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Dispensa storia moderna, Schemi e mappe concettuali di Storia Moderna

Dispensa riassuntivo di storia moderna

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 29/01/2022

maria-zacchi
maria-zacchi 🇮🇹

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Scarica Dispensa storia moderna e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! CAPITOLI 1. Metodi e periodizzazioni: pag.2 2. La società d’Antico regime: pag.10 3. Lo Stato Moderno: pag.14 4. I trend demografici e l’economia preindustriale: pag. 16 5. Umanesimo e Rinascimento: pag.20 6. La mappa politica dell’Europa: pag.23 7. Le scoperte geografiche e la nascita degli imperi coloniali portoghese e spagnolo: pag. 30 8. La crisi religiosa del Cinquecento, la Riforma luterana: pag.38 9. Il Calvinismo e l’Inghilterra anglicana: pag.41 10. Carlo V e Filippo II d’Asburgo: l’egemonia della monarchia spagnola nell’Europa del ‘500: pag.44 11. L’Europa delle guerre di religione: dalla Controriforma cattolica alla Guerra dei Trent’anni: pag. 49 12. L’Europa del Seicento: pag.52 13. Le rivoluzioni inglesi del ‘600: pag.55 14. La scienza moderna: pag. 59 15. Luigi XIV: pag.61 16. Le Guerre di Successione della prima metà del ‘700: pag.63 17. Il colonialismo settecentesco e l’ascesa dell’ “Impero”britannico: pag.65 18. L’Illuminismo: pag.66 19. La Rivoluzione americana: pag.69 20. L’assolutismo illuminato e le riforme settecentesche: pag.72 21. La Rivoluzione francese, dalla convocazione degli Stati Generali al collasso della monarchia parlamentare: pag.74 22. La Rivoluzione francese, dal Terrore all’ascesa di Napoleone Bonaparte: pag.77 23. La Restaurazione: pag.79 24. La Rivoluzione industriale: pag.80 25. Le civiltà extra europee nell’età moderna: pag.82 26. La compagnia di Gesù in età moderna (dal libro di Ferlan): pag. 89 27. L’Illuminismo (dal libro di Outram): pag.96 1 1.METODI E PERIODIZZAZIONE La storia come disciplina e come attività di ricerca: alcune riflessioni di metodo Nella lingua italiana il vocabolo “storia” possiede vari significati: 1) il divenire degli eventi nel corso del tempo (il quale è un fenomeno oggettivo); 2) la narrazione e l’interpretazione che gli uomini forniscono agli eventi passati (che è, invece, un prodotto soggettivo): in quest’ultimo caso si parla di “storiografia”. Il termine italiano “storia” deriva da quello latino historia che, a sua volta, deriva dal termine greco antico historéin che può tradursi con “osservare, cercare di sapere, indagare, informarsi” (quindi il sostantivo hístor significa “testimone”). Indagare presuppone in primis la necessità di collocare gli eventi in un tempo e in uno spazio precisi, oltre che accertare razionalmente la credibilità di ogni tipo di testimonianza; ma poi quegli eventi devono essere raccontati, per cui fin dagli antichi greci la disciplina storica presuppone anche uno specifico tipo di narrazione, certamente ancorata alla base empirica dei fatti, ma comunque non aliena dall’uso degli artifici retorici tipici della scrittura. Quindi nella storia, intesa come disciplina, questi due elementi – 1)la ricerca, l’osservazione, l’indagine; 2) la narrazione/racconto dei fatti, a cominciare da quelli politici e militari – sono presenti fin dai tempi di Erodoto (484-425 a. C.) e Tucidide (460-404 a. C.). La migliore definizione di cosa sia la “storia” l’ha probabilmente fornita il grande studioso francese del ‘900 Marc Bloch nel suo libro postumo Apologia della storia o mestiere di storico (1949). Il volume si apre con un ragazzino che chiede a suo padre professore di storia: “Papà, spiegami a che serve la storia”. Il padre storico (Bloch stesso) risponde usando una metafora fiabesca: “Lo storico è come l’orco della fiaba: là dove fiuta odore di carne umana, la sa che c’è la sua preda”. Fuori metafora, lo storico si prefigge di conoscere, anche in forma approssimativa, gli Uomini (e le donne, ovviamente) attraverso ogni tipo di testimonianza o traccia che hanno lasciato: i documenti d’archivio, i libri, i quadri, gli edifici, gli usi e costumi, la lingua, le canzoni, il paesaggio, ecc. L’oggetto della ricerca storica è l’umanità, e cioè gli uomini e le donne del passato colti nelle loro relazioni reciproche, per cui essa ricostruisce le trasformazioni avvenute nel tempo nelle varie società umane. Degli uomini e delle donne del passato ci deve interessare tutto, non esclusivamente i fatti politico-militari: se dai tempi di Erodoto e Tucidide fino all’inizio del XX secolo gli storici si sono occupati eminentemente dei grandi uomini politici (re-regine, imperatori, papi, generali) e di guerre o battaglie, dall’inizio del ‘900 ad oggi, grazie all’influsso esercitato sulla storia dalle scienze sociali (geografia, economia, sociologia, antropologia, psicologia), i campi d’indagine si sono notevolmente ampliati; per cui oggi delle civiltà passate studiamo pure la cultura materiale, la demografia, la tecnologia, la mentalità, i rituali, la sessualità, ecc. Ormai, quindi, all’interno della disciplina storica esistono degli approcci e degli ambiti di studio specialistici come, ad esempio, la storia economica, la demografia storica, la storia delle donne, la storia dell’alimentazione, la storia della famiglia, la storia climatica, la storia delle emozioni, ecc. E’ quindi sbagliato credere che lo studio della storia coincida esclusivamente con la dimensione politico-istituzionale e militare: tenete a mente questo concetto, già espresso con chiarezza da Voltaire a metà ‘700 (nella storia «tutto ci riguarda, tutto è fatto per noi»), quando studiate e quando poi insegnerete. Per chi non è storico di professione la storia è soprattutto storiografia: la conoscenza storica è infatti veicolata in primo luogo dagli scritti degli storici (un manuale, un saggio, una monografia, un articolo) i quali narrano un dato evento (ad esempio: la Rivoluzione francese), proponendo su di esso una determinata interpretazione. In altri termini la conoscenza del passato è sempre mediata, per cui è sempre “storia della storiografia”; e la storiografia è una disciplina eminentemente sociale in quanto racconta i fatti e i mutamenti intervenuti nelle società umane in un determinato tempo e in un dato spazio geografico. Fin dai tempi degli antichi greci-romani gli scopi dell’attività storiografica sono essenzialmente tre: 1) ammaestrare (Historia magistra vitae); 2) ricordare; 3) spiegare. Per quanto riguarda il primo ambito, dai tempi di Polibio (II secolo a. C.) fino al XIX secolo alla storia si attribuiva una funzione di insegnamento morale e di exemplum; tale prospettiva, fortissima nella prima età moderna (specie durante il Rinascimento), è stata gradualmente abbandonata grazie alla progressiva professionalizzazione della figura dello storico. Invece gli altri due obiettivi/funzioni del lavoro storiografico sono tutt’oggi ben presenti. Partendo dal “ricordare”, sappiamo tutti che una persona che perde la memoria smarrisce contestualmente la sua identità: senza memoria un uomo e una donna non sa più chi è, ed ha bisogno di qualcuno che lo/la aiuti a recuperare la memoria raccontandogli/le il suo passato, chi era anni prima. Ovviamente tale passato ricostruito da altri sarà un passato filtrato e selezionato dalla memoria altrui. Lo storico svolge la medesima funzione: in primo luogo è un testimone o colui che può recuperare la memoria. Il suo primo compito è quello di ricostruire i ricordi di uno “smemorato”; ma nel fornire una lettura del passato, egli agisce sempre in chiave soggettiva e cioè dal suo punto di vista personale (questo perché ogni conoscenza umana è egocentrica e ruota intorno all’io). Tale ragionamento vale anche per una comunità: senza memoria storica una comunità – anche 4 Il passato lascia numerose tracce e “relitti” che, spesso senza che ce ne accorgiamo, caratterizzano il nostro presente: carte, 4nicament, edifici, oggetti, molti aspetti del paesaggio, la stessa lingua che parliamo. Questi e altri resti del passato diventano una fonte quando vengono “interrogati” dagli storici in cerca di risposta alle proprie ipotesi di lavoro. Di solito gli studiosi incrociano tra loro più tipologie di fonti, cercando di ricostruire eventuali legami esistenti tra 4ni. La fonte è qualsiasi elemento, materiale o immateriale, adatto a dare risposte ai 4nicamen e alle domande che scaturiscono dalla ricerca storica. Una volta che lo storico si pone un’ipotesi di lavoro, fa seguire un’adeguata raccolta di fonti. Di fatto uno studioso, anche quando lavora all’interno di un’équipe, non riesce quasi mai a raccogliere 4nicamente44 tutte le fonti relative ad una data questione (o su un dato periodo); d’altra parte spesso emergono fonti inedite oppure nuovi quesiti mai posti fanno 4nicamen la necessità di fonti diverse. La base di partenza di una ricerca seria e originale dovrebbero essere le cosiddette fonti primarie o dirette, e cioè le testimonianze di qualsiasi generé che provengono dal passato: documenti manoscritti, scritti a stampa, fonti iconografiche (i quadri, ad es.), fonti materiali (gli oggetti), gli edifici, i manufatti, i paesaggi, le tecniche, la lingua. Insomma: ogni elemento che concerne gli uomini/le donne del passato e le loro società può costituire una fonte storica diretta. Naturalmente, nel caso di lavori di sintesi, come ad esempio un manuale universitario, il ricorso all’uso di fonti primarie (e, quindi, alle note dove solitamente vengono citate) è molto scarso, se non inesistente. Per svolgere bene il proprio lavoro e per decifrare in maniera corretta le fonti primarie, lo storico dovrebbe saper maneggiare o almeno conoscere i risultati di una serie di discipline che un tempo si definivano “ausiliarie” della storia: la 4nicament (che permette la ricostruzione critica di un manoscritto); la codicologia (lo studio dei codici antichi); la 4nicamente4 (lo studio delle scritture antiche fino alla prima età moderna); la 4nicamente4 (l’esame degli antichi diplomi e documenti ufficiali); la 4nicamente (lo studio delle scritture antiche); l’epigrafia (l’analisi delle epigrafi su pietra o marmo); la 4nicamente4 (lo studio delle monete); la sfragistica (lo studio dei sigilli usati per chiudere le lettere); l’araldica (la disciplina che esamina gli emblemi e gli stemmi, solitamente delle famiglie nobiliari, delle case regnanti, dei vescovi). La raccolta e l’analisi delle fonti dirette dipendono anche dalla loro disponibilità; quelle scritte – manoscritte o a stampa – sono 4nicamente negli archivi e nelle biblioteche. L’archivio non è solo il luogo di conservazione dei documenti, ma è quasi sempre la “memoria organizzata” di una data istituzione poiché riflette l’ente che lo ha creato. Non a caso l’ordinamento di un archivio non 4nicamente4 solitamente a criteri conservativi o di studio, ma rispecchia i criteri di chi utilizzava le carte ogni giorno: un archivio, quindi, raramente è ordinato per argomenti come può accadere nelle biblioteche, ma per funzioni poiché le singole sezioni in cui è suddiviso richiamano le funzioni amministrative dell’ente che lo ha generato. Per cui un ricercatore, per orientarsi e sapere in quale fondo specifico cercare le carte che potrebbero interessarlo, debe conoscere bene la storia di quelle istituzioni. In Europa esistono vari tipi di archivi: in primo luogo ci sono i grandi archivi nazionali di Stato, nati come archivi delle monarchie (come in Francia, Spagna e Inghilterra) oppure, come nel caso dell’Italia e della Germania, abbiamo archivi di Stato derivati dagli antichi Stati pre-unitari (in Italia, ad esempio, quelli di Torino, Milano, Venezia, Genova, Parma, Modena, Firenze, Roma, Napoli, Palermo, Cagliari, tutte ex 4nicame di antichi Stati italiani). Attualmente nel nostro paese ogni capoluogo di Provincia (compresa Reggio Emilia) possiede un archivio di Stato: in essi si trova la documentazione riguardante la pubblica amministrazione e il governo del territorio (documenti fiscali, politici, giudiziari, catasti, mappe, ecc.). In molti archivi di Stato sono comunque stati riversati anche alcuni fondi manoscritti privati (di famiglie nobili, di mercanti o di aziende) e gli archivi dei notai. Esistono poi gli archivi comunali (che contengono le anagrafi, gli estimi 4nica, gli atti delle antiche magistrature cittadine, le delibere delle giunte comunali), gli archivi degli enti pubblici (come le università, gli ospedali, gli ospizi, gli orfanotrofi, le accademie), gli archivi ecclesiastici (diocesani, cioè delle varie curie vescovili, parrocchiali e dei vari ordini religiosi), gli archivi delle imprese (come quello della FIAT), delle associazioni (come i fondi documentari delle confraternite o dei sindacati) e, infine, gli archivi privati delle famiglie nobili o mercantili (che spesso sono tutt’oggi custoditi dai discendenti e non sempre sono consultabili). Per ricostruire la vita materiale e quotidiana di una data comunità tra il Medioevo e l’età moderna di grande utilità risultano gli archivi notarili (solitamente custoditi negli archivi di Stato) che conservano contratti, doti, testamenti e inventari post mortem. Da queste tipologie di documenti ricaviamo informazioni utilissime circa la dimensione materiale di una data società del passato: ad esempio, su come si vestivano e cosa leggevano le donne e gli uomini dell’età moderna. Invece per ricostruire i trend demografici dalla metà del XVI sec. In poi essenziali risultano i registri delle nascite, dei matrimoni e dei decessi custoditi negli archivi parrocchiali. Invece le biblioteche conservano i libri e le altre fonti a stampa (riviste, giornali, fogli volanti, ecc.) che risultano egualmente importanti per la ricostruzione della storia moderna: in primo luogo perché rappresentano la fonte fondamentale della storia culturale; e secondariamente perché sono una novità che caratterizza l’età moderna rispetto alle epoche antica e medievale. La stampa a caratteri mobili può infatti essere considerata uno degli elementi qualificanti della storia moderna, anche in relazione al ruolo che tale invenzione ebbe nell’amplificare gli effetti della Riforma protestante. Le informazioni che i ricercatori traggono dalle opere a stampa non si limitano al loro contenuto, ma concernono anche il modo in cui esse sono state realizzate, la quantità della tiratura, i canali di diffusione utilizzati. 5 In altri termini, per valutare l’impatto che i testi a stampa hanno avuto tra il Quattrocento e l’Ottocento occorre analizzarne le tirature, i loro mercati, le pratiche di lettura del pubblico. Tutti questi aspetti qualitativi e quantitativi legati alla stampa sono diventati, soprattutto negli ultimi trent’anni, oggetto di un intenso studio da parte degli storici modernisti: ad esempio ormai non si potrebbe neppure concepire lo studio dell’Illuminismo senza prendere in considerazione i mezzi di comunicazione (oltre ai libri, i giornali e le gazzette che nascono e si sviluppano proprio nel corso del Settecento), utilizzati per diffondere le idee e i dibattiti illuministici presso l’opinione pubblica del periodo. Avremo modo di tornare sulla questione. Le fonti dirette di per sé non contengono la verità: come accade ai testimoni in un 5nicame quando sono interrogati dal magistrato, i documenti (per quanto originali e diretti) possono mentire, possono essere reticenti, possono riferire una versione di comodo o frutto di un’interpretazione soggettiva, possono deformare la realtà in base a determinati interessi, schemi mentali o preconcetti. Ciò è vero per i documenti ufficiali prodotti da un’istituzione, ma a maggior ragione vale per i cosiddetti “ego-documenti” (diari, memorie, lettere private), i quali propongono sempre una visione parziale, edulcorata e “aggiustata” delle azioni di cui è protagonista chi li scrive. Per cui lo storico, quando legge e interpreta i manoscritti, debe effettuare un rigoroso esame dei loro contenuti (la cosiddetta “critica delle fonti”). Esistono comunque anche le fonti indirette o secondarie le quali corrispondono a tutta la storiografia, cioè alla letteratura o bigliografia storica, esistente sull’argomento; le fonti indirette costituiscono quindi l’insieme delle conoscenze acquisite grazie alle ricostruzioni già effettuate da altri storici che si sono occupati, più o meno, degli stessi argomenti. La raccolta e l’esame della 5nicamente55 di riferimento su un dato problema rappresenta un dovere ineludibile di qualsiasi ricercatore, ma anche dell’insegnante, il quale dovrebbe sempre aggiornarsi sullo “stato della questione” relativo agli argomenti oggetto delle proprie lezioni: occorre cioè verificare cosa è stato pubblicato su un dato tema e se ci sono aggiornamenti/novità recenti. Veniamo adesso alla “critica delle fonti”. L’analisi critica dei documenti rappresenta il momento centrale dell’interpretazione storica perché si 5nica di verificare la bontà delle risposte che essi possono fornire alle ipotesi di ricerca. La presunta oggettività delle fonti dirette – tesi sostenuta dalla storiografia positivistica dell’Ottocento – è una chimera e rappresenta sempre un pericolo: non è raro che qualche ricercatore cada nella tentazione di “forzare” la lettura di una fonte per trovare conferma di una sua tesi, intuizione o ipotesi di ricerca. Comunque sia, l’analisi critica delle fonti primarie si articola in 4 fasi essenziali, che spesso si svolgono 5nicamente55te5: 1) la decifrazione; 2) l’esame del contenuto; 3) la prova dell’autenticità; 4) la definizione del grado di attendibilità. Partendo dalla prima fase, la decifrazione di un documento sembra a prima vista un’operazione semplice: in realtà non lo è. A parte il fatto che molti documenti, almeno fino alla fine del XVIII secolo, sono redatti in latino (o in forme di scrittura diverse da quella alfabetica come avviene in Cina o Giappone), abbiamo visto che esistono anche le fonti non scritte la cui decifrazione presuppone l’utilizzo di strumenti tecnici complessi: “leggere” un reperto archeologico o un affresco costringe spesso lo storico ad affidarsi a tecnologie o competenze scientifiche specifiche e specialistiche che lui non maneggia perché proprie di altri ambiti disciplinari (l’archeologia e la storia dell’arte negli esempi ora proposti). Dopo che il documento è stato decifrato, lo storico può procedere a esaminarne i contenuti. Chiaramente analizzare un dispaccio diplomatico (se non cifrato) è un’operazione molto più semplice che esaminare un relitto navale o i resti di una città. Una fonte, comunque, può essere frutto di una falsificazione, per cui occorre stabilirne l’autenticità: se nel Medioevo si tendeva a falsificare soprattutto le reliquie, i diplomi imperiali e le bolle pontificie, nel corso dell’età moderna i falsi riguardano varie tipologie di documenti, a cominciare dalle genealogie nobiliari. Uno dei più noti falsi storici è costituito dal testo antisemita intitolato Protocolli dei savi di Sion nel quale si esponeva un inesistente complotto giudaico per dominare il Mondo: in realtà esso era stato composto in Russia tra il 1902 e il 1903. Tale testo, fabbricato allo scopo di screditare gli ebrei, venne poi utilizzato da Hitler e dalla propaganda nazista per giustificare l’Olocausto. Attualmente, grazie all’aiuto che le già ricordate discipline “ausiliarie” (filologia, paleografia, diplomatica, numismatica, ecc.) forniscono agli storici, non è difficile verificare se un documento è un falso: tali discipline, infatti, permettono di determinare se i materiali e le modalità tecniche in cui un dato documento è stato redatto siano compatibili o meno con una determinata epoca e con uno specifico contesto. L’ultima fase della critica delle fonti, quella che concerne la loro l’attendibilità, è egualmente affascinante. Infatti, come abbiamo già accennato, anche la più autentica delle fonti può veicolare degli elementi fuorvianti e soggettivi: per fare un esempio relativo all’età moderna, un dispaccio diplomatico può contenere informazioni inattendibili o perché l’autore è in malafede oppure perché è male informato. L’unico metodo efficace per stabilire l’attendibilità di una fonte è la sua comparazione e “incrocio” con altre fonti, a volte di diversa natura. Confrontare varie testimonianze su un certo evento permette di raggiungere una scala di attendibilità: più uno storico è pratico di una determinata epoca o contesto, più è in grado di stabilire se un certo tipo di documento o determinate espressioni lessicali utilizzate sono attendibili. In altri termini l’esperienza e anni di analisi documentaria dovrebbero permettere ai ricercatori più avvertiti di dialogare con le “proprie” fonti. Il lungo periodo di formazione richiesto agli storici serve in buona parte a garantire una specifica familiarità con un determinato contesto storico, culturale e linguistico: una familiarità che risulta molto utile quando lo storico ambisce a “immergersi” e ricostruire il passato che sta studiando attraverso le fonti. 6 Uno dei tratti salienti della pratica storiografica, così come dell’insegnamento della storia, è la datazione: ogni asserzione ha carattere storico solo se è datata. Come è noto, il tempo storico è lineare, per cui concetti quali “successione”, “simultaneità”, “durata”, “ordine temporale” sono necessari per affrontare ogni argomento storico. Le attività che svolgerete nel corso della scuola dell’infanzia e del primo ciclo della primaria costituiscono perciò il prerequisito allo studio della storia: la capacità di leggere l’orologio e il calendario, di contare i secoli e i millenni, di distinguere le epoche tra l’avanti Cristo e il dopo Cristo e di tradurre i numeri arabi in quelli romani (1700-1799 = sec. XVIII) sono abilità che devono essere acquisite all’inizio del corso disciplinare di storia. La datazione è quindi l’operazione di base che occorre effettuare sul tempo storico. La cronologia è invece una scelta coerente di date ed eventi, ritenuti fondamentali, relativi a una data epoca e ordinati in successione. La cronologia non è un dato di fatto ma una scelta degli storici, per cui le cronologie cambiano in funzione delle generazioni di storici e delle correnti storiografiche. Si tratta quindi di un secondo livello dell’uso del tempo perché porta con sé una data interpretazione; la cronologia serve infatti ad organizzare il discorso storico per cui, nell’ambito della pratica didattica, essa dovrebbe seguire e non precedere ogni trattazione problematica: è inutile imparare e far imparare a memoria ai ragazzi una lista di date ed eventi senza che sia evidente una connessione logica tra le date e i fatti e, quindi, che sia stata svolta una riflessione previa sul loro significato. L’insegnante dovrebbe proporre una scelta molto limitata di date che ritiene fondamentali, anche per stimolare nello studente la costruzione di una cronologia personale degli eventi/fenomeni che più lo hanno colpito. Il terzo livello della scansione temporale della storia è costituito dalla periodizzazione: essa rappresenta un arco temporale ben delimitato, contraddistinto da una serie di caratteri originali e di discontinuità rispetto alle epoche precedenti e successive, tali da renderlo individuabile rispetto ad altri precedenti e/o successivi. Neppure le periodizzazioni, quindi, sono mai univoche, né tantomeno definitive. Preferirne una piuttosto che un’altra comporta differenti interpretazioni. La periodizzazione assolve alla funzione retorica di “sintesi persuasiva” perché, oltre a rendere pensabili i fatti/fenomeni storici (in quanto li riconduce a tendenze generali), esplicita in maniera immediata la visione complessiva proposta dallo storico su un certo evento/fenomeno. La periodizzazione esplicita cioè l’interpretazione che lo studioso propone su una certa epoca. Quindi, anche le periodizzazioni considerate convenzionali – come, ad esempio, la divisione della storia europea e mondiale in storia antica, storia medievale, storia moderna e storia contemporanea – possono essere ridiscusse e contestate: ad esempio, nel mondo anglosassone la Storia moderna si definisce Early Modern History e comprende il periodo che va dal tardo ‘400 al 1688, anno della Gloriosa Rivoluzione inglese; la Modern History, invece, coincide con la nostra storia contemporanea, che però, nel mondo anglosassone, inizia con il Settecento. Quindi nessuna periodizzazione esprime una verità assoluta, sebbene la periodizzazione rivesta un’importanza centrale nel lavoro dello storico e nell’insegnamento della storia: periodizzare, infatti, consente di comprendere l’estensione di determinati fenomeni nel tempo e la prevalenza, in un’epoca specifica, di alcune caratteristiche originali proprie delle società umane. Le date periodizzanti e i grandi cambiamenti dell’età moderna Per costruire una periodizzazione occorre definire un punto di partenza (una data a quo, dalla quale si fa partire un determinato processo) e un punto d’arrivo (o data ad quem, con la quale quel processo termina). Tali date sono chiamate “periodizzanti” poiché definiscono le tendenze generali presenti in una certa epoca. Successivamente, al periodo così delimitato, gli studiosi attribuiscono una determinata definizione, che quindi diventa una categoria storiografica: il Medioevo, il Rinascimento, la Controriforma, l’Illuminismo, il Risorgimento, ecc. A noi, ovviamente, interessano le date a quo e ad quem che definiscono la Storia moderna/modernità la quale è, essa stessa, una categoria interpretativa di periodizzazione densa di implicazioni ideologiche. La categoria di “età moderna” è sempre stata dinamica. Nei programmi di studio, in Italia come in buona parte dell’Europa, l’inizio dell’età moderna viene fissato convenzionalmente in una serie di date periodizzanti a quo: il 1453 (anno della conquista da parte dell’Impero Ottomano di Costantinopoli/Bisanzio), il 1492 (anno del primo viaggio di Cristoforo Colombo verso il Nuovo Mondo e della conquista di Granada da parte dei Re cattolici); il 1517 (inizio della Riforma luterana). Invece la fine dell’età moderna si fa solitamente coincidere con il 1789 (inizio della Rivoluzione francese), con il 1815 (Congresso di Vienna), con le Rivoluzioni liberali degli anni Trenta dell’Ottocento e, addirittura, con il 1848, anno delle grandi rivoluzioni democratiche europee e della pubblicazione del Manifesto del partito comunista di Karl Marx. Queste saranno le date periodizzanti che troverete anche nel vostro manuale di storia moderna. Esistono poi dei fenomeni che gli specialisti considerano periodizzanti sebbene non possano essere collegati a una data “secca” ma, tutt’al più, ad un secolo o a vari decenni a cavallo tra un secolo e l’altro: la rivoluzione culturale dell’Umanesimo-Rinascimento, verificatasi tra la prima metà del ‘400 e l’inizio del secolo successivo (dapprima in Italia e poi in tutta Europa), viene solitamente interpretata come una cesura netta rispetto al Medioevo, per cui può essere considerata un (o il) fenomeno da cui origina la modernità. Invece, per quanto concerne i processi che segnano la fine della modernità e l’inizio della contemporaneità, è soprattutto la prima Rivoluzione industriale, e cioè un fenomeno economico che si sviluppò nel corso del XVIII secolo in Inghilterra, ad essere stata utilizzato dagli specialisti per spiegare la fine di un’epoca: in effetti essa segnò l’inizio di un sistema economico nuovo incentrato sull’industria. 9 4.La nascita del capitalismo o economia di mercato Nel corso dell’età moderna si realizza in Europa (iniziando dall’Inghilterra) la progressiva trasformazione dell’economia da agricola a commerciale e, poi, a industriale. Naturalmente tale mutamento fu connesso a vari fattori quali il già ricordato aumento dei prezzi (evidente nel corso del XVI secolo), l’emergere dell’individualismo grazie allo sviluppo del Protestantesimo e del Calvinismo, il progressivo incremento demografico, lo sviluppo di nuove tecniche agricole e manifatturiere, il colonialismo (tra i cui effetti vi fu la tratta atlantica degli schiavi africani). Il moderno capitalismo mercantile emerge tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘700, mentre la prima Rivoluzione industriale si realizzò nel corso del ‘700 in Inghilterra. Avremo modo di vedere in dettaglio quali furono le precondizioni del processo di industrializzazione. 5.L’invenzione della stampa a caratteri mobili La “rivoluzione inavvertita” (secondo la definizione di Elizabeth Eisenstein), offrì un inedito mezzo di comunicazione che, nonostante gli altissimi livelli di analfabetismo nell’Europa del periodo, consentì di diffondere sempre più capillarmente il sapere e le idee, anche quelle più anticonformiste. Senza la diffusione del libro a stampa, dei fogli volanti e poi dei periodici sarebbe difficile immaginare le grandi rivoluzioni culturali dell’età moderna (come, ad esempio, il Rinascimento, il Barocco, la Scienza moderna e l’Illuminismo); così come, senza la stampa, probabilmente gli effetti della diffusione della Riforma luterana sarebbero stati meno dirompenti. Inoltre la carta stampata consentì l’affermazione non solo di una “Repubblica letteraria” (cioè di una comunità di eruditi, professori, teologi e intellettuali) che unì tutta l’Europa fin dal Rinascimento nonostante le divisioni confessionali, ma anche l’emergere di una nuova figura di intellettuale che tese sempre più a vivere dei frutti della propria professione e di ciò che stampava: nel corso dell’età moderna si assiste cioè alla progressiva professionalizzazione dei letterati. 6.La Rivoluzione militare La diffusione in Europa della polvere da sparo nel corso del XV secolo trasformò completamente i modi di fare la guerra e facilitò gli europei nelle loro conquiste coloniali in America, Africa, India ed Asia. Dall’inizio del ‘500 entra in crisi la cavalleria che aveva costituito il nucleo essenziale degli eserciti medievali: e poiché a formare la cavalleria erano soprattutto gli aristocratici (i feudatari-vassalli dei sovrani), tale declassamento coinvolse, specie tra i secoli XVII e XVIII, anche la funzione sociale dell’intero ceto nobiliare. Da questo momento in poi è l’artiglieria a costituire il nerbo degli eserciti degli Stati europei: essa si fondava non più sul valore, ma sulla tecnica. Naturalmente tale mutamento nel modo di combattere portò con sé un netto cambiamento non solo nella tattica e strategia militare (rendendo, ad esempio, inutili le cinte murarie merlate), ma anche una graduale crescita degli eserciti e una loro progressiva professionalizzazione; per cui le lunghe guerre del Cinque-Seicento saranno molto più devastanti, specie per la popolazione civile, di quelle medievali (più brevi e combattute da pochi guerrieri). 2.LA SOCIETA’ D’ANTICO REGIME All’inizio dell’età moderna, come durante il Medioevo, la società europea continua ad essere «cetuale», e cioè fondata sui ceti. Il ceto è un gruppo sociale, giuridicamente riconosciuto, che nasce per svolgere un ruolo specifico all’interno di una gerarchia prestabilita; ogni ceto possiede un determinato «status». Fin dall’alto Medioevo in Europa la società era suddivisa in tre ordini sociali o macro-ceti distinti: il clero (oratores), la nobiltà (bellatores) e tutti coloro che lavorano per mantenere i primi due (laboratores: contadini, artigiani, mercanti, ecc.). Questi tre ordini si definiscono rispettivamente anche come primo «stato» (clero), secondo «stato» (nobiltà) e terzo «stato» (tutti gli altri gruppi sociali). I ceti si distinguono nettamente dalle “classi”: nel primo caso, infatti, la distinzione sociale non si fonda sul reddito o sulla ricchezza, ma sulla posizione occupata all’interno di una gerarchia sociale prestabilita e sul modo in cui essi sono percepiti dagli altri attori sociali (e cioè in base al loro «status»). Ogni ceto/ordine si caratterizza per i privilegi di cui gode; tali privilegi sono riconosciuti giuridicamente per cui non possono essere modificati se non dal potere politico dominante. Nella società cetuale d’Antico Regime la mobilità sociale è fortemente limitata e regolata da precise norme regolamentate dal potere politico, per cui l’intera età moderna è costellata da numerosi conflitti sociali che esplodono con frequenza. La società cetuale, tra la fine del Medioevo e la prima età moderna, viene raffigurata dai trattatisti politici e dai teologi come un organismo le cui parti, gerarchicamente ordinate, dipendono l’una dall’altra, svolgono determinate funzioni e tendono al raggiungimento di un equilibrio stabile. Tale visione organicistica o funzionalista – esemplificata dalla metafora del corpo – è direttamente collegata all’articolazione tripartita della società sopra indicata. La definizione di «Antico Regime» venne coniata durante la Rivoluzione francese: essa qualificava in termini dispregiativi la società cetuale che l’età moderna aveva ereditato da quella medievale e che i rivoluzionari avevano voluto abbattere in quanto profondamente ingiusta. Si trattava, in effetti, di una società rigidamente gerarchica e piramidale, in cui al clero e alla nobiltà veniva riconosciuto uno «status» superiore per le funzioni che questi due ceti svolgevano. 10 Secondo i trattatisti politici del periodo, il clero si preoccupava di garantire all’intera comunità sociale la benevolenza divina e l’accesso alla vita eterna; per questa ragione esso costituiva il primo ordine o “stato”; invece i nobili (che, in tutta Europa, sostenevano di discendere dal ceppo di conquistatori barbari che avevano distrutto l’Impero romano d’Occidente) si occupavano di proteggere la società con le armi. Nella società d’Antico Regime il clero e la nobiltà sono quindi i ceti «privilegiati» per eccellenza, esentati per questo motivo dal pagamento di gran parte delle tasse (in particolare da quelle personali e sulle proprietà). Il clero veniva mantenuto dai fedeli attraverso le elemosine e il pagamento delle «decime» da parte dei contadini (i quali dovevano cedere circa 1/10 del raccolto agli ecclesiastici). Esso si divide in clero «secolare» (che vive, cioè, nel «secolo», e quindi nelle varie diocesi: parroci, vescovi, chierici secolari) e «regolare» (che vive segregato dal mondo in monasteri e conventi, seguendo una determinata regola: monaci, frati e chierici regolari). Il clero, comunque, non svolgeva esclusivamente attività collegate alla cura delle anime, ma anche altre importanti funzioni sociali: gli ecclesiastici, infatti, amministravano ingenti patrimoni e gestivano istituzioni educative, sanitarie e assistenziali. Inoltre essi diventano consiglieri e direttori spirituali di vari sovrani europei, i quali spesso affidavano loro anche importanti ruoli pubblici. La nobiltà o aristocrazia è il secondo ordine privilegiato della società cetuale d’Antico Regime. Oltre alla funzione militare (la cui centralità, durante l’età moderna, diminuisce), i nobili assumono gradualmente il ruolo di gestione politico- amministrativa della società su delega dei singoli sovrani, dell’imperatore o dei pontefici: gli aristocratici, cioè, svolgono compiti di governo, amministrativi e giudiziari e, quindi, gestiscono una parte consistente del potere pubblico (ad esempio in ambito giudiziario). La delega delle funzioni pubbliche alla nobiltà è sempre connessa all’affidamento di un titolo (come quelli di marchese, conte, duca, barone) e di un feudo: sono cioè soprattutto i nobili titolati a ricoprire ruoli pubblici a nome di questo o quel re. Inizialmente la concessione di un feudo da parte dei sovrani dei vari Stati europei, dell’imperatore o dei papi era vitalizia, ma finì per diventare perpetua già nel corso del Medioevo: per cui, anche se il feudo (e il titolo ad esso annesso) non è mai una proprietà privata, i nobili acquisiscono la facoltà di trasmetterlo ai loro discendenti. In età moderna, comunque, il ceto nobiliare non è chiuso ma bensì è un gruppo sociale tendenzialmente aperto: nobili non solo si nasce, ma si diventa. La nobilitazione si raggiunge in due modi: 1) attraverso i servizi resi ai monarchi e agli Stati (ad esempio tramite l’esercizio di cariche politiche o amministrative); 2) attraverso la ricchezza. A partire dal ‘500, di fronte alle accresciute esigenze finanziarie degli Stati, molti sovrani europei iniziano a vendere titoli nobiliari e onorificenze o uffici che conferiscono all’acquirente lo «status» nobiliare. Saranno soprattutto i ricchi borghesi – mercanti, avvocati, appaltatori delle imposte, ecc. – ad approfittare di tale opportunità. Una volta nobilitati, questi ex borghesi acquisiscono immediatamente una mentalità aristocratica fondata sul disprezzo verso il lavoro manuale, sulla rendita e sui consumi di lusso. Nella società d’Antico Regime i privilegi di cui godono ecclesiastici e nobili sono molteplici: 1) privilegi giurisdizionali attinenti all’autorità giudiziaria da loro amministrata (esistono quindi tribunali specifici per religiosi e nobili); 2) privilegi di natura economica definiti «esenzioni» fiscali (cioè esenzioni dal pagamento delle tasse); 3) privilegi di natura formale che contribuiscono a definire lo specifico rango di un ecclesiastico o di una famiglia nobiliare rispetto alle altre (ad esempio i diritti di precedenza o la posizione occupata in chiesa rispetto all’altare: di solito l’importanza del lignaggio di una famiglia di nobili è direttamente proporzionale alla vicinanza all’altare). Il codice di comportamento dei nobili è quello «cavalleresco» legato al concetto dell’onore, per cui le offese arrecate a un membro di una famiglia provocano duelli e faide familiari violentissime: il mondo nobiliare, dal Medioevo almeno fino al XVIII secolo, continua a essere caratterizzato dalla violenza e dalla prevaricazione (specie nei confronti dei propri vassalli) che le autorità religiose e civili cercheranno gradualmente di disciplinare. Inoltre lo «status» nobiliare è legato alla possibilità di vivere di rendita, al disprezzo per qualsiasi lavoro manuale e al rifiuto di maneggiare il denaro: tale mentalità condurrà molte famiglie nobiliari a indebitarsi e quindi al disastro finanziario. Il «terzo stato» è invece composto da tutti coloro che lavorano per mantenere i ceti privilegiati, e cioè essenzialmente i contadini e gli abitanti delle città o borghesi: artigiani, mercanti, membri delle «arti liberali» (medici, notai, avvocati). Lasciando a una delle prossime lezioni la trattazione del mondo contadino, possiamo dire che anche la società cittadina, in età moderna, è strutturata secondo rigidi criteri gerarchici: come già accadeva in età medievale, centrale risulta essere il ruolo delle corporazioni. Nate a partire dalla seconda metà dell’XI secolo dalla volontà degli artigiani e dei mercanti di difendere i propri interessi economici (in particolare dalla concorrenza interna e esterna), esse finiscono per acquisire importanti ruoli politico-amministrativi. Di fatto le corporazioni di arti e mestieri assumeranno gradualmente la direzione del governo, della difesa militare e delle cerimonie religiose di molte città europee. Inoltre a ciascuna corporazione era collegata una società di mutuo soccorso che svolgeva funzioni assistenziali (come il sostentamento degli orfani e delle vedove) e una determinata confraternita che promuoveva specifici culti. Infine le corporazioni acquisirono poteri giurisdizionali, finendo per gestire dei propri tribunali competenti sulle cause di lavoro, sull’immigrazione della manodopera e sui procedimenti produttivi. Nelle città europee, le corporazioni vengono distinte in arti maggiori (che raggruppano i mestieri di maggior prestigio economico-sociale, come l’«arte della lana») e minori (che rappresentano i mestieri più umili). 11 A partire dal XIV secolo, però, si incrina il tradizionale meccanismo di ricambio interno alle singole corporazioni: non solo si blocca l’entrata di nuovi membri, ma si rende anche più difficile l’ascesa degli apprendisti che stentano a diventare maestri (di solito a causa di tasse d’iscrizione troppo elevate), rimanendo semplici salariati. Tale progressivo irrigidimento riguardò anche gli aspetti produttivi, per cui le corporazioni furono restie ad adottare nuove tecniche produttive e ad adattarsi al cambiamento delle mode o dei gusti dei consumatori: alla lunga esse rappresenteranno un elemento di freno per l’economia degli Stati, tanto che nel corso del ‘700 molti sovrani e governi europei decideranno di abolirle. Come accennato in precedenza, anche il terzo stato è, al suo interno, rigidamente gerarchico. Nelle città la cuspide della società è rappresentata dai titolari di uffici pubblici (di solito su nomina del sovrano), dai membri delle «arti maggiori», da coloro che esercitano le professioni liberali (avvocati, medici e notai) e poi dai banchieri, dai mercanti e dagli appaltatori delle imposte. Gli artigiani appartenenti alle «arti minori» occupano una posizione meno rilevante, mentre la base della società cittadina è rappresentata dalla «plebe» (e cioè dai gruppi «marginali»: lavoratori saltuari, mendicanti, storpi, ecc.), che non ha alcuna rappresentanza corporativa. Nelle grandi città europee della prima età moderna questi gruppi di marginali rappresentano una fetta consistente della popolazione. L’impoverimento della masse contadine, soprattutto durante la fase cinquecentesca di crescita dei prezzi, provoca l’aumento del loro inurbamento: le popolazioni contadine ingrossano quindi le fila della plebe marginale delle città (detta anche «quarto stato»). Inoltre, con l’affermazione di una nuova etica del lavoro e della produttività (anche a causa della Riforma protestante), cambia l’immagine del povero: se fino al tardo Medioevo la cultura europea aveva dato alla povertà una connotazione positiva in linea con i dettami evangelici (si pensi alla figura di San Francesco), dall’inizio del Cinquecento in poi i poveri vengono considerati una minaccia sociale, non più come fratelli da aiutare dalla comunità. Perciò i governi cittadini (seguiti poi da quelli centrali) assumono gradualmente numerosi provvedimenti restrittivi nei confronti dei poveri, dei vagabondi e degli accattoni: in particolare si concedono licenze di accattonaggio per zone stabilite e si predispongono segni di riconoscimento per i soli autorizzati a chiedere la carità, con misure severe, dalla schiavitù alla morte, per i disobbedienti. In alcune città (Lione, 1533; Londra, 1544; Parigi, 1554) vengono poi create istituzioni come ospedali (ricoveri per invalidi senza risorse) e ospizi (ricoveri per mendicanti sani), nelle quali si recludono i disoccupati. Nel corso dell’età moderna i sovrani delle grandi monarchie europee presero il controllo di buona parte delle città (eccetto di quei centri che ricadevano sotto la giurisdizionale dei nobili in quanto si trovavano fisicamente all’interno dei loro feudi), soprattutto attraverso lo strumento della nobilitazione. Gli ex borghesi nobilitati – di solito grandi mercanti, banchieri o appaltatori delle imposte – che continuano a vivere nelle città vengono definiti «patrizi» (patriziato = aristocrazia cittadina di origine mercantile). Tirando quindi le somme di quanto esposto sino ad ora, possiamo affermare che nella società cetuale dell’età moderna il singolo esiste (cioè, ha personalità giuridica) solo se fa parte di un corpo sociale che gode di un riconoscimento giuridico e, quindi, se può usufruire di determinati privilegi che lo proteggono. La legge, in Antico Regime, non è uguale per tutti, perché esistono tanti regimi giuridici quanti ceti e cioè esistono sistemi giuridici differenziati in funzione all’appartenenza sociale: il clero, la nobiltà e i borghesi associati alle corporazioni possono essere giudicati solo dagli appartenenti al proprio ceto in base a diritti speciali che li tutelano: il diritto canonico per gli ecclesiastici, il diritto feudale per i nobili e il diritto corporativo per gli artigiani/mercanti. Il diritto regio, infine, giudica i membri del terzo stato non sottoposti a giurisdizione feudale o ecclesiastica. Anche la rappresentanza politica rispecchia, durante l’età moderna, l’articolazione della società cetuale. Per cui pure lo Stato viene raffigurato simbolicamente come un organismo o un corpo. Nelle principali monarchie europee il sovrano è affiancato da determinate assemblee cetuali rappresentative dei regni, la cui struttura si richiama alla Magna Curia e cioè all’assemblea dei rappresentanti della monarchia franca di Carlo Magno (assunta a modello da un po’ tutte le grandi monarchie europee): ogni assemblea cetuale è quindi divisa per ordini. Le loro principali funzioni sono: 1) consigliare il sovrano nelle scelte di maggiore rilevanza (come dichiarare una guerra o cambiare la legge di successione al trono); 2) autorizzare l’imposizione di nuove tasse. Le principali assemblee cetuali dei vari Stati europei si chiamano in maniera diversa: 1) in Inghilterra, Scozia, Regno di Napoli e di Sicilia: Parlamento; 2) in Francia: Stati Generali; 3) in Castiglia e nella Corona d’Aragona: Cortes/Corts; 4) nel Sacro Romano Impero, Boemia, Ungheria, Polonia, Svezia: Dieta. Nelle prossime lezioni avremo modo di analizzare il funzionamento di alcune di queste assemblee cetuali, così come il loro ruolo nelle vicende dei singoli Stati. L’elemento comune di tali assemblee è costituito dal fatto che esse solitamente rappresentavano i tre principali ordini di ogni organismo statuale e cioè il clero, la nobiltà e il terzo stato. Le assemblee cetuali rappresentative dei vari regni europei non erano permanenti, ma periodiche, perché venivano convocate dai sovrani: in tali riunioni il sovrano chiedeva solitamente di approvare nuovi tributi o donativi una tantum. La crescita delle spese statali a causa del mantenimento di eserciti permanenti, dell’aumento della burocrazia e delle 14 La giurisdizione del sovrano, fino al ‘700, è riservata alla giustizia di appello. I sovrani, quindi, delegano il loro potere di amministrare la giustizia a numerose autorità periferiche: soprattutto ai tribunali feudali dipendenti dai nobili titolati. I tribunali regi sono perciò essenzialmente quelli d’appello. Inoltre la prevalenza della sfera giurisdizionale invade anche l’amministrazione (c’è una confusione fra le due sfere: l’amministratore è anche giudice): per cui i tribunali regi, come i parlamenti francesi o le audiencias spagnole, sono anche centri amministrativi. In questa situazione (giustizia delegata di primo grado, accentrata nei gradi alti) il potere regio, almeno fino al Settecento, ha scarsa efficacia periferica. 4.I TREND DEMOGRAFICI DELL’ETA’ MODERNA E L’ECONOMIA PRE- INDUSTRIALE Per il periodo che va dal tardo Quattrocento agli inizi dell’Ottocento gli storici dispongono di stime sufficientemente attendibili della popolazione mondiale per ciascun continente. Da tali stime ricaviamo che l’Asia è sempre stato il continente più popolato (dai circa 200 milioni di abitanti del ‘400 ai 630 d’inizio ‘800); è poi noto che la scoperta dell’America provocò il collasso demografico delle popolazioni indigene locali (da 42 milioni d’inizio ‘500 a meno di 12 all’inizio del ‘700); e, infine, sappiamo che l’Europa venne attraversata da cicliche crisi demografiche, la prima delle quali si colloca tra il 1348-51, allorquando sull’Europa di abbatté un’epidemia di peste nera che fece perire circa ⅓ della popolazione del continente. Dall’epidemia di peste del 1348-51 in poi i flussi demografici europei conoscono tre grandi cicli: 1. una fase di crescita continua della popolazione che si colloca tra l’inizio del Quattrocento e la fine del Cinquecento (quando si passa da 45 a circa 90 milioni di abitanti); 2. durante il XVII secolo, invece, si assiste a un rallentamento e, nella zona del Mediterraneo, a un decremento della popolazione; 3. dall’inizio del Settecento in avanti, infine, si verifica un graduale incremento demografico, il quale si rafforza nel corso dell’Ottocento. Le principali cause delle cicliche crisi demografiche avvenute in Europa nel corso dell’età moderna furono: 1. il cronico squilibrio tra risorse alimentari e popolazione; 2. la virulenza delle epidemie; 3. il clima sfavorevole (in particolare la cosiddetta «piccola era glaciale» del ‘600); 4. le guerre ricorrenti. In realtà le crisi demografiche ricorrenti nell’Europa moderna furono il frutto di un insieme di fattori che si verificavano contemporaneamente: un’epidemia, un cattivo raccolto, una guerra aumentavano improvvisamente la mortalità (in particolare dei soggetti più deboli: anziani e bambini), ma facevano anche diminuire la nuzialità e la natalità (perché in tempi di crisi si tendeva a rimandare i matrimoni e si mettevano al mondo meno figli). Passata poi l’epidemia o la guerra, i vuoti demografici che si erano prodotti si recuperavano con una certa velocità, perché allora si celebravano i matrimoni precedentemente rinviati e si mettevano quindi al mondo più figli. Occorre poi considerare che, nell’Europa dell’età moderna, la fecondità dei coniugi, nonostante la totale assenza di efficaci metodi contraccettivi, era meno elevata di quanto si pensi: in primo luogo perché le donne si sposavano piuttosto tardi (tra i 24 e i 28 anni), per cui 1/3 circa della loro vita feconda rimaneva inutilizzata ai fini della riproduzione; inoltre la probabile morte di uno dei due coniugi interrompeva la possibilità di procreare, a meno che la vedova/il vedovo non si risposasse. Per cui, durando il matrimonio circa 12-15 anni in media, era probabile che durante esso nascessero 5/6 figli. Questo numero, che a noi sembra alto, all’epoca poteva garantire un rapido aumento della popolazione se non fosse intervenuta l’alta mortalità infantile e giovanile: ⅟4 circa dei neonati decedeva durante il primo anno di vita, un altro quarto scompariva prima dei 14 anni. In media, quindi, sopravvivevano 2,5/3 figli per coppia sposata: si trattava di una percentuale che, considerando anche i casi di celibato o di sterilità, garantiva la riproduzione del potenziale umano e una lieve eccedenza solo se le condizioni economico-sociali erano favorevoli. Per cui, nell’Europa dell’età moderna, solo l’aumento della natalità, accompagnato dalla contemporanea diminuzione della mortalità, potevano garantire una rapida e duratura crescita demografica: è ciò che accadde tra ‘400 e ‘500. Comunque, alla base di un trend demografico positivo vi era sempre una successione 15 favorevole di buoni raccolti: per cui occorre passare ad analizzare la situazione dell’agricoltura europea durante l’età moderna. Nei tre secoli che vanno dal 1450 al 1750, in Europa l’organizzazione produttiva delle campagne non registrò grandi mutamenti o progressi: le tecniche agrarie – in particolare la rotazione triennale (2 anni di cereali e un anno di maggese) – erano le stesse messe a punto nel tardo Medioevo. Perciò l’incremento demografico cinquecentesco produsse un parallelo aumento della domanda di derrate alimentari, che si diresse verso i cereali. L’agricoltura dell’epoca poté soddisfare tale aumento in due modi: 1. con una risposta estensiva, e cioè allargando la superficie coltivata; 2. con una risposta intensiva, ossia incrementando la quantità di prodotto per unità di superficie (e cioè migliorando le rese). Fino all’inizio del ‘600 prevalse il primo tipo di risposta: via via che la popolazione aumentava, aumentavano proporzionalmente i terreni messi a coltura (inizialmente si trattò di quegli stessi terreni abbandonati a seguito della crisi del 1348-51). Successivamente vennero dissodati terreni occupati da foreste, paludi e pascoli: ma tali terreni «marginali» erano di cattiva qualità, per cui si esaurirono in fretta (in altri termini i redimenti di queste terre dissodate furono decrescenti). Inoltre, la messa a coltura dei pascoli ridusse la quantità di bestiame e, con essa, la disponibilità di concime necessario per apportare sostanze azotate ai terreni coltivati. Anche le avverse condizioni climatiche, come la già ricordata «piccola era glaciale» (e cioè la diminuzione della temperatura media di 0.5/1 grado nel corso del ‘600, che produsse primavere ed estati più piovose, aumentando il rischio di perdere i raccolti), contribuirono a impedire un prolungato sviluppo dell’agricoltura. Infatti, i rendimenti dei cerali finirono per ristagnare o addirittura per diminuire, nonostante l’intensificato lavoro contadino. Nella maggior parte dell’Europa moderna, come era accaduto nel tardo Medioevo, il rapporto tra raccolto e semenze per i cereali panificabili – in particolare il frumento e la segale – oscillava tra 3:1 e 5:1 (e cioè, per ogni seme piantato, se ne ottenevano da 3 a 5 = da 4 a 7 quintali di cereali per ettaro). Era sufficiente che la resa scendesse sotto il rapporto 3:1 per produrre una crisi alimentare, dato che i contadini utilizzavano il raccolto non solo per mangiare (e per la semina futura), ma anche per pagare le imposte al clero, alla nobiltà d’origine feudale e allo Stato. Proprio l’esiguità delle rese spiega perché, eccetto le poche regioni europee dove esisteva un’agricoltura intensiva, nella quasi totalità del continente i ¾ o i 4/5 degli abitanti vivessero sulla terra e della terra: l’economia dell’età moderna, quindi, continua a essere fondata sull’agricoltura (è cioè una tipica economia «pre-industriale»), in buona parte sottosviluppata e limitata all’autoconsumo. Comunque, nell’Europa dell’età moderna esistevano delle aree – come la Lombardia, l’Olanda e l’Inghilterra – di elevata produttività agricola, con rendimenti anche di 100% superiori a quelli del resto del continente. L’agricoltura intensiva si basa sulla disponibilità di acqua e di concime. La presenza di una rete irrigua, infatti, permette la continua produzione di fieno, il quale a sua volta rende possibile il mantenimento di un abbondante bestiame bovino stanziale: quest’ultimo, se da un lato alimenta la produzione casearia, dall’altro garantisce, attraverso il letame, un apporto di fertilità ai suoli. Il segreto dello sviluppo agricolo intensivo, che fu alla base della cosiddetta «rivoluzione agricola» inglese nel ‘700, risiede nella stretta interazione tra allevamento e agricoltura, interazione che consente di eliminare la necessità del riposo periodico dei terreni attraverso le rotazioni. Di fatto la crescita demografica della prima età moderna (metà ‘400-fine ‘500) venne sostenuta dall’agricoltura estensiva e dall’aumento della superficie coltivabile tramite le bonifiche: quando, nell’ultimo decennio del ‘500, l’agricoltura europea non riuscì più a sfamare – specie nelle zone mediterranee – la popolazione, si verificò una tipica crisi di sussistenza (simile a quelle che al giorno d’oggi si verificano in Africa): tale dinamica, unitasi alle epidemie di peste e a uno stato di guerra quasi permanente, spiega la crisi demografica avvenuta nel corso del ‘600. Solo all’inizio del ‘700, una volta ristabilito l’equilibro tra consumatori e capacità produttiva dell’agricoltura, la popolazione poté iniziare nuovamente a crescere. Una delle ragioni che spiegano la scarsa diffusione di innovazioni agricole in senso intensivo deve essere ricercata nella staticità dei rapporti di produzione e nel regime giuridico del possesso terriero. Dobbiamo quindi spostare l’attenzione dalle dinamiche demografiche ed economiche a quelle giuridico-politiche e, quindi, occorre parlare degli sviluppi che il regime feudale o signorile conosce durante l’età moderna. La signoria feudale, fin dalla sua nascita tra i secoli V e VII tra la Francia e la Germania, si era strutturata intorno al cosiddetto «sistema curtense». Ogni feudo si divide in due parti: la riserva signorile (o pars dominica), coltivata grazie alle prestazioni gratuite (dette corvées: di solito 3-4 giornate di lavoro) dei contadini vassalli; e la pars massaricia, formata dai poderi assegnati dal signore ai contadini vassalli, dai quali questi ultimi ottenevano il proprio sostentamento. Come abbiamo già accennato, il feudo non era una proprietà privata, dato che i sovrani (ma anche gli imperatori e i papi), all’atto dell’investitura, lo assegnavano in usufrutto a un signore. I feudatari, fin dall’alto Medioevo, acquisiscono comunque il diritto di trasmettere i feudi ai propri eredi (solitamente al primogenito maschio: si tratta della «primogenitura») in cambio del pagamento di un’imposta al sovrano, cercando allo stesso tempo di evitare lo smembramento territoriale dei feudi. Solo nel caso in cui un lignaggio si fosse estinto per assenza di eredi maschi, il 16 feudo ritornava nella disponibilità del sovrano, che poteva riassegnarlo o, come accade sempre più spesso nel corso dell’età moderna, vederlo all’asta. Il sistema curtense, e con esso il potere economico-politico dei signori, si fondava di fatto sull’esistenza delle corvées che permettevano di estrarre dalla riserva signorile una rendita che poi il signore feudale utilizzava per le spese di lusso (necessarie per ostentare il proprio «status» nobiliare). Con l’inizio dell’età moderna questo sistema conosce un mutamento, che però è differente tra l’Est e l’Ovest dell’Europa. Nell’Europa orientale (cioè a est del fiume Elba: Austria, Polonia, Ungheria, Boemia, Prussia, Russia), e cioè in regioni scarsamente urbanizzate, la nobiltà feudale riesce ad approfittare della crisi demografica ed economica causata dall’epidemia di peste nera del 1348-51 imponendo alle popolazioni rurali un aggravamento delle condizioni di lavoro (triplicando le giornate di lavoro gratuite dei contadini e vincolando questi ultimi alla signoria, che non può più essere abbandonata senza il permesso del signore). Gli storici hanno quindi parlato di un «secondo servaggio» che restaura e spesso peggiora il sistema curtense originario. Invece nell’Europa occidentale (Spagna, Inghilterra, Francia, Italia), dalla seconda metà del ‘300 in poi, assistiamo alla disgregazione della feudalità come sistema di governo: in questo caso la crisi demografica (che produce una rarefazione della manodopera contadina) spostò i rapporti di forza a favore dei contadini, i quali monetizzarono le loro prestazioni d’opera sotto forma di censi in denaro, acquisirono il diritto di spostarsi liberamente, come quello di vendere e trasmettere in eredità i loro poderi (che erano appartenuti alla pars massaricia dei feudi). Inoltre, i signori tendono sempre più spesso a concedere in affitto ai propri contadini anche le terre dominicali. Quindi in Europa occidentale, tra ‘300 e ‘400, scompare la servitù della gleba e i contadini tendono a trasformarsi in liberi affittuari. Comunque, la dissoluzione della servitù della gleba nell’Europa occidentale non produsse un significativo miglioramento delle condizioni di vita dei contadini (né dell’efficienza produttiva delle terre): i signori, infatti, mantennero intatti i loro poteri giurisdizionali (in particolare l’amministrazione della giustizia civile e penale nei loro feudi) e di «banno» (cioè i poteri di coercizione riguardo ai servizi essenziali presenti nei feudi quali mulini, forni, frantoi, osterie, ecc.), dai quali ottenevano laute entrate. Inoltre, i signori sfruttano l’indebitamento cronico dei contadini per sottometterli economicamente al loro dominio. Infine, i signori mantengono delle milizie che spesso utilizzano per imporre con la forza la loro volontà ai propri vassalli, cioè a tutti coloro che abitano nei loro feudi. Per cui, anche negli Stati dell’Europa occidentale i signori feudali preservano il loro potere politico-economico, mentre il regime produttivo prevalente dell’agricoltura continua a essere quello estensivo, anche perché essi non sono interessati a investire nel miglioramento delle rese, accontentandosi di una rendita terriera fissa e degli introiti derivanti dai loro poteri giurisdizionali e di banno. Dal punto di vista dei contadini, a parte la lontana e spesso inaccessibile giustizia regia, l’unico soggetto in grado di proteggerli dallo sfruttamento e dai soprusi dei propri signori era la «comunità contadina»: questo termine definisce la persona giuridica che rappresenta formalmente la popolazione di un dato villaggio o di una cittadina inserita in un feudo. La vita delle comunità contadine era regolata da specifici statuti scritti, riconosciuti dal signore o dal sovrano (nel caso in cui si trattasse di una comunità “libera”, non sottoposta a giurisdizione feudale), che sancivano le proprie prerogative e i criteri di elezione degli organi di governo locali. In quanto istituzione, la comunità è dotata di una serie di funzioni pubbliche, la più importante delle quali è il potere di regolare l’accesso alle risorse collettive. Infatti, fin dal Medioevo, in tutta Europa, esistevano varie forme di proprietà collettiva che conferivano diritti d’uso non esclusivi, bensì promiscui e comunitari, esercitabili a turno da tutti i membri delle comunità contadine. Le comunità sono proprietarie di vaste estensioni di terra, generalmente costituite da incolti (boschi, pascoli, laghi e paludi): una parte di tali terreni sono coltivabili, ma in genere offrono risorse importanti (come legna, ghiande, selvaggina, foraggio), permettendo ai contadini e alle loro bestie di sopravvivere, specie nei momenti di carestia. Le terre comuni sono poi utilizzate per ottenere le risorse necessarie per pagare le imposte al feudatario, alla Chiesa e allo Stato. Queste terre comuni e comunitarie, il cui accesso è regolamentato dagli organi di governo locali attraverso una rigida turnazione, vengono prese di mira dai signori fin dalla prima età moderna in varie regioni dell’Europa, a cominciare dall’Inghilterra: i nobili, infatti, tenderanno a espropriare le comunità – ora con la forza, ora con specifiche leggi emanate dai sovrani e dalle assemblee cetuali – recintando le terre comuni (è il fenomeno delle enclosures). Naturalmente, quando la pressione fiscale che i feudatari, il clero e i sovrani esercitavano sui contadini diventava eccessiva, questi ultimi reagivano ribellandosi: la storia europea, dall’inizio del ‘500 fino alla fine del ‘700 è costellata da una miriade di rivolte contadine, la più violenta delle quali fu quella scoppiata in Germania nel 1525. L’ultima sarà invece quella verificatasi tra il luglio e l’agosto del 1789, durante la prima fase della Rivoluzione francese, a seguito della cosiddetta «Grande Paura». Uno dei primi atti compiuti dai contadini in rivolta era solitamente l’assalto al castello del signore con l’obiettivo di distruggere l’archivio della famiglia e del feudo: in esso, infatti, si conservava la memoria scritta delle prestazioni, dei censi e degli obblighi che i signori avevano imposto nel corso dei secoli ai propri vassalli. Ovviamente, come vedremo meglio nelle prossime lezioni, l’economia nell’età moderna non ruota esclusivamente intorno al sistema signorile e all’agricoltura. Anzi, fin dal ‘400 in molte regioni europee – quelle cioè maggiormente urbanizzate, dove il potere feudale era stato limitato dall’azione dei comuni, delle signorie e delle repubbliche marinare, come le Fiandre e l’Italia del Nord – sono le manifatture e i commerci su vasta scala a costituire l’asse portante della 19 di Padova e poi di Bologna (nel suo Tractatus de immortalitate animae del 1516, ad esempio, sostenne che le verità di fede non potevano essere dimostrate razionalmente), all’interno della cultura umanistico-rinascimentale, si svilupparono anche due ulteriori tendenze 1) una corrente esoterico-magica che si ispirava al platonismo (Marsilio Ficino, Pico): nascono allora l’astrologia (che sostiene l’influsso degli astri sulla vita degli uomini) e l’alchimia (che attribuisce ai vari metalli delle qualità magiche e curative: Paracelso, Cardano, Della Porta). 2) Una corrente cristiana interna all’Umanesimo che si prefigge di raggiungere un equilibrio tra fede e ragione: gli “umanisti-cristiani” più noti furono certamente l’olandese Erasmo da Rotterdam e l’inglese Thomas More. L’Umanesimo cristiano, oltre a interessarsi al recupero dei classici, si applicò all’esame filologico dei testi sacri e alla riflessione politica: per questo, le opere degli umanisti-cristiani divennero immediatamente sospette alle autorità religiose sia cattoliche che riformate. Educato alle idee della corrente religiosa della Devotio Moderna (che chiedeva il ritorno al Cristianesimo evangelico delle origini), Erasmo in una serie di opere (Encomium morìae/Elogio della pazzia e i Colloquia) criticò l’intolleranza, la pedanteria (specie dei teologi) e le ipocrisie della Chiesa cattolica a lui coeva. Inoltre, nei trattati Manuale del soldato cristiano ed Educazione del principe cristiano, l’umanista olandese espose le sue teorie pedagogiche dirette alla formazione dei sovrani e degli aristocratici: secondo lui, coloro a cui era affidato il governo della società avrebbero dovuto introiettare un’etica cristiana che ai dettami evangelici unisse lo spirito civico degli antichi. Il futuro imperatore Carlo V verrà profondamente influenzato dalle idee erasmiane, specie dalla sua sensibilità religiosa. Erasmo giunse a sostenere che il Cristianesimo non si identificava con i dogmi stabiliti dalla Chiesa ma con una morale pratica incentrata sulla misericordia, sulla tolleranza e sull’irenismo; in tal senso si spiega il suo impegno nella ricostruzione di una versione filologicamente affidabile dei Vangeli: la sua edizione critica del testo greco (corredata da una versione latina) del Nuovo Testamento del 1516 verrà poi utilizzata da Lutero. L’inglese Thomas More (1478-1535), noto per essere stato mandato al patibolo da Enrico VIII per non aver accettato lo scisma anglicano, è certamente l’altro illustre esponente della corrente dell’Umanesimo cristiano. La sua opera più famosa è l’Utopia (1516), con la quale nasce il genere utopico. Qui, ispirandosi alla Repubblica di Platone, si descrive una società che è l’esatto contrario di quella cetuale d’Antico Regime: nell’isola di Utopia (etimologicamente: il «non-luogo» o «luogo dove si sta bene») non esiste né la proprietà privata, né il denaro, né il lusso; tutti gli abitanti lavorano 6 ore al giorno e possono dedicare il resto delle loro giornate allo studio e alla musica; non ci sono guerre e sono tollerate tutte le religioni accomunate dalla fede in un Dio buono e previdente. Nei secoli successivi il genere utopistico si ritaglierà uno spazio sempre più rilevante all’interno della riflessione politica. Oltre ad Erasmo e More, importanti umanisti-cristiani furono anche lo spagnolo Juan Luis Vives e i francesi Jacques Lefebvre d’Etaples e Guillaume Budé (quest’ultimo convertitosi al Calvinismo): anch’essi condivisero una forte passione per i classici greco-latini, l’applicazione della filologia all’esegesi dei testi sacri e dei padri della Chiesa, l’interesse per la riflessione politica e l’aspirazione a un Cristianesimo più tollerante e meno superstizioso. Dopo lo sviluppo europeo della Riforma, troviamo esponenti dell’Umanesimo cristiano sia nel fronte cattolico (come nel caso di Erasmo), che riformato (come, ad esempio, Sébastien Castellion). Ma il clima di progressiva radicalizzazione dogmatica verificatosi tra gli anni Venti e Cinquanta del ‘500, finì per isolarli, anche nell’ambito del “campo” confessionale in cui si riconoscevano: il loro approccio razionale, irenico e tollerante alla religione non trovò più spazio nell’Europa del periodo, per cui gli umanisti-cristiani vennero attaccati dai loro stessi correligionari (con i quali, peraltro, non ebbero timore di polemizzare). Se le opere di Erasmo finirono nel primo Indice romano dei libri proibiti (1559), Castellion e buona parte degli umanisti protestanti/calvinisti trovarono asilo nella città svizzera di Basilea (dove si rifugiò, per morirvi nel 1536, anche Erasmo), uno dei pochi luoghi dell’Europa del XVI secolo dove veniva garantita una discreta libertà di pensiero. 6.La mappa política dell’Europa all’inizio dell’Età moderna: il Sacro Romano Impero, la Francia, l’Inghilterra e la Spagna All’inizio dell’età moderna si evidenziano alcune linee di tendenza che stanno alla base dello Stato moderno: il tramonto dei poteri universalistici; l’unificazione territoriale degli Stati; l’affermazione dei concetti di utilità e sicurezza (interna ed esterna); l’accentramento politico e lo sviluppo di una burocrazia statale contro gli ordini privilegiati e le forze centrifughe; si intensifica la mobilità sociale all’interno del ceto nobiliare; si afferma gradualmente l’uniformità della 20 giustizia contro le giurisdizioni particolari; aumenta l’intervento dello Stato nell’economia (= politica economica mercantilista). L’area germanica (il Sacro Romano Impero) I territori tedeschi tra il XV e il XVI secolo non si presentano come un’entità politica unitaria. Le singole unità territoriali, nel corso del tardo Medioevo, si sono trasformate in Stati patrimoniali: una sorta di proprietà personali possedute dai loro signori. In tal senso un ruolo fondamentale rivestivano i matrimoni con i quali le spose portavano in dote territori che si sommavano a quelli dei mariti per incrementare i “patrimoni”, che poi entravano nella linea ereditaria delle dinastie. Il Sacro Romano Impero, erede del S.R.I. dei Franchi, non è uno Stato vero e proprio, ma una confederazione di diverse soluzioni politiche: città-stato (85) strette in confederazioni, principati laici ed ecclesiastici, prîncipi territoriali. In ogni Stato territoriale agisce un’assemblea cetuale (Landtag), che è anche corte di giustizia. La Dieta è invece l’assemblea cetuale – e cioè un’assemblea rappresentativa dei ceti e dei singoli Stati – comune a tutto l’Impero. L’imperatore è eletto da 7 grandi elettori. La struttura istituzionale del Sacro Romano Impero Imperatore: è una carica elettiva, con pretesa universalistica solo formale. Dal XV secolo in poi gli imperatori vengono scelti, per consuetudine, sempre all’interno della dinastia austriaca degli Asburgo. Dieta (assemblea degli Stati di tipo cetuale) o Reichstag. Convocata con frequenza del tutto irregolare, è divisa in 3 ordini: prîncipi elettori, aristocrazia e città. I 7 grandi elettori: 3 arcivescovi (Colonia, Treviri e Magonza); 4 laici (i sovrani di Boemia, Palatinato, Sassonia, Brandeburgo). Essi eleggono a maggioranza l’Imperatore. Aristocrazia: rappresentata da 120 prelati, 30 prîncipi, 140 signori. Città (85): rappresentate nella Dieta dai borgomastri (= sindaci). Dall’inizio del XV secolo in poi l’imperatore viene eletto per consuetudine tra i membri della dinastia austriaca degli Asburgo. Gli imperatori Asburgo non riuscirono a rafforzare la propria autorità nei confini imperiali a causa della strenua opposizione esercitata dai prîncipi tedeschi. Vani, infatti, furono i tentativi dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo (1493-1519) di far accettare ai prîncipi l’unificazione territoriale dell’Impero. Massimiliano, durante la Dieta di Worms (1495), chiese di stabilire un finanziamento comune per l’armata imperiale, impose il divieto di faida tra i principi/signori (cioè pace territoriale perpetua) e ottenne la creazione del Tribunale Camerale Imperiale. In realtà tali misure non riuscirono a rafforzare più di tanto il potere politico degli imperatori. L’ultimo tentativo di unificazione dell’Impero venne effettuato da Carlo V (1519-1556), il quale cercò di restaurare l’idea di un impero cristiano sul modello carolingio: il tentativo fallì per l’opposizione dei prîncipi tedeschi che usarono la Riforma protestante per indebolire il potere imperiale. Per cui da allora gli Asburgo si concentrarono ad applicare, riuscendovi, una politica assolutistica esclusivamente nei propri possedimenti ereditari (Austria, Carinzia, Tirolo). Quindi gli Asburgo sono due volte sovrani: imperatori (elettivi) del S.R.I e principi di territori ereditari. La Francia Dopo aver raggiunto l’unità geo-politica con la fine della Guerra dei Cento anni (1339-1453) e la conquista della Borgogna, tolta a Carlo il Temerario con la battaglia di Nancy (1477), la monarchia francese risultava un coacervo di possedimenti diversi con principati feudali dotati di assemblee cetuali e regioni che possedevano stati provinciali (cioè assemblee cetuali provinciali) propri. Nella seconda metà del ‘400 la dinastia regnante, i Valois, persegue una politica di accentramento volta ad eliminare i domini feudali autonomi (come il Ducato di Borgogna), anche attraverso la politica matrimoniale (in particolare attraverso l’unione con le eredi del Regno di Navarra e della Bretagna). In Francia la politica di rafforzamento del potere del sovrano passa attraverso 1) lo sviluppo di una serie di corti di giustizia regie (i parlamenti), che amministrano la giustizia per conto del re; 2) l’approvazione di nuove imposte riscosse dai funzionari regi (come la taglia, imposta diretta); 3) la nascita di una burocrazia regia; 4) l’oculata convocazione dell’assemblea cetuale del regno, gli Stati Generali (quattro volte nel ‘500; una volta nel ‘600 e poi nel 1789). Il re era affiancato da un Consiglio del re formato dai pari di Francia (e cioè dai membri delle famiglie nobili più importanti del regno), da grandi dignitari e da un Consiglio ristretto. All’amministrazione della monarchia collaboravano circa 12.000 ufficiali (all’inizio del ‘500), alcuni nominati dal re, la maggior parte dei quali avevano acquistato le cariche attraverso la venalità degli uffici (cioè comprandole). La giustizia francese alla fine del XV secolo era esercitata dal Consiglio del re, da 7 Parlamenti (Parigi, Tolosa, Besançon, Grenoble, Digione, Bordeaux, Aix) e da 80 tribunali provinciali. Nel 1780 i parlamenti erano aumentati a 18. I Parlamenti erano corti giudiziarie, cioè tribunali, con compiti amministrativi (attenzione: in Francia non sono organi di rappresentanza). Gradualmente, comunque, i parlamenti rivendicarono una loro partecipazione nel processo 21 legislativo. Infatti essi registravano le ordinanze/editti reali e potevano esercitare il «diritto di rimostranza» (di protesta, che comunque non ne bloccava l’applicazione). Gli Stati Generali (assemblea rappresentativa degli ordini cetuali francesi: clero, nobiltà e terzo stato) avevano competenze soprattutto in materia fiscale (cioè votavano le tasse richieste dal re), ma furono progressivamente esautorati dalla monarchia assoluta: dal 1614 al 1789 non furono mai convocati. La mancanza di tale “cassa di risonanza” delle esigenze dei ceti permette ai magistrati dei parlamenti, specie nella prima metà del ‘700, di presentarsi come i difensori dell’ordinamento politico-giuridico della Francia, anche contro la politica assolutista dei sovrani. L’Inghilterra Dopo la fine della “Guerra delle due rose” (1455-1485) tra gli York (rosa bianca) e i Lancaster (rosa rossa), l’unità del paese viene conseguita da Enrico Tudor-Lancaster (1485-1509) che sposa l’erede degli York: si realizza, con tale unione dinastica, l’unità della monarchia ed entra in crisi il potere feudale. Rispetto alle monarchie continentali, però, ci sono delle differenze: 1) la Magna Charta Libertatum, sottoscritta dal re Giovanni I nel 1215, prevede che il sovrano debba rispettare le esenzioni fiscali/autonomie dell’aristocrazia e del Parlamento (= l’assemblea cetuale del Regno); 2) non esiste, a differenza della Francia, una burocrazia regia che rappresenta il re a livello provinciale: nelle contee, e cioè nelle province, le funzioni di governo e giudiziarie sono assegnate alla nobiltà locale. Quindi i giudici di pace sono scelti dal sovrano tra i notabili delle varie contee. Ciò sviluppa una forte tradizione di autogoverno locale. Nel governo del paese il re era affiancato da un Consiglio formato da un cancelliere, un tesoriere e alcuni dignitari. A livello centrale la giustizia – specie le cause d’appello – era esercitata, sotto il controllo del Consiglio del re, attraverso tre grandi tribunali centrali (civile, criminale, finanziario), a cui si affiancava la Camera Stellata che giudicava i tumulti, sorvegliava gli sceriffi e avocava i casi giudiziari con risvolti politici (ad es. nel caso di ribellioni). Le Contee erano invece governate da sceriffi (funzionari regi responsabili dell’ordine pubblico e della riscossione delle imposte) e da giudici di pace scelti dal re fra la nobiltà locale. In Inghilterra la rappresentanza dei gruppi sociali o ceti della monarchia era affidata al Parlamento, diviso in 2 Camere: Camera dei Lords (nobili e vescovi) ereditaria; Camera dei Comuni (cioè delle città) elettiva. La camera dei Comuni rappresentava gli interessi delle maggiori città e delle contee: e cioè dei mercanti, ma anche della piccola nobiltà terriera (gentry) e dei ricchi coltivatori (yeomen). Il Parlamento, interveniva nella promulgazione delle leggi e votava le imposte richieste dai sovrani. Il sistema parlamentare inglese, all’inizio dell’età moderna, possiede quindi alcune peculiarità rispetto a quello delle altre monarchie europee: 1) più netta separazione del potere giudiziario da quello legislativo; 2) affermazione di una legge comune (common law) indipendente dal sovrano, prodotta dalle sentenze dei giudici di pace; 3) tendenza all’assolutismo coesistente con l’autogoverno delle contee; 4) crescita dell’autorità del sovrano, ma anche consolidamento delle prerogative del Parlamento, il quale viene convocato con più regolare frequenza rispetto alle altre assemblee cetuali degli Stati del continente. La Spagna Nella penisola iberica la Reconquista (iniziata nel 711) del territorio iberico a danno dei regni arabi contribuì al superamento dell’aspetto “patrimoniale” e favorì il carattere nazionale e centralizzatore del dominio politico. All’inizio dell’età moderna gli Stati più importanti sono la Castiglia e l’Aragona. Dopo le nozze di Ferdinando d’Aragona con Isabella di Castiglia (1469), i cosiddetti «re cattolici», si realizzò l’unione dinastica tra la Corona d’Aragona e quella di Castiglia e, quindi, una ristrutturazione amministrativa: la monarchia spagnola diventa allora uno Stato burocratico polisinodale (e cioè governato da una serie di consigli regi). Quella dei re cattolici è un’unione dinastica: il regno di Castiglia e gli Stati che formavano la Corona d’Aragona (l’Aragona vera e propria, il Principato catalano, il Regno di Valenza e le Baleari) mantengono le proprie leggi, le proprie monete, la propria autonomia politica. In Castiglia i sovrani cercano di realizzare una politica accentratrice simile a quella francese: ed infatti, dal 1538 in poi, essi convocano solo il terzo stato (le città) dell’assemblea cetuale castigliana, le Cortes. Invece le Cortes dei quattro Stati aragonesi difesero strenuamente le loro prerogative, come il diritto di votare le imposte. I consigli spagnoli erano insieme organi di consulta, corti di giustizia, centri amministrativi e si distinguevano: su base territoriale (Consiglio di Castiglia, d’Aragona, delle Indie, d’Italia, delle Fiandre, ecc.); per competenze (consigli di Stato, delle Finanze, della Guerra, degli Ordini, della Crociata, dell’Inquisizione). 24 non riesce a rafforzare le strutture statali. Il Ducato milanese poteva allora vantare una delle economie più dinamiche d’Italia (un’agricoltura in gran parte intensiva e floride manifatture di panni lana e di seta). Inoltre il suo territorio si trovava in una posizione strategica – il ducato controllava l’accesso al resto dell’Italia – per cui esso divenne oggetto delle mire della Francia, della Spagna e degli Asburgo d’Austria. Nel Nord-Est dell’Italia si trovava la Repubblica di Venezia o «Serenissima». Anche in questo caso si trattava di una repubblica di mercanti che però, tra ‘300 e ‘400, ha conquistato un vasto territorio: la cosiddetta «Terraferma» (coincidente con l’attuale Veneto). Il governo della repubblica era in mano a poche decine di famiglie patrizie, per cui esso era gestito da un’oligarchia ristretta e chiusa: tali famiglie controllavano le magistrature cittadine e la carica di doge (massimo rappresentante dello Stato). La Serenissima, a metà Quattrocento, aveva vasti possedimenti coloniali sia sulla costa adriatica dei Balcani, sia nel Mediterraneo orientale (Creta e Cipro): questi ultimi verranno gradualmente conquistati dai Turchi. L’economia veneziana continuava a reggersi, durante il ‘400, sul commercio delle spezie (in particolare del pepe), sui traffici mercantili in genere e sulle manifatture tessili. Durante il XV secolo la Serenissima è certamente lo Stato italiano più potente militarmente: ha cioè l’esercito e la marina più potenti d’Italia. Il centro Italia era occupato da una serie di piccoli ducati (come quelli di Mantova retto dai Gonzaga e quello di Modena dominato dagli Este) e dalla città-Stato di Firenze: quest’ultima era formalmente ancora una repubblica, anche se nel corso del ‘400 la famiglia dei banchieri Medici è riuscita a prendere il controllo delle magistrature repubblicane. Durante tutto il secolo la Repubblica fiorentina di espande territorialmente, sebbene non riesca a conquistare le repubbliche di Lucca e di Siena. Tra il 1469 e il 1492 signore di Firenze sarà Lorenzo de’ Medici, detto «il Magnifico», il quale fu artefice della pace di Lodi e della politica dell’equilibrio tra i vari Stati italiani: Firenze si allea con il Ducato di Milano e il Regno di Napoli in funzione anti-veneziana. Dopo la sua morte (1492), si aprì una fase piuttosto burrascosa per la Repubblica fiorentina a causa della predicazione del frate domenicano Girolamo Savonarola e della reazione delle altre famiglie patrizie contro i Medici. Nel 1530 i Medici, grazie all’appoggio militare di Carlo V, riuscirono a prendere definitivamente il potere, trasformando la Repubblica fiorentina in Ducato (e poi in Granducato) di Toscana. A sud delle repubbliche di Firenze e Siena si trova lo Stato della Chiesa: il papa è sia un signore territoriale (cioè sovrano di uno Stato ben definito), sia la suprema autorità spirituale dell’Europa (e del Mondo). Fino al XVIII secolo non esiste una distinzione netta tra queste due sfere o dimensioni. Nel corso del XV secolo e all’inizio del XVI i pontefici rafforzano il proprio controllo sul Lazio disciplinando la riottosa aristocrazia romana, per poi annettere allo Stato della Chiesa, con varie campagne militari, una serie di territori: le Marche, l’Umbria e buona parte dell’attuale Emilia-Romagna (le Legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna). Passando quindi al Sud, mentre la Sicilia e la Sardegna fanno parte della Corona d’Aragona fin dal tardo Medioevo (rispettivamente dal 1282 e dal 1326), la parte continentale del Mezzogiorno – e cioè il Regno di Napoli: dall’attuale Abruzzo fino alla Calabria e alla Puglia – nel 1442 viene strappata alla dinastia francese degli Angioini dal re aragonese Alfonso V. Alla sua morte, Alfonso cedette il Regno di Napoli a un ramo collaterale della sua famiglia, per cui dal 1450 fino al 1494 il regno divenne formalmente indipendente, anche se retto da una dinastia di origine spagnola. Il sovrano «napoletano» più importante di fine ‘400 fu Ferrante o Ferdinando I, il quale cercò di rafforzare il potere regio contro i baroni (i quali si ribellarono due volte) e di sviluppare l’economia meridionale (ad esempio, accogliendo numerosi mercanti e banchieri ebrei). Alla sua morte si creò un vuoto di potere che il re francese Carlo VIII cercò di colmare invadendo militarmente il regno nel 1494. Nel 1502 il re aragonese Ferdinando il Cattolico riconquistò il Regno di Napoli: da allora fino al 1707 esso fu un possedimento spagnolo. Volendo completare il quadro della situazione geo-politica dell’Italia all’inizio dell’età moderna, dobbiamo necessariamente menzionare le cosiddette «Guerre d’Italia» che si combatterono tra il 1494 e il 1559. Si tratta di una serie di eventi politico-diplomatici e militari piuttosto complessi, caratterizzati da varie fasi (3, in tutto). Desidero che vi ricordiate almeno i concetti fondamentali: 1) le potenze che si contesero il dominio dell’Italia, in particolare la Lombardia e il Regno di Napoli, furono, da una parte, la monarchia spagnola di Ferdinando d’Aragona prima e di Carlo V poi; dall’altra, la Francia di Carlo VIII, Francesco I e Enrico II; 2) i vari pontefici di questo periodo (Giulio II, Leone X, Clemente VII, ecc.) furono i protagonisti assoluti della formazione delle varie leghe o alleanze tra gli Stati italiani i quali si coalizzarono, a turno, ora contro i francesi, ora contro gli spagnoli; 3) gli Stati italiani che rimasero indipendenti uscirono indeboliti e ridimensionati dai vari conflitti: in particolare Venezia e Firenze; 25 4) fu la Spagna la vera vincitrice delle Guerre d’Italia: nel 1502-1503 conquista il Regno di Napoli, mentre nel 1535 acquisisce il controllo del Ducato di Milano. Il vero termine delle Guerre d’Italia può essere considerato la pace di Cateau-Cambrésis stipulata nel 1559 dal re spagnolo Filippo II d’Asburgo (figlio di Carlo V) e il sovrano francese Enrico II Valois: quest’ultimo riconosceva definitivamente il dominio spagnolo sulla Lombardia e sul Regno di Napoli. Con la pace di Cateau-Cambrésis, quindi, inizia l’egemonia spagnola sull’Italia (esercitata anche sugli Stati che rimasero formalmente indipendenti) che durerà fino all’inizio del Settecento, e cioè fino alla Guerra di Successione spagnola. 7. Le scoperte geografiche e la nascita degli imperi coloniali portoghese e spagnolo Le scoperte geografiche di fine ‘400-inizio ‘500 rappresentano una delle più importanti cesure della storia dell’Umanità. Esse furono possibili per una complessa serie di fattori, in primo luogo economici: 1) L’accresciuta domanda di oro spinge all’esplorazione delle coste africane da cui si prelevano anche l’avorio e gli schiavi; 2) la necessità di trovare nuove vie per il commercio delle spezie (in particolare del pepe, prezioso in quanto è un conservante naturale) con l’estremo Oriente diventa più urgente per il logorarsi dei rapporti con la dinastia Ming in Cina; 3) la presenza dei Turchi ostacola i traffici nel Mediterraneo. Fattori politici L’unificazione territoriale e la formazione di moderne strutture amministrative consentono alle grandi monarchie europee investimenti a lunga scadenza e l’adozione di un espansionismo mercantile (per es.: il finanziamento da parte di Isabella di Castiglia delle imprese di Colombo dopo la presa di Granada). Anche la propagazione della «vera» fede costituisce un ulteriore incentivo all’espansione degli Stati europei, in particolare di quelli iberici (animati da uno spirito di crociata antimusulmana che si è forgiato in oltre 700 anni di Reconquista). Fattori culturali l’Umanesimo recupera dalla cultura greca l’ipotesi eliocentrica e l’idea della sfericità della Terra, nonostante le resistenze della cultura ufficiale: Paolo Toscanelli, geografo fiorentino, sostenitore della sfericità della terra e della possibilità di raggiungere le Indie dalle coste atlantiche dell’Europa, attraversando l’Oceano, era corrispondente di Cristoforo Colombo, cui aveva fornito fin dal 1474 una carta nautica. Fattori tecnici Tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna si impongono nella navigazione nuove conoscenze tecniche, spesso empiriche, come la bussola con ago magnetico e l’astrolabio, che facilitano il calcolo della latitudine in mare usando le stelle. Una nuova cartografia soppianta i portolani medievali. Una volta iniziata la circumnavigazione dell’Africa, poi, i marinai portoghesi scoprono il funzionamento dei venti atlantici (gli alisei) che permettono loro di navigare più velocemente. Quindi, già prima che apparisse la caravella (barca a chiglia tonda che rispondeva alle esigenze della navigazione oceanica), in Spagna e in Portogallo erano apparse le condizioni tecniche per le esplorazioni geografiche. Perciò gli europei, nel corso del XV secolo, avevano le motivazioni economiche e politiche per effettuare le navigazioni oceaniche verso l’estremo Oriente, ma anche gli strumenti tecnici e i presupposti culturali per realizzarle. Per questo sono stati gli europei a “scoprire” le altre civiltà e non l’inverso. Il Portogallo Il Portogallo è il primo Stato europeo a costituire un grande impero coloniale grazie ad alcuni fattori: 1) la precoce unità nazionale, realizzata già nel XIII secolo sia contro i regni arabi, che contro la Castiglia. La dinastia Aviz, in particolare il re Enrico detto il Navigatore (1394-1460), è sensibile alle esigenze dei ceti mercantili e quindi adotta una politica di potenziamento del settore navale e crea una scuola specializzata per piloti e navigatori; 2) la presenza di una forte tradizione di riconquista forgiatasi nella lotta ai mori “infedeli” (nasce l’idea di una nuova crociata anti-islamica); 3) anche l’insufficienza delle risorse agricole del Portogallo e la ricerca di oro e merci stimola le esplorazioni geografiche. Lo scopo dei portoghesi è di raggiungere le zone orientali dove si coltivavano il pepe e le altre spezie, oltre le regioni africane che producevano oro e schiavi. L’espansione portoghese conosce varie tappe: Ceuta (1415), le Azzorre e Capo Verde (1445), Sierra Leone e Golfo di Guinea (anni ’60 del XV sec.), da dove iniziano un commercio diretto di schiavi; Angola (1482), Capo di Buona Speranza (1487). Poi nel 1497-98 una flotta al comando di Vasco da Gama, partendo da Lisbona, riesce a circumnavigare l’Africa e a raggiungere il porto indiano di Calicut nel maggio 1498. 26 Caratteri dell’espansionismo lusitano Quello portoghese fu un impero mercantile eterogeneo costruito grazie alla superiorità navale e militare, ad una popolazione legata alle attività marinaresche e ad una nobiltà desiderosa di conquiste. Si tratta quindi di un colonialismo molto aggressivo: nel 1502 i portoghesi bombardano Calicut, obbligando il sovrano locale a commerciare con loro. Successivamente i portoghesi conquistano la zona costiera del Mozambico, Malacca (1511), le Molucche in Indocina (1521-22) e nel 1542 le navi portoghesi arrivano in Giappone. Nonostante varie campagne militari contro la Persia, l’Egitto e i regni arabi dell’Oceano indiano, i portoghesi non riescono a ottenere un monopolio mercantile assoluto delle spezie perché non interrompono del tutto le altre due direttrici di tale flusso: il Golfo Persico e il Mar Rosso. Dal 1506 al 1570 il commercio delle spezie è gestito dalla corona attraverso un ente (la Casa da India) che concede ai mercanti i permessi di commercio e vendita. Il cuore del sistema coloniale portoghese in India è Goa (1510), dove i gesuiti fondano un collegio: da questo porto i mercanti lusitani e i missionari gesuiti partono alla volta della Cina e del Giappone. Lisbona, dall’inizio fino agli anni Settanta del Cinquecento, diventa comunque il maggior emporio europeo di spezie, soppiantando gradualmente Venezia: la Serenissima conobbe un lento declino perché la rotta mediterranea continuò a funzionare per tutto il secolo. Nella seconda metà del XVI sec. L’espansionismo lusitano si concentrò poi in direzione dell’Africa (Angola e Zanzibar) e verso la Cina, dove nel 1557 i portoghesi fondano la colonia di Macao. Solo negli anni ’90 del ‘500 essi verranno sopravanzati nel sud-est asiatico dai mercanti olandesi. Quello portoghese è un impero più di rotte che di occupazione territoriale: si fonda sulla costruzione di porti e fortezze in punti strategici per gli scambi e sulla creazione di empori come snodi delle rotte commerciali tra l’Atlantico e il Pacifico. L’autorità della corona era garantita attraverso una rete di governatori: in Brasile (scoperto per caso nel 1500 da Alvares Cabral), ad esempio, il territorio è controllato da vari donatarios con compiti di governo e di difesa militare, affiancati dalle missioni dei gesuiti. I limiti dell’espansionismo lusitano Si tratta di un espansionismo inizialmente efficace, ma che alla lunga mostrerà anche dei limiti: • l’incapacità di coordinare politicamente territori ampi e sparsi in tutto il Mondo; • l’assenza di un programma di politica economica coerente da parte della monarchia, che si accontenta di ottenere dai commerci una rendita finanziaria. I presupposti del colonialismo spagnolo 3. Il matrimonio di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (1469) e l’unificazione territoriale della monarchia (1479); 2) la presa di Granada (1492) e la fine della guerra contro gli arabi; 3) lo stretto legame tra religione, politica ed economia nella concezione dei sovrani e dei loro sudditi; 4) l’aumento demografico e la sovrappopolazione delle zone più fertili della Castiglia; 5) la necessità di metalli preziosi per acquistare merci e manufatti; 6) l’intraprendenza dei mercanti castigliani; 7) la ricerca di una nuova via per raggiungere le Indie a causa dell’espansionismo portoghese in Africa. I viaggi di Colombo Il re del Portogallo, Giovanni II, non finanzia il progetto presentatogli da Cristoforo Colombo, non persuaso della sua fondatezza e disinteressato a investimenti al di fuori della strategia di espansione africana in cui, come abbiamo visto, il Portogallo è impegnato fin dall’inizio del ‘400. Invece Isabella di Castiglia approva la proposta e concede a Colombo il titolo di ammiraglio, viceré e governatore delle terre eventualmente scoperte. Colombo con tre caravelle, dopo due mesi di navigazione, approda a San Salvador, presso le attuali Bahamas, il 12 ottobre 1492 (è la scoperta del Nuevo Mundo). Durante questo primo viaggio Colombo scopre Hispaniola (Haiti) e Cuba. Con tre spedizioni successive (1493, 1498, 1502) Colombo e gli spagnoli – o meglio: i castigliani – raggiungono il Messico, le coste dell’America Latina, l’Honduras. Colombo rimarrà sempre convinto di aver raggiunto “Cipango” e cioè il Giappone. Sarà Amerigo Vespucci a dimostrare con due viaggi (1499-1500 e 1501-1502) che tra l’Europa e la Cina esisteva un altro continente: in suo onore nel 1507 il cartografo tedesco Martin Waldseemüller proporrà di chiamarlo “America” (dal nome Amerigo). In quello stesso periodo anche le altre potenze europee, in primis Francia e Inghilterra, finanziarono le imprese di alcuni viaggiatori: tra il 1497 e il 1498, ad esempio, il veneziano Giovanni Caboto scopre per conto dell’Inghilterra Terranova e l’attuale Canada; il fiorentino Giovanni da Verrazzano, a capo di una spedizione francese, esplora invece la costa orientale degli attuali USA (1524). La prima circumnavigazione del Mondo fu invece opera del portoghese Ferdinando Magellano. Partito da Siviglia con 5 navi nell’agosto 1519, riuscì a trovare il passaggio tra l’Oceano 26nicament e quello pacifico; dopo aver scoperto le 29 1. Crisi dell’identità culturale dell’Europa in rapporto all’“alterità” extraeuropea: l’esistenza degli indios, ad es., non è contemplata nella Bibbia; 2. origine, già nella prima metà ‘500, del “mito del buon selvaggio”, poi sviluppato dagli Illuministi nel ‘700; lo stesso Colombo descrive i «selvaggi» miti, belli, facili da convertire. Nella cultura occidentale si incomincia quindi ad associare alle popolazioni indigene l’idea di un immaginario stato di natura dell’umanità; 3) evangelizzazione delle popolazioni indigene attraverso l’azione dei missionari nei possedimenti spagnoli e lusitani (si trattò di una vasta opera di acculturazione religiosa). 8.La crisi religiosa del Cinquecento: la Riforma luterana La divisione fra Cattolicesimo e Protestantesimo fu un episodio fondamentale nella storia d’Europa. Generalmente identificata con il movimento promosso da Lutero (il nome deriva dalla protesta dei prîncipi convertiti al Luteranesimo contro i decreti di Spira del 1529), la Riforma protestante va inserita e compresa in un più ampio contesto di crisi religiosa che investì il vecchio continente nel passaggio dal Cristianesimo medioevale, di forte impronta comunitaria nella pratica religiosa, alla progressiva interiorizzazione della fede che si afferma in età moderna. L’esigenza di una riforma era avvertita fin dall’XI secolo: già allora era emerso un forte richiamo al Cristianesimo primitivo contro la mondanità e il potere ecclesiastico, la rilassatezza dei costumi, la confusione tra sacro e profano, l’esteriorità religiosa, l’eccessivo superstizioso ricorso ai santi. A fine ‘300 tale esigenza venne ben rappresentata dai «Fratelli della Vita Comune» (comunità cattolica composta da laici fondata dall’olandese Geert de Groote) abituati a un costante confronto con la Sacra scrittura e ispirati alla Devotio moderna, movimento inaugurato da Tommaso da Kempis. Tra fine ‘400 e inizio ‘500 di questa corrente spirituale – che valorizzava la meditazione individuale, la lettura personale della Bibbia e riconduceva le credenze/pratiche cristiane a una funzione morale depurata da ogni formalismo – il maggior rappresentante fu Erasmo da Rotterdam. Nella stessa Roma, all’inizio del ‘500 si svilupparono, intorno ad alcuni prelati (come i cardinali Pole e Morone), critiche e proposte di rinnovamento della vita religiosa. La medesima necessità venne avvertita, nei primi decenni del secolo XVI, in Spagna e nel Regno di Napoli grazie al teologo e funzionario spagnolo Juan de Valdés: anche in questo caso si propone una religiosità più interiore/personale e una moralizzazione dei comportamenti del clero cattolico. In effetti tra XIV e XV secolo la Chiesa di Roma mostra gravi sintomi di crisi a causa dell’intreccio tra religione, politica e interessi economici: 1) sempre più chiusa nella difesa del proprio dominio temporale, la Chiesa cattolica ha come interlocutore laico non più solo l’imperatore, ma anche i prîncipi e i sovrani 2) lo sviluppo delle grandi monarchie produce la crisi delle pretese universalistiche e del prestigio dei pontefici; 3) fortemente legata alle aristocrazie europee, la Chiesa conserva enormi proprietà terriere, ma i nuovi sovrani contrastano il drenaggio delle risorse verso Roma; 4) la sfera laica e quella religiosa continuano ad essere compenetrate, ma emergono contrasti tra la tradizione e i nuovi interessi individuali alimentati dall’affermarsi dell’Umanesimo. La Riforma luterana: la periodizzazione La storia dei primi anni della Riforma coincide con la biografia di Martin Lutero: • 1483: nasce a Eisleben in Turingia. Conseguito il Dottorato in teologia ad Erfurt, sceglie la vita monastica (entra nell’Ordine agostiniano); • 1512-17: anni dedicati all’insegnamento ed allo studio, espone le 95 tesi a Wittenberg; • 1520: condanna papale delle proposizioni luterane; • 1521: Editto di Worms e scomunica papale, resa esecutiva dall’imperatore Carlo V. La Riforma luterana: la religiosità di Lutero 1) Lutero ha una formazione teologica lontana dalla cultura umanistica (dato che si fonda soprattutto sugli scritti di S. Agostino) e nutrita dalla costante lettura della Bibbia; 2) Lutero vive un’esperienza interiore segnata da una sensibilità esasperata, oscillante tra la paura del giudizio divino e la speranza nella salvezza, tra la certezza dell’impossibilità di cancellare la macchia del peccato originale e la ricerca di vie per la salvezza individuale; 30 3) le vie proposte dalla Chiesa (vita monastica, sacramenti, misticismo) appaiono a Lutero inefficaci: il problema centrale resta la distanza, ritenuta da lui incolmabile, tra Uomo e Dio. Solo Dio può salvare (non le opere degli uomini); 4) Lutero formula la teoria del “sacerdozio universale” che prevede un rapporto diretto di ogni fedele con Dio e i testi sacri; 5) Per Lutero il messaggio evangelico originale è contenuto solo nella Bibbia (Antico e Nuovo Testamento). Ogni fedele debe poterla leggere in vernacolo senza l’intermediazione degli ecclesiastici: ciò marca una netta differenza rispetto alla Chiesa cattolica, che vieterà la lettura della Bibbia in volgare fino al 1757. Lutero, quindi, afferma il principio della centralità della coscienza individuale attraverso la libertà che ogni fedele ha di interpretare la Bibbia; 6) Ne consegue che, secondo Lutero, tutti i sacramenti e le figure sacre non citati o presenti nella Bibbia sono fasulli: perciò dei sette sacramenti Lutero considera validi solo il battesimo e l’eucarestia. Anche il Papa è fasullo in quanto figura non presente nella Bibbia (dove non viene mai ricordato). Quindi Lutero identifica il Papa con l’Anticristo. La riflessione luterana scaturisce da un conflitto specifico, quello sulle indulgenze. Nella Chiesa vige la pratica delle indulgenze che permettono di ottenere la remissione dei peccati attraverso un atto di pentimento e conversione accompagnato dall’esborso di danaro. Questa pratica si basa su una dottrina che prevede la possibilità per gli uomini virtuosi e santi di accumulare una sorta di tesoro di meriti, a cui possono attingere i “fratelli” meno virtuosi (ad es. i propri familiari): con le preghiere si può intercedere a favore non solo di se stessi, ma anche delle anime dei propri cari, garantendo loro il Purgatorio. La concezione di Lutero esclude la possibilità per l’Uomo di guadagnare meriti di fronte a Dio; perciò, la sua protesta contro le indulgenze ha una fondamentale premessa dottrinale, prima ancora di essere espressione di un’indignazione contro una pratica che si era trasformata in un colossale commercio. L’occasione per polemizzare contro tale prassi nasce da una nuova vendita di indulgenze voluta da Papa Leone X nel 1517 per la costruzione di San Pietro, di cui si fa garante l’arcivescovo di Magdeburgo. Il domenicano Johann Tetzel pubblica un testo in difesa delle indulgenze: contro tale testo Lutero compone le 95 tesi che, una volta stampate dai suoi discepoli, avranno un ampio successo in tutta la Germania. Nell’attaccare questa pratica, nelle 95 tesi Lutero afferma che: 1) il sentimento nazionale tedesco è offeso dallo sfruttamento papale (per il drenaggio di denaro versato dai tedeschi a favore di Roma); 2) non esiste alcuna giurisdizione del papa sul Purgatorio (che è una pura invenzione); 3) le indulgenze favoriscono uno stato d’animo falso, inducendo l’Uomo alla rilassatezza; 4) solo un’autentica fede, incondizionata, permette all’Uomo di sperare nella salvezza, che 30nicame 30nicamente dalla volontà di Dio (che è imperscrutabile e comunque non condizionabile dall’Uomo stesso). La dottrina teologica di Lutero Tra il 1517 e il 1518, stampate in molte città europee, le 95 tesi ebbero enorme risonanza. In altri tre scritti, editi nel 1520, sono contenuti i cardini della dottrina luterana. Nel primo di questi, Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, Lutero contesta: 1) la pretesa superiorità del papa sul potere civile; 2) il magistero della Chiesa nell’interpretazione delle scritture; 3) la superiorità del papa sui concili. 4) Lutero sostiene la necessità che i prîncipi esproprino la Chiesa di tutti i suoi beni temporali. Nel secondo testo, La cattività babilonese della Chiesa, apparso sempre nel 1520, Lutero: 1) ribadisce che i veri sacramenti sono due – Battesimo ed Eucaristia – e non sette; 2) nega la transustanziazione (la trasformazione reale, durante la comunione, della sostanza del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo) e sostiene la consustanziazione (il pane e il vino non mutano la loro natura durante la cerimonia dell’eucarestia); 3) conferma l’esistenza del sacerdozio universale; 4) proclama lo scioglimento degli ordini regolari e la possibilità per i pastori protestanti di sposarsi (Lutero stesso di sposerà con un ex monaca). Dopo la scomunica, Lutero si rifiuta di ritrattare il testo sulla Cattività babilonese; Federico di Sassonia inscena un falso rapimento: Lutero, di ritorno dalla dieta di Worms, è condotto in salvo nel castello di Wartburg (per 10 mesi), dove inizia la traduzione della Bibbia (dall’edizione critica greco-latina di Erasmo) in tedesco. Tale traduzione avrà un’ampia diffusione, grazie all’utilizzo della stampa, e contribuì alla formazione dell’unità linguistica del popolo tedesco. 31 Infine, nell’ultima opera del 1520, La libertà del cristiano, Lutero: 1) afferma che l’Uomo è destinato alla perdizione: solo la fede può salvarlo (giustificazione per sola fede); 2) conferma la svalutazione delle opere ai fini della salvezza: «Le opere buone non fanno l’uomo buono, ma l’uomo buono fa opere buone». Le opere sono necessarie per la disciplina, non per garantirsi la salvezza; 3) sostiene che il cristiano deve restare fedele alle autorità costituite, obbedire alle leggi civili, accettare la propria condizione sociale. La formulazione teologica di Lutero conduce quest’ultimo a scontrarsi anche con Erasmo. Erasmo e Lutero rappresentano due risposte alternative alla crisi religiosa del Cinquecento: Erasmo gode di grande prestigio e Lutero che si considera, come tanti, suo allievo, cerca di coinvolgerlo nella lotta per la Riforma. Non ci riuscirà: Erasmo rimarrà cattolico. Erasmo, comunque, cercò invano evitare che la reazione cattolica contro la Riforma coinvolgesse anche i movimenti moderati e riformatori interni alla Chiesa. Infatti il programma dell’Umanesimo cristiano erasmiano, come abbiamo visto, prevede una riforma pacifica della vita religiosa, senza lacerazioni con Roma. 1524: Erasmo pubblica il De libero arbitrio, in cui ribadisce l’utilità delle opere buone per la salvezza. 1525: Lutero risponde con il De servo arbitrio, confermando la sua teoria rigida sulla salvezza. Le differenze teologiche tra i due renderanno impossibile la fusione tra il Luteranesimo e le correnti cattoliche riformatrici. Il successo della Riforma nell’Impero Il messaggio di Lutero viene accolto con favore un po’ da tutti i ceti sociali tedeschi: soprattutto dai prîncipi, che vedono nella Riforma l’occasione giusta per espropriare il clero delle sue proprietà e per bloccare il disegno politico centralizzatore di Carlo V. Ma anche dai ceti borghesi della città hanseatiche, dalla piccola nobiltà (il ceto dei cavalieri, non rappresentati nella dieta imperiale) e, infine, dai contadini. La cronologia della Riforma protestante 1521-25: Fase delle Rivoluzioni sociali • Rivolta dei Cavalieri: 1522-23. • Movimento degli Anabattisti: 1522-24. • Rivolta dei Contadini (la “Riforma popolare”): 1524-25. 1525-31: Fase delle Diete e dei colloqui • Confessione di fede augustana (enunciata durante la dieta di Augusta): 1530. • Lega di Smalcalda (alleanza militare tra i prîncipi protestanti in funzione antiasburgica e anti-cattolica): 1531. 1532-55: Fase della lotta armata tra cattolici, guidati dall’Imperatore Carlo V d’Asburgo, e luterani. • 1541: Colloqui di Ratisbona (l’ultimo tentativo di trovare un accordo pacifico di natura teologica tra cattolici e luterani). • 1546: Morte di Lutero. • 1555: La Pace di Augusta pone fine al conflitto armato nei territori tedeschi di diversa confessione («ubi unus dominus, ibi una sit religio» → Cuius regio, eius religio: i sudditi sono obbligati a professare la fede del proprio principe o, in alternativa, a emigrare). 1522-23: Rivolta dei cavalieri. In un contesto di forte conflittualità caratterizzato dal rafforzamento dei principati territoriali, l’aspettativa della reformatio si coniuga con quella dei ceti per modificare i rapporti socio-politici esistenti nel Sacro Romano Impero. Un piccolo esercito di cavalieri (esponenti della nobiltà minore) attacca le terre del principe- vescovo di Treviri, afferma la fine della proprietà ecclesiastica e l’autonomia dai signori, ma viene subito schiacciato dalle truppe dei sovrani territoriali protestanti e cattolici: vittoria dei prîncipi e dell’alta aristocrazia, che rafforzano il loro potere. Frattanto nelle campagne tedesche la riforma religiosa, accompagnata da richieste di riforme sociali, portò a sollevazioni popolari, facendo emergere una corrente radicale interna al Luteranesimo. Il suo più noto rappresentante è Thomas Müntzer, il quale organizza in Sassonia una “Lega degli Eletti” formata, in gran parte, da contadini scontenti per l’aggravamento del regime feudale; essa mira quindi a distruggere il potere dei nobili. Müntzer aveva aderito al movimento religioso degli Anabattisti (= i ribattezzati): essi seppero dare ai contadini e ai ceti marginali del Sacro Romano Impero gli strumenti ideologici e la piattaforma politica per tentare di realizzare il regno della giustizia sulla Terra (e cioè una società egalitaria sul modello del Cristianesimo delle origini). 1524-25: la Guerra dei contadini. Guidati da predicatori anabattisti, i contadini usano la Riforma per sostenere i Dodici articoli di Memmingen. Qui sono contenute varie rivendicazioni sociali: 34 • dei rapporti inizialmente cordiali con Roma, che concede al re numerosi poteri sul ceto ecclesiastico. Emerge però il problema della successione dovuto alla mancanza di un erede maschio da parte di Enrico VIII: ciò indeboliva il prestigio dei Tudor appena insediati sul trono. Nel 1527 Enrico VIII chiede l’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona, che egli aveva sposato dopo che questa, ancora bambina, era rimasta vedova del fratello Arturo. I teologi di corte suggerirono di giustificare l’annullamento ricorrendo alla Bibbia (in particolare al libro del Levitico): «Se un uomo sposa la moglie di suo fratello commette un’impurità; essi rimarranno senza figli». Ma Caterina d’Aragona era zia dell’imperatore e re di Spagna Carlo V d’Asburgo, il quale fece forti pressioni sul Papa Clemente VII perché non annullasse il matrimonio. Perciò nel 1533 l’arcivescovo di Canterbury Cranmer annullò il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona; Enrico VIII sposò subito dopo Anna Bolena (incoronata regina nel 1534, poi condannata nel 1536 per adulterio). Scomunicato dal Pontefice, il re decide che avrebbe incontrato minori difficoltà se avesse attaccato il Papa non sul terreno dogmatico, ma su quello disciplinare. La popolazione, infatti, era portata all’anticurialismo a causa dell’alta pressione fiscale ecclesiastica. Inizialmente, quindi, l’Anglicanesimo si configura come uno scisma senza eresia e cioè una separazione da Roma senza alcun mutamento nella dottrina. Da subito Enrico VIII introduce l’uso Bibbia in volgare e poi, nel Novembre 1534, promulga l’Atto di supremazia con il quale si costituisce una Chiesa nazionale anglicana. Il re si autonomina capo della Anglicana Ecclesia in sostituzione del Papa, con diritto di reprimere l’eresia e di scomunicare. Con l’Atto di supremazia viene inoltre imposto il giuramento al re e non ad autorità straniere (cioè al Papa); inoltre, affermare che il sovrano fosse eretico, scismatico o tiranno, viene da allora considerato tradimento. Ma, nello stesso tempo, Enrico VIII approva i Sei articoli contro i riformatori, i più rilevanti dei quali sono: 1) rogo per chi negava la transustanziazione; 2) proibizione del matrimonio a preti e monaci; 3) ammissione delle messe private; 4) conservazione della confessione auricolare. Conseguenze dell’Atto di supremazia: 1) Condanna a morte per chi, come Tommaso Moro, rifiutava il giuramento al re quale supremo capo della Chiesa anglicana; 2) soppressione dei monasteri: la corona requisisce i beni ecclesiastici e li vende o dona ai privati (in particolare ai nobili). Questa scelta rimpinguò le casse dello Stato e portò a un aumento del numero dei proprietari fedeli al sovrano. Nel 1547 succede al trono d’Inghilterra Edoardo VI (1547-53) di 9 anni. Inizia il periodo dei “protettori”. Tra i “protettori” spiccò il duca di Somerset (1547-49), durante il cui governo cresce l’influenza del Luteranesimo e del Calvinismo; vengono aboliti i 6 articoli di Enrico VIII e sono accolti i protestanti. Nel 1549 si promulga il Book of Common Prayer (Libro della preghiera comune), con il quale la Chiesa anglicana vira verso la dottrina luterana. Infatti, qui si riconoscevano due soli sacramenti, il Battesimo e l’Eucarestia, e si sopprimeva il carattere di sacrificio della messa. Con la Professione di fede ufficiale (1553) l’Anglicanesimo diventa definitivamente religione di Stato. In questi stessi anni la Scozia aderisce al Calvinismo grazie all’opera di John Knox, un pastore formatosi a Ginevra. Invece l’Irlanda assume una connotazione sempre più marcatamente cattolica in chiave anti-inglese. 1553–1558: fase di ristabilimento del Cattolicesimo con l’ascesa al trono di Maria Tudor. Cattolica, e dal 1554 sposa del re di Spagna Filippo II d’Asburgo, Maria Tudor cercò di cancellare i connotati luterani della Chiesa anglicana: non poté restituire i beni alla Chiesa, già in mano di privati, ma affidò cariche pubbliche ai perseguitati nel regime precedente. Meritò l’appellativo di “Maria la sanguinaria” per aver condannato all’esilio o al patibolo i riformati, creando una frattura tra la Corona e la società. 1558-1603: Elisabetta I Tudor, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, ristabilisce l’Atto di supremazia con il giuramento di fedeltà, consolidando la Chiesa anglicana. Nel 1563 Elisabetta promulga i 39 Articoli: si tratta di una confessione di fede di ispirazione calvinista, anche se vengono mantenuti alcuni aspetti del culto esteriore cattolico. Il clero anglicano si schiera quindi contro i puritani (= calvinisti inglesi) che criticano la natura «ibrida» dell’Anglicanesimo. Elisabetta, simbolicamente rappresentata come Astrea, diventa in breve il punto di riferimento del mondo riformato europeo; con lei si estinguono i Tudor (non si sposerà: “regina vergine”). 10.Carlo V e Filippo II d’Asburgo: l’egemonia della monarchia spagnola nell’Europa del ‘500 Dagli anni Venti del ‘500 fino all’inizio del ‘600 la monarchia composita spagnola è la principale potenza in Europa. Le ragioni principali di tale egemonia furono: 35 1. la scoperta e la conquista del Nuovo Mondo, che offre alla monarchia spagnola ricchezze e nuovi mercati; 2. l forte incremento demografico e produttivo della Castiglia (specie nell’ambito delle manifatture tessili); 3. il raggiungimento dell’unità religiosa nel 1492; 4. un esercito ben organizzato e abituato a combattere anche fuori dai confini nazionali (come nel caso della conquista del Regno di Napoli); 5. l’accesso facilitato ai capitali dei banchieri privati (fiamminghi e genovesi). L’impero di Carlo V Mentre la Riforma protestante si diffonde in Europa, Carlo d’Asburgo (1500-1558) – erede di Filippo (I) il Bello d’Asburgo e di Giovanna la Pazza (figlia dei Re Cattolici) – tra il 1506 e il 1516 eredita una grande quantità di territori: • dal padre eredita le Fiandre e la Franca Contea: non a caso nasce a Gand e viene educato nei Paesi Bassi; • dal nonno materno (Ferdinando il Cattolico) ottiene la monarchia spagnola, con i suoi domini italiani e le colonie americane; • dal nonno paterno (l’imperatore Massimiliano d’Asburgo) eredita i possedimenti asburgici dell’Austria, la candidatura al Sacro Impero Romano-germanico e a quella delle corone della Boemia e dell’Ungheria. Il sogno imperiale di Carlo V Dopo essere diventato re di Spagna a soli 16 anni, Carlo nel 1519 comprò con due tonnellate d’oro (ottenute da alcuni banchieri tedeschi ed italiani) la corona imperiale, o meglio, comprò i voti dei 7 grandi elettori (specie di quelli passati al Luteranesimo). Divenne perciò sovrano di un impero estesissimo, su cui “non tramontava mai il sole”. Ispirandosi all’Impero Romano d’Occidente e a quello carolingio, cercò di creare una monarchia universale in grado di garantire un ordine politico pacifico avente nel Cattolicesimo il suo fondamento morale e religioso. Pur rimanendo sempre cattolico, Carlo era vicino alle correnti riformatrici erasmiane, per cui cercò fino all’ultimo di evitare il conflitto armato con i protestanti e fece pressioni sui pontefici per l’apertura di un concilio ecumenico (il Concilio di Trento). Carlo V fu inoltre influenzato dalla coeva cultura rinascimentale (ad esempio: il progetto di monarchia universale gli era stato ispirato dall’umanista Mercurino Arborio di Gattinara) e da un’idea di crociata simile a quella che aveva guidato i Re Cattolici spagnoli nella Reconquista. La sua corte fu quindi itinerante, sebbene risiedesse ampi periodi in Spagna; la Castiglia divenne di fatto il “cuore” dell’Impero carolino poiché buona parte delle risorse finanziarie e umane necessarie per sostenere la politica imperiale provennero dalla Castiglia e dalle sue colonie. Ma il progetto di monarchia universale da lui perseguito alla fine fallì, essenzialmente a causa della molteplicità di scacchieri in cui Carlo V si trovò impegnato, che finirono per far disperdere le forze umane e finanziarie (pur ingenti) su cui poteva contare, vanificando le tante vittorie militari. Il fallimento del sogno imperiale di Carlo V La monarchia universale carolina venne osteggiata: 6. in Europa, in particolare in Italia, dai sovrani francesi Francesco I ed Enrico II di Valois → 4 guerre contro la Francia (1521-1526; 1526-1529; 1536-1538; 1542-1544); 2) in Germania dai luterani; 3) nel Mediterraneo e nei Balcani dall’espansione dell’Impero Ottomano e dalla pirateria barbaresca (gli Stati barbareschi sono il Marocco, l’Algeria, la Tunisia e la Libia, tutti vassalli dell’Impero Ottomano). Le guerre di Carlo V con la Francia Nel 1521 Carlo fece occupare Milano e nel 1525 sconfisse presso Pavia Francesco I, catturandolo. Venezia, Genova, Firenze e lo Stato pontificio si unirono allora alla Francia contro di lui. Nel 1527 Carlo non esitò a far mettere a sacco Roma dai soldati mercenari tedeschi di fede luterana inquadrati nell’esercito imperiale, i lanzichenecchi (il sacco di Roma). Successivamente l’imperatore si riappacificò con il papa Clemente VII. La pace di Cambrai del 1529 impose alla Francia la rinuncia a ogni mira sull’Italia. Nel 1530 Carlo V fece restaurare a Firenze, che nel 1527 era tornata al regime repubblicano, la dinastia dei Medici. In quello stesso anno il papa Clemente VII de’ Medici suggellò la rinnovata sintonia tra Papato e Imperatore incoronando a Bologna Carlo re d’Italia (titolo onorifico). Poi, nel 1536 l’imperatore si impadronì direttamente di Milano, e la guerra riprese prima con Francesco I, poi con suo figlio, Enrico II. Le guerre d’Italia tra l’imperatore e la monarchia francese si conclusero con la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, la quale ratificò l’egemonia della Spagna sulla penisola italiana. In tutto questo periodo la Francia era stata alleata 36 dell’Impero Ottomano (la flotta turca e barbaresca trovò spesso rifugio nei porti francesi del Mediterraneo come Marsiglia). Il conflitto con i Luterani Anche dopo la creazione della Lega di Smalcalda (1531), che unisce in un’alleanza difensiva i prîncipi protestanti, Carlo V cerca invano un accordo. Di fronte al radicalizzarsi delle posizioni, scoppia la guerra detta di Smalcalda (1546-47), in cui prevalsero le forze cattoliche (battaglia di Mühlberg). Ma ormai la Riforma luterana ha avuto tempo di radicarsi, per cui la successiva riscossa dei protestanti, aiutati dall’esercito francese, costrinse Carlo alla pace di Augusta nel 1555. La pace di Augusta si struttura su tre punti: 1) il diritto dei prîncipi di scegliere, secondo coscienza, la propria confessione religiosa, con l’obbligo per i loro sudditi di seguirli in questa scelta (principio del cuius regio, eius religio = “di chi [è] il territorio, di lui [sia] la religione”). I sudditi che decidono di non conformarsi sono costretti a emigrare altrove. […] 2) La pace è valida per le sole confessioni cattolica e luterana (ne sono esclusi i calvinisti); 3) si riconoscono gli espropri effettuati fino al 1552 nel Sacro Romano Impero dalle autorità politiche protestanti a danno della Chiesa cattolica. La pace di Augusta rappresentò un’instabile tregua nelle guerre di religione che insanguinarono l’Europa e la Germania dalla metà del ‘500 fino alla metà del ‘600. Le campagne di Carlo V contro l’Impero Ottomano Con Solimano II il Magnifico (1520-1566) l’impero ottomano conobbe una rapida espansione: • 1521: conquista di Belgrado; • 1522: conquista di Rodi; • 1526: conquista della parte sud-orientale dell’Ungheria; • 1529: primo assedio di Vienna. L’imperatore reagì conquistando nel 1535 Tunisi, ma poi le flotte cristiane vennero sconfitte. Nel tentativo di conquistare Algeri, in seguito a una forte tempesta, lo stesso Carlo rischiò di morire (1542). Carlo V e le colonie americane della Castiglia Durante il regno di Carlo continuò lo sfruttamento, da parte della Castiglia, delle colonie americane dalle quali provenivano anzitutto grandi quantità di metalli preziosi. Animato da una sincera fede cattolica, Carlo cercò di migliorare le condizioni di vita degli indios americani assoggettati dai conquistadores. Colpito dalla denuncia del domenicano Bartolomé de Las Casas, l’imperatore fece emettere nel 1542-43 le Nuove leggi delle Indie che contenevano varie misure in difesa degli indigeni (molte di esse vennero però disattese). L’abdicazione e la morte di Carlo V Logorato nel fisico e nel morale, essendo ben consapevole di aver visto fallire il proprio disegno di monarchia universale cattolica, Carlo V abdicò (1555-56), ritirandosi nel convento spagnolo di Yuste: affidò la corona d’Austria (insieme a quelle elettive di Boemia e Ungheria) al fratello Ferdinando I, mentre assegnò la corona di Spagna con tutti i suoi dominii (comprese le Fiandre) al figlio Filippo II. Nel 1558 il fratello Ferdinando I, alla morte di Carlo, assunse il titolo di imperatore del Sacro Romano Impero. Per cui la conseguenza più importante del fallimento del sogno imperiale di Carlo V fu la divisione in due tronconi dei suoi possedimenti. Da questo momento in poi esistono due dinastie asburgiche: gli Asburgo di Spagna (1556-1700) e gli Asburgo d’Austria (1556-1918). Filippo II Filippo II d’Asburgo (noto come “rey prudente” o “rey papelero”) sostituisce il sogno imperiale del padre con un progetto politico egualmente ambizioso basato su due obiettivi: 1. garantire ai due rami degli Asburgo l’egemonia sull’Europa; 2. riconquista cattolica dell’Europa stessa. Si trattò quindi di un progetto egemonico dinastico-confessionale. Ma il progetto egemonico di Filippo II, come era avvenuto per quello del padre, fallì a causa dei tanti impegni bellici intrapresi. A differenza del padre, Filippo scelse il regno di Castiglia come centro della propria monarchia. Il lungo regno di Filippo II di Spagna (1556-1598) può essere suddiviso in varie fasi: Iª fase (1559 -1565). Filippo II non ha ancora un preciso disegno politico internazionale, ma deve fronteggiare il pericolo più grave: i Turchi. La flotta spagnola viene sconfitta a Djerba 1560, mentre la pirateria barbaresca si intensifica, colpendo le comunicazioni tra le coste spagnole e quelle italiane (si sviluppò il fenomeno dei “riscatti”). IIª fase (1565-1580). Filippo II deve affrontare la rivolta dei Paesi Bassi, perdendone il controllo: nel 1581 viene proclamata la Repubblica delle Sette Province Unite guidata dall’Olanda; tra il 1568 e il 1570 dovette poi fronteggiare la 39 Carlo V vorrebbe però che il concilio servisse a ricomporre la frattura con i luterani, per cui cerca di convincere i prelati a iniziare la discussione dalle questioni disciplinari (dove la distanza tra i luterani e il settore riformatore della Chiesa cattolica è meno marcata). Vince invece la linea rigida sostenuta da Gian Pietro Carafa e dal gruppo degli “zelanti” (prelati cattolici intransigenti), per cui le prime riunioni vengono dedicate alla questione dei sacramenti, in particolare all’Eucarestia: svaniscono così le esigue speranze di riassorbire lo scisma protestante. Il Concilio conosce 3 fasi: Prima fase (1545-47): numero esiguo di partecipanti, in maggioranza vescovi italiani e spagnoli; scontro tra il “partito imperiale” e quello curiale/“zelante”. In questa prima fase il dibattito si concentra sulle questioni teologiche (il problema della Grazia, i sette sacramenti, il magistero della Chiesa nell’interpretazione delle Scritture): si consuma la definitiva rottura dottrinale con i protestanti. L’assemblea risente inoltre della congiuntura critica sfavorevole al papato con il definitivo ingresso dell’Inghilterra nell’orbita protestante dopo la morte di Enrico VIII Tudor. Così nel 1547 il Papa decide di spostare il concilio da Trento a Bologna, città pontificia, in modo da sottrarlo definitivamente ai tentativi di ingerenza di Carlo V. Due anni dopo Paolo III muore. Seconda fase del Concilio (1551-1552). Nel 1551 Giulio III riapre il Concilio a Trento, subito sospeso per la guerra tra Carlo V e Enrico II. Nel 1555 viene quindi eletto papa il cardinale Gian Pietro Carafa, capofila degli “zelanti”, col nome di Paolo IV. Con lui la Controriforma si connota maggiormente come disciplinamento ed offensiva contro l’eresia, già da tempo realizzata attraverso la Congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione (riorganizzata nel 1542 dallo stesso Carafa). Il nuovo Papa blocca i lavori del concilio, dando quindi la priorità alla lotta contro l’eresia e alla repressione della libertà di pensiero: nel 1559 viene da lui promulgato il primo Indice dei libri proibiti. Con la nascita della congregazione cardinalizia del Sant’Ufficio l’Inquisizione romana viene di fatto rifondata: mentre nel Medioevo i tribunali inquisitoriali dipendevano dai vescovi, nel 1542 nasce una struttura centralizzata che da allora nominerà e controllerà gli inquisitori locali, in particolare quelli presenti nelle maggiori città dell’Italia del Centro-Nord. I processi d’eresia più importanti (come quelli a carico di Bruno e Galilei) possono essere avocati dal Sant’Uffizio e, quindi, sono celebrati a Roma. Di fatto Carafa e gli zelanti usano il Santo Uffizio non solo per reprimere i piccoli gruppi di luterani, calvinisti e anabattisti che erano riusciti a diffondersi in Italia settentrionale e centrale (specie a Venezia e Ferrara), ma anche per screditare personaggi illustri del partito riformatore (come i cardinali Morone e Pole) presenti nello stesso Concilio di Trento. Quindi la congregazione del Santo Uffizio condizionerà in maniera decisiva lo stesso svolgimento del concilio e dell’intera Controriforma. Comunque, il Santo Uffizio romano non riuscirà a estendere la propria giurisdizione né fuori d’Italia (dove sono presenti altre due Inquisizioni: quella spagnola e quella portoghese), né sull’intera penisola. In Sicilia e Sardegna sono attivi i tribunali dell’Inquisizione spagnola, mentre nel Regno di Napoli è l’arcivescovo della capitale partenopea a coordinare, dalla metà del ‘500 in poi, gli inquisitori locali e la lotta all’eresia (come contro i valdesi di Calabria e di Puglia). Terza fase del Concilio di Trento (1562-1563). Dopo la scomparsa di Paolo IV, il nuovo papa Pio IV riconvoca il concilio. Nell’ultima sessione si perfeziona il progetto di definizione dottrinale e disciplinare della Chiesa cattolica attraverso 1) il rafforzamento del potere della Curia romana; 2) la ridefinizione del ruolo e delle funzioni dei vescovi (con l’obbligatorietà delle visite diocesane, di quelle ad limina e della fondazione dei seminari diocesani); 3) l’istituzione dell’obbligo dei registri parrocchiali (nascite, matrimoni, sepolture, comunione pasquale). Viene inoltre ribadito il magistero del clero nell’interpretazione della Bibbia (che è unicamente la Vulgata di San Girolamo) contro il sacerdozio universale di Lutero; e si riconfermano il dogma della verginità della Madonna, il culto dei santi, l’esistenza del Purgatorio, la capacità della Chiesa di ridurre le pene ultraterrene attraverso le indulgenze. Il 4 dicembre 1563 la bolla Benedictus Deus chiude il concilio, anche se i suoi effetti continuano a farsi sentire negli anni successivi. Nel 1565 muore Pio IV, il quale fa però in tempo a redigere il Nuovo indice dei libri proibiti (1564): aggiornato periodicamente da una congregazione cardinalizia ad hoc (quella dell’Indice), l’Indice raccoglie l’elenco di tutti i libri ritenuti pericolosi e pertanto da vietare. Questa versione «conciliare» dell’Indice è meno severa rispetto a quella del 1559. Poi, nel 1566 il nuovo pontefice, Pio V (Michele Ghislieri, già inflessibile inquisitore) pubblica la Professio fidei tridentinae e il primo Catechismo romano, con cui il concilio può dirsi effettivamente concluso. Di fatto molti sovrani cattolici come Filippo II si rifiutano di riconoscere la validità di vari decreti tridentini nei loro Stati temendo l’aumento dell’influenza papale. La Controriforma, nel suo insieme, si caratterizza per 3 elementi fondamentali: 1. Il concilio di Trento: fissazione del dogma cattolico; 2. riorganizzazione dell’Inquisizione romana che dal 1542 diventa, almeno in Italia, il principale strumento di repressione dell’eresia (in Spagna e in Portogallo lo era già da fine Quattrocento); 40 3. nascita di nuovi ordini religiosi (tra cui spicca la Compagnia di Gesù), che applicheranno le riforme disciplinari e dottrinali stabilite a Trento. Essi si specializzano nell’assistenza ai ceti poveri, nell’azione missionaria, nell’istruzione. L’obiettivo strategico della Chiesa post-tridentina fu il “disciplinamento” dei fedeli, e cioè il consolidamento della sua presenza nella vita quotidiana e sociale delle popolazioni grazie al contributo fondamentale offerto dagli ordini religiosi: si trattò quindi di una vasta azione di acculturazione religiosa, destinata sia alle élites che ai ceti popolari, nel quadro di un deciso rafforzamento politico del Papato e della Chiesa romana. Il fallimento della normalizzazione dei rapporti tra il mondo cattolico e il mondo riformato provocò la diffusione di conflitti di natura confessionale: per un secolo, dagli anni Quaranta del ‘500 fino al 1648 (detto anche «il secolo di ferro»), l’Europa sarà insanguinata da una serie di violente guerre di religione. Il conflitto religioso più cruento dell’età moderna (e l’ultimo di tale tipo in Europa) fu la Guerra dei Trent’anni: 1618-1648. Si trattò di un conflitto di grande importanza: non solo esso vide l’emergere di nuove potenze (Danimarca, Svezia, Prussia), ma provocò un mutamento degli equilibri internazionali con l’ascesa della Francia come prima potenza continentale. Le premesse alla Guerra dei Trent’anni • 1555: la pacificazione di Augusta non è risolutiva, anche perché non comprende i calvinisti; • Anni ’70 del ‘500: i nunzi pontifici e i gesuiti si gettano nella riconquista cattolica dei fedeli nell’area germanica; • riemerge poi l’aspirazione degli Asburgo di restaurare il potere imperiale e l’unità religiosa dell’area tedesca. Infine, all’inizio del ‘600, escono di scena due sovrani divenuti punto di riferimento del mondo riformato: nel 1603 muore Elisabetta I d’Inghilterra; nel 1610 Enrico IV di Borbone, re di Francia, viene assassinato da un fanatico cattolico. Il conflitto scoppia però in un territorio per certi versi periferico del Sacro Romano Impero, e cioè il Regno di Boemia, la cui corona è in mano agli Asburgo fin dal 1526. La Boemia è allora spiritualmente vivace per la presenza di riformati e di varie sette religiose dissidenti come gli anabattisti. È quindi un paese abituato ad una certa libertà religiosa: l’Imperatore Rodolfo II (1576-1612) aveva infatti concesso ai protestanti e ai calvinisti boemi una Lettera di maestà (1609) in cui garantiva loro libertà di coscienza. Tale politica di moderata tolleranza religiosa viene interrotta durante il regno dell’imperatore Mattia d’Asburgo (1612- 1618) che succede al fratello Rodolfo; frattanto nella Dieta boema la maggioranza dei nobili è ormai diventata protestante/calvinista. La tensione aumenta a causa dei reggenti dell’Imperatore che rappresentavano il potere del sovrano asburgico a Praga, i quali attuano una politica filocattolica. Solitamente la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) si suddivide in 4 fasi: 1) f. Boemo – Palatina: 1618-1624 2) f. Danese: 1625-1629 3) f. Svedese: 1630-1635 4) f. Francese: 1635-1648 La fase Boemo-Palatina: 1618-1624 • 23 maggio 1618: La distruzione di alcune chiese protestanti spinge un gruppo di nobili a reagire contro i rappresentanti imperiali, i quali vengono gettati letteralmente fuori da una finestra del palazzo regio di Praga = defenestrazione di Praga. • 1619: Morto Mattia, la corona spetterebbe all’ultracattolico Ferdinando di Stiria (poi eletto imperatore), ma la dieta boema la offre al calvinista Federico V, elettore del Palatinato, divenuto (dopo la morte di Elisabetta I d’Inghilterra ed Enrico IV di Borbone) la guida della resistenza riformata antiasburgica. Ferdinando, quindi, attacca e sconfigge i ribelli boemi (8 novembre 1620: Battaglia della Montagna Bianca). La sconfitta di Federico e del bando evangelico-riformato conduce a violente repressioni e a una campagna di riconquista cattolica guidata dai gesuiti attraverso le loro scuole. La fase danese: 1625-1629 Nel 1625, dopo che gli Asburgo iniziano a estendere il tentativo di riconquista cattolica all’area germanica, il re protestante Cristiano IV di Danimarca interviene non solo per difendere il bando luterano, ma soprattutto per mantenere il controllo del Mar Baltico e la riscossione dei dazi sul canale del Sund. Ma l’esercito asburgico, guidato dal nobile boemo di fede cattolica Alberto di Wallenstein, sconfigge quello danese. Si giunge quindi alla pace di Lubecca (1629), con la quale Cristiano IV rinuncia ad ogni futura ingerenza nelle vicende dell’Impero. A questo punto: 1. la violenta restaurazione cattolica sostenuta dall’imperatore Ferdinando II in Boemia e in altre zone della Germania, 2. la sottrazione del titolo elettorale al Palatinato a favore del sovrano cattolico della Baviera, 3. la proclamazione unilaterale da parte di Ferdinando dell’ereditarietà della corona boema, 41 4. l’infrazione delle clausole della Pace di Augusta relative ai terreni espropriati dai protestanti ai cattolici (che invece Ferdinando restituisce a questi ultimi) spingono i prîncipi tedeschi e le popolazioni luterano-calviniste a una strenua resistenza. La fase svedese: 1630-1635 Nel 1630 interviene nel conflitto il re svedese di fede luterana Gustavo Adolfo, il quale negli anni precedenti aveva rafforzato l’esercito del paese scandinavo integrando in esso i contadini, molti dei quali sono piccoli (e liberi) proprietari terrieri (non sottoposti, cioè, al regime feudale). Inoltre, coinvolge l’aristocrazia nell’amministrazione statale e sfrutta al meglio le miniere di ferro del paese. Dopo aver stipulato un trattato di alleanza con il cardinale Richelieu, all’epoca ministro “favorito” del re francese, Gustavo Adolfo invade la Germania. In risposta a tale atto il re spagnolo Filippo IV decide anch’egli di entrare attivamente nella guerra in sostegno del ramo austriaco degli Asburgo. Il coinvolgimento della monarchia spagnola nella guerra finisce per estenderne il raggio: da questo momento in poi anche le Fiandre e l’Italia del Nord diventano scenari attivi del confronto tra il bando asburgico e quello protestante/calvinista (sostenuto dalla Francia, dalla Svezia e poi dalle Sette Province Unite). Tra il 1631 e il 1632 Gustavo Adolfo vince vari scontri contro gli eserciti spagnolo e imperiale, ma muore in battaglia a Lützen. L’Imperatore non sfrutta però la situazione perché decide di far eliminare Wallenstein, di cui non si fida: l’esercito imperiale perde così un grande stratega. Si giunge quindi alla pace di Praga (1635): l’Imperatore è costretto a fare concessioni ai prîncipi protestanti, mantenendo un’egemonia solo formale sugli Stati germanici. La fase francese: 1635-1648 Richelieu, interessato a imporre l’egemonia francese sull’Europa a danno della Spagna, decide di scendere direttamente in campo contro gli Asburgo: mentre la Spagna è impegnata militarmente su più fronti (nelle Fiandre, in Germania, in Italia, in Catalogna e nelle colonie), la Francia (sempre alleata della Svezia) consegue nel 1643 la vittoria di Rocroi sull’esercito spagnolo e invade la Baviera, il cui principe è uno dei pochi nel Sacro Romano Impero a essere rimasto fedele al Cattolicesimo e agli Asburgo. La Guerra dei Trent’anni si conclude nel 1648 con la pace di Vestfalia, la quale rappresenta un punto fermo nella storia europea e nella storia delle relazioni internazionali. La pace fu sancita con i trattati di Münster e Osnabrück. Qui i rappresentanti degli Stati europei affermarono la possibilità di convivenza di fedi diverse in un unico spazio politico. Vennero quindi definitivamente bloccati la restaurazione cattolica e l’assolutismo asburgico nell’area germanica. Le conseguenze della Guerra dei Trent’anni 1. L’Impero entra in una crisi politica definitiva, diventando una finzione giuridica (con l’indipendenza de facto dei principati più importanti); 2. la potenza politico-militare spagnola inizia a decadere, mentre vari territori della monarchia (Portogallo, Catalogna, Napoli) si ribellano contro la politica, in particolare fiscale, del ministro favorito di Filippo IV conte- duca d’Olivares; 3. avviene il riconoscimento formale da parte della Spagna dell’indipendenza delle Sette Province Unite e del Portogallo; 4. inizia allora il primato politico-militare della Francia sulla scena europea: la monarchia francese, soprattutto dopo la pace dei Pirenei del 1659 (tra il 1648 e il 1659 la Spagna e la Francia continuano a combattersi), occupa il vuoto di potere lasciato dalla crisi asburgica; 5. il conflitto segna la consacrazione della Svezia quale potenza baltica (fino all’inizio del ‘700, quando si scontrerà con la Russia) e l’inizio dell’ascesa del Brandeburgo-Prussia nell’area tedesca. 12.L’Europa del Seicento Nella prima metà del Seicento, in coincidenza con la guerra dei Trent’anni, l’Europa venne colpita da una grave crisi economica e demografica: è la cosiddetta «crisi del ‘600», che però non interessò tutti i paesi europei in egual misura. Fu soprattutto l’Europa mediterranea e meridionale a subire gli effetti più catastrofici di tale congiuntura. Le cause della crisi del ‘600 furono molteplici: esaminiamole in dettaglio, iniziando dagli aspetti demografici. Rispetto al secolo precedente, il Seicento registra una tendenza alla contrazione demografica, ad eccezione dell’Inghilterra e delle 7 Province Unite: nei paesi del Mediterraneo (Italia, Spagna e Sud della Francia) lo spopolamento è provocato dal sovrapporsi di epidemie di peste (come quella del 1629-30 che colpisce il centro-nord dell’Italia o quella del 1656-59 che flagella il Meridione), guerre e cattivi raccolti. Perciò aumentano la mortalità per denutrizione e quella infantile, mentre cresce allo stesso tempo l’età media del matrimonio a causa della crisi economica (e, quindi, diminuiscono le nascite). 44 4. 1647-48: rivolta di Masaniello a Napoli. La piega anti-feudale della ribellione convince i baroni a intervenire, appoggiando l’intervento militare spagnolo. Tutte queste rivoluzioni/ribellioni portano Filippo IV a esautorare Olivares nel 1643 e a governare in prima persona. Ma alla fine del suo regno (1665), la monarchia spagnola è ormai in piena decadenza politica ed economica. Migliore sorte ha in Francia il cardinale Richelieu, ministro-favorito di Luigi XIII (protagonista dei Tre moschettieri di A. Dumas). La sua politica estera mira a contendere alla Spagna il ruolo di potenza egemone in Europa: di qui il suo intervento, nonostante sia un cardinale della Chiesa di Roma, nella Guerra dei Trent’anni contro i cattolici Asburgo e a favore del bando protestante. La sua politica interna si prefigge di rafforzare la sovranità regia attraverso: 1. la sottrazione agli ugonotti delle piazzeforti garantite loro dall’Editto di Nantes (conferma invece le clausole dell’editto che concedevano ai calvinisti la libertà di culto); 2. la creazione di nuovi funzionari, gli intendenti, direttamente dipendenti dal sovrano con ampi poteri giurisdizionali e fiscali. Attraverso gli intendenti Richelieu aumenta la pressione fiscale straordinaria. Ma come accade in Spagna, anche in Francia questa politica accentratrice, di cui l’aumento delle imposte straordinarie (non votate dagli Stati Generali) rappresenta l’elemento più evidente, finisce per provocare la reazione delle élites e delle popolazioni. La reazione si manifesta dopo la morte di Richelieu (1642), allorquando la regina Anna d’Austria, reggente per conto del figlio minore Luigi XIV, sceglie come ministro favorito il cardinale genovese Giulio Mazzarino, il quale prosegue la politica del predecessore, scatenando una ribellione definita “Fronda”. Durante una prima fase è il Parlamento di Parigi a guidare la protesta, chiedendo la fine della politica assolutista e (inutilmente) l’abrogazione degli intendenti. Dal 1650 in poi sarà invece l’aristocrazia a ribellarsi: un settore della nobiltà titolata, guidata dal principe di Condé, si organizza militarmente per combattere contro l’esercito regio. Dopo tre anni di lotta, nel 1653 Mazzarino riesce a dividere gli oppositori e a riprendere il controllo della situazione, mentre il Condé passa dalla parte degli spagnoli. Le vicende della Fronda influiranno nella scelta di Luigi XIV di fare a meno, una volta diventato maggiorenne, del ministro favorito. Nonostante la guerra civile, durante il governo di Mazzarino la monarchia francese raggiunge il principale obiettivo di politica estera che si era prefissato Richelieu, e cioè soppiantare la Spagna come potenza egemone del continente: una supremazia sanzionata con la pace dei Pirenei del 1659 (Spagna e Francia, infatti, avevano continuato a combattersi anche dopo la stipula della pace di Vestfalia). 13.Le rivoluzioni inglesi del ‘600 Il regno di Giacomo I (1603-1625) Nel 1603 scompare senza eredi Elisabetta I: con lei si estinguono i Tudor. Sale sul trono d’Inghilterra il re di Scozia Giacomo VI Stuart, figlio di Maria Stuarda (e nipote di Elisabetta), educato al Calvinismo, con il nome di Giacomo I. Si verifica quindi l’unione dinastica dei regni di Inghilterra, Scozia e Irlanda (si tratta di una classica “monarchia composita”). Sostenitore dell’assolutismo per diritto divino, Giacomo instaura un rapporto sempre più conflittuale con il parlamento (in particolare con la Camera dei comuni) a causa delle eccessive spese di corte, della sua politica estera e per la sua politica di sostanziale tolleranza religiosa. Accade quindi in Inghilterra ciò che sta avvenendo nel continente: creazione di una corte sfarzosa, crescita della liberalità del sovrano nella gestione del patronage (cioè del sistema degli onori) e introduzione del ministro favorito, che assume il controllo del patronage stesso. Giacomo I cambia anche gli indirizzi della politica estera inglese rispetto ai tempi di Elisabetta: invece di sostenere la causa protestante-calvinista in funzione anticattolica, il nuovo sovrano cerca di ergersi come mediatore tra le potenze cattoliche e quelle del mondo riformato. Si avvicina quindi alla Francia: fa sposare l’erede al trono Carlo con Enrichetta Maria di Borbone (cattolica), sorella di Luigi XIII di Francia e figlia di Enrico IV. Un ulteriore problema è rappresentato dalla questione religiosa. Durante il regno di Giacomo I anche in Inghilterra si sviluppa il Calvinismo: i calvinisti inglesi sono chiamati puritani (= purificatori della Chiesa anglicana). Essi si schierano sia contro la minoranza cattolica, sia contro la Chiesa anglicana considerata troppo vicina al Cattolicesimo. Al mondo evangelico appartengono anche le sempre più numerose sette calviniste radicali, come i quaccheri, che decidono di emigrare in America del Nord alla ricerca della libertà religiosa (1620: i padri pellegrini). Nello stesso tempo Giacomo I deve far fronte anche all’opposizione dei cattolici: nel novembre 1605 un gruppo di nobili e militari cattolici organizza la «congiura delle polveri» antiparlamentare, che però viene scoperta e sventata. Per risolvere la crisi fiscale dello Stato e sostenere le spese della corte, nel 1611 Giacomo I crea il nuovo titolo nobiliare di baronetto e lo mette in vendita: il titolo è acquistabile versando 1.100 sterline. La vendita degli uffici nobilitanti crea una tensione latente tra il sovrano e l’antica nobiltà inglese – i lords e i membri della gentry ( = nobiltà di provincia) – poiché tale pratica scredita il ruolo sociale dell’aristocrazia. In Inghilterra all’epoca esistono due tipi di nobiltà: 45 1. I Pari (o Lords: duchi, conti, visconti, ecc.) e cioè nobiltà di antica origine feudale, militare e terriera. La nobiltà di origine feudale gode di grande considerazione sociale e di considerevole potere politico; siede di diritto in uno dei due rami del parlamento, la Camera dei Lords. È quasi sempre di orientamento politico “conservatore” poiché tutela il “landed interest”. Successivamente questo schieramento politico attento agli interessi dei grandi proprietari terrieri verrà definito tory; 2. La gentry: piccola nobiltà, non dotata di patenti sovrane, il cui status nobiliare deriva dal fatto che i suoi componenti vivono nobilmente. Le vengono attribuiti i titoli di cavaliere, baronetto, gentiluomo (knight, esquire, gentleman); è dotata di minor prestigio, ma di notevole autorità nelle contee (i giudici di pace e molti parlamentari della Camera dei Comuni sono gentlemen). La gentry deriva il suo potere dalla proprietà terriera e dall’autorevolezza acquisita in sede locale; spesso svolge anche attività imprenditoriali (tessili, minerarie, allevamento) e in alcuni casi i suoi esponenti sono eletti deputati nella Camera dei Comuni (poi definiti whigs). La politica della gentry tende a tutelare anche il “moneyed interest” in accordo con le élites mercantili delle città inglesi. Il sistema politico inglese all’inizio dell’età moderna si definisce King in Parliament. Esso si compone di tre componenti: 1. Il re (King) 2. I Lords 3. I Comuni (Commons). Solo il consenso di tutti e tre i soggetti conferisce piena validità a un atto parlamentare. La Camera dei Lords (in tutto 126) è ereditaria di padre in figlio; ne fanno parte di diritto solo i Pari d’Inghilterra (duchi, marchesi, conti, visconti, baroni), gli alti magistrati e i vescovi anglicani. La Camera dei Comuni è invece elettiva: 462 deputati. Ogni contea elegge due rappresentanti. Gli elettori, all’inizio del XVII secolo, sono circa 200.000 proprietari, determinati su base censitaria. La camera dei comuni, convocata dal re, si rinnova ad ogni convocazione. Alla morte di Giacomo I nel 1625, gli succede sul trono il figlio Carlo I Stuart (1625-1649), il quale continua la politica del padre. Nel 1628 Carlo, di fronte a un deficit statale crescente, convoca il parlamento per finanziare una spedizione di soccorso agli ugonotti francesi assediati dalle truppe di Richelieu alla Rochelle. In questa occasione il parlamento concede i finanziamenti solo a condizione che il sovrano accetti una Petition of Rights con la quale si vietano per il futuro prestiti forzosi, la violazione delle leggi del regno e l’approvazione di nuove imposte senza il consenso parlamentare. Un ulteriore motivo di tensione tra Carlo I e il parlamento è rappresentato da George Villiers, duca di Buckingham, ministro-favorito di Giacomo I e poi di Carlo I. Nel 1628 il parlamento accusa il sovrano di spese eccessive e ottiene l’impeachement del duca di Buckingham (sospettato di intrighi con la regina di Francia). Dopo essere stato assolto per volontà del sovrano, il duca viene assassinato da un ufficiale di marina di fede calvinista. Di conseguenza nel 1629 il re scioglie il parlamento. L’Inghilterra senza parlamento (1629-1640) Per undici anni (1629-40) Carlo I governa senza mai convocare il parlamento; egli cerca di finanziare le spese militari e di corte riesumando vecchie imposte medievali (come la ship money). Nello stesso tempo egli tenta di risolvere il problema dell’uniformità religiosa dei propri regni (Inghilterra anglicana, Scozia presbiteriano-calvinista e Irlanda cattolica) facendo varare all’arcivescovo di Canterbury, William Laud, una riforma religiosa che ibrida vari elementi delle tre fedi (un Calvinismo moderato in Inghilterra, l’Anglicanesimo in Scozia e Irlanda). La riforma è un fallimento: l’elemento religioso diventa quindi il catalizzatore del conflitto re/parlamento già in atto. Nel 1639 il tentativo di imporre l’Anglicanesimo in Scozia porta alla ribellione del paese; l’esercito inglese, male equipaggiato, viene sconfitto e gli scozzesi invadono il Nord dell’Inghilterra. Per cui nella primavera del 1640 Carlo I è costretto a convocare nuovamente il parlamento per ottenere il finanziamento della guerra («corto parlamento»). In questa occasione la Camera dei comuni vincola nuovamente il finanziamento alla promessa che il re avrebbe accettato la Petition of Rights del 1628, abbandonando una politica definita “dispotica”; Carlo non cede e dopo solo tre settimane scioglie il parlamento. Ma la necessità di denaro per pagare il risarcimento chiesto dagli scozzesi lo costringe a riconvocare l’assemblea nel novembre 1640: stavolta il parlamento non si farà più sciogliere (il «lungo parlamento»: 1640-1653). Appena convocato, il parlamento presenta la Grande rimostranza (1641), che il re cerca di respingere. Qui si chiede: 1. l’Impeachement e la condanna del consigliere conte di Strafford e del primate Laud; 2. l’abolizione di quei tribunali regi, come la Camera stellata, che erano diventati strumento della politica assolutista negli anni precedenti; 3. l’obbligo del sovrano di convocare il parlamento ogni tre anni (triennal act); 4. si ribadisce il carattere illegale di ogni nuova imposta non approvata dall’assemblea. La rivolta (cattolica) dell’Irlanda alla fine del 1641 complica ulteriormente la situazione. Il sovrano chiede un nuovo sussidio per finanziare l’esercito che avrebbe dovuto soffocare la ribellione, ma la Camera dei comuni impone che il comando militare venga affidato al parlamento (nel timore che, una volta finanziato, il nuovo esercito potesse essere utilizzato contro il parlamento stesso). Carlo I cerca allora di bloccare l’opposizione dei Comuni facendone arrestare i capi: il 5 gennaio 1642 il re tenta invano di far arrestare i leaders parlamentari (a cominciare da John Pym), quindi lascia Londra e si ritira ad Oxford, dove 46 organizza l’esercito contro il parlamento. Il 2 agosto 1642 inizia quindi la guerra civile (1642-49). Carlo I è accusato di tradimento dal parlamento che si proclama difensore dello Stato e luogo della sovranità. L’Inghilterra si divide in due socialmente e geograficamente: buona parte della nobiltà titolata, della gentry e dell’episcopato anglicano appoggia la causa del re, mentre la maggioranza dei ceti mercantili e il settore calvinista della gentry parteggia per il parlamento. I realisti si concentrano nel nord-ovest dell’Inghilterra e in Galles, mentre i sostenitori del parlamento provengono dalla regione limitrofa di Londra (sud-est) e dalle principali città costiere. I due eserciti di 20.000 uomini ciascuno iniziano a scontrarsi. Dopo le prime vittorie delle truppe regie, nel 1643 un gentleman puritano, Oliver Cromwell, riorganizza l’esercito parlamentare creando gli Ironsides, corpo speciale di cavalleria al servizio del parlamento. Nasce il primo nucleo del cosiddetto “New model army”: ridotta presenza nobiliare, criterio meritocratico nelle promozioni, fede calvinista dei ranghi (i quali credono di stare eseguendo una missione per conto di Dio). Nel luglio 1644 il nuovo esercito vince la battaglia di Marston Moor, prima grande vittoria parlamentare (4.000 morti fra i realisti). La vittoria definitiva giunge a Naseby l’anno successivo. A questo punto, però, nasce una sempre più acuta competizione tra il parlamento (che vorrebbe accordarsi con il re sconfitto) e l’esercito: dentro quest’ultimo sono nate una serie di correnti politiche e religiose radicali le quali, sfruttando l’ampliamento della libertà di stampa verificatosi negli anni della guerra, portano avanti una piattaforma politica repubblicana. Tra queste correnti la più importante è quella dei “Livellatori”, favorevoli al suffragio universale maschile, all’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, all’instaurazione di un regime repubblicano, alla limitazione delle diseguaglianze economico-sociali. A questa corrente radicale si contrappone un settore moderato degli “Indipendenti”, capeggiato dallo stesso Cromwell e dal genero Henry Ireton: pur filo-repubblicani, essi difendono la proprietà privata, gli interessi della gentry, l’ordine sociale vigente. Tra l’ottobre e il novembre del 1647 le due piattaforme politiche si confrontano nei dibattiti di Putney; i Livellatori sembrano prevalere (almeno nell’esercito), ma l’inopinata fuga del re in Scozia crea una nuova situazione di emergenza: infatti, in cambio della promessa di riconoscere l’indipendenza religiosa della Scozia, all’inizio del 1648 Carlo I ottiene l’appoggio militare degli scozzesi che invadono di nuovo l’Inghilterra. Della situazione approfitta Cromwell, il quale riprende il controllo dell’esercito e, dopo aver sconfitto gli scozzesi ed aver catturato il sovrano, epura l’esercito dai fautori dei Livellatori (i capi dei quali sono incarcerati). Una volta ripreso il controllo dell’esercito, Cromwell occupa Londra ed epura anche il parlamento (rump parliament: rimangono al loro posto solo 90 deputati). Impone poi allo stesso parlamento di processare per tradimento Carlo I, il quale viene condannato a morte il 30 gennaio 1649. Per vedere nuovamente un sovrano europeo giustiziato dal proprio popolo occorrerà aspettare il 1793 e la Rivoluzione francese. Nel maggio 1649 il rump parliament, dopo aver abolito la Camera dei lords e la monarchia, proclama la repubblica (Commonwealth). Ma il nuovo regime repubblicano stenta ad affermarsi, per cui la repubblica si fonda sul carisma di Cromwell e sull’esercito a lui fedele: Cromwell è infatti nominato “lord protettore” a vita del Commonwealth. La sostituzione, nel 1653, del rump parliament con una nuova assemblea elettiva su base censitaria non ha successo; per cui alla morte di Cromwell, avvenuta nel 1658, la carica di lord protettore passa al figlio Richard (che, però, non possiede il carisma del padre). Ancora una volta è l’esercito a prendere l’iniziativa: nel 1659 il generale Monk marcia su Londra e riconvoca i membri ancora in vita del «lungo parlamento» (quello epurato nel 1648), i quali indicono le elezioni per formare un nuovo parlamento. Questa nuova assemblea nel 1660 stabilisce la restaurazione della monarchia. Carlo II Stuart (1660-1685), figlio di Carlo I, è richiamato dall’esilio e proclamato re dal parlamento. Nasce di fatto un nuovo regime monarchico-parlamentare poiché Carlo II accetta di riconoscere al parlamento il ruolo di controllo sull’operato del sovrano, soprattutto in ambito fiscale. Nel 1662 si giunge anche alla pacificazione religiosa allorquando Carlo II promulga l’Atto di Uniformità che conferma, in Inghilterra, la Chiesa anglicana sul modello elisabettiano, mentre limita la libertà delle sette radicali del mondo evangelico (come i quaccheri) e dei cattolici. Durante l’epoca cromwelliana l’Inghilterra conosce un rapido sviluppo mercantile che la porta a scontrarsi con le Sette Province Unite; dopo aver promulgato l’Atto di Navigazione (misure protezioniste di stampo mercantilista), Cromwell nel 1652 non esita a dichiarare guerra all’Olanda: le due repubbliche calviniste si combattono per il predominio dei mercati europei, americani ed asiatici. Dopo aver siglato la pace con le 7 P. U. (1654), l’Inghilterra attacca la Spagna, a cui sottrae la Giamaica nel 1657. Alla prima guerra anglo-olandese ne seguiranno altre due durante il regno di Carlo II (1664-67 e 1672-76), che sanciranno il sorpasso dell’economia inglese su quella olandese. Le principali conseguenze della prima Rivoluzione inglese 1. Espansione della sfera pubblica e del dibattito politico: raggiungimento di una sostanziale libertà di stampa (per libri, pamphlet e periodici); 2. primo sviluppo della moderna teoria contrattualista che teorizza la sovranità popolare e la necessità della divisione dei poteri: sarà soprattutto John Locke, a fine Seicento, a sostenere questi due principi; 49 Il metodo galileiano si compone di due elementi principali: 1) “matematiche dimostrazioni”, ovvero la formulazione di ipotesi che siano in grado di guidare l’esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari; 2) “sensate esperienze”, ovvero l’esperimento, che può essere compiuto nella realtà o solo astrattamente (attraverso le “esperienze mentali”). La matematica serve quindi a interpretare i risultati dell’esperienza. Nei primi anni del Seicento, dopo aver costruito un cannocchiale, Galilei effettua numerose osservazioni astronomiche, che poi illustra nel Sidereus Nuncius (1610): scopre i satelliti di Giove, le fasi di Venere, le macchie solari. Qualche anno dopo Galilei viene ammonito dal cardinale gesuita Roberto Bellarmino, già componente del tribunale inquisitoriale che aveva condannato Bruno, che gli chiede di considerare il sistema eliocentrico una mera ipotesi filosofica. Lo scienziato toscano accetta, ma continua a svolgere le proprie ricerche. L’elezione, nel 1623, di Urbano VIII (Maffeo Vincenzo Barberini), estimatore di Galileo, fa credere allo scienziato toscano di essere al sicuro, per cui decide di pubblicare dapprima il Saggiatore (1623), in cui sostiene che “il grandissimo libro della natura […] è scritto in lingua matematica”; e poi la sua opera più famosa (composta in volgare e non in latino), il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632). I due massimi sistemi sono il tolemaico e il copernicano. I protagonisti del Dialogo sono tre: due sono personaggi reali, amici di Galileo, e all’epoca già defunti: il fiorentino Filippo Salviati e il veneziano Gianfrancesco Sagredo, nella cui casa si fingono tenute le conversazioni; mentre il terzo, Simplicio, richiama nel nome un noto commentatore di Aristotele, oltre a sottintendere il suo “semplicismo” scientifico. Quest’ultimo sostiene il sistema tolemaico, mentre la tesi copernicana è appoggiata dal Salviati, svolgendo una funzione più neutrale il Sagredo, che finisce però per simpatizzare per l’ipotesi copernicana. La pubblicazione del Dialogo provoca la reazione dell’Inquisizione romana che nel 1633 accusa Galilei di eresia. Questi cercò di difendersi argomentando che il messaggio biblico non va preso alla lettera: la Bibbia può essere letta con significati diversi e con diverse interpretazioni. Quindi quando si dice che Dio permette a Giosuè di fermare il Sole, si vuole solamente sottolineare metaforicamente l’onnipotenza divina e non la reale struttura “architettonica” dell’Universo. Galileo, quindi, da sincero cattolico, non rigetta la Scrittura, quanto piuttosto l’autorità dei testi tolemaico-aristotelici, che però erano stati inglobati nel dogma cattolico. Accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galileo fu per questo condannato come eretico dalla Chiesa e costretto, il 22 giugno 1633, all’abiura delle sue concezioni astronomiche, nonché a trascorrere il resto della vita agli arresti domiciliari presso la sua villa di Arcetri a Firenze. Ormai cieco, scomparve nel 1642. Prima di morire, comunque, lo scienziato pisano fece in tempo a pubblicare un’altra opera scientifica, i Discorsi (1638), dove fonda la nuova scienza del moto e rivoluziona la meccanica. Occorrerà aspettare il 1992 perché la Chiesa, per bocca di un pontefice, papa Wojtyła (Giovanni Paolo II), riabilitasse ufficialmente Galilei, ammettendo l’errore compiuto nel 1633. 15.Luigi XIV Alla morte di Mazzarino (1661), Luigi XIV (re di Francia dal 1643 al 1715) decide di fare a meno di un ministro-favorito e di regnare in prima persona. Fino a tempi recenti la storiografia ha sostenuto la tesi secondo cui Luigi XIV perseguì una coerente politica assolutista, mirando a rafforzare la centralizzazione amministrativa iniziata da Richelieu: da qui scaturisce la definizione di “Re Sole” (= centro di ogni potere: «L’état c’est moi»). Gli ultimi studi tendono invece a sottolineare il fatto che spesso Luigi XIV preferì venire a patti con la nobiltà e le assemblee cetuali della monarchia francese: più che una politica assolutista coerente, il Re Sole avrebbe quindi seguito una linea aperta al patteggiamento con i ceti privilegiati del tutto simile a quella praticata dagli altri monarchi del Seicento (come gli Asburgo di Spagna). Le caratteristiche del lungo regno di Luigi XIV (1661-1715) furono 3: 1) la guerra (causata da una politica espansionista); 2) una politica economica di stampo mercantilista, denominata “Colbertismo“(dal nome del ministro delle finanze Jean-Baptiste Colbert); 3) la difesa della fede cattolica. 1.La guerra Luigi XIV si prefigge di far raggiungere alla Francia i suoi “confini naturali” e cioè di sottrarre al Sacro Romano Impero e ai Paesi Bassi spagnoli una serie di territori confinanti con la monarchia francese. A tale scopo il re Sole destina notevoli 50 risorse finanziarie per potenziare l’esercito, mentre stimola la nobiltà titolata a servire nell’esercito stesso, tendendo a trasformarla in “nobiltà di servizio”. Già con la pace dei Pirenei (1659), siglata con la Spagna, la Francia aveva di fatto certificato il suo ruolo di prima potenza europea; nello stesso tempo il matrimonio di Luigi XIV con l’infanta di Spagna crea le premesse di una futura successione dei Borbone sul trono iberico. Le guerre provocate da Luigi XIV sono 4, combattute essenzialmente contro la Spagna e poi le Sette Province Unite e gli Asburgo d’Austria: 1) 1667-1668 (Guerra di devoluzione); 2)1672-1678 (Guerra contro le 7 Province Unite); 3) 1688-1697 (Guerra del Palatinato); 4) 1701-1714 (Guerra di Successione spagnola). Con i primi tre conflitti Luigi XIV riesce a sottrarre alla Spagna alcuni territori (come la Franca Contea), ma provoca la reazione delle altre potenze europee che si coalizzano contro l’espansionismo francese. Con la Guerra di Successione spagnola il Re Sole riesce a porre sul trono spagnolo il proprio nipote, Filippo D’Angiò. Tale continuo stato di guerra sostenuto con una pressione fiscale crescente finì per impoverire ampi settori della società francese, a cominciare dai contadini che spesso e volentieri si ribellarono. Nonostante ciò, durante il regno di Luigi XIV la Francia conosce una fase di espansione economica e coloniale (in Canada e in India orientale). 2) La politica economica Il protagonista della politica economica del Re Sole – il cosiddetto “Colbertismo” – è il controllore delle finanze Colbert: 1) sviluppo della manifatture reali, finanziate dallo Stato, collegate all’approvvigionamento dell’esercito e ai consumi della corte; 2) protezionismo doganale a difesa dei prodotti francesi; 3) potenziamento della marina mercantile e militare in funzione anti-olandese e poi anti-inglese; 4) sviluppo dei commerci internazionali attraverso la fondazione di compagnie reali privilegiate (1664: Compagnia delle Indie Occidentali e Compagnia delle Indie Orientali). 3) Difesa della religione cattolica Il Re Sole fa propria la missione che era stata dei sovrani spagnoli asburgici per un secolo e mezzo, anche se interpreta questo ruolo di difensore dell’ortodossia cattolica a suo modo: egli, infatti, si considera il capo delle Chiesa francese (in base alla teoria della sovranità per diritto divino) e non tollera l’ingerenza dei pontefici di Roma negli affari inerenti al clero transalpino. Nel 1681 egli convoca un sinodo della Chiesa francese da cui scaturiscono Quattro articoli gallicani: 1) i re francesi non erano sottoposti ad alcun potere ecclesiastico; 2) l’autorità del concilio era superiore a quella del papa; 3) la Chiesa gallicana godeva di una sua autonomia rispetto alla Santa Sede; 4) le decisioni dei pontefici in materia di fede dovevano ricevere il consenso dell’intera Chiesa. Poi nel 1687 il Re Sole estese unilateralmente il diritto della régale (che consentiva ai re francesi di percepire le rendite di varie sedi vescovili vacanti e di conferire i benefici da esse dipendenti fino alla presa di possesso del successore) a tutte le diocesi francesi: ciò provoca un aspro conflitto con Roma che si risolve solo venti anni dopo a favore di Luigi XIV. Per quanto riguarda la gestione della Chiesa francese, Luigi XIV perseguita tutte le correnti eterodosse esterne e interne al Cattolicesimo transalpino: 1) nel 1685 revoca l’editto di Nantes di Enrico IV, che garantiva libertà di coscienza agli ugonotti: circa 200.000 calvinisti francesi, in maggioranza artigiani e mercanti, rifiutano di convertirsi e decidono quindi di emigrare in Olanda, Svizzera, Germania o Inghilterra. Tale misura produsse quindi un ingente danno all’economia francese a causa della perdita di questo importante “capitale umano”; 2) Luigi XIV perseguita una corrente interna al Cattolicesimo francese, il Giansenismo (dal nome del teologo Giansenio), che rifacendosi alla dottrina agostiniana, chiede il ritorno a una spiritualità austera; avvicinandosi poi alle tesi di Lutero in materia di Grazia e Salvezza, il Giansenismo censura la mondanità della Chiesa. Il Re Sole chiede ed ottiene dal Papa Clemente XI una bolla di condanna (bolla Unigenitus, 1713). Ma il Giansenismo riuscirà comunque a radicarsi non solo in certi settori della Chiesa e della cultura francesi (come nel monastero di Port Royal; uno dei più grandi intellettuali del periodo, Blaise Pascal, è giansenista), ma anche in tanti Parlamenti, e cioè nella magistratura. Perciò in Francia il Giansenismo, a cominciare dai primi decenni del XVIII secolo, si connoterà come una forza d’opposizione all’assolutismo regio. Per quanto concerne i rapporti con le élites e la nobiltà francesi, l’atteggiamento del Re Sole è duplice: 51 1) cerca di disciplinare l’alta aristocrazia attraverso il consenso; utilizza perciò il patronage regio per premiare quei nobili che sono fedeli e sono disposti a servire la monarchia nell’esercito, nell’amministrazione e in diplomazia. Utilizza poi la reggia di Versailles, e quindi l’etichetta di corte, come uno strumento di controllo; 2) rafforza allo stesso tempo i poteri della burocrazia regia, in particolare degli intendenti, per colpire e limitare le autonomie dei ceti privilegiati e dei poteri cetuali locali; 3) nobilita numerose famiglie di banchieri, appaltatori delle imposte e mercanti che hanno servito la corona: così facendo limita l’influenza dell’antica nobiltà di origine feudale e crea un legame diretto con i ceti borghesi cittadini. La monarchia del Re Sole diventerà, tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700, un modello anche per altre dinastie e sovrani europei, in particolare per quelli di Prussia e Russia. Sovrani come Pietro I il Grande di Russia (1689-1725) cercheranno di imitare i tratti essenziali della politica assolutista di Luigi XIV, in particolare il rafforzamento della monarchia, attraverso: 1) il disciplinamento del clero e della nobiltà titolata, 2) la creazione di un esercito dipendente dal sovrano (un esercito finanziato da tasse riscosse da una burocrazia e da una nobiltà fedeli al sovrano), 3) una politica economica mercantilista. 16.Le Guerre di Successione della prima metà del ‘700 Tra il 1701 e il 1748 in Europa scoppiano ben 3 guerre di successione che hanno origine da motivazioni meramente dinastiche, sebbene stimolino lo sviluppo di sentimenti “proto-nazionali” nei paesi coinvolti: in molti di essi, infatti, inizia allora una profonda riflessione sulle identità «nazionali», i cui tratti essenziali (lingua, cultura, tradizioni politico- giuridiche) cominciano ad essere considerati indipendenti dalla presenza di specifiche dinastie regnanti. È ciò che accade anche in Italia grazie alle opere del modenese Ludovico Antonio Muratori, le quali presentano una prima importante analisi sulla storia (dal Medioevo in poi) dei caratteri nazionali dell’Italia e degli italiani. Le guerre di successione della prima metà del XVIII secolo sono: 1) 1701-1714: la Guerra di Successione spagnola; 2) 1733-1738: la Guerra di Successione polacca; 3) 1740-1748: la Guerra di Successione austriaca. Nel caso del primo e dell’ultimo conflitto si tratterà di guerre “mondiali” perché, coinvolgendo l’Inghilterra, la Francia e la Spagna, si combatteranno anche nei possedimenti coloniali. La Guerra di Successione spagnola Nel 1700 muore senza eredi diretti il re spagnolo Carlo II: con lui si estinguono gli Asburgo di Spagna. I due principali candidati alla successione al trono spagnolo sono Filippo d’Angiò, nipote del Re Sole, e l’arciduca Carlo d’Asburgo, secondogenito dell’Imperatore Leopoldo I. L’ultimo testamento di Carlo II conferisce la corona a Filippo di Borbone, decisione che viene rigettata sia dagli Asburgo d’Austria che dall’Inghilterra: c’è il pericolo che l’unione dinastica franco- spagnola muti l’equilibrio politico in Europa. Nasce perciò una vasta coalizione antifrancese composta dall’Austria e da vari prîncipi tedeschi, dall’Inghilterra, dalle 7 Province Unite, dal Portogallo e dal Piemonte dei Savoia. Tra il 1701 e il 1713 il conflitto si combatte in Spagna, in Germania, in Italia e nelle colonie. Dopo alterne vicende militari, si giunge alle paci di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) La corona spagnola è assegnata a Filippo d’Angiò (Filippo V di Borbone), ma la Spagna perde i Paesi Bassi (assegnati agli Asburgo d’Austria) e i territori italiani (la Sicilia va ai Savoia; il Regno di Napoli, la Lombardia e la Sardegna agli Asburgo. Successivamente i Savoia e gli Asburgo si scambieranno le due isole). Con la pace di Utrecht il duca di Savoia acquisisce il titolo reale, prima come re di Sicilia e poi di Sardegna (per cui il Regno di Sardegna, dal 1720 in poi, definirà l’insieme dei dominii dei Savoia, Piemonte compreso). La vera vincitrice del conflitto è però l’Inghilterra (dal 1707 Gran Bretagna) che punta a ottenere vantaggi commerciali e territori coloniali strategici: 1) l’asiento (l’appalto) sul commercio degli schiavi neri tra l’Africa e i Caraibi spagnoli, con l’annesso diritto di commerciare con le medesime colonie spagnole (navío de permiso annuale); 2) nel Mediterraneo ottiene Gibilterra e Minorca; 3) in America del Nord acquisisce Terranova, la Nuova Scozia e vari territori sulla Baia di Hudson (prima francesi). Da allora in poi la Gran Bretagna, grazie allo strapotere della sua flotta, tutelerà l’equilibrio politico europeo, specie contro i tentativi di rivincita della Spagna di Filippo V. La Guerra di Successione Polacca Anche in questo caso nel 1733 si apre una contesa sulla successione al trono (elettivo) della Polonia tra due candidati: Stanislao Leszczỳnski, nobile polacco, appoggiato dalla Francia poiché Luigi XV ne ha sposato la figlia; e Augusto III di Sassonia, sostenuto dall’Austria. In mancanza di un accordo, scoppia il conflitto che contrappone i Borbone di Francia e 54 l’esercito francese di stanza in India venne sconfitto da quello inglese: per cui con la Pace di Parigi del 1763 la Gran Bretagna riuscì a cacciare i francesi dall’India. Da questo momento sarà la Compagnia delle Indie Orientali inglese (EIC) a gestire il commercio tra l’India (e poi la Cina) e l’Europa. Dopo la pace di Parigi l’EIC assume infatti il controllo amministrativo dello Stato indiano del Bengala, per cui riscuote le imposte gravanti sulle popolazioni locali, si occupa della difesa militare, controlla la produzione artigianale del luogo. Questa posizione di forza permette alla Compagnia di reimpostare le relazioni commerciali anche con la Cina: 1. si usano le entrate fiscali del Bengala per acquistare the e seta cinesi; 2. si inizia ad esportare in Cina una merce proibita prodotta tra l’India e l’Afghanistan, l’oppio, in cambio di merci cinesi di contrabbando. Nel 1773 il governo inglese, di fronte all’eccessiva ascesa politico-economica dell’EIC, decide di “nazionalizzarla” e cioè di estendere il controllo statale su di essa: si nomina quindi un governatore che rappresenta la Corona britannica nel Bengala. Inizia allora il controllo politico, economico e militare sull’India direttamente esercitato dalla Corona e dal governo britannici che si concluderà solo nel 1947 quando Gandhi otterrà l’indipendenza dai colonizzatori inglesi. 18. L’Illuminismo Nel corso del XVIII secolo si verifica in Europa (e nelle Americhe) una nuova rivoluzione culturale dopo quella rappresentata dall’Umanesimo/Rinascimento: l’Illuminismo. L’obiettivo dell’Illuminismo è combattere l’ignoranza e il fanatismo religioso attraverso lo sviluppo della ragione e della razionalità. L’Illuminismo incentiva quindi un pensiero filosofico e politico antidogmatico, anti-dispotico, libertario. Si tratta di un pensiero critico che nutre una salda fiducia verso il progresso umano. Da un punto di vista dottrinale le matrici teoriche (filosofiche ed ideologiche) dell’Illuminismo sono tre: 1. Il Giusnaturalismo, in particolare quello di J. Locke: e quindi una teoria dei diritti umani naturali garantiti dal contrattualismo (per cui il modello politico principale degli illuministi è quello inglese post-Gloriosa Rivoluzione); 2. Il Deismo inglese di fine ‘600-inizio ‘700: si tratta di un pensiero razionalista che investe anche la teologia → religione = fatto naturale; Dio può essere capito analizzando il funzionamento della natura, senza la necessità di dogmi; 3. il Libertinismo: è una corrente filosofica di orientamento materialista che si sviluppa in Francia nel corso del ‘600; riallacciandosi ad una concezione elitaria della cultura tipica dell’Umanesimo, i libertini perseguono la libertà interiore ed esteriore dell’Uomo contro i dogmi e le convenzioni sociali (di qui la difesa di atteggiamenti personali licenziosi e sociali di contestazione della morale corrente). L’Illuminismo riprende dal Libertinismo la volontà di contestare il conformismo religioso, ma rigetta la sua concezione elitaria del sapere: i pensatori illuministi, infatti, mirano a coinvolgere nelle proprie battaglie l’intera opinione pubblica, aspirano a educare le masse e a divulgare le conoscenze. Il loro è un impegno non solo culturale, ma anche politico. La fase di incubazione dell’Illuminismo si colloca tra il 1680 e il 1715: è un periodo definito dallo storico francese Paul Hazard come quello della “crisi della coscienza europea”. Per la prima volta in Europa gli intellettuali contestano l’assolutismo, il principio d’autorità in ambito culturale, l’intolleranza religiosa. Inoltre, tra la fine del Seicento e i primi due decenni del Settecento, si afferma un’idea cumulativa del sapere e quindi si applica alle conoscenze il concetto di progresso: secondo gli illuministi, i moderni, in molte discipline (come quelle scientifiche), hanno superato gli antichi e cioè la cultura classica greco-romana. Il centro propulsivo dell’Illuminismo fu la Francia, in particolare Parigi, dove nasce, intorno ai caffè, alle accademie, ai salotti nobiliari e alle logge massoniche, una nuova atmosfera intellettuale che si nutre di numerosi contatti con la cultura olandese e inglese. In Francia il sostantivo philosophe (filosofo) diventa sinonimo di “illuminista”. Tra gli anni Venti e Quaranta del ‘700 il pensatore di punta dell’Illuminismo francese fu Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu, autore di tre opere che segnano alcuni tratti qualificanti dei Lumi francesi: 1. Le Lettere Persiane (1721); 2. le Considerazioni sulla grandezza dei romani (1734); 3. Lo Spirito delle Leggi (1748). In queste opere Montesquieu esalta il sistema politico britannico per contestare il carattere dispotico della monarchia borbonica e i costumi sociali della Francia dell’epoca; egli sostiene che la superiorità della monarchia parlamentare inglese dipende dal fatto che in essa i tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – sono divisi e distinti: ciò garantisce ai cittadini un’ampia libertà. 55 La medesima ammirazione per il modello politico-istituzionale inglese - così come per lo sviluppo economico della Gran Bretagna - nutre un altro grande illuminista francese del periodo, e cioè Voltaire (nelle Lettere inglesi, 1733). Voltaire è uno dei primi intellettuali europei a sfruttare la propria notorietà (acquisita attraverso le opere teatrali e i romanzi) per orientare l’opinione pubblica. Oltre a contestare le ingiustizie dell’assolutismo, Voltaire condurrà varie battaglie di stampa (anche sui giornali) contro l’intolleranza religiosa: per es. l’“affare Calas” (1762-65). Nello stesso tempo cercherà di dialogare con alcuni sovrani europei, in particolare con Federico II di Prussia, nel tentativo di influenzarne le scelte politiche. Dopo essere stato deluso da Federico II, Voltaire si dedicherà a comporre una serie di romanzi brevi (Zadig, Candide, Micromega), in cui ribadisce la sua fiducia per il progresso umano, oltre a varie opere di storia: di fatto egli fonda un vero e proprio nuovo genere storiografico, la storia filosofica (Il secolo di Luigi XIV, 1751; Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, 1756). Partendo dal rifiuto sia di una concezione provvidenzialistica della storia sia della storia erudita, Voltaire si prefigge di analizzare i progressi dell’Uomo – non solo in Europa, ma nel Mondo intero – nelle varie epoche storiche attraverso l’analisi dell’economia, dei costumi, delle culture delle singole civiltà umane: rigetta, cioè, una prospettiva eurocentrica (per. es. Voltaire ammira la Cina confuciana) e un approccio storico esclusivamente politico- militare. Oltre a difendere la tolleranza religiosa (nel Dizionario filosofico, 1736), Voltaire si impegnerà a divulgare il pensiero scientifico di Newton (Elementi della filosofia di Newton, 1737), esaltando il metodo sperimentale-matematico. Non a caso Voltaire parteciperà all’opera che può essere considerata il manifesto della nuova cultura illuminista francese, e cioè l’Encyclopédie coordinata da Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert. L’enciclopedia venne tirata tra il 1751 e il 1772 (17 volumi di testo più 11 di tavole illustrative), per complessive 4.000 copie. L’Encyclopédie si configura come una compilazione aggiornata del sapere universale (ordinato alfabeticamente) effettuata attraverso una prospettiva antidogmatica e anti-metafisica. Le scienze e le tecniche hanno un’indiscussa centralità rispetto ai saperi umanistici e alla teologia. La pubblicazione dell’opera venne bloccata più volte (nel 1752- 53 e nel 1757, dopo il suo inserimento nell’Indice romano dei libri proibiti) con l’accusa di empietà. Nel dizionario trovano un’ampia accoglienza le nuove scienze che si sono sviluppate nel corso del ‘700: chimica, botanica, le varie branche delle scienze naturali; così come le nuove classificazioni del mondo animale e vegetale proposte da Buffon, Linneo e Spallanzani. Ampio spazio è anche dedicato all’economia politica, in particolare all’analisi del commercio, delle manifatture e dell’agricoltura. L’Encyclopédie, quindi, introduce una vera e propria rivoluzione epistemologica che muta per sempre le coordinate del sapere (almeno nella cultura occidentale): in particolare, stabilendo la superiorità delle scienze naturali ed “esatte” su quelle umane. Uno dei vettori di diffusione dell’Illuminismo fu l’economia politica che, come scienza e disciplina accademica, nasce proprio nel corso del ‘700. Dopo una prima fase in cui si esalta il modello mercantile inglese (e quindi le politiche mercantiliste adottate dall’Inghilterra dal ‘600 in poi) e il Colbertismo, un gruppo di intellettuali francesi chiamati “fisiocrati”, guidati dal medico reale François Quesnay, fondano una nuova riflessione economica su basi scientifiche. Già collaboratore dell’Encyclopédie con alcuni articoli, Quesnay nel 1756 pubblica il Tableau économique con il quale fonda una vera e propria scuola economica definita Fisiocrazia: 1. solo l’agricoltura produce ricchezza (cioè il prodotto netto), dato che tutti i successivi passaggi di lavorazione non aggiungono nulla in termini di valore; 2. critica le politiche protezioniste tipiche del mercantilismo e difende il liberismo economico (“laissez faire, laissez passer”); 3. propone una rivoluzione fiscale poiché solo la terra – cioè la rendita agricola – deve essere tassata (attraverso un’imposta unica su base catastale che conduca all’abolizione delle imposte indirette sui consumi). Per Quesnay l’economia segue delle leggi naturali, matematicamente determinabili (visione giusnaturalista e matematica della realtà). La rivoluzione della scienza economica iniziata dai fisiocrati venne completata dal filosofo scozzese Adam Smith, autore dell’Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni (1776). Smith parte dal presupposto metodologico dei fisiocrati, e cioè dalla certezza dell’esistenza di leggi naturali che regolano la formazione della ricchezza. Secondo Smith, però, non è solo l’agricoltura a produrre la ricchezza, ma anche le manifatture e gli scambi commerciali: il lavoro umano conferisce infatti un “valore aggiunto” alla materia prima. Inoltre, per Smith il mercato si regola da solo, senza bisogno di un eccessivo interventismo statale, come se esistesse una “mano invisibile” che fa funzionare il meccanismo della domanda e dell’offerta. Oltre alla visione ottimistica verso il progresso umano espressa dalla maggioranza dei Lumi, all’interno del movimento illuminista si sviluppò anche una corrente critica che individuò nella modernità l’origine di nuove ingiustizie: tale corrente esalta la felicità originaria di cui l’Uomo avrebbe goduto nello stato di natura pre-civile, quando cioè non sarebbe esistita la proprietà privata e lo sfruttamento economico. 56 Il principale esponente di questa linea di pensiero fu il filosofo di orgine svizzera Jean-Jacques Rousseau. In due Discorsi pubblicati nel corso degli anni ‘50 e nel Contratto sociale (1762), Rousseau condanna il lusso della società moderna, la proprietà privata, l’apparente sviluppo tecnologico della società a lui contemporanea, mentre esalta la figura del selvaggio innocente e frugale, immagine vivente della primigenia condizione naturale dell’Uomo (secondo il mito del “buon selvaggio”). Da tale premessa, Rousseau sviluppa un pensiero politico radicale in cui sostiene la preferibilità 1) di un regime repubblicano basato su un contratto sociale e, quindi, 2) di un sistema politico democratico che sia l’espressione della somma delle volontà individuali di tutti i cittadini. A tale visione si ispireranno i giacobini durante la Rivoluzione francese. L’Illuminismo non si sviluppò solamente in Francia: fu infatti un movimento che interessò tutta l’Europa (e le Americhe). Il più importante filosofo illuminista fu il tedesco Immanuel Kant, mentre importante fu l’Illuminismo scozzese: oltre al già citato Smith, D. Hume, W. Robertson, A. Ferguson (nel complesso si trattò di un pensiero sensista e utilitarista). Anche gli Stati italiani dettero i natali a vari pensatori illuministi, come i milanesi Pietro Verri e Cesare Beccaria (il quale pubblica nel 1764 De’ delitti e delle pene) o i napoletani Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Mario Pagano. I pensatori italiani appena citati sono accomunati da un’approfondita riflessione sui diritti dell’Uomo. Il più noto illuminista nord- americano è invece B. Franklin, uno dei padri intellettuali degli Stati Uniti. 19.La Rivoluzione americana A metà ‘700 l’Inghilterra possiede 13 colonie in Nord America, tutte in espansione economica e demografica. Sono comunque diversificate per origine della popolazione, religione, economia ed organizzazione politica: alcune, come la Pennsylvania, sono nate dall’emigrazione di membri di sette evangeliche dissidenti (in primis i quaccheri); mentre altre, ad esempio la Georgia, sono colonie regie. L’amministrazione è in mano ad assemblee elettive: il suffragio è molto ampio, almeno rispetto all’Europa del periodo, dato che solitamente circa la metà degli abitanti ha diritto di voto. Il controllo inglese, piuttosto blando, è affidato a un governatore di nomina regia. Le colonie del Nord sono : Massachusetts (con capitale Boston), Rhode Island, Connecticut, New Hampshire. Sono abitate in maggioranza da inglesi di tradizioni religiose puritane; la loro struttura economica si basa sulla piccola proprietà terriera e sulla cantieristica. Ci sono quindi le colonie “centrali”: New York, Pennsylvania, New Jersey, Delaware. Qui la popolazione è formata da immigrati di vari paesi europei – inglesi, olandesi, tedeschi, svedesi – di diverse fedi religiose (comunque riconducibili al mondo riformato). L’economia si fonda sui commerci e sulla produzione manifatturiera. Sono presenti grandi città come Philadelphia e New York. Infine, le colonie del Sud: Maryland, Virginia, North e South Carolina, Georgia. Sono abitate in larga maggioranza da inglesi di religione anglicana. La loro economia si fonda sul grande latifondo e sulla monocoltura (tabacco e cotone) che utilizza manodopera schiavale. In base alla teoria economica mercantilista (di cui l’Atto di Navigazione di metà Seicento fu la massima espressione) l’economia delle colonie doveva essere asservita a quella della madrepatria: le colonie potevano commerciare solo con l’Inghilterra e non potevano avviare attività manifatturiere o mercantili concorrenziali rispetto a quelle della madrepatria. Il governo inglese tollerava comunque il contrabbando dei coloni americani con le vicine colonie francesi, olandesi e soprattutto spagnole. Le colonie del Nord America offrivano all’Inghilterra numerose materie prime (cotone, tabacco, pelli), oltre a costituire un mercato sicuro e in continua espansione per le merci inglesi, in particolare per i manufatti. Nel 1760 diventa sovrano della Gran Bretagna l’autoritario Giorgio III di Hannover (†1820). Dopo la vittoria sui francesi nella Guerra dei sette anni (1763), il sovrano e i governi inglesi vogliono far pagare ai coloni i costi della loro difesa: Londra, infatti, deve ormai gestire un vasto impero coloniale – che va dall’India al Nord America – per cui sembra legittimo che ogni parte dell’Impero contribuisca alla propria difesa finanziando le truppe coloniali e la marina britannica. Proprio allo scopo di razionalizzare le spese militari, dopo il 1763 da una parte il governo britannico cerca di impedire l’espansione verso i territori a Ovest degli Appalachi ceduti dalla Francia; dall’altra si introducono nuove tasse come quelle sullo zucchero importato nelle colonie dalla East India Company (1764) o sul bollo necessario sugli atti ufficiali e sulle pubblicazioni (stamp act, 1765). In più si accrescono i dazi doganali e le autorità inglesi iniziano a reprimere seriamente il contrabbando. Tale accresciuta pressione fiscale fa sviluppare una crescente opposizione dei coloni alla politica della madrepatria che si struttura intorno a un principio, tipico della cultura giuridica inglese fin dalla prima rivoluzione seicentesca: “No taxation, without representation”. Poiché i coloni non hanno nessun rappresentante nel Parlamento di Londra, le tasse che quest’ultimo impone alle colonie sembrano a loro illegittime. 59 La Prussia di Federico II di Hohenzollern Alla base del suo potere vi è una stretta alleanza tra la Corona e l’aristocrazia terriera di origine feudale (gli Junker): quest’ultima accetta di diventare nobiltà di servizio (servendo il sovrano nella burocrazia statale e nell’esercito), mentre in cambio Federico II rafforza i suoi privilegi e il sistema signorile (il cosiddetto “secondo servaggio” a danno dei contadini). I tratti principali della politica federiciana sono: 1. politica economica di stampo mercantilista (protezionismo doganale e sviluppo delle manifatture); 2. accrescimento territoriale del proprio Stato (che è frammentato e senza continuità) con l’acquisizione della Slesia nel 1748 e di parte della Polonia, che egli si spartisce nel 1772 con l’Austria e la Russia (seguiranno altre due spartizioni, nel 1793 e nel 1795, che sanciranno la scomparsa della monarchia polacca dalla cartina politica europea); 3. riforma dell’amministrazione pubblica, che viene resa più efficiente e legata al merito (esami pubblici); 4. abolizione della tortura e limitazione della pena di morte; 5. introduzione dell’istruzione elementare obbligatoria per tutti i sudditi. Caterina II di Russia Proseguendo l’opera di modernizzazione e di occidentalizzazione della Russia iniziata da Pietro il Grande, Caterina dimostra interesse per la cultura dei Lumi (Diderot visse per un periodo a Mosca), anche se finì per tradire il messaggio libertario ed egalitario dell’Illuminismo rafforzando i privilegi giuridici ed economici della nobiltà feudale a danno dei contadini. Caterina II riformò radicalmente la Chiesa ortodossa seguendo gli esempi anglicano e gallicano: confisca buona parte delle proprietà ecclesiastiche e sopprime più della metà dei monasteri russi. Usa poi tali beni per ripianare i debiti contratti durante la Guerra dei sette anni, per legare a sé l’aristocrazia e per premiare i funzionari statali più leali. L’influenza delle idee illuministiche è visibile nella fondazione dell’Università di Mosca e nella riforma della scuola elementare, che diventa gratuita nelle principali città russe; dalla riforma scolastica sono però esclusi i contadini, che rappresentavano la stragrande maggioranza delle popolazione russa. Caterina concede poi una limitata libertà di stampa e un blando autogoverno a livello locale. Fallisce invece la riforma dei codici di leggi che una commissione legislativa (formata da nobili, cittadini e contadini liberi) avrebbe dovuto varare (1767-68). Inoltre anche Caterina II persegue l’ingradimento territoriale del suo Stato partecipando alle spartizioni della Polonia e muovendo guerra per ben due volte all’Impero Ottomano: nel 1774 rafforza il controllo su Azov e sulla regione che si affaccia sulla costa settentrionale del Mar Nero (la Crimea). L’irrigidimento del sistema signorile (il “secondo servaggio”) finisce per provocare nel 1773 un’ampia ribellione dei contadini e dei cosacchi del Volga, in una vasta zona che va dall’Ucraina alla regione di Mosca. Guidati dal cosacco Emeljan Pugačëv, i contadini mettono in difficoltà l’esercito zarista fino al 1775, quando la ribellione viene domata e Pugačëv giustiziato. Da allora fino alla Rivoluzione bolscevica del 1917 le campagne russe vivranno sotto la cappa di una nuova servitù della gleba. Maria Teresa e Giuseppe II d’Asburgo Nei dominii ereditari asburgici il riformismo illuminato di Maria Teresa prima e poi di Giuseppe II viene applicato con maggiore coerenza rispetto alla Prussia e alla Russia. Maria Teresa continua la politica di razionalizzazione della macchina statale iniziata dal padre; oltre a riformare i ministeri, cerca di uniformare le leggi dei territori ereditari, in particolare dell’Austria e della Boemia, mentre la regina rispetterà sempre le autonomie dell’Ungheria. Maria Teresa e i suoi ministri (a cominciare dal cancelliere Wenzel Anton Von Kaunitz) cercano poi di aumentare la pressione fiscale sui ceti privilegiati. Nel 1774 viene varata la riforma dell’istruzione elementare che prevede la creazione di una scuola elementare pubblica per ogni parrocchia. La politica riformatrice si intensifica dopo la morte della regina nel 1780 e l’ascesa sul trono (anche imperiale) di Giuseppe II, il quale si impegna ad aumentare anche la sfera dei diritti civili dei propri sudditi: 1. nel 1781 riconosce l’equiparazione giuridica degli ebrei rispetto agli altri cittadini; 2. nello stesso anno una “patente di tolleranza” permette a tutti i sudditi asburgici libertà di culto e viene introdotto il divorzio per i cittadini non cattolici. Nel 1781 Giuseppe II ordina la soppressione di numerosi monasteri, conventi e di tutti gli ordini religiosi contemplativi (considerati improduttivi), i cui beni sono incamerati dallo Stato; vengono aperti vari seminari statali e il clero secolare 60 (parroci e vescovi) passa sotto il controllo dello Stato. Questo tipo di politica di sottomissione della Chiesa al potere pubblico attuata nel ‘700 viene definita giurisdizionalismo (nella versione austriaca anche denominato Giuseppinismo). Nel 1787 viene Giuseppe II emana un nuovo codice penale che abolisce la tortura e le discriminazioni di ceto di fronte alla legge, anche se mantiene la pena di morte. Scarse furono invece le concessioni fatte da Giuseppe II nell’ambito della libertà di stampa: le autorità continuarono a tenere sotto controllo i giornali e gli intellettuali in genere. Per quanto invece concerne le riforme economiche, Giuseppe II, come Federico II, promosse una politica di stampo mercantilista che venne sostenuta anche dalla corrente del Cameralismo (disciplina accademica che formava i futuri amministratori pubblici nell’area tedesco-austriaca). Coraggiose furono poi alcune riforme sociali intraprese da Giuseppe II, specie se paragonate a quelle praticamente inesistenti di Federico II e Caterina II: 1. tra il 1781 e il 1785 abolisce la servitù della gleba e decreta la confezione di un catasto, primo passo per far pagare le imposte dirette ai ceti privilegiati; 2. nel 1789 Giuseppe II introduce nei dominii asburgici un’imposta unica fondiaria che tutti i sudditi, compresi la nobiltà e il clero, avrebbero dovuto pagare. Tale riforma provocò l’opposizione dell’aristocrazia, in particolare ungherese. Per cui alla morte di Giuseppe, il fratello Pietro Leopoldo decise di cancellarla. Anche l’Italia conobbe un’intensa stagione riformatrice proprio nei territori che ricadevano sotto il controllo diretto e indiretto degli Asburgo: la Lombardia e il Granducato di Toscana. Nella prima regione Maria Teresa e Giuseppe II sperimentarono alcune riforme che poi cercarono di estendere negli altri territori ereditari: la Lombardia venne cioè usata quasi fosse un laboratorio delle riforme. Per cui, ad esempio, venne confezionato un catasto geometrico-particellare che permise una riforma fiscale perequativa (facendo cioè pagare i grandi proprietari terrieri nobili ed ecclesiastici). Dal 1765 una speciale commissione, la “Giunta economale”, abolì una serie di privilegi fiscali del clero ed effettuò anche alcune confische di beni della Chiesa lombarda. Ancora più radicale fu la politica riformatrice nel Granducato di Toscana in cui Pietro Leopoldo si insediò nel 1765: 1. l sovrano toscano fu il primo in Europa ad abbandonare il mercantilismo e ad adottare una politica economica liberista che si ispira alla fisiocrazia: nel 1767 approvò il libero commercio dei grani all’interno del Granducato; nel 1775 cadde ogni divieto all’esportazione del grano. Furono misure coraggiose perché negli Stati d’Antico Regime i cereali, come gli altri prodotti alimentari di maggior consumo, prima di essere considerati delle merci, erano reputati dai governi degli strumenti di controllo politico-sociale (per il timore di rivolte popolari per il «caro vita») e, quindi, erano calmierati (e cioè venduti a un prezzo «politico», il quale non consentiva però ai contadini di ottenere adeguati guadagni dalla loro vendita). Le riforme leopoldine in ambito economico sono completate dall’abolizione delle corporazioni (1770) e delle dogane interne alla Toscana (1781). 2. Pietro Leopoldo concesse poi le terre demaniali e quelle ecclesiastiche confiscate ad alcuni ordini contemplativi in affitto perpetuo a famiglie di contadini poveri. 3. Il 30 novembre 1786 venne quindi approvato un nuovo codice criminale che, primo al Mondo, cancellava non solo la tortura, ma anche la pena di morte (applicando quindi nella pratica le teorie dell’Illuminismo giuridico di Beccaria). Il culmine di tale slancio riformatore leopoldino venne toccato con un progetto di costituzione, elaborato tra il 1779 e il 1782 dal funzionario Francesco Maria Gianni, che solo lo scoppio della Rivoluzione francese impedì di applicare: nessun sovrano assoluto si era spinto così lontano, prevedendo addirittura la trasformazione di uno Stato assoluto d’Antico Regime in un regime costituzionale sul modello britannico. Anche nel Regno di Napoli e di Sicilia Carlo III di Borbone cercò di attuare una politica riformatrice (che poi replicò in Spagna, dopo il suo passaggio sul trono iberico nel 1759). Carlo, coadiuvato dal primo ministro toscano Bernardo Tanucci, tentò di limitare i molteplici privilegi (specie di foro) del clero e dei baroni; venne poi approvata una riforma fiscale su base catastale (il cosiddetto «Catasto onciario») e, dopo l’espulsione dei gesuiti del 1767, si tentò di riformare l’istruzione superiore, a cominciare dall’Università di Napoli. Nel Meridione, come precedentemente in Portogallo, Francia e Spagna, i gesuiti vennero dapprima espulsi (tra il 1759 e il 1768) e poi soppressi canonicamente come ordine religioso nel 1773: essi, che da sempre avevano difeso le ragioni e i privilegi della Chiesa di Roma e che dal ‘500 detenevano il monopolio dell’educazione delle élites cattoliche, divennero infatti l’obiettivo principale della politica giurisdizionalista dei principi riformatori. La Compagnia di Gesù divenne perciò una sorta di capro espiatorio, per cui il pontefice francescano Clemente XIV nel 1773 decise di “sacrificarla” nel tentativo di trovare un accordo con i sovrani cattolici e, quindi, di rallentare la loro politica anticlericale e giurisdizionalista. L’ordine venne comunque restaurato nel 1814. 61 21.La Rivoluzione francese: dalla convocazione degli Stati Generali al collasso della monarchia parlamentare La società francese del Settecento continua a fondarsi sulla distinzione tra Nobiltà, Clero e Terzo stato. Il Terzo stato raccoglieva tutti i francesi che non erano né nobili, né ecclesiastici. Su una popolazione di 24-25 milioni di persone, il Terzo stato rappresentava il 98% del totale. La popolazione viveva per lo più nelle campagne (20 milioni). Le distinzioni sociali si realizzavano anche in merito al pagamento delle imposte: il clero non pagava le tasse, ma contribuiva con un donativo periodicamente contrattato con la monarchia. I nobili erano esentati dalla maggior parte delle imposte dirette. Su questa rigida struttura sociale si abbattono una serie di cambiamenti: un’accresciuta mobilità sociale, la diffusione della cultura illuminista e la crescente formazione dell’opinione pubblica. Dalla morte di Luigi XIV (1715) l’assolutismo in Francia si era indebolito senza riuscire a riformarsi. Ma soprattutto tra la prima e la seconda metà del ‘700 gli interventi bellici della Francia (la Guerra dei sette anni e la Rivoluzione americana) creano un enorme deficit nel bilancio dello Stato francese. Impossibilitati a ridurre le spese, gli ultimi governi dell’Ancien régime cercarono di aumentare le entrate. Durante il regno di Luigi XV (1715-1774) cresce nel paese un’opposizione alla politica assolutista guidata da quei parlamenti dove i magistrati sono in maggioranza di simpatie gianseniste. La corte, dominata da gruppi di nobili conservatori e dai gesuiti, fa fallire ogni riforma del sistema fiscale tentata da alcuni controllori delle finanze (come Machault e Bertin). La Francia è quindi l’unica monarchia in Europa dove, nonostante la presenza di un ampio movimento illuministico, non si realizzano le riforme e dove l’assolutismo mantiene i suoi caratteri dispotici. Nel 1774 il nuovo sovrano, Luigi XVI, affida il ministero delle finanze a Anne-Robert-Jacques Turgot, un funzionario vicino alla fisiocrazia e collaboratore dell’Encyclopédie: egli propone di introdurre un’imposta fondiaria unica, e cioè di far pagare le imposte anche ai proprietari terrieri nobili ed ecclesiastici. Il progetto viene ostacolato dalla nobiltà e dal clero e, dopo pochi mesi, il re è costretto a licenziare Turgot. Anche i tentativi effettuati dai suoi successori, Jacques Necker e Charles Alexandre Calonne, non vanno a buon fine a causa della stessa opposizione dei ceti privilegiati. Per cui nel 1788 al re non rimane altra scelta che convocare gli Stati Generali per l’anno successivo (non erano stati più convocati dal 1614). I rappresentanti dei 3 stati, eletti a più livelli (parrocchia, città e regione), potevano portare all’attenzione dell’assemblea le richieste e le petizioni dei propri elettori, i cosiddetti cahiers des doléances. L’aspettativa cresce perché nel gennaio 1789 Luigi XVI accorda il raddoppio della rappresentanza al Terzo stato, senza però stabilire le modalità di voto (se per ordine o per testa: nel secondo caso i rappresentati del Terzo stato avrebbero raggiunto la maggioranza). Gli Stati generali si riuniscono a Versailles il 5 maggio 1789; ad essi parteciparono più di mille deputati: 578 del Terzo stato, 291 del Clero e 270 della nobiltà. I lavori si bloccano subito sulla questione del voto perché la nobiltà e il clero non accettano la votazione per testa. Di fronte allo stallo, il 17 giugno 1789 i deputati del Terzo stato si auto-proclamano Assemblea nazionale e il 20 Giugno si riuniscono nella sala della Pallacorda giurando di non separarsi fino a quando non avessero dato una costituzione alla Francia. Pochi giorni dopo il basso clero e un gruppo di nobili liberali, guidati da Luigi Filippo d’Orléans, si associarono al Terzo Stato: per cui l’Assemblea nazionale diventa costituente (9 luglio 1789). Luigi XVI reagisce facendo affluire vari reparti dell’esercito verso la capitale con l’intenzione di sciogliere con la forza l’assemblea. Nel frattempo, la difficile situazione economica della popolazione di Parigi, a causa dell’aumento del prezzo del pane, fa sorgere i primi cortei spontanei: i parigini cercano di procurarsi armi per difendersi dall’esercito e si diffonde la notizia che nella fortezza-prigione della Bastiglia, situata in uno dei quartieri più popolari di Parigi, vi fosse un deposito di munizioni. L’assalto alla fortezza avviene il 14 luglio 1789 (si tratta della prima irruzione della folla parigina nella politica francese). Appena una settimana dopo la presa della Bastiglia, in molte città della Francia nascono spontaneamente nuove municipalità e si costituiscono gruppi armati volontari, poi definitisi Guardia nazionale (a capo della quale fu posto il marchese La Fayette), fedeli alle direttive dell’Assemblea nazionale costituente. I membri di tali istituzioni sono per lo più borghesi: professionisti, mercanti, artigiani, ma anche molti aristocratici influenzati dall’Illuminismo, militari, uomini di Chiesa “illuminati” e lavoratori delle classi inferiori. Frattanto, tra il luglio e l’agosto 1789, la rivoluzione si diffonde nelle campagne: è la cosiddetta “Grande Paura”. I contadini si armano, assaltano i castelli dei propri signori (distruggendone gli archivi), reclamano la fine del regime feudale e la libertà per la piccola proprietà terriera. L’Assemblea costituente cerca di bloccare la rivolta contadina decretando, il 4 agosto 1789, l’abolizione dei diritti feudali: le servitù personali vengono immediatamente soppresse, mentre i privilegi di natura economica (come i censi dovuti ai signori e le decime) lo sarebbero stati solo dietro il pagamento di un risarcimento. Tale atto sancisce la fine del sistema signorile in Francia. Poi, il 26 agosto 1789, l’Assemblea nazionale approva la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino. 64 I giacobini epurano poi la Convenzione da una trentina di deputati girondini accusati di tradimento: inizia il periodo del “Terrore” (primavera 1793 - luglio 1794). La sconfitta dei girondini aprì la strada all’egemonia dei giacobini e dei sanculotti, mentre Robespierre è il leader del Comitato di salute pubblica. I giacobini e Robespierre giustificavano il loro potere ponendosi come i veri interpreti del popolo e come espressione della “volontà generale”. Durante questo periodo, essi approvano il calmiere dei prodotti di sussistenza (il “maximum”) a favore dei ceti popolari; inoltre spingono la Convenzione a decretare una nuova leva di massa per costituire un esercito di 300.000 uomini. Il Terrore può essere considerato come il compimento della fase popolare e democratica della Rivoluzione francese. L’ispirazione democratica di questa fase è espressa dalla nuova Costituzione del 1793 varata dalla Convenzione. Essa poneva al primo posto dei diritti naturali dell’uomo non più la libertà (come nella Dichiarazione dell’89), bensì l’uguaglianza. Se la Dichiarazione dell’89 aveva come obiettivo principale quello di sancire le libertà giuridico-politiche degli individui nella società, quella del ’93, espressione del movimento dei giacobini e dei sanculotti, si prefiggeva di affermare l’uguaglianza sociale, sancendo il dovere oltre che il diritto del popolo alla ribellione nei confronti di un governo ingiusto. La Costituzione del 1793 di fatto non entrò mai in vigore a causa del persistere dello stato di guerra della Francia che giustifica il Terrore. Il confronto tra le due Dichiarazioni, come abbiamo visto, consente di valutare le differenze tra il momento monarchico-liberale e il momento repubblicano-democratico della Rivoluzione. Sempre durante la fase del Terrore, sotto la spinta dei gruppi radicali guidati da Jacques R. Hébert, viene approvato: 1. il nuovo calendario rivoluzionario (che sostituisce i 12 mesi dell’anno con nomi ispirati alle manifestazioni della natura: gennaio = nevoso; aprile = fiorile; agosto = fruttidoro, ecc.); 2. il nuovo sistema metrico-decimale; 3. contro il parere di Robespierre, gli héberisti attuano anche una politica di scristianizzazione che porta alla distruzione di simboli religiosi come le statue e i dipinti dei santi, mentre si diffonde il culto per i martiri rivoluzionari, per l’Ente Supremo e la festa della dea Ragione (divinità laiche). Il Terrore ebbe successo. Per cui, una volta che i giacobini ripresero in mano la situazione in Vandea e nelle città di provincia, scoppiò una guerra fratricida all’interno del fronte repubblicano: dapprima i giacobini colpiscono l’estrema sinistra, facendo arrestare e ghigliottinare i suoi capi (a cominciare da Hébert); e poi tocca ai girondini: il 5 aprile 1794 Danton e Desmoulins, dopo un processo farsa, vengono ghigliottinati. La vittoria riportata dalle armate francesi sul fronte belga a Fleurus (26 giugno 1794) toglie l’ultima giustificazione al Terrore. Allora i moderati della Convenzione (che rappresentano sempre la maggioranza dell’assemblea) si uniscono per deporre Robespierre e sottrarre il governo ai due Comitati rivoluzionari: il 27 luglio 1794 (9 Termidoro) la Convenzione dichiara fuori legge Robespierre, Saint-Just e Couthon, i quali vengono arrestati. Il tentativo di insurrezione del Comune e dei sanculotti in loro favore fallisce e il giorno dopo Robespierre e i suoi più stretti collaboratori vengono giustiziati. Con la caduta di Robespierre il Terrore termina: i “sospetti” vengono liberati, mentre la Convenzione abolisce i suoi principali strumenti istituzionali (i due Comitati e il Tribunale rivoluzionario). Inizia allora una crudele resa dei conti in tutta la Francia: è il cosiddetto “Terrore bianco” guidato dai filomonarchici contro i giacobini. Nel tentativo di pacificare la situazione, nell’agosto del 1795 la Convenzione approva una nuova costituzione repubblicana che riprende in molti punti quella del ’91, soprattutto riguardo al carattere censitario del sistema elettorale. Essa, inoltre, prevede l’assegnazione del governo a un “direttorio” di 5 membri (scelti a rotazione), mentre il potere legislativo è assegnato a due consigli. Vengono quindi chiusi i club giacobini e sono reintegrati i girondini epurati nella Convenzione e nel governo; viene abolito anche il “maximum” sui prezzi, con il conseguente ritorno dell’inflazione. Nella primavera del ’95 i sanculotti insorgono nuovamente per chiedere la reintroduzione del calmiere dei prezzi, ma l’esercito occupa militarmente i quartieri popolari di Parigi, ponendo fine alla sommossa. Il nuovo regime politico-istituzionale repubblicano guidato dal Direttorio stenta però ad affermarsi a causa delle opposte trame ordite, tra il 1795 e il 1796, vuoi dai filomonarchici che dai giacobini guidati da F.-N. Babeuf. Perciò, a causa della sua debolezza, il Direttorio fu costretto ad appoggiarsi sull’esercito per governare, nell’ambito del quale stava emergendo la stella di un giovane ufficiale côrso, Napoleone Bonaparte. Per quanto concerne l’andamento della guerra, l’intento originario dei rivoluzionari francesi (come Brissot) era quello di esportare la rivoluzione nei paesi vicini, liberando anch’essi dall’Antico Regime. Ma la Francia rivoluzionaria abbandonò ben presto la guerra di liberazione e passò a quella di conquista. Nell’autunno del 1792 i francesi avevano occupato il Belgio (dominio austriaco), che viene poi annesso alla Repubblica francese. Poco prima del Belgio, erano state annesse anche la Savoia e la contea di Nizza. Dopo il Belgio fu la volta dei territori sulla riva sinistra del Reno. In tal modo la Francia raggiungeva i suoi “confini naturali” (le Alpi e il Reno). Al di là di tali confini «naturali», le truppe francesi non occuparono in pianta stabile i territori, ma favorirono la nascita di repubbliche satelliti. Nell’inverno 1794-1795 le truppe francesi invasero l’Olanda, promossero la fondazione della 65 Repubblica batava. In Svizzera, Basilea e Ginevra furono annesse alla Repubblica francese, mentre il resto del territorio si organizzò in uno Stato satellite della Francia, la Repubblica elvetica. All’inizio del 1796 il Direttorio pone la sua attenzione sull’Italia. Nel tentativo di costringere l’Austria alla pace, il governo francese organizza due spedizioni militari: la prima, che avrebbe dovuto attaccare direttamente i domini asburgici in Germania, fallisce; la seconda, guidata da Napoleone, si prefigge invece di costringere alla pace i Savoia (unitisi alla coalizione antifrancese) e di attaccare i territori italiani degli Asburgo: quest’ultima campagna conoscerà un successo travolgente, finendo per mutare per sempre gli equilibri politici italiani. Dopo aver invaso la Repubblica di Genova, il territorio piemontese e aver riconfermato l’annessione della Savoia e della contea di Nizza, Napoleone conquista Milano, ricacciando indietro l’esercito austriaco. Nella primavera del 1796, poi, l’esercito di Napoleone saccheggia l’Emilia e la Toscana. Le truppe austriache asserragliate a Mantova vengono definitivamente sconfitte da quelle di Napoleone nella Battaglia di Rivoli nel veronese (1797); poco dopo i francesi occupano il Veneto e Venezia. Con il Trattato di Campoformio (ottobre 1797) la Terraferma di Venezia venne spartita tra una sfera d’influenza austriaca e una francese, ponendo fine all’esistenza millenaria della Serenissima. Contemporaneamente Napoleone, contro gli ordini del Direttorio, favorisce la nascita in Italia di una serie di “repubbliche sorelle”, la prima delle quali fu la Repubblica Cispadana in Emilia (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio-Emilia: dicembre 1796). Il 7 Gennaio 1797 essa adotta come bandiera il tricolore (bianco, rosso e verde). In Lombardia nacque poi la Repubblica transpadana la quale, nel maggio del 1797, si unì alla Cispadana formando la Repubblica Cisalpina. Fin da subito, però, gli entusiasmi dei “giacobini” italiani furono delusi dalla politica d’occupazione francese volta allo sfruttamento delle risorse economico-finanziarie dei territori “liberati” dall’assolutismo. L’antica Repubblica di Genova venne quindi trasformata nella Repubblica ligure, mentre nel febbraio del 1798 nasce la Repubblica romana, dopo un’operazione lampo dell’esercito francese che occupa l’intero Stato della Chiesa: papa Pio VI viene imprigionato e deportato a Siena. Infine, nel gennaio del 1799 nacque la Repubblica partenopea: il tentativo del re borbonico di Napoli, Ferdinando IV, di attaccare la Repubblica romana si risolve infatti con l’invasione di Napoli da parte delle truppe francesi e la fuga del re stesso a Palermo sotto la protezione della marina britannica. Proprio l’egemonia esercitata dalla flotta britannica nel Mediterraneo spinge il Direttorio a intraprendere l’occupazione dell’Egitto, allora ancora Stato vassallo dell’Impero ottomano: si sperava così di interrompere i traffici mercantili britannici tra il Mediterraneo e l’India. La direzione della campagna militare viene affidata a Napoleone. Il generale côrso riesce a sconfiggere l’esercito dei “mammelucchi” nella Battaglia delle Piramidi (21 luglio 1798) e a conquistare Egitto e Siria, ma l’ammiraglio inglese O. Nelson sorprende e distrugge la flotta francese ad Abukir; all’inizio dell’anno successivo Napoleone riuscì comunque a tornare a Parigi, richiamato dal Direttorio per risolvere la sempre più ingarbugliata situazione politica francese. Frattanto in Italia l’assenza di Napoleone e la formazione di una seconda coalizione antifrancese tra Austria, Russia, Prussia e GBR, i cui eserciti invadono la penisola, provocano il collasso delle repubbliche sorelle italiane. Nel giugno del 1799 un esercito “sanfedista” formato da contadini (e guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo) riconquistò Napoli abbandonata dalle truppe francesi richiamate al Nord: seguì una violentissima repressione, in cui perirono alcuni dei migliori illuministi napoletani che avevano collaborato con il regime repubblicano. Qualche mese dopo cadde anche la Repubblica romana. Di fronte alla nuova offensiva militare delle potenze europee e alle vittorie elettorali in Francia dapprima dei monarchici e poi dei giacobini (entrambe annullate dal Direttorio), i “direttori” Paul Barras e Emmanuel-Joseph Sieyès cercarono di servirsi della figura forte e popolare di Napoleone per normalizzare la situazione politica e dare una svolta autoritaria al paese. Con loro Napoleone organizzò il colpo di stato del 18 Brumaio dell’anno VIII della Repubblica (9 Novembre 1799). A seguito del colpo di stato, il Direttorio viene esautorato e i due Consigli legislativi sciolti: il potere venne assunto da un Consolato di tre membri (Sieyès, Ducos e Napoleone stesso). Bonaparte ha ormai il controllo dell’esercito, per cui ottiene il titolo di “primo console”. Nel 1802, poi, egli si sentirà abbastanza forte da auto-proclamarsi “console a vita”, primo passo per la trasformazione del consolato in monarchia. Tale processo culmina nel maggio 1804, quando egli si proclama “Imperatore dei Francesi” (per essere poi incoronato a Notre-Dame da Pio VII nel dicembre successivo). Un plebiscito popolare approva una nuova costituzione su base fortemente censitaria: le elezioni si basano su una catena di nomine effettuate da Napoleone, le quali di fatto aboliscono la rappresentanza diretta. In realtà la Rivoluzione francese può dirsi conclusa con il colpo di stato del novembre 1799. 23.La Restaurazione 66 Il Congresso di Vienna (novembre 1814 – giugno 1815) avrebbe dovuto ridisegnare la mappa politica dell’Europa sconvolta dalla Rivoluzione francese e da Napoleone. Le potenze vincitrici cercano di restaurare lo status quo ante il 1789, ma in realtà non ci riescono: gli sconvolgimenti introdotti dalle armate francesi sono stati troppo radicali, mentre le élites europee considerano il contrattualismo come irrinunciabile. Nel caso della Francia le potenze vincitrici (Austria, Prussia, Russia e Gran Bretagna) cercano di evitare una pace punitiva che avrebbe stimolato pericolose nostalgie nei confronti dell’epoca rivoluzionaria: si confermano quindi i confini raggiunti dalla Francia nel 1792, mentre Luigi XVIII (fratello del sovrano ghigliottinato Luigi XVI) concede una carta costituzionale che istituisce in Francia, almeno formalmente, una monarchia parlamentare sul modello inglese. La monarchia austriaca ottiene l’Italia settentrionale, dalla Lombardia al Veneto/Trentino. Ai Savoia viene restituito il Piemonte, a cui si somma il territorio dell’antica Repubblica di Genova. Il Ducato di Modena venne assegnato a Francesco IV d’Asburgo-Este, quello di Parma a Maria Luigia, la moglie separata di Napoleone; nel Granducato di Toscana vengono restaurati gli Asburgo-Lorena, così come i Borbone nei Regni di Napoli e di Sicilia. Nel 1816 Ferdinando IV di Borbone decide di unificare politicamente i due regni: nasce allora il Regno delle Due Sicilie. Nell’area tedesca si decide di ratificare la scomparsa del Sacro Romano Impero decretata da Napoleone nell’agosto del 1806: dei 350 stati esistenti prima di quella data, rimangono solo 39 formazioni politiche riunite nella «Confederazione germanica» presieduta dall’Imperatore d’Austria-Ungheria, che ha assunto il titolo imperiale in forma ereditaria. La Russia e la Prussia conoscono incrementi territoriali (la prima si annette la Lituania, la Bielorussia e l’Ucraina ed estende la propria sovranità sul regno di Polonia). L’Olanda e i Paesi Bassi meridionali vengono fusi nel regno dei Paesi Bassi, che è assegnato alla dinastia degli Orange- Nassau. In Spagna e Portogallo vengono restaurate le rispettive dinastie regnanti, i Borbone e i Braganza. Infine, la GBR, continuando la linea diplomatica seguita per tutto il XVIII secolo, si assicura i maggiori vantaggi in ambito coloniale: nel Mediterraneo mantiene Gibilterra, Malta e le isole Ionie; nei Caraibi acquisisce i possedimenti francesi e olandesi; nell’Oceano indiano strappa le isole Mauritius ai francesi, Ceylon e la colonia del Capo (l’attuale zona costiera del Sud Africa) agli olandesi. Per salvaguardare gli equilibri pattuiti a Vienna, nel settembre 1815 Russia, Prussia ed Austria (a cui poco dopo si aggiungerà anche la Francia) firmano la “Santa Alleanza”; la GBR preferisce non aderirvi (rifiutando la connotazione religiosa dell’alleanza), anche se stipula una serie di trattati di alleanza bilaterali con Russia, Prussia e Impero austro- ungarico per vigilare sull’equilibrio europeo. L’ordine politico scaturito dal Congresso di Vienna si fonda quindi su un nuovo tipo di dispotismo monarchico, molto diverso da quello riformatore del ‘700 (che si basava sul concetto di “felicità pubblica”): si tratta di un dispotismo conservatore che non ricerca il consenso delle élites e che si allea con la Chiesa cattolica. Per cui l’ordine politico europeo d’inizio ‘800 scaturisce dalla stretta alleanza tra “trono” ed “altare”. Contro tale ordine conservatore si schierano i nascenti movimenti liberali europei che, nutrendosi della temperie culturale del Romanticismo, combatteranno fino al 1848 l’assolutismo autocratico, reazionario e clericale, sostenendo idee costituzionali, democratiche e spesso repubblicane. Per cui saranno i movimenti liberali del primo ‘800, di solito organizzati in società segrete di tipo massonico (in Italia: la Carboneria), a rielaborare l’eredità politica della Rivoluzione francese allo scopo di creare società egalitarie e regimi politici parlamentari di tipo democratico. 24.La Rivoluzione industriale La “Rivoluzione industriale” fu una trasformazione irreversibile dell’apparato produttivo europeo che inizia nella seconda metà del ‘700 in Inghilterra e che termina verso il 1830. La storiografia ha distinto tra una prima R. I. (quella, appunto, che si realizza in Inghilterra) da una seconda R. I. (che caratterizza l’Europa continentale dal 1830 in poi). La Rivoluzione industriale è considerata comunemente la cesura economica che segna il passaggio tra età moderna e quella contemporanea (quella politica è invece la Rivoluzione francese). Perché in Inghilterra? Per varie ragioni: 1. Per la stabilità del suo sistema politico, volto a facilitare gli interessi delle classi imprenditoriali; 2. per lo sviluppo commerciale e manifatturiero conosciuto dal paese tra Sei-Settecento; 3. ma soprattutto per la cosiddetta “Rivoluzione agricola”, vera e propria premessa della Rivoluzione Industriale. Per “Rivoluzione agricola” si intende lo sviluppo di una moderna agricoltura capitalistica fondata su grandi aziende agrarie in cui si pratica una coltivazione intensiva; essa nasce dal progressivo esproprio (iniziato nel ‘500) delle terre comuni delle comunità - che poi vengono recintate (enclosures) - operato dai grandi proprietari terrieri grazie 69 La società e l’economia giapponesi per tutta l’età moderna si trovano in condizioni simili a quelle dell’Europa medievale: si fondano su un’agricoltura sottoposta a un sistema feudale molto rigido, in cui la massa dei contadini lavora per i propri signori. Nonostante la rigidità di tale sistema feudale, l’economia e la popolazione giapponese crebbero anche grazie allo sviluppo di colture specializzate come il cotone, la canapa, la canna da zucchero e il the; era poi presente anche una borghesia mercantile al servizio dei signori e della corte imperale. Le religioni più diffuse erano il buddhismo e lo scintoismo. A differenza della Cina, in Giappone, tra il Medioevo e la prima età moderna, lo Stato si indebolisce a causa della forza dei signori feudali (daimyo): essi utilizzano il ceto dei guerrieri (samurai) non solo per contendere il potere all’imperatore (mikado, residente a Kyoto), ma anche agli altri signori. Dal XII secolo in poi il potere pubblico, oltre che dall’imperatore, viene gestito dal suo generale in capo, lo shogun. Nel 1603 tale carica venne assunta da Tokugawa Ieyasu, il quale riesce a renderla ereditaria per la sua casata (lo rimarrà fino all’arrivo degli statunitensi nel 1867). La famiglia Tokugawa di fatto assume il controllo della corte dell’imperatore (che vive isolato nella reggia, venerato come un semi-dio) e controlla direttamente un terzo circa del territorio giapponese; il resto del Giappone viene conteso da circa 250 famiglie di daimyo che molto spesso si combattono. La fedeltà dei signori allo shogun viene garantita dall’obbligo di concedere alcuni familiari in ostaggio e di permanere periodicamente nella capitale Tokyo (Edo). Più della Cina, il Giappone rifiuta qualsiasi contatto con i mercanti europei: solo nel 1640 lo shogun concederà una base commerciale agli olandesi a Deshima (Nagasaki). L’India dell’Impero Moghul Anche il sub-continente indiano, come la Cina, è sempre stato molto popoloso (nel corso del XVIII s. vi abitavano 160 milioni di persone). Le differenze con la Cina, però, sono molteplici: 1. l’agricoltura indiana è di tipo estensivo e non intensivo; 2. la società indiana, tra il Medioevo e l’età moderna, era molto più rigida di quella cinese poiché divisa in caste; 3. fin dall’VIII secolo D.C. nasce un conflitto religioso tra buddhismo, Islam, la religione Sikh e poi il cristianesimo trasmesso dai portoghesi; 4. infine, l’India è politicamente divisa. Verso il 1000 un sultano di stirpe turca invade l’India; dopo due secoli di lotte, all’inizio del 1200 nasce il sultanato di Delhi (1206-1526). Tale Stato, che si estende dal Punjab al Gange, non riesce però a unificare l’India: la regione centrale è dominata da una serie di signorie indipendenti, mentre quella meridionale (il Vijayanagar) è uno stato indipendente. Questa situazione di sostanziale divisione politica termina tra il 1494 e il 1530 con l’invasione di un sovrano afghano di origine mongola-turkmena e di fede islamica, Babur, il quale assoggetta l’India settentrionale, ponendo i presupposti dell’Impero Moghul (1526-1712). L’opera di conquista viene completata da Akbar il Grande (1556-1605), che assoggetta anche buona parte delle regioni centro-meridionali. Akbar e i suoi successori cercheranno, in primo luogo, di individuare un modo per far convivere Islam e indù, unendo le due fedi: ad esempio, aboliscono l’imposta islamica sugli “infedeli”. Inoltre, crearono una vera e propria burocrazia formata sia dai conquistatori che dalla nobiltà locale. Il culmine dell’impero Moghul venne raggiunto sotto Aurangzeb (1658-1707); ma alcune nuove invasioni dall’Afghanistan e dalla Persia, oltre alla fine della pace religiosa tra indù e mussulmani, gettano il paese nel caos. Gli inglesi e i francesi, tra la prima e la seconda metà del ‘700, approfittano della situazione per esercitare la loro influenza su intere regioni dell’India. La Persia Dopo aver subito la conquista degli arabi omàyyadi e abbàssidi e quindi dei turchi (secc. VII-XIII), La Persia, a metà del XV secolo, viene invasa da orde mongole e turkmene. Alla fine del ‘400 la dinastia autoctona dei Safàwidi riesce a respingere gli stranieri e a creare un regno autonomo. Il primo scià (imperatore) della Persia è Ismail I (1500-1524). A differenza dell’Impero Ottomano, con cui la Persia sarà costantemente in guerra per tutto il Cinquecento e parte del Seicento, la religione dominante della regione è l’Islam di credo sciita. Lo scià Abbas (1587-1629) riesce a riconquistare ai turchi il Daghestan, la Georgia e l’Azerbaigian. Lo stesso Abbas stimolò l’economia persiana facendo realizzare importanti opere pubbliche come la nuova capitale di Isfahan, il porto di Bandar Abbas e numerosi canali per l’irrigazione. Nonostante l’economia persiana si fondasse soprattutto sulla pastorizia, l’impero dello scià sviluppò con i mercanti stranieri -anche europei- floridi commerci (in particolare di tessuti di seta e tappeti). Nel 1722 la Persia viene invasa dalle orde del sovrano afgano Nadir Shah e i Safàwidi vengono estromessi dal trono: seguirono decenni di lotte e di anarchia politica. 70 L’Africa Il continente africano aveva avuto relazioni antiche con l’Europa fin dall’età ellenistica e romana. Tale contatto, però, si era limitato all’Africa mediterranea e all’Egitto (lungo il fiume Nilo), senza cioè interessare l’Africa centrale e meridionale. In tutto il continente, quindi, fin dall’antichità si erano sviluppate civiltà indigene autonome. Prima dell’arrivo dei portoghesi nel XV secolo, l’Africa aveva conosciuto l’influenza sia del Cristianesimo, che dell’Islam: il primo si era diffuso in Egitto e in Etiopia, mentre il secondo aveva interessato la zona settentrionale che si affaccia sul Mediterraneo e sulle coste dell’Africa orientale. Partendo dall’Africa centro-occidentale e cioè dalla zona sottostante il deserto del Sahara (abitato, allora come attualmente, dalle bellicose tribù berbere e Tuareg), nell’alto Medioevo era emerso lo Stato del Ghana, che però nel 1076 era stato conquistato dagli arabi Almoràvidi. Dopo l’invasione degli Almoràvidi, lungo la valle del fiume Niger emersero due Stati: dapprima il regno del Mali (secc. XII-XV) e poi, dal 1450, il Regno o Impero del Songhai, con capitale Gao, che si estendeva dal Niger fino al Marocco. Esso subì l’influenza della cultura araba, specialmente dopo la conquista di Timbuctù da parte del Marocco (1468). Le principali città dell’Impero Songhai erano la capitale Gao e Timbuctù: si trattava di floride città, popolate in buona parte da artigiani e mercanti, che raggiunsero anche i 70.000 abitanti. Qui si vendeva ogni tipo di prodotto, a cominciare dal sale estratto dalle miniere del Sahara. L’impero Songhai conobbe il periodo di massimo splendore nella prima metà del ‘500, ma nel 1590 venne definitivamente assoggettato dal Marocco. Ad oriente rispetto al regno Songhai, e cioè in Africa centrale (in corrispondenza degli attuali Stati del Niger, Nigeria, Ciad e Sudan), tra l’XI e il XV secolo erano nati una serie di regni indipendenti – come quelli di Kanem, Bornu, Wadai, Ascianti, Darfur – che avevano subito l’influenza musulmana: in effetti le poche notizie che conosciamo di questi Stati ci sono giunte grazie a una serie di viaggiatori e storici arabi come Ibn Khaldun. L’economia di questi regni presenti in Africa centrale (così come quella dell’Impero Songhai) si fondava su un’agricoltura legata al sistema di produzione schiavistico: gli schiavi, che lavoravano sotto sorveglianza, erano in un rapporto fisso rispetto alla terra (100 schiavi ogni 200 braccia di terra). La durezza di tale regime produsse una serie di violente rivolte come quella che scosse Timbuctù nel 1591. Procedendo verso meridione, nel Sudan meridionale le foreste tropicali erano popolate da numerose tribù pigmee nomadi, dedite alla caccia, mentre nell’estremo Sud dell’Africa vivevano i bantù che avevo respinto i boscimani nella zona sud-orientale. Di queste popolazioni, tutte strutturate in organizzazioni tribali non propriamente statuali, la più evoluta era quella dei bantù, i quali conoscevano il ferro, allevavano il bestiame e praticavano l’agricoltura (anche se la loro unica forza motrice era quella umana). L’arrivo degli europei, in particolare dei portoghesi, mutò radicalmente gli equilibri socioeconomici dell’Africa. Dopo la conquista di Ceuta (1415), che garantì loro il controllo dello stretto di Gibilterra, i portoghesi iniziarono a circumnavigare la costa occidentale dell’Africa procedendo verso Sud. Il loro obiettivo era duplice: 1. controllare il commercio dell’oro, dell’avorio e degli schiavi esistente tra il Sudan e il fiume Niger; 2. raggiungere l’India e l’estremo oriente per attingere direttamente le spezie (specie il pepe) e le sete cinesi. Dapprima sulla costa occidentale dell’Africa e poi, dopo aver superato il Capo di Buona Speranza nel 1487, anche in quella orientale, i portoghesi fondarono piccole città portuali, empori e fortezze che fungevano da centri logistici per le loro navi. Nel 1491 una spedizione portoghese raggiunse il Congo dove esisteva uno Stato piuttosto florido. La popolazione era suddivisa in nobili, liberi e schiavi; l’economia era evoluta perché si fondava sul commercio e su sistemi monetari differenziati (conchiglie, stoffe e rame). I congolesi, poi, sapevano lavorare sia il rame che il ferro. L’impatto dei portoghesi sulla società locale fu dirompente. Dopo che il sovrano locale si convertì al Cattolicesimo (assumendo il nome di Alfonso I), i portoghesi trasformarono l’economia del Congo dando impulso al commercio dei metalli, dell’avorio e degli schiavi. La dominazione lusitana terminò però nel 1665, quando il sovrano locale, Antonio I, abiurò il cristianesimo e cacciò i portoghesi. Nel frattempo, comunque, i portoghesi avevano occupato l’Angola (1589), sulla costa atlantica a sud del Congo, e parte dell’attuale Mozambico sulla costa orientale: qui costruirono o conquistarono una serie di città (Zanzibar, Pemba, Mombasa, Patè) che si rivelarono strategiche non solo per mantenere il controllo della rotta che conduceva in India, ma anche per muovere guerra ai vari sultanati arabi africani e indiani. D’altra parte, la zona sud-orientale dell’Africa era stata da sempre la più aperta ai contatti internazionali: infatti l’avevano raggiunta gli arabi, i persiani, i mercanti indiani e, addirittura, gli esploratori cinesi all’inizio del ‘400. Le civiltà dell’America centrale e meridionale 1)I Maya Nell’America centrale (Mesoamerica) la più antica civiltà fu certamente quella dei Maya. Originari dello Yucatán, dal 1.500 A.C. in poi essi riuscirono a espandersi fino agli odierni Chiapas, Guatemala, El Salvador e Honduras. Si trattava di 71 un popolo di agricoltori i quali utilizzavano la tecnica del “taglio-fuoco”: prima della stagione delle piogge, essi abbattevano ampie porzioni di foresta che poi bruciavano. Utilizzando la cenere come fertilizzante, i Maya riuscivano a coltivare grandi quantità di mais e baccelli. Una volta esauritisi, i campi erano abbandonati in modo che vi potesse ricrescere la foresta. Privi di bestiame e di metalli (e quindi dell’aratro), essi utilizzavano le pietre per costruire armi e utensili. Lo Stato dei Maya non era centralizzato, ma si fondava su un sistema di città-stato come Copán, Tikal, Chich’en Itsa, che raccoglievano le comunità agricole più ingenti. La società era organizzata gerarchicamente: al vertice vi era un’élite di nobili e di sacerdoti che governava su una classe di mercanti e artigiani. Sotto di loro si trovava una massa di contadini i quali, oltre a lavorare per sé, dovevano garantire una serie di prestazioni di lavoro ai nobili, ai sacerdoti e alle città sotto forma di lavori pubblici (per es. opere di canalizzazione). La proprietà privata conviveva con un sistema di terre comuni gestito dalle comunità contadine in cui ogni lavoratore era inquadrato: la distribuzione delle terre comuni (i cui proventi erano divisi in parti uguali tra ogni famiglia) avveniva ogni tre anni e seguiva l’esaurimento della produttività dei campi ottenuti con gli incendi di porzioni di foresta. La base della società era composta dagli schiavi, bottino di spedizioni militari o condannati per gravi delitti, i quali svolgevano i lavori più pesanti ed erano sacrificati in sanguinosi riti religiosi. Il sistema monetario maya si fondava sui semi di cacao. I Maya raggiunsero notevoli conoscenze astronomiche legate alle pratiche agricole: essi riuscirono a calcolare con precisione l’anno solare di 365 giorni che divisero in 18 mesi di venti giorni, mentre le settimane erano di 13 giorni. L’unità di tempo standard era un ciclo di 52 anni che serviva per collocare cronologicamente le loro storie risalenti fino al terzo millennio A. C. Le cronache, composte dai sacerdoti su carta ricavata dalle cortecce degli alberi, erano scritte in un alfabeto sillabico e ideografico (simbolico). Una serie di lotte tra le varie città-stato (in particolare tra quelle costiere e i centri che si trovavano all’interno) verificatesi a metà del XV secolo indebolì la civiltà Maya che, all’arrivo degli spagnoli all’inizio del ‘500, era ormai in decadenza: all’epoca esistevano solo 16 piccole città-stato. Una parte consistente di popolazione si era invece concentrata intorno al lago Petén, nell’entroterra, dove aveva fondato la città di Taya-Sal. Tra il 1541 e il 1546 gli spagnoli conquistarono lo Yucatán e le regioni limitrofe, anche se quello che rimaneva della civiltà maya resistette proprio intorno a Taya-Sal fino al 1697. 2)Gli Aztechi La popolazione degli Aztechi (o México) giunse da Nord negli attuali Messico e Guatemala tra il 1320 e il 1350; i dominatori di questa regione erano all’epoca i Tepanechi e gli Aztechi inizialmente svolsero per loro incarichi di natura militare. Approfittando di una guerra di successione nella casa regnante dei Tepanechi, tra il 1427 e il 1431 gli Aztechi presero il controllo di tutta la zona centrale del Messico assoggettando le popolazioni locali (a cominciare dai Toltechi). Gli Aztechi fissarono la loro capitale a Tenochtitlán (l’attuale Città del Messico), che all’epoca si trovava nel mezzo di una laguna e che giunse a contare ben 300.000 abitanti. Il primo sovrano azteco, Montezuma I (1440-1471), si pose quindi a capo di un’alleanza di tre Stati: México (il regno azteco), Alcohuacán (con capitale Texcoco) e lo Stato tepaneco (con capitale Tlacopán). Oltre a guidare militarmente tale confederazione di Stati, gli aztechi detenevano il controllo dei comuni riti religiosi. Sotto il governo di Montezuma I e dei suoi successori il regno azteco si espanse verso Sud: all’inizio del ‘500 esso si era annesso buona parte della costa messicana che si affacia sia sull’Atlantico che sul Pacifico. Per cui all’arrivo del conquistador castigliano Hernan Cortés nel 1519, l’impero azteco era in piena espansione. L’ultimo imperatore fu Montezuma II, il quale cercò invano di resistere agli spagnoli. La lingua azteca, tutt’oggi parlata dagli indios in Messico, era il nahuatl; purtroppo gran parte dei manoscritti pittografici che narravano la storia degli azetchi venne distrutta nel corso del ‘500 dai missionari spagnoli in quanto considerati frutto di una cultura pagana e, quindi, eretica. La società azteca, simile a quella maya, era di tipo piramidale: al vertice si trovavano nobili e sacerdoti, seguiti dai mercanti/proprietari terrieri e poi dagli artigiani e dai contadini liberi, che formavano gran parte della popolazione. In fondo alla gerarchia sociale si trovavano gli schiavi (solitamente prigionieri di guerra), i quali erano sacrificati al Dio Sole. Il clero non organizzava solo il culto e i riti religiosi, ma si occupava anche dell’educazione, gestendo due tipi di scuole: quelle per i nobili destinati alla burocrazia e quelle aperte alla popolazione. Quest’ultima, in particolare i contadini, doveva offrire prestazioni di lavoro gratuite presso le terre dei nobili e degli ecclesiastici. Per quanto concerne la religione, mentre gli Aztechi adoravano il Sole, i Toltechi (da loro sottomessi) credevano nel «Serpente piumato» (Quetzalcoatl), divinità che veniva raffigurata con la pelle bianca e una lunga barba. Secondo una profezia, questa divinità sarebbe un giorno giunta tra gli uomini per portare la giustizia: perciò i conquistatori castigliani vennero inizialmente scambiati per degli dei, annichilendo la capacità di resistenza degli aztechi, i quali risposero all’invasione europea più con le preghiere che con le armi. In realtà per spiegare la relativa facilità con cui un centinaio di soldati castigliani guidati da Cortés riuscì a conquistare l’impero azteco occorre considerare che l’esercito indigeno era composto unicamente da aristocratici, i quali vivevano 74 26.La compagnia di Gesù in età moderna (1540-1814) La nascita della Compagnia di Gesù: il contesto La Riforma protestante e l’inizio della Controriforma - o Riforma - cattolica (1517-1542)  1517: Le 95 Tesi di Martin Lutero e nascita della Riforma protestante: in Europa inizia la fase delle guerre di religione che si concluderà solo nel 1648;  1542: nascita del Sant’Uffizio e rifondazione dell’Inquisizione romana;  1545-1563: Concilio di Trento: riorganizzazione dogmatica ed istituzionale della Chiesa. Tra i tratti salienti della Controriforma cattolica vi è la formazione di nuovi ordini regolari in grado di realizzare le indicazioni del Concilio di Trento e le politiche dei pontefici: essi diventano il “braccio operativo” della Controriforma (più e meglio del clero secolare: vescovi, chierici secolari, parroci). I nuovi ordini regolari nati durante il Cinquecento sono in larga maggioranza congregazioni di “chierici regolari”: congregazioni, cioè, che, pur seguendo una regola nel rispetto dei tre voti tipici del clero regolare (castità, povertà e obbedienza), vivono e si vestono come i chierici secolari, cioè come i preti. 1524: Teatini, fondati da Gaetano da Thiene e dal cardinale Gian Pietro Carafa 1528: Cappuccini, nati dal distacco dai francescani osservanti 1533: Barnabiti o chierici regolari di San Paolo 1540: Somaschi 1540: Gesuiti (Compagnia di Gesù) 1586: Camillini 1588: Caracciolini 1595: Chierici regolari della Madre di Dio 1617: Scolopi A differenza degli ordini monastici (i benedettini) e di quelli mendicanti (domenicani e francescani) nati durante il Medioevo, i chierici regolari sorti nel Cinquecento rifiutano di vivere in conventi, di vestire il saio e di dedicarsi a pratiche ascetiche: essi, invece, dimorano in residenze situate nelle principali città europee e si dedicano all’apostolato attivo. Apostolato attivo: 1) predicazione itinerante e missioni popolari; 2) assistenza “sociale” a favore dei bisognosi; 3) istruzione della gioventù. I gesuiti, quindi, si impegnano attivamente nel “secolo”. In tutte queste attività eccellono da subito i gesuiti, membri della Compagnia di Gesù. Il fondatore della Compagnia è l’hidalgo basco Ignacio de Loyola (1491-1556), canonizzato nel 1622. Istruito agli ideali della cavalleria, sceglie inizialmente la carriera militare: ma nel 1521, dopo essere stato ferito in battaglia, Ignazio si converte ad una vita di penitenza. Nel 1523 si reca in Terra Santa, ma rimane a Gerusalemme pochi giorni. Compie gli studi teologici in Spagna e a Parigi; nel 1536 si trasferisce a Venezia e due anni dopo si sposta a Roma; qui nel 1540 fonderà la Compagnia di Gesù, approvata da Papa Paolo III. Il testo in cui Ignazio condensa i princìpi d’azione che guidano i gesuiti (e, per estensione, ogni fedele cattolico) sono gli Esercizi Spirituali (1548). Si tratta di un libro di «pedagogia» che si indirizza non direttamente a chi vuole farli, ma a un «esercitante» che li impartisce (solitamente un direttore spirituale). Lo scopo degli esercizi è giungere alla «conversione del cuore», ispirare quindi in chi li effettua il desiderio di una vita cristiana perfetta: essenziale, però, è la sincera ispirazione interiore nella scelta di avviarsi sul cammino del perfezionamento seguendo l’esempio di Cristo. Gli esercizi, che dovrebbero essere effettuati in isolamento, sono divisi in quattro settimane, ciascuna delle quali si prefigge un obiettivo: 1ª: contemplazione dei peccati attraverso l’esame di coscienza quotidiano; 2ª: contemplazione della vita di Cristo fino alla domenica della Palme; 3ª: contemplazione della Passione di Cristo; 4ª: resurrezione e ascensione. Gli Esercizi spirituali non contengono solo un insieme di regole tecniche, ma si prefiggono di smuovere le passioni del fedele, che è quindi il protagonista della propria «conversione». Gli Esercizi spirituali, quindi, insegnano a esaminare la coscienza, a meditare, a contemplare e pregare mettendo a disposizione di ogni fedele l’ideale di perfezione monastica che prima di Ignazio era riservato a pochi monaci. Non a caso Ignazio si era ispirato ad alcuni classici del pensiero religioso tardomedievale come la Vita Iesu Christi di Ludolfo di Sassonia, la Leggenda Aurea di Jacopo da Verazze, l’Exercitatorio de la vida espiritual di Francisco Jiménez de Cisneros, il De imitatione Christi di Tommaso da Kempis: sono tutti testi che Ignazio aveva letto durante la sua convalescenza e nella fase di formazione religiosa in Spagna. 75 Certamente la spiritualità ignaziana venne influenzata anche dall’alumbradismo e cioè da una corrente mistica spagnola d’inizio Cinquecento che sosteneva che la fede dipendesse da una diretta illuminazione dello Spirito Santo e che insisteva sul valore dell’orazione mentale. Tale movimento era stato perseguitato dall’Inquisizione spagnola in quanto considerato eretico. Proprio il legame tra la spiritualità ignaziana e l’alumbradismo – evidente nella centralità data da Ignazio all’orazione mentale, alle consolazioni interiori, alla comunione frequente – rese fin da subito Ignazio sospetto sia all’Inquisizione spagnola (e cioè ai domenicani), che agli inquisitori di Parigi e italiani: in tutto egli subì otto indagini inquisitoriali (3 ad Alcalá, 1 a Salamanca, 2 a Parigi, 1 a Venezia e 1 a Roma): da tutte venne assolto. Anche la presenza di numerosi conversos – e cioè ebrei convertiti – nella fila dei primi gesuiti (come il futuro Generale Diego Laínez) contribuì a renderli sospetti agli occhi dell’Inquisizione spagnola. In Italia, invece, Ignazio venne ostacolato dal cardinale Gian Pietro Carafa, riorganizzatore dell’Inquisizione romana, co-fondatore dell’Ordine dei teatini ed eletto papa nel marzo 1555 (Paolo IV). L’ambito sociale piccolo-nobiliare di provenienza e l’iniziale formazione militare di Ignazio si riflettono nella terminologia, nell’organizzazione amministrativa e nel modus operandi del nuovo Ordine: il capo della “Compagnia” è chiamato “Preposito Generale”; a tutti i membri dell’Ordine è richiesta una cieca obbedienza al Pontefice, al Generale e ai superiori (esemplificata nel motto perinde ac cadaver = nello stesso modo di un cadavere). L’organizzazione istituzionale La Compagnia riuscì a gestire le proprie molteplici attività grazie ad una struttura amministrativa centralizzata e verticistica, al capo della quale c’era il Generale e la sua “curia” formata dagli assistenti di ogni assistenza “nazionale”. La Compagnia si divise da subito in “Province”, cioè in unità geografico-amministrative, che non sempre coincidevano con i confini degli Stati. Alla morte di Ignazio (1556) le Province erano dodici: Italia, Sicilia, Germania superiore, Germania inferiore, Francia, Aragona, Castiglia, Andalusia, Portogallo, Brasile, India e Etiopia. Da allora fino al Settecento il numero delle Province crebbe esponenzialmente in tutto il Mondo. Le Costituzioni dell’Ordine, approvate da Ignazio, fissarono l’organigramma della Compagnia. Al vertice della struttura di governo dei gesuiti vi era il Generale e i professi (di 3 o 4 voto) e cioè coloro che avevano preso gli ordini maggiori (i sacerdoti): tra loro le congregazioni provinciali eleggevano i Provinciali, cioè i capi delle singole Province, sottoposti all’autorità del Generale. Il Provinciale sceglieva tra i professi di ogni provincia i rettori e i superiori delle singole residenze. Sotto i professi stavano i gesuiti che avevano preso i voti semplici o di devozione: essi formavano il grosso del corpo docente della Compagnia. Sotto questi ultimi vi erano i gesuiti in formazione, scholastici e novizi. Alla base di questa struttura piramidale si trovavano i coadiutori o fratelli laici, che svolgevano mansioni pratiche: cuochi, carpentieri, economi, servitori, massari/fattori. Congregazione generale à Generale (carica vitalizia) ↓ Il G. governa la Compagnia insieme agli Assistenti residenti a Roma nella “Curia generalizia” ↓ Assistenze nazionali ↓ Congregazioni provinciali → Province/Provinciali ↓ Rettori e superiori di ogni residenza (scelti tra i gesuiti professi) In Europa e in tutto il Mondo lo sviluppo delle Province e delle sedi (in particolare i collegi) della Compagnia di Gesù fu immediato e rapidissimo: 1570: 3.000 gesuiti 1590: 6.ooo gesuiti 1640: 15.000 gesuiti Lo sviluppo continuò fino alla metà del Settecento, anche se l’accelerazione maggiore si colloca tra gli anni Ottanta del Cinquecento e la prima metà del Seicento: non a caso questa è l’epoca della Controriforma cattolica. 76 E’ stato calcolato che verso la metà del XVIII secolo fossero attivi in tutto il Mondo 22.589 gesuiti (di cui 11.293 sacerdoti). Esistevano allora 5 Assistenze “nazionali”, 39 Province, 1538 domicilia (di cui 669 collegi) sparsi in tutti i continenti. Nel 2013 i gesuiti erano 17.287. La Compagnia di Gesù fu una delle prime istituzioni globali della storia europea poiché il suo raggio d’azione abbracciò, fin dalle origini, tutto il Mondo. L’Italia, ad inizio Settecento, era divisa in 5 province gesuitiche: 1) Provincia romana (Stato della Chiesa e Granducato di Toscana); 2) Provincia veneta (Serenissima, Ducati di Parma e Modena e le legazioni pontificie di Bologna, Ferrara e Ravenna); 3) Provincia milanese (Lombardia e Piemonte, Repubblica di Genova e Corsica), 4) Provincia sicula (Sicilia e Malta); 5) Provincia napoletana (coincidente con il Regno di Napoli e Benevento). Per quanto concerne la tipologia insediativa della Compagnia, oltre ai collegi, esistevano le case professe, le case di probazione, i seminari, le case di esercizi spirituali, i convitti, le residenze semplici (cittadine e rurali). Tutte queste strutture, eccetto le case professe (che dovevano mantenersi con le sole elemosine dei fedeli), potevano possedere beni. La casa professa (che accoglieva i superiori della Provincia, i missionari e i predicatori) rappresentava il cuore di ogni provincia, sebbene la cellula base delle Province – anche da un punto di vista economico – era rappresentata dai collegi. Nella bolla fondativa dell’Ordine del 1540 emerge una delle peculiarità dei gesuiti e cioè l’aggiunta ai tre voti tipici di tutto il clero regolare di un “quarto voto” di obbedienza al pontefice circa missiones: esso impegnava qualunque gesuita a svolgere il suo ministero itinerante ovunque il papa lo avesse desiderato. Perciò i gesuiti si specializzeranno da subito nell’azione missionaria, sia in Europa che nei territori extra-europei delle potenze coloniali cattoliche (Spagna, Portogallo e Francia), oltre che in estremo Oriente (India, Cina e Giappone). I missionari della Compagnia di Gesù furono protagonisti di una grandiosa opera di acculturazione religiosa sia dei ceti popolari europei (in particolare dei contadini, ancora legati a pratiche e credenze ancestrali di tipo magico che rimontavano alla religione politeista), delle popolazioni indigene americane conquistate dai colonizzatori europei (dagli Aztechi, ai Guaraní, agli Uroni) e di quelle orientali. Il segreto del successo della strategia missionaria dei gesuiti è stato individuato nella pratica dell’ “accomodamento”: essi cioè adattavano il metodo missionario al contesto in cui agivano. In Cina, ad esempio, essi adottano i vestiti e le cerimonie del Confucianesimo, mentre in Brasile e in Paraguay essi utilizzano la musica per veicolare il messaggio evangelico agli indios. In tal senso il loro metodo missionario è stato definito «proto-antropologico» o «proto-etnologico»: in realtà lo sforzo di comprensione delle culture «altre» extra-europee (a cominciare dalle loro lingue) aveva sempre come scopo ultimo la conversione degli «infedeli». Comunque possiamo affermare che i gesuiti agirono spesso come dei veri e propri «mediatori culturali», consentendo alla cultura occidentale di acquisire notevoli conoscenze sulle civiltà extraeuropee (a cominciare da quella cinese) e viceversa. Inoltre, il metodo di conversione «dolce» delle popolazioni indigene, specie in Sud America, permise di preservare alcuni elementi della storia e delle tradizioni precristiane di tali popolazioni. La prima regione extra-europea oggetto dell’azione missionaria dei gesuiti fu l’Asia. Già nel 1542 uno dei primi compagni di Ignazio, Francesco Saverio (1505-1552) giunse in India dove (a Goa) fondò la prima missione permanente; si trasferì quindi in Giappone (a Kyushu) nel 1549. Qui egli riuscì non solo a instaurare delle relazioni amichevoli con i bonzi buddisti e con alcuni nobili, ma anche con la popolazione locale. Per cui in Giappone nacque una vera e propria Chiesa giapponese che nel 1596, anche grazie agli sforzi di Alessandro Valignano, arrivò a contare 300.000 fedeli. Tale successo, unito alla cattiva fama che i mercanti europei avevano a corte e tra le élites giapponesi, causò una serie di persecuzioni che durarono per tutto il Seicento e che cancellarono la Chiesa cattolica giapponese (ma non il Cattolicesimo, che sopravvisse in alcuni villaggi isolati). In Cina, invece, i missionari gesuiti, a cominciare da Matteo Ricci, riuscirono a introdursi nella corte imperiale: utilizzando le loro conoscenze astronomiche, ingegneristiche, geografiche e cartografiche, essi vennero protetti a lungo da alcuni dignitari e dagli stessi imperatori. Ma l’adozione dei vestiti e delle abitudini dei mandarini, insieme al tentativo di individuare dei punti in comune tra il Confucianesimo e il Cristianesimo, provocarono la reazione dei domenicani e di ampi settori della Chiesa cattolica che denunciarono la pericolosità del metodo dell’adattamento dei gesuiti: la controversia dei «riti cinesi» (1704-1742) li vide perdenti, per cui la missione cinese a metà Settecento si bloccò. Grande successo conobbero le missioni dei gesuiti nell’America latina, sia spagnola che portoghese. Essi giunsero in Brasile nel 1549, in Perù nel 1568, in Messico nel 1572 (da qui si spostarono nelle Filippine nel 1580), in Paraguay nel 1609 e in California nel 1697. Le missioni presso gli indios vennero organizzate nelle «riduzioni» e cioè in villaggi in cui gli indios vivevano isolati dai bianchi sotto la direzione di pochi padri gesuiti. 79 Per poter realizzare tutte le loro molteplici attività e per poter garantire la gratuità dell’insegnamento, i gesuiti necessitarono di una base economico-patrimoniale solida ed ingente. Inizialmente la Compagnia venne finanziata attraverso le elemosine, le donazioni e i lasciti testamentari; ma già durante il generalato di Ignazio (tra gli anni Quaranta e Cinquanta del XVI secolo), l’Ordine iniziò ad accumulare un ragguardevole patrimonio immobiliare, investendo in terreni ed edifici (cioè in beni immobili) i capitali frutto delle elemosine, dei legati pii e dei lasciti. Le ultime ricerche, come quelle di Fiorenzo Landi, mettono in luce: 1. l’abilità dei gesuiti nell’utilizzare la “logica dell’elemosina” (stimolata dalla prospettiva di una ricompensa spirituale e ultraterrena a favore del donatore) presso le élites d’Antico Regime: ciò garantì loro un flusso continuo di elemosine; 2. la capacità nel diversificare le forme di investimento, effetto di una mentalità economica razionale e “imprenditoriale”, per alcuni storici quasi “capitalistica”. La perizia gestionale dei gesuiti è confermata dall’adozione della partita doppia nella contabilità dei patrimoni delle residenze. Il tipo di investimento privilegiato un po’ ovunque fu quello immobiliare: ciò non stupisce, dato che l’economia in età moderna è ancora di tipo agricolo. Ma in congiunture sfavorevoli (dopo una peste o un cattivo raccolto, ad esempio), i gesuiti investivano anche in titoli di stato, in censi ipotecari o nei commerci (anche internazionali). Ad esempio: nel Regno di Napoli e di Sicilia, specialmente a fine Cinquecento, la Compagnia privilegiò l’investimento fondiario acquisendo numerose masserie. Solitamente quelle meno estese venivano affittate, mentre i gesuiti gestivano in conduzione diretta le masserie più grandi (come avvenne in Sicilia e in Puglia). Le critiche alla Compagnia: la nascita della “leggenda nera” antigesuitica Le intromissioni dei gesuiti nella vita politica degli Stati europei, insieme alla loro capacità di dirigere le élites e di accumulare un ingente patrimonio, attirarono sull’Ordine numerose critiche e sospetti: ad esempio, essi vennero accusati di plagiare le donne e i giovani eredi delle casate nobiliari allo scopo di ottenere elemosine e lasciti. Il rapporto privilegiato che la Compagnia seppe costruire con vari pontefici (certificato dal gran numero di privilegi ed esenzioni concessi da questi all’Ordine) suscitò innumerevoli gelosie e conflitti anche all’interno della Chiesa: mentre gli ordini mendicanti accusarono i gesuiti di lassismo morale e di opportunismo, vari vescovi si scontrarono con i superiori dell’Ordine intorno al mancato pagamento delle decime. Perciò, già all’inizio del Seicento si era formata una vera e propria “leggenda nera” antigesuitica, fomentata anche da alcuni conflitti interni all’Ordine, che verrà sistematizzata nel corso del Settecento dagli ordini regolari avversari, dagli illuministi e dai ministri riformatori intenzionati a limitare il potere della Chiesa. A metà ‘700, quindi, si realizzò un’alleanza composita ed eterogenea che individuò nella Compagnia di Gesù il nemico comune da abbattere, anche se per ragioni diverse: 1. i giansenisti e gli altri ordini regolari (francescani, domenicani, agostiniani, carmelitani) contestarono le pratiche di adattamento dei gesuiti nella loro strategia missionaria, oltre che le teorie teologiche sostenute dell’Ordine (probabilismo, lassismo, casuismo, ecc.); 2. gli illuministi, in particolare i philosophes francesi, imputavano ai gesuiti la stasi del sapere scientifico e l’ignoranza dei ceti dirigenti dell’epoca; 3. i ministri riformatori - come il portoghese Pombal o il marchese Tanucci nel Regno di Napoli - misero in discussione il monopolio dell’istruzione superiore acquisito dai gesuiti, oltre che il loro ruolo di difensori delle prerogative dei pontefici (ruolo certificato dal “quarto voto”). L’eliminazione della Compagnia venne quindi considerata la premessa essenziale per poter riformare l’istruzione e le Chiese dei vari Stati in base alle teorie giurisdizionaliste e regaliste (che sostenevano il primato del potere civile su quello spirituale). A metà Settecento la Compagnia si trovò quindi isolata all’interno della Chiesa ed accerchiata fuori di essa. Colpita da una martellante campagna di stampa, essa venne sottoposta ad una serie di espulsioni dai maggiori Stati cattolici europei: 1. 1759: espulsione dalla monarchia portoghese; 2. 1764: soppressione dell’Ordine decretata in Francia dai Parlamenti e ratificata dal sovrano Luigi XV di Borbone; 3. 1767: espulsione dalla monarchia spagnola e dal Regno di Napoli e di Sicilia (Malta compresa); 4. 1768: espulsione dal Ducato di Parma. A parte i padri francesi, tutti i gesuiti banditi dai sovrani cattolici vennero deportati nello Stato della Chiesa. Le espulsioni dal Portogallo e dagli Stati borbonici (Spagna, Napoli-Sicilia e Parma) furono delle vere e proprie operazioni militari: i gesuiti di ogni residenza vennero arrestati da distaccamenti dell’esercito, trasferiti e concentrati nelle residenze più capienti e, infine, deportati via mare e via terra nello Stato della Chiesa (nel caso del Regno di Napoli e del Ducato di Parma vennero accompagnati al confine con lo Stato della Chiesa). 80 La lotta contro l’Ordine venne quindi capeggiata dai vari rami della famiglia dei Borbone che regnavano in Francia, Spagna, Napoli e Parma, anche se la propaganda antigesuitica più efficace venne approntata dal primo ministro portoghese marchese di Pombal. Alla fine, il pontefice francescano Clemente XIV, pressato dall’azione diplomatica degli Stati borbonici, decise di sacrificare la Compagnia nel tentativo di trovare un accomodamento con i governi riformatori: nel luglio del 1773 il Papa decise di sopprimere canonicamente l’Ordine di Sant’Ignazio. La Compagnia di Gesù risorgerà comunque nell’agosto del 1814, allorquando Pio VII restaurò l’Ordine. Nel corso del secolo XIX, in particolare fino agli anni Ottanta, la Compagnia come istituzione della Chiesa romana seguì un orientamento culturale e una linea politica conservatori, sostenendo, ad esempio, il primato del Papato, criticando aspramente la politica dei governi liberali europei e sudamericani (che spesso li espulsero da numerosi Stati) e il pensiero socialista. All’inizio del XX secolo la Compagnia si aprì al “modernismo” e, dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), alla cosiddetta «teologia della liberazione», un pensiero teologico che giustificava le lotte dei contadini sudamericani contro lo sfruttamento. Attualmente, per la prima volta nella sua storia, la Chiesa è diretta da un pontefice gesuita, Francesco I, eletto il 13 marzo 2013. Nel corso di un’intervista resa il 7 giugno successivo, papa Bergoglio ha risposto alla domanda: “che cosa l’ha spinta a essere gesuita piuttosto che sacerdote diocesano o di un altro ordine?” La risposta è stata quella che avrebbe dato un gesuita del ‘500 o del ‘600, a dimostrazione del fatto che il nucleo dell’identità gesuitica deve essere individuato nell’azione missionaria e nell’interesse per le culture “altre”: “Quello che più mi è piaciuto della Compagnia è la missionarietà e volevo diventare missionario [...]. Ho scritto al Generale, che era il padre Arrupe, perché mi mandasse, mi inviasse in Giappone o in un’altra parte. Ma lui ha pensato bene, e mi ha detto, con tanta carità: ‘ma lei ha avuto una malattia al polmone, quello non è tanto buono per un lavoro tanto forte’ e sono rimasto a Buenos Aires. [...] E quello che mi ha dato tanta forza per diventare gesuita è la missionarietà: andare fuori, andare alle missioni ad annunziare Gesù Cristo. Credo che questo sia proprio della nostra spiritualità: andare fuori, uscire, uscire sempre per annunziare Gesù Cristo, e non rimanere un po’ chiusi nelle nostre strutture, tante volte strutture caduche. È quello che mi ha mosso”. 27.L’Illuminismo Che cos’è l’Illuminismo Fin dal ‘700 è stato difficile proporre una definizione univoca di Illuminismo. La definizione più nota data all’epoca venne avanzata dal filosofo I. Kant nel 1784 in risposta a un concorso bandito dalla rivista “Berlinische Monatsschrift” intorno al quesito “Che cos’è l’Illuminismo?”. Kant rispose che la sua essenza poteva essere riassunta nel motto latino sapere aude: e cioè il coraggio da parte dell’Uomo di usare liberamente la ragione, l’unica facoltà in grado di farlo uscire dallo stato di minorità che lui stesso aveva prodotto a causa della superstizione e dei pregiudizi. Per Kant l’uso della ragione doveva essere libero e finalizzato al raggiungimento del bene pubblico; inoltre il filosofo tedesco pensava che l’Illuminismo fosse un processo culturale in fieri, non ancora concluso e, quindi, incompiuto. Nel corso del XIX secolo l’Illuminismo venne concepito come un movimento essenzialmente filosofico. Tale concezione rimase dominante fino agli anni Trenta del ‘900; nel 1932, ad esempio, il grande storico della filosofia Ernst Cassirer pubblicava un libro (La Filosofia dell’Illuminismo) che sarebbe diventato un punto di riferimento di tale interpretazione. Trent’anni dopo lo storico americano Peter Gay dava alle stampe due volumi (The rise of modern Paganism; The Science of Freedom) in cui riproponeva tale visione “filosofica” dei Lumi, anche se, a differenza di Cassirer, egli non considerava la Germania quanto piuttosto la Francia l’epicentro di tale movimento filosofico unitario. Per Gay l’obiettivo principale dei philosophes quali Voltaire, Diderot e Rousseau sarebbe stato la ricerca della libertà e del progresso attraverso l’uso ciritico della ragione (in diretta polemica con la religione cristiana). Rispetto alle interpretazioni passate, comunque, Gay introdusse tre importanti novità: 1. fu tra i primi studiosi a sottolineare le implicazioni politiche delle battaglie culturali promosse dagli illuministi; 2. cercò inoltre di isolare una cronologia interna a tale movimento, individuando, ad esempio, un pre-Illuminsimo e un tardo-illuminismo; 3. considerò infine l’Illuminismo non solo un fenomeno europeo ma atlantico, comprendendo in esso anche i pensatori nord e sudamericani. 81 L’intepretazione sostanzialmente positiva del ruolo avuto dall’Illuminismo nella storia dell’Umanità offerta da Gay nasceva anche dall’esigenza di difendere tale movimento da una lettura filosofica opposta, dalle conseguenze ideologiche fortissime, che era emersa immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Nel 1947, infatti, i filosofi tedeschi Max Horkheimer e Theodor Adorno pubblicavano la Dialektik der Aufklärung in cui individuavano un nesso di causa/effetto tra l’Illuminismo e gli orrori del Nazismo, a cominciare dall’Olocausto. La cieca fiducia nella ragione, la pretesa di dominare la natura attraverso la tecnologia e la presunzione di poter fare a meno dei tabù che solo la religione può inculcare negli Uomini (tutti elementi, come aveva già sottolineato Hegel, tipici dei Lumi) avrebbero portato l’Umanità a credersi onnipotente. Secondo i due filosofi tedeschi, quindi, il terrore politico, il pensiero razzista e l’uso della forza sarebbero nati dalla pretesa, connaturata all’Illuminismo, di dominare la natura attraverso un sistema tecnologico frutto della ragione. Tale visione venne poi approfondita, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, dal filosofo francese Michel Foucault secondo il quale (cfr. Surveiller et punir, 1975) l’Illuminismo fu determinante nel processo di disciplinamento delle masse attraverso lo sviluppo di istituzioni (come le carceri, i manicomi e le case di lavoro) preposte al confinamento dei “diversi” che non si omologano con la società (borghese) dominante. Ben diversa è stata invece la lunga riflessione che un altro filosofo/sociologo tedesco, Jürgen Habermas, la svolto sull’Illuminismo: in linea con l’idea kantiana circa l’incompiutezza dei Lumi, Habermas ha attribuito all’Illuminismo il merito di aver fatto nascere la sfera pubblica, luogo di lotta politica e di emancipazione contro l’assolutismo e l’ignoranza. Habermas rivaluta quindi l’idea kantiana secondo cui l’uso critico della ragione, nel momento in cui è legato al libero scambio delle idee attraverso la carta stampata, ha rappresento uno dei motori del progresso umano poiché ha permesso di inviduare alcuni valori universali laici (la libertà, la giusitizia, la fratellanza, la ricerca della felicità). Per una reimpostazione dell’interpretazione dei Lumi determinanti sono stati alcuni storici, tra cui spiccano l’italiano Franco Venturi e lo statunitense Robert Darnton. Il primo ha sottolineato il fatto che l’Illuminismo non fu un movimento filosofico (e precipuamente francese) quanto piuttosto politico (ed europeo): lo scopo dei Lumi, in tutta Europa, fu quello di riformare la società d’Antico Regime per cui, oltre alle idee avanzate dai singoli pensatori, occorre studiare le riforme (effettivamente realizzate o semplicemente progettate) che a quelle idee si ispiravano. Di conseguenza Venturi, nelle sue opere (come Settecento Riformatore, 5 volumi, 1969-1990), conferisce grande importanza ai mezzi di comunicazione dell’Illuminismo (giornali, pamphlet, libri di divulgazione). Anche Darnton nei sui tanti libri sostiene l’importanza che la mercificazione della cultura ebbe nella diffusione dei Lumi, per cui egli ha analizzato le imprese editoriali – a cominciare da quella da cui nacque l’Encyclopédie – che permisero la circolazione dei concetti chiave dell’Illuminismo. Inoltre per lo studioso americano esso non si riduce alle opere dei grandi intellettuali (Voltaire, Montesquieu, Rousseau, ecc.), ma deve essere misurato sui testi di oscuri letterati che, per guadagnarsi da vivere, divulgarono le idee illuministiche attraverso i più diversi generi e mezzi di comunicazione (articoli giornalistici, libri per l’infanzia, libri pornografici, teatro, stampe, sinossi di opere famose). Celebri sono al riguardo le ricerche che Darnton ha dedicato alla cosiddetta “Biblioteca blu”, una collana di romanzi e di letteratura d’intrattenimento destinata ai ceti popolari alfabetizzati. Al di là dei diversi significati ideologici che gli sono stati attribuiti, possiamo quindi definire l’Illuminismo come un involucro che contiene una serie di dibattiti e di progetti intellettuali/politici che finirono per modificare la cultura, la politica e la società d’Antico Regime. Inoltre la storiografia è più o meno concorde nel pensare che l’Illumismo non sia stato un fenomento unitario: esistono cioè più Illuminismi (esiste, ad esempio, un Illuminismo cattolico e uno protestante, un Illuminismo europeo ed uno americano, ecc.), per cui non è possibile fissare al suo interno una gerarchia o un centro (la Francia) e varie “periferie”. Anche perché attualmente si tende a connettere sempre più spesso lo sviluppo dell’Illuminismo all’emergere della globalizzazione dei dibattiti culturali e politici: alcuni studiosi tendono cioè a collegare la nascita di un’economia globale nel corso del XVIII secolo (e, quindi, anche dei moderni imperi coloniali) allo sviluppo dell’Illuminismo. L’Illuminismo, cioè, avrebbe da una parte cercato di dare una risposta ai problemi sollevati dalla globalizzazione (ad esempio dal colonialismo delle potenze europee); dall’altra esso avrebbe promosso per la prima volta nella storia dell’Umanità alcuni dibattiti internazionali in cui vennero coinvolti gli intellettuali e le élites non solo europei/e, ma anche quelli/e presenti in America (del Nord e del Sud): Richard Groves, ad esempio, nel suo Green Imperialism (1995), ha fatto notare che la prima discussione globale sull’inquinamento connesso alla deforestazione nacque proprio con XVIII secolo grazie ai continui contatti tra autori che erano soci di giardini botanici, stazioni geodetiche, accademie scientitiche sparsi in tutto il Mondo. Il contesto sociale dell’Illuminismo: la socialità dei Lumi Una delle novità più significative dell’Illuminismo fu indubbiamente la nascita della sfera pubblica: nel corso del XVIII secolo si verifica infatti l’inserimento della cultura e dei suoi prodotti (libri, giornali, opuscoli, ecc.) nel sistema internazionale degli scambi economici e nel traffico mondiale dei beni di consumo. Questa mercificazione della cultura, come ha sostenuto Darnton, non dipese solo dai grandi intellettuali e dalle grandi imprese editorali, ma anche da oscuri 84 Tahiti, le Hawaii, la Nuova Zelanda, ecc.). Le loro relazioni di viaggio, in parte romanzate dai ghost writer al soldo degli editori-tipografi, conobbero tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del ‘700 un successo editoriale straordinario poiché andavano incontro all’idealizzazione utopica del “selvaggio” che il pubblico europeo dell’epoca desiderava. In particolare questi testi descrivevano le popolazioni indigene del Pacifico come pure e buone: il “nobile selvaggio” viene cioè presentato come lo specchio dell’“Uomo naturale”, non ancora corrotto dalla società dei consumi europea. Nel costruire tale immagine utopica e stereotipata del “buon selvaggio”, ovviamente, gli esploratori utilizzarono le categorie estrapolate dal mondo classico, attribuendo agli indigeni del Pacifico le tipiche virtù dell’ethos greco-romano antico (virtù civica, altruismo, stoicismo, senso dell’onore). Molti illuministi, in primis J. J. Rousseau nel suo Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes (1755), rielaborarono le categorie presenti nei resoconti degli esploratori per raffigurare le società esotiche del Pacifico (e, in generale, extraeuropee) come l’esatto opposto e il rovesciamento della società europea coeva: un “altro” positivo, cioè, da contrapporre alla realtà negativa dell’Europa dell’epoca. In realtà il mito del buon selvaggio era nato, all’interno della cultura europea, già nel ‘500 grazie a religiosi e intellettuali come Bartolomé de Las Casas e Michel de Montaigne che avevano riflettuto sull’alterità rappresentata dagli indigeni delle Americhe; ma indubbiamente l’Illuminismo rilanciò la riflessione sull’alterità extraeuropea. In particolare il mito del buon selvaggio, sostenuto da un ben preciso filone dei Lumi europei capeggiato da Rousseau e Diderot, stimolò un acceso dibattito sulla razza che vide contrapporsi le tesi avanzate da due importanti scienziati/filosofi naturali: 1) il francese Georges-Louis Leclerc de Buffon, il quale nel suo monumentale trattato Histoire naturelle (ben 36 volumi apparsi tra il 1749 e il 1789) sottoscrisse la tesi monogenetica (conciliabile con i contenuti dell’Antico Testamento): secondo Buffon la razza umana era solo una, per cui le diversità dei tratti somatici dipendevano da fattori contingenti come il clima e l’ambiente (ad es.: Buffon spiega la pelle nera degli africani con l’intensità del sole dell’equatore); 2) lo svedese Carl Nilsson Linnaeus (Linneo), il quale nel suo Systema Naturae (1740) sostenne invece la tesi “pluri-razziale” e cioè l’esistenza di 4 gruppi razziali (bianchi, neri, rossi e gialli). Successivamente lo scozzese Adam Ferguson legò la presenza delle diverse razze allo sviluppo stadiale della società: ad ogni stadio di sviluppo della società (caccia, pastorizia, agricoltura, commercio) sarebbe corrisposta la presenza di una particolare razza. Per cui l’Illuminismo, anche se inconsapevolmente, introdusse l’evoluzionismo all’interno della riflessione sulla razza. Un’altra discussione interna ai Lumi promossa dai resoconti degli esploratori fu quella intorno alla natura e agli effetti del colonialismo europeo. In tale ambito l’opera di riferimento fu l’Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des européens dans le deux Indes (1770; 1774; 1780) che l’abate (ex gesuita) Guillaume Thomas Raynal scrisse insieme a Denis Diderot. Questa opera è importante da vari punti di vista: in primo luogo rappresenta una sorta di summa dei dati geografici ed economici del mondo coloniale allora disponibili; inoltre essa testimonia perfettamente l’atteggiamento contraddittorio che i philosophes ebbero ogni qual volta si confrontarono con l’alterità extraeuropea. Da una parte, infatti, Raynal e soprattutto Diderot denunciano gli effetti devastanti dello sfruttamento a cui gli europei avevano sottoposto per secoli le popolazioni indigene (descritte in base agli stereotipi tratti dal mito del buon selvaggio); d’altra parte, però, si sostiene che la colonizzazione aveva comunque garantito in molti campi la civilizzazione delle popolazioni extraeuropee (ad esempio, da un punto di vista economico: le tecniche agrarie che queste avevano imparato dagli europei erano più efficaci ed efficienti), dando quindi per scontato che la civiltà europea rappresentasse il livello di perfezionamento/sviluppo più alto raggiunto dall’Umanità nella sua storia. Il tema su cui tale contraddittorietà tra i princìpi illuministici propugnati dai due philosophes e l’applicazione pratica degli stessi emerge con chiarezza è la schiavitù: da un lato si condanna tale pratica come disumana e contraria ai diritti soggettivi dell’Uomo; dall’altra Raynal (più che Diderot) esprime la consapevolezza che l’abolizione improvvisa della schiavitù avrebbe condotto al collasso l’economia coloniale (fondata su un’agricoltura di piantagione sostenuta dal lavoro schiavile) e alla rovina degli ex schiavi (che non sarebbero riusciti a trovare una nuova occupazione nel libero mercato del lavoro). Per cui Raynal consiglia un’abolizione graduale della schiavitù in modo da permettere una riconversione dell’economia delle colonie e, nel contempo, per consentire agli schiavi liberati di imparare un mestiere. A fine ‘700 sarà il filosofo tedesco Herder a sottolineare la contraddittorietà dell’umanitarismo dei Lumi fondato su una falsa idea di progresso, di eguaglianza e di cosmopolitismo: per Herder non era vero quanto avevano sostenuto la maggioranza degli illuministi, e cioè che l’essere umano fosse sempre stato lo stesso in ogni tempo e in ogni luogo; gli Uomini, invece, erano diversi gli uni dagli altri perché influenzati da fattori ambientali e culturali (come la lingua). L’idea illuministica di progresso, per l’intellettuale (del pre-Romanticismo) tedesco, avrebbe in realtà nascosto la volontà della cultura occidentale di assoggettare le altre civiltà extraeuropee, considerate inferiori. Le argomentazioni di Herder aprirono di fatto la strada alla fondazione dei miti identitari dei nascenti nazionalismi europei. Il dibattito sulla schiavitù nei Lumi L’Illuminsimo, quindi, promosse un acceso dibattito anche sulla schiavitù che è strettamente connesso sia a quello relativo alla razza (potrebbe esserne considerato una costola), sia a quello sull’alterità extraeuropea o sul “buon selvaggio”. Possiamo partire da un presupposto: solamente nel corso del XVIII secolo la cultura europea iniziò a contestare esplicitamente la pratica della schiavitù; e, indubbiamente, la nascita di un movimento di opinione contrario 85 alla schiavitù si dovette soprattutto (anche se non esclusivamente) al fatto che l’Illuminismo sviluppò una moderna riflessione sui diritti soggettivi dell’Uomo. Già a metà ‘700 Montesquieu, nel suo famoso trattato Esprit des Loix (1748), considerava immorale la tratta atlantica degli schiavi e condannava l’istituto giuridico della schiavitù in quanto inumano; nel 1781, poi, Nicolas de Condorcet pubblicò un pamphlet, dal titolo Riflessioni sulla schiavitù dei neri, che rappresentò un punto di riferimento per il nascente movimento abolizionista europeo. Eppure la riflessione illuminista sulla schiavitù, considerata nel suo insieme, fu spesso contraddittoria e l’abolizionismo emerse piuttosto tardi nell’elenco degli obiettivi politici dei Lumi. La riflessione complessiva sulla schiavitù svolta dai Lumi è contraddittoria a causa della consapevolezza, come abbiamo visto nel caso paradigmatico dell’Histoire di Raynal e Diderot, che l’applicazione dei princìpi teorici doveva avvenire nella realtà concreta: la realtà era che dalla tratta atlantica, parte integrante del cosiddetto commercio triangolare che univa Europa, Africa ed America, gli Stati coloniali europei traevano ampie entrate fiscali, mentre l’economia di piantagione delle colonie (da cui si esportavano prodotti di ampio consumo in Europa: zucchero, tabacco, cotone) si reggeva sulla manodopera schiavile. Tutti gli illuministi erano consapevoli che interrompere la tratta e liberare gli schiavi avrebbe significato se non la rovina, almeno il blocco dello sviluppo economico degli Stati europei e la crisi delle società coloniali: per cui la proposta, avanzata da molti philosophes, di un gradualismo nel processo di cancellazione della tratta e della schiavitù deve essere collegata al loro pronfondo realismo riformatore più che a una supposta ipocrisia o contraddittorietà teorica. L’ambiguità di fondo, comunque, rimane e viene amplificata dal fatto che molti pensatori, come ad esempio lo statunitense Thomas Jefferson, cercarono in buona fede di utilizzare vuoi argomenti pseudo-scientifici (come quelli derivanti dagli studi sul cranio degli africani) che di natura religiosa per giustificare l’abolizione della schiavitù: l’introduzione della “prova scientifica” (accanto a quella biblica) finì per essere impiegata anche dai fautori della schiavitù e, quindi, da allora in poi tutte le nuove teorie razziste si fonderanno su supposte “prove” pseudo-scientifiche. Insomma, l’Illuminismo finì inconsapevolmente per fornire armi e argomenti ai pensatori razzisti del ‘700 e dei secoli successivi. Peraltro condannare la schiavitù era cosa diversa dal sostenere l’eguaglianza razziale tra tutti gli Uomini: alcuni illuministi come Jefferson, i quali scrissero a favore dell’abolizione della schiavitù (ad es.: nelle Notes on the State of Virginia), non solo continuarono a possedere schiavi e ad avere come concubine delle schiave, ma non sostennero mai l’esistenza di un’eguaglianza tra i bianchi e i neri: nella fattispecie Jefferson esprime preoccupazione per il fatto che gli schiavi emancipati potessero intrecciare relazioni sentimentali con i bianchi, per cui consiglia di deportarli subito dopo l’emancipazione. Il fatto che Jefferson sia stato uno dei padri fondatori degli USA (egli fu infatti il principale estensore della Dichiarazione d’indipendenza del 1776) e loro terzo presidente conferma che gli Stati Uniti nacquero sotto l’ombra della discriminazione razziale: ed infatti occorrerà la guerra civile del 1861-1865 e il tredicesimo emendamento alla costituzione del 1865 per ottenere la cancellazione della schiavitù negli Stati Uniti (anche se il nodo della discriminazione razziale è ancora irrisolto). Non bisogna comunque dimenticare il contributo offerto da determinati gruppi religiosi alla nascita del movimento abolizionista: nel mondo anglossassone furono soprattutto le sette dissidenti del mondo calvinista/evangelico – come i Quaccheri, i Metodisti e i Fratelli Moravi – a giustificare, fin dalla fine del XVII secolo, l’eguaglianza razziale utilizzando la Bibbia (specie il Nuovo Testamento, dato che nel Vecchio la schiavitù è contemplata e giustificata); saranno questi gruppi a fondare le prime organizzazioni antischiaviste in Inghilterra e negli Stati Uniti, oltre che guidare la battaglia parlamentare su tale terreno (la prima petizione per l’abolizione della tratta atlantica venne presentata a Londra nel 1770). Significativamente furono le piccole sette dissidenti del mondo calvinista a sostenere l’emancipazione poiché probabilmente in esse la presenza di schiavi convertiti era maggiore, per cui in tali comunità più evidente era la contraddizione tra l’eguaglianza «spirituale» degli schiavi con i loro padroni (con cui condividevano i riti religiosi) e la condizione giuridica di sottomissione; invece le grandi Chiese – che si trattasse di quella cattolica, o di quelle dei calvinisti olandesi o dei protestanti – non condannarono mai, nel corso dell’età moderna, la schiavitù. Volendo riassumere il ragionamento fatto finora possiamo certamente dire che il cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica europea e americana intorno alla questione della schiavitù fu il frutto della riflessione illuministica e delle sue battaglie politiche a favore della libertà che coinvolsero anche gli schiavi. Quella riflessione fu comunque contraddittoria e non priva di ambiguità; a parte il caso già menzionato di Jefferson, possiamo ricordare che buona parte degli illuministi consideravano la proprietà un diritto naturale fondamento della società. Per cui, ad esempio, nell’articolo Inégalité naturelle dell’Encyclopédie il cavaliere di Jaucourt alludeva al fatto che un possibile progetto di emancipazione degli schiavi promosso dal governo avrebbe minato i diritti di proprietà, connotandosi come una misura assolutistica che avrebbe messo a rischio la libertà (dei cittadini maschi bianchi). Rousseau, invece, la pensava in maniera diametralmente opposta dato che nel suo Discours sull’origine dell’ineguaglianza, oltre a sostenere che tutti gli Uomini nascono eguali, aveva sostenuto che era proprio la proprietà privata a stare all’origine delle diseguaglianze nelle varie società. 86 Almeno l’Illuminismo, pur non producendo un pensiero unico e uniforme, nel suo insieme si prefisse di esaltare un soggetto umano «universale» dotato di razionalità e, quindi, mosso da sentimenti di fratellanza, benevolenza, umanità: la schiavitù dimostrava che si era ancora lontani dal raggiungimento di quell’ideale. Quindi i Lumi contribuirono a cambiare la percezione che di quella pratica aveva l’opinione pubblica europea: non a caso la concreta mobilitazione politica antischiavista iniziò a fine ‘700, allorquando la cultura illuminista era diventata predominante. Oltre all’Inghilterra e all’America del Nord, dove l’iniziativa venne assunta dalle sette evalgeliche non conformiste, la prima organizzazione antischiavista europea, la Société des Amis des Noirs, nacque a Parigi nel 1787: essa venne sostenuta e appoggiata dai principali philosophes, tra cui Condorcet. Durante la Rivoluzione francese saranno i giacobini ad abolire (nel 1793), utilizzando le argomentazioni di Rousseau, la schiavitù nelle colonie: nel 1791, infatti, gli schiavi di Saint-Domingue si erano ribellati, riuscendo a formare il primo Stato di ex schiavi (1804). Napoleone, però, reitrodusse il regime schiavistico tra il 1802 e il 1803 nelle altre colonie francesi. Invece in Gran Bretagna la tratta atlantica (ma non il possesso di schiavi) venne proibita dal Parlamento nel 1807 (come negli USA), mentre occorrerà aspettare il 1833 perché diventasse illegale nei Caraibi britannici. La Spagna emanò la legge di emancipazione degli schiavi delle colonie nel 1870, sebbene a Portorico tale norma vennisse applicata solo nel 1872 e a Cuba nel 1880. L’ultimo paese ad abolire la schiavitù sarà il Brasile nel maggio 1888; a seguito di tale atto un’enciclica di papa Leone XIII la definì una pratica contraria ai dettami cristiani (nel 1839 la tratta atlantica era già stata condannata da Gregorio XVI). L’Illuminismo e l’identità di genere Si è soliti considerare la cultura illuminista determinante nel processo di emancipazione femminile: ciò non è del tutto vero. Infatti il dibattito sull’identità di genere si intersecò con altre discussioni (in particolare quelle sulla schiavitù e sull’alterità extraeuropea), mettendo in dubbio l’universalismo illuministico, l’idea cioè che esistesse un’unica razionalità universale e che la ragione fosse una caratteristica umana universale. Non pochi pensatori, in primis Rousseau nell’Émile (1762), sostennero poi la sottomissione della donna all’uomo utilizzando gli argomenti della trattatistica medica del ‘700. La lettura che possiamo dare delle idee espresse nell’Émile è ambivalente. Da una parte, infatti, anche Rousseau mira alla liberazione degli esseri umani dalle convenzioni della società d’Antico Regime, per cui, ad esempio, sostiene il diritto che i coniugi hanno di scegliersi senza l’intervento dei genitori (quindi critica la pratica abituale dei matrimoni combinati): il matrimonio non può che essere una libera scelta e deve nascere dall’amore reciproco. Ma Rousseau finisce per costruire una nuova gabbia, quella della famiglia mononucleare “borghese”, in cui alla donna è assegnata una posizione subalterna rispetto all’uomo/marito, dato che il suo compito è badare all’accudimento dell’intera famiglia. In sostanza il philosophe ginevrino è uno dei principali fondatori del mito della donna borghese “angelo del focolare”, destinata alla sottomissione “naturale” all’uomo e alla cura dei figli. Scrive Rousseau: “la femmina è femmina tutta la vita [...], tutto la richiama di continuo al suo sesso e, per svolgere bene le sue funzioni, le occorre una costituzione adeguata [...], le occorre una vita comoda e sedentaria per allattare i figli. La rigidità dei doveri che competono ai due sessi non è, né può essere, la stessa”. Occorrerà aspettare quasi un secolo perché un altro romanzo scritto in francese, Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert, giungesse a contestare quel modello (e gli pseudovalori che lo giustificavano) di sottomissione femminile all’interno della famiglia borghese. Alcuni “studi” di medicina del ‘700, poi, affermavano la supposta inferiorità intellettiva del genere femminile sulla base dell’esame dello scheletro e del cranio, presentandola come “naturale”: per loro, quindi, le donne sarebbero state meno predisposte alle occupazioni intellettuali e destinate “per natura” (in base ad argomenti biologici) unicamente alle cure materne e alle occupazioni domestiche. Tale tesi era già stata sostenuta, con il supporto di passi della Bibbia, dalla teologia cristiana fin dal Medioevo, per cui la nuova medicina del secolo XVIII non fece altro che sommarsi a generazioni di teologi nel sostenere che lo scopo primo delle donne fosse quello di salvaguardare la propria “virtù” in vista del matrimonio e della generazione dei figli. Insomma nel secolo XVIII teologi e medici concordavano nell’affermare che la donna fosse destinata ad essere sottomessa all’uomo, per cui il suo ruolo doveva limitarsi a quello di moglie-madre. Secondo alcuni studiosi anche l’incipiente Rivoluzione industriale avrebbe contribuito a confermare tale ruolo subalterno della donna all’interno del mondo familiare, dato che la famiglia diventava allora il luogo privilegiato del consumo dei nuovi prodotti industriali: ciò sarebbe stato vero soprattutto per le donne del ceto medio, destinate ad acquistare una grande quantità di beni di consumo resi disponibili dall’industrializzazione. D’altra parte non è neppure corretto sostenere che l’intero movimento illuminista condividesse la tesi roussoviana dell’inferiorità femminile: Montesquieu, Voltaire, Diderot e Condorcet nelle loro opere affermarono la sostanziale parità tra i due sessi, sottolineando che la maternità, rappresentando solo una fase della vita delle donne, non definiva affatto la natura femminile. Inoltre essi collegarono le battaglie politiche da loro intraprese in difesa della parità di genere alla critica dei privilegi e delle angherie dei nobili patres familias i quali, per proteggere il patrimonio familiare, obbligavano le proprie figlie a rinchiudersi nei conventi oppure a matrimoni di comodo attraverso i quali siglare alleanze con altre famiglie aristocratiche. 89 quindi l’Illuminismo di aver causato la Rivoluzione industriale e, con essa, la pretesa dell’Uomo di sfruttare a suo piacimento le risorse della Terra. L’Illuminismo e la religione Una ben precisa tesi storiografica, che ha avuto in Peter Gay e Keith Thomas i suoi rappresentanti più noti, ha sostenuto che l’Illuminismo, esaltando l’uso consapevole della ragione umana, si sia prefisso (ora esplicitamente, ora senza volerlo) di eliminare il soprannaturale e le religioni rivelate dal Mondo. Michel Vovelle ha poi messo in relazione il processo di scristianizzazione avvenuto nell’ambito della società francese nel corso del ‘700 (attestato dalla diminuzione dei lasciti testamentari per finalità religiose) con la politica di scristianizzazione applicata dagli hébertisti durante la Rivoluzione francese. In realtà tale interpretazione non è nuova dato che era stata anticipata (con evidenti finalità ideologiche) da Hegel e da una serie di storici conservatori dell’800, per essere poi rielaborata dai filosofi tedeschi Adorno e Horkheimer. Nella Fenomenologia dello spirito (1807) Hegel sostiene che i philosophes avevano perseguito la stessa finalità della Riforma protestante, anche se in base a presupposti opposti, e cioè il raggiungimento della libertà spirituale dell’Uomo. Ma per Hegel gli illuministi (specie quelli francesi) avevano sbagliato nel volver sostituire la fede con la ragione poiché non erano riusciti a fondare un sistema di credenze adatto a rimpiazzare la fede, per cui l’esaltazione delle capacità della ragione aveva reso l’Uomo prigioniero del proprio solipsismo ed egoismo. Quindi per Hegel l’Illuminsimo aveva tradito la missione originaria della Riforma protestante dato che l’autonomia e l’autosufficienza dell’Uomo non garantiscono da sole la convivenza civile: in altri termini, secondo il filosofo tedesco, l’utilitarismo e l’egoismo non possono garantire né la felicità, né la stabilità sociale. Occorre osservare che effettivamente all’interno dei Lumi sono esistite delle correnti, come l’utilitarismo e il materialismo (sostenuto da Julien de la Mettrie e dal barone d’Holbach), che tesero a smantellare la centralità della religione e a esaltare la positività dell’interesse egoistico degli esseri umani; ma tali correnti, specie quella materialista, furono minoritarie e interessarono soprattutto l’Illuminismo francese. Non è assolutamente vero, quindi, che i Lumi furono antireligiosi (al limite furono anticlericali, che è un’altra cosa). Piuttosto la vera cifra comune dell’Illumunismo europeo e atlantico fu l’esaltazione dell’idea di tolleranza religiosa. Tale idea, maturata nel corso del secolo XVII a causa delle guerre di religione e grazie alla Gloriosa Rivoluzione inglese (in particolare grazie al Tolleration act del 1689), trovò la sua prima definizione all’inizio del XVIII secolo da parte del Deismo inglese: pensatori come Anthony Collins e John Toland sostennero l’esigenza di un Cristianesimo ragionevole, colto cioè nella sua dimensione razionale. Questo tentativo di ridefinire il Cristianesimo scorporandolo dalla Rivelazione portò con sé un attacco alla teologia tradizionale, alla centralità della Provvidenza nelle vicende umane, all’affidabilità dei testi sacri, a cominciare dalla Bibbia, e ai tanti fenomeni irrazionali lì riportati (i miracoli e la stessa risurrezione di Cristo). L’atteggiamento ironico sviluppato da Voltaire nei confronti dei dogmi della religione cristiana, in particolare cattolica, e la necessità da lui espressa di garantire la tolleranza religiosa (specie nel Traité sur la tolérance, 1763) origina di fatto dalla precedente riflessione dei deisti inglesi. Un’ulteriore critica al Cristianesmo svolta dai Lumi giunse dallo studio comparato delle religioni e delle teorie teologiche, un metodo che pensatori come Hume (nella sua Natural History of religion, 1757) e lo stesso Voltaire avevano appreso sempre dai deisti: la religione viene di fatto da loro presentata come una costruzione o invenzione umana. Infine, come abbiamo visto, anche l’interpretazione che i philosophes dettero della fisica di Newton contribuì a radicare nella cultura illuminista una certa prevenzione verso gli effetti delle religioni rivelate. In realtà Newton nei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) aveva sostenuto che il Cosmo, sebbene fosse regolato da precise leggi matematiche, aveva comunque un bisogno costante degli interventi di Dio, il quale ne correggeva le irregolarità e lo riforniva periodicamente di energia. Per Newton, quindi, non solo l’Universo stesso era di per sé una prova dell’esistenza di un Creatore, ma attestava anche il costante interesse e intervento divino nelle azioni quotidiane dell’Uomo. Invece i divulgatori settecenteschi della fisica newtoniana, a cominciare da Voltaire, ribaltarono il punto di vista dello scienzato inglese: pur non negando del tutto l’idea di un Dio creatore, gli illuministi newtoniani sostengono l’impossibilità di dedurre l’intervento divino dall’esistenza della natura. La svalutazione dell’intervento provvidenziale nelle vicende umane proposta da vari illuministi non portò comunque, nel corso del XVIII secolo, a una generalizzata crisi del sentimento religioso: tutte le fedi cristiane ribadirono l’esistenza di un Dio benevolo che aveva creato l’Universo e redento l’Uomo dal peccato orginale inviando sulla terra Cristo. Resta comunque il fatto che tale ottimismo, tipico anche degli illuministi cattolici/protestanti/calvinisti e di illustri filosofi come Leibnitz e Vico, venne ridicolizzato da Voltaire e da altri philosophe: nel Candide (1759), riflettendo sul terribile terremoto che nel 1759 aveva raso al suolo Lisbona, Voltaire tornava a riflettere sull’esistenza del male e sui limiti di un Cristianesimo ragionevole: se il Creatore è benevolo e onnipotente, perché esistono fenomeni quali i terremoti e altri disastri naturali? Tutte le Chiese cristiane, durante il ‘700, risposero al processo di laicizzazione innescato dai Lumi cercando di autoriformarsi, per cui esse conobbero movimenti di riforma interni: il Pietismo, il cosiddetto “Grande Risveglio” delle sette evangeliche e il Metodismo nell’ambito rispettivamente del Protestantesimo, del Calvinismo e dell’Anglicanesimo; 90 il Giansenismo, invece, nell’ambito della Chiesa cattolica. Nel caso del Pietismo prussiano e del Giansenismo (almeno in Austria e in Italia), i governi riformatori appoggiarono tali movimenti allo scopo di aumentare il loro controllo sui ceti privilegiati. I sovrani assoluti del ‘700, infatti, cessarono di imporre ai loro sudditi una ferrea uniformità religiosa non solo per pacificare la società, ma anche per ben precise finalità economiche. Seguendo le tesi degli utilitaristi, i prìncipi riformatori concessero ai propri sudditi, a cominciare dagli ebrei, un’ampia tolleranza religiosa (come fecero Federico II di Prussia e Giuseppe II d’Asburgo) in base all’utilità economica che tale misura avrebbe comportato. D’altra parte l’accettazione della tolleranza apriva nuovi problemi in ambito politico, dato che fino all’inizio del XVIII secolo la fedeltà politica e l’uniformità religiosa erano stati considerati sinonimi: praticamente tutte le dinastie regnanti, infatti, avevano fondato la propria legittimità sull’adesione a una specifica confessione, per cui l’autorità regia poggiava sulla sua sacralizzazione. Per cui colpendo l’autorità della religione, gli Illuministi finirono anche per minare una delle basi ideologiche del potere assoluto dei sovrani. L’Illuminismo e la Rivoluzione francese Dal 1789 in poi generazioni di storici hanno dibattuto sull’ipotesi che l’Illuminismo avesse causato la Rivoluzione francese. Alla fine del XVIII secolo iniziò a circolare una vulgata negativa contro l’Illuminismo sostenuta soprattutto da alcuni intellettuali conservatori cattolici, tra cui tanti ex gesuiti che attribuivano ai philosophes la principale responsabilità della soppressione del proprio Ordine. Fu proprio l’ex gesuita francese Augustin Barruel nei suoi Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme (1799) a costruire un’organica teoria cospirazionista sulla Rivoluzione francese, poi rispresa nel corso dell’800 da tanti storici conservatori. Secondo Barruel la Rivoluzione era stata il frutto di una cospirazione di philosophes riuniti in varie logge massoniche segrete: il giacobinismo e il Terrore non sarebbero stati altro che la prosecuzione della riflessione illuministica che si prefiggeva la scristianizzazione e l’abbattimento del potere monarchico. Barruel e coloro che sostenevano la sua impostazione pensavano che l’Illuminismo fosse stato una nuova forma di eresia (pari al Protestantesimo) che ambiva a sovvertire la società e l’ordine politico costituito; tale interpretazione venne fatta propria dai circoli reazionari durante la Restaurazione poiché i moti liberali, organizzati tra gli anni Venti e Quaranta dell’Ottocento dalle organizzazioni massoniche come la Carboneria, sembravano confermare la presenza di una perdurante cospirazione contro il “trono” e l’“altare”. Secondo Barruel la Rivoluzione era stata il frutto di una cospirazione di philosophes riuniti in varie logge massoniche segrete: il giacobinismo e il Terrore non sarebbero stati altro che la prosecuzione della riflessione illuministica che si prefiggeva la scristianizzazione e l’abbattimento del potere monarchico. Barruel e coloro che sostenevano la sua impostazione pensavano che l’Illuminismo fosse stato una nuova forma di eresia (pari al Protestantesimo) che ambiva a sovvertire la società e l’ordine politico costituito; tale interpretazione venne fatta propria dai circoli reazionari durante la Restaurazione poiché i moti liberali, organizzati tra gli anni Venti e Quaranta dell’Ottocento dalle organizzazioni massoniche come la Carboneria, sembravano confermare la presenza di una perdurante cospirazione contro il “trono” e l’“altare”. La fascinazione della teoria cospirazionista travalicò gli ambienti cattolici: ad esempio, anche l’inglese Peter Burke, nelle sue note Reflections on the Revolution in France (composte nel 1790) associò lo sviluppo della massoneria illuministica allo scoppio della Rivoluzione francese. Nell’800, comunque, emersero altri tentativi di collegare i Lumi alla Rivoluzione su diverse basi: Alexis de Tocqueville, ad esempio, ne L’Ancien Régime et la Révolution (1856) sostenne che i rivoluzionari (specie durante il “Terrore”) avevano proseguito l’opera di centralizzazione dello Stato francese iniziata da Luigi XIV, per cui i philosophes (considerati da Tocqueville alla stregua di utopisti), più che anticipare i giacobini avevano cercato inutilmente di interrompere tale processo centralizzatore. Attualmente le tesi cospirazioniste relative alla nascita della Rivoluzione sono rigettate e gli specialisti dell’Illuminismo tendono in larga maggioranza a negare un nesso di causa/effetto tra le idee dei Lumi e l’azione del ceto politico della Rivoluzione, anche se con diversi distinguo e sfumature. Ad esempio: 1. Keith M. Baker ha sostenuto che la Repubblica delle Lettere settecentesca rappresentò il prototipo della sfera pubblica rivoluzionaria dato che gli scritti politici degli illuministi iniziarono a orientare l’opinione pubblica e le masse; 2. Robert Darnton ha quindi affermato che gli scritti d’opposizione al potere provenienti dalla Grub Street indebolirono l’ordine politico, specie in Francia; 3. François Furet nel suo Penser la révolution française (1979) ha invece posto l’accento sul fatto che le varie riunioni informali dei Lumi (salotti, accademie, logge massoniche) precorrono le forme di organizzazione e mobilitazione rivoluzionarie come i club. Queste e altre interpretazioni, però, si concentrano nell’analizzare le continuità tra i luoghi della socialità dell’Illuminismo e le forme associative della rivoluzione senza prendere in considerazione i contenuti e le idee: esse cioè non stabiliscono alcun legame tra il pensiero illuministico e il discorso politico rivoluzionario, come invece avevano fatto Barruel e i pensatori reazionari dell’800 (ma anche, dall’altra parte della barricata, i liberali e i repubblicani all’inizio XIX secolo). 91 Un tentativo di dimostrare le matrici illuministiche delle rivoluzioni è stato invece recentemente compiuto dallo storico statunitense Jonathan Israel in una serie di volumi apparsi tra il 2002 e il 2011. Egli ha distinto un “Illuminismo radicale”, che trova nelle opere del filosofo Baruch Spinoza la sua matrice ideologica, da un Illuminismo moderato, più rispettoso nei confronti della tradizione e della religione: il primo, minoritario fino agli anni Settanta, prese il sopravvento negli anni Ottanta del ‘700, rendendosi di fatto protagonista delle “Rivoluzioni atlantiche” (di quella francese tra il 1789 e il 1792). Nel tentativo di contestare il pensiero postmoderno di Foucault e di attribuire la fondazione della moderna teoria dei diritti soggettivi dell’Uomo all’Illuminismo radicale, Israel quindi rivendica la paternità delle rivoluzioni di fine ‘700 all’Illuminismo radicale. In effetti risulta difficile interpretare l’Illuminismo come un corpus omogeneo di idee: è proprio la sua eterogeneità e scarsa coerenza come sistema di pensiero a rendere complesso determinare con precisione quale sia stato il ruolo o l’influsso dei Lumi nella nascita della Rivoluzione. D’altra parte anche i cambiamenti intervenuti nel modo di leggere la Rivoluzione francese hanno reso sempre più difficile stabilire l’esistenza di un suo nesso diretto con i Lumi: ad esempio, il già ricordato Furet, in polemica con la classica interpretazione marxista che aveva definito la Rivoluzione come una rivolta della borghesia contro la nobiltà, ha cercato di dimostrare che essa fu un fenomeno caratterizzato da una cultura e da un discorso politico peculiari e autonomi. Ultimamente gli storici tendono sempre più frequentamente a contestare l’idea di uno sviluppo lineare e francocentrico (e, quindi, di un legame di causa/effetto) tra i Lumi e la Rivoluzione in base a una serie di considerazioni: è stato notato che tutto il XVIII secolo è costellato da rivolte e rivoluzioni, alcune delle quali (come quelle che scossero Ginevra nel 1764, la Corsica tra il 1760 e il 1768, le colonie britanniche dell’America tra il 1775 e il 1783, i Paesi Bassi asburgici nel 1789) furono certamente connesse al pensiero dei Lumi in quanto connotate da un chiaro significato antidispotico; ma altre (come quelle dei nobili ungheresi o dei contadini toscani all’inizio degli anni ‘90) furono di segno chiaramente conservatore, dato che si prefissero di bloccare la politica riformatrice dei sovrani. Peraltro esiste ormai una tradizione storiografica che tende a negare una filiazione diretta anche tra l’Illuminismo e la Rivoluzione americana, in primo luogo facendo notare la presenza nel processo costitutivo degli USA anche di altre tradizioni politiche come il puritanesimo, la tradizione repubblicana classica/machiavelliana, il giusnaturalismo lockiano (e quindi la cornice giuridica sorta con la Gloriosa Rivoluzione inglese del 1689-91); e, secondariamente, rimarcando il fatto che i diritti naturali sanciti dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 e dalla costituzione statunitense del 1787 riguardavano solo i maschi adulti bianchi, essendone esclusi le donne, i pellerossa e gli schiavi di origine africana. Anzi, proprio le contraddizioni o le insufficienze dei Lumi nell’ambito dell’estensione di diritti soggettivi teoricamente universali ma che poi venivano negati alla maggioranza del genere umano (le donne, gli schiavi neri e l’“altro” extraeuropeo), potrebbero essere addotte per dimostrare l’assenza di un legame diretto tra l’Illuminismo e le rivoluzioni di fine ‘700. Quindi, pur non essendo possibile fornire un’interpretazione definitiva sulla questione, ci rimangono comunque dei punti fermi che ricordo sinteticamente. 1. L’Illuminismo non fu un fenomeno solo francese: esistono più illuminismi (ad esempio: un Illuminismo italiano, un Illuminismo cattolico, un Illuminsimo radicale, un Illuminismo moderato, ecc.); 2. non è per nulla provato che l’Illuminismo nel suo insieme si prefiggesse l’abbattimento dell’Antico Regime da un punto di vista sociale e politico, quanto piuttosto la sua riforma graduale, dall’interno e senza sommovimenti (buona parte dei philosophes, in primis Voltaire, provarono sfiducia e a tratti ripulsa per le masse ignoranti e superstiziose, facilmente manipolabili dai ceti privilegiati: fenomeni come il “Viva Maria” toscano e il Sanfedismo dettero loro retrospettivamente ragione); 3. lo sviluppo di una letteratura politica critica nei confronti del potere monarchico, evidente soprattutto negli anni Settanta-Ottanta del XVIII secolo, fu forse il risultato (più che la causa) di una crisi autonoma della cultura politica d’Antico Regime: probabilmente la condanna del carattere “dispotico” di ogni regime monarchico assolutista fu più l’effetto della crisi della concezione sacrale del potere monarchico e del sistema cortigiano. È cioè possibile che le critiche che il tardo Illuminismo rivolse ai regimi dell’Europa di fine ‘700 fossero una conseguenza del collasso interno dei sistemi politici d’Antico Regime; 4. certamente l’Illuminismo fornì un contributo decisivo alla formazione dell’opinione pubblica e alla mobilitazione delle élites intellettuali, sociali e politiche: i tanti dibattiti che percorsero i Lumi, cioè, crearono almeno le precondizioni di un discorso politico moderno. Tali dibattiti (si pensi a quello sui diritti naturali dell’Uomo) finirono infatti per confluire nelle rivoluzioni politiche di fine ‘700: e ciò accadde perché molti uomini e donne del periodo utilizzarono le categorie elaborate dalla cultura illuminista per definire se stessi e per immaginare una società civile e politica più giusta in cui vivere.
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