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Dispensa storia della filosofia moderna (3), Dispense di Filosofia

Dispensa storia filosofia moderna

Tipologia: Dispense

2015/2016

Caricato il 26/01/2016

Filomena.Scrocca
Filomena.Scrocca 🇮🇹

4.3

(4)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Dispensa storia della filosofia moderna (3) e più Dispense in PDF di Filosofia solo su Docsity! 1 ISTITUTO TEOLOGICO MARCHIGIANO Sez. di Fermo Storia della filosofia moderna e contemporanea 1 Docente: sac. Giordano Trapasso 2 Storia della filosofia moderna I 1. Dopo la sintesi della Scolastica Dopo Tommaso, la fede acquista una rilevanza maggiore rispetto alla conoscenza naturale. Aumenta, in Duns Scoto, il campo dei credibilia (Trinità, onnipresenza e onnipotenza di Dio, Provvidenza …). La metafisica non trova più compimento nel problema di Dio, ma il suo oggetto centrale è il problema dell’essere. Quale natura soddisfa pienamente il concetto di essere? La risposta è ancora ovvia: si tratta dell’essenza di Dio, “l’essere che è il primo oggetto naturale della ragione appartiene in verità a Dio”. La metafisica non parla più direttamente di Dio, ma parla di Lui in quanto Primo Essere. La ragione naturale non può in alcun modo procedere fino al concetto di “Essere Infinito”, proprio della teologia. Perché la conoscenza umana è debole e il suo campo si contrae in rapporto alle realtà divine? Innanzitutto la ragione è corrotta dal peccato originale: l’aggettivo “naturale” ormai arriva a significare “conforme alla natura decaduta”. In secondo luogo, la libertà di Dio è insondabile. Abbiamo a che fare con due tesi teologiche. All’uomo diviene sempre più necessaria una conoscenza soprannaturale: “L’uomo, per natura sua, non può conoscere chiaramente il suo fine: perciò è necessario che gli sia trasmessa una qualche conoscenza soprannaturale di esso” (Duns Scoto, Commentaria oxoniensa, prol. 1,2,7). Il concetto di Dio che può essere formulato a partire dalle creature non è perfetto. Per Guglielmo di Ockam la conoscenza in senso proprio è immediata e intuitiva, “in forza della quale si può sapere se una cosa esiste o no” (Ordinatio, prol. 1,2). Dio non può essere conosciuto da noi intuitivamente, a partire dalla realtà naturale. Se ogni conoscenza a noi possibile è intuitiva, essa non può essere riferita a Dio: “Non possiamo conoscere in se stessa ne l’unità, né l’originarietà, né l’infinita potenza di Dio, né la bontà divina, né la perfezione divina” (ibid. 3,2). Non si può sapere in maniera evidente che Dio esiste. Egli respinge così la prova ontologica e considera problematica la base da cui muovono le prove di Tommaso: non si può dimostrare con la ragione naturale che Dio sia la causa efficiente di qualsiasi operazione. Non può essere dimostrato che Dio è onnipotente, ciò è sostenuto soltanto dalla fede. Si spezza ormai la fiducia nella ragione naturale in rapporto alla possibilità di una teologia naturale: la fede arriva progressivamente a dominare quasi esclusivamente il campo delle realtà divine. 5 originario che chiede di trasferire la sovranità dal popolo al principe. Il giusnaturalismo presuppone anche una concezione della religione, ridotta ai principi naturali. Dio esiste ed è uno, non è nessuna delle cose che si vedono ma è superiore ad esse perché è Spirito, egli cura e giudica le cose umane perché è perfetta provvidenza, egli è l’artefice di tutte le cose esterne perché è creatore. Nel sec. XVII il discorso subisce un’importante evoluzione con Th. Hobbes (1588-1679), soprattutto con la sua opera principale Il Leviatano (1651). Percorriamo con gradualità il suo pensiero espresso in quest’opera. Quale potere ha la conoscenza umana? “Qualsiasi cosa noi immaginiamo, è finita. Perciò non esiste alcuna idea, o concezione di alcuna delle cose che noi chiamiamo infinito. Nessun uomo può avere nella sua mente un’immagine di grandezza infinita, né concepire una velocità infinita, un tempo infinito, o una forza infinita, o un potere infinito. Quando diciamo che qualcosa è infinito, significhiamo solo che non siamo capaci di concepire i termini e i limiti della cosa nominata, non avendo nessuna concezione della cosa, bensì della nostra incapacità … Inoltre, poiché tutto quello che noi concepiamo è stato prima percepito per mezzo del senso, tutto insieme o per parti, non si può avere alcun pensiero che rappresenti qualcosa che non sia soggetto al senso. Nessuno quindi può concepire una cosa qualsiasi senza concepirla necessariamente in qualche luogo, dotata di una certa e determinata grandezza …”2. E quando pronuncio termini universali, che cosa intendo? “ … non vi è nel mondo niente di universale, se non i nomi; infatti, le cose nominate sono tutte individuali e singolari … Un nome universale viene imposto a molte cose per la loro somiglianza in qualche qualità o altro accidente …”3. Ma, allora, che cos’è la ragione, che significa ragionare? “Quando si ragiona, non si fa altro che concepire una somma totale dell’addizione di particelle, o concepire un resto dalla sottrazione di una somma da un’altra … Gli scrittori di politica addizionano insieme le pattuizioni per trovare i doveri degli uomini, e i giuristi, le leggi e i fatti per trovare ciò che è cosa retta e ciò che è torto nelle azioni dei privati … Infatti la ragione, in questo senso, non è che il calcolo (cioè l’addizione e la sottrazione) delle conseguenze dei nomi generali su cui c’è accordo per contrassegnare e significare i nostri pensieri … né la ragione di un uomo, né la ragione di un certo numero di uomini danno la certezza, non più di quanto un conto è ben computato per il fatto che un gran numero di uomini lo ha approvato unanimemente”4. 2 Th. HOBBES, The Leviatan; tr. it. di G. Micheli, Il Leviatano, La Nuova Italia, Firenze 1993, 27-28 3 Ibid., 32 4 Ibid., 40 6 La ragione non è più organon della verità, non astrae l’universale dal finito ma rimane nel finito organizzando ciò che è frutto di immaginazioni e di sensazioni, cercando tutt’al più conseguenze ed effetti. Si tratta di una ragione calcolatrice e strategica. Cosa può comportare un appiattimento della ragione al finito? “ … Cosicché desiderio e amore sono la stessa cosa, se si eccettua il fatto che con desiderio noi significhiamo sempre l’assenza dell’oggetto; con amore, più comunemente, la presenza di esso”5. L’amore non trascende forse il desiderio? Quali conseguenze ha questo per l’etica? “Ma qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o desiderio di un uomo, è ciò che egli, per parte sua, chiama buono; L’oggetto del suo odio e della sua avversione, cattivo e quello del suo dispregio, vile e trascurabile. Infatti queste parole, buono, cattivo e spregevole, sono sempre usate in relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c’è lo stato) o (in uno stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che le persone in disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola”6. Nel determinare il bene e il male non c’è convergenza, ma può esserci un conflitto; c’è bisogno di un arbitro, di un giudice. Ecco il senso dello stato: “Infatti le leggi di natura (come la giustizia, l’equità, la modestia, la misericordia, e, insomma il fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi) in sé stesse, senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare, sono contrarie alle nostre passioni naturali, che ci spingono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili. I patti senza la spada sono solo parole e non hanno la forza di assicurare affatto un uomo … La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che naturalmente amano la libertà e il dominio sugli altri) nell’introdurre quella restrizione su loro stessi (in cui li vediamo vivere negli stati) è la previsione di ottenere con quel mezzo la propria preservazione e una vita soddisfacente, vale a dire di uscire da quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente alle passioni naturali degli uomini …”7. Lo stato perciò non è più la concretizzazione della natura sociale dell’uomo, non è più l’orizzonte primo in cui l’uomo vive anche la propria dimensione etica (cfr. Aristotele), ma è un potere visibile necessario che preserva l’uomo dall’autodistruzione. L’uomo perde la sua natura sociale, comunitaria. 5 Ibid., 50 6 Ibid., 51-52 7 Ibid., 163 7 La persona “ … è colui le cui parole o azioni sono considerate o come sue proprie o come rappresentanti le parole o le azioni di un altro uomo o di qualunque altra cosa a cui sono attribuite, sia veramente, sia per finzione”8, è semplicemente attore e autore. Siamo sicuramente lontani dalla concezione socratica per cui l’uomo è la sua anima. È anche infranto l’equilibrio della concezione aristotelica: animal rationale. Forse i greci ne sottovalutavano troppo l’animalità: in Hobbes invece l’uomo è definito a partire dalla sua animalità. Così si traduce per Hobbes il ritorno al principio. La ragione si riduce ad essere un correttivo strategico per regolare l’ambito delle passioni. L’uomo ama naturalmente la libertà. Ma quale libertà? “Libertà significa (propriamente) assenza di opposizione (per opposizione voglio dire impedimenti esterni al movimento) e può essere applicata non meno alle creature irrazionali e inanimate che a quelle razionali … un uomo libero è colui che, in quelle cose che con la sua forza e il suo ingegno è in grado di fare, non viene ostacolato nel fare quanto ha la volontà di fare”9. La vera libertà, per Hobbes, coesiste con il timore e la necessità. Essa si definisce solo in maniera estrinseca, in chiave negativa; non è presente un diretto ed esplicito riferimento al bene, che comunque è stabilito dagli orientamenti appetitivi del soggetto. Come mai Hobbes non fa intervenire la libertà nella determinazione della volontà? Come mai non si pone il problema di una “volontà libera”? “Infatti, sebbene gli uomini possono fare molte cose che Dio non comanda e di cui non è perciò autore, tuttavia essi non possono avere per qualcosa alcuna passione, né alcun appetito di cui la volontà di Dio non sia la causa. E se la sua volontà non assicurasse la necessità della volontà umana, e per conseguenza di tutto ciò che dipende dalla volontà umana, la libertà degli uomini sarebbe una contraddizione e un impedimento all’onnipotenza e alla libertà di Dio”10. La volontà di Dio è causa della volontà dell’uomo. In che modo? “Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa … Infatti per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni”11. 8 Ibid., 155., 9 ibid., 205 10 Ibid., 207. 11 Ibid., 167 10 NICOLA CUSANO (1401-1464) Cenni storici e biografici Negli anni 1417-1423 frequentò la facoltà giuridica dell’università di Padova e conseguì il grado di Doctor decreto rum. Nel 1425 fu immatricolato nell’università di Colonia, decisiva per i suoi interessi filosofici e teologici. Fu segretario del Cardinale Giordano Orsini, legato pontificio in Germania. Egli ebbe rapporti con la cerchia umanistica che si costituì al Concilio di Basilea. Il Concilio di Basilea fu un’importante assemblea internazionale che durò 18 anni (1431-1449), che cercò di focalizzare il senso del Papato ed il suo rapporto con il Concilio generale. Alcuni sostenevano che il Papato fosse un’istituzione divina ma non infallibile, altri attribuivano al capo dei sacerdoti o al corpo dei credenti una sovranità assoluta in materia di fede e di governo. Quasi tutti sostenevano che, visti i tempi che correvano, il Concilio generale avesse un’autorità superiore a quella del Papa. Tutti erano comunque convinti che il Papa fosse il potere esecutivo e il capo della Chiesa e la maggioranza dei vescovi e dei laici, fuori del Concilio, insieme ad un gruppo di teologi conservatori e competenti, restavano fedeli alla dottrina tradizionale. Il Cusano fu poi, in particolare, coinvolto nella Commissione De Fide per dirimere la questione hussita. Giovanni Hus era un predicatore di successo, proveniva dalla Boemia (per la precisione da Praga), fu influenzato dagli scritti di Wicliff ma proprio nel 1403 l’università di Praga condannò 45 proposizioni estratte dagli scritti di Wicliff. Papa Gregorio XII interdì le dottrine di Wicliff nel 1408 e nel 1412. Hus scrisse una disputa contro le indulgenze, negò ogni valore all’assoluzione impartita da un prete, propose l’autorità della Scrittura come unico giudice della fede. In un’altra opera, il De Ecclesia, egli sosteneva che solo i predestinati, non i peccatori, costituivano il corpo dei credenti. Egli però accettava la Chiesa gerarchica. Al Concilio di Costanza egli fu condannato e poi morì sul rogo. Rimasero i discepoli di Hus: nel 1415 buona parte della nobiltà boema giurò di onorare la memoria di Hus. Questi nobili dichiaravano di essere perfettamente ortodossi e sottomessi al Papa, ai vescovi e ai preti, per quel tanto che il loro insegnamento era conforme alla volontà di Dio e alle Scritture. Costoro desideravano come arbitro l’università di Praga. In particolare gli hussiti chiedevano la comunione frequente ai laici sotto le due specie. Il Concilio di Costanza proibì tutto questo e gli hussiti si allontanarono dall’ortodossia rigettando ogni autorità sacerdotale, episcopale e pontificia. Cusano si fece promotore di un compromesso: concedere ai boemi la comunione sotto le due specie. Grazie ad esso, qualche anno dopo si raggiungerà la pace con i seguaci di Hus. L’esperienza del Concilio indusse Cusano a progettare un’opera, Libellus de ecclesiastica concordantia, iniziata nel 1432 e conclusa negli ultimi mesi del 1433. Così Cusano descrive il progetto dell’opera: “Dovendo trattare della concordanza cattolica, mi propongo di investigare su quell’unione del popolo fedele che si chiama Chiesa cattolica e sull’unità delle parti di codesta Chiesa, l’anima e il corpo. Prima considererò il composto, cioè la Chiesa stessa, in secondo luogo l’anima sua, cioè il santissimo sacerdozio, in terzo luogo il corpo, cioè il Sacro Impero”. 11 Di particolare importanza il concetto di concordantia: “Ogni concordanza è concordanza di differenze. E quanto minore è la contrarietà delle differenze, tanto più forte è la concordanza e più lunga la vita, la quale sarà vita eterna ove non c’è nessuna contrarietà”. Tale concetto muove dal dogma dell’Uni-Trinità divina, che è il modello ideale per ogni concordanza: le differenze, pur restando tali, non costituiscono contrarietà, ma unità perfettamente articolata. Dal concetto teologico trinitario derivano una serie di conseguenze nel campo politico-ecclesiastico: dal concetto di concordantia discendono infatti i due concetti di gerarchia e di consensus. La concezione medievale che risale storicamente al pensiero della gerarchia dello Pseudo-Dionigi presenta la visione corporativa e gerarchica della società medievale. Consensus dice invece il consenso dei soggetti all’autorità; era già presente originariamente nella costituzione primitiva della Chiesa e nel pensiero dei Padri, è un concetto moderno e può aprire la via alle future dottrine democratiche. Il pensiero Cusano scrisse il De Docta Ignorantia dopo il suo viaggio a Costantinopoli nella Delegazione papale. Il 09 Aprile di quell’anno si apre a Ferrara il Concilio dell’Unione in cui è presente anche il nostro filosofo. Gli anni ’38-’40 furono gli anni di gestazione dell’opera in cui Cu8sano partecipò anche alle Diete di Norimberga e di Magonza. I primi quattro capitoli dell’opera ci presentano già il tema del lavoro: “il massimo assoluto che la fede di tutte le nazioni dice essere Dio”, il massimo la cui unità è contratta nella pluralità, cioè l’universo, il massimo che è insieme contratto e assoluto, cioè l’uomo-Dio Cristo. Come comprendere tale terminologia? C’è una tradizione filosofica che feconda la terminologia apparentemente inconsueta del Cusano: la scuola padovana dei primi decenni del sec. XV. Cusano fu a Padova negli anni 1417-1423 e ivi si appassionò all’astronomia. In particolare, probabilmente, egli conobbe le dottrine di Biagio Pelacani da Parma, soprattutto la sua opera fondamentale Il Trattato delle Proporzioni, che ebbe ampia risonanza anche nel circolo culturale di Firenze. Senza dubbio la terminologia e le immagini matematiche giocano un ruolo centrale nel De Docta Ignorantia. Perché questo linguaggio così inusuale per parlare di Dio? Dio è l’unica realtà assoluta, assolutamente indubitabile, l’unica vera e reale certezza che noi abbiamo. Cusano è ancora interessato al tema teologico della tradizione medievale, il rapporto tra verità di fede e verità di ragione, tra rivelazione cristiana e filosofia. Egli però rifiuta i tentativi compiuti dalla Scolastica del sec. XIII di costruire una scienza razionale o naturale di Dio con gli strumenti della metafisica e della logica di Aristotele. Già la scuola scotista aveva sottolineato 12 l’inadeguatezza della filosofia di Aristotele per costruire una teologia come scienza positiva. Per Cusano una teologia positiva, una scienza di Dio, non sono possibili; semmai si può ammettere una sapienza di Dio, una intelligenza del mistero. Ciò è possibile superando i concetti tradizionali di Dio, andando oltre il piano della ragione e del senso mediante la docta ignorantia. Affiora a questo punto la problematica scotista dell’onnipotenza e dell’infinità di Dio. Dio è un essere la cui volontà e azione supera ogni comprensione e sfugge a tutte le regole della ragione. Dio è allora “infinito negativo” in rapporto alla possibilità di comprensione della ragione, ma non negativo in se stesso. Anzi, l’infinità di Dio, la sua onnipotenza, il suo potere assoluto costituiscono un concetto estremamente positivo da cui tutto si ricava. Il concetto di Dio deve trascendere totalmente tutte le possibilità della ragione fondate sul principio di non contraddizione, in quanto la ragione umana è finita, misurabile, limitata. Da una parte, allora, Dio sarà definito negativamente, come infinito, incommensurabile, immenso. Ma Dio, in quanto onnipotente, Posse infinito, è in ogni luogo e in nessun luogo. Avvalendoci di immagini geometriche, è come quella sfera infinita il cui centro è dappertutto, o la circonferenza in ogni luogo. Perché Cusano ricorre alla terminologia matematico geometrica? Dalla scuola di Padova aveva maturato il concetto che la conoscenza precisa di cui è capace l’uomo è la conoscenza matematica. Aveva dunque in mente la precisione del ragionamento matematico che vive nella definizione matematica, che si ritrova nelle proporzioni tra i numeri e le grandezze. Tre sono i modi conoscitivi: l’essenziale (o metafisico, o divino), il matematico e il naturale. Dei tre, secondo la tradizione speculativa che fa capo a Biagio Pelacani e alla scuola di Padova, il modo di conoscere matematico è privilegiato, perché esso solo può attingere la verità, in quanto attinge la precisione delle proporzioni. La verità è precisione matematica, e solo attraverso questa via si può attingere la verità assoluta. La verità matematica è l’unica verità entro la quale si verifica l’assolutezza del vero, è pertanto l’unico ambito in cui può darsi la nozione di Dio. L’uomo può tentare allora di estendere la nozione di verità come precisione matematica, assolutamente vera, con il più alto grado di certezza possibile, all’unico vero assoluto che è Dio e che non si può cogliere negli ambiti disciplinari. Nella riflessione teologica tra la fine del XIV e l’inizio del XV sec., grazie soprattutto allo scotismo e all’occamismo, emergeva l’inadeguatezza degli strumenti della metafisica dell’essere di Aristotele per attingere la realtà divina. Basti pensare alla dimostrazione dell’esistenza di Dio formulate a partire dal movimento e dal divenire: nel mondo del divenire ci si muove solo nell’ambito del singolare, del finito, del limitato e del conchiuso. Si tenta allora di innestare la speculazione matematica e fisica della verità in quella metafisica e teologica. Arrivati a questo punto, chiariamo prima di tutto il concetto di conoscenza del Cusano, per comprendere la sua dottrina teologica e cosmologica. L’intelletto desidera naturalmente di conoscere e questo appetito naturale non può essere vano. Che cosa si intende allora per conoscenza? 15 ignoranza dagli attacchi dei nemici, egli asserirà di averlo ricevuto dall’alto, quasi per rivelazione, e di averlo ritrovato nello Pseudo-Dionigi, in Agostino e in Algazel, ed esso coincide in fondo con la teologia negativa. Per quanto riguarda Agostino, egli ha forse in mente la lettera CXXX: “Est ergo in nobis quaedam, ut ita dicam, docta ignorantia, sed docta spiritu Dei qui adjuvat infirmitatem nostram”. La “dotta ignoranza” non è solo una teoria, ma anche un metodo, capace perciò di condurre ad acquisizioni positive nella conoscenza. Infatti tale metodo viene applicato al concetto di “massimo”. Il “massimo” viene infatti inteso in maniera incomprensibile. Esso è “ciò di cui nulla può essere maggiore”, mentre il minimo è “ciò di cui nulla può essere minore”. Di conseguenza massimo e minimo, in quanto massimamente grande e massimamente piccolo, vengono a coincidere, in quanto sciolti dalla quantità. Il superlativo “massimo” è il medesimo in entrambe le proposizioni. Massimo e minimo coincidono dunque nel maximum absolutum, cioè sciolto da ogni quantità, superiore rispetto ad ogni molteplicità e differenza. Nell’unità del maximum absolutum ogni opposizione fra i molteplici scompare unificata. Che cosa comporta questo in rapporto al nostro modo di conoscere? La nostra conoscenza afferma o nega in virtù del principio di non contraddizione, su cui si regge la matematica. La coincidenza di massimo e minimo rappresenta allora il superamento del principio di non contraddizione della ratio matematica, e dunque il caso più tipico della “dotta ignoranza”. Scrive infatti il Cusano: “Questo supera ogni nostra capacità intellettiva, la quale non sa combinare con le sole regole della ragione le contraddizioni nel suo principio: poiché noi camminiamo attraverso quelle cose che ci sono manifeste nell’ambito della natura, ed essendo lontani dall’infinita virtù del massimo, non sappiamo connettere insieme i contraddittori che distano all’infinito. Vediamo dunque in maniera incomprensibile, al di sopra del discorso della ragione, che la massimità assoluta è infinità, che ad essa nulla si oppone e che con essa coincide il minimo”25. Cusano ricollega il principio della coincidenza degli opposti o contraddittori alla teologia mistica dello Pseudo-Dionigi. L’Uno è trascendente, perciò in esso ogni contraddizione, ogni opposizione e distinzione del molteplice scompaiono. L’Uno richiede però una intelligenza superiore, che non è più discorso razionale, ma visione intuitiva, anche se solo negativa: intelligere incomprehensibiliter, sapere di non sapere, dotta ignoranza. Il nostro autore ha ripreso dalla Repubblica di Platone la tripartizione delle facoltà conoscitive: sensus, ratio (ragione discorsiva), intellectus (noesis, visione intuitiva). Il vedere dell’intelletto è provocato in qualche modo dalla necessità della contraddizione, dalla necessità di superare il discorso della matematica che si regge sul principio di non contraddizione, unico principio su cui poggia il nostro sapere positivo. La visione intuitiva è 25 I, 4; ibid. 66. 16 solo sapere negativo. La conoscenza discorsiva e matematica provoca dialetticamente la visione intuitiva. Infatti Cusano giustifica così il ricorso alla matematica nella sua opera: se è vero che il Creatore può essere visto dalle creature come in uno specchio e in maniera enigmatica, il mondo astratto degli enti matematici serve allo scopo. In secondo luogo, come dicono i platonici, tra cui Agostino e Boezio, il numero fu nell’animo del Creatore il principale esemplare delle cose da crearsi. In terzo luogo scrive così il Cusano: “In primo luogo è necessario considerare le figure matematiche finite, con le loro proprietà e ragioni, e trasferire tali ragioni, corrispondentemente, alle figure infinite; dopo di ciò, in terzo luogo, trasferire più in alto le stesse ragioni delle figure infinite all’infinito semplice, sciolto del tutto anche da ogni figura. Ed allora la nostra ignoranza ci insegnerà, in maniera incomprensibile, come noi, che ci affatichiamo negli enigmi, dobbiamo pensare dell’Altissimo in modo più retto e più vero”26. Nel trasferire (trans-ferre) i concetti riguardanti una figura geometrica finita ad una figura geometrica infinita avviene una contraddizione: pensiamo ad un triangolo infinito. La figura triangolo ci richiama tre lati e tre angoli, ma un triangolo infinito non ha più tre lati, ma essi costituiscono una sola linea infinita. Dunque, un triangolo che non è triangolo. Nell’ambito della quantità avviene una contraddizione, nel momento in cui avviene il “trasferimento” sul piano dell’infinito: “Ciò che risulta impossibile nella quantità, vedi che è necessario”27. L’intelletto vede tale contraddizione come prodottasi necessariamente, ma per la ratio matematica e discorsiva essa rimane inconcepibile. Tale vedere è dunque “sapere di non sapere”. Nel terzo momento, poi, l’infinito quantitativo diventa il simbolo dell’infinito divino assoluto, ossia sciolto da ogni quantità. Allora l’esercizio della dianoia matematica porta alla visione della tenebra della negazione, che è la dotta ignoranza noetica. Il legame tra ragione ed intelletto, il misticismo della dotta ignoranza non spengono il desiderio di conoscere il mondo, ma lo incentivano. Si arriva all’ignoranza dotta solo approfondendo tutte le possibilità dell’unica nostra conoscenza positiva valida, che è quella matematica e mondana, anche se essa è sempre finita e relativa. Chiarito il problema della conoscenza, entriamo allora nella questione teologica. Il vedere ci conduce, non nonostante, ma grazie alla ratio matematica, oltre il principio di non contraddizione. Dio è attinto allora come l’assoluta identità con se stesso, l’unità indivisibile, l’assoluto, l’infinito, il divino; non il numero, ma l’Uno principio del numero. Dio è l’unità perché è il massimo coincidente col minimo. Dio è l’unità cui nulla si oppone, unità che non può diventare numero ma è tutto ciò che può essere. Scrive infatti: 26 I,12; ibid., 78 27 Ibid. 17 “Infatti, come il numero, che è ente di ragione, costruito dalla nostra facoltà di distinguere per comparazione, presuppone necessariamente l’unità come suo principio, cosicché senza unità è impossibile che ci sia numero, allo stesso modo la pluralità delle cose, che discende da questa unità infinita, sta ad essa così da non poter sussistere senza di essa … L’unità assoluta è entità, come vedremo poi”28 Cusano insiste nel dire che qui non si tratta di unità numerica. I numeri sono infatti costruzioni della nostra mente nell’ordine gnoseologico. L’unità divina è entità, è cioè ontologica, di essa l’unità numerica è solo il simbolo. Comunque non è una novità assoluta affermare che Dio è l’Uno, le tradizioni pitagorica e neoplatonica ci suffragano in questo. Però il teologo cristiano si chiede: “se il monoteismo cristiano è anche trinitario, fino a che punto si può allora applicare al Dio della rivelazione cristiana il paradigma dell’unità? E come? L’argomento centrale del De docta ignorantia riguarda allora il carattere trinitario di questa unità. Cusano riprende da Agostino una formula, che usa frequentemente: unitas, aequalitas, conexio o nexus. Gli esempi tratti dal mondo ci aiutano a capire questa connessione: l’alterità presuppone come suo principio l’unità, la disuguaglianza presuppone l’uguaglianza, la divisione presuppone l’unità della connessione. Unità, uguaglianza e connessione sono coeterni, sono tre eterni, ma una sola eternità. La dogmatica cristiana ci aiuta poi ad esprimere le relazioni tra i tre termini della Trinità: l’uguaglianza è generata dall’unità, la connessione procede da entrambe. Il nostro autore insiste sul dogma trinitario, perché la sua filosofia vuole accordarsi con la teologia cristiana, e perché ciò risponde anche alle esigenze del suo sistema. Il mondo è una complessità di relazioni in cui dominano alterità, disuguaglianza, divisione e necessita di un principio come modello ideale ed eterno di una relazione che non spezzi l’unità. Tale modello lo ritroviamo nel concetto di identità, che implica relazione tra due termini uguali, ossia il relazionarsi interno di un medesimo termine con se stesso. Il simbolismo matematico può aiutarci: l’unità è il principio di tutta la molteplicità dei numeri, il triangolo, nella relazione trina di angoli e lati, è il principio minimo di ogni possibile poligono, è il modello minimo e massimo di ogni altro poligono, è il minimo di relazioni tra angoli e lati, modello di ogni altra complessa relazione fra angoli e lati. La relazione trinitaria è principio e modello minimo-massimo di ogni possibile relazione tra le cose del mondo. Se la caratteristica degli enti nel mondo è di essere in relazione, vi deve essere un modello esemplare eterno. Il pensiero della Trinità è legato al mondo, è formulato creaturarum respectu. Chiarita la concezione teologica, vi sono delle precisazioni da fare. Cusano non approva la teologia positiva, non la ritiene appropriata per un discorso su Dio. La mente umana, infatti, è capace solo di distinguere, numerare delimitando una cosa dall’altra, entro la sua particolare misura individuale e limitata. La mente numera i finiti con i loro più e i loro meno, i loro eccessi e i loro gradi, coglie una verità approssimativa e approssimata, impone i nomi alle cose istituendo le distinzioni e individuando una cosa rispetto all’altra. Allora la teologia positiva non è appropriata 28 I, 5; ibid., 68. 20 dal possibile all’essere e coincide dunque con l’essere. Possest è proprio la fusione delle espressioni posse + est. Oltre al posse e all’esse, entra però in gioco, secondo la logica trinitaria, un terzo termine, il nesso dell’uno e dell’altro. La coincidenza di posse ed esse non avviene dunque sul piano del possibile, né sul piano dell’essere, e non è il risultato del coincidere di potenza e atto. La coincidenza è prima del costituirsi dei due termini, è principio che è al di là e al di sopra di essi e del positivo che in essi riusciamo a concepire. Il possest ci eleva al di sopra di noi stessi, alla visione mistica dove termina l’ascesa delle nostre facoltà conoscitive ed ha inizio la rivelazione del Dio ignoto. Posse ed esse solo ad un livello inferiore cominciano ad apparire e a distaccarsi l’uno dall’altro. Il Cusano, in questo modo, risponde ad un’obiezione: se il mondo poté essere creato, esiste da sempre la sua possibilità di essere. La possibilità di essere del mondo, nel sensibile, si chiama materia, che sarebbe un principio eterno e increato. Ma la possibilità increta, per il nostro autore, è lo stesso possest, non qualcosa di opposto al potere divino. La materia, dunque, non è principio, non è eterna né increata, e non è nemmeno principio creato. Nel 1462 Cusano scrive il De non aliud, o Directio speculantis seu de non aliud: esso è un dialogo in cui si mettono a confronto quattro impostazioni: il platonismo, il neoplatonismo di Proclo, l’aristotelismo e la teologia negativa dello Pseudo – Dionigi. Gli indirizzi di Proclo e dello Pseudo – Dionigi sono i prevalenti. Essi concordano nella dottrina dell’Uno, che è al di là di tutte le opposizioni e diversità, cosicché nulla gli è estraneo di ogni sfera dell’essere e del conoscere. Il nome “uno” non ha altro nome che gli si possa opporre; ed, essendo per noi incomprensibile, ha un più vero significato negativo. Dire “uno” significa negare ogni alterità rispetto a lui, quindi il suo nome più appropriato è non aliud. Sul piano logico, il non aliud è la definizione più perfetta, quella che definisce ogni cosa e definisce se stessa. Il “non – altro” è “non – altro che non –altro”, ogni cosa è se stessa e non – altro. In questo gioco di parole appare prima di tutto l’identità del definiente e del definito, che rivela l’identità e l’autosufficienza del principio. In secondo luogo, la triplice ripetizione del non aliud è per il nostro filosofo la formulazione dell’unitrinità divina. In terzo luogo, il non aliud appare contemporaneamente come il principium essendi et cognoscendi. La definizione che definisce se stessa è una definizione che si auto genera, è causa del proprio essere e della conoscenza di sé. Qui si palesa anche il concetto teologico della relazione trinitaria: Dio si genera nel proprio Verbo nella conoscenza di sé e nello Spirito nell’amore di sé. Anche in rapporto al mondo, oltre che in rapporto a se stesso, il non aliud è principio della realtà e della conoscibilità del mondo stesso. Se nulla è altro rispetto al non aliud, allora la realtà più profonda del mondo stesso e la sua più profonda intelligibilità è il non aliud stesso. Cusano cerca di rendere ciò più comprensibile prendendo l’esempio della luce: la luce genera e rende visibili i colori; l’essere del colore e la sua conoscibilità non sono altro che luce. Poi viene fatto un altro esempio: tutte le cose sono la volontà di Dio e sono state create dalla sua volontà, perché tale volontà non è altro che la ragione e la sapienza divina stessa così come nella colonna di Traiano vive la volontà dell’imperatore di manifestare ai posteri la sua gloria. La colonna non è volontà, ma non è altro dalla volontà di Traiano così come i colori non sono altro che luce. Che cosa si potrebbe concludere? Il mondo non è altro da Dio, sebbene non sia Dio. Le due cose sembrano contraddittorie, ma stanno insieme: le fa coesistere il metodo della dotta ignoranza. Per quanto 21 riguarda la conoscenza positiva e precisa, il mondo è altro da Dio e Dio lo trascende. Ma tale positività e alterità costituiscono l’aspetto fenomenico di una realtà più profonda, che non conosciamo se non come presenza misteriosa ed ignota di ciò che non è altro da nessuna cosa e, dall’interno, ne costituisce l’essere e l’intellegibilità. Siamo giunti allora ad un altro nodo, che riguarda teologia e cosmologia: quale rapporto tra Dio e mondo? Cusano, seguendo il metodo della dotta ignoranza, si rifiuta di cogliere Dio partendo dalla sua manifestazione o dalla sua creazione, sia essa il mondo, o l’uomo o entrambi. Questo era stato il modo di procedere del ragionamento a posteriori (cfr. Tommaso) che però si era rivelato debole di fronte alle critiche mosse dalle scuole scotiste ed occamiste del sec. XIV e degli inizi del sec. XV. Ma perché l’idea che noi abbiamo dell’Assoluto deve superare le capacità del nostro intelletto, oltrepassare le regole dei nostri principi logici, negare il principio di non contraddizione? Egli risponde che, se la nostra idea di assoluto non dovesse superare le capacità del nostro intelletto, se l’intelletto dell’uomo ne avesse un concetto adeguato e non approssimato, esso (l’intelletto umano) sarebbe della stessa natura di quello di Dio, per cui Dio non sarebbe la perfezione infinita così come noi non lo siamo. Se noi non riconosciamo i limiti della nostra conoscenza, che si muove nell’ambito della scienza dei numeri, della misura e della proporzione relativa, dove pure è validissima, cadremmo in un errore conoscitivo e morale: esso consiste nel mancato riconoscimento del limite e, dunque, nella superbia di crederci Dio. Il peccato è proprio questa arroganza mentale, questo delirio di onnipotenza. Dio è trascendente in maniera assoluta rispetto all’uomo, la sapienza divina trascende quella umana ma non per questo essa non è intellegibile o non esprimibile. Il rapporto Dio – universo ruota intorno alla categoria di contrazione. L’universo è il massimo contratto, cioè non assoluto come Dio, ma limitato, determinato, contratto. L’universo è il massimo contratto perché è determinato entro dei limiti che ne fanno qualcosa di uno. Da dove riprende il nostro filosofo il concetto di contrazione? Esso era presente nella scuola neoplatonica di Colonia, le cui dottrine derivano dall’insegnamento universale di Alberto Magno. Nelle opere di Teodorico di Friburgo ed in quelle di Duns Scoto, il concetto di contractio aveva avuto un’ampia applicazione nel senso di de – terminatio, ossia di determinazione, concretizzazione, individuazione, restrizione del comune o generale nell’individuo concreto o contratto. L’universo, dunque, non è infinito come Dio, bensì indefinito perché costituito da una molteplicità di forme o gradi, in cui l’unità è contratta nella pluralità. Nell’universo, massimo contratto, si ritrova, inoltre, la stessa intelligibilità triadica del massimo assoluto, secondo però le applicazioni permesse dal concetto di contrazione: contraente, contraibile, la connessione dell’uno e dell’altro, oppure modo d’essere della possibilità, modo d’essere della necessità, modo della determinazione attuale. Da tutti e tre deriva un unico modo universale di essere, che è l’universo. Il mondo è allora una universalità massima che però non è assoluta, come Dio, ma contratta e la sua finitezza non è qualcosa di estremamente determinato, ossia contratto in modo assoluto, ma è contratto in modo indeterminato, senza limiti. La contrazione dell’universo, pertanto, non è determinata in senso assoluto, cioè non ha limiti definiti. L’universo è concepito allora come 22 infinito privativo che sta ad indicare un universo che non sarebbe racchiuso entro termini stabiliti. Un corollario di questa concezione dell’universo è il venir meno della centralità della terra, per concedere invece la possibilità di altri mondi e di altri centri. In questo rapporto, allora, solo a Dio conviene l’uguaglianza assoluta mentre nell’universo è assente la precisione assoluta, in esso si può sempre pensare un più ed un meno di ciò che è, e non si arriva mai ad un massimo o ad un minimo che tra loro possono coincidere. L’unità dell’universo è infinità privativa, unità contratta nella molteplicità degli enti, unità della molteplicità come l’armonia musicale. Dio è unità nella quale la molteplicità scompare unificata. Poiché la molteplicità è indefinita, l’unità dell’universo è infinita in senso privativo. Come deriva allora l’universo da Dio? L’universo deriva dall’essere ed è prima del nulla; ma non è l’essere e ciò che in esso non è essere non deriva tuttavia dal nulla. L’universo deriva dalla necessità divina ma non è un ente necessario: da dove la sua contingenza? L’essere divino è un creare; il mondo dovrebbe dunque essere eterno, mentre invece è temporale. Se Dio è la forma essendi, come riuscire a comprendere che egli non si mescola alle creature? Forma essendi è un concetto mutuato da Teodorico di Chartres: come il calore è la forma del riscaldare, come il chiarore è la forma del risplendere, così anche Dio è la forma dell’essere. Dio è forma esemplare, è forma esemplare unica per l’immensa varietà del molteplice. Dio è l’infinito, e tuttavia ricevuto finitamente. Anche se in maniera intellegibile, il discendere dell’universo da Dio comporta un ricevere in discesa, in diminuzione: da qui i caratteri della negatività, della finitezza, della contingenza, della temporalità. Ed i concetti di complicazione ed esplicazione? L’unità numerica complica tutti i numeri, cioè li contiene in sé, nella propria potenza, non allo stato di numeri particolari e determinati, ma come unità. I numeri hanno il loro essere più vero nell’unità complicante, che ne è il principio. L’unità poi esplica i numeri, cioè li trae all’essere da sé, dalla propria potenza; e anche i numeri esplicano l’unità, perché il loro essere non è che l’unità stessa, determinata in questo o quel numero. Dio è allora complicazione ed esplicazione dell’universo. La esplicazione di Dio nelle cose non è uno sviluppo, un potenziamento di Dio, come se egli fosse un germoglio che si esplica nella pianta; è invece una contrazione dell’essere divino, un suo depotenziamento e una sua diminuzione. Scrive infatti il Cusano: “L’unità assoluta è sciolta infatti da ogni pluralità. Ma l’unità contratta, che è l’unità dell’universo, sebbene sia unità massima, essendo contratta, non è sciolta dalla pluralità, anche se è vero che non c’è che un solo massimo contratto. Sebbene dunque l’universo sia massimamente uno, la sua unità è tuttavia contratta dalla pluralità, come l’infinità è contratta dalla finitezza, la semplicità dalla composizione, l’eternità dalla successione, la necessità dalla possibilità, e così via”31. Sempre riguardo la derivazione dell’universo da Dio per contrazione, il nostro autore rifiuta l’ipotesi di derivazione neoplatonica di una esplicazione di Dio nell’universo per gradi: prima l’intelligenza, poi l’anima mobile, poi la natura. Egli afferma invece la simultaneità della creazione 31 II, 4; ibid: 121. 25 “Nessuno riesce ad intendere come Dio sia esplicato dalla molteplicità delle cose, dato che l’essere dell’unità divina non esiste in virtù dell’intelletto che astrae dalle cose e non è unito o immerso nelle cose. Se consideri le cose senza di Lui, le cose sono nulla come il numero è nulla senza l’unità. Ma se consideri Lui senza le cose, Egli tuttavia sussiste mentre le cose sono nulla. Se consideri Lui in quanto è nelle cose, credi che la cosa sia alcunché in cui ci sia Lui. E sbagli, come è evidente dal capitolo precedente, perché l’essere della cosa non è qualcosa d’altro, per cui essa sia già di per sé cosa diversa da Dio, ma il suo essere è un dipendere dall’essere divino. E se invece consideri la cosa come è in Dio, là essa è Dio stesso e la stessa unità”33. In questo modo il nostro filosofo salva la trascendenza assoluta di Dio rispetto l’universo-mondo, e mette in secondo piano la sua immanenza nel mondo. Un’ultima considerazione va fatta in merito alla cristologia del Cusano. L’universo – mondo è da egli definito come infinito privativo, massimo contratto, ma non in modo assoluto. L’universo non può essere allora la manifestazione immediata di Dio. Tra Dio, massimo e infinito, l’unico nella cui assoluta unità infinita coincidono senza opposizione dell’ente gli opposti, il massimo e il minimo assoluti, e l’universo contratto, perciò finito e creato, diventa necessaria una mediazione. L’unica mediazione possibile avviene nella persona di Cristo, il Mediatore per eccellenza, l’unico che sia insieme assoluto e finito, divino e umano. Gesù Cristo realizza l’unità ipostatica dell’assoluto e del creato e può permettere l’elevazione della natura finita e creata all’unità con quella assoluta e increata. In Cristo si realizza l’unione ineffabile dell’unico esemplare assoluto, che è Dio, Uno, il Padre, e perciò il Figlio di Dio, esemplare Lui stesso e quindi Dio, e dell’immagine o similitudine dell’esemplare in quanto uomo. La mente dell’uomo è creata a similitudine e ad immagine del verbo divino; per questo potrà, come Dio crea gli enti, creare a sua immagine, traendole da sé, le nozioni delle cose, ossia i numeri e le misure di esse. L’uomo sarà dunque il creatore di una scienza quantitativa dell’universo, come Dio è creatore della sua realtà. L’unione del divino e dell’umano nella persona di Cristo è spiegata dal Cusano con i concetti di massimo assoluto e di massimo contratto. L’universo è contratto in maniera indeterminata e non assoluta, in Cristo invece l’umanità si è trovata contratta in modo assoluto e massimo, e tale massimità della sua contrazione e determinazione ne assicura l’unione con la massimità, ossia con il massimo infinito e assoluto che è Dio. In Gesù Cristo noi abbiamo il contratto in modo assoluto, cioè il contratto massimamente determinato. In Cristo si realizza la coincidenza tra creatura e creatore: “Ora codesta natura media è proprio l’umana, la quale per opera di Dio è stata sollevata sopra tutte le cose ed è di poco inferiore alla natura angelica, complicando in sé la natura intellettuale e quella sensibile, e radunando nel proprio ambito tutto ciò che esiste, sì da esser giustamente chiamata sin dagli antichi microcosmo o piccolo mondo”34. 33 II, 3; ibid., 119. 34 III, 3; ibid., 166. 26 La riflessione sulla mediazione di Cristo scardina ancor di più l’accusa di panteismo. In più, l’esaltazione della massimità dell’umanità di Cristo porta anche all’esaltazione dell’umanità e delle sue potenzialità, esprime un’alta fiducia nell’uomo. Cusano ne riprende la definizione di microcosmo: nel sec. XII lo definivano così Galeno, Macrobio, Calcidio, Bernardo Silvestre, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, in quanto microcosmo naturale, ossia perché in esso si riflette l’universo. Il nostro autore lo definisce così a partire dalla cristologia: l’uomo è Dio secondo, occasionato (secondo una categoria dell’ermetismo), immagine di Dio tramite Cristo. Per questo la mente umana può costruire e ricostruire il grande cosmo. In Cristo l’uomo può farsi Dio, elevarsi alla massimità assoluta attraverso l’unico mediatore, colui che unisce il finito e l’infinito, Gesù Cristo. L’uomo può pregare Dio, rimasto a lungo sconosciuto e inaccessibile, perché Egli si è rivelato nell’uomo Gesù. L’uomo può cogliere Dio e “deificarsi” nella sua interiorità. Nella deificazione l’uomo si fa Figlio di Dio, al di là della ragione e del senso, chiudendosi nella visione intellettuale. Partendo da sé e dalla propria mente l’uomo coglie Dio in sé tramite Cristo. L’uomo è allora microcosmo, ma perché vuole essere solo uomo, non angelo, non un’altra natura. Egli può trovare la felicità solo in se stesso, nel proprio perfezionamento interiore. In Cristo la natura umana raggiunge il suo modello, realizza l’aspirazione all’eternità. L’uomo, cioè, non è più una possibilità realizzata, ma diviene una realtà eterna, trova dunque ciò che c’è di divino in lui. Dio si fa immanente nel mondo per Cristo, e l’uomo si unisce immediatamente a Dio in Cristo. COPERNICO (1473-1543) Comincia a divulgare le sue idee a partire dal 1503, un estratto delle sue teorie (Comentariolus) circola a partire dal 1530, nel 1543 è pubblicata l’opera De Revolutionibus orbium caelestium. L’ipotesi geocentrica di Tolomeo si accorda difficilmente con l’osservazione dei fenomeni celesti: è poi assurdo che l’intero universo giri attorno a quel punto insignificante che è la terra. In base al principio della relatività del moto (il mutamento nello spazio va valutato in base al movimento della cosa osservata e a quello di colui che la osserva) egli ipotizzò il triplice moto della terra (intorno al proprio asse, intorno al sole, rispetto al piano dell’ellittica. Egli mantenne le tesi aristotelico – tolemaiche dell’esistenza delle sfere celesti e della finitezza dell’universo delimitato dal cielo immobile delle stelle fisse. 27 Le origini della scienza moderna Una delle conseguenze della frantumazione della sintesi scolastica, ma anche grande e nuovo fenomeno spirituale per l’Occidente, è la nascita della scienza moderna. Essa si rivolge non più al tutto della realtà, come la Fisica della precedente tradizione, ma alle singole parti, per conoscerle e dominarle. La scienza moderna è un conoscere e un agire che isola la parte dal contesto in cui si trova. Non è più mera contemplazione. Per esempio con Galileo Galilei (1564-1642) inizia la dinamica moderna: il movimento dei corpi viene considerato separatamente dall’insieme degli eventi che lo accompagnano o di quelli che possono condizionarlo (la resistenza, l’attrito, …). La scienza moderna segue tale metodologia. Essa muove da un’ipotesi che associa un fenomeno B ad un fenomeno A secondo la relazione di causa – effetto. La verità di tale ipotesi consiste nella sua corrispondenza alla realtà e va dimostrata. La dimostrazione non consiste più nel sillogismo aristotelico, ma in un insieme di operazioni pratiche, che costituisce l’esperimento. L’esperimento isola il fenomeno considerato nell’ipotesi e lo riproduce. Galileo si applicò alla caduta perpendicolare dei corpi nel vuoto: non aveva ancora a disposizione la pompa ad aria per creare il vuoto, che verrà inventata 12 anni dopo la sua morte, nel 1654, ma fece cadere contemporaneamente, dall’alto della Torre di Pisa, una palla dal peso di una libbra e una palla di cento libbre, e osservò che la seconda, la più pesante, toccò il suolo con un brevissimo anticipo sulla prima. Tale esperimento falsificò la tesi aristotelica secondo la quale la velocità di caduta dei corpi sarebbe direttamente proporzionale al loro peso (in questo caso il rapporto dei tempi di caduta sarebbe dovuto essere 1/100). Invece, la velocità di caduta dei corpi nel vuoto è uguale (il piccolo scarto è dovuto alla resistenza dell’aria, visto che era ancora impossibile realizzare il vuoto pneumatico). Il fenomeno viene isolato per conoscerne il funzionamento: non a caso per Francesco Bacone (1561-1626) la scienza è dissezione della natura. Ma ogni azione umana che vuole raggiungere uno scopo ha tutti i caratteri dell’esperimento scientifico: essa isola certe parti della realtà e le scioglie dalla rete di rapporti in cui si trovano con l’intero universo. Una riflessione sulla struttura dell’azione umana era già presente nel pensiero greco (cfr Etica di Aristotele: phronesis, deliberazione …). Ma in che cosa si distingue l’esperimento scientifico dalle altre azioni dell’uomo miranti ad uno scopo? La scienza moderna non isola qualsiasi aspetto parziale della realtà, ma solo la realtà che diviene, la natura, e perciò vuole costituirsi come fisica. Essa prescinde perciò dalla metafisica e da ogni rivelazione soprannaturale, cioè considera solo ciò che è interno alla natura. Della natura, poi, essa coglie solo gli aspetti quantitativi e prescinde dalle qualità: colori, suoni, sapori, odori, caldo, freddo non esistono in sé nella realtà vera e propria, ma dipendono dal nostro modo di percepire. Già Democrito, in qualche modo, aveva distinto tra qualità primarie e qualità secondarie: per la scienza moderna le prime indicano la realtà degli aspetti quantitativi mentre le seconde il carattere soggettivo e convenzionale degli aspetti qualitativi. I corpi sono costituiti in un certo 30 perché riproduce realmente le condizioni di isolamento di un certo fenomeno, e quando esso scopre la legge secondo cui il fenomeno si realizza, mette l’uomo in grado di dominare metodicamente la natura. Ecco perché, per Bacone, la scienza instaura il regnum hominis nel mondo37. Certo, in queste finalità attribuite alla scienza (nobilitare, perfezionare la terra, regnum hominis), sembra emergere un livello di realtà e di giudizio diverso dal mero livello empirico: non si tratta di un giudizio scientifico, ma di un giudizio religioso e morale. La scienza moderna rimane comunque nell’ambito del realismo: la realtà vera e propria esiste indipendentemente dalla conoscenza umana, è esterna alla mente dell’uomo ed è conoscibile dall’uomo nel suo aspetto matematico. Tra scienza moderna e pensiero greco, o ontologia greca, che tipo di rapporto sussiste? Si tratta di una rottura completa o di una continuità? Emerge qualcosa di nuovo a scapito dell’antico? In realtà tutti gli elementi del metodo della nuova scienza erano già presenti nella metafisica e nella fisica dei greci. Nuova è la sintesi in cui sono uniti, nuovo è il concetto di un sapere operativo che conosce incontrovertibilmente una dimensione particolare della realtà: la sua struttura quantitativa isolata da ogni contesto. Ma non possiamo non accorgerci di una comunanza di fondo: la scienza moderna continua ad usare le categorie dell’ontologia greca. Un esempio. Nel 1610 Galileo pubblicò il Sidereus Nuncius nel quale, grazie alle osservazioni fatte mediante un telescopio, un cannocchiale che si era fabbricato, annunciò una scoperta che sconvolse il mondo della cultura: anche i corpi celesti sono corruttibili. Aristotele faceva rientrare i corpi celesti fra le sostanze materiali ma incorruttibili, perché fatte di una materia particolare, l’etere. Galileo avrà tribolazioni dopo l’annuncio di tale scoperta, e l’individuazione delle macchie solari procede nella stessa direzione. Anche se questo annuncio confuta una tesi cardine della fisica aristotelica, esso non mette però in discussione le categorie aristoteliche di corruttibilità e incorruttibilità, del divenire e dell’immutabile. Il senso greco del divenire dell’ente è alla base della scienza moderna38. La nuova scienza, comunque, prescinde dal mondo umano e da ogni spiegazione metafisica e teleologica, considera il divenire come un meccanismo dove il movimento di ogni parte è determinato dal movimento di un’altra parte, ma non si chiede l’origine e lo scopo del movimento. Anzi, la nuova scienza sembra lasciare alla religione cristiana la comprensione dell’origine e dello scopo della vita umana. 37 E. SEVERINO, La filosofia moderna, BUR, Milano 1994, 21-35. 38 Ibid., 34. 31 Tale dinamica di isolare una parte dal tutto e di rilevare gli aspetti misurabili o pianificabili o organizzabili caratterizza l’epoca moderna. La troviamo applicata all’ambito della politica considerata in se stessa e separata dalla morale e dalla religione (giusnaturalismo, Machiavelli, Hobbes …). Più tardi, con l’enfasi dei successi riportati dall’applicazione del modello meccanicistico alla realtà naturale, si tenterà di costruire l’intero edificio filosofico sul modello della scienza naturale. Il metodo scientifico verrà applicato ai campi tradizionali dell’indagine filosofica e la concezione meccanicistica diventerà una vera e propria metafisica, un dogma filosofico. La scienza acquista una sua autonomia, anche legittima, ma tale autonomia può significare separazione completa dalla questione del senso? Può la scienza essere completamente staccata dalla questione del bene? Gli aspetti quantitativi della realtà sono senza nessun punto di contatto con gli aspetti qualitativi? Questa non era comunque l’intenzione di Bacone e Galilei. Lo stesso Bacone non è promotore di un tecnicismo moralmente neutro o di un progresso ad ogni costo, ma è animato dallo spirito di carità e il suo progetto di riforma del sapere rientra in un’opera di redenzione del genere umano. Egli, riferendosi anche ai miti fondativi della nostra cultura, si interroga sull’origine e sull’essenza della natura39. Si può comandare alla natura solo obbedendole. La natura ha avuto origine dal Verbo divino attraverso l’interposizione della materia confusa, anch’essa creata da Dio, e poi si sono insinuate la prevaricazione e la corruzione. Alla base della natura ci sono infiniti e molteplici individui che si raccolgono in specie e generi e si riducono di numero finché la natura sembra fondersi nell’unità. Al vertice vi sono poi le idee universali per il cui tramite ci si avvicina a Dio. L’ispirazione del pensiero di Bacone è evidentemente platonica. La natura si compone in armonia, è la concordia mista alla discordia, è perfetta e autosufficiente come la vera filosofia, sua immagine riflessa. Bacone individua nella natura una forza originaria e unica che dalla materia costituisce e produce tutte le cose, la legge suprema della Natura che la mantiene unita sottomettendosi a Dio. Tale forza non è effetto di alcuna causa, è lo stimolo della materia prima: si tratta del movimento naturale di cui in natura non c’è alcuna causa. L’unica causa è Dio, che lo introduce nelle prime particelle delle cose per tenerle unite. Si tratta della legge suprema della natura. La struttura quantitativa della realtà, l’organizzazione delle particelle è senza previdenza e non sa rendere conto dell’ordine e della bellezza secondo una legge certa e necessaria. Solo la Provvidenza divina sa trarre ordine e bellezza da cose prive di previdenza. Il nostro autore, pur ispirandosi anche all’atomismo di Democrito, ne prende anche le distanze, per riaffermare le ragioni del Provvidenzialismo cristiano. È più corretto dire che egli adotta una concezione dinamicistica, piuttosto che meramente meccanicistica, della struttura delle cose. Chiaramente, l’origine della scienza moderna porta una novità nella concezione della verità. Fino ad allora la verità era legata al principio di autorità: ipse dixit. Egli, invece, alla luce del nuovo metodo scientifico, dice: veritas filia temporis. I contemporanei hanno una maggiore conoscenza del mondo rispetto agli antichi. Anzi, occorre purificare l’intelletto dagli idoli, dagli idola tribus, comuni a tutti gli uomini, dagli idola specus 39 BACONE, De sapientia veterum; tr. it. M. Marchetto, Sapienza degli antichi, Bompiani, Milano 2000. 32 propri di ciascun individuo e legati all’educazione, alle abitudini, ai casi fortuiti in cui ci si viene a trovare, dagli idola fori che derivano dal linguaggio (nomi di cose che non esistono o nomi di cose confusi e male determinati), gli idola theatri che derivano dalle dottrine filosofiche o dalle dimostrazioni sbagliate. Ci sono delle false filosofie da criticare: la filosofia sofistica adatta il mondo naturale alla logica, la filosofia empirica spiega ogni cosa per mezzo dei pochi e ristretti esperimenti, la filosofia superstiziosa si mescola alla teologia. Nell’indagine dei fenomeni, principale, in Bacone, è la ricerca della causa formale. La forma è la causa delle cose naturali. In ogni fenomeno naturale si distinguono uno schematismo latente, cioè la struttura e l’ordine dei corpi considerati staticamente, e un processo latente, il movimento intrinseco dei corpi che li porta a realizzare la forma. La forma è la struttura che costituisce essenzialmente, individua, definisce un fenomeno naturale. Essa è la legge che regola il movimento di generazione e produzione del fenomeno. La forma è differenza vera che individua la struttura di una realtà materiale e natura naturante che regola il movimento di produzione di un fenomeno. La forma rimane sempre interamente risolvibile in elementi naturali. Egli ridimensiona il ruolo della matematica. Excursus storico – filosofico: la scienza e la filosofia della scienza fino al XX sec. a. Le scienze … Può essere utile a questo punto adottare una prospettiva diacronica e cogliere le linee di fondo dello sviluppo della scienza e della sua auto – comprensione fino al sec. XX. Noteremo un notevole e significativo cambiamento, pur non negando il peso che la scienza moderna ha avuto nel caratterizzare l’autocoscienza dell’Occidente. La scienza moderna, a partire dalle sue origini, e con essa la tecnica, progrediscono. Abbiamo già intravisto come con la nascita della scienza moderna si instaura un rapporto nuovo e inedito tra conoscere e fare: la tecnica non è l’ambito di applicazione delle conoscenze ma si conosce operando e si opera conoscendo. L’agire sulla realtà permette di conoscerla e la stessa conoscenza è costruzione di un sistema di categorie che riflette e scruta gli aspetti quantitativi della realtà. Nell’apogeo dello sviluppo della scienza e dell’agire tecnologico, il rischio per la filosofia diventa la rincorsa della scienza, il volersi strutturare come questa forma di sapere esatto, l’autofondarsi come sapere scientifico. È sensato, è vero solo ciò che è verificabile. La tecnica diventa il modo di darsi del reale e del rapporto con esso nella contemporaneità: l’ente è lo sfondo manipolabile da parte del soggetto (cfr. Heidegger). All’inizio del XX sec. Husserl arriverà a constatare che la scienza 35 Il problema serio è un ulteriore dualismo antropologico che il nostro autore eredita dalla tradizione psicologistica inglese, in particolare dal suo maestro Hutcheson e che cerca di comporre in una strategia di armonia perché l’uomo non ne resti dilaniato: “Tuttavia, rimanendo sul terreno della semplice rivelazione empirica, si dava luogo a una difficoltà, che, presente implicitamente in Hume, era già stata abbastanza esplicita in un altro filosofo inglese, Hutcheson, il maestro di Smith all’università di Glasgow: anche Hutcheson rivendica l’originarietà del senso morale e, mostrando come tutte le azioni umane siano riconducibili ai due moventi, reciprocamente indipendenti, dell’egoismo e dell’altruismo, pone implicitamente in luce la presenza di un dualismo profondo nella struttura psicologica degli uomini, dualismo la cui irresolubilità veniva resa tanto meno facilmente superabile, nell’impostazione empiristica, in quanto i due opposti moventi erano considerati come dei dati ultimi non ulteriormente analizzabili … Con Adam Smith il dualismo proprio dell’etica psicologistica inglese viene … cristallizzato, ma in certo senso anche riscattato, giacché la separazione del comportamento umano in due zone, in una delle quali, quella morale, l’utilità dei singoli e della società si consegue mediante l’esercizio della simpatia, e nell’altra, quella economica, la medesima utilità si consegue mediante l’esercizio dell’egoismo, poteva far sperare nella possibilità di evitare ogni conflitto tra le due facoltà”43. Con Smith abbiamo un altro evento rilevante dell’epoca moderna, la fondazione del campo autonomo dell’economia. Esso è possibile grazie al self-love dell’uomo, alla scoperta che l’egoismo non sarebbe affatto un elemento disgregatore nei confronti della società, ma potrebbe invece essere un elemento di ordine e di sviluppo. Egli cerca di spiegare come il libero esplicarsi delle forze individuali sul terreno economico dia luogo alla costituzione e allo sviluppo della società economica. La società civile diventerebbe il luogo economico della conciliazione. Altri autori anglofoni si porranno il problema di come conciliare il self-love, irrinunciabile sul terreno economico, con la benevolence, irrinunciabile per la dimensione morale. Tutti propongono una risposta politica: tocca alle istituzioni, in quanto costituzione di libertà, designare una società politica che non sia solo Stato, come in Hobbes, ma solidarietà tra individui autonomi. Pur con tutte le dovute precisazioni Smith fonda il campo autonomo dell’economia sull’egoismo, sul primato del proprio interesse, anche se ciò non deve tagliare fuori l’altro dai vantaggi e dalla crescita della ricchezza. Storicamente lo stato o le istituzioni, chiamate ad essere garanti di eticità, sono riuscite ad impedire all’egoismo di essere forza distruttiva e a renderlo principio di interazione e di sviluppo? Non assistiamo forse oggi ad istituzioni che perdono ogni credibilità proprio in rapporto all’eticità? Smith non prende posizione nei confronti della religione, ne ha una considerazione puramente funzionale in quanto potrebbe contribuire, se purificata dagli eccessi di fanatismo e di superstizione, all’ordine perseguito dalla stessa economia. Lo Stato deve sempre porsi come garanzia di eticità, tollerando le molteplici sette ed impedendo che alcune diventino egemoni sulle altre. Ma la redenzione dell’uomo è affidata all’ordine che sta dietro il sistema 43 C. NAPOLEONI, Smith-Ricardo-Marx: considerazioni sulla storia del pensiero economico, Bollati Boringhieri, Torino 1970, 49. 53-54. 36 economico e alla conoscenza di esso: Dio non è più necessario per salvare l’uomo dal proprio egoismo e la “mano invisibile” che sta dietro al mercato o all’organizzazione economica garantisce l’equilibrio tra egoismo e simpatia e la necessaria interazione tra gli individui per tutelare l’interesse di ognuno e quello della società. Anche se la morale rimane una sfera autonoma, l’economia così concepita offre il paradigma dell’ordine che l’uomo moderno persegue, anche per il suo vivere in società: un’organizzazione basata su interazioni interessate e matematicamente organizzate. L’antropologia da cui muove Smith sembra aver condotto ad un esito molto diverso e ad una nuova “divinità sacrificale”. Oggi l’idolo cui l’uomo ha sacrificato il tempo, dietro l’invito all’ottimizzazione di esso in vista della produzione, e la dignità, è l’economia di mercato, e, dietro di essa, il denaro. Il denaro, non più l’uomo, sta diventando la fonte di ogni significazione e significato, la misura del reale, di fronte alla quale oggi le persone sono dette “risorse”, se in grado di produrre, o “esuberi” o “esodati” se non più in grado di produrre o di essere accolti dal sistema. Lo stesso stato, e le altre istituzioni etiche hanno fatto naufragio nei confronti dell’economia di mercato. Nessuno è riuscito ad evitare che l’egoismo dell’individuo, assunto a principio e liberato dalla valutazione morale negativa, possa tagliar fuori l’altro non solo dalla ricchezza, ma dal necessario per vivere. Del resto sappiamo bene che l’economia di mercato non è l’unico modello economico pensato e pensabile: altre prospettive antropologiche nella contemporaneità aprono modelli economici alternativi (economia di comunione, economia del bene comune, economia “gandhiana” …). La geometria si ripensa criticamente. Dai nostri studi ricordiamo perfettamente il postulato V di Euclide, altrimenti detto delle parallele: “Per un certo punto non può passare che una sola parallela ad una retta data”. Fin dal sec. XVIII si è intravista la possibilità di costruire geometrie che non si fondassero su quel postulato. Gauss, nel 1830, affermò che una geometria non euclidea non ha in sé nulla di contraddittorio e può essere sviluppata con lo stesso rigore e con la stessa ampiezza di quella euclidea. Il russo Lobacevskij e l’ungherese Bolyai elaborarono nel sec. XIX teorie geometriche non euclidee e perfettamente coerenti. Essi asserivano che “in un punto passavano infinite parallele ad una retta data”. Riemann, nel 1855, variando opportunamente il postulato V ottenne una terza geometria, la geometria di Riemann. Essa invece esige che “non vi sia nessuna parallela ad una retta data”. Da tutto questo si evidenzia che si danno molteplici possibilità di organizzazione dello spazio in quanto le proposizioni fondamentali della geometria non sono assiomi o verità evidenti, ma solo ipotesi che possono essere scelte o variate per raggiungere o una maggiore specificazione, o una generalizzazione più vasta. In seguito la geometria è stata collegata alla teoria dei gruppi (Klein e il Programma di Erlagen del 1872) per mostrare che la geometria è lo studio delle proprietà invarianti rispetto ad un gruppo di trasformazioni. Al primo apparire delle geometrie non euclidee ci si rifiutò di credere all’uguale validità di queste rispetto a quella euclidea, e si voleva ricorrere all’esperienza per assumere il criterio in base al quale decidere quale delle geometrie possibili fosse quella vera. Tale tentativo si rivelò impossibile perché la scelta di metodi o strumenti con cui effettuare le misure relative già 37 presuppongono la scelta di una geometria determinata. Avviene così la rinuncia al concetto di verità della geometria, cioè della sua corrispondenza con la realtà empirica. La scelta di una determinata geometria per gli usi della scienza naturale e della vita è pura questione di utilità. Nessuna geometria è più vera dell’altra ma tutte hanno verità logica per la coerenza intrinseca del loro linguaggio. David Hilbert nel 1899 diede forma assiomatica alla geometria e la unì al corpo delle matematiche. Egli mantenne tre punti fermi: 1. l’oggetto della geometria non sono le proprietà necessarie di uno spazio dato ma le proprietà che risultano invarianti rispetto a questo o quel gruppo di trasformazioni 2. i principi da cui una geometria muove non hanno evidenza o necessità ma risultano dalla scelta suddetta e valgono solo semplicemente come ipotesi che possono essere sempre opportunamente variate 3. tali ipotesi sono regole che guidano la deduzione e definiscono la sintesi del linguaggio geometrico. Anche la fisica si ripensa criticamente. L’orientamento relativistico si presenta soprattutto con Albert Einstein (1879-1955). Egli dichiara di ispirarsi agli scritti filosofici di Hume e Mach. Ripetute misure sperimentali avevano constatato la costanza della velocità della luce. Questo appariva in contrasto con la meccanica classica, secondo la quale la velocità dei corpi che si muovono in direzione opposta si addizionano, per cui la luce proveniente da astri lontani verso i quali la terra è in movimento avrebbe dovuto viaggiare più velocemente di quella proveniente dagli astri dai quali la terra si sta allontanando. Perché invece la velocità della luce è costante? Forse gli strumenti di misura (orologi, regoli …) che si trovano in movimento veloce subiscono deformazioni? Per la prima volta nella fisica Einstein introdusse una considerazione critica degli strumenti di misura, dell’osservatore e delle sue possibilità. Nel 1905 egli introdusse così la relatività ristretta: essa prima di tutto afferma che la distanza spaziale o temporale non è un’entità a sé o un valore in sé ma è relativa al corpo che si sceglie come sistema di riferimento; in secondo luogo non esiste un sistema di riferimento assoluto o privilegiato. Due eventi possono essere simultanei per un sistema di riferimento e non esserlo per un altro che ha una diversa velocità di movimento rispetto al primo. Per questo motivo la teoria della relatività ammette l’esistenza di leggi, che sono le equazioni differenziali, che consentono di operare il passaggio da un sistema di riferimento all’altro. La suddetta teoria non ha più davanti a sé l’uniformità del fenomeno, che era l’oggetto della scienza moderna (lo schematismo latente di Bacone), ma l’uniformità delle leggi fisiche che consentono di mettere in relazione fenomeni diversamente percepiti. Essa studia la variabilità di un fenomeno percepito da osservatori diversi, ma percepisce anche l’invarianza delle leggi che colgono fenomeni diversi. L’oggettività viene trasferita dai fenomeni alle leggi. Le equazioni differenziali, rispetto a quelle adoperate nella fisica classica, sono meno categoriche e più generiche. Nel 1912 Einstein estende la teoria della relatività ai sistemi gravitazionali, utilizzando cioè una nozione di spazio diversa da quella della geometria euclidea, una nozione astratta e generalizzata. Nasce la teoria della relatività generale, che supera la teoria della forza di gravità di Newton, e spiega la traiettoria curva seguita nel movimento dai corpi grazie alla misurazione di un certo numero di coefficienti. Per questa teoria il nostro scienziato si avvale del concetto di campo, elaborato nell’ambito dell’elettrologia: così facendo egli supera un’altra differenza fondamentale per la fisica classica, quella tra materia ed energia. L’interpretazione relativistica considera i corpi 40 si corrisponderebbero esattamente). Così è la serie naturale dei numeri come insieme infinito: la corrispondenza biunivoca tra numeri quadrati, numeri primi … come infiniti di diverso ordine e gradazione. Un’altra questione è: esistono i numeri matematici? Che tipo di esistenza hanno? A quali oggetti o fatti corrispondono? Cantor ha distinto l’esistenza dei numeri in quanto immagini di processi e relazioni che accadono nel mondo esterno, dalla loro esistenza come entità intellettuali che, grazie alla loro definizione, prendono un posto perfettamente determinato nel nostro intelletto e sono perfettamente distinti da tutti gli altri costituenti il nostro pensiero, hanno relazioni definite con essi e così modificano la sostanza del nostro spirito. Essenziale per gli oggetti matematici è il secondo tipo di esistenza, una esistenza logico – oggettiva. Gli enti matematici sono così ridotti ad enti logici. Come si ripensa la psicologia moderna? Husserl, nella sua opera La crisi delle scienze europee e l’idea di una fenomenologia trascendentale, sostiene che la psicologia è la scienza che più delle altre ha registrato tale crisi perché ha voluto strutturarsi cadendo nell’errore dell’oggettivismo. Non è facile confutare tale tesi, essa rispecchia una notevole parte di verità. Con Fechner e Wundt la psicologia si costruisce come psicofisica, cioè come scienza esatta delle relazioni funzionali o relazioni di dipendenza tra lo spirito e il corpo. Questa scienza si affidava alla introspezione come osservazione dei fenomeni interni o stati di coscienza e alla osservazione fisiologica per osservare le correlazioni di tali fenomeni con quelli fisici. Con Pavlov e Watson, nel 1914, viene messa in dubbio l’introspezione come strumento di indagine scientifica. Watson espone invece la tesi del comportamentismo secondo la quale l’indagine psicologica deve essere limitata alle reazioni oggettivamente osservabili. Non si può parlare scientificamente di ciò che sfugge ad ogni possibilità di osservazione oggettiva di controllo. La psicologia può solo scoprire le connessioni causali tra l’ambiente esterno, che fornisce gli stimoli, e la reazione dell’organismo. Entrambi questi ordini di eventi sono osservabili e misurabili. Sembra poi svilupparsi una direzione apparentemente opposta a quella fin qui seguita. Con Freud (1856-1939) nascono le cosiddette psicologie del profondo. Tali psicologie scelgono un nuovo strumento di indagine, che non è più il comportamento, ma la confessione della persona in cui lo psicanalista cerca di trovare i segni e i sintomi dei conflitti latenti che hanno la loro origine in eventi passati della vita del soggetto. Nell’uomo è presente un istinto fondamentale, di natura genericamente sessuale, detto libido che tende indiscriminatamente al piacere e che entra in conflitto con i divieti, le proibizioni, i comandi, le censure che costituiscono la trama o il risultato della vita sociale. Tale conflitto tenta di rimuovere la libido ed è l’unico vero protagonista della vita individuale e sociale dell’uomo. Sia le manifestazioni patologiche della vita (in cui l’istinto si prende la rivalsa contro le proibizioni), sia le manifestazioni normali e più elevate (come arte, religione e scienza, in cui l’istinto trova sublimazione, perché è trasferito su altri oggetti), scaturiscono dal conflitto scatenato dalla libido. I termini del conflitto sono l’Es, costituito dagli impulsi molteplici della libido e dal Super Ego, l’insieme delle proibizioni instillate nell’uomo già dai primi anni di vita e che lo accompagnano sempre, anche in modo inconsapevole, andando a costituire la cosiddetta coscienza morale. L’Ego è l’organizzazione consapevole della personalità ed è il risultato dell’accomodamento o dell’equilibrio parziale o instabile tra i due elementi in contrasto. Nel 1920 Freud ebbe a scrivere Al 41 di là del principio di piacere. Egli, accanto all’innegabile presenza nell’uomo del principio di piacere che cerca continui appagamenti, rinviene nell’uomo una forte pulsione a ritornare a delle esperienze traumatiche passate e rimosse. Essa può nascondersi dietro il gioco di un bambino che rivive in maniera ludica il distacco dalla madre, perché in tale modalità si intreccia anche un soddisfacimento pulsionale piacevole e perché così egli si sente soggetto dell’esperienza, o dietro fenomeni isterici o nevrotici, reazioni incontrollate che accadono per la memoria inconsapevole di certi traumi. Egli chiama tale pulsione coazione a ripetere: “Se terremo conto di osservazioni come queste, che si riferiscono al comportamento della traslazione e al destino degli uomini, troveremo il coraggio di affermare che nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere che si afferma contro il principio di piacere”44. Nell’osservazione di comportamenti patologici “ciò che rimane privo di spiegazione è sufficiente a legittimare l’ipotesi di una coazione a ripetere che ci pare più originaria, più elementare, più pulsionale di quel principio di piacere di cui non tiene alcun conto”45. Fatta questa scoperta, Freud precisa che ciò che segue è speculazione che può portare molto lontano ma due considerazioni del nostro autore meritano di essere sottolineate. La prima riguarda il possibile rapporto tra la coazione a ripetere e la pulsionalità: “A questo punto ci si impone l’ipotesi di esserci messi sulle tracce di una proprietà universale delle pulsioni e forse di tutta la vita organica, proprietà che finora non era stata chiaramente riconosciuta (o, almeno, non era stata esplicitamente sottolineata). Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale l’organismo ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno; sarebbe dunque una sorta di elasticità organica o, se si preferisce, la manifestazione dell’inerzia propria dell’organismo vivente”46. La pulsione, comunemente pensata come una forza che spinge allo sviluppo e al cambiamento, diventerebbe invece espressione della natura conservatrice degli esseri viventi. In secondo luogo, cosa comporta questo per la concezione dell’uomo e della vita? “Sarebbe in contraddizione con la natura conservatrice delle pulsioni se il fine dell’esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai attinto prima. Al contrario, si deve trattare di una situazione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare, al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo. Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi 44 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2012, 40 45 Ibid., 41. 46 Ibid., 60 42 interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi”47. Freud anche con il suo itinerario speculativo al di là dei dati scientifici ci consegna una visione dualistica dell’uomo e della sua dialettica pulsionale e, in virtù della originarietà e prevalenza della coazione a ripetere, forma delle stesse pulsioni, innesta in quest’ultimo una tensione irreversibile al passato e alla morte: “(La tendenza dualistica della dialettica pulsionale) … si colora di un profondo pessimismo di stampo schopenhaueriano: alle pulsioni di vita che corrispondono agli sforzi compiuti dall’Eros per tener coesa la sostanza vivente sospingendola verso unità sempre più vaste, si oppongono fin dalle origini le pulsioni distruttive o di morte, che sospingono inesorabilmente ogni sostanza organica verso la decomposizione inorganica, trascinando demonicamente ogni sforzo di vita verso il nulla della morte”48. La stessa storia dell’umanità, come ha scritto Freud in Il disagio della civiltà del 1930, è il frutto della lotta tra due istinti: Eros o l’istinto della vita e Thanatos o l’istinto della distruzione. Egli accentua il carattere aggressivo degli istinti dell’Es. Nel suo itinerario speculativo oltre la scienza Freud si occupa anche delle grandi questioni della cultura, in particolare della religione, l’interesse per la quale è presente nella giovinezza e ritornerà anche nella vecchiaia. Fin dal 1907 egli sosteneva che i riti religiosi sono simili agli atti ossessivi di carattere nevrotico. Nel 1912 pubblica quattro saggi raccolti nell’opera Totem e Tabù in cui studia l’orrore dell’incesto, i divieti derivanti dal tabù nel loro complesso, l’animismo e la magia, il totemismo. Egli rinviene sempre una somiglianza tra gli usi e i costumi religiosi dei primitivi e gli atti ossessivi dei suoi pazienti nevrotici. La religione è una nevrosi ossessiva universale: “Potremmo azzardare ad affermare che l’isteria è una caricatura di una creazione artistica, che la nevrosi ossessiva è la caricatura di una religione, che il delirio paranoico è la caricatura di un sistema filosofico”49. Egli si propone una psicogenesi della religione. Osservando i bambini egli rimane sorpreso che all’inizio costoro amano gli animali, per poi temerli in una fase evolutiva posteriore. Analizzando queste fobie degli animali nei bambini o negli adulti in cui permangono nevroticamente fobie infantili, la causa viene ricondotta alla paura per il proprio padre. Tale paura è proiettata o spostata nell’animale, simbolo del padre. Come mai tutto questo? Il bambino vorrebbe venerare e 47 Ibid., 63. 48 Avvertenza, ibid., 13. 49 S. FREUD, Totem e tabù, Boringhieri, Torino 1969, 113. 45 conferendo loro i caratteri del padre e creando dei da temere e conquistare allo stesso tempo. Anche quando l’uomo arriva ad individuare le leggi e le regole che presiedono ai fenomeni della natura, la sua impotenza perdura e con essa anche il desiderio del padre e degli dei. Tali divinità mantengono un triplice compito: allontanare i terrori della natura, riconciliare con il destino e con la morte, ripagare di tutte le privazioni e le sofferenze legate alla convivenza civile perché la vita in società richiede la rinuncia agli istinti e l’obbligo del lavoro. Col progresso della scienza le rappresentazioni religiose mantengono soprattutto la terza funzione, di carattere morale e progrediscono verso il monoteismo. Di fronte all’unico Dio può nascere un corretto rapporto padre – figlio. La minaccia di pene divine costituisce una ulteriore e necessaria motivazione per gli uomini che non hanno saputo interiorizzare le prescrizioni morali regolanti i rapporti interumani, mentre non è più necessaria, anzi sarebbe dannosa, per chi le ha interiorizzate. La religione non è una menzogna cosciente nel senso morale del termine e neppure un errore in senso gnoseologico, ma è sogno, illusione motivata dal bisogno di realizzazione dei desideri, un prodotto della dimensione sensitivo – istintuale che può essere decifrato con l’applicazione della tecnica psicologica. Tutte le dottrine religiose sono illusioni, indimostrabili e inconfutabili: “Noi diciamo che sarebbe persino molto bello se esistessero un ordine morale universale e una vita ultraterrena, è però molto strano che tutto ciò sia come noi dobbiamo desiderarcelo. E sarebbe ancora più strano che ai nostri poveri, ignoranti e impacciati antenati dovesse essere riuscito di trovare la soluzione di tutti questi difficili enigmi del mondo”54. La religione ha cercato di rendere un servizio alla civiltà, ha avuto millenni di tempo per aiutare gli uomini ad essere felici, forse non molto se la maggior parte delle persone di questa civiltà sono ancora infelici. Essa ha sostenuto la moralità e l’immoralità perché, per conservare le masse subordinate ad essa, ha fatto grandi concessioni alla natura istintuale dell’uomo. Nel tempo della scienza moderna l’influenza della religione si indebolisce ulteriormente: “La critica ha intaccato la forza probante dei documenti religiosi, la scienza naturale ha posto in luce gli errori in essi contenuti, la ricerca comparata è stata colpita dalla fatale somiglianza tra le rappresentazioni religiose da noi venerate e le produzioni spirituali di popoli e tempi primitivi … In questo processo non c’è interruzione”55. Dunque, la religione, così come la nevrosi ossessiva generale, derivante in ultima analisi dal complesso di Edipo, è destinata inesorabilmente a scomparire. Per scongiurare i pericoli legati alla sua progressiva scomparsa, occorre prepararsi a questo esito con una visione del mondo fondata razionalmente che lasci Dio fuori dal gioco e ammetta l’origine puramente umana di tutte le istituzioni e le norme culturali. La religione, per il singolo uomo come per l’intera umanità, è una fase puberale di passaggio nell’evoluzione. L’uomo maturo deve imparare a dominare la realtà con 54 Ibid., tr. it. cit., 173. 55 Ibid., tr. it. cit., 178. 46 le proprie forze e con l’ausilio della scienza. La religione si oppone alla ragione e all’esperienza e tale tentativo non può durare in eterno, perché “Noi crediamo che al lavoro scientifico è possibile sperimentare qualcosa sulla realtà del mondo, qualcosa con cui accresciamo il nostro potere e in base a cui possiamo orientare la nostra vita. Se questa fede è un’illusione, allora ci troviamo anche noi nella sua situazione, ma la scienza, con i suoi numerosi e significativi successi, ci ha dato la prova che essa non è un’illusione … No, la nostra scienza non è un’illusione. Sarebbe invece un’illusione credere di poter ricevere da qualche altra parte ciò che essa non è in grado di darci”56. Dunque, egli si aspetta dalla scienza una nuova visione del mondo che non ha più bisogno di Dio e che è consona all’uomo maturo. La psicanalisi, da sola, non può fornire tale nuova visione del mondo, ma dona il suo contributo all’interno della vasta opera della scienza. In tal caso, la religione diventerebbe il più grande avversario di una visione scientifica del mondo. Queste parole esprimono bene la posizione di Freud verso la religione nell’ultima parte della sua vita: “Il giudizio riassuntivo della scienza sulla visione del mondo religiosa suona perciò così: mentre le singole religioni litigano tra loro per decidere chi di esse sia in possesso della verità, noi pensiamo che il valore di verità della religione possa in generale venire trascurato. La religione è un tentativo di dominare il mondo sensibile, in cui siamo posti, mediante il mondo di sogno che abbiamo sviluppato in noi stessi in base a necessità biologiche e psicologiche. Ma una tale impresa non può riuscire. Le sue dottrine recano l’impronta delle epoche in cui sono sorte, delle ignare epoche infantili dell’umanità. Le sue consolazioni non meritano fiducia. Le esigenze etiche, che la religione intende porre in rilievo, richiedono piuttosto una diversa giustificazione, in quanto sono indispensabili alla società umana ed è pericoloso vincolare la loro attuazione alla credulità religiosa. Se si tenta di inserire la religione nel corso evolutivo dell’umanità, essa, invece di apparirci come una conquista duratura, ci si rivela come un corrispettivo della nevrosi che il singolo uomo civilizzato deve affrontare sul cammino dall’infanzia alla maturità”57. D’altra parte “Oltre l’accentuazione del mondo esterno reale, la visione del mondo costruita sulla scienza possiede sostanzialmente dei caratteri negativi, come la modestia nei confronti della verità, il rifiuto delle illusioni. Chi dei nostri simili non è contento di questo stato di cose, chi, per la sua tranquillità momentanea desidera di più, può procurarsi ciò dove lo trova. Non per questo ce la prenderemo con lui, non possiamo aiutarlo, ma neppure possiamo pensare diversamente per amore suo”58. 56 Ibid., tr. it. cit., 195-196. 57 S. FREUD, Neue Folge der Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse, in Studienausgabe I, 595. 58 Ibid., 608. 47 Cosa dice la teoria di Freud alla filosofia? a.Innanzitutto dice qualcosa riguardo al concetto della vita umana, sociale o individuale. La concezione classica concepiva l’anima o la società umana come sistemi armonici di potenze o facoltà destinate a cooperare. Il conflitto è un’eccezione che va superata. Invece Freud propone un conflitto permanente e immanente come motore della vita umana e costruttore della personalità. b. Nell’antropologia tradizionale (greca o medievale) la sessualità era ignorata o faceva problema. Nel nostro autore diviene la chiave di lettura dell’uomo e così egli pone in primo piano il suo carattere terrestre e mondano e contribuisce a togliere alla sessualità quell’aspetto ingiusto di degradazione e di condanna. Egli lascia una provocazione nei confronti della definizione aristotelica homo animal rationalis: la coscienza è in realtà una piccola parte della vita umana, la vita cosciente non è la parte dominante ma la parte inconscia è prevalente e condiziona in maniera decisiva la vita umana. c. Nell’antropologia greca sussisteva il dualismo anima – corpo. In Freud vive un altro dualismo: libido – coazione a ripetere, in cui la seconda sembra più originaria e forma delle stesse pulsioni, per cui l’uomo è irreversibilmente per la morte ed è pregiudicato il suo carattere di soggetto. d. Infine il Super Ego consiste di cristallizzazioni dell’influsso sociale, dunque è il frutto del condizionamento sociale dell’individuo. Freud riconosce dunque l’aspetto sociale della persona. e. Infine, all’apparenza, il metodo di Freud sembra opporsi a quello della psicologia impostata come una scienza esatta del comportamento e, in generale, all’Illuminismo. In realtà il nostro autore è pienamente “illuminista”: pur con un metodo diverso, egli vuole offrire una mappatura precisa della personalità umana e da illuminista indaga, pur con passione, la cultura umana e la religione, pensando di cogliere il significato di quest’ultima mediante l’applicazione del metodo storico – evolutivo – genetico. Non è concessa nessuna dimensione ulteriore di senso che possa trascendere la genesi e lo sviluppo storico del fenomeno, di cui, con esattezza, si può sancire la futura fine. Nel 1910 sorge la Società Psicanalitica Internazionale. Alcuni allievi si allontanano dalle posizioni del maestro. Alfred Adler (1837-1930), come Freud, affronta il problema della nevrosi. La libido sessuale è solo una parte del più vasto fenomeno esistenziale, che egli definisce “volontà di potenza”, cioè tendenza alla propria autoaffermazione, che si concretizza in uno stile di vita. La nevrosi è causata, allora, da un senso di insicurezza e di inferiorità, dovuto spesso a deficienze organiche. Il complesso di inferiorità spinge l’individuo a usare e impiegare tutti i mezzi per camuffare e compensare gli svantaggi iniziali, e la compensazione può portare anche al successo (il balbuziente Demostene diventa un grande oratore, il piccolo Napoleone un grande conquistatore …). Per superare il complesso di inferiorità l’individuo può anche ritirarsi nella malattia. La causa principale dei problemi della personalità, vista anche la grande importanza dei fattori sociali e culturali nel formare la struttura psichica, sta nell’educazione, non tanto nell’ereditarietà. I primi cinque anni di vita sono determinanti per il futuro stile di vita dell’adulto: un autoritarismo esagerato o una condiscendenza estrema possono fabbricare nevrotici ribelli o egoisti con strategie esistenziali a – 50 bordo della nave Beagle. Così egli raccoglieva piante, animali, fossili e li studiava insieme ai dati geologici dell’America meridionale, delle Isole del Pacifico, dell’Australia. Pur soffrendo di un’emicrania cronica mise a punto innumerevoli ricerche particolari. Egli espose allora la sua teoria. Prima di tutto, le specie vegetali e animali possono trasformarsi. A differenza di quanto dice la Bibbia, esse non sono state create indipendentemente le une dalle altre e neppure in maniera immutabile. In secondo luogo, nella stessa specie si possono constatare affinità e trasformazioni. Come risulta da indagini fatte sull’allevamento di animali, piante e anche sulla natura allo stato libero, ogni specie deriva da altre specie che per lo più sono già estinte e delle quali ritroviamo testimonianze nei reperti fossili. In terzo luogo, la natura ha un principio vitale: the struggle for life, la lotta per la sopravvivenza. Tale principio opera una scelta naturale o una selezione artificiale: la sopravvivenza dei migliori, dei più forti, di chi si adatta meglio all’ambiente grazie alle sue variazioni che crescono e si accumulano in base alle leggi della ereditarietà. I più deboli, chi si integra più difficilmente, vengono eliminati. Inoltre, come si è svolta la grandiosa storia evolutiva della natura? Essa è avvenuta in base a leggi meccanicistiche puramente casuali, senza nessun fine o obiettivo prestabilito. Si è andati dalle forme più semplici a quelle sempre più complesse e perfette. Quanto fin qui detto si può applicare all’uomo: anch’egli discende da forme di vita inferiori e più antiche ed egli, in rapporto a queste ultime, si è affermato meglio nella lotta per la sopravvivenza. La tesi darwiniana era stata già preparata dal pensiero di un economista politico, Thomas R. Maltus (1766-1834). Egli, nel 1798, nel suo saggio Essay on the Principles of Population (Saggio sul Principio di popolazione) aveva presentato la teoria dello squilibrio tra le capacità riproduttive della popolazione e quelle produttive. Conseguentemente a questo si sarebbero prodotti il sovrappopolamento e la miseria delle masse. Cosa proponeva Maltus? La limitazione delle nascite mediante la continenza. Una conseguenza della ridotta produttività sarebbe chiaramente stata la lotta per la sopravvivenza. Darwin riprende da Maltus tale teoria e la applica all’intero regno animale e vegetale. Per la sua spiegazione universale dell’evoluzione dalla cellula primordiale fino all’uomo, presentata come teoria scientificamente fondata, Darwin fu considerato il Copernico della biologia e scatenò un secondo caso Galileo. Cristiani, teologi, ministri conservatori di provenienza anglicana, protestante e cattolica protestarono contro la nuova dottrina contraria alla Bibbia e alla Tradizione. Al di là di contrapposizioni basate su argomenti scientifici superati (cfr. la teoria del fissismo delle specie) si temeva il rischio di attribuire un primato alla biologia e al pensiero organico a spese della religione. Anche perché, se nel campo biologico tutte le forme sono soggette a mutazione e fanno continuamente posto a nuove forme, la stessa cosa non può accadere anche nel campo culturale e sociale, non può accadere per tutti gli ideali, le idee, le istituzioni, le organizzazioni, i valori e le strutture umane (in fondo la moderna società industriale non è più quella della prima rivoluzione industriale che a sua volta non è più quella agricola)? Anche nell’ambito culturale e in quello sociale si avrebbe la medesima molteplicità caotica di forme, la stessa complessità di nessi e processi evolutivi? Come distinguere ancora la verità dalla non - verità, il mutevole dal definitivo? Tutto questo può comportare lo spodestare la fede in un 51 fine o piano divino che domina la natura e la storia per intronizzare e consacrare, invece, il meccanismo del caso, per il quale persino l’origine dell’organismo primordiale è pensabile puramente in maniera fisico – chimica? L’uomo si può spiegare completamente partendo dal basso, dalla materia, da specie animali inferiori e preesistenti? Con Darwin diviene possibile una vasta e unitaria visione del mondo scientifica in cui confluiscono la scienza della natura e la scienza della cultura del sec. XIX. La natura e la storia si congiungono in un unico grande processo storico – naturale, che ha prodotto l’intera ricchezza del mondo e la totalità degli esseri in esso viventi. Il progresso diventa legge storica e naturale. Si è definitivamente oltre l’ordine naturale del mondo, in quanto non si parla più di un ordinamento del mondo perfetto fin dall’inizio, statico, immutabile, antropocentrico e organizzato gerarchicamente. L’ipotesi Dio non è più necessaria né per l’origine della vita né per quella dell’uomo. E poi, quest’uomo, finora immagine di Dio perché avente origine in lui, sembra ora, per la teoria dell’evoluzione, essere piuttosto immagine dell’animale. In quel tempo mancarono nella Chiesa teologi capaci di tradurre in maniera convincente l’insegnamento biblico nella nuova comprensione del mondo. Il dogma teologico – scientifico dell’immutabilità della specie era definitivamente sconvolto; la trasformazione, il divenire vengono eretti a legge universale. Darwin, da parte sua, si tenne fuori da ogni disputa teologica; egli, in un senso deistico – teistico credeva ancora in una divinità che avrebbe creato gli organismi originari da cui doveva svilupparsi ogni forma di vita. Alla fine della sua esistenza egli aderì ad una forma di agnosticismo: “ … il mistero e il principio di tutte le cose è per noi insolubile; da parte mia devo accontentarmi di rimanere un agnostico”61. Molti darwinisti della prima generazione aderirono esplicitamente al compatto monismo ateo, come il tedesco Ernst Haeckel (1834-1919). Egli, nel 1899 pubblicò l’opera Gli enigmi del mondo, una professione di fede sull’uomo, l’animale, il mondo, Dio dove presentò la sua legge biogenetica fondamentale: l’evoluzione del singolo individuo umano (ontogenesi) ripete l’evoluzione dell’intera specie umana. La scienza naturale è il mezzo adatto per risolvere i massimi problemi della vita; nell’universo c’è un’unica sostanza, che è insieme Dio e natura, per la quale corpo e spirito, materia ed energia sono inseparabilmente congiunti. Egli scrive: “Non c’è alcun Dio, non ci sono dei, se con questo concetto si intendono degli esseri personali, al di fuori della natura. Questa visione del mondo senza Dio coincide in sostanza con il monismo e il panteismo della nostra scienza moderna della natura”62. Haeckel riprende Schopenhauer per dire che il panteismo è una forma cortese di ateismo: 61 N. BARLOW, The Autobiography of Charles Darwin, London 1958; tr. It. Autobiografia, Einaudi, Torino 1962, 54 62 E. HAECKEL, Die Wertratsel. Gemeinverstandliche Studien uber Monistische Philosophie, Bonn 1899; tr. It. I problem dell’universo, Unione tipografico – editrice torinese, Torino 1904. 52 “La verità del panteismo consiste nel superamento dell’opposizione dualistica tra Dio e mondo, nella convinzione che il mondo esiste per una forza interna e da se stesso. Il principio del panteismo – Dio e il mondo sono una cosa sola – è semplicemente una formula di cortesia per prendere congedo da Dio”63. Il culto puro del Vero, del Bene e del Bello deve sostituirsi ai perduti ideali antropistici Dio, libertà e immortalità. Questo spazio aperto è lo stesso spazio in cui, fino ai nostri giorni, si oscilla tra una posizione che assume i dati delle scienze biologiche ma riconduce la vita al mistero e a un Principio trascendente, pur coinvolto in essa, e chi invece riconduce la vita a leggi chimiche e al caso, come nel caso dell’attuale cosiddetto “nuovo ateismo”. b. e la filosofia della scienza … Sulla scia della concezione newtoniana della scienza come descrizione dei fatti menzioniamo all’inizio Ernst Mach (1838-1916), professore di fisica e di filosofia all’università di Vienna. Egli era giunto a questa conclusione: un concetto biologico della conoscenza come progressivo adattamento ai fatti dell’esperienza, richiesto proprio dai bisogni biologici. La ricerca scientifica perfeziona quel processo vitale (in quanto vi è interna) per cui gli animali inferiori si adattano, mediante riflessi innati, alle circostanze dell’ambiente. La conoscenza adatta i pensieri e i fatti mediante l’osservazione e i pensieri tra loro mediante la teoria. Il fatto è l’ultimo fondamento della conoscenza. Esso non è una realtà ultima ma consiste di elementi originari: le sensazioni. Un fatto fisico o psichico è un insieme relativamente persistente di elementi semplici, come colori, suoni, calore, pressione, spazio, tempo ecc. L’io è uno di questi raggruppamenti persistenti, i corpi esterni sono altri raggruppamenti, composti entrambi dai medesimi elementi, le sensazioni. Un colore è allo stesso tempo un oggetto fisico per quel che dipende dalla luce e un oggetto psicologico per quel che dipende dalla retina. Ogni oggetto è fisico e psichico ad un tempo. Allora va invertito quello che sembrava un caposaldo del sapere tradizionale: non sono i corpi esterni a provocare le sensazioni, ma sono i complessi di sensazioni a formare i corpi. I corpi non sono reali, ma sono simboli del pensiero per indicare complessi di sensazioni. L’Io non è un’unità sostanziale, ma soltanto l’unità pratica di elementi sensibili più fortemente connessi tra loro e meno fortemente connessi con gli altri. L’unità dell’Io ha solo un valore orientativo e biologico. I confini tra fenomeno fisico e fenomeno psichico sono puramente convenzionali: se considero il fenomeno facendo astrazione da ogni rapporto col corpo umano esso è fisico, se si considera il suo rapporto al corpo umano esso è psichico. La distinzione tra interiorità ed esteriorità non ha alcun senso: gli elementi sono gli stessi. Anche per Richard Avenarius (1843-1896) l’introiezione è un processo fittizio che falsifica l’esperienza pura. Essa consiste nell’interiorizzare la cosa, nel 63 Ibid., 333-336. 55 Wittgenstein: “Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è”64; i fatti costituiscono e le proposizioni manifestano il come del mondo e le sue determinazioni, ma non ci dicono il che del mondo, la sua essenza totale e unica, il suo valore, il suo perché. Anzi, il valore è un dover essere, non è mai un fatto; se fosse un fatto non potrebbe essere un dover essere, per cui, ribadisce Wittgenstein, “Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore -né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere così. Infatti, ogni avvenire ed essere così è accidentale. Ciò che li rende non accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo”65. L’etica è allora inesprimibile. Non si può parlare neanche della morte perché non è mai un fatto, infatti “la morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se per eternità s’intende non infinita durata nel tempo ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti”66. Tutti i problemi relativi al mondo, alla vita, alla morte, ai fini umani non possono trovare risposta perché non sono domande, rientrano nell’inesprimibile che c’è e che si mostra come ciò che è mistico. L’epifania del mistico avviene nel silenzio: “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere”67. Le domande metafisiche non hanno senso e la risposta è che non rimane più alcuna domanda, il problema della vita si risolve quando svanisce. L’introduzione al Tractatus è di Bertrand Russell (1872-1970). Egli muove da una prima teoria, l’identificazione della logica con la matematica e la possibilità di estendere la precisione matematica ad altri domini finora soggetti alla vaghezza filosofica. La logica contiene le premesse della matematica, è guida e disciplina intrinseca della matematica ed ha priorità su di essa. La matematica consiste di costanti logiche e di molteplici varianti, è la classe di tutte le proposizioni della serie “p implica q”. Costanti logiche sono le nozioni definibili per mezzo delle seguenti: l’implicazione, la relazione di un termine con una classe, la nozione di “tale che”, la nozione di “relazione”. Le variabili sono i termini preceduti da “qualsiasi” o “qualche”. La logica di Russell ha poi un’impostazione realista: tutto ciò che può essere pensato ha l’essere e il suo essere è una pre- condizione, non un risultato, del suo essere pensato. Alla luce dell’identificazione della logica con la matematica, la logica si occupa del mondo reale proprio come la zoologia, anche se la prima 64 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus 6.44; tr. it. di A. G. Conte, Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1995, 108 65 Ibid., 6.41; tr. it. cit. 106. 66 Ibid., 6.4311; tr. it. cit. 107. 67 Prefazione, tr. it. cit. 23. 56 indaga i tratti più generali e astratti. Sembra ritornare la credenza nella realtà platonica dei numeri, che popolano il regno senza tempo dell’essere. La matematica e la logica costituiscono la sostanza delle cose, e la concezione della logica del nostro autore si accorda con quella aristotelica, come struttura necessaria e intemporale dell’essere. Da queste premesse passiamo alla teoria della conoscenza che, come lui afferma, ha una certa soggettività essenziale. Essa risponde alla domanda: come conosco io ciò che conosco? L’esperienza è il punto di partenza di ogni conoscenza e come tale non può essere metodo di verifica. Per i neo-empiristi il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica. Costoro non tengono presenti i giudizi di percezione per i quali non c’è nessun metodo di verifica ma essi costituiscono la verifica di tutte le altre proposizioni empiriche che possono essere conosciute in qualsiasi grado. L’esperienza è allora il punto di partenza da cui nascono la conoscenza e il linguaggio. Ma essa è immediata e privata, essa è la sfera della conoscenza diretta dei cui oggetti siamo direttamente consapevoli senza intermediario di un qualsiasi processo di inferenza o di qualsiasi conoscenza di verità. Gli oggetti della conoscenza diretta non sono le cose, ma i dati sensibili da un lato, i dati dell’introspezione e i dati forniti dalla memoria. Quindi abbiamo anche una conoscenza immediata del nostro io, o di qualcosa che chiamiamo io, che mi permette di comprendere immediatamente la proposizione: “Io ho una conoscenza immediata dei dati sensibili”. Il concetto può essere allora la conoscenza immediata degli universali, cioè delle relazioni che entrano a comporre ogni enunciato. Oltre la conoscenza immediata abbiamo poi la conoscenza per descrizione, che è costituita dalla conoscenza della verità. Questo è l’ambito in cui è conosciuta una descrizione e l’unico oggetto a cui essa può essere applicata, anche se esso non è direttamente conosciuto. Per descrizione io conosco gli oggetti fisici o gli spiriti delle altre persone. Ogni conoscenza per descrizione è da ultimo riconducibile alla conoscenza diretta. Infatti ogni proposizione che possiamo capire deve essere interamente composta da costituenti dei quali abbiamo una conoscenza immediata. Russell non cade nel solipsismo assoluto, cioè nel rifiuto di uscire dai dati immediati del momento, ma ritiene possibile l’inferenza dai dati immediati alle cose e dai dati immediati agli spiriti delle altre persone. Comunque, il carattere privato e immediato del dato fa difficoltà. Come si può arrivare ai concetti della scienza? E l’etica? Anche l’etica parte dall’esperienza privata e immediata degli individui. In questo caso si tratta del desiderio. Quando un individuo dice: “Questo è bene in sé” in realtà intende dire: “desidero che ognuno desideri questo”. Gli enunciati dell’etica non sono asserzioni dichiarative o proposizioni per la cui verità o falsità si possono addurre prove, ma semplici espressioni di desiderio. Il giudizio etico è allora universale nel suo oggetto, in quanto io desidero che il mio desiderio sia il desiderio di tutti, e privato nella sua origine, perché comunque si tratta del mio desiderio. Questa è la pretesa dei desideri che chiamiamo morali. Le regole morali sono gli strumenti che le varie società si danno per coordinare e disciplinare i diversi desideri umani, dal carattere disparato e contrastante, verso la massima soddisfazione possibile. Le varie necessità elaborano tali regole mescolando utilitarismo e superstizione, e sacrificano così l’uomo, i suoi interessi, i suoi istinti a tabù di ogni genere l’unica salvezza dai quali è spesso l’ipocrisia. Tali regole 57 servono a realizzare i fini che desideriamo, ma non sempre quelli che desideriamo sono quelli che dobbiamo desiderare. Ciò che dobbiamo desiderare è in genere soltanto ciò che qualche altro desidera che noi desideriamo. Per intendere il senso della morale, il nostro autore parla di amore guidato dalla conoscenza, di conquista della felicità: l’arte di alterare i desideri degli uomini in modo da minimizzare le occasioni di conflitto, rendere compatibile la realizzazione dei rispettivi desideri, rafforzare alcune passioni a scapito di quelle che generano infelicità, squilibrio, odio e dolore. La morale è una disciplina razionale dei desideri che vuole rafforzare ed estenderne alcuni (l’amore appassionato, l’affetto per i figli, l’amicizia, la benevolenza, la devozione alla scienza e all’arte), ed abolirne altri, per realizzare la coesistenza dei desideri o la conquista della felicità. La morale non è allora un desiderio privato, ma pone le condizioni di realizzabilità dei desideri stessi, non ha alcun carattere religioso o trascendente, non esistono valori assoluti né si può parlare di colpa o peccato. I conflitti tra la religione e la scienza testimoniano la falsità della religione. Le dottrine morali e religiose tradizionali hanno introdotto squilibri nell’uomo mediante inibizioni e tabù. Russell ha voluto lottare contro il dogmatismo e l’oppressione liberticida (siamo negli anni 1925-30), riconoscendo però che il dogmatismo si può annidare anche nella scienza o in certi usi possibili di essa. Una società organizzata scientificamente può nascondere pericoli. C’è una nuova etica che sta nascendo con la tecnica scientifica, ed essa guarda più alla società che all’individuo. Questa nuova etica toglierà di mezzo la superstizione del peccato e della punizione, e insegnerà agli individui la sofferenza per il bene pubblico, senza dimostrare loro che tale sofferenza sia meritata. Le tendenze e le teorie tradizionali riterranno immorale tale sviluppo, ma esso sarà spontaneo. Una società scientifica così organizzata si rivelerà allora incompatibile con la ricerca del vero, del bello mediante l’arte, dell’amore, del piacere, degli ideali che finora gli uomini hanno preferito. Dove si insinua allora il vero pericolo? Esso non riguarda lo spirito scientifico in se stesso, perché lo spirito scientifico è cauto, procede per tentativi, è antidogmatico, non pretende di conoscere l’intera verità e neanche pretende che la sua migliore conoscenza sia interamente vera. Ogni dottrina, presto o tardi, chiede di essere emendata, rivista, migliorata, e per fare questo occorrono libertà di investigazione e di discussione. La radice di tale pericolo è invece nell’uso della scienza come strumento di potere. La tecnica scientifica sembra fatta apposta per far sorgere sogni di potenza e di dominio. I governi, le grandi industrie, formano e si servono di esperti pratici che sono diversi dagli uomini di scienza perché la loro mentalità è piena del senso di una illimitata potenza, di una arrogante certezza e di un forte piacere legato alla manipolazione del materiale umano. La scienza come ricerca del potere non merita né ammirazione né rispetto mentre la scienza come ricerca del sapere include la sfera dei valori. La ricerca del potere non deve ostacolare la sfera dei valori, la tecnica scientifica non deve superare i fini cui dovrebbe servire. Solo chi, con lo studio della storia o l’esperienza della propria vita ha acquistato un certo rispetto per i sentimenti umani e premura verso le passioni che danno calore all’esistenza quotidiana degli uomini e delle donne, può maneggiare i nuovi poteri che la scienza offre. In questo caso la scienza può offrire la possibilità di un benessere che l’umanità non ha mai conosciuto prima, perché può aiutare ad abolire la guerra, può contribuire all’uguale distribuzione della forza ultima e alla 60 rapporto alle singole proposizioni, è solo un’ipotesi. Ma ogni uomo può assumere come punto di partenza delle sue affermazioni solo i suoi propri protocolli. A questo proposito Carnap parla di solipsismo metodico. Tale solipsismo è metodico perché non ha la pretesa metafisica di affermare l’esistenza di un unico soggetto e la non esistenza degli altri, ma riconosce il carattere privato dei protocolli originari per poter poi giungere a proposizioni linguistiche che possono valere per tutti i soggetti. Quindi, un’affermazione qualsiasi, anche se è fondata sui protocolli del soggetto che la compie, ha validità intersoggettiva solo se può essere espressa in linguaggio fisico. Se due soggetti avessero diverse opinioni sulla lunghezza di un segmento, sulla temperatura di un corpo o sulla frequenza di un’oscillazione, questa diversità di opinioni, in fisica, non viene attribuita ad una insuperabile differenza soggettiva, ma si cerca piuttosto di giungere con un esperimento appropriato ad una unificazione delle opinioni. Il linguaggio fisico è di per se stesso intersoggettivo e valido universalmente: tutte le scienze, anche quelle dello spirito, come la psicologia, la sociologia … devono essere espresse in un linguaggio fisico se vogliono essere autentici saperi scientifici e devono ricondurre i cosiddetti fenomeni psichici o spirituali a stati e condizioni di un corpo fisico. Carnap parla anche di materialismo metodico: esso non afferma né nega l‘esistenza della materia e dello spirito, ma esprime soltanto l’esigenza di tradurre in termini fisici i protocolli di ogni genere per costruire con essi un linguaggio veramente intersoggettivo, cioè universalmente valido. Nel 1936-37 Carnap scrive Probabilità e significato. Entriamo nella terza fase del suo pensiero rispetto al dato. Il dato si allontana sempre di più perché si presenta nella forma di una possibilità, la possibilità di ridurre, mediante un processo più o meno lungo e complesso, i predicati descrittivi del linguaggio scientifico in predicati osservabili che appartengono al linguaggio cosale, cioè al linguaggio che usiamo nella vita di ogni giorno parlando delle cose percepibili che ci circondano. I predicati osservabili sono la trascrizione linguistica, nel linguaggio comune, della possibilità di avere certi dati e gli enunciati scientifici sono trascrizioni di queste trascrizioni. Dunque, ci si allontana doppiamente dalla realtà e all’esigenza di una verifica empirica diretta degli enunciati scientifici (cfr. Wittgenstein), subentra l’esigenza più debole della confermabilità che consiste appunto nella possibilità di ridurre i predicati descrittivi della scienza in predicati osservabili ed è sostanzialmente un’operazione intra-linguistica. Quindi una verifica esauriente e completa degli enunciati della scienza non è mai possibile, è possibile semmai una conferma gradualmente crescente degli enunciati. L’evento che costituisce la conferma di un enunciato scientifico è un evento possibile, secondo una possibilità fisica o causale, non semplicemente logica. Per esempio, un segnale si può trasmettere con una velocità più alta di quella della luce? Si tratta di un evento impossibile, perché il principio fisico esclude una velocità superiore a quella della luce. Un uomo può sollevare un’automobile? È un evento inverosimile, ma non impossibile, perché i principi della fisica non lo escludono. Carnap in questo percorso ha considerato attentamente l’evoluzione della scienza moderna e della fisica, che si servono di termini, entità o costrutti che non hanno alcun apparente riferimento alle cose o ai dati semplici dell’esperienza. 61 Un altro punto importante in Carnap è la considerazione della struttura logica del linguaggio. Il linguaggio è un contesto di relazioni, non un atomismo di proposizioni come voleva Wittgenstein nel Tractatus. Il sistema di relazione in cui il linguaggio consiste è la logica, che però ha un carattere arbitrario e convenzionale. Nel 1934 Carnap pubblica La sintassi logica del linguaggio in cui egli elabora il principio di tolleranza secondo il quale esiste una molteplicità e relatività di linguaggi. Scrive Carnap: “Non è nostro compito stabilire proibizioni ma soltanto giungere a convenzioni … In logica non c’è morale. Ognuno può costruire come vuole la sua propria logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi, deve solo indicare come lo vuole fare, dare regole sintattiche, non argomenti filosofici”. Non esiste, quindi, un unico linguaggio, o un linguaggio privilegiato, ma esistono per ciascun linguaggio regole determinate, proprie di esso, e anche regole valide per ciascun linguaggio. Queste regole sono di natura sintattica, esprimono cioè semplicemente la possibilità di combinazione dei termini linguistici negli enunciati e degli enunciati nelle conseguenze. La sintassi è un calcolo le cui regole determinano prima di tutto le condizioni secondo cui un’espressione, cioè una serie di simboli, risulta appartenente ad una certa categoria di espressioni; e in secondo luogo le condizioni secondo le quali è lecita la trasformazione di una o più espressioni in un’altra o altre espressioni. Tale calcolo prescinde completamente dal significato dei termini o dal senso delle proposizioni, cioè non contiene e non presuppone alcun riferimento semantico a fatti o a realtà o a entità di qualsiasi genere. La sintassi logica è una formulazione simbolica generalizzata dei procedimenti matematici. In questo senso Carnap distingue un modo materiale di parlare da un modo formale di parlare. Il modo materiale di parlare indicherebbe un riferimento puntuale del linguaggio all’esperienza, a cose, oggetti, entità oggettive. Esso è un modo deviato o metaforico di parlare, che non è erroneo ma può essere impiegato in modo scorretto. Questo è l’ambito delle controversie filosofiche. Il modo formale di parlare è attento alla struttura formale, cioè alla logica e alla sintattica del linguaggio, alle sue regole, senza preoccuparsi di riferirsi a entità esterne al linguaggio. Tutte le proposizioni filosofiche e tutte le proposizioni che non rientrano nel linguaggio della scienza empirica devono essere tradotte nel modo formale di parlare, in cui vengono eliminate le controversie filosofiche lasciate aperte dal modo materiale di parlare. In questo senso, il nostro autore è ben più radicale di Wittgenstein che diceva: “L’inesprimibile c’è”. Questa proposizione andrebbe tradotta: “Vi sono oggetti non descrivibili”, cioè “vi sono oggetti per i quali non si danno designazioni oggettive”. In un linguaggio puramente formale ciò è tradotto: “Vi sono designazioni oggettive che non sono designazioni oggettive”, dunque con una proposizione contraddittoria. Il mistico, che in Wittgenstein aveva mantenuto uno spiraglio aperto tra il linguaggio e il reale, diviene il contraddittorio in Carnap, che rimane interamente nella sfera del linguaggio. Il linguaggio vive di una distinzione tradizionale tra estensione e intenzione, connotazione e denotazione, senso e significato. Il nostro autore riduce tutto all’estensione, ed identifica questa con la dimensione sintattica. I concetti, allora, non sono più essenze, qualità o predicati di un oggetto, ma sono classi o classi di classi. Cosa significa la parola “uomo”? Essa non indica la proprietà oggettiva di essere uomo, come animale razionale, animale sociale, individuo, persona, ma la classe degli uomini. Comprendiamo in che senso questa posizione è denominata neopositivismo logico. 62 Una reazione a questo orientamento di pensiero si è avuta nel 1962 con l’opera di Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Egli ci offre una visione diversa della scienza, non più concepita come attività conoscitiva per eccellenza: la scienza è un’attività svolta all’interno di tradizioni o comunità diretta a risolvere rompicapi. Egli si dedica soprattutto allo studio della storia della scienza, in particolare della storia dell’astronomia, e si chiede: come e perché avvengono nelle scienze i mutamenti radicali, le cosiddette rivoluzioni scientifiche (copernicanesimo, darwinismo, Einstein e la relatività …)? Nel 1959 Kuhn scrive La tensione essenziale dove sostiene che la condizione normale della scienza non è il progresso nelle scoperte. L’ambito della scoperta e dell’invenzione appartiene alle rivoluzioni scientifiche. La scienza vive proprio questa tensione, tra una situazione normale e convergente e il momento rivoluzionario. “Quasi nessuna delle ricerche intraprese dai più grandi scienziati è destinata ad essere rivoluzionaria, e pochissime di esse lo sono. Al contrario, la ricerca normale, anche al suo miglior livello, è attività altamente convergente, che poggia solidamente su un consenso permanente acquisito per mezzo della educazione scientifica e rafforzato dalla successiva attività nella professione scientifica”. La norma è data dalla ricerca normale o convergente, le rivoluzioni sono l’eccezione. La ricerca normale è costituita da un gruppo più o meno disciplinato che tende a conservare e a difendere le modalità di approccio alla disciplina e a perpetuarsi attraverso l’educazione prima di tutto manualistica dei nuovi adepti. La ricerca scientifica esige prima di tutto consenso e convergenza. La scienza non nasce normale ma lo diviene. Una scienza diventa normale quando raggiunge la maturità, quando la comunità di ricercatori, identificandosi con un campo specifico di ricerca, adotta, difende e pratica un paradigma. La scienza normale è una ricerca stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica , per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore. Tali risultati vengono sistematizzati, vanno a costituire i manuali per i ricercatori della disciplina, prescrivono le regole, le procedure e le modalità di approccio alla disciplina, e sono condivisi da tutti i membri della comunità scientifica di quella disciplina. L’insieme dei risultati acquisiti, delle procedure, delle regole, delle modalità di approccio è appunto il paradigma. Senza i paradigmi non può sussistere una scienza normale. Una ricerca scientifica senza paradigmi, o senza paradigmi univoci e vincolanti, è una scienza immatura. Infatti, senza paradigma, manca il criterio per selezionare e raccogliere i fatti determinanti per una scienza; senza paradigma tutti i fatti che in qualche modo possono interessare lo sviluppo di una scienza sembrano ugualmente rilevanti. Una raccolta non selettiva di fatti è anche improduttiva, e la scienza si impantana. Il paradigma non è uno schema o un modello, assomiglia a un verdetto giuridico accettato nel diritto comune, è lo strumento per una ulteriore determinazione e articolazione sotto nuove e più restrittive condizioni. Il paradigma è uno strumento che consente di operare anche in maniera innovativa per risolvere problemi o rompicapi che si presentano nell’attività quotidiana della scienza normale. I problemi ordinari riguardano tre ambiti della ricerca scientifica: la determinazione dei fatti rilevanti per la ricerca stessa, il confronto di tali fatti con la teoria condivisa dalla comunità scientifica, l’articolazione e la riformulazione delle teorie alla luce di quel confronto. Il paradigma, nel comportamento ordinario della scienza, seleziona i 65 anche alla scienza precedente che li ha prodotti”. La scienza che accoglie un nuovo paradigma si deve ri-definire, ri-orientare: cambia forma, produce un nuovo vocabolario, nuovi concetti, nuovi metodi e regole. Vecchi problemi vengono trasferiti ad un’altra scienza o dichiarati non-scientifici, altri che prima erano non scientifici ora diventano scientifici. Gli scienziati che accettano un nuovo paradigma mutano radicalmente la loro concezione del mondo, pur rimanendo in presenza degli stessi oggetti di prima. La situazione prodotta dalla rivoluzione scientifica è incompatibile con la situazione prodottasi con la precedente scienza normale, la tradizione della scienza normale che emerge dopo una rivoluzione scientifica è incommensurabile con ciò che l’ha preceduta. Mutando i problemi, muta anche il criterio che distingue una soluzione realmente scientifica da una speculazione metafisica. Se sussistono incommensurabilità, incompatibilità e incomunicabilità tra vecchi e nuovi paradigmi, come è possibile il passaggio dai vecchi ai nuovi? Kuhn propone la seguente soluzione: ad un certo punto della crisi rivoluzionaria singoli scienziati o intere comunità scientifiche attuano una conversione che conduce ad accettare il nuovo paradigma. La situazione di crisi rivoluzionaria avviene quando si prende coscienza di importanti anomalie. Le anomalie non possono essere identificate con le esperienze falsificanti di Popper, anche perché per il nostro le esperienze falsificanti non esistono. Le teorie rivali che compaiono nella situazione di crisi propongono paradigmi nuovi entro i quali risolvere tali anomalie. Queste teorie nuove sono incomunicabili tra loro perché fanno capo a gruppi di ricercatori che sono in concorrenza e che parlano linguaggi diversi tra loro, e che usano anche vocabolari diversi. Ammettiamo che siano in competizione due gruppi. Scrive Kuhn: “Prima che possano sperare di comunicare completamente, uno dei due gruppi deve fare l’esperienza di quella conversione che abbiamo chiamato spostamento di paradigma. Proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma ad uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica, o da un’esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante), oppure non si compirà affatto”. Nella storia della scienza singoli scienziati o intere comunità scientifiche hanno accettato nuovi paradigmi con esperienze di conversione motivate dalle più varie ragioni, però convergenti nell’abbandono del vecchio e nell’accettazione del nuovo paradigma. Nel caso di comunità scientifiche istituzionalizzate disciplinarmente, occorre che passi una generazione. Si ricostituiscono comunità scientifiche fondate su un nuovo paradigma. Che cos’è allora il progresso scientifico? La nozione tradizionale di progresso scientifico fa riferimento ad uno scopo, ad una meta verso cui la scienza e le conoscenze tenderebbero. Tale meta sarebbe la rappresentazione vera della realtà. Kuhn, invece, non postula un progresso verso qualcosa, ma un progresso a partire da qualcosa. Egli accetta la nozione più modesta di progresso, il progredire che avviene nella soluzione di rompicapi o nell’elaborazione delle tecniche di espressione, di argomentazione, di spiegazione, e che è presente anche nell’arte, nella filosofia, nella teoria politica … D’altra parte, scrive Kuhn, 66 “possiamo vederci costretti ad abbandonare la convinzione, esplicita o implicita, che mutamenti di paradigmi portino gli scienziati, e coloro che ne seguono gli ammaestramenti, sempre più vicino alla verità … E’ veramente di aiuto immaginare che esista qualche completa, vera, oggettiva spiegazione della natura e che la misura appropriata della conquista scientifica è la misura in cui essa si avvicina a questo scopo finale?”. Molti problemi inquietanti relativi al progresso si dissolveranno quando l’evoluzione verso ciò che vogliamo conoscere sarà sostituita con l’evoluzione a partire da ciò che conosciamo. Un precedente illustre di questa posizione teorica può essere riscontrato nella teoria della selezione naturale di Darwin. Organi ed organismi delle diverse specie evolvono grazie ad un insieme di processi naturali sviluppatosi costantemente a partire da stadi primitivi, senza tendere verso nessuno scopo. Questi organismi non sono più spiegati con il ricorso ad un supremo artefice divino e ad un progetto prestabilito nella sua volontà. Darwin ha così eliminato ogni provvidenzialismo e neologismo in rapporto alla natura. Perché Darwin parla di evoluzione, di sviluppo, di progresso, nella selezione naturale, dalle specie più basse fino all’essere umano, se non fa più riferimento ad uno scopo ultimo? Perché il metro di valutazione è rappresentato dagli stadi iniziali più bassi. Nelle rivoluzioni scientifiche troviamo il corrispettivo della selezione naturale con teorie scientifiche e paradigmi che si succedono l’uno all’altro. C’è progresso, insomma, non perché ci si avvicina sempre di più alla verità, ma perché ci si allontana sempre di più da stadi primitivi di ricerca. Gli strumenti della conoscenza scientifica moderna si articolano e si specializzano sempre di più. Nel sec. XX la scienza ha compiuto un significativo passo di revisione nella propria autocoscienza grazie a K. Popper (1902-1994). La sua meditazione sulla scienza muove anche da una rilettura della storia occidentale del pensiero. Egli, pensando anche all’episodio della torre di Babele (Gen 11,1-9), afferma nella sua autobiografia: “… fin dall’inizio ci fu dissenso e confusione”. Tra verità e libertà sussiste un rapporto dialettico, critico, una tensione che assume la figura della discussione critica. Anche la Riforma è stata un passaggio saliente nella storia dell’Occidente: ha detronizzato Dio come governatore responsabile del mondo umano per lasciare alla coscienza dell’individuo la responsabilità del mondo. Dio governa solo nei nostri cuori. Una società che non è più autoritaria, ormai senza padre, non comporta necessariamente l’annullamento di tutti i valori. I valori sono tali se scopriamo la virtù del dissenso: “Abbiamo imparato dai nostri errori (pur se nel campo sociale e politico sembra una cosa rara). Abbiamo scoperto che la fede religiosa e le altre convinzioni possono avere valore soltanto quando siano sostenute liberamente e sinceramente, e che il tentativo di costringere gli uomini a conformarvisi era inutile, poiché quelli che si opponevano erano i migliori, e in realtà i soli di cui meritasse avere il consenso”. La possibilità di combattere con le parole, invece che con le armi, è la base della nostra civiltà, delle sue istituzioni legali e parlamentari, ed è anche il tratto costitutivo della ragione scientifica. La tradizione della discussione critica, un’ideale torre di Babele, risale alle origini della filosofia greca: “La storia dell’antica filosofia greca, specialmente da Talete a Platone, è uno splendido racconto, fin troppo bello per essere vero. In ogni generazione troviamo almeno una nuova filosofia, una nuova cosmologia di sorprendente originalità e profondità”. Le scuole di pensiero, poi, desiderarono conservare pure e immutate le cosmologie trasmesse, attribuendole tutte all’autorità del maestro. 67 La storia delle idee diviene allora storia degli scismi, difesa delle idee dagli attacchi degli eretici. Talete ha inaugurato una tradizione che incoraggia attivamente la critica; il Rinascimento, grazie ad un “maligno pisano”, Galileo Galilei, l’ha riscoperta e restaurata. Il nuovo modo di filosofare, venuto con la Rivoluzione scientifica, ha sovvertito tutta la filosofia naturale e, con la scelta del sistema copernicano, ha sconquassato il cielo, la terra e l’intero universo. Novalis (1772-1801) diceva che la filosofia scioglie ogni cosa, relativizza l’universo, toglie i punti fissi, come ha fatto il sistema copernicano, insegna la relatività di tutti i fondamenti. Anche per Popper la scienza è risultato di congetture e consiste di ipotesi piuttosto che di verità definitive e certe. Sempre in un dialogo, Novalis, pensando all’empirismo baconiano, ricordava che ipotizzare è “un gioco rischioso”, perché può diventare un’inclinazione appassionata alla non verità. Sempre in Novalis troviamo poi queste parole: “Le ipotesi son reti, pescherà soltanto chi le getta. Non si è trovata l’America con un’ipotesi? Lunga vita all’ipotesi – soltanto essa resta – Nuova in eterno, per quanto spesso si sconfigga da sé”. In che senso l’ipotesi si sconfigge da sé? Quando una teoria o un sistema empirico possono dirsi scientifici? Quando, afferma Popper, possono essere confutati dall’esperienza, quando sono falsificabili. Non è questo il caso dei dogmi e delle superstizioni, non era neppure il caso del marxismo e della psicanalisi. La meccanica di Newton, invece, è una teoria scientifica, perché falsificabile e, appunto, falsificata. Quindi, senza errori, non ci sarebbe nemmeno la conoscenza, la stessa scienza. Il carattere fallibile della nostra conoscenza ci consente tutt’al più di riconoscere l’errore, non di stabilire la verità. Nella sua formazione intellettuale Popper si è posto il problema della demarcazione tra teorie scientifiche, come quella di Einstein, e le teorie pseudoscientifiche, come il marxismo e la psicanalisi. Ciò che rende scientifica una teoria è il suo potere di scartare, di escludere il verificarsi di certi eventi possibili. Quindi, più una teoria proibisce, più può dirci. Le teorie sono costruzioni dell’uomo, l’uomo cerca di imporle alla realtà e può attaccarsi ad esse dogmaticamente, se lo vuole. Le teorie sono congetture audaci mantenute provvisoriamente ed eliminabili all’occasione, ma esse sono le reti con cui cerchiamo di cogliere il mondo reale. Dai tempi di Bacone le scienze naturali sono scienze induttive, costituite cioè e giustificate mediante reiterate osservazioni ed esperimenti. L’induzione costituiva il criterio per distinguere la scienza dalla pseudoscienza. Per Popper tale teoria è errata: occorre scartare l’induzione e ripensare la demarcazione in chiave deduttiva. Egli si pone la questione della teoria della conoscenza in generale, cioè del valore della conoscenza, della sua verità, validità e giustificazione, perché la teoria della conoscenza spesso determina il resto della nostra filosofia. Storicamente si è pensato che affrontare il problema del valore della conoscenza significasse dover risalire, nell’analisi, alle fonti prime della conoscenza, alla sua origine (empirismo, razionalismo …). Questo modo di impostare il problema, per il nostro autore, contiene due errori: prima di tutto credere che vi siano fonti prime della conoscenza non distinguere con sufficiente chiarezza tra questioni di origine e questioni di validità. 70 capace di darci un’immagine vera della realtà fisica, una rappresentazione vera e completa del mondo fisico. Commentava Einstein: nel sec. XIX Dio creò le leggi del moto di Newton insieme con le masse e le forze necessarie. La meccanica era la base sicura della fisica. Avviene poi la crisi della fisica (Mach, Duhem, Poincaré e soprattutto Einstein). In fondo Popper parte da questa domanda: che cosa significa la rivoluzione di Einstein per la teoria della conoscenza? Nel 1919, anno di osservazioni fondamentali per la teoria della relatività, egli si pone il problema della demarcazione, l’esigenza cioè di tracciare una linea, per quanto possibile, fra le asserzioni o i sistemi di asserzioni delle scienze empiriche da un lato, e di tutte le altre asserzioni, di tipo religioso o metafisico, e quindi pseudoscientifiche dall’altro. Il problema principale non è più l’induzione (che cosa fa essere la scienza e produce scienza) ma la demarcazione, cioè dove sta la linea di confine tra ciò che è scienza e ciò che non è scienza. Per decidere questo occorre allora rispondere ad una seconda domanda: quali requisiti una teoria deve avere per essere considerata scientifica? In questo Popper è influenzato decisamente da Einstein perché egli aveva formulato previsioni rischiose, tali cioè che se non si fossero osservati gli accadimenti previsti, la teoria si sarebbe dovuta considerare confutata. Per questo Einstein era alla ricerca di esperimenti cruciali, il cui accordo con le sue predizioni avrebbe corroborato la sua teoria, o l’eventuale disaccordo l’avrebbe eliminata. Praticamente Einstein, per verificare la scientificità della sua teoria, non va a cercare conferme, fatti che la confermano, ma va a cercare eventuali fatti che la possano smentire, vuole verificare se questa teoria sa resistere di fronte agli esperimenti più audaci e rischiosi. Praticamente, per verificare la scientificità della sua teoria, Einstein si pone queste domande: sotto quali condizioni dovrei ammettere che la mia teoria è insostenibile? Quali fatti concepibili accetterei come confutazioni o falsificazioni della mia teoria? Opposto è invece l’atteggiamento dogmatico, come quello dei marxisti o degli psicanalisti al tempo di Popper o Einstein: proprio perché presumo che la mia teoria sia vera e certa, vado a cercare conferme, cerco di includere il maggior numero possibile di situazioni che la confermano; non vado a cercare controlli rischiosi che possano confutarla, ma voglio trovare ad ogni costo conferme ad essa. A questo proposito Popper scriverà: “E’ facile ottenere delle conferme o verifiche, per quasi ogni teoria, se quello che cerchiamo sono appunto conferme. La vera conferma, invece, vale se è il risultato di una previsione rischiosa, cioè se essa avviene la dove invece mi aspettavo un evento che avrebbe confutato la mia teoria, ma invece di venire una smentita è venuta una conferma. Il vero controllo di una teoria è il tentativo di falsificarla o di confutarla, un tentativo serio e genuino di falsificarla. Quindi, il sistema newtoniano non è il solo possibile sistema di meccanica in grado di spiegare i fenomeni, finisce l’epoca dell’autoritarismo della scienza. Le teorie scientifiche non sono più sistemi di proposizioni vere, ma sono e rimarranno sempre ipotesi o congetture. Le nostre teorie sono sempre fallibili e fallibili rimangono anche quando abbiamo ricevuto conferme lampanti”. Il nostro autore critica 71 l’ideale giustificazionista della scienza come episteme, cioè la concezione secondo cui la scienza è sapere; il sapere implicherebbe la certezza insieme con la giustificazione della certezza. il punto di vista induttivistico, secondo il quale il metodo induttivo permette di trovare teorie vere o di accertare se un’ipotesi è vera. il punto di vista kantiano della verità a priori delle proposizioni scientifiche. una versione debole della scienza come episteme, la quale afferma che la scienza non raggiungerà mai la certezza ma può raggiungere la probabilità. La concezione della scienza come techne, secondo cui le teorie scientifiche non descrivono la natura, ma sono solo gli strumenti più o meno utili, più o meno efficaci, per prevedere eventi futuri, ma senza alcun rapporto con la verità o falsità. Egli sostiene invece la concezione fallibilista della conoscenza come diretto risultato della rivoluzione einsteiniana. Tutto parte dalla concezione ipotetico-deduttiva della geometria: quest’ultima non parte da verità evidenti o immediatamente vere, ma da ipotesi da cui derivano i sistemi come libere posizioni nei limiti della logica. Noi non consideriamo più un sistema deduttivo come un sistema che stabilisce la verità dei suoi teoremi deducendoli da assiomi la cui verità è assolutamente certa, auto evidente, indubitabile, ma è un sistema che ci consente di mettere razionalmente o criticamente in discussione le sue assunzioni, sviluppandone criticamente le conseguenze. La deduzione non vuole dimostrare le conclusioni, ma è uno strumento di critica razionale che mette alla prova le ipotesi e controlla le conclusioni. Solo l’esperienza decide allora l’accettazione o il rigetto di un sistema assiomatico e deduttivo. Il pensiero di Popper può essere considerato una sintesi tra razionalismo ed empirismo. Imre Lakatos (1922-1974) è un filosofo ungherese fuggito in Occidente nel 1956 dopo un periodo di prigione per le sue posizioni antistaliniste. Egli è stato segnato dalla relazione con Popper che lo ha indotto a rompere col pensiero hegeliano per la filosofia più avanzata del nostro tempo. Egli si scontra invece con le posizioni di Kuhn e considera il suo pensiero un sostanziale irrazionalismo. Quest’ultimo presenta le rivoluzioni scientifiche come conversioni religiose e ciò può avere gravi conseguenze per le scienze sociali e per la filosofia morale e politica: “Se neppure nella scienza c’è altro modo di giudicare una teoria che quello di valutare il numero, la fede, le energie vocali dei suoi sostenitori, allora a maggior ragione le cose staranno così per le scienze sociali: la verità si fonda sul potere. Così la posizione di Kuhn giustifica, senza dubbio involontariamente, il credo politico di base dei fanatici religiosi contemporanei”, scrive Lakatos nel 1970 in La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici. Secondo Popper, che concepisce le rivoluzioni scientifiche come processi razionali, la scienza è rivoluzione permanente, mentre per Kuhn la rivoluzione è qualcosa di eccezionale e di extrascientifico. Per Popper la critica è il cuore dell’impresa scientifica, per Kuhn la critica in tempi normali è anatema e la scienza normale sorge sul passaggio dalla critica al dogmatismo. In questo senso avverrebbe il progresso. Nel 1972, in 72 un’altra serie di saggi intitolata La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, Lakatos aggiunge: “Non c’è nessuna particolare causa razionale per l’emergere di una crisi kuhniana. Crisi è un concetto psicologico, un panico contagioso. Poi emerge un nuovo paradigma, incommensurabile con il precedente. Non ci sono standard razionali per il loro confronto … Non esistono standard superparadigmatici. Il mutamento consiste nello schierarsi dalla parte del più forte”. Così per Kuhn la rivoluzione scientifica è irrazionale, è una questione di psicologia di massa. Inizialmente Lakatos apprezza di Popper l’audacia delle congetture da una parte e la spietatezza delle confutazioni dall’altra ma progressivamente egli comincia ad allontanarsi da alcune idee popperiane. Soprattutto egli afferma che non esiste nulla di simile agli esperimenti cruciali che possono falsificare una teoria scientifica. Per falsificare una teoria scientifica ci vuole ben altro e molto tempo. Una teoria scientifica è un programma di ricerca. La critica puramente negativa e distruttiva, come la confutazione o la dimostrazione di una incoerenza, non elimina un programma. La critica di un programma è un processo lungo e spesso frustrante e bisogna trattare con indulgenza i programmi agli inizi del loro sviluppo. Si può ovviamente smascherare la degenerazione di un programma di ricerca, ma solo la critica costruttiva, con l’aiuto di programmi di ricerca rivali, può ottenere successi reali; i risultati drammatici e spettacolari diventano visibili soltanto retrospettivamente e mediante una ricostruzione razionale. La teoria generale di Popper ignora la notevole tenacia delle teorie scientifiche: “Gli scienziati hanno la pelle dura. Non abbandonano una teoria solo perché alcuni fatti la contraddicono. Di solito o inventano qualche ipotesi di salvataggio per spiegare quella che poi chiamano una mera anomalia o, se non riescono a spiegare l’anomalia, la ignorano ed indirizzano la loro attenzione ad altri problemi. Gli scienziati parlano di anomalie, di casi recalcitranti, mai di confutazioni. Naturalmente la storia della scienza è piena di resoconti del modo in cui certi presunti esperimenti cruciali demolirono certe teorie. Ma questi resoconti vengono fabbricati molto tempo dopo che la teoria è stata abbandonata”. Se per Kuhn una rivoluzione scientifica consiste in un irrazionale cambiamento di fede, in una conversione religiosa, non c’è più nessuna demarcazione esplicita tra scienza e pseudoscienza, nessuna distinzione tra progresso scientifico e decadenza intellettuale, non ci sarebbero più standard di onestà oggettivi. Gli esperimenti cruciali di Popper o le rivoluzioni scientifiche di Kuhn sono in realtà dei miti. Per Lakatos, una scienza non può essere definita in base al consenso della comunità che la pratica. Se così fosse, anche credenze assurde condivise da una comunità potrebbero essere scienze. La scienza non ha nulla a che vedere con il consenso, una teoria può anche avere un supremo valore scientifico anche se nessuno la capisce e tanto meno crede che essa sia vera. Il valore conoscitivo di una teoria non ha nulla a che vedere con la sua influenza psicologica sulla mente delle persone. La scienza non è neanche un semplice insieme di congetture e confutazioni, tentativi ed errori. Per Lakatos centrale è il concetto di programma di ricerca, un insieme di ipotesi e teorie. I programmi di ricerca validi predicono tutti fatti nuovi, fatti o che non erano stati neppure immaginati o che erano addirittura stati contraddetti da programmi precedenti o rivali. I programmi di ricerca scientifici sono validi non perché condivisi da una comunità scientifica o perché non sono stati ancora falsificati, ma perché hanno una stratta relazione con i fatti, rappresentata dalla previsione sempre nuova di questi e quindi dalla 75 ma è un opportunista che piega i risultati del passato e i principi più sacri del presente ora ad un fine ora all’altro, sempre che li consideri degni di attenzione. Feyerabend, con il suo pluralismo teorico e metodologico radicale, sfocia nel relativismo assoluto e non si pone neanche più il problema della demarcazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è. Egli si pone allora in dissenso con Popper, Kuhn e Lakatos perché in qualche modo si pone fuori la filosofia della scienza in quanto non riconosce più una specifica attività disciplinare e professionale che si chiama scienza. Anzi, egli sostiene una generale e sostanziale affinità tra la attività o pratica scientifica e quella poetica e artistica: “Le invenzioni e gli espedienti che aiutano un uomo intelligente a districarsi nella giungla dei fatti, principi a priori, teorie, formule matematiche, regole metodologiche, oppressione del grosso pubblico e dei suoi colleghi professionisti, che lo mettono in grado di ricavare un quadro coerente dal caos apparente, sono molto più strettamente affini allo spirito della poesia di quanto non si pensi generalmente”. Poi egli accosterà la scienza al mito, all’arte e la dissolverà nelle comuni attività umane. Esaminando storicamente la pratica effettiva di ricerca, il nostro autore elabora una teoria che distrugge il concetto di scienza e di ragione come criteri guida, che si schiera contro il metodo (legge e ordine), per l’anarchia. L’anarchismo combatte, avendo dalla sua l’esperienza reale della pratica scientifica, l’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica. Nella pratica scientifica nessuna norma viene conservata, anzi viene violata quando le circostanze lo richiedono. Tali violazioni non sono eventi accidentali o eccezionali, ma sono necessarie per il progresso scientifico. L’anarchismo aiuta a conseguire il progresso in qualsiasi senso si voglia intendere questa parola: c’è un solo principio che può essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano, “qualsiasi cosa può andar bene”, ed esso va esteso a tutte le attività che presiedono lo sviluppo umano. Se qualsiasi cosa può andar bene, lo scienziato, nella sua pratica di ricerca scientifica, può utilizzare tutto ciò che gli può tornare utile: idee scientifiche abbandonate da tempo, idee metafisiche, elementi tratti dal mito. Con una metodologia pluralistica, lo scienziato confronterà teorie con altre teorie, non con l’esperienza, e cercherà non di rifiutare ma di perfezionare quelle opinioni che appaiono uscire sconfitte dalla competizione. Non esistono fatti nudi ma i fatti sono sempre presenti attraverso le teorie nelle quali si parla di essi. La proliferazione di opinioni e teorie costituisce la base della metodologia pluralistica o dell’anarchismo metodologico, e favoriscono anche una visione umanitaria e democratica della vita umana. Le violazioni di norme, le deviazioni irrazionali, gli errori che accompagnano la pratica scientifica non ostacolano il progresso conoscitivo, ma lo promuovono e ne costituiscono il presupposto necessario, consentendo contestualmente una vita più libera e felice nel mondo complesso e difficile in cui siamo. Scrive Feyerabend: “Senza caos non c’è conoscenza. Senza una frequente rinuncia alla ragione non c’è progresso. Idee che oggi formano la base stessa della scienza, esistono solo perché ci furono cose come il pregiudizio, l’opinione, la passione, perché queste cose si opposero alla ragione, e perché fu loro permesso di operare a modo loro. Dobbiamo quindi concludere che, anche all’interno della scienza, la ragione non può e non dovrebbe dominare tutto e che spesso deve essere sconfitta, o eliminata, a favore di altre istanze”. La scienza e la ragione non sono sacrosante. Ci sono altri modi di approccio ai problemi che assillano l’umanità, 76 scartati in genere dalla scienza ufficiale, ma non meno efficaci di essa: “Esistono miti, esistono i dogmi della teologia, esiste la metafisica, e ci sono molti altri modi di costruire una concezione del mondo. È chiaro che uno scambio fecondo tra la scienza e tali concezioni del mondo non scientifiche avrà bisogno dell’anarchismo ancora più di quanto ne ha bisogno la scienza. L’anarchismo è quindi non soltanto possibile, ma necessario tanto per il progresso interno alla scienza quanto per lo sviluppo della nostra cultura nel suo complesso”. La scienza è solo uno dei molti strumenti inventati dall’uomo per fare fronte al suo ambiente. Essa non è l’unico, non è infallibile ed è divenuta troppo potente, troppo aggressiva e troppo pericolosa perché le si possa lasciare la briglia sciolta. Lo strapotere della scienza nel mondo di oggi non è fondato su una sua autorità teorica, ma dal fatto si essere sostenuta dai poteri statali e istituzionali. L’educazione pubblica in tutti gli stati moderni inculca il culto della scienza presentata come la forma più alta dell’attività razionale, come lo strumento più efficace per il perfezionamento della società. Occorre, per il nostro autore, un nuovo illuminismo per ridimensionare il peso della scienza nella nostra società, che non ha un’autorità maggiore rispetto ad altre forme di vita. In passato si è combattuto per ottenere la separazione tra Stato e Chiesa al fine di realizzare nella società una maggiore libertà e tolleranza; oggi bisogna integrare quella separazione con la separazione tra Stato e scienza. Solo con essa si può superare la febbrile barbarie della nostra epoca scientifico- tecnologica per conseguire un’umanità di cui siamo capaci ma che non abbiamo mai pienamente realizzato. Feyerabend propone allora di incentivare tutte le forme di attività solitamente rifiutate ed emarginate come non scientifiche, perché la separazione tra scienza e non scienza è artificiale e dannosa per il progresso della conoscenza. Chi sostiene che non c’è conoscenza al di fuori dell’attività razionale della scienza, “racconta favole convenienti al sistema di potere esistente”. Non esiste nulla che corrisponda alla parola “scienza” e alla parola “razionalismo”. Scrive il nostro autore in Scienza come arte del 1984: “I tentativi più recenti di rivitalizzare antiche tradizioni, o di separare la scienza e le istituzioni con essa connesse dalle istituzioni dello stato, non sono perciò semplicemente sintomi di un atteggiamento irragionevole, ma sono i primi passi provvisori verso un nuovo illuminismo: i cittadini non accettano più i giudizi dei loro esperti, non danno più per scontato che la cosa migliore sia delegare i problemi difficili agli specialisti; fanno ciò che ci si attende da persone mature: ossia si formano un’opinione e agiscono sulla base delle conclusioni che hanno raggiunto. In una democrazia conta l’esperienza dei cittadini, non dei soli esperti professionali”. 77 Giordano Bruno (1548-1600) Cenni biografici. Giordano Bruno si presenta così: “Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodici miglia, nato ed allevato in quella città, e la professione mia è stata ed è di lettere e di ogni scienza; e mio padre avea nome Gioanni, e mia madre Fraulissa Savolina, e la professione di mio padre era di soldato, il qual è morto insieme anco con mia madre … io son de età de anni quarantaquattro incirca, e nacqui, per quanto ho intesa dalli miei, dell’anno ‘48” (Autobiografia). Egli nacque a Napoli e si formò a Napoli. Due incontri lo hanno segnato: quello col Sarnese, di tendenze aristotelico-averroiste, da cui ha ricevuto un orientamento di carattere antifilologico, e generalmente antiumanistico (la forma linguistica, le parole o verba sono irrilevanti e ininfluenti dal punto di vista delle cose e del pensiero: ciò che conta sono i concetti, ciò che si dice, non la forma o la lingua) e con Fra’ Teofilo da Vairano. Nei dialoghi cosmologici chi sostiene le posizioni di Bruno si chiama proprio Teofilo. Sul come e perché Fra’ Teofilo abbia segnato la vita di Bruno non si sa nulla di certo. Si possono abbozzare ipotesi: egli era un agostiniano, per cui è probabile che il suo orientamento fosse platonico e abbia dischiuso al Nolano la lezione neoplatonica. Chiaramente Bruno, tramite Teofilo, conobbe anche Agostino a cui si è riferito nelle questioni trinitarie in merito al termine persona. Bruno si accostò poi all’arte della memoria (Raimondo Lullo) che si basava sul principio che tra le immagini mnemoniche e la struttura del mondo ci fosse una reciproca specularità. Racconta poi Bruno: “ … de 14 anni, o 15 incirca, pigliai l’abito de S. Dominico in Napoli; e fui vestito da un padre che era allora prior de quel convento, nominato maestro Ambrosio Pasqua; e finito l’anno della pronazione, fui admesso da lui medesimo alla professione”. A 17 anni e mezzo Filippo Bruno indossa l’abito di chierico nel convento di S. Domenico Maggiore e prende il nome di Giordano Bruno. Siamo nel 1565. Perché questa scelta vocazionale? È probabile che egli si fosse deciso ad entrare in convento per continuare a studiare, a svolgere la sua ricerca filosofica in una condizione di tranquillità e di sicurezza, e di libertà. L’ordine dei predicatori era in quel tempo potente ed autorevole ed egli contava di poter da loro imparare l’arte della parola. Bruno però non si addentrò in problematiche di carattere teologico, la sua professione fu attendere alla filosofia. Ma quando entra in convento, il Nolano è già distante da una ortodossia cattolica di carattere tradizionale, come appare con chiarezza dal primo degli incidenti che segnano la sua vita a S. Domenico Maggiore. Egli passò dal cristocentrismo di Erasmo 80 “Ricordati, signora, di quel che credo non bisogna insegnarvi: il tempo tutto toglie e tutto dà, ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto. Però qualunque sii il punto di questa sera che aspetto, si la mutazione è vera, io che sono ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno aspettano la notte: tutto quel che è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete, dunque, e si possete, state sana ed amate chi v’ama”. Il Bruno ha qui chiarito il principio dell’eterno fluire delle cose. Esso è affermato però sulla base dell’unità materiale del tutto. Dopo il periodo francese, per il nostro autore si apre una fertile parentesi londinese. Gli anni 1584- 85 sono fertili e in essi vedono alla luce i suoi dialoghi teoreticamente più rilevanti e notevoli, come la Cena de le Ceneri, il De la causa, il De Infinito, lo Spaccio, la Cabbala, gli Eroici furori. Nel De la causa la comprensione del principio dell’eterno fluire progredisce: la forma viene fissata alla materia, la forma diventa la costanza dei comportamenti della materia. La materia, che continuamente si fa e si disfa, riprende continuamente le sue forme, le medesime forme. Bruno allora critica il concetto aristotelico di materia, inteso come pura potenzialità: la materia non può essere un quasi nulla, e nella realtà non si può dare una materia senza forma e non è concepibile una forma senza materia. Per lui la materia è un principio attivo, una tensione interna, una vera e propria energia produttrice. Soprattutto nel De la causa principio et uno egli precisa il suo concetto di materia: “Coloro che filosofano più a fondo capiscono ciò che noi abbiamo chiarito altrove; come la materia contenga nel proprio seno l’avvio di tutte le forme, sicché da esso tutte le produce e le emette; e come non sia quella pura privazione, che accoglie in sé tutte le cose dall’esterno quasi come straniere: fuori dal grembo della materia, invero, non esiste alcuna forma, e tutte si celano in esso e da esso a suo tempo rampollano. Dunque alcunché di divino è la materia, come alcunché di divino è ritenuta la forma, la quale o è nulla o è parte della materia: nulla fuori della materia o senza la materia così come il poter fare o il poter essere fatto sono una sola ed identica cosa e poggiano in un solo ed indivisibile fondamento ed assieme si dà ed assieme si toglie ciò che può fare tutto e ciò che può essere fatto tutto. Ed una sola è la potenza assoluta in sé presa come abbiamo argomentato più analiticamente nello scritto Sull’Infinito e l’Universo e più rigorosamente nei Dialoghi Del Principio e dell’Uno, concludendo che non è stolta l’opinione di Davide da Dinanto e di Avicebron nell’opera Fonte di vita: egli la riprende dagli arabi che non esitano a conferire anche alla materia l’appellativo di Dio”. Intorno a questa nuova concezione della materia ruota la nuova filosofia del Nolano. La materia, dunque, non riceve le sue dimensioni dal di fuori ma le trae da se stessa; senza le sue forme è come una madre senza prole, è il contrario di quella potenza pura, nuda, senza atto, senza virtù e perfezione di cui parlavano Aristotele e i suoi seguaci. Gli aristotelici chiamavano atto piuttosto 81 l’esplicazione della forma che l’implicazione, ma per il nostro autore si sbagliavano. L’essere espresso, sensibile, esplicato, non è la principale causa dell’attualità, ma è conseguenza ed effetto di quella. Il motivo dell’essere attuale del legno non sta nel fatto che è diventato letto, , ma nel fatto che come legno ha una tale sostanza e consistenza che può diventare letto, trave, statua. Bruno si rifà dunque al medievale David De Dinant per sostenere che la materia è un essere divino, perché esplica ciò che ha in sé implicato, è dunque generatrice e madre. Egli giunge a questa concezione della materia dopo aver cercato di focalizzare meglio l’identità di ciò che è materiale e corporeo e aver quindi messo a fuoco una materia universale e incorporea che è al tempo stesso fondamento del corporeo e dell’incorporeo: “La medesima materia, voglio dir più chiaro, il medesimo che può esser fatto o pur può essere, o è fatto, è per mezzo de le dimensioni ed extensioni del suggetto, e quelle qualitadi che hanno l’essere nel quanto; e questo si chiama sustanza corporale e suppone materia corporale; o è fatto (se pur ha l’essere di novo) ed è senza quelle dimensioni, extensione e qualità, e questo si dice sustanza incorporea, e suppone similmente detta materia. Cossì ad una potenza attiva tanto di cose corporali quanto di cose incorporee, over ad un essere tanto corporeo quanto incorporeo, corrisponde una potenza passiva tanto corporea quanto incorporea, ed un poter essere tanto corporeo quanto incorporeo. Se dunque vogliam dir composizione tanto de l’una quanto ne l’altra natura la doviamo intendere in una ed un’altra maniera: e considerare che se dice ne le cose eterne una materia sempre sotto un atto, e che nelle cose variabili sempre contiene or uno or un altro: in quella la materia ha, una volta, sempre ed insieme, tutto quel che può avere, ed è tutto quel che può essere; ma questa più volte, in tempi diversi, e certe successioni”. La differenza tra l’una e l’altra materia dipende dalla contrazione all’essere corporea o al non esserlo. La materia universale e incorporea ha comunque atti dimensionali: “… quella materia, per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e dimensioni; e perché le ave tutte, non ne ha nessuna, perché quello che ètante cose diverse bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene a quello che è tutto, che esclude ogni essere particolare … Mai è informe quella materia, come né anco questa, benché differentemente quella e questa: quella ne l’istante de l’eternità, questa ne gli istanti del tempo; quella insieme, questa successivamente; quella esplicitamente, questa complicatamente; quella come molti, questa come uno; quella per ciascuno e cosa per cosa, questa come tutto e come ogni cosa”. Siamo al concetto della Vita – materia infinita. Nel De la causa Bruno si occupa della fondazione ontologica della cosmologia dell’infinito. Egli trasforma allora il concetto di materia, porta l’anima, cioè la vita, dentro la materia, apre la strada al prodursi inesauribile dell’universo infinito. Egli cerca allora di mettere in comunicazione, senza dissolvere distinzioni inesauribili, corporeo e incorporeo, sensibile e intellegibile, atto e potenza, anima, forma e materia. La materia è sciolta dall’identificazione con la corporeità, diviene materia universale che si situa al centro del processo, si costituisce come principio della comunicazione tra il corporeo e l’incorporeo, tra sensibile e 82 intellegibile. Da un lato, la materia ascende a Dio, all’incorporeo, non può essere aliena dalle sostanze incorporee; dall’altro lato la materia discende verso il corporeo, il dimensionato, così che, anche in queste cose inferiori, viene a coincidere l’atto con la potenza: nelle cose inferiori, dunque, anima e materia tendono a coincidere e ad essere finalmente uno. La materia è così trasfigurata e risorge come la fenice dalle ceneri, e si riconfigura come infinita energia formatrice, come la pregnante che manda e scuote da sé tutte le figure, tutte le dimensioni. La materia caccia dal suo seno infinite cose e mondi infiniti, si trasforma in Vita – materia infinita. P. Bayle, autore illuminista, nel 1697, pubblicando il suo Dictionnaire, attribuisce a Bruno la dimostrazione che la materia dei corpi non è differente dalla materia degli spiriti e coglie proprio il centro. Nel nostro autore, se la materia penetra in Dio, Dio penetra nella materia. La materia è allora un essere divino nelle cose, è principio infinito di vita infinita. L’universo e l’uomo Bruno elabora la concezione dell’universo infinito e degli innumerevoli mondi: “Non temiamo che quello che è accumulato in questo mondo, per la veemenza di qualche spirito errante o per il sdegno di qualche fulmineo Giove, si dispiega fuor di questa tomba o cupola del cielo, o si scuota ed effluisca come in polvere fuor di questo manto stelli fero; e la natura de le cose non altrimenti possa venir ad inanirsi in sustanza, che alla apparenza dei nostri occhi quell’aria che era compreso entro la concavitade di una bolla, va in casso; perché ne è noto un mondo, in cui sempre cosa succede a cosa senza che sia ultimo profondo, da onde, come da la mano del fabro, irreparabilmente effluiscano in nulla. Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e sottraggano la infinita copia delle cose. Indi, feconda è la terra ed il suo mare; indi perpetuo è il vampo del sole, sumministrandosi eternamente esca e gli voraci fuochi ed umori e gli attenuati mari; perché dall’infinito sempre nova copia di materia sotto nasce … Ogni produzione, di qualsivoglia forma che la sia, è una alterazione, rimanendo la sustanza sempre medesima … Questo lo ha possuto intendere Pitagora, che non teme la morte, ma aspetta la mutazione. Lo hanno possuto intendere tutti i filosofi, chiamati volgarmente fisici, che niente dicono generarsi secondo la sustanza né corrompersi, se non vogliamo nominare in questo modo la alterazione”. In un ritmo inesauribile, senza principio e senza fine, dal seno della Vita – materia infinita sgorgano mondi innumerabili, forme innumerabili, individui innumerabili. In questo tipo di pensiero sono estranei il concetto di creazione e il concetto di morte. Ciò che muore è il composto, l’accidentale composizione; la sostanza, invece, non muore mai ma si produce incessantemente. Il termine morte viene sostituito con quello di mutazione. Il Nolano, per la sua cosmologia, usa un lessico biologico: l’universo è il grande animale e simulacro del primo principio, gli astri sono i grandi animali, la terra stessa è un animale. La Vita – materia infinita si esplica, si comunica cioè ad ogni grado di realtà: sia i piccoli animali che i grandi 85 tema della accidentalità e transitorietà di ogni destino, di ogni composizione, compreso l’uomo. Un’opera importante, in questo senso, sono i dialoghi “Gli eroici furori”, composti a Londra nel 1585. Nel comporre quest’opera Bruno ha presente anche una fonte biblica, il Cantico dei Cantici: “Avevo pensato di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale, sotto la scorza di amori e di affetti ordinari contiene similmente divini ed eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalistici dottori; volevo, per dirla, chiamarlo Cantica”. Bruno ricorre spesso al Cantico dei Cantici, nelle sue opere, perché in esso individua lo strumento più efficace per esprimere la sovrabbondanza del principio divino, che si lascia riafferrare solo attraverso il velo dei simboli. Il Cantico traccia insomma il percorso lento, difficile, mai perfettamente concluso che consente all’uomo di riafferrare, sia pure in forme umbratili, il primo e vero bene. Il problema che si pone Bruno è questo: come può una vicenda accidentale e transeunte come l’esistenza umana divenire esperienza della verità suprema? Nel Cantico (2,3) la bella Sulamita siede all’ombra del suo diletto, secondo il suo desiderio: “Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto tra i giovani. Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato” La sposa siede all’ombra dell’amato: ciò diventa una metafora della condizione di miseria in cui versa l’uomo nel corso dell’esistenza terrena. Ma la Sulammita siede all’ombra: alla sproporzione tra finito e infinito si accompagna un momento di comunione tra divino e umano. L’ombra esprime il limite costitutivo dell’uomo ed anche il luogo di un’esperienza privilegiata. Già nel De umbris idearum veniva elaborato questo concetto: l’uomo, secondo gli echi del Qoelet, è prigioniero dell’orizzonte della vanità e non può accedere senza mediazioni al campo della Verità, non può cioè accostarsi direttamente alla luce divina. La forma più alta di felicità consiste allora nel sedersi all’ombra del vero e del bene. E Bruno non intende il vero e il bene naturali e razionali, ma si riferisce al vero e al bene metafisico, ideale, soprasostanziale. Ci sarebbero, cioè, stando al De Umbris, due livelli dissimili dell’essere: la dimensione del vero e del bene naturale e razionale, e qui l’ombra richiama l’intreccio continuo di vero e falso, inestricabile (il vero e il bene secondo natura e ragione divengono necessariamente il luogo in cui si esprimono il falsum e il malum) e la dimensione del vero e del bene metafisico, ideale e soprasostanziale, rispetto al quale l’ombra non si dà più come un limite, ma rappresenta invece la via privilegiata della comunicazione. In questo tema Bruno riprende Origene e Bernardo da Chiaravalle, che consideravano questo sedere all’ombra il segno di un privilegio rarissimo, grazie al quale alcune anime elette possono sottrarsi all’ombra naturale e porsi nell’ombra che promana direttamente dalla verità divina. Pur riprendendo il Cantico dei Cantici e pur riferendosi all’esegesi e alla mistica cristiana, Bruno si distanzia nettamente da tale tradizione. Nel De Umbris la capacità di conquistare l’immagine umbratile del primo e vero bene non è una grazia concessa a pochi, ma scaturisce da uno sforzo di concentrazione che non tutti, né sempre, sono in grado di realizzare. La perfezione, cioè, non è né uno stato naturale, né un beneficio divino, ma è “adeptio”, costituisce cioè all’opposto una conquista, un termine e un premio di un processo di affinamento che coinvolge tutte le potenze 86 cognitive superiori. L’esperienza della verità è segnata allora da una concentrazione sempre più intensa, che sale dal senso all’immaginazione, dall’immaginazione alla ragione, dalla ragione all’intelletto, dall’intelletto alla mente. La mente è il compimento di tale percorso, è il momento in cui l’anima tutta si converte in Dio e abita il mondo intellegibile. Rimane fermo che la perfezione dell’uomo, frutto di una rinnovata conoscenza di sé e di uno straordinario affinamento della ragione, non germina da un dono gratuito della divinità che attrae a sé l’uomo e si comunica senza veli. La tradizione mistica cristiana canta l’unione dell’anima con Dio; Bruno nel De Umbris e ne Gli Eroici Furori prospetta una conclusione diversa; il cammino in cui l’uomo si concentra nella mente non culmina nella contemplazione del divino, ma si arresta ad un suo riflesso umbratile e offuscato. Lo sforzo cognitivo dell’uomo è delimitato da termini insuperabili, ma è possibile e necessario stabilire un rapporto più profondo con la verità assoluta. Bruno distingue l’ombra naturale e la contrappone all’ombra che promana dalla luce divina. Il singolo può rimanere soggetto dell’opacità alla materia o può essere proteso oltre l’orizzonte corporeo, verso il primo vero e bene. L’esistenza umana si definisce pertanto all’interno di un movimento perenne, in cui continuamente l’ombra della luce divina attraversa e riscatta le ombre di tenebra e di morte prodotte dalla materia e dagli enti inferiori. Noi troviamo dunque l’inerzia di chi si pone sotto l’ombra naturale della tenebra o l’atteggiamento intimamente eroico di quanti cercano di oltrepassare il limite naturale, visti e trascinati dall’impeto delle potenze superiori, che senza sosta aspirano verso l’ombra della luce. L’uomo è costituito da un infinito aspirare all’infinito, dall’impeto di un desiderio mai del tutto appagato. Soprattutto ne Gli Eroici Furori viene sottolineato il movimento infinito dell’uomo verso la verità. L’infinito desiderare diventa il punto di contatto tra l’individuo finito e lo splendore infinito del sommo bene e dell’infinita bellezza. All’infinito poi si arriva non per la via del senso, ma per la via dell’Intelletto. Il senso non può conoscere le cose che sono fuori dell’anima, ma le annuncia alla facoltà che le conosce. È necessario uscire dall’orizzonte del senso per scoprire l’infinito, l’universo dei mondi innumerabili. Scrive Bruno nel De Infinito: “Non è senso che vegga l’infinito, - dice Teofilo -, non è senso da cui si richieda questa conchiusione: perché l’infinito non può essere oggetto del senso; e però chi dimanda di conoscere questo per via di senso, è simile a colui che volesse vedere con gli occhi la sustanza o l’essenza; e che negasse per questo la cosa, perché non è sensibile o visibile, verebe a negar la propria sustanza ed essere … A l’intelletto conviene giudicar e rendere raggione de le cose absenti e divise per distanza di tempo ed intervallo di luoghi. Ed in questo assai ne basta ed assai sufficiente testimonio abbiamo dal senso per quel che non è potente e contradirne”. I sensi servono dunque ad incitare e a suscitare la ragione, ad indicare e testimoniare in parte, non certamente in tutto; mai sensi si trovano senza qualche perturbazione o sconvolgimento. La verità, in parte, proviene dai sensi, ma non è nei sensi. Se ben utilizzati e guidati, i sensi possono confermare l’intelletto e sostenerlo, ma non possono mai sostituirsi ad esso. Alla luce di questa concezione Bruno critica ad esempio la concezione dei sensi e del cosmo di Epicuro: 87 “Epicuro, - osserva Smirtho – come appare nella sua Epistola a Sofocle e nell’undicesimo libro De Natura (come referisce Diogene Laerzio) dice che (per quanto lui può giudicare la grandezza del sole, de la luna, et d’altre stelle è tanta quanta a’ nostri sensi appare: perché dice se per la distanza perdessero la grandezza, ad più raggione perderebbono il colore: et certo (dice) non altrimenti doviamo giudicar di que’ lumi, che di questi che sono appresso a noi” (Cena de le Ceneri). Epicuro stabilirebbe un nesso organico tra grandezza e colore e da qui fa discendere il primato conoscitivo del senso nel conoscere la grandezza e la distanza degli astri, dai più vicini ai più lontani. Bruno polemizza in modo radicale con tale concezione perché possono esserci corpi vicini e grandissimi ma opachi che appaiono piccoli e distanti e corpi lontani e piccolissimi, ma luminosi, che appaiono grandi e vicini. Per conoscere le reali grandezza e distanza degli astri occorre mettersi dal punto di vista dell’intelletto, e la stessa cosa bisogna fare se si vogliono osservare le “varietà di approssimanza” che avvengono in corpi grandissimi e luminosissimi, ma al tempo stesso assai distanti. L’intelletto deve allora mettersi alla prova in lunghissime osservazioni e per osservare deve prima credere, cercare, presupporre. Solo così si può aprire la via ad una nuova primavera di osservazioni su ogni piano della realtà. Ora, quello che è scoperto dall’intelletto, non può che essere confermato dalla teologia, dalla buona teologia. La concezione dell’universo infinito, secondo il Nolano, richiede una corretta concezione della divinità. Scrive infatti: “… Perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? Perché vogliamo dire che la divina bontà la quale si può comunicare alle cose infinite e si può infinitamente diffondere, voglia esser scarsa ed estringersi in niente, atteso che ogni cosa finita al riguardo de l’infinito è niente? Perché volete quel centro de la divinità, che può infinitamente in una sfera (se cossì potete dirse) infinita amplificarse, come invidioso, rimanere più tosto sterile che farsi comunicabile, padre fecondo, ornato e bello?” Egli critica l’ozio che si darebbe nel caso di una potenza infinita non pienamente attuata, e ribadisce la convenienza, l’utilità, la verità del farsi, del prodursi infinito dei mondi innumerabili, così dal punto di vista della filosofia come di quello della religione. L’universo è ombra del Primo principio, è tutto infinito ma non è totalmente infinito, mentre Dio è tutto infinito e totalmente infinito. Dio e universo sono strutturalmente collegati in un nesso di specularità: ciò che si afferma dell’universo deve affermarsi necessariamente di Dio. Se io dunque affermo la finitudine dell’universo, dovrei anche affermare la finitudine di Dio. Un’ombra finita è il riflesso di una luce finita. La questione di un universo finito o infinito riguarda anche la potenza e la volontà divine: “Quale raggione vuole che vogliamo credere, che l’agente che può fare un buono infinito, lo fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere che possa farlo infinito, essendo in lui il possere e il fare tutt’uno? Perché è immutabile, non ha contingenza nella operazione, né nella efficacia, ma da determinata e certa efficacia depende determinato e certo effetto immutabilmente; onde non può essere altro che quello che è; non può essere tale quale non è; non può essere altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili”. 90 Dio non può rimanere oziosa, cioè non completamente attuata, così come l’uomo non può indulgere all’ozio, all’inattività. Bruno e la religione Questo motiva la sua ripetuta contrapposizione frontale all’indifferente grazia di Lutero e Calvino, che non consideravano le opere rilevanti al fine di essere salvati. La religione luterana è oziosa e pedantesca. Lutero, l’autore del De servo arbitrio, è l’angelo del male venuto a rovesciare in modo radicale gli ordini del mondo. La sua dottrina dissolve opere, sapere, costumi degli uomini. Per Lutero la filosofia, ogni contemplazione, ogni magia non sono altro che pazzie, ogni atto eroico è vigliaccheria, l’ignoranza è la più bella scienza del mondo, perché si acquista senza fatica. La dottrina di Lutero ha portato frodi, guerre, rapine, ha distrutto la giustizia naturale, ha dissolto il convitto umano. Occorre allora ricostituire il concetto di giustizia e far rinascere l’antica e sepolta religione. Per far questo bisogna legare strettamente etica, religione e ontologia, ricongiungere Dio e natura. La divinità si comunica ad ogni minimo corpuscolo nell’infinito, la provvidenza si comunica ad ogni aspetto della vita universale. Non c’è giustizia senza ordine, ma non c’è ordine senza Provvidenza. Ordine, giustizia, Provvidenza sono strutturalmente congiunti. Tra la città di Dio e la città dell’uomo sussistono armonia, relazione, intrinseca corrispondenza. La vera religione è una religione civile che promuove l’amor di patria e l’amor di gloria, che rende più solida la convivenza umana e la conoscenza naturale. La vera religione è principio di mantenimento e di sviluppo di una civiltà a tutti i suoi livelli, deve esaltare la grandezza dell’animo, la fortezza del corpo, deve glorificare gli uomini forti ed attivi, non quelli umili e contemplativi. L’universo stesso, per avere senso, ordine, giustizia, unità, deve radicarsi nella fatica. Nell’antichità scienza, legge e religione erano saldate. La dottrina della grazia di Lutero e Calvino viene quasi a coincidere, secondo il nostro filosofo, con quella della fortuna cieca e traditrice. La vocazione fondamentale dell’uomo è vocazione alla praxis, e su questo punto egli costruisce la sua polemica contro Lutero e contro il pensiero ebraico – cristiano. L’uomo costruisce la civiltà tra ingiustizie e malizie sui principi del merito e della virtù. La virtù non coincide col non essere viziosi, non ha niente a che fare con l’indifferenza bovina né alberga nell’età dell’oro in cui è strutturalmente estranea ogni distinzione di vizio e virtù. Nell’età dell’oro, o nel Paradiso terrestre dei cristiani, manca ogni principio di moralità il quale si costituisce attraverso un processo aspro e complesso, sul crinale sottilissimo che divide senza mai dissolversi umanità e bestialità, lungo l’inesauribile farsi e disfarsi delle civiltà. La virtù germina dal lavoro, dalla fatica che l’uomo compie per uscire dalla bestialità, germina dalla possibilità di distinguere bene e male, e dalla capacità di scegliere il bene e la giustizia. La virtù non è allora il puro istinto naturale, ma è frutto di consapevolezza, di scelte coscienti tra varie possibilità. Gli uomini del paradiso cristiano non sono in grado di distinguere e di scegliere, non sono né virtuosi né viziosi. La virtù vive dove ci sono l’intelletto e la mano, dove ci sono lavoro, industrie, invenzioni. Non si possono sostituire alla mano l’orecchio, alla sapienza l’ignoranza, alla curiosità la fede asinina, alla fatica l’ozio e la pedanteria. I cristiani, invece, hanno rovesciato uno per uno tutti gli ordini umani e naturali, si 91 sono concentrati solo sulla facoltà vegetativa, sensitiva e intellettuale, si sono dunque preoccupati maggiormente di ascoltare cosa fare piuttosto che agire. Nell’opposizione tra mano e orecchio si esprime allora una concezione dell’uomo, della virtù, dei caratteri costitutivi della civiltà umana; si esprime anche una critica radicale al cristianesimo identificato con l’ozio e la pedanteria. Occorre ringiovanire il mondo, ripristinare il primato del merito, del lavoro, della fatica, trasformare la fortuna in Provvidenza estendendo i meriti individuali di ciascuno e impedendo che gli incarichi e le responsabilità cadano sulle spalle di chi non è in grado di portarli. Così Bruno fa parlare la Fortuna: “Non son, dunque, più ingiusta io che tratto e muovo tutti equalmente, che voi altri che non fate tutti equali – dice rivolta agli altri dei -. Tal che, quando avviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della furfantesca poltronaria, a fine che un tale non presieda …” Bruno annuncia dunque l’avvento di una nuova religione che ricostituisce il vincolo dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura e, mediante la natura e la magia, dell’uomo con la divinità. Il cristianesimo ha partorito una dolorosa divisione tra uomini e dei, ora si tratta di unificare e vincolare il mondo. Egli, alla luce di tutto questo, critica anche in modo aspro la figura di Cristo: identificato con Orione, poi con il centauro Chirone, mezzo uomo e mezza bestia, egli fu una figura triste, strappò la simpatia degli apostoli con miracoli apparenti e con la magia. Molti affermano davanti agli Inquisitori di averlo sentito dire che non c’è trinità in Dio. Il 02 giugno 1592 dichiarava di fronte agli inquisitori: “Io ho stimato che la divinità del Verbo assistesse a quell’umanità de Cristo individualmente, e non ho potuto capire che fosse una unione ch’avesse similitudine di anima e di corpo, ma una assistenza tale, per la quale veramente si potesse dire di questo uomo che fosse Dio, e di questa divinità che fosse omo. E la causa è stata, perché tra la substanzia infinita e divina, e finita ed umana non è proporzione alcuna come è tra l’anima ed il corpo, o qual si voglian due altre cose le quali posson fare uno subsistente” Ritornando al primato della praxis, essa è una via attraverso cui l’uomo cerca di oltrepassare l’accidentalità mirando all’infinità. In rapporto alla praxis si stagliano le figure del sapiente e del furioso. Il sapiente si concentra e si risolve nella conoscenza della mutazione vicissitudinale, si situa nell’indifferenza, nella casa della temperanza, si tiene nel mezzo perché sa che dal male si sale al bene e dal bene si discende al male secondo un movimento infinito che è la struttura costitutiva della realtà. Scrive a proposito il Nolano: “Considerando il male e il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte che l’un contrario è fine de l’altro, e l’estremo de l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente ne l’inclinazioni, e 92 temperato nelle voluptadi; stante ch’a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono, ed afferma quelle non esser altro che vanità ed un niente; perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto e la linea” La sapienza è contemplazione della vicissitudine che struttura ogni livello della realtà. Il furioso rappresenta invece un altro livello della verità, della felicità, della moralità. Egli oltrepassa l’orizzonte della contemplazione, che è operazione dell’intelletto, per accedere ad una straordinaria esperienza esistenziale e conoscitiva, resa possibile dall’operazione della volontà. Il vincolo d’Amore dischiude al furioso una più profonda visione della realtà e una più alta concezione della moralità e della felicità. La differenza tra il sapiente e il furioso è nel loro differente rapporto con la contrarietà. Nel De l’Infinito Bruno dimostra che i contrari concorrono in uno, che coincidono nella sostanza assoluta. Nello Spaccio i contrari sono presentati come efficienti prossimi dei cambiamenti. Ogni cambiamento e vicissitudine è dai contrari, a causa dei contrari, per mezzo dei contrari, nei contrari. Infatti dove è la contrarietà sono l’azione e la reazione, il moto, la diversità, la moltitudine, l’ordine, i gradi, la successione, la vicissitudine. Se la vicissitudine è la struttura della realtà, i contrari sono il principio della vicissitudine nell’universo esplicato, disperso, comunicato. Senza contrarietà non c’è mutazione vicissitudinale; il sapiente contempla e sceglie virtuosamente di stare nell’indifferenza, nella temperanza, lontano dagli estremi, nel mezzo dove minima o nulla è la contrarietà. Il furioso, invece, sceglie di stare agli estremi, forza viziosamente la contrarietà, scinde se stesso. Egli spezza il cerchio dell’indifferenza, della temperanza, per riuscire infine a vedere l’unità e a godere di essa, per sperimentare una più alta e straordinaria felicità. Nell’infinito, o si sceglie il vizio mettendo a repentaglio sia l’anima, sia il corpo, oppure si resta nel ciclo della vicissitudine in cui si risolve la contemplazione del sapiente. Il furioso fa una straordinaria esperienza di se stesso attraverso il vincolo d’Amore, si apre nell’ombra la strada alla Verità, cerca di portare a fusione assoluto e comunicato, esplicito ed implicito. Il Furioso guarda tutto come uno, non vede più per distinzioni, vede nell’universo la monade, la “vera essenza de l’essere de tutti”. Certo, il Furioso non può uscire dal limite dell’universo, non può contemplare l’Uno nell’assoluta luce, perché l’uomo è strutturalmente un accidente e Dio si rapporta agli uomini non come assoluto, ma comunicandosi agli effetti della natura. Neppure l’esperienza del Furioso cancella lo scarto irriducibile tra ente ed accidente, finito ed infinito, fra tempo ed eternità. Se Dio non può incarnare, l’uomo non può diventare Dio. Il Furioso ottiene però qualcosa di straordinario: pur nell’ombra, cioè nell’universo, egli riesce a vedere e a godere dell’unità. 95 discontinua, di modo che la geometria non abbia più nulla da scoprire. Questa scienza interamente nuova sarebbe la ricostruzione su basi nuove non solo della geometria, ma di tutto il sapere, con un metodo che avesse la stessa evidenza e lo stesso valore dimostrativo delle matematiche. Dopo un soggiorno continuativo di tre anni in Francia, probabilmente negli anni 1627-28 Cartesio elabora la sua opera Regulae ad directionem ingenii in cui cerca di definire tale scienza interamente nuova. In quest’opera egli non analizza le singole scienze, ma le riporta tutte al fondamento unitario. Tale fondamento unitario delle singole scienze è nel soggetto conoscente ed è la ragione. La scienza è conoscenza certa ed evidente, quindi non fanno parte di essa le conoscenze solo probabili. La scienza si occupa solo di quegli oggetti alla cui conoscenza certa ed indubitabile sembra sia sufficiente il nostro ingegno. La certezza di tali conoscenze deve essere pari alle dimostrazioni di aritmetica e di geometria per cui il metodo della nuova scienza è pensato sulla base di quello delle matematiche. L’intelletto che conosce compie due atti fondamentali: l’intuito e la deduzione: “ … per intuito non intendo la mutevole attestazione dei sensi né il giudizio fallace di un’immaginazione che non sa comporre, bensì la concezione di una mente pura ed attenta, concezione così facile e distinta che non resti proprio alcun dubbio intorno a ciò che comprendiamo; ossia … la concezione sicura di una mente pura ed attenta che nasce dal solo lume della ragione … la deduzione è uno sviluppo continuo ed ininterrotto del pensiero che intuisce con trasparenza le singole cose”. Le deduzione intuisce la successione con cui alcune verità discendono necessariamente da altre conosciute con certezza o da principi veri e noti. Riguardo all’intuito, Cartesio si preoccupa di precisare proprio quale facoltà intuisce: è la ragione, proprio perché l’intuito non è un tipo di conoscenza nebulosa o approssimativa. La stessa deduzione, in ultima analisi, si riconduce all’intuito, è una successione di atti intuitivi perché in ogni momento della deduzione si intuisce, cioè si coglie con evidenza il nesso tra una verità e quella da cui dipende immediatamente. La differenza consiste nel fatto che l’intuito coglie in un atto puro e semplice, la deduzione comporta una successione di atti intuitivi. Per la deduzione, a differenza dell’intuito, non è necessaria una evidenza attuale, anzi essa trae la propria certezza piuttosto dalla memoria. I primi principi della scienza sono conosciuti solo per intuito nella loro evidenza attuale, le proposizioni che si ricavano immediatamente dai primi principi sono conosciute ora per intuito ora per deduzione, le conclusioni lontane sono conosciute solo per deduzione. Chiariti i due atti con cui l’intelletto conosce, Cartesio definisce il metodo come insieme delle “regole certe e facili, grazie alle quali chiunque le avrà rispettate in modo esatto non assumerà mai il falso come vero, e senza stancare la mente con sforzi inutili, ma sempre aumentando per gradi il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte le cose di cui sarà capace”. Concretamente, occorre ridurre gradualmente le proposizioni involute ed oscure ad altre più semplici, occorre un nuovo modo di classificare che non sia disporre le cose secondo le categorie della logica scolastica, quindi disporle non secondo qualche genere di ente, ma in ordine seriale sicché la conoscenza delle une 96 derivi da quella delle altre secondo rapporti stabiliti dall’intuito e dalla deduzione. Il riferimento di tale modo di classificare non è più l’oggettività dell’ente, ma il nostro modo di conoscere. Dedotto un certo numero di verità direttamente le une dalle altre, occorre individuare quale sia la verità più semplice e individuare i suoi rapporti con le altre conoscenze. Per questo Cartesio raccomanda una enumerazione completa delle cose, delle verità che riguardano lo scopo della ricerca, una enumerazione sufficiente e ordinata. L’enumerazione sufficiente ed ordinata diventa uno strumento metodologico importante che subentra al sillogismo aristotelico per garantire la continuità e la completezza del processo deduttivo. In quest’opera il nostro autore postula delle nature semplici, per sé note, evidenti, la cui conoscenza è così trasparente e distinta che non possono essere divise dalla mente ulteriormente in parecchie cose conosciute più distintamente; esse sono i principi di quelle catene di ragioni secondo cui si deve costruire la scienza. Le nature semplici sono colte dall’intuito e si coordinano tra loro secondo rapporti necessari o contingenti. I rapporti necessari non sono solo i rapporti matematici: “Se Socrate dice di dubitare di tutto, da ciò segue necessariamente: dunque questo almeno intende, che dubita; parimenti sia pertanto che qualcosa può esser vera o falsa ecc., in quanto ciò è necessariamente connesso con la natura del dubbio”. Un esempio di un altro tipo di rapporto necessario: “Io sono, dunque Dio è; o anche, io comprendo, dunque ho una mente distinta dal corpo”. Dal 1629 Cartesio soggiorna in Olanda e, accanto alla sua passione per le scienze, coltiva anche quella per la metafisica. In particolare considera le verità matematiche come verità eterne che dipendono quindi da Dio che le ha create e ne è il garante. La fisica e l’antropologia Sempre nello stesso anno lo Scheiner osservò l’apparizione di falsi soli. Interessato, il nostro autore si impegna in problemi di fisica celeste e di ottica. Tra il 1630 e il 1633 compone il Trattato Il Mondo o Trattato della Luce, ma non lo pubblica, a causa della condanna di Galileo, perché anche lui aveva ripudiato la concezione aristotelico – tolemaica del mondo. La nuova fisica che lui elabora non cerca più le forme, le essenze, le qualità sostanziali ma si fonda su un minimo di nozioni chiare ed evidenti. Cosa escogita il nostro filosofo, credente e scienziato, per far conoscere la sua nuova fisica senza entrare in conflitto con la cosmologia biblica e la teologia scolastica? Egli non vuole spiegare come questo mondo è stato fatto, ma come avrebbe potuto essere creato da Dio negli spazi immaginari, spazi che i filosofi pongono fuori del mondo fisico. Il Trattato di Cartesio è allora la favola del mondo. Dice Cartesio: immaginiamo che Dio abbia creato una materia senza forma e qualità, vero corpo perfettamente solido che riempie allo stesso modo tutte le lunghezze, larghezze e profondità del grande spazio in mezzo a cui ci siamo fermati col pensiero. Tale materia è pura estensione, quantità, e l’estensione non è un accidente, ma la vera 97 forma o essenza della materia. Ad essa Dio ha impresso il movimento secondo tre leggi fondamentali: “La prima è: che ogni parte della materia in particolare persiste nel medesimo stato finché l’urto delle altre non la costringe a mutarlo … Suppongo come seconda regola che, quando un corpo ne spinge un altro, non possa comunicargli alcun movimento senza perderne contemporaneamente altrettanto del proprio; né sottrarglielo senza aumentare il proprio nella stessa misura. Ne aggiungerò una terza: che quando un corpo si muove, benché il suo movimento avvenga per lo più secondo una curva e ogni movimento sia sempre in qualche modo circolare, tuttavia, le sue parti, singolarmente prese, tendono sempre a continuare il loro in linea retta … Non voglio supporre altre leggi all’infuori di quelle che derivano necessariamente dalle verità eterne che i matematici prendono come fondamento abituale delle loro dimostrazioni più certe ed evidenti … Sicché chi saprà esaminare a sufficienza le conseguenze di tali verità e delle nostre regole potrà conoscere gli effetti delle cause; e, per usare i termini della Scuola, potrà avere dimostrazioni a priori di tutto ciò che può essere prodotto in questo nuovo mondo”. Cartesio delinea il progetto di una fisica – matematica costruita deduttivamente, ma egli non negherà mai il carattere ipotetico e congetturale del suo discorso e affermerà anche di non poter dare dimostrazioni esatte di tutte le cose che dirà. Talvolta, nel mondo dell’esperienza, occorre accontentarsi di una certezza morale, non metafisica. Le tre leggi del movimento seguono la legge di inerzia per la quale la quantità di movimento è conservata costante. Sul piano ontologico si distinguono lo stato di riposo e lo stato di movimento: anche il movimento, quindi, è uno stato con una realtà sua propria. Tutto l’universo si costituisce secondo leggi meccaniche, in base al movimento, alla grandezza, alla figura, alla disposizione delle parti della materia. La materia si identifica con l’estensione e lo spazio, per cui il vuoto non esiste. La materia è divisibile all’infinito perché il moto impresso ad essa da Dio la frantuma in particelle sempre ulteriormente divisibili che costituiscono i tre elementi fondamentali, fuoco, aria e terra. Tra questi tre elementi non si dà differenza qualitativa, ma quantitativa, consistente nelle parti di materia e nel movimento di cui sono dotate. Non possono darsi, quindi, atomi indivisibili. Dal moto di fuoco, aria, terra, sorgono mondi innumerevoli in spazi immaginari (pianeti, comete, stelle, soli …). Unica è la materia che costituisce i cieli e la terra, identiche sono le leggi del movimento per tutti i corpi. Non esiste più la distinzione tra fisica celeste e fisica terrestre. Il sole al centro e la terra che muove e gira intorno si situano in uno dei tanti sistemi planetari. Il Trattato sul Mondo si conclude con alcuni capitoli sull’uomo: “Suppongo che il corpo altro non sia se non una statua o macchina di terra che Dio forma espressamente per renderla più che possibile a noi somigliante: dimodoché, non solo le dà esteriormente il colorito e la forma di tutte le nostre membra, ma colloca nel suo interno tutte le parti richieste perché possa camminare, mangiare, respirare, imitare, infine, tutte quelle nostre funzioni che si può immaginare procedano dalla materia e dipendano soltanto dalla disposizione degli organi. Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine siffatte che, pur essendo
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