipendono dal pensiero e dal modo di concepire le cose esterne tramite la certezza, l’evidenza della matematica (aritmetica e geometria, numero e spazio). L’analitica riguarda le forme del pensiero che consentono di imporre alle cose una legge, quindi un significato. Cartesio non si pone, qui, il problema dell’esistenza delle cose (come, invece, farà nelle Meditazioni); si tratta di cogliere le strutture fondamentali della conoscenza matematica e della natura, le quali consentono di comprendere il suo modo di fare scienza. L’unità delle scienze impegna un metodo che non si applica a qualcosa di esteriore e già definito, ma determina esso stesso la conoscenza. In ciò sta una novità fondamentale.   2. La filosofia dell’Illuminismo - Prefazione  Quando Cassirer si occupa dell’Illuminismo e della sua filosofia tiene in grande considerazione il cartesianesimo e l’ideale sistematico di conoscenza. Nella prefazione Cassirer dichiara l’intenzione di trattare dell’Illuminismo filosoficamente, senza farne una storia né investigarlo nella sua estensione, egli intende individuarne dei centri di gravità, temi fondamentali. In ogni campo egli individua alcune proposte fondamentali. Cassirer vuole cogliere, così, la filosofia dell’illuminismo nei suoi molteplici contesti, tenendo conto di come essa sia stata un movimento che non resta chiuso in se stesso, bensì raccoglie dal passato e si estende nel futuro. Cassirer non vuole chiudere l’illuminismo in alcuni temi, problemi o autori, ma vuole, piuttosto, cogliere l’evoluzione dei sistemi filosofici, auspicando la costituzione di una fenomenologia dello spirito filosofico. Secondo Cassirer, anzitutto occorre illuminare le forze operanti all’interno dell’Illuminismo, in quanto non basta cogliere la quantità di dottrine, ma anche la qualità dell’impianto culturale dell’illuminismo, il quale ebbe inizio in Inghilterra per poi svilupparsi in Francia, e che infranse la forma tradizionale dei sistemi metafisici precedenti. Egli riconosce nella filosofia dell’Illuminismo una critica serrata ai tradizionali sistemi metafisici. Cade, cioè, la fede nello spirito di un sistema metafisico chiuso ed il modello aristotelico e l’aristotelismo tomistico vengono messi in crisi, ma non viene, per questo, abbandonata un’esigenza sistematica. Ciò rimanda alla modernità iniziata con Cartesio: il progetto cartesiano si ispirava, di fatti, all’esigenza di legalità, di conoscenza, ovvero, della legge della natura. L’eredità cartesiana è presente nel Settecento europeo, insieme all’esigenza di non limitarsi a coltivare le conoscenze particolari, quanto piuttosto quelle conoscenze che tendono all’universale non astratto. La filosofia dell’Illuminismo non è più filosofia della sostanza astratta: essa è il richiamo, sempre più forte, alle funzioni che le varie scienze rappresentano. Si nota, qui, l’applicazione in campo storiografico del passaggio cassireriano dal mondo della sostanza a quello della funzione. Non è più, per Cassirer, la sostanza separata e astratta dello spirito, ma lo spirito come un tutto nella sua pura funzione, nel modo specifico delle sue ricerche e dei suoi postulati, del suo metodo, del suo puro procedimento conoscitivo. Da questo punto di vista, non si può ricercare tanto un contenuto dell’Illuminismo, quanto piuttosto si deve ragionare sull’uso diverso dei tradizionali contenuti di pensiero, il che significa, per Cassirer, abbandonare la lettura hegeliana dell’illuminismo. L’Hegel storico della filosofia aveva, di fatti, definito la filosofia dell’Illuminismo come una filosofia della riflessione, affidata, cioè, alla pura e semplice speculazione. Cassirer riconosce, invece, delle energie creatrici che si muovono in altre direzioni e volendo restare sul modello hegeliano, secondo Cassirer, sarebbe opportuno parlare di una fenomenologia dello spirito, tracciare, cioè, un quadro diverso e più complesso dell’epoca illuministica, più ricco di quello disegnato da Hegel. L’esigenza di costruire una fenomenologia dello spirito dell’Illuminismo fa capire come Cassirer privilegi l’Hegel della Fenomenologia. Cassirer scrive che l’illuminismo crede in un’originaria spontaneità del pensiero, a cui assegna la forza e il compito di plasmare la vita; tale spontaneità deve promuovere e realizzare l’ordine che considera necessario, onde dimostrare con questo atto di realizzare la propria realtà e verità. A questo disegno si ispirano le forze culturali che si identificano con l’Illuminismo, le quali si muovono al confine tra Seicento e Settecento. L’Illuminismo non nasce immediatamente né soltanto con Hume, D’Alembert o Voltaire ma nasce come evoluzione da Cartesio a Spinoza, da Bacone a Leibniz, da Hobbes a Locke. La questione del sistema filosofico entra in crisi finanche in un pensatore come Wolff, considerato grande sistematore delle idee filosofiche del passato e dello stesso kantismo, il quale è mosso da un’esigenza moderna nuova, quella, cioè, di sistemare le conoscenze. Se questo è vero, se si tratta, cioè, di sistemare in modo nuovo le conoscenze, il valore dell’illuminismo non può essere messo in rilievo nella somma delle dottrine o opinioni nella loro successione nel tempo. Esso non consiste, infatti, tanto in determinate tesi, quanto nella forma e nel modo della riflessione concettuale. La filosofia illuministica, scrive Cassirer, appartiene a quei capolavori tessili dove un solo colpo di calcolo muove mille fili, dove le spole scattano da una parte all’altra e i fili si intessono non visti. La ricostruzione della riflessione storica deve considerare suo vero e proprio compito quello di portare alla luce tutti quei fili che non sono immediatamente visibili. Il lavoro di Cassirer ha cercato, dunque, di raggiungere questo fine, dando non la storia dei singoli pensatori e delle loro dottrine, ma una storia delle idee dell’epoca illuministica, tentando di esporre tali idee non solo nella loro forma astrattamente teorica, ma anche di rilevarne l’immediata efficacia. Nel portare alla luce questi fili, tuttavia, non bisogna cedere alla tentazione di fare della filosofia dell’Illuminismo una filosofia eclettica. Cassirer rifiuta tale idea, perché la filosofia dell’illuminismo è in fondo dominata, a suo dire, da un numero esiguo di grandi pensieri fondamentali, che essa presenta in un ordine serrato, e non in un rigido allineamento. Cassirer vede in tale ordine un filo conduttore della filosofia dell’Illuminismo nel labirinto dei singoli dogmi e delle singole dottrine. Occorre riconoscere di questi il valore storico, mantenendo, al contempo, lo spirito sistematico dell’Illuminismo, che si oppone al sistema, al modello tradizionale e chiuso in sé. Il sistematico, invece, si apre al divenire. Importante è il rilievo storico e sistematico del contenuto e dei principali problemi filosofici dell’Illuminismo, presupposto della revisione di quel grande processo che il Romanticismo intentò contro l’Illuminismo. Cartesio critica, cioè, i pregiudizi romantici contro l’Illuminismo. Il lavoro di Cassirer intende avere come meta fondamentale il trasferimento della lezione kantiana dentro l’interpretazione dell’epoca illuministica, fare una filosofia dell’Illuminismo che metta in risalto il valore e il significato della storia. Qui, Cassirer rivela anche il suo personale modo di fare storia della filosofia, non unicamente orientato verso il sapere storico, in quanto lo storico della filosofia, per Cassirer, non può impegnarsi solo da un punto di vista storico; il ritorno al passato filosofico deve e vuole essere, al contempo, un atto della propria riflessione filosofica e della critica di sé. Lo storico della filosofia di età illuministica è animato, pertanto, dal bisogno di interrogare il passato per un’esigenza presente, e non per una mera erudizione storica o filologica. Occorre realizzare, pertanto, una storia delle idee e in questo senso si parla di un idealismo critico, non assoluto o hegeliano. Questo ultimo aveva limitato il raggio di azione dell’Illuminismo, leggendolo come età della mera riflessione. C’è, invece, bisogno di introdurre uno spirito sistematico che consente di non separare l’età illuministica da quella che l’ha immediatamente preceduta. Si fa storia della filosofia non semplicemente mettendo insieme le varie tesi, ma solo dando una prospettiva filosofica alla conoscenza storica. Questa posizione cassireriana libera l’illuminismo dalle riserve del Romanticismo. 1. La filosofia dell’Illuminismo: L’idea della religione (Lezione 14) Cassirer affronta la questione dell’Illuminismo isolando alcune idee chiave dell’epoca, a partire da quelle relative alla mentalità stessa illuministica, proseguendo su natura e conoscenza, psicologia e gnoseologia, l’idea della religione e la conquista del mondo storico, i problemi sul diritto, ovvero Stato e società, finendo con la questione relativa all’estetica. Cassirer mostra, in questo modo, l’intenzione di voler realizzare una storia dell’Illuminismo attraverso le idee della storia, un approccio che, dal punto di vista storiografico, si conclude con l’approccio ai problemi dell’estetica, i quali trovano loro maturità nella riflessione trascendentale kantiana. Kant rappresenta il punto di arrivo di una serie di problematiche, e viene da Cassirer citato anche a proposito della questione religiosa. Occorre partire, secondo Cassirer, dal tema della religione per mostrare un atteggiamento dominante nel XVIII secolo, un atteggiamento, cioè, critico e scettico, che permeava, in modo particolare, in ambiente francese. Basti pensare a Voltaire, in cui tale fare critico e scettico alimentava la lotta contro la chiesa e soprattutto la superstizione, ovvero contro tutte le manifestazioni che annientano l’uso della ragione. Primo motivo è dato dall’auspicata liberazione dalla schiavitù della religione, non da intendere come un’autentica fede, bensì come esteriore partecipazione, la quale non ha fatto altro che ostacolare il progresso intellettuale e dimostrarsi incapace di stabilire una vera morale o un ordine politico sociale. Cassirer sottolinea come anche i seguaci e gli ammiratori di Voltaire, tra cui D’Holbach e Diderot (fondatore dell’Encyclopédie), si muovano intorno al tema religioso, centrale nella loro epoca. [pag. 192] Cassirer riporta un passo di Diderot, il quale scrive: «Abbi il coraggio di liberarti dal giogo della religione, la mia superba rivale, che disconosce i miei diritti; rinuncia agli Dei che si sono arrogati le mie prerogative e ritorna alle mie leggi. Rivolgiti nuovamente alla natura, dalla quale sei fuggito, essa ti consolerà e scaccerà dal tuo cuore tutte quelle ansie che ti opprimono e tutta l’inquietudine che ti strazia». In questo appello in nome della ragione si affermano i temi centrali su cui Cassirer intende insistere: l’esigenza di liberarsi dal giogo della religione come superstizione e di prestare attenzione alle leggi della ragione, le quali devono accordarsi a quelle di natura. La battaglia contro i dogmi della religione rappresenta una polemica nei confronti di qualsiasi religiosità superstiziosa, in quanto in gioco, secondo Cassirer, non ci sono soltanto le singole posizioni di religiosità, ma una questione fondamentale, quella secondo cui la religione tradizionale, così vissuta, non è in grado di garantire alcuna certezza. Questa esigenza di certezza sarà rivendicata in tutte le aree della cultura europea: francese, anglosassone e tedesca. Non bisogna dimenticare però che i più validi impulsi del pensiero illuministico e la sua potenza spirituale non fondano sul distacco della fede ma sul nuovo ideale di fede che esso stabilisce sulla nuova forma di religione che esso impersona. Cassirer propone, a seguire, un legame di assonanze e differenze tra Illuminismo e quanto l’ha preceduto. L’epoca, infatti, non la si comprende staccandola da quelle radici che non sono immediatamente riportabili alla cultura seicentesca, ma devono essere, piuttosto, ricondotte al Rinascimento, il quale già, a suo modo, aveva rappresentato un’esigenza di renovatio della religione. Esso aspirava ad una religione che affermasse il mondo e lo spirito, che lasciasse ad entrambi il loro valore specifico e che trovasse, non nella loro distruzione ma nella loro elevazione la prova del divino. Cosi si gettarono le basi di quel teismo universale del secolo XVI e XVII. Questa teologia ha le sue radici nel pensiero che l’essenza del divino è afferrabile solo nell’insieme dei suoi fenomeni e che ogni di questi ha perciò un suo valore a sè. L’essere assoluto di Dio non si può esprimere con nessuna forma o nome perchè questi sarebbero modi di limitazione e dunque inadeguati all’essenza dell’infinito. L’epoca umanistico-rinascimentale si consolida mostrando il valore dei fenomeni religiosi, non legati all’Assoluto, bensì alla dimensione terrena. Nel Rinascimento matura l’idea secondo cui lo spirito religioso non si consolida attraverso il rinvio all’Assoluto, piuttosto si instaura, in fondo, una partecipazione con esso. Cassirer sottolinea come da Cusano a Ficino, da Erasmo a Tommaso Moro si consolidi una questione che ritorna anche nell’Illuminismo, quella, cioè, secondo cui la religione va vissuta entro i confini dell’humanitas. In ciò sta l’eredità rinascimentale riconsegnata all’Illuminismo. Non a caso in Cusano l’humanitas si identifica con la figura di cristo, che rappresenta il legame dell’umanità con la sua interiore unità e colma il baratro tra infinito e finito, fra creatore e creato. Centrale nella cultura rinascimentale è il motivo dell’interiore unità, che rappresenta una sorta di antidoto ad ogni forma di credulità. Il che spiega perché è importante risalire al Rinascimento e capire l’affermazione di un’humanitas che dà senso alla vicenda complessa del Rinascimento, in cui non si trova soltanto la religione umanistica cusaniana, ma anche la Riforma luterana. Questa contrasta con gli ideali religiosi dell’Umanesimo, contrasto che, secondo Cassirer, si coglie alla luce di una certa interpretazione del dogma del peccato originale. Riforma e religione umanistica si schierano, dunque, in modi diversi intorno al tema del peccato originale, che rappresenta non solo il punto di riferimento dell’innovazione delle posizioni filosofiche, religiose e antropologiche in generale, ma perché dietro di esso si cela tutta la tradizione agostiniana. La questione del peccato originale, cioè quella del male connaturato all’essere dell’uomo, impegna come riferimento assoluto per i Riformatori, il valore della Bibbia, che diventa l’unica autorità di valore per potersi garantire la salvezza. Viene, così, a stabilirsi un vincolo sovrannaturale, che impegna una convenzione antropologica basata sul peccato originale. Non a caso, Cassirer insiste molto sulla nota opposizione tra i dibattiti in casa luterana rispetto alla difesa erasmiana del libero arbitrio, da un lato, quindi, troviamo il De servo arbitrio di Lutero, dall’altro le istanze umanistiche sostenute da Erasmo da Rotterdam a favore del libero arbitrio. Si tratta di posizioni complesse, le quali si connotano da un lato per un’intransigenza rispetto all’ideale umanistico della possibilità di una religione universale, difeso da Cusano; dall’altro, una posizione, quella luterana e protestante, che pronuncia un verdetto non assoluto rispetto alla tradizione umanistica, ma neanche disposto ad accettarne i valori fondamentali. Si determina, quindi, una spaccatura sul fronte religioso. In Germania si sviluppa uno spirito critico nei confronti della Bibbia. Si rompe lo schema luterano dell’assoluto valore delle Sacre Scritture nel Settecento; la lotta contro l’ortodossia si ricollega ad Erasmo, in quanto si tratta di ristabilire l’autonomia e la libertà della ragione e il valore della volontà morale contro il dogmatismo medievale e, in modo particolare, contro la tradizione agostiniana. Il peccato originale rappresenta l’argomento di polemica che attraversa tuti i grandi autori dell’Illuminismo europeo, tra cui Hume, Rousseau e lo stesso Voltaire. Al di là dei mezzi diversi e delle voci diverse di cui si alimenta la polemica contro il peccato originale, importante è sottolinearne lo scopo decisivo, quello di abbattere questo dogma, che è il problema alla radice della mortificazione dell’essere umano e delle sue capacità di intendere, cioè ragionare, e di volere. Nel pensiero francese si distingue una delle voci più dibattute del Settecento, Pascal. Molto noti sono i saggi che Voltaire dedica ai Pensées di Pascal: la polemica voltairiana è centrale per comprendere alcuni snodi cruciali della religione illuministica. Cassirer insiste sulla fonte seicentesca del dibattito illuministico sulla filosofia della religione, scelta che è spia della sua volontà di presentare tutti i fili che si intessono a formare un pensiero, non ricostruirne solo gli esiti e i risultati. Pertanto, per capire la filosofia della religione illuministica occorre, secondo Cassirer, risalire al Rinascimento e capire lo scontro tra Riforma luterana e progetto umanistico di Erasmo, ma anche comprendere un autorevole fonte del pensiero filosofico francese, ovvero Pascal, il quale affronta i misteri della fede attraverso un ideale moderno, cioè quello logico della ragione. La posizione di Pascal è, secondo Cassirer, confluenza di alcuni motivi interessanti nella loro paradossalità; uno di questi è rappresentato dal riconoscimento dell’impotenza della ragione nei confronti della fede, una subordinazione della ragione alla fede che non è solo postulato, bensì dimostrata. [pag. 202] Netto è il giudizio di Cassirer, che scrive: «Il contenuto della dottrina che Pascal vuole motivare nelle Pensées è in stridente contrasto con il metodo della motivazione stessa. La tesi da lui propugnata riguarda la completa impotenza della ragione, L’uomo è responsabile non delle limitazioni del sapere, ma dell’illusione di potersene sbarazzare e di poter osare con fiducia dogmatica un giudizio sull’universo e sulla sua origine. La vera incredulità non è mica nel dubbio ma piuttosto nella sicurezza apparente che mette solo la propria opinione e rifiuta tutte le altre. La filosofia diviene pratica di vita, il che vuol dire, in ambito religioso, riscoprire nella religione una forma di eticità. Questo spiega l’affermarsi della tolleranza come affermazione del richiamo al centro dell’azione, che risiede nella libertà umana. Il grande ideale cusaniano e umanistico-rinascimentale della concordia si realizza ancor di più grazie all’ideale della tolleranza. La vera forza della religione sta, per Cassirer, nelle idee religiose, le quali danno un orientamento etico ai comportamenti. Elemento che contrassegna l’ideale di pacificazione che si estende ai popoli europei dell’Occidente quanto a quelli orientali. [pag. 234] Autore significativo per aver pubblicato, nel 1763, il Trattato sulla tolleranza, è Voltaire, il quale sostiene la tolleranza nell’ambito della battaglia a favore della ragione. Ancora una volta, la religione per Voltaire è quella praticata e connessa alla vita. Cassirer continua poi con il commento dedicato alle posizioni di Diderot, che si muovono in direzione dell’affermazione di un ideale che contrassegna tutto il secolo XVIII, cioè l’affermazione della superiorità della religione naturale su quelle positive. Egli porta alle estreme conseguenze il Trattato sulla tolleranza, condannando le religioni positive che erano state fonte di intolleranza e riscattando il valore della religione naturale, che non è mai subordinata ad esse, ma è, piuttosto, all’origine di ciascuna delle religioni positive. Bisogna concedere, dunque, il primato alla religione naturale, vera università ed eternità, che richiama tutte le religioni positive a valori universali in quanto è dentro di noi, ed è la più antica, appartenendo alla nostra stessa natura. L’elogio della religione naturale si trova anche in autori tedeschi e anglosassoni: alle posizioni di Diderot riguardo la distinzione tra prove storiche e razionali, ad esempio, si richiama il tedesco Lessing, il quale partecipa all’affermazione delle verità universali e necessarie rispetto a quelle contingenti. Una corrente religiosa che irrigidisce l’attenzione nei confronti delle prove universali, necessarie e razionali della religione è il deismo. Questo nasce in Inghilterra attraverso testi di Toland, il quale si occupa, in modo particolare della religione cristiana e scrive, nel 1696, Christianity not mysterious, opera che già nel titolo porta una netta cesura tra cristianesimo e mistero. [pag. 243] Cita Cassirer di Toland: «Potrebbe mai vantarsi qualcuno di possedere una conoscenza infallibile del fatto che esista nel mondo il bilctri, pur non sapendo dire assolutamente che cosa sia veramente questo bilctri?». Il che vale a dire che il mistero deve essere bandito dalla religione, comportando il fatto che il deismo porta una linea di demarcazione netta e quasi definitiva per distinguere il contenuto della fede dalla sua forma. Il contenuto della fede non dipende più dai singoli dogmi, i quali possono contenere anche posizioni legate a superstizione che devono essere distinte dalle verità necessarie ed universali. Toland coerentemente respinge ogni forma di trascendenza assoluta degli oggetti della religione, laddove essi non si presentano in forma fenomenica. Anche la fede deve, cioè, concepire i suoi oggetti secondo determinazioni concrete. La parola mistero è, per Toland, inaccettabile, in quanto essa rappresenta qualcosa che è fin dalle origini oscuro alla ragione e che, in quanto tale, non può che restare occulto. Occorre tenere distinte religione e rivelazione: quest’ultima non può più essere fonte di assoluta certezza, bensì deve entrare nel campo di quelle conoscenze particolari, le quali appartengono ad un dato momento della storia di un popolo. La religione naturale si stacca dalla concezione di religione come rivelazione. [pag. 243] Il concetto di rivelazione, così come elaborato dall’Illuminismo, viene commentato da Cassirer, che osserva: «Il concetto di rivelazione non si può contrapporre a quello di religione naturale in modo da distinguerle tra loro per il contenuto specifico. Ciò che le divide non è il contenuto delle cose manifestate, ma solamente il modo di manifestarle. La rivelazione non è un motivo peculiare di certezza, è soltanto una forma particolare della comunicazione di una verità, la cui ultima motivazione va ricercata nella ragione stessa». Il commento di Cassirer non guarda ai contenuti, ma si sofferma, piuttosto, sulla forma, il che è a riprova del suo stesso modo di far filosofia. Non si tratta di presentare dunque religione e rivelazione come due alternative, ma di capire come la rivelazione sia una forma di comunicazione di una verità non oggettiva, in quanto ogni rivelazione si adegua al contesto a cui fa riferimento. Cade l’opzione propria della Riforma luterana secondo cui la Bibbia assuma valore oggettivo assoluto: qui è piuttosto la ragione ad assumere valore oggettivo. Se questo è vero, è chiaro che emerga l’ideale nuovo della tolleranza: occorre, infatti, tollerare le varie forme in cui si esprime la verità e rimarcare il valore della ragione umana, ripristinata in tutti i suoi diritti e, in modo particolare, nella sua libertà. Abbiamo capito cosi che la religione naturale (così chiamata perché la natura umana consiste nella ragione stessa), quella, cioè, della ragione umana, e quella rivelata non si distinguono tanto per il loro contenuto, bensì per la forma. Cassirer si affretta a sottolineare come il nuovo rapporto tra le due religioni implica l’abbandono della vecchia antropologia. Cade la questione del dogma del peccato originale, ma anche quello della predestinazione e della grazia: dogmi che, in fondo, non presupponevano l’autonomia e la libertà della ragione umana. Il criterio più importante dell’autenticità di un tema religioso sta nella sua capacità di essere universale e superiore ad ogni limitazione di tempo e spazio. Si dà qui un’apologia della religione naturale, intesa come religione della ragione umana. Altre posizioni, secondo Cassirer, si muovono, invece, in direzione dell’accentuazione di un modello prevalentemente morale. Alcuni esponenti del deismo inglese ad esempio spostano l’interesse dalla parte intellettuale a quella pratica della ragione, come Tindall, il quale fu teorico della vera rivelazione come quella che si afferma in base ad un significato morale. Già Bayle il quale si trova solo all’inizio del movimento deista riconobbe quanto la mentalità del deismo influì sulla sincera volontà del vero e la serietà morale con cui esso si accinse alla critica del dogma. “La nostra epoca”, dice nella opera contro la revoca dell’editto di Nantes (il quale pose termine alla serie di guerre di religione che avevano devastato la Francia dal 1562 al 1598, regolando la posizione degli ugonotti e preservava la libertà di culto e di coscienza), “è piena di deisti: c’è chi se ne sorprende io invece mi meraviglio non c’è ne siano di più, se considero le devastazione che la religione compie in tutto il mondo e la distruzione di ogni moralità che nè è la conseguenza inevitabile, visto che la religione pur di assicurare il proprio benessere giustifica tutti i delitti immaginabili”. Il deismo, secondo Cassirer, scaturisce dal distacco interiore da quello spirito in nome del quale si erano combattute le guerre religiose dei secoli passati. Esso si manifesta nella nostalgia di quella pax fidei (tentativo di riunificazione della fede c’è si cerca nella diversità all’interno della quale la fede fa da elemento unificatore) che il rinascimento aveva promesso ma mai raggiunto. Non nella guerra religiosa ma solo nella pace della fede (questa è la convinzione dei deisti) si può schiudere per noi la vera essenza di Dio. Dio infatti è un essere troppo buono perche gli si possa imputare l’origine di una cosa cosi rovinosa come sono le religioni positive, che hanno in se il germe della guerra e delle stragi. Anche in Germania il deismo dovette a questo motivo la sua avanzata: la filosofia leibniziana fece qui da tramite spirituale anche nella formazione del pensiero religioso, pertanto rimase ancora in vigore ad esempio la tendenza fondamentale del suo pensiero all’armonia. Leibniz si fa teorico di una sorta di accordo tra le varie fedi, del tentativo, cioè, di coordinare tutte le manifestazioni della coscienza che trovano rispetto nelle varie religioni storiche che hanno avuto sviluppo. Dopo di lui, si arriva a teorici di una nuova teologia, che mira a irrigidire il confronto tra religione naturale e rivelazione, eliminando dalla religione tutti gli elementi che non è possibile acquisire mediante il criterio della fede originaria. Se in una prima fase religione naturale e rivelazione sono, in qualche modo, tra loro conciliabili, successivamente si assiste, specie in Germania, ad una loro netta separazione. La religione è fatta solo da elementi che non possono essere acquisiti storicamente, perché essa, la religione naturale, per essere tale, deve avere i caratteri di universalità. Si determina, così, un appello alla soggettività molto più radicale, che è espressione del Settecento maturo. Questa tendenza, definita come neologica, radicalizza la distinzione tra religione naturale e rivelazione. Anche se quest’ultima persiste, essa viene svuotata del suo significato dinanzi al tribunale della ragione. Si accentuano i valori di affermazione della soggettività come insieme di facoltà naturali di ogni esperienza religiosa: ciò al fine di affermare una religione razionale e fortemente radicata nell’esperienza. Lo scetticismo ostacola la religione naturale intesa come religione razionale. Nella cultura anglosassone, in modo particolare, Hume applica lo scetticismo per scardinare il deismo e riaffermare nuovamente le prerogative della natura umana, la cui ragione deve essere considerata dentro la realtà. Lo scetticismo mette in crisi la ragione intellettuale e recupera altre sue componenti di essa che non contrastano con essa, fino ad arrivare a trasformare l’intero impianto antropologico. Lo scetticismo sembra essere alleato dell’ortodossia, in quanto esso mina il deismo; ma lo scetticismo di Hume combatte l’ortodossia e annienta il deismo al fine di praticare una religione naturale basata su altri valori. Lezione 15 Cassirer si sofferma su una posizione interessante che tocca la fede e tocca soprattutto il deismo, cioè quella corrente di pensiero secondo cui l’esistenza di Dio funge da causa creatrice del mondo. Il deismo è un sistema inizialmente rigidamente intellettualistico, il quale vuole espellere dalle religioni i misteri e i miracoli ponendole cosi sotto la luce della conoscenza. L’importanza filosofica del deismo consiste sopratutto nel fatto che esso impone nell’impostazione del suo problema un principio nuovo. Esso, come abbiamo già visto, prende le mosse dall’affermazione che la questione del contenuto della fede non può essere staccata dalla questione della sua forma. La corrente del deismo finì cosi per rompere tutte le dighe e per sormontare tutti gli argini che si tentò di rizzare contro di esso. Stranamente anche qui il minacciato sistema dell’ortodossia trovò improvvisamente un aiuto inaspettato da uno dei suoi più accaniti avversari che divenne cosi suo alleato: la scepsi filosofica respinse gli attacchi del deismo e ne arrestò l’avanzata. Ma questa posizione deistica venne comunque attaccata dallo scetticismo anglosassone del 700 ed in particolare con la filosofia di Hume. Fu proprio Hume infatti, come abbiamo già accennato, a mettere il deismo di fronte a un nuovo problema e a scardinarlo. Per motivare il suo concetto della “religione naturale” il deismo parte della premessa che esiste dovunque una “natura umana” sempre uguale a se stessa, la quale è fornita di certe conoscenze fondamentali ed è assolutamente certa di queste. Si può dire che il principale difetto del deismo è proprio questo confidare senza scrupoli in questa ipotesi ed elevarla a dogma? È questo ciò su cui riflette Hume ed è contro questo dogma che si scaglia la sua critica. Egli vuole soltanto misurare il deismo alla stregua dell’esperienza, della pura conoscenza dei fatti. Ed è qui che la posizione del deismo poggia su una base troppo fragile: infatti quella “natura umana” sulla quale pretendeva di basare la religione naturale, non è una realtà, ma una semplice finzione. L’empiria pertanto ci mostra questa natura umana sotto una luce ben diversa da quella di tutti i tentativi di costruzione deistica: quanto più ci addentriamo in essa più se ne stacca l’apparenza della razionalità e dell’ordine, essa è piuttosto caos e groviglio di istinti. In altre parole l’attacco al deismo parte da un concetto di natura che con Hume si modifica perchè crede che non si dia una natura umana sempre uguale a se stessa: il deismo dove essere superato perchè bisogna guardare all’esperienza del soggetto e all’esperienza dei fatti. Lo stesso si dica delle nostre idee religiose, il loro contenuto che si pretende oggettivo, il loro significato si riduce ad apparenze non appena si risale alle loro vere fonti e al loro divenire. Cassirer mette in risalto il variare delle nostre rappresentazioni che anche nell’ambito religioso sono legate ai poteri dell’istinto e delle passioni. Su questo motivo egli insiste nel commentare la posizione di Hume per sottolineare che la religione secondo lui non ha un dimensione etica o logica ma antropologica: lo scetticismo presuppone un’antropologia giocata sull’istinto e le passioni. Dal momento che la religione procede dal timore di potenze soprannaturali e dal desiderio dell’uomo di farsele propizie e arrendevoli alla sua volontà, anche qui è il gioco della passione e della fantasia quello che domina lo svolgimento della vita religiosa. Le vere radici dell’idea di Dio dunque sono la superstizione e la paura dei demoni. È il motivo dell’adulazione che spinge ad elevare i suoi dei sopra ogni misura di perfezione terrena e ad attribuire loro predicati sublimi. Ed è proprio questo motivo adulatorio che viene sottolineato da Hume: esso spinge l’uomo ad elevare, non solo se stesso, ma anche le divinità in cui crede sopra ogni cosa terrena ed ad elevare i suoi dei sopra ogni misura di perfezione terrena e ad attribuire loro predicati sublimi. Dunque è evidente che alla radice della religione c’è timore, desiderio e tendenza all’adulazione. Secondo Hume qui stanno i contrassegni della vera e propria religione che si identifica con la storia naturale della religione e dell’uomo: pertanto egli pubblica un’opera che recita questo titolo “The natural history of religion”. Resta un’obiezione di fondo però cioè che la storia naturale di Hume non è la storia naturale di una mens astratta ma appunto di una mens fatta di posizioni e caratteri psicologici (timori, adulazioni..) eppure resta però una storia segnata dalla dimensione scettica. Egli conclude infatti che dal momento che il mondo è enigma, l’unica via di uscita si da nel dubbio e nell’epoche’ cioè nella sospensione del giudizio. Ma, dice Hume, la debolezza della ragione umana e l’irresisitibilità ad aderire all’opinione pubblica, è tale che neanche il dubbio si reggerebbe in piedi se non potessimo porre una specie di superstizione contro l’altra per poi distruggere entrambe ed abbandonarci al terreno della filosofia. La via però sulla quale il Hume si incamminò percorrendola fino in fondo non fu la via del secolo XVIII. Questo secolo confidava troppo nella forza della ragione per potervi rinunciare in questo punto vitale. Non voleva abbandonarsi al dubbio, ma cercava una decisione chiara e sicura. La “storia naturale della religione” di Hume rimane entro la storia dello spirito umanistico un fenomeno isolato. Il concetto astratto di “religione naturale” doveva riempirsi di un determinato contenuto per poter tenere testa agli attacchi scettici che gli si sferravano contro. Bisognava mostrare che ciò che esso afferma ha la sua sede nella vira reale della religione, e per parte non solo della religione ma anche della storia, bisogna motivare questo concetto. Si tratta dunque di comprendere il rapporto che sussiste tra religione e storia, ed in che modo queste due si presuppongano a vicenda come da questo nesso condizionale sorga la vera e concreta realtà della religione. Per dimostrare quanto sia falsa l’idea che il secolo XVIII sia un secolo antistorico basta dare un’occhiata all’evoluzione dei problemi religiosi e in particolare dal rapporto tra religione e storia. La religione si divincola dal dominio del pensiero metafisico e teologico per creare una nuova misura, nuova norma di giudizio. Questa è data dalla sintesi di spirito razionale e spirito storico. La ragione è messa in relazione con la storia e viceversa per acquisire cosi una nuova concezione religiosa. Questo rapporto polare non esclude un equilibrio tra le due forze contrarie: un solo essere ed una sola verità ci si rivelano tanto nella ragione che nella storia. Esse devono camminare a braccetto per cosi dire ed agire insieme nella loro tendenza e nei loro fini. E soltanto dalla fusione e contrapposizione di questi due modi di studio nasce la vera illuminazione dello spirito. È importante sottolineare però che non si fa filosofia dell’illuminismo privilegiando solo il motivo gnoseologico cioè il conoscere, ma bisogna allargare il campo di interesse a questi fenomeni dell’esperienza della religione, della storia, del diritto e poi dell’estetica. Cassirer romperà con un principio della tradizione che era stato alimentato dalla riforma luterana: il principio del testo biblico come un testo ispirato nonché il principio dell’ispirazione. La tendenza fondamentale della riforma mirava a dimostrare la verità della scrittura come unica e concorde, perfetta e incondizionata: verità che poteva essere confermata solo se nella Bibbia non si ammette alcuna divisione o scissione. Ogni lettera doveva avere valore e santità uguale al tutto: questo contrassegno dell’ispirazione viene qui messo in crisi in quanto la Bibbia è un testo che ha la sua dimensione storica, non è incondizionato. Per quanto Cartesio abbia affermato che la sua innovazione riguarda solo la scienza e non la fede e cioè che dichiara la sua sottomissione all’autorità della scrittura, i suoi discepoli usciranno da questa prudente riserva e si sottrarranno da questo movimento. Tra questi emerge Riccardo Simon il quale fu uno di coloro che si contraddistinse nell’avviare una conoscenza libera della scrittura su base storica: al principio dell’aspirazione si sostituisce cosi l’esigenza di interpretazione. Egli vuole provare dunque con la sua critica che la fiducia protestante nella sola verità della Bibbia è priva di fondamento poiché essa non può costituire una difesa assoluta e sufficiente contro il dubbio. Ma sarà sopratutto Spinoza a compiere un passo decisivo: in lui si avvera un’attenzione al testo biblico come luogo del divenire, un testo aperto: la posizione di Spinoza è dunque contraria ad ammettere la Bibbia come luogo eccezionale e fuori misura. È il monismo spinoziano, dice Cassirer, che non solo si ribella alla posizione eccezionale della Bibbia ma anche alla posizione eccezionale dello spirito. L’ordine delle cose e quello delle idee, natura e spirito, non sono diversi ma identici e fondati sulla stessa legge, dunque bisogna mantenere una certa analogia tra questi. Lo studio della storia non può essere staccato da quello della natura: “Il metodo di interpretazione della scrittura non si distingue da quello dell’interpretazione della natura” scrive Spinoza nel suo trattato politico. Egli intende la Bibbia come una parte dell’essere, essa deve essere colta e interpretata tramite le leggi della natura, non va e non può andare oltre il deus sive natura. E se la Bibbia è un brano della natura stessa, come potremmo aspettarci da lei verità assolute e intuizioni metafisiche sul principio delle cose della natura, visto che essa ne è condizionata? Il metodo per interpretarla non può che consistere nel trattarla ed interrogarla coi mezzi dell’indagine empirica. Un testo va spiegato attraverso le particolarità della sua origine e l’individualità del suo autore. In Francia tutto ciò torna in Diderot, nella sua enciclopedia all’articolo “Bible” si trova già un segno quasi completo delle direttive e dei compiti fondamentali della critica biblica. Egli stabilisce i vari criteri coi quali valutare l’autenticità dei singoli libri della scrittura Quest’ultimo è noto in particolare per il testo Lo spirito delle leggi: già il titolo imprime una curvatura interessante al discorso, perchè egli non guarda ai fatti e li analizza come Bayle scoprendone la parzialità o meno, ma ha uno sguardo vivo nei confronti delle leggi in particolare. Egli guarda alla forma dei fatti, forma ricevuta dalle leggi. Questa osservazione parte da un preferenza specifica per il particolare: qui si lega a Bayle, manifestando come lui un interesse per il particolare dal quale si può ricavare il generale e dunque la legge. Lo scopo dell’opera di Montesquieu non è mai però il fatto in se, l’effettività del dato viene in questo senso superata: per Montesquieu si tratta di riconoscere il tipo ideale storico. Lo spirito delle leggi è un opera in cui si indagano le formazioni politiche, riprendendo al teoria classica aristotelica di governo, in quanto sono considerate non più un astratto modello ma sono espressioni di una struttura assai complessa e originale. Ogni comunità in sfondo esprime una tensione etico-spirituale e Montesquieu vuole riprodurre nella sua ricostruzione storica questo motivo fondamentale, vuole riconoscere nel suo progetto di filosofia della storia queste diverse connessioni spirituali che hanno dato origine alla forma politica. Per intenderci aristocrazia, monarchia, dispotismo e repubblica sono l’esito e l’espressione di un modo spirituale di esse delle comunità che hanno espresso. Si tratta di riconoscere in una struttura anche il suo principio, inteso come insieme di impulsi che porta alla formazione di una comunità. (p296) C’è qui il riconoscimento degli elementi costitutivi di ogni forma di governo, elementi che esprimono una forma dell’intero e non una mera somma delle parti. Cassirer insiste molto su questo punto, essendo molto interessato a questa storia della filosofia intesa come storia fatta di posizioni spirituali che hanno delle radici profonde ed esprimono delle connessioni formali in senso spirituale molto significative. Cassirer osserva che Montesquieu è stato un grande filosofo della storia e in quanto tale ha saputo leggere le forma di decadenza degli stati. Egli ha studiato la decadenza degli stati accentuando il valore significativo della forma interiore perchè per lui ogni decadimento di uno stato ha inizio non da singole motivazioni di tipo economico-organizzative o altro ma la corruzione ha inizio dalla distruzione del suo principio interiore. “Cosi si delineano i contorni di una filosofia della politica, ma non si stabilisce ancora la base di una filosofia della storia. I tipi ideali disegnati da Montesquieu sono infatti forme statiche: stabiliscono un principio interpretativo per l’essere del corpo sociale ma non contengono alcun mezzo che possa chiarire e spiegare il modo dell’accadere” Insomma come mutano queste forme di governo non viene spiegato da Montesquieu, ed in fondo resta in lui, secondo Cassirer, una tendenza a classificare e ordinare queste forme statali, senza metterne in luce il senso dell’accadere e del divenire. Il limite di Montesquieu dunque è che nonostante egli sia un acuto teorico delle organizzazioni delle forme politiche, non è stato in grado di assumere fino in fondo il divenire di queste forme politiche. Nonostante ciò Montesquieu fu uno dei primi a indicare il rapporto che ogni forma politica intrattiene con il proprio territorio, e con la sua natura: qui si da molto rilievo al clima, il quale è un fattore inevitabilmente condizionante del consolidamento di una forma politica. Il rischio è quello di evitare che si favorisca una sorta di determinismo che Cassirer teme perchè non è possibile ordinare le forme politiche e comprenderle paragonandole per sicurezza al rigore alle leggi naturali. Il fatto stesso che ogni forma politica sia concentrata su un fattore spirituale e su una forma interiore confligge con il riconoscimento di una relazione con le condizioni climatiche e naturali. Questo legame e connessione pertanto mette in crisi l’intero impianto della filosofia politica in Montesquieu che non è ancora, come abbiamo detto, filosofia della storia. Montesquieu scrive allora a pag 300-1: “Egli è portato verso la filosofia della storia da questo fatto, che dalla conoscenza dei principi universali e delle forze motrici della storia egli spera nella possibilità di formarla in modo sicuro per l’avvenire. L’uomo non sottostà semplicemente alla necessità della natura ma può e deve plasmare liberamente il suo destino, deve formare l’avvenire che gli è destinato e conforme. Ma il solo desiderio è impotente qualora non sia guidato da una sicura intuizione e non ne sia permeato. Questa intuizione può venire soltanto dall’unione e dalla fusione di tutte le energie dello spirito: essa ha bisogno tanto dell’osservazione accurata dei particolari, dello studio del dettaglio storico-empirico, quanto dell’analisi puramente concettuale, la quale ci presenta le diverse possibilità e distingue chiaramente ciascuna di esse dalle altre. Il Montesquieu procede con uguale maestria nella soluzione di tutti e due i compiti. Fra tutti i pensatori del suo circolo è quello che possiede la più pronunciata facoltà di immedesimarsi nella storia e una vera e propria intuizione per le forme svariate dell’esistenza storica. ” Cassirer pone qui il fatto problematico che Montesquieu non ha teorizzato una filosofia della storia nonostante ci provi, cercando di ordinare e prevedere lo sviluppo dell’uomo tramite una sensibilità per i particolari e un’analisi concettuale. Ma egli deve conciliare la conoscenza di principi universali che reggono la storia con le sue forze motrici tra cui quelle naturali. Non sempre questi due metodi però collidono, Montesquieu infatti avverte questo dilemma e cerca di trovare l’equilibrio e la sintesi tra i diversi elementi di esperienza e ragione e, nonostante poi queste due dimensioni non raggiungeranno mai una perfetta sintesi, almeno il tentativo di Montesquieu potrà essere poi utilizzato come modello dalla concezione storica degli enciclopedisti, tra cui Herder, punto di riferimento di Cassirer. Che questo sia un motivo perseguito da altri pensatori del ‘700 francese lo mostrano anche le posizioni di Lessing, il quale scrive nel 1653 una recensione a Voltaire introducendo elementi assai significativi che vanno in direzione della conoscenza storica come conoscenza universale. È in gioco qui il motivo della storia universale, la quale si avvale di elementi particolari e individuali, trascendendo questi ed andando oltre: Lessing apprezza di Voltaire la concezione della storia come mai del contingente e del particolare ma dell’universale. In questo caso anche in Lessing si afferma questa consapevolezza che in Voltaire la storia sia necessariamente storia delle nazioni. Voltaire pertanto viene ripreso da Cassirer, a partire da questa definizione di Lessing, come uno storico che abbandona ogni interpretazione mitica degli avvenimenti. Voltaire non pone più semplicemente la politica al centro della storia come Montesquieu perchè la sua filosofia della storia è incentrata piuttosto sui costumi. Questo Saggio sui costumi sarà il primo esempio di filosofia della storia. Lo Spirito delle leggi di Montesquieu e il Saggio sui costumi di Voltaire furono contemporanei ma videro fini distinti: nel primo gli eventi politici sono il centro del mondo storico, lo stato è l’unico soggetto della storia universale, per il secondo il concetto dello spirito acquista un’ampiezza e vastità, esso comprende l’insieme degli avvenimenti interiori, l’insieme dei mutamenti, attraverso i quali deve passare l’umanità prima che possa giungere a una conoscenza e coscienza di se stessa. L’idea che esercitò la più potente influenza sulle generazioni successive fu quella della fede nel progresso dell’umanità, che implica inevitabilmente quest’idea di movimento: non c’è più una costanza della natura umana ma occorre ricercare le leggi che stanno nei fatti della storia e l’origine di queste. Questa posizione di Voltaire è coerente con il Voltaire teorico della tolleranza, che pure Cassirer aveva ricordato nella problematica della relazione tra religione e storia. C’è una coerenza di fondo perchè questa filosofia della storia vuole esplicitamente emanciparsi da ogni teologia. La teologia aveva gravato su un certo modello ormai superato di filosofia della storia esaltando e privilegiando in assoluto le cause finali della storia. Un filosofo della storia non deve stare ai fatti e guardare solo al transitorio ma scoprire il durevole nel transitorio e l’universale nel particolare ma soprattutto rinunciare alla ingenua teologia. La vera storiografia critica, dice Cassirer, deve rendere alla storia il medesimo servizio che la matematica ha reso alla conoscenza della natura. Deve emancipare la storia dal dominio delle cause finali e riportarla alle cause reali, alle cause empiriche. E l’analisi psicologica determina infine anche il vero significato dell’idea di progresso in quanto lo motiva e lo giustifica ma ne scopre anche i limiti, trattenendo in essi la sua applicazione. Essa insegna che l’umanità non può varcare le barriere della sua essenza, però questa non è data d’un colpo ma deve elaborarsi a poco a poco e sostenersi contro ostacoli e resistenze. Il vero progresso non riguarda dunque la ragione né quindi l’umanità come tale ma si riferisce soltanto al suo estrinsecarsi, alla sua visibilità empirico-oggettiva. E proprio questo diventar visibile della ragione e questa sua chiarificazione avanti a se stessa sono il vero significato del processo storico. La storia non ha bisogno di formulare la questione metafisica dell’origine della ragione né è in grado di risolverla. La ragione infatti sta al di sopra del tempo.” Questo commento di Cassirer è molto importante, in quanto non si tratta di individuare la ragione in se della storia, di andare alle radici e di scoprirne il fondamento ontologico: si tratta qui di una messa in discussione di ogni ontologia applicata alla storia, la storia si impegna a comprendere questo estrinsecarsi dell’essere della ragione. La storia come divenire, che è in qualche modo fatta di principi che si applicano a ciò che appare e ciò che diviene. Con questa concezione fondamentale il Voltaire fissò il programma teorico che da allora in poi fu seguito da tutta la storiografia dell’epoca illuministica. Egli stesso potè realizzare questo programma solo in misura incompleta col suo saggio sui costumi. Ma deve guardarsi dall’imputare i difetti dell’esecuzione, che qui appaiono, al pensiero sistematico centrale. Sarebbe una critica insufficiente e precipitosa quella di voler accennare a questi difetti per dimostrare che l’illuminismo fu antistorico per principio. Infatti le debolezze del Voltaire storiografo che gli sono rinfacciate tante volte, sono assai meno debolezze del suo sistema di quanto non siano caratteristiche della sua personalità e del suo temperamento individuale. Il Voltaire quando si rivolge al passato non lo fa per amore di questo ma per il presente e per l’avvenire. La storia non è per lui un fine ma un mezzo: è uno strumento di educazione e di istruzione dello spirito umano. Qui si darebbe uno squilibrio tra il sistema dei principi di Voltaire e la sua applicazione perchè è noto che la storia non è mai un fine ma un mezzo però egli spesso guarda al passato non con animo sereno, ma cerca in esso quello che gli serve per uno scopo pedagogico intrinseco nella storia. Questi squilibri non devono però infangare il suo impegno di storiografo e far pensare ad un illuminismo antistorico perchè questi non bastano a definire una antistoricità. Voltaire ha fede nella storia e nella sua funzione pedagogica: la storia deve secondo lui istruire. A differenza di Bossuet dunque che introduce un fine teologico della storia, in Voltaire invece l’ideale ed il fine è di tipo filosofico- pedagogico. Il dovere di uno storico sta nel non calunniare e non annoiare: la storia deve essere testimonianza viva. La modernità di Voltaire è di aver procurato una delle possibili esperienze ed essersi servito delle scienze antropologiche moderne. È chiaro che Cassirer privilegi questi autori in quanto sono coloro che incentrano il discorso intorno alle scienze dell’uomo, che a lui interessa approfondire. Egli pertanto sottolinerà il contributo che proprio da Voltaire giunge alla storia della scienza e agli enciclopedisti come d’Alembert. Egli pretende che alla semplice erudizione enciclopedica si sostituisca una scienza filosofica dei principi e si tratti in conformità ai suoi problemi la storia della scienza. “La storia universale delle scienze comprende le nostre conoscenze, le nostre opinioni, le nostre ricchezze e i nostri limiti. Essa umilia l’uomo mostrandogli quanto sia esiguo il suo sapere ma d’altro canto lo innalza e lo incoraggia facendogli vedere l’uso che egli seppe fare di un piccolo numero di concetti chiari e sicuri. La storia della conoscenza ci mostra come l’uomo sostituì alla verità la verosimiglianza. Infine la storia degli errori ci insegna a diffidare di noi stessi e di altrui, ci indica la via che ci ha allontanati dalla verità e facilita la ricerca del giusto sentiero che ci conduce a lei.” Questo brano contenuto nella prefazione al lavoro enciclopedico viene commentato da Cassirer: in questo brano si sottolinea il valore di accrescimento della conoscenza, la quale non parte da una verità già data, ma si confronta con gli errori e si fa via via facendosi. Il senso filosofico dell’errore, cosi come lo abbiamo visto in Bayle, è fondamentale: è la molla che ci fa giungere alla verità. Non c’è alcuna verità apriori già posseduta, ma essa costituisce il compito della storia. Ma il d’Alembert stesso va oltre e attribuisce alla storia non solo un valore teorico ma anche etico e si aspetta che essa compia il vero compimento della conoscenza dell’uomo morale. “Le scienze storiche sono legate alla filosofia in due modi anzitutto coi principi che costituiscono il fondamento della certezza storica, e poi con l’utilità che si può ricavare dalla storia. L’uomo studia il passato soprattutto per comprendere meglio il presente in cui vive. “Per un lettore comune la storia è solo alimento di curiosità, per il filosofo è una raccolta di esperienze etico-spirituali.” Cassirer documenta qui che in questo manifesto simbolo del sapere illuministico, l’enciclopedia, d’Alembert è attento a registrare l’interesse della storia per il filosofo che guarda agli aspetti spirituali cosi come a quelli fisici senza farsi ingannare dalla verità astratta cosi come dalla probabilità. Il tema decisivo qui è quello in virtù del quale la storia non è per il filosofo un mero insieme di curiosità o un alimento per il divertimento, non è la testimonianza di un interesse erudito, ma una raccolta di esperienze etico-spirituali che appartengono al genere umano. Questo attesta il valore morale per d’Alembert. Nasce cosi un interesse nuovo per l’antropologia universale, ritorna qui quell’interesse cassireriano che mira a sottolineare come questa questione filosofica giungerà a compimento poi con Kant. Cassirer però non guarda a questi autori come meri predecessori di Kant, ma lo sguardo cade su Kant perchè è lui che ha portato a maturazione questi interessi di varia natura che confliggono con quell’idea fondamentale che Cassirer abbandona dell’antistoricità dell’illuminismo. Si potrebbe cosi dire che il secolo dell’illuminismo è il secolo della filosofia. Nell’illuminismo si da un’esperienza importante di interesse per la storia anche con Hume, esponente dello scetticismo anche in ambito storico. La storia è secondo lui un processo, non è fatta di qualità fisse, pertanto egli critica il concetto di sostanza e di filosofia della storia. Non c’è un piano generale della storia che il filosofo debba rappresentare, non c’è alcuna meta garantita, perchè la storia dipende dalle particolarità. La storia è espressione dell’individuale e dal particolare. La resistenza che Hume oppone ad ogni generalizzazione precipitata, l’attenzione che egli rivolge alla pura effettività della storia non contengono dolo un monito metodico, ma anche un nuovo metodico orientamento. La dottrina di Hume difende la particolarità e il diritto dell’individuale cercando di farlo riconoscere: per far si che questo riconoscimento avvenisse bisognava che, non solo si constatasse l’individuale come fatto ma che se ne facesse un problema. Il compito era quello di fissare un nuovo concetto dell’individuo. Ad un tale compito l’empirismo di Hume non era pronto, bisognava affidarsi ad un altra guida cioè Leibniz, ed in particolare al tesoro metodico nascosto nella sua dottrina che tramite il principio della monade era riuscita a dare espressione precisa del problema dell’individualità. Anche il leibniziano concetto di sostanza mira a scoprire lo stabile nel mutevole, ma d’altro canto esso si distingue per il fatto che considera il rapporto tra unità e pluralità, tra durata e mutamento come un puro rapporto di reciprocità, partendo dal presupposto che entrambi si possono spiegare solo uno con l’altro. Solo nel mutamento costante si può trovare l’unità della legge, della sostanza. Il problema di Leibniz diventa quello di ritrovare la unità di una legge del divenire dentro la mutabilità stessa della storia. Alla concezione statica della sostanza si sostituisce la sua concezione dinamica: la sostanza è soggetto o sostrato solo in quanto è energia, solo in quanto si rivela attiva e manifesta la sua vera essenza nella successione delle sue attività. Essa consiste proprio in questo far sorgere un contenuto sempre nuovo. La monade dunque non è un’unità chiusa in se ma cerca di produrre la diversità e novità dei fenomeni nell’essere. Tutto ciò che appartiene alla nuova sostanza intesa come energia deve procedere da un impulso interiore di essa. Questo modello ha molta incidenza sul problema della storia perchè la metafisica del Leibniz fonda l’essere della monade sulla sua identità, ma accoglie in questa identità stessa il pensiero della sua continuità. Dall’unione di d’identità e continuità scaturisce la sua totalità e in essa insiste la sua caratteristica interezza. Sorge cosi una nuova idea di sostanza intesa come unità alla base di un essere più complicato in virtù del suo continuo divenire. La monade è dunque un unità di prospettive, mentre il suo contenuto e la potenza varia. Questo pensiero della metafisica leibniziana fu un nuovo e promettente appiglio per l’esplorazione e la conquista del mondo storico. La storia pone di nuovo il problema dell’educazione del genere umano: vediamo come dunque la scena è ancora dominata da Lessing, il quale nell’opera “Enciclopedia del genere umano”aveva sistemato i rapporti tra religione e storia conciliandole e contribuendo con un forte impianto educativo. Lessing però non estende i suoi studi alla storia universale, soltanto Herder farà quest’ultimo passo, ispirandosi a Leibniz. Herder spezza il cerchio magico dello studio solo analitico, del principio di identità: la storia distrugge la parvenza di identità, essa non conosce nulla di identico o alcun ritorno all’uguale ma genera continuamente nuove creature conferendo a tutto ciò che chiama in vita una forma propria, un modo autonomo di esistenza. Ogni condizione umana ha il suo proprio valore e necessità, cosi come ogni fase storica. Ciascuna di esse è parte singola che compone il tutto ed è per questo indispensabile. Solo in questa eterogeneità si costituisce la vera unità che si può pensare come unità di un processo, non come uguaglianza di un’esistenza. Lo storiografo deve quindi sforzarsi di adattare le sue misure all’oggetto: non già di sottomettere questo oggetto ad una misura uniforme e stabilita una volta per sempre. Herder diventa per Cassirer filosofo della storia, il quanto rifiuta ogni generalizzazione astratta e cerca nella storia la dimensione individuale e la specificità e autonomia di ogni mondo storico, rifiutando le analogie e i paragoni (esempio degli Egiziani). Egli non solo descrive e caratterizza ma si trasforma nelle singole epoche e sviluppa per ciascun di esse un sentimento che le sia proprio ed adeguato. Crolla qui ogni processo analitico razionalistico ed emerge invece la necessità di simpatizzare ed immaginare ogni cosa nella sua ricchezza ed in una parola. Herder fu non a caso anche un noto filosofo del linguaggio. Egli respinge l’utopia di una felicità assoluta ed invariabile: c’è una forte polemica nei confronti di questo principio della felicità, l’eudemonismo viene messo in discussione. Herder da questo punto di vista ha superato l’illuminismo, mostrando con questo superamento una preparazione per un’epoca nuova, autosuperando di conseguenza le sue stesse posizioni. Questo progresso era possibile solo seguendo le strade preparate dall’illuminismo stesso: esso in questo senso preparò l’armamentario metodico che servì a superarlo. Cassirer dicendo che l’illuminismo si autosupera, nel negare dei principi ne afferma altri, vuole stabilire una connessione tra quest’epoca e quella che la succederà per mantenere una continuità di tono. Giambattista Vico 1668-1744 (Lezione 17) Dopo il periodo dell’esaltazione umanistica dell’uomo, quale si nota nel prime sei orazioni, ritorna qui il pessimismo proprio nella forma di un dualismo che prende le mosse dalla finitezza umana, limite naturale dell’uomo. Proprio questo allontana dall’interpretazione idealistica di Vico. Il riconoscere una finitezza umana nella natura dell’uomo impedisce, infatti, a Vico l’orientamento verso un idealismo, se per questo si intende una filosofia che concepisce il mondo come creazione dell’io. La posizione di Vico nel De ratione è interamente critica: egli vuole rendere consapevole l’uomo dei limiti del suo conoscere, in maniera quasi kantiana. I limiti che Vico individua nell’uomo sono profondamente legati all’uomo nella storia, non alla sola ragione teoretica, la quale, per Kant, non era in grado di superare i limiti del mondo fenomenico. Andando al di là di Kant, la concezione critica della ragione umana, si lega, in Vico, alla concezione storica dell’uomo, al riconoscimento dell’aspetto esistenziale dell’uomo. È, dunque, un criticismo che va oltre quello kantiano. Questa è la novità dell’opera, messa in luce dall’interpretazione di Enzo Paci. L’idea agisce come legge di infinito perfezionamento dell’uomo, che è imperfetto, ma tende a perfezionarsi. In questa condizione finita, l’uomo tende al perfezionamento, ad un ordine razionale; per farlo è necessaria una ratio studiorum, un ordine che parta dall’ordine degli studi e che porti l’uomo dalla finitezza umana al tendere al perfezionamento. Diversa dalle vecchie ragioni, la ratio è qualcosa che si crea e si perfeziona di continuo. Il dualismo si pone in Vico come dualismo tra la finitezza umana e il perfezionamento a cui tende con il sapere stesso, con lo studio. Tale dualismo, in realtà, si riflette su quel dualismo tra Platone e Tacito, tra l’uomo quale è, consapevole della finitezza umana, ossia quello di Tacito, e l’uomo quale deve essere, quello di Platone. In questo dualismo entra anche Bacone, che è una creazione di Vico. Vico, infatti, rielabora gli autori a cui fa riferimento: il Bacone di Vico è colui che riesce a trovare una sintesi tra pratica e teoria e che gli fornisce il metodo. Vico dedica, per questo motivo, il De ratione al Bacone del De digitate et augmentis scientiarum, tant’è che egli definisce l’opera baconiana come l’aureo libello sui progressi delle scienze. Nell’opera di Bacone, Vico coglie uno dei suoi temi centrali, quello dell’immagine. In essa Bacone scopre la priorità del mito e del genere fantastico. Tema che è ripreso da Vico e che diviene uno dei principi fondamentali della sua filosofia. Il mito e la fantasia rappresentano il concetto di immagine, la quale si pone tra il finito dell’uomo e il suo desiderio di perfezionarsi. Essa diventa tema fondamentale di tutta la speculazione vichiana, ma sarà centrale anche per l’elemento politico. Il Bacone di Vico rappresenta il simbolo di una concezione dinamica tra il dualismo tra Tacito e Platone, termine medio tra la consapevolezza dell’uomo quale è e quale deve essere. In più, Bacone è anche una scelta politica, rappresenta, cioè, un bisogno di scegliere lui al posto di Cartesio, di sottolineare che il metodo scelto da Vico si rifà piuttosto al primo e non al secondo. Quando nell’autobiografia descrive i quattro autori, Vico cita Bacone come colui che gli ha dato la possibilità di trovare un metodo per procedere nel suo progetto in quanto Bacone, secondo Vico, trova una sintesi tra prassi e scienza. Come è sottolineato fin dalle prime battute, «Francesco Bacone nell’aureo libretto Sui progressi delle scienze indica quali nuove arti e scienze occorrano oltre quelle che abbiamo sinora, e sino a qual punto occorre sviluppare quelle che abbiamo affinché la Sapienza umana raggiunga la totale perfezione». Bacone è, quindi, raffigurato come un vero e proprio eroe, ridimensionato, però, nella seconda battuta. Bacone, infatti, crede in una perfezione assoluta, quasi sovra-storica dell’uomo; Vico, invece, nonostante riconosca al Bacone del De digitate et augmentis scientiarum la capacità di esser stato l’eroe che gli ha suggerito la nuova ratio studiorum, riconosce, al contempo, che tutto ciò che l’uomo può conoscere è finito e imperfetto. Vico è consapevole del limite della finitezza umana e, pertanto, subito ridimensiona la figura di Bacone, facendo riemergere, in qualche modo, il suo pessimismo che deriva dalla finitezza e dall’imperfezione dell’uomo bestia, che non ha ancora raggiunto la Sapienza, e che rappresenta il fondamento del suo storicismo. Lo storicismo parte, dunque, dal pessimismo vichiano e, quindi, dalla consapevolezza della finitezza umana. Da qui l’importanza di una ratio studiorum, della ricerca di una via per uscire dall’imperfezione, ma anche dai limiti della ripetizione, l’uomo deve, cioè, migliorare. La nuova via non può, pertanto, stare al di fuori della storia, ma essere immanente ad essa, e deve offrire all’uomo un metodo per raggiungere una realtà razionale e sociale, senza farlo uscire dal suo mondo. Non possiamo, dunque, definire idealistico lo storicismo vichiano, perché altrimenti ne toglieremmo l’aspetto fondante, ovvero l’esser calato dell’uomo bestia nella storia. L’uomo ha, cioè, bisogno di trovare una soluzione senza uscire dal mondo della storia. Dunque, Vico non accetta da Bacone l’idea di una natura perfetta sopra-storica. Al riconoscimento della condizione finita dell’uomo è legato l’inserimento all’interno della querelle tra antichi e moderni, entrando nella quale Vico si pone il problema di trovare un metodo. Vico non offre soluzione, non sceglie quale dei due metodi, quello degli antichi e quello dei moderni, sia il migliore, egli vuole trovare ciò che c’è di positivo e limitante tanto in entrambi. Gli antichi danno priorità alla topica, alla fantasia, l’errore dei moderni è quello di Cartesio, anche se Vico definisce ad un certo punto il proprio metodo moderno rispetto a quello cartesiano, che, a sua volta, è moderno posto a confronto con quello degli antichi. I moderni hanno il grande limite di aver rifiutato la topica, a cui il metodo degli antichi attribuisce, invece, una priorità rispetto alla critica, quindi la priorità della fantasia sulla ragione, della conoscenza dei particolari su quella degli universali, cosa che non fa, invece, il metodo di Cartesio. Il metodo cartesiano esclude e condanna la fantasia, l’immagine, i sensi. La priorità della topica è, però, metodica: secondo Vico deve avvenire prima un’educazione attraverso la topica e, solo allora, può l’uomo essere educato con la logica, la critica. È un’educazione, cioè, che parte del verosimile della storia per arrivare al primo vero. Vico mette in evidenza già nel De ratione quelle categorie che troveranno massima espressione nella Scienza nuova, ad esempio le tre età della storia, gioventù, età matura e vecchiaia, e sottolinea come la fantasia prevalga nei giovani, mentre la ragione sia propria dei vecchi. Il De ratione viene anche definito documento contro il giansenismo di Port-Royal. Infatti, uno degli autori citato da Vico sarà Arnauld, che possiamo definire un estremo cartesiano. Vico contrappone a Cartesio il suo metodo basato sull’immagine e non piuttosto sulla critica. Bisogna anche sottolineare come prima dell’immagine ci siano, però, i corpi. Alla base del pensiero vichiano, non a caso, c’è l’uomo bestia, da cui derivano le immagini e solo infine gli uomini civili. Questa teoria troverà massima espressione già nella Scienza nuova del 1725, quando Vico, nel terzo libro, per evidenziare l’importanza dell’immagine, descrive la nascita del mito, del linguaggio e della religione. Vico definisce gli uomini primitivi come mutoli, i quali erravano in totale solitudine, essendo uomini bestia in un mondo primitivo, ancor privi di linguaggio. Ad un certo punto, sentirono però un tuono e, urlando, borbottando e fremendo, cercarono di comunicare tra di loro e immaginarono che Giove volesse loro comunicare qualcosa. Quando sentirono il fulmine, spaventati, i primi uomini si crearono un’immagine divina. Nacque, così, il linguaggio e contemporaneamente anche il mito. Secondo l’interpretazione di Enzo Paci per Vico la natura è l’esistenza, da principio non c’è il cogito, come vuole Cartesio, ma l’esistenza. Il riconoscimento del sentimento, della passione, della zona oscura dell’esistere, che Cartesio e l’idealismo assoluto negano come realtà, viene, invece, messa in evidenza da Vico. Pertanto, non può esserci interpretazione idealistica. Passione e sentimento sono legati non con atto teoretico, ma con un fare, un creare dal nulla. In questo modo il dualismo non è negato, ma diventa movimento dialettico della storia, metodo del sapere e del fare dell’uomo ratio studiorum. Il De ratione non serve a negare il dualismo, il corpo è limite positivo per Vico, così come la passione, il sentimento, la negatività di una natura umana di stampo lucreziano, che diventa sempre più esistenziale, sempre secondo la lettura di Enzo Paci. Mentre Cartesio nega tutto questo con atto teoretico, così come farà anche l’idealismo assoluto, per Vico, invece, le passioni devono essere rielaborate attraverso un fare. Pietro Piovani dice che la logica di Vico è una logica del concreto, del fare. In questo modo, il dualismo non è negato, ma diventa, movimento dialettico della storia. C’è, però, bisogno di un metodo, perché il sapere è il conoscere, è il fare dell’uomo, quindi metodo della ratio studiorum. La natura ha in sé, per Vico, il concetto di esistenza, è insieme energia, forza e slancio vitale. Essa non si può dimostrare, contrariamente a quanto ritenevano Galileo e Cartesio, si può solo trasformare in scienza e in costruzione pratica con l’esperimento portandola attraverso le immagini e l’attività politica sul piano della razionalità sociale e umana. Per questo motivo la natura è esistenza. Il che dà ragione alla posizione della topica, che è il metodo per affrontare l’esistenza. La natura è creata da Dio, non dall’uomo e non si dimostra, il che va contro la geometria analitica cartesiana, che pretende di dimostrarla. Al massimo, per Vico, la natura si trasforma con gli esperimenti e con la matematica. Dal VII capitolo abbiamo il passaggio all’analisi dei problemi giuridici e sociali. La natura come esistenza fornisce la giustificazione della politica, che è la capacità di integrare l’uomo qual è con quello quale deve essere. L’attività politica parte dal riconoscimento della finitezza e imperfezione umana, ed è l’arte della mediazione, l’arte regia a cui aveva accennato anche Platone nel Politico. Nell’attività politica, come elemento di mediazione, Vico mette in campo la prudenza e l’eloquenza, l’arte del sapere parlare, la quale necessita di immagini. All’interno della parte dedicata alla politica vi è anche la poesia, perché contiene tutte le forme dello spirito, ma come materia della sua espressione e della sua forma poetica. Come Croce, Paci sostiene che la poesia confine in sé tutte le forme dello spirito. Se nel De ratione sembra esserci un’antinomia tra la prima definizione di poesia come attività extra ordinem e quelle che seguono, ciò si può risolvere con la teoria dell’immagine, termine medio tra esistenza e idea, natura e spirito. L’immagine trasforma la natura in forma, ma nella forma contiene implicita la verità. La poesia si basa sulle immagini e sui verisimili. I poeti si allontanano, pertanto, dalle forme comuni del vero per forgiarne di più eccellenti, e lasciando la natura incerta per seguire quella costante. Si attengono, dunque, al falso, inteso nel senso di immagine, per uscirme più veritieri. L’ultima parte dell’opera è dedicata anche al diritto, che è la forma più concreta di mediazione del dualismo tra la natura barbara e quella razionale. Si tratta del diritto anche del giusnaturalismo e, quindi, di Grozio. Gli uomini bestie hanno bisogno di un passaggio ad un diritto positivo per migliorare. Anche il giusnaturalismo di Grozio è superato da Vico in seguito. Abbiamo visto dunque che Vico dedica il libro a Bacone e si rifà al suo aureo libretto, ma, al contempo lo critica, perché egli dimentica il mondo terraqueo e perché i suoi desideri superano di tanto le capacità dell’ingegno umano da far sembrare che venga mostrato piuttosto ciò che necessariamente ci manca, per raggiungere una perfetta sapienza, che ciò cui si possa supplire. Sembra, cioè, che Bacone sia proiettato verso una perfezione assoluta, e in ciò sta la prima critica all’autore del De dignitate. In realtà, secondo Vico, tutto ciò che l’uomo può conoscere, come anche l’uomo stesso, è finito e imperfetto. Il riconoscimento della condizione finita dell’uomo permette a Vico di assegnare un compito alla cultura e alla pratica, che devono guidare l’uomo verso un continuo perfezionamento. La ratio studiorum rappresenta il compito di infinito perfezionamento, il che ricorda la seconda inattuale di Nietzsche, il quale afferma che l’uomo è un incompiuto che non si compie mai. Per cui il dualismo si pone come dualismo tra l’imperfezione umana e la perfezione dell’idea: la condizione finita dell’uomo è la realtà in cui l’idea agisce come legge di infinito perfezionamento. C’è, dunque, un bisogno di giungere alla perfezione. Tale perfezionamento, però, non si compie mai: l’uomo è in continuo creare, fare, in una dimensione dinamica. Le forme graduali di tale perfezionamento si pongono nella ratio studiorum. Il dualismo si pone come dualismo tra la perfezione umana e la perfezione a cui tende con il sapere e con la pratica. Vico prende il buono dell’uno e dell’altro metodo per farne un unico metodo dinamico, egli non mette a confronto i contenuti delle scienze dei moderni e quelle degli antichi, ma si limita ad occuparsi del metodo, quindi di strumenti, sussidi e fine, che rappresentano la via e il metodo, mentre le nuove arti rappresentano la materia. Paragone è fatto con la storia ideale eterna, la Scienza nuova, che corre sopra tutte le nazioni ed è l’eterno sforzo dell’uomo per sollevarsi dalla sua condizione finita per muoversi verso una più consistente realtà razionale e sociale. In questo senso il De ratione cerca di fornire il metodo per il raggiungimento di tale sforzo dell’uomo di sollevarsi al di là della sua condizione bestiale. Quest’opera costituisce il primo mattoncino per trovare il metodo che non ripeta gli errori degli antichi, che sia, cioè, il modo per uscire dall’eterno ritorno e dalla ripetizione, e che prenda dunque solo i vantaggi di entrambi i metodi. Questo metodo degli studi appare, per Vico, contenuto in tre cose: strumenti, sussidi e fine. Gli strumenti comprendono l’ordine, il che ricorda Cartesio: infatti, chi essendo istruito si accinge ad apprendere qualche arte e scienza, lo fa con ordine e secondo regole. I sussidi accompagnano gli strumenti. Quanto al fine, sebbene venga dopo, deve essere, sia all’inizio che in tutto lo svolgimento metodico degli studi, tenuto sempre d’occhio. Il fine si diffonde nel metodo di studi come il corpo per tutto il corpo, esso è la realtà umana che sfugge ad ogni schematizzazione impenetrabile. L’ordine che Cartesio aveva insegnato è necessario, ma il fine è capire che l’esistenza umana è torbida e passionale, ed è qualcosa a cui non possiamo rinunciare. I nuovi strumenti delle scienze sono le scienze stesse e le arti, il cui strumento comune a tutte è la critica. Il metodo moderno, in modo particolare quello cartesiano, sembra apparentemente migliore di quello degli antichi, perché ci fornisce il primo vero di cui si è certi nell’atto di dubitare. Vico inizia ad analizzare il procedimento dei moderni, specie di Cartesio, notando come la critica fornisca il primo vero, il cogito cartesiano. L’analisi risolve problemi geometrici insoluti presso gli antichi. Vico mantiene l’esigenza platonica di dare alla geometria il suo fine teoretico mediante il riferimento alla mirabile macchina del mondo, costruita da Dio. Introduce, poi, alcuni passaggi logici, che tendono a superare la geometria intesa come scienza unica e necessaria. Vico analizza il metodo dei moderni, quello cartesiano, che, però, vuole scoprire la mirabile macchina del mondo come fu costruita da Dio: dunque non già come fisici esitanti ma come architetti di un edificio immenso. Nell’analizzare le novità del metodo dei moderni, Vico mette in evidenza i progressi fatti, ma anche gli svantaggi di questo metodo come l’educare partendo dalla mente, cioè dall’universale per giungere al particolare utilizzando quindi un metodo deduttivo mentre Vico promuove un metodo fondamentalmente induttivo, che parta dal particolare. Egli non rifiuta né il metodo degli antichi né quello dei moderni, ma mette in evidenza gli aspetti positivi e negativi dell’uno e dell’altro per poter, poi, definire il proprio metodo. Vico rifiuta la critica, la nuova logica, che si presuppone condizione dello stesso meccanicismo. Anche il meccanicismo cartesiano, infatti, prevede una logica sillogistica alla base dei procedimenti. La critica, per evitare che si possa cadere in errore, cioè per liberare la verità genuina, il primo vero cartesiano, da ogni minimo sospetto di errore, si libera dei verosimili. Ciò, per Vico, è sbagliato, perché la prima cosa che va formata negli adolescenti è il senso comune, affinché, giunti con la maturità al tempo dell’azione pratica, essi non prorompano in azioni strane ed inconsuete. Il senso comune si genera del verosimile, come la scienza si genera dal vero e l’errore dal falso. Con il passare degli scritti di Vico, il senso comune diverrà la comune natura delle nazioni della Scienza nuova. Il verosimile è intermedio tra vero e falso, giacché, essendo per lo più vero, assai di rado è falso. Bisogna, dunque, fare attenzione affinché il senso comune non venga soffocato dalla critica dei moderni. Esso è regola dell’eloquenza, propria degli oratori. I critici moderni, secondo Vico, pongono il primo vero come anteriore, estraneo e superiore ad ogni immagine corporea, ma, a suo dire, lo insegnano ai giovani quando essi sono ancora acerbi. È, infatti, solo nella vecchiaia che prevale la ragione. Non bisogna, invece, accecare la fantasia, che è l’indizio dell’indole futura, in seguito alla quale c’è la memoria, che è pressappoco la stessa cosa e che, per Vico, deve essere rigorosamente coltivata. Vico passa, poi, a mettere in discussione le pretese di una competenza assoluta del mos geometricus, rifiutando tanto il tentativo di fondare la fisica sui dimostrabili procedimenti della geometria, quanto la pretesa che il metodo dell’analisi sia la fonte necessaria e sufficiente delle invenzioni meccaniche. Nel capitolo V, Vico affermerà che possiamo dimostrare la geometria perché la facciamo, ma non vale lo stesso per la fisica. In tal modo, egli critica il metodo dello studio della fisica galileiana e cartesiana; a suo dire, infatti, se potessimo dimostrare la fisica, saremmo noi a farla. Gli antichi evitavano questi errori, perché la loro era geometria sintetica, dove ad ogni idea corrispondeva una figura. La geometria sintetica era, quindi, l’attitudine a formare immagini, a differenza della geometria analitica che atrofizza gli ingegni.La geometria sintetica è la logica dei fanciulli, in quanto parte dall’idea, dall’attitudine di formare immagini. Le geometria sintetica è, quindi, in chiave eidetica, perché, per Vico, ciò a cui mancano le astrazioni dell’analisi algebrica consiste nella capacità di visualizzare. La geometria sintetica è eidetica perché consiste con il vedere con gli occhi della mente. C’è, dunque, una matrice platonica nella topica vichiana, perché proprio la concezione platonica consiste nel dividere un’idea unitaria nelle sue specie e articolazioni, attraverso la διαίρεσις (tecnica divisoria che ricorre in alcuni dialoghi platonici) e la συναγωγή, che consiste nel ricondurre una molteplicità all’unità. C’è una sorta di platonismo dunque nella concezione vichiana, perché la geometria sintetica supera quella analitica attraverso la chiave eidetica, capacità dell’individuo di vedere con gli occhi della mente, di formare immagini. Lezione 19 Oggi analizziamo la questione della temporalità, questione che ci rimanda alla scienza nuova della storia. Senza creare nessuna connessione automatica, questa questione del metodo degli studi implica una sconfessione del metodo cartesiano, di quella soggettività senza tempo nel senso che non ha bisogno di riconoscersi nel tempo ma anzi si deve astrarre per dare una fondazione alla temporalità. Si ha una ricerca del tempo che appartiene al soggetto che è al centro della metafisica cartesiana. Quando Vico sblocca questa connessione che in Cartesio assume una certa direzione deve ragionare in modo diverso la temporalità perchè un metodo per gli studi ha bisogno di essere elaborato ed analizzato in modo diverso. È un nucleo fondamentale anche in relazione al rapporto tra topica e critica. Vediamo un’interpretazione che mette a confronto il superamento del metodo cartesiano rispetto a quello di Vico: abbiamo uno spostamento dell’indagine conoscitivo-critica dal terreno della naturalità fisica a quello dell’operare, del facere e del factum. Si sposta cosi l’indagine al mondo inteso come facere umano, la produzione umana, e il factum, il già fatto. Queste sono le costanti che si manifestano nello svolgersi del tempo: l’uomo “fa” nel tempo. Nel De ratione la distinzione tra facere e factum, vista anche nel De antiquissima, analizza il factum il quale, essendo legato al facere, inteso come atto di produzione, non è considerato come un oggetto perchè è strettamente legato al concetto del tempo. Dunque non si crea più un’astrazione del fatto ma qui abbiamo piuttosto un factum strettamente legato al soggetto e all’attività produttiva del facere umano il quale irrompe nel tempo. Avviene tutto nella storia, con Vico si ha dunque la storicizzazione del Il meridione era invaso da quelle che erano le considerazioni della medicina mentis di questi anni. Grazie alla meccanica la medicina farà grandi progressi, ma come ben sappiamo non si può pensare di applicare in maniera sterile la medicina al paziente come strumento. Inoltre ricordiamo che c’erano state grandi scoperte in quel periodo come quella sulla circolazione del sangue, come abbiamo visto in Cartesio con Harvey. “Partendo dai sintomi, non giudicare tanto la natura del male quanto la gravità ed il suo corso, per giungere ad una sicura guarigione. Qui c’è una correlazione precisa tra i mali del corpo e quelli dell’animo.” Non è un caso che, per far capire meglio la dimensione del problema, Vico si rivolga alla medicina, una scienza “poco matematica” il cui criterio di giudizio si basa sui sintomi non sulla deduzione, in quanto le malattie sono sempre nuove e differenti come lo sono i malati. Data la complessità dei morbi, infatti i signa, cioè i sintomi, vanno indagati facendo riferimento non ad un unico “vero” di impronta analitica e deduttiva ma ad un vero problematico o verosimile che rispetto al vero è più sfumato ed affonda le sue radici in un criterio sintetico di matrice induttiva. La metodologia conoscitiva della “topica”, ossia l’ars inveniendi, sostituisce la deduzione, tanto cara ai cartesiani, con un modello conoscitivo basato sulla scoperta e sulla composizione in cui la verità o la scienza non è l’esito di elaborazioni di verità già conosciute ma è il frutto di una scoperta attiva del reale. La formulazione di un criterio genetico di conoscenza porta a definire che la scienza corrisponde al possesso del genere cioè al possesso della causa della realtà (scire per causas) laddove invece il metodo deduttivo o il tradizionale uso dei sillogismi non portano a grandi scoperte, dal momento che finiscono per avvolgersi, tautologicamente, negli stessi criteri di verità già conosciuti. La difesa del metodo sperimentale si estende per Vico al piano pratico. Secondo Croce il ruolo della aristotelica “filosofia pratica” sembra essere svolto, in Vico, dalla “prudenza civile” la quale non è scienza, ma una forma di “saggezza” (sapientia usata da Vico nel senso di saggezza pratica è equivalente della phronesis). Quest’ultima è una via di mezzo tra la scienza che conosce solo le verità alte cioè universali, e l’astuzia che conosce solo le verità basse: la prudenza infatti guarda alle verità più alte a partire dalle più basse servendosi del senso comune e del verosimile. Vedremo poi che il problema della prudenza si accosta a quello dell’equità: bisogna riuscire adattare ala legge al caso particolare. La prudenza diventa al capacita di adattare l’universale al particolare. Nel Capitolo 7 abbiamo la seconda sezione che si svolge su ambiti di vita civile ed eloquenza. “E poiché oggi l’unico fine degli studi è la verità, noi studiamo la natura in quanto ci sembra certa e non osserviamo la natura umana perchè incertissima a causa dell’arbitrio.” Secondo Donzelli, poiché la natura umana per Vico non ha solo un senso spiritualistico e mentalistico ma è insieme di processi istintivi, dinamici e vitali. La verisomiglianza e la probabilità non sono legate solo alla dimensione naturalistica della scienza ma sono estese alle scienze dell’uomo il cui procedimento si svolge attraverso la via della prudentia, piuttosto che attraverso verità eterne. Il concetto di sapientia diviene sinonimo di prudenza civile. Lezione 21 Approfondiamo oggi il discorso sull’equitas e la vita civile. Il rapporto tra giustizia ed equità costituisce uno dei temi più affascinanti che fa di Vico un autore politico. Quella dell’equità è una capacità che nasce nel momento in cui vi sono delle dispute, cioè qualora ci sia necessità da parte del giudice di adattare la legge al fatto in quanto la legge è universale mentre il fatto è particolare. L’equitas prevedeva dunque inizialmente un trattamento pari basato su un sistema di pene fisse, era dunque particolarmente rigida, non c’era una vera e propria capacità di adattamento. Questo concetto verrà poi mano mano a modificarsi e sostituirsi con un concetto diverso. Nell’epoca romana veniva distinta la lettera (dato normativo) della legge che corrisponde al diritto in senso stretto: di cui i giureconsulti avevano l’obbligo di far rispettare dal punto di vista prettamente pratico, dallo spirito (ratio della legge) della legge dall’equità che invece era affidata agli avvocati di prim’ordine i quali dovevano conoscere anche la filosofia oltre che la giurisprudenza. Nell’epoca romana dunque predominava a tal punto l’inviolabilità del diritto scritto da rendere impossibile senza un’eloquenza eccelsa ottenere l’approvazione di un criterio equitativo in un procedimento giudiziario. Vico qui si avvale della tradizione aristotelica: equità concepita come quel qualcosa che consente all’interprete di colmare le lacune dell’ordinamento o di adeguare la norma al caso giuridico secondo lo spirito della legge ma soprattuto di adattare il diritto al fatto (senso comune). La legge necessitava di un intermediario, che sarà poi il senso comune, tra legge e caso specifico: a seconda del caso si adatta la norma. I romani la giurisprudenza la definiscono come “conoscenza delle cose divine ed umane” cioè come i greci definivano la sapienza. Visto che i patrizi non appartenevano ai tre ordini presenti, essi decisero di diventare loro i giureconsulti, e dunque detentori della scienza giuridica, mettendo una legge che fungeva da espediente secondo cui bisognava conoscer tutti e tre i diritti (sacro, pubblico e privato). Dunque il giureconsulto romano era in realtà prettamente patrizio. Da Tiberio in poi dunque solo i patrizi potevano praticare la giurisprudenza facendo conferire carattere sacro alle leggi. Per gestire meglio il loro potere essendo gli unici a conoscere i diritti e che potevano praticare la legge nascondevano sotto un alone di mistero scrivendo in modo abbreviato cosicché le leggi fossero conosciute da pochissimi. Questa cosa in realtà conveniva anche visto che i patrizi avevano grandi capacità belliche dunque meglio che si dedicavano alla giurisprudenza piuttosto che combattere. Intanto la legge è talmente elevata a culto religioso che i cittadini ignari la rispettavano senza interrogassi minimamente delle ragioni dietro gli ordini. Nel periodo repubblicano dunque il diritto romano fu quanto mai rigido: per questo l’equitas qui non può esistere in quanto non v’è alcuno spirito della legge ma la solo la lettera. Quando bisognava cambiare qualcosa per l’interesse dello stato i patrizi ricorrevano poi a degli espedienti escogitati per non far cambiare nulla : in questo senso essi adattavano i fatti alle leggi e non il contrario (fictiones iuris). Nel periodo del tardo impero la giurisprudenza si trasformerà da scienza del giusto in arte dell’equità. Mentre la giustizia rimane a livello teorico e astratto, quella dell’equità è una vera e propria arte che, in questo periodo, diviene “padrona dei tribunali”. Inevitabilmente ci sarà cosi la decadenza del tardo impero in virtù della progressiva scomparsa della legge data all’eccessivo adattamento al caso. Oggi invece, dice Vico, non occorre questa potenza eccessiva dell’eloquenza per ottenere l’equità delle questioni giuridiche. Basta nelle cause aver desunto dal fatto medesimo gli argomenti equitativi “affinché le leggi non con la loro lettera ma con il loro spirito vengano ad adattarsi ai fatti”. Negli anni del De ratione Vico si riferisce dunque ad un concetto di equità ancora molto generico assimilabile alle nozioni di buon senso, giustizia, ragionevolezza già presenti in cicerone. Dunque se nell’opera in questione non è ancora delineata la differenza tra equità naturale ed equità civile: “in conformità alla natura delle monarchie far convergere ogni cosa verso l’equità civile, che gli italiani chiamano “giusta ragion di Stato” e ch’è nota esclusivamente agli esperti della vita politica: quell’equità civile ch’è, sì, la stessa equità naturale, resa per altro più ampia, come quella che si ispira non all’utilità privata, ma al bene comune; quell’equità civile che, per non esser cosa evidente e particolare è ignota dal volgo, il quale non vede se non ciò che ha innanzi ai piedi e non intende se non cose particolari.” Bisogna capire come anche nello stesso autore ci sia un vero cambiamento di significato progressivo, riprendendo il concetto di mutazione semantica di Cassirer. Vico pone dunque l’equità civile in connessione con il rigore delle leggi, rigore necessario per la salvaguardia dell’interesse pubblico, reso con la formula moderna della Ragione di stato (politica intesa come scienza fornita di regole proprie e ubbidiente a una propria logica interna). Anche nel De uno egli sostiene che è la pubblica utilità ad implicare la severità delle leggi, che incarnano l’equità civile. La concezione di Ragion di stato va intesa come la pubblica utilità dello stato. Con l’editto perpetuo , che ha in se il concetto di equità, cade la lex regia delle dodici tavole, che contenevano infinite disposizioni 1 contenenti il diritto dell’epoca. L’equità non è più quel tramite tra legge e fatto, perdendo cosi il giusto rapporto con la giustizia. Essa è divenuta “ultrapossente” a giudizio di Vico nei tribunali. L’equitas che da sé era un qualcosa di positivo diventa cosi negativa laddove diviene estremamente rigida come accade nel giureconsulto della repubblica quanto in quello mutevole dell’impero. Storicamente sabbiamo che dopo la successione polacca, Carlo di Borbone nel 1734, al comando delle armate spagnole, conquistò il regno di Napoli sottraendolo insieme a quello di Sicilia alla dominazione austriaca. Nel 1735 fu incoronato re delle due Sicilie a Palermo e nel 1738 fu riconosciuto sovrano dei due regni dai trattati di pace, in cambio della rinuncia agli stati farnesiani e medicei in favore degli Asburgo e dei Lorena. Egli, capostipite della dinastia dei Borbone di Napoli, inaugurò un nuovo periodo di nascita politica ed economica e di sviluppo culturale. Questo è lo scenario storico del periodo in cui viene redatta la Scienza nuova del 1744 in cui, cambiando la congiuntura storica, si introduce una distinzione tra equità civile (pensiero ulpianeo: ragion di stato) e naturale. Vico intendeva il concetto di Ragion di stato nell’accezione baconiana cioè collegato a “ragioni di convivenza e di accomodamento, principi della religione, della giustizia della lealtà e della virtù sociale”. Pertanto Vico nella Scienza nuova ci pone di fronte ad un ulteriore accezione di stampo giuspubblicistico di equità civile intesa come tutto ciò che necessita per la conservazione della società civile. Il problema non è più la moltitudo dell’equità naturale ma è connaturale alle “nazioni ingentilite” cioè alle prime nazioni. C’è dunque il passaggio dal senso comune alla comune nazione: non c’è più ciò che abbiamo visto nel De ratione cioè l’equità come senso comune inteso come un adattarsi della legge al fatto naturale. Per cui inizialmente Vico avverte il fatto che le popolazioni erano incapaci dell’equità naturale, alla quale approdavano piuttosto i filosofi, poiché esse si dedicavano piuttosto al “certo” e dunque all’equità civile. Nella descrizione dell’equità naturale dunque Vico trasporta il lettore in un contesto ancora una volta diverso da quelli precedenti: qui a proposito dell’equità naturale entrano in gioco la sapienza dei filosofi e l’ingentilimento delle nazioni, domina dunque il richiamo alle leggi universali ed eterne della natura, all’essenza stessa delle cose. Mentre l’equità civile è prodotta per tempo dalle leggi ed in essa incorporata, l’equità naturale rappresenta una conquista lenta e difficile che richiederà più di duemila anni. Questa è un’orazione che da un lato riprende i temi passati ma ha una sua particolarità in quanto si dirige la quesitone della pratica della vita dell’uomo verso il bene civile che si identifica sempre di più col bene dello stato. Questo riferimento alla res publica antica deve essere legato alla vita dello stato contemporaneo a Vico: per questo l’orazione viene pubblicata a parte nel 1709. Essa nasce, come abbiamo visto, da una prolusione dinanzi ad autorità civili ed accademiche del tempo cioè del periodo in cui il regno di Napoli subisce una crisi dinastica data dal passato dagli spagnoli agli austriaci. Si tratta qui per Vico di riaffermare le ragioni dello stato cioè quelle della articolazione della vita civile che si esprime nella vita dei tribunali e nel rapporto tra giureconsulti ed avvocati. Cosi Vico registra la crisi dell’attuale congiuntura giuridica all’interno di un’orazione che sta valutando i vantaggi e svantaggi del metodo antico e soprattutto l’importanza dello studio storico del diritto. Il problema dell’equitas è il problema del giusto mezzo aristotelico, egli insiste moltissimo su questa via mediana: ed è su questa riflessione che si colgono le ragioni della crisi dell’avvocatura. È importante dunque riflettere sul valore che incomincia ad assumere anche la storia, poiché qui la questione metodologica ha un riflesso importante sulla storicità: bisogna mettere in rapporto diritto e storia. l’atto con il quale il pretore, che durava in carica solitamente un anno, stabiliva le regole cui egli si sarebbe attenuto 1 nell’amministrazione della giustizia. L’editto era reso pubblico per farlo conoscere al popolo. Nella Scienza nuova il problema sarà riferire la questione del diritto alla natura comune delle nazioni ed al diritto naturale delle genti. Ma già qui questo processo di storicizzazione del conoscere giuridico è pienamente avviato per questo il De ratione è un punto di svolta: entra qui in pieno campo il problema della storicità del diritto il quale era assolutamente bandito dalla filosofia moderna, cartesiana, nella quale si dava l’autofondazione del soggetto e della conoscenza evidente concependo la storia come storia del contingente e del variabile. Con il diritto si conferma la distinzione tra topica e critica, il diritto deve capire proprio qual è il tempo dell’una e dell’altra. Possiamo discorrere del metodo con Vico ma, non come in Cartesio o Galileo, in rapporto solo alle scienze naturali, ma sempre tenendo in considerazione l’importanza di questa nuova scienza degli uomini i quali sono gettati nella res publica e dunque nell’ambiente civile. Egli non vuole negare la ragione ma vuole far capire che non c’è solo la critica ma anche la topica, nella misura in cui siamo uomini che al di la delle riflessioni, siamo all’interno del verosimile, prima di essere razionali siamo esseri che cercano il vero in tutte le sue forme e probabilità. Lezione 22 Lo stato di natura di Vico è particolare perchè gli uomini primitivi che lui descrive nello stato bruto dell’evoluzione sono i cosiddetti mutoli, i bestioni, che erravano in solitudine. E chiaramente l’equità naturale tanto auspicata qui non esiste, ma è qualcosa a cui ci si arriva in maniera lenta e faticosa: non si nasce col concetto di giustizia di natura, intesa come giusto universale. D’altro canto l’equità civile rappresenta il mero rispetto delle leggi, essa è quel rapporto tra se e quel senso che ognuno ha in se di giustizia universale. Che cos’è la giustizia? “Una cura costante dell’utilità pubblica” (equitas civile) Che cosa la giurisprudenza? “La conoscenza dell’ottima monarchia” Che cosa il diritto? “L’arte di tutelare l’utilità pubblica” Che cosa il giusto giuridico? “L’utile”. Quello naturale? “L’utile individuale” La differenza tra equità e giustizia (cfr. Rolls: neoliberalista) sta nel fatto che la giustizia è prettamente astratta mentre l’equità deve appunto creare un tramite tra astratto e concreto, universale e particolare, ed è quella virtù che coniuga la legge al fatto, che può avere solo colui che ha delle vere e proprio conoscenze di filosofia. Il De antiquissima italorum sapientia, dedicato a Mattia Doria, verte sull’antica sapienza degli italici e attraverso uno pseudo studio delle etimologie delle parole esprime ciò che è il suo pensiero. Quest’opera è come fosse divisa in due parti perchè a partire dal capitolo sull’anima è come se iniziasse una seconda parte dedicata all’antropologia vichiana. C’è in quest’opera l’ultimo scontro radicale netto contro Cartesio, e si evince inoltre una presenza di Leibniz e Malebranche. Agli inizi del primo decennio del Settecento va, innanzitutto, sottolineata l’autonomia di un discorso di metafisica che Vico nel 1712 presentava al “Giornale dei letterati” di Venezia. Vico confessava che il suo libro era nato dalle conversazioni con Doria ed in presenza anche di Agostino Ariani, Giacinto de Cristoforo e Nicolò Galizia, esponenti ben noti di quello scientismo cartesiano dominante la cultura napoletana di metà seicento, capace di contaminarsi di motivi di fisica lucreziano-gassendista e di metafisica platonico-agostiniana. L’opera prende avvio con la nota tesi della convertibilità di verum e factum. Vico insiste molto sin dalle prima battute sui limiti della umana conoscenza non creativa, sottolineando che i latini possedevano un verbo “minuere” per indicare due operazioni tipiche dell’umano: il dividere ed il ridurre. Questo è il tono dominante di una riflessione che, se ha scelto di coniugare i temi di metafisica con i problemi della conoscenza e della vita pratica, si propone di ritrovare le ragioni del verum nell’antica sapienza del linguaggio. L’uomo è linguaggio perchè lo fa. Dal latino viene documentata l’origine greco-etrusco-italica dell’alfabeto e liberata dagli schemi dell’aristotelismo scolastico, la lingua di Cicerone e di Tacito può essere letta ad exemplum. La convertibilità di vero e fatto diventa l’assioma chiave del discorso vichiano di metafisica e della filosofia, preoccupata di conciliarsi con la nostra religione cristiana. Verso la fine dell’opera ritorna il tema dell’esemplarità di Dio con riferimento al “verbo della mente” e alla perfezione del “sommo fattore” che apre il capitolo VIII, quasi a sottolineare la persistenza di un motivo fondamentale della filosofia vichiana del 1710. Esso consente di evitare i rischi del panteismo. Il capitolo d’esordio è di impostazione del discorso nuovo di metafisica tra il tacere del linguaggio e il verbum-verum della metafisica cristiana precede la digressione sull’ “origine e verità delle scienze” nonché la polemica contro “il primo vero meditato da Renato Descartes”. Pur sostenuta dall’innovativa introduzione del verosimile, la dissertatio del 1709 non era riuscita a indicare un’alternativa alle ragioni del verum cartesiano lasciando uno iato incolmabile tra le prerogative della mens e le nuove pratiche del facere. La vera novità del De antiquissima sta nella proposta alternativa all’insufficiente criterio dell’evidenza e delle sue regole: la “chiara e distinta percezione non mi assicura della cognizione scientifica perchè usato nelle fisiche e nelle agibili cose non da una verità dell’istessa forza che mi da nelle matematiche. Il criterio del far ciò che si consone me ne da la differenza: perchè nelle matematiche conosco il vero col farlo, nelle fisiche e nelle altre va la cosa altrimenti.” Lo studio delle matematiche diventa il vero e proprio spartiacque tra Vico e i cartesiani contemporanei. Il punto da disegnare e l’uno da poter moltiplicare all’infinito sono finzioni prodotte dall’arbitrio umano che cosi imita la creazione divina per causas. Lo studio della matematica e della geometria diventerà il vero e proprio tramite tra mondo della natura e mondo della mens. Le matematiche applicano il principio verum factum perchè in esse dimostriamo con certezza la verità che facciamo, partendo dalle loro cause create dalla mens umana. Il factum poi dovrà diventare certum, cosa che accadrà successivamente. Lezione 23 P 39 La differenza tra uomo e Dio però non si traduce in una negazione per l’uomo di dare origine a delle scienze. Se l’uomo di fronte alla natura deve prendere atto che in nessun modo può conoscerla scientificamente dall’altro egli trasforma il difetto della sua mente in vantaggio. Sposta l’oggetto da ciò che è fuori di se a ciò che è dentro di se. Vico scopre un universo di enti materiali che l’uomo può realmente conoscere perchè li crea, enti che non esistono materialmente ma che esistono come costrutti mentali. Cosi crea dal nulla il punto, la linea e la superficie. Vico cosi usa la fiction, la finzione, per creare questo collegamento tra Dio e l’uomo. Il rapporto tra uomo e Dio è un rapporto di diversità in cui la matematica ha un ruolo fondamentale. Vico si allontana sia da Galileo che dai neoplatonici dando una carattere di funzione alla matematica segnando cosi uno scarto. Il carattere di finzione della matematica (l’uomo e il punto sono cose fittizie per quanto ancorate al reale fisico che costituisce il sostrato del processo astrattivo) allontana Vico dal platonismo che è portato a proiettare sul piano cosmico ogni matematismo. Quanto a Galileo questo segna il massimo distacco da Vico. Se il metodo conoscitivo di Galilei sembrerebbe analogicamente rinviare al verum-factum, in realtà questo è irriducibile alla scienza galileana per il carattere fittizio delle matematiche e per la scissione di matematica e fisica. Il principio del verum factum è la condizione di possibilità della conoscenza ma diversamente da Kant che separa trascendentale e metafisica, in Vico, la trascendentali operativa del pensare si staglia sullo sfondo di una fondamentale analogia metafisica. (Interpretazione di Stefan otto) Il terzo capitolo è quello in cui si conclude in un certo senso la polemica nei confronti di Cartesio. Vico riferendosi ai dogmatici si riferisce a Cartesio del quale mostra l’incapacità di fronteggiare lo scetticismo. Egli vuole arrivare dove Cartesio ha fallito cioè a vincere lo scetticismo. Secondo i dogmatici tutte le verità delle scienza ed anche della matematica sono considerate dubbie al cospetto della metafisica. La disputa contro lo scetticismo fallisce perchè non trova una valida soluzione nel primo vero cartesiano cioè nel cogito. Il limite del superamento provato da Cartesio allo scetticismo tramite il concetto del cogito non è sufficiente. P 56-7 Si noti che Vico non critica l’orizzonte cartesiano del cogito ma la sua componente psicologica che non è in grado di salvaguardare, e da cui non si può far scaturire la capacita metafisica della mente. Il cogito diventa la prova della sostanza: infatti “penso dunque sono” in quanto coscienza e non scienza diventa penso dunque esisto e cioè ci sono. Il ci implica l’idea che non sono da me ma sono sostenuto da una sostanza che è da sé e quindi eterna e infinita: Dio in quanto non esiste ma è. Sarà il verum-factum a costituire l’autentico superamento della scepsi. Il cogito è prova di esistenza non di scienza, la sua certezza di pensare è coscienza non scienza, dunque non è necessario da sé ma necessita di Dio. p59 Nella parte contro gli scettici Vico sottolinea che gli scettici ignorano di conoscere le cause pur riconoscendo gli effetti: la comprensione di tali cause o generi con cui le cose sono fatte è il primo vero che tutte le cose comprende e contiene poiché Dio ordinando e componendo gli elementi di una cosa imprime all’ente una forma particolare. Poiché il vero è identico al fatto, la dimostrazione degli enti finiti cioè la loro produzione non può che avvenire per opera di una virtù infinita che componendo gli elementi produce l’effetto, sia che si tratti di un ente semplice sia dell’intero universo (esempio della formica). Come sottolinea la critica di Milbank non bisogna nascondere che questa virata verso la metafisica costituisce un punto problematico nell’applicazione del verum factum. Infatti la domanda è: come attribuire validità alla conoscenza metafisica se il criterio gnoseologico rende impossibile già una conoscenza esatta del mondo fisico? Vico con fatica cerca di dare unità ad un pensiero piuttosto problematico nel quale convergono motivi di diversa provenienza. Più radicalmente il verum-factum implica due aspetti niente affatto in armonia l’uno con l’altro. Infatti da un lato il verum-factum ci dice che la verità si dimostra a partire dal “convertibile col fatto” e in questo modo il principio stabilisce un working criterion. Dall’altro esso deriva da un postulato metafisico secondo il quale ogni realtà è fatta o creata e perciò convertibile con il vero che può essere predicato, come il trascendentale in ogni cosa. Ora come condizione trascendentale il verum- factum restringe la conoscenza umana all’area delle tecniche (matematico-geometria): viceversa esso è anche presentato come una proposizione metafisica. Pertanto viene da chiedersi come un principio che stabilisce l’incertezza di ogni conoscenza umana possa fungere da criterio per le scienze umane. Il criterio di verità diventa l’unico criterio possibile per dimostrare anche l’esistenza di Dio. Nel capitolo 2 si parla dei generi, cioè delle forme metafisiche che si oppongo a quelle fisiche imperfette cosi come la forma del vasaio che modella gli altri su di se permanendo uguale è differente da quella del seme che si modella e si perfeziona. È nella teoria dei generi che il conoscere produttivo di Dio e il conoscere umano si incontrano. La forma metafisica dunque è causa esemplare ed efficiente e coincide perciò con le idee perfettissime dalle quali Dio crea. Ora poiché la forma vichiana va intesa come principio formatore e vasaio e non come immagine già formata essa assomiglia di più all’idea platonica che rimane sempre al di qua delle determinazioni espresse in una forma determinata e visibile. Tale prospettiva intende la generazione del sensibile a partire dall’intelligibile come un evento intenzione di Dio e le idee come intenzioni di Dio. In questo modo l’idea platonica viene ripensata come le varianti cristiane. Le forme non sono gli universali aristotelici perchè non hanno origine logica ma ontologica. Vico passa poi ad analizzare, dopo l’utilità delle forme, i danni degli universali, i quali in quanto generalizzazioni di valore esclusivamente logico non possono esprimere la natura delle cose. Il primo danno è che i generi confondono le forme e rendono le idee confuse come i pregiudizi: quando ci basiamo su universali dunque non facciamo altro che confondere le idee. Ritornano qui i concetti di vero, equo e giusto: nel De ratione si analizzano i rapporto+i tra queste dimensioni. La dottrina genere (forma idea) è estremamente importante per la conferma della dimensione metafisica del verum factum. Infatti se il conoscere è “rerum elementa componere” e quindi facere, le scienza è conoscenza del genere mediante il quale la realtà viene creata cioè conoscenza delle forme metafisiche presenti in Dio come perfezioni intellegibili, le quali darebbero fondamento alla conoscenza umana. Le forme da un lato sono immanenti alla realtà empirica e dall’altro hanno un carattere metafisico. Allora la forma è il piano intermedio tra primum verum e vero umano e come tale fonda l’analogia tra il conoscere umano e quello divino. L’immagine e la fictio sono fondamentali per la conoscenza e per le idee. Nel capitolo tre, le cause, vi è una critica al concetto cartesiano e razionalista di causa-effetto: l’assimilazione del termine causa al procedere, equivalente del fare, permette a Vico di leggere causa effetto come verum factum. Solo se conosciamo le cause possiamo ritenere vere le cose. La perfezione scientifica per Vico è in funzione della perfezione metodologica della scienza, nella possibilità cioè per ogni scienza di crearsi le leggi con le quali opera (nella possibilità di conversione del vero col fatto). La scoperta più straordinaria di Vico da tal punto di vista è la critica del concetto di causa in un senso ancora più profondo della critica di Hume. Ciò che qui Vico intuisce è che la critica ai concetti metafisici di causa-effetto che riduce ad operazioni metodologiche. L’uomo rappresenta la concreta realtà storica del trascendentale, luogo medio di incontro dove vero e fatto si convertono. Come per Kant il Dio di Vico è la legge funzionale del conoscere e, come Kant, nega che si possa dimostrare. Vico paradossalmente anticipa Cassirer trasformando la causa in funzione: la dimostrazione per cause si riduce quindi alla composizione di elementi di verità contenute apriori nell’agente e tale composizione è un’operazione. Quindi il vero ed il fatto si riconvertono costituendo un tutt’uno. proprio in questo principio affonda le sue radici la conoscenza antica che agisce tramite un “probare a caussis”, cioè ordinare la materia attraverso un’astrazione mentale organizzativa, consistente quasi nel raccogliere le cause della natura poiche queste non sono intrinseche della natura umana ma conoscibili solo da ci chi ha creati cioè Dio. Il tema delle cause impegna anche il rapporto di Vico con la tradizione filosofica e determinerà una distanza molto concreta non soltanto rispetto al cartesianesimo del suo tempo ma anche nei confronti di una certa tradizione classica, riprendendo la polemica contro l’aristotelismo. Abbiamo accennato al capitolo sulle cause, al discorso causa/negotium, cioè al capitolo che rappresenta il vero e proprio inno al principio operativo. Questo perché in realtà, quando Vico sostiene che in latino causa e negotium (che significa appunto operazione, ciò che si fa, ciò che si crea) si identificano, la causa è letta come operazione, come operatività. Ecco perché molti critici hanno sostenuto che in questo capitolo si teorizza la vera e propria logica operativa di Vico. Qui egli critica il concetto cartesiano e razionalista di causa ed effetto perché Vico assimila il termine causa con il concetto dell’operazione, del procedere, del fare e ciò permette a Vico con le stesse categorie del verum-factum: solo se conosciamo le cause possiamo ritenere vera una cosa. Riesce, dunque, a trasformare anche Cartesio, perché il principio razionalista puro di causa ed effetto diventa concetto del verum- factum. Risalendo a questa pseudo-etimologia (perché abbiamo già sottolineato come Vico giochi con le parole, nascondendo dietro queste pseudo-etimologie il suo pensiero e la sua metafisica) riesce a riposizionare Cartesio secondo la sua propria visione, cioè questa rilettura del concetto di causa/effetto. La perfezione scientifica per Vico è in funzione della perfezione metodologica della scelta, della possibilità cioè per ogni scienza di crearsi le leggi con le quali opera (nella possibilità di conversione del vero col fatto). La scoperta più straordinaria di Vico da tal punto di vista è la critica del concetto di causa in un senso ancora più profondo della critica di Hume. Ciò che qui Vico intuisce è né più né meno che la critica ai concetti metafisici di causa effetto che riduce ad operazione del ricercatore e quindi ad operazioni metodologiche. È proprio sulla scia humiana e della sua critica al principio di causa/effetto che Vico si pone, sebbene egli non critichi in senso humiano poiché non traduce in puro empirismo il concetto di causa/effetto ma per coniugare i due termini di causa/effetto. L’uomo diventa in questa maniera (proprio perché il verum-factum avviene nell’uomo) la concreta realtà storica del trascendentale ed è il luogo medio d’incontro dove vero e fatto si convertono. Come per Kant il Dio (?) di Vico è una legge funzionale del conoscere e, come Kant, nega che si possa dimostrare. Enzo Paci, pertanto, in questo concetto di verum-factum vede il trascendentale kantiano (anche Vico, come Kant, nega la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio). pag. 93: Con aritmetica e geometria proviamo per cause, ma il problema sorge nel momento in cui non possiamo provare dalle cause i fatti fisici. Siamo di fronte sempre allo stesso problema: non possiamo applicare il metodo geometrico al mondo naturale, perché non avendolo creato non possiamo conoscerlo. L’espressione “gli elementi naturali sono fuori di noi” esprime un concetto importante, quello dell’extra nos: il limite inconoscibile che rende possibile la conoscenza (non bisogna dimenticare, a tal proposito, che il limite della mente umana è positivo perché è qualcosa che ci spinge alla conoscenza, perciò abbiamo definito l’uomo di Vico come “incompiuto che non si compie mai”, in quanto i limiti della conoscenza lo conducono continuamente a creare e produrre). Per produrre una cosa finita occorre una virtù infinita, e qui entra in gioco il concetto della virtù come vis di matrice leibniziana, cioè il concetto della formica: ogni cosa finita contiene in sé una forza infinita. Vedremo poi come Vico passerà da questa concezione a quella geometrica, per provare la virtù infinita: noi non abbiamo scienza del mondo fisico ma possiamo ben immaginare che per dar vita ad una singola cosa finita occorre uno sforzo operativo infinito, quindi anche per creare l’essere più piccolo dell’universo occorre una grande forza, una vis infinita. Vico riprende a questo punto dal De Ratione (pag. 97), e rievoca un principio operativo proprio quanto del De Ratione tanto del De Antiquissima e che ritroviamo anche nella Scienza Nuova, nella forma della scoperta che nella mente umana sono presenti quegli elementi di verità (“i semi del vero” nella Scienza Nuova) che nella loro composizione permettono di conoscere per cause in un’operazione che idealmente è la stessa operazione secondo la quale l’uomo ha costruito la storia. Si tratta cioè del principio operativo secondo il quale è impossibile conoscere il mondo fisico, affrontato e dimostrato, però, su vari livelli: • Nel De Ratione è un collegamento che rimane a livello di metodo, è il metodo geometrico che acuisce gli ingegni e che però non può essere trasportato sul piano fisico; • Nel De Antiquissima siamo ad un livello metafisico (e vedremo come il punto funga da tramite tra mondo fisico e mondo metafisico) ma viene comunque ripreso il concetto secondo il quale il mondo fisico non si può conoscere ma solo immaginare e che vi sia una forza infinita dentro la natura, da cui parte tutto; • Infine, questo concetto viene riportato poi nella Scienza Nuova ad un livello ancora più alto che è quello della storia. Naturalmente è stato possibile stabilire questi collegamenti soltanto una volta superata l’interpretazione crociana (che trascurava le opere antecedenti la Scienza Nuova e dunque l’evoluzione del pensiero vichiano) e leggendo Vico in senso criticistico, una scelta interpretativa come quella di Enzo Paci, ad esempio, per altro contemporaneo a Croce e con il quale intrattenne numerosi carteggi. Come Kant, Vico critica anche quanti hanno tentato e tentano di dimostrare a priori l’esistenza di Dio. Se la causa è operazione, è un fare che produce un effetto, ecco che in questo fare c’è una forza, una capacità creativa infinita che tanto è di Dio quanto è dell’uomo. I due elementi fondamentali della ricerca vichiana sono la concezione della natura come attività ed energia e lo sforzo di ricercare un principio metodologico del sapere. Abbiamo già sottolineato come la natura per Vico sia esistenza e qui si inizia a delineare il suo interesse per la natura umana, prima ancora che per la natura inorganica. Una natura che è sforzo, che è vis ed energia, e qui inizia quella fase che molti interpreti vichiani hanno definito leibniziana. In realtà Leibniz non è citato fra i quattro autori vichiani ma è tale perché è da lui che Vico mutua quel concetto di vis, della forza che è la stessa energia delle Monadi, gli Scolastici d’altronde con la potestas dicevano la stessa cosa. Capitolo IV: le essenze, ossia le virtù pag. 101: Pitagora è nel numero (= inteso come ordine, lo stesso concetto che poi sarà proprio di Cartesio) che individua l’archè, l’essenza della realtà, un principio che in quanto tale (come principio fondante dell’universo) non differisce teoricamente dalla soluzione dell’essere parmenideo o dal logos eracliteo. Ecco in quale senso «gli antichi filosofi dell’Italia hanno considerato le essenze individue come virtù eterne ed infinite di tutte le cose», proprio in quanto hanno individuato di volta in volta l’essenza: tutte le cose hanno queste essenze infinite, e Vico vuole dimostrare la presenza del finito nell’infinito con la teoria dei punti metafisici e il richiamo a Zenone. Aristotele, osserva Vico, provò che qualsiasi particella della cosa estesa è suddivisibile all’infinito, tuttavia di fronte a questi argomenti Zenone restò imperturbato, anzi se ne avvalse proprio per confermare i suoi punti metafisici (pag. 117); pertanto occorre riporre nella metafisica la virtù di codesta cosa fisica. Ciò significa che la materia originariamente non è solo estensione, essa è virtù dell’estensione, contiene cioè in sé una forza attiva non sopraggiunta ma legata al concetto stesso della materia. La divisione, dice Vico, è cosa fisica (pag. 119). Molti studiosi hanno dibattuto sull’identità del Zenone qui citato, alcuni sostengono che si tratti di Zenone lo Stoico, fatto sta che chiunque egli sia è rivisitato, cioè è anch’egli una maschera dello stesso Vico: cosi cattraverso di lui Vico parla e insiste sul concetto del punto metafisico. Un’ulteriore critica al concetto di res extensa è data dal fatto che la res extensa non è solamente estensione ma è virtù dell’estensione, perché c’è bisogno di una forza attiva, di una vis che spinga all’estensione, legata al concetto di materia sebbene sia un qualcosa che la precede, è una virtù metafisica all’interno della materia. Torniamo alla frase a pag. 101: non si tratta più di dimostrare il trascendente, ma di dimostrare un metodo storico-filosofico. La nuova critica metafisica di Vico si innesta in quest’opera ed è una svolta progressiva che avvicina Vico alla riflessione di gran parte del galileismo moderno, al concetto della dinamica di Galileo (Enzo Paci). Abbiamo insistito su Galileo proprio perché ci serve sapere di che galileismo si tratta qui, della scoperta del moto come principio, come forza. Vico non vuole dimostrare l’esistenza di Dio, bensì trovare la virtù metafisica, l’infinito nel finito o il finito nell’infinito, quest’energia, questa forza che egli percepisce essere attiva nel mondo fisico. pag. 103: il conato è la virtù (metafisica) del moto, cioè il moto si attiva, si realizza in quanto spinto dal conato come sforzo che genera, appunto, il movimento (corpo che, in quanto res extensa, è spinto ad essere dalla virtù dell’estensione). Quando Vico afferma che l’uomo non conosce la natura vuol dire che la natura non è né razionalità né spiritualità, quella famosa natura “incerta, informe e oscura” (com’è definita la materia oggetto della Scienza Nuova nella prefazione) è conato, è irrazionale, è la yle aristotelica, la chora platonica, è la bestialità dell’uomo. L’uomo è bestia e non conosce le leggi razionali, la virtù o potenza che sta alla base non solo della natura ma della storia. E’ una spiegazione dinamica e funzionale della natura, una concezione biologica e vitalistica in quanto si tratta del caos, dell’irrazionale prima del razionale. Se Cartesio inoltre dividerà i due principi dell’estensione e del moto che costituiscono la res extensa, Vico utilizzando la teoria dei punti metafisici tenderà ad unificare i due principi. 4.1. I punti metafisici e i conati Importante è il valore che Vico attribuisce a ciò che chiama zenonismo, ossia la dottrina dei punti metafisici, riassumibile nella tesi che il punto in quanto momentum non è esteso, ma genera l’estensione. La definizione di punto ha quindi un valore reale e non nominale. Il punto-momento è il conatus: il conato, espressione metafisica del punto, come abbiamo visto, non è il moto, ma è generatore di esso, come non è punto né numero ma generatore di entrambi. Il conato è ciò che precede il momento in cui mettiamo la penna sul foglio, quando il punto assume realtà fisica e non è più punto, perché assume dimensione: ecco che il conato precede quest’attimo, diventando così espressione metafisica del punto. Nell’identità epistemologica di punctum e momentum quale ragione dell’essere e del divenire dell’universo, che è dotato di una vis (il conato) Vico si contrappone alla scelta galileiana e cartesiana di ridurre a numero figura e movimento e la complessità del reale. Ecco che Vico è contemporaneamente galileiano e antigalileiano: se era galileiano nel momento in cui scopre il movimento, diventa antigalileiano laddove Galileo riduce la figura a numero (così come Cartesio). A questo punto si colloca il riferimento a Zenone: Zenone di Elea negando il moto aveva concepito il continuo come discreto e composto di indivisibili; Zenone di Cizio (= Zenone lo Stoico) aveva concepito il mondo come composto di entità indivisibili. Vico non è zenonista in senso assoluto: a differenza degli zenonisti egli accetta per quanto riguarda la fisica la tesi aristotelica e cartesiana della divisibilità infinita dei corpi, e poi a differenza degli zenonisti che parlano di punti geometrici, lo Zenone di Vico sapeva che il punto geometrico è solo somiglianza di questa metafisica virtù, che perciò fu chiamata punto metafisico. Basandoci su questa definizione possiamo ragionare sull’essenza del corpo: in piena coerenza con la tesi dell’antichissima Sapienza che è andata perduta, Vico sostiene che Zenone fece uso del termine “punto metafisico” perché conobbe quella stessa verità cui egli intende risalire non Vico ogni edizione correggeva a penna e a volte a seconda di chi la regalava corregge. Queste correzioni (miglioramenti e aggiunte”) sono importanti in quanto spesso c’è il rischio in questo caso dell’accusa di melebranche, il quale sosteneva la visione delle idee in Dio cioè l’occasionalismo. Per Vico la confezione delle idee non è di visone delle idee di Dio come lo è per malenbranche ma cristiana cioè in cui Dio ha immesso nella mente dell’uomo le idee. Nel capitolo sulla mente viene unito il concetto di mens a quello di corpo ribaltando completamente la visione cartesiana. L’anima omnes è lenta alle passioni, alla libido. Troviamo qui la polemica con malenbranche: a questo punto Vico vede una confluenza con Malebranche, anch’egli parla divinità della mente ma lo risolve come problema della visione di Dio. Il punto di distacco nasce dal cogito. Riassumendo Vico concorda con Malebranche nella teoria della conoscenza di Dio ma vorrebbe l elemento oggettivo condizionante (Dio) precedesse logicamente l’esercizio della funzione del pensare che è un suo prodotto. Ciò significa che il pensare non è un atto originario dell’uomo ma come adombravano gli stoici nel concetto del senso etereo, gli aristotelici in quello dell’intelletto agente, esso è un risultato, un punto d’arrivo di una forza oggettiva. La libido, la facoltà del desideri, per cui l’uomo è come Dio creatore di attività, nel punto più elevato della natura si purifica, promuovendo gli spiriti animali entro quelli vitali, e da questi facendo scaturire la mens animi. Con Melebranche non c’è un a possibilità di autodeterminazione dell’uomo mentre l’uomo di Vico necessita di creare, crescere grazie al fatto che Dio abbia immesso nella mente dell’uomo l’animo umano. P193 Qui Enzo paci scrive che c’è un alone di pessimismo: l’uomo non è solo il punto di incontro di natura e spirito, anche di bene e male. Vico doveva trovare una soluzione. La natura mossa da Dio come motore immobile e poi misteriosamente corrotta avesse la possibilità di ritornare a Dio, e cioè di redimersi attraverso l’idea. Nasce il problema della provvidenza che deve trasformare l’uomo bestia in uomo civile: si fa avanti l’idea di un circolo nel quale la natura provenga da Dio e poi, attraverso la storia intesa come redenzione dell’uomo caduto, diventando timore di Dio, sapienza poetica, civiltà umana, ritorni a Dio. Questo provenire da Dio e ritornare a Dio non è che la storia ideale-eterna, non è che la provvidenza che trasforma l’uomo-bestia in uomo civile. C’è una profonda unità tra Dio che muove la natura e Dio che nell’uomo si pone come la legge che trasforma la natura in idea. La natura è cosi fatta che quando scambiamo la distorsione con il rettilineo, la molteplicità con l’unita, la diversità con l’identità, la mobilità con l’unità, la diversità con l’identità, la mobilità con la quiete ci inganniamo certamente. Tutto questi concetti non esistono in natura, eppure dimostriamo col solo usarli che la nostra mente è in presenza dell’assoluto, da noi trasferito illegittimamente nelle singole cose finite. Vico risolve il problema con l’agostinismo, il male è dovuto alla mancanza di bene, l’inganno che noi essendo anche natura vediamo “spesso che le cose finite sentendoci anche noi finiti” quando dentro di noi c’è un seme di infinito che ci da il bisogno di andare oltre i limiti finiti del mondo potendo cosi redimerci. Siamo cosi metafisicamente inseriti in una natura buona che ci costituisce e ci sostiene. Essa conferisce nonostante tutto alla nostra mente una capacità creatrice in grado di suscitare autonomo movimento nella sfera umana cioè di convertire il fatto col vero. In questo contesto si inseriranno le facultates animi. Abbiamo la capacita di trasformare il negativo in positivo, questo è il libero arbitrio. Dio si manifesta tramite questo infinto che è dentro di noi. Nel capitolo VII sulle facoltà dell’animo Vico attento a confermare il nesso tra verum e factum, si pronuncia sull’etimolgoia di facultas da facilitas quale “speditezza del fare per cui la virtù si pone in atto” e si riferisce alle facoltà sensibili che fanno il loro oggetto e a quelle intellettuali perchè “compresa una verità noi stessi nè diventiamo creatori.” La stessa sensazione diventa una facoltà dell’anima cui induce la testimonianza dei latini e degli antichi filosofi italiani convinti che “ogni opera della mente fosse senso.” Nel ribadire la convinzione dell’assoluta soggettività delle qualità sensibili si pone la questione centrale del rapporto con l’oggetto. Rappresentazione soggettiva della realtà, la facoltà esprime la dinamica intenzionalità conoscitiva, come prova l’ingegno, generatore di sapere e già al centro delle pag del de ratione. Qui Vico nè approfondisce e trasforma il significato esaltando la sua capacità di componere, di cogliere cioè il simile nel dissimile in quanto ingenuo arguto, distinto dallo spirito acuto di matrice aristotelica. Le tre facoltà della fantasia, memoria ed intelletto qui vengono connesse al concetto del verum factum: la fantasia crea immagini delle cose. Queste tre le abbiamo incontrate come strumenti del nostro metodo, la nostra capacità di esprimerci e ciò che ci serve prima di arrivare prima della vera e proprio logica. E infatti con la facoltà dell’ingegno, facoltà capace di congiungere in unita le cose separate e diverse, un’originaria potenza della mens collega l’uomo al divino e fa del geometra un Dio nella misura in cui crea dimostrazioni del mondo matematico attraverso passaggi in cui il vero dipende dall’inventio. Quest’ultima non può essere certa senza il giudizio dell’intellleto che a sua volta nè richiede il sostengo perchè intende unificare esperienza e sapere criticamente fondato. Qui è l’originalità teorica del de antiquissima anche rispetto alle sistemazioni umanistiche e al pensiero di Herbert of cherbury citato nella risposta II per il suo metodo che “veramente altro non è che una topica trasportata agli usi dei fisici sperimentali”. Per l’ingegno si realizza il verum factum in quanto “propria sciendi facultas” tra arte della topica (corrispondente all’operazione del percepire) e critica o arte del giudicare, distinta dal metodo o arte di ordinare razionalmente le materie. L’operatività della mente umana forza un limite invalicabile della finitezza ama, coniugando un principio della verità accessibile all’intento finito solo con riferimento alla forma ideale, le cui tracce sono ricavabili dall’unità di forze formatrici (memoria immaginazione e fantasia) in grado di realizzare operazioni sintetiche, svalutate dalla gnoseologia e dalla psicologia cartesiane. Se il verum è il factum, quest’ultimo è frutto di fictiones cioè di costruzioni mentali realizzare dall’ingegno e dal suo occhio, la fan. È in gioco una capacità di rielaborazione del fare non solo conservata dalla memoria che in latino corrisponde all’immaginare , analogo alla fantasia dei greci, capace di riferire il prototipo metafisico del vero divino all’umano operare: “l’ingegno è il ritrovare di cose nuove, e la fantasia o la forza d’immaginare madre delle poetiche invenzioni”. p225 Per l’ingegno si realizza il verum factum in quanto proprio scendi facultas arte della topica, corrispondente all’operazione del percepire, o critica o arte del giudicare, distinta dal metodo o arte di ordinare razionalmente le materie. La mente umana non può immaginare oggetto inesistenti o da lei non sperimentati e immessi nella memoria, come attesta l’es d origine lucreziana dei centauri, immagini costituite da elemento realmente esistenti in natura ma “vera natura falso mixta”. Anche questo tesi è tratta dall’antica sapienza dei filosofi italici ed è in sintonia diretta o indiretta con il neoplatonismo di Proclo, il commentatore di Euclide che indicò al rinascimento il possibile incontro tra riflessione metafisica e immaginazione geometrica, per giungere fino alla geometria di matrice leibniziana ed il suo concetto di analysis situs. Per tutto ciò l’elaborazione di un concetto di verità alternato a quello di Cartesio è i Vico compiuta. Matura il definitivo distacco dal metodo more geometrico della fisica, fondato sulla’erronea equivalenza tra materia ed estensione che sostanzializza lo spazio. Tale via di accesso alla scienza è giudicata da Vico empiricamente vuota, un mero geometrico della materia in senso analitico contrassegnato dall’illegittima pretesa di oggettive la struttura essenziale del mondo materiale. Nel capitolo ottavo abbiamo la descrizione del sommo fattore cioè Dio, in particolare nella descrizione del numen vediamo il legame con il verum factum. Tutto questo è come dice Vico “una metafisica commisurata alla debolezza del pensiero umano” i limiti e le facoltà dell’uomo strettamente legati alla sua finitezza e volontà di cogliere l’infinito nel finito. Questo si dimostra a partire dallo studio geometrico, nella realtà gli oggetto della geometria non esistono. L’uomo agisce non per razionalità pura ma per fictiones. Ci troviamo in quest’opera col problema del verum certo: se Cartesio ha rotto il binomio ferita certezza Vico lo unisce ma non siamo ancora in questo momento a cui si arriverà solo quando Vico passa al certum cioè tra dieci anni con lo studio sul diritto. Solo qui il verum da factum diventa certum. Lezione 27 Il testo di Enzo paci Ingens sylva da una lettura criticità che comprende l’impostazione di un Vico prekantiano. Il problema del rapporto enzo paci-croce stalle fatto che egli insisteva sul concetto di categoria dell’utile non accettando che fosse categoria del spiritosa della materia. Enzo paci vuole coniugare lo storicismo in esistenzialismo. Croce eleva Vico a padre dell’estetica come forma aurorale dello spirito e da anche una lettura neoidealista vedendo come precursore dell’idealismo. Mentre paci lo vede lontano dall’idealismo. Studiare questo carteggio comprendiamo un po quella querelle che si chiedeva qualora Vico fosse un autore idealista o criticità. Si tratta di scuole di pensiero. Il mito dell’analisi della nascosta sapienza degli ioni e degli etruschi contenuta nella nostra lingua latina non è proprio da prendere sul pensiero perchè si poteva basare su qualsiasi lingua o analisi per descrivere la sua metafisica della mente. Questo perchè il linguaggio è per Vico immagine e come tale è espressione del popolo e della storia. Il linguaggio è simbolo ed espressione della storia. La lingua è un fatto fisiologico che contiene in modo obbiettivo la storia di un popolo, contenendo nelle sue immagini la soluzione che coloro che la parlano hanno dato del dualismo natura-spirito. A partire dai mutoli che sentivano il tuono abbiamo visto che l immagine e la lingua sono fondamentali e costituendi per l’espressione. L’immagine è la prima forma di logos e permette la conversione del vero in fatto. Essa diventa il medio, per cui diventa mediatrice e l’uomo è il centro di questo mediazione. È nell’uovo che si ha questa conversione da vero a fatto, che è resa possibile dalla ragione cioè quella dote proprio dell’uomo per cui si differenzia dai bruti e li supera. l’uomo non possiede la ragione come abbiamo visto ma è partecipe di essa, non padrone completo di essa che è di Dio che ha idee ed elemento di tutto le cose. Dio è il fattore ed il creatore, può intelligere, mentre l’uomo può solo cogitare. La filosofia vichiana qui preannuncia Kant, anche per Vico Dio è una legge regolatrice della ragione. La differenza che lui fa della conoscenza umana e divina diventa legge del conoscere. La critica che aveva fatto di melanbranche altro non è che la legge del mio conoscere: il pensare me di Dio. Anche la ragione umana non può conoscere se non i fenomeni sia per Vico che per Kant. Questo l’aveva già notato gentile che ha visto in Vico la distinzione di giudizi analitici e sintetici con la sua idea di topica e critica. La polemica contro gli accademici e gli storici preannuncia la critica kantiana al puro empirismo e razionalismo. Ma trova limitante il fatto che Vico neghi l’autocoscienza affermando che la mente umana non avendo fatto se stessa non può conoscersi. Il Corsano invece non accetta i riferimenti Vico Kant se non per il Kant della critica del giudizio laddove il giudizio teleologico ci presenta l’uomo come fine della natura. Carabellose invece sostiene che il principio vicino per cui la coscienza non si conosce come tale non è che il presentimento del paralogismo in Kant. L’inconoscibilità della natura in Vico corrisponderebbe alla volontà in schopehnaurer, slancio vitale in bergson, potenza del negativo in gel, volontà di potenza in Nietzsche, esistenza negli esistenzialisti ed utile in croce. Vico è dunque colui che tratta dei temi che poi esploderanno a partire da Kant fino addirittura a tutti i più importanti fuori del 900. Per cui visto che Vico ripropone non solo lo schema neoplatonico dell incontro natura-spirito ma del molteplice e uno trasformandolo in un principio. L’uomo è concreta realtà storica del trascendentale, luogo medio di incontro dove vero e fatto convertono. Come per Kant, Vico è la legge funzionale del conoscere, e come Kant nega che si possa dimostrare l’esistenza di Dio. La trascendenza è quella legge a cui l’uomo tende con cui dobbiamo interpretar eia fatto: l’unità delle legge col fatto è quell’apriori con cui avviene nell’uomo la conoscenza. Vico per Enzo paci anticipa Cassirer con il concetto di conoscenza funzionale. Quindi il vero ed il fatto si riconvertono costituendo un tutt’uno. Proprio in questo principio affonda le sue radici la conoscenza antica che agisce tramite un “provare a causis” cioè ordinare la materia attraverso un’astrazione mentale organizzativa consistente quasi nel raccogliere le cause della natura poiché queste n sono intrinseche della natura umana ma sono conoscibili solo da chi li ha creati cioè Dio. Questo è a che quello chetiamo visto precedentemente perchè è il centro dell’opera vista come un inno al principio operativo nel senso che rappresenta la logica vicina, di quest’uomo che consapevole del limite perchè non può contenere al natura avendo un corpo limitante fa diventare il limite positivo per far agire l’uomo e renderlo operativo, creatore. Il continuum del discorso già iniziato nel de ratione dove Vico sostiene che possiamo provare per cause solo aritmetica e geometrica ma non del modo fisico. Questo extra nos è il limite inconoscibile che rende possibile un tipo di conoscenza. Per cui tutto la ricerca vicina vuole essere la ricerca della natura come attrito ed energia e lo sforzo di ricercare un principio metodologico del sapere. Il discorso sul punto e sul conato aveva lo scopo di unire spirito e natura, mondo metafisico e fisco tramite questo concezione di natura come attività in cui l’uomo può entra solo con un apriori della consonanza vicina in se del verum factum. Per cui l’uomo diventa cosi anche il punto d’incontro tra bene e male, che nel punto fondamentale dell’opera entra in gioco la provvidenza. Abbiamo visto Vico come Kant critica la prova ontologia dell’esistenza di Dio. Per quanto riguarda il problema del male Vico non può dire che Dio esiste ma solo che Dio è, perchè l’esistere è qualcosa di diverso da Dio inteso come essere della legge, perchè l’esistere è la materia, la natura informa alla quale nella concretezza dell’uomo storico, la legge deve essere applicata come l’arpioni kantiano deve essere applicato all’esperienza. L’interpretazione di enzo paci dunque vede in questo nulla una matrice esistenzialista. Dio è anche il punto d’incontro tra male e bene. Come è possibile se Dio crea il mondo dal mondo poi esca il male? Nasce qui il problema della che fino ad ora non era stato affrontato per cui nasce anche il problema di una soluzione. Bisognava pensare che la natura corrotta dell’uomo dovesse poter redimersi tramite l’idea stesso di Dio. (Slde più avanti) si fa avanti l’idea di un circolo nel quale la natura provenga da Dio poi attraverso la storia intesa come redenzione dell’uomo caduto diventando timore di Dio, sapienza poetica, civiltà umana… C’è un idea ciclica di nascita da Dio e ritorno ad esso, riprendendo la ciclicità della filosofia vicina dei corsi e ricorsi storici che qui è tradotta nella problematica della provvidenza. La provvidenza trasforma l’uomo bestia in uomo civile, per cui ciò che conosciamo in noi stessi è ciò che Dio ha creato ma qui sorge la domanda: come è possibile che un essere cosi perfetto abbia creato essere cosi imperfetti? C’è qui un alone di pessimismo: l’uomo non è solo il punto di incontro di natura e spirito, ma anche di bene e male. Vico doveva trovare una soluzione. La natura mossa da Dio come motore immobile e poi misteriosamente corrotta avesse la possibilità di ritornare a Dio e cioè redimersi tramite l’idea di esso. La metafisica del de antiquissima è una preparazione allo storicismo vicino. Quando Vico afferma che l’uomo non conosce la natura vuol dire che la natura non è razionalità o spiritualità ma sforzo, conato e bestialità. L’uomo non conosce l’energia vitale, la virtù o potenza che sta alla base non solo della natura ma anche della storia. E dunque una spiegazione dinamica e funzionale della natura ed una concezione biologica e vitalistica della natura ma anche la parte precategoriale e metafisica, quella libido nascosta in ognuno di noi intesa come energia e sforzo. Per cui i due elemento della ricerca vicina sono concezione della natura come attività ed energia e sforzi di ricerca un principio metodologico del sapere. Non si tratta più di dimostrare il trascendente, ma di elaborare un metodo storico filosofico. La nuova critica metafisica di Vico si innesta in quest’opera ed è una svolta progressiva che avvicina Vico ala riflessione di gran parte del gallicismo moderno. Il problema della connessione tra natura e psiche è stato letto come l’inizio della concezione attuale dell’anima. Vico si pone il problema dell’irrazionale nell’uomo aprendo agli studi antropologici e psicoanalitici. Ciò perchè questo problema è stato visto dal Vico proprio nello stesso modo come lo sentiamo noi moderni che dobbiamo servirsi di un concetto funzionale il quale, mentre da un alto ci permette di considerare l0anima collegata allo spirito ed alle attività dello spirito, dall’altro ci permette di considerare le facoltà dell’anima (senso, sentimento) come qualcosa di naturalistico e quindi di fisico. Un compito del genere avrà poi per la psicologia.. Nel rapporto tra anima e animo si celebra dunque il miracoloso incontro tra natura e spirito, tra le natura e la psiche, tra inconscio e coscienza. È il misterioso e irraggiungibile punto di incontro per dirla in termini leibniziani tra le percezioni inconsce e le consce, il luogo fatato dove nascono i sogni, le imagini ed i miti, le esitazioni e le paure della vita quotidiana in spaventose allucinazioni in mitologici terrori, direbbe Lucrezio, in orribili superstizioni. Un corso di pensieri assai simile a questo deve aver spinto Vico a cercare le origini naturali economiche e sociali del mito, il quale nasce in questa capacità interiore dell’uomo di creare immagini, dalla fantasia. Si ha un passaggio con quest’opera da un concetto realistico della natura ad un funzionale: la natura entra a far parte del mondo ella storia e dello spirito. Essa potrà divenire mezzo ed utilità. La natura dell’uomo primitivo è principalmente bestialità dunque l’opera si chiude con l’interrogativo: come sarà possibile che questo bestialità si trasformi in qualcosa di positivo e utile? Forza e attività diventano elementi fondamentali per realizzare la realtà umana ed un mondo morale per cui questi elementi di natura e forza diverranno l’utile sociale e anche politico. Si conclude dunque l’opera lasciando questo interrogativo che diventerà poi in studi lunghissimi di dieci anni, l’attività politica in quanto il mondo della politica sarà. Il modo della pura forza in cui è difficile separare la funzione morale da quella della provvidenza. Dunque la trasformazione di Vico in questo senso sarà dettata dallo studio del mondo politica cioè di tacito che contempla l’uomo quale è e dunque non il mondo platonico dell’uomo quale deve essere ma dell’utilitarismo. La natura deve tramutarsi in utile che negli anni successivi portano a studiare diritto con Grozio per poi dedicarsi al de uno in cui la natura è attività e capacità di salvare l’uomo.
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