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DISPENSA TONINI DIRITTO PROCESSUALE PENALE, Dispense di Diritto Processuale Penale

Soggetti e atti; principi generali sulla prova; mezzi di prova; mezzi di ricerca della prova; misure cautelari; indagini preliminari; conclusione delle indagini preliminari; investigazione difensiva; udienza preliminare; giudizio di primo grado; procedimenti speciali e differenziati; tribunale monocratico; principi generali sulle impugnazioni; appello; ricorso per cassazione; impugnazioni straordinarie.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 16/06/2023

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Scarica DISPENSA TONINI DIRITTO PROCESSUALE PENALE e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! MANUALE DI PROCEDURA PENALE Ventitreesima edizione TONINI-CONTI Parte Seconda PROFILI GENERALI DEL PROCEDIMENTO PENALE CAPITOLO I I SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE 1. Procedimento e processo. Il processo penale sul fatto, sull’autore e sulle conseguenze. Procedimento e processo non sono sinonimi. Il procedimento penale indica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale, ciascuno dei quali fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo e, al contempo, è realizzato in adempimento di un dovere posto dal suo antecedente. Nel concetto di procedimento penale sono ricompresi almeno tre elementi fondamentali: a) Una serie cronologicamente ordinata di atti, nel senso che gli stessi devono essere compiuti rispettando una determinata sequenza; b) Tutti gli atti del procedimento hanno la finalità di accertare l’esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona; c) Il compimento di un atto del procedimento fa sorgere in un altro soggetto il dovere di compiere un atto successivo, fino alla decisione. Il procedimento penale è diviso in tre fasi: indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio. Il processo penale indica una porzione del procedimento penale: fanno parte del processo le fasi dell’udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale del processo corrisponde all’esercizio dell’azione penale; il momento finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile. I soggetti e le parti. I soggetti sono coloro che sono titolari di poteri di iniziativa nel procedimento. Tale potere comporta che il compimento di un atto del procedimento da parte di un soggetto fa sorgere in un altro soggetto il potere di compiere un atto successivo. I soggetti vengono definiti in relazione alla nozione di procedimento penale, e cioè in relazione anche alla fase delle indagini preliminari. Le parti. Il concetto di parte tradizionalmente è correlato a quello di azione. Ne consegue che sono parti il soggetto attivo e quello passivo dell’azione penale, che consiste nella formulazione dell’imputazione unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio. Pertanto, si può definire parte colui che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all’imputazione e colui contro il quale tale decisione è chiesta. Sono parti necessarie il PM e l’imputato. L’azione civile di danno. Entro il processo penale il danneggiato dal reato può esercitare l’azione civile tendente ad ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento del danno derivante dal reato. Il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile in un momento successivo a quello in cui il PM ha esercitato l’azione penale. La parte civile è “parte” poiché chiede al giudice una decisione in relazione all’imputazione ed è parte “eventuale” perché la sua esistenza deriva dalla scelta facoltativa del danneggiato. La parte civile può chiedere il risarcimento dei danni, oltre che contro l’imputato, anche contro il responsabile civile, che è il soggetto responsabile civilmente per il fatto dell’imputato. Qualora il responsabile civile sia citato o intervenga nel processo, costui diventa parte eventuale. Dunque, deve essere accolta una definizione ampia di parte: tale è colui che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all’imputazione e colui contro il quale tale decisione è chiesta. 1 2. IL GIUDICE. Giudici ordinari e speciali. Giudici ordinari. Sono organi giudiziari ordinari quelli che hanno la competenza generale a giudicare tutte le persone e che sono composti da magistrati ordinari. Questi ultimi sono magistrati che fanno parte dell’ordinamento giudiziario, nel senso che la loro indipendenza è garantita dal consiglio superiore della magistratura. Giudici speciali. Sono organi giudiziari speciali quelli competenti a giudicare solo alcune persone e che sono composti da magistrati speciali, non appartenenti all’ordinamento giudiziario. Giudici penali ordinari di primo grado sono il tribunale in composizione collegiale o monocratica, la corte di assise, il giudice di pace e il tribunale per i minorenni; giudici ordinari d’appello sono la corte d’appello, la corte di assise d’appello e la sezione della corte d’appello per i minorenni. Vi è poi la corte di cassazione. Giudici penali speciali sono i giudici militari e la corte costituzionale. Giurisdizione e giusto processo. Giurisdizione. Il termine può avere un duplice significato: può riferirsi alla funzione oppure all’organo che la svolge. Nel primo senso può essere definita giurisdizione quella funzione dello Stato che consiste nell’applicare la legge al caso concreto con forza cogente; nel secondo senso, con riferimento agli organi che svolgono la predetta funzione, giurisdizione è quel potere dello Stato impersonato da organi che hanno la caratteristica della indipendenza e dell’imparzialità. L’imparzialità del giudice è stabilita dall’art. 111, comma 2 Cost. in base al quale “ogni processo si svolge davanti al giudice terzo e imparziale”. Giusto processo. Non può esservi giurisdizione senza giusto processo. Non è sufficiente che la Costituzione garantisca un giudice indipendente dagli altri poteri dello Stato; occorre anche che sia garantito lo svolgimento della sua funzione. Non è giusto il processo che non è conforme al modello legale. Elementi indefettibili del giusto processo sono il contraddittorio, la parità delle parti, l’imparzialità del giudice e la ragionevole durata. La competenza per materia e per funzione. Si basa sull’art. 25 – precostituzione del giudice naturale. La competenza è quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta dal singolo organo. Essa è distribuita in base ai criteri della materia (titolo di reato), del territorio (il luogo in cui si è commesso il reato), della funzione che deve essere svolta e della eventuale connessione con altri procedimenti. La competenza per materia è, a sua volta, ripartita in base a due criteri: uno qualitativo (con riferimento al tipo di reato), l'altro quantitativo (relativo alla pena edittale). La competenza per materia in primo grado si ripartisce tra la corte d'assise, il tribunale per i minorenni, il giudice di pace ed il tribunale. Il tribunale per i minorenni è competente per i reati commessi dai minori degli anni diciotto. Per stabilire la competenza del tribunale per i minorenni si deve prendere in considerazione l'età che aveva l'imputato all'epoca dei fatti addebitati. Questa competenza è "esclusiva": la cognizione resta attribuita al tribunale per i minorenni anche se il minore ha commesso un reato che sarebbe di competenza della corte d'assise, del tribunale o del giudice di pace. Inoltre, se il minore ha commesso un reato insieme ad adulti, per lui la competenza resta radicata nel tribunale per i minorenni. Alla corte d'assise (giudice collegiale composto da due giudici di carriera e sei giudici popolari) è attribuita la competenza a giudicare i più gravi fatti di sangue e i più gravi delitti politici. Il giudice di pace opera come giudice monocratico (e cioè, come giudice singolo). 2 d) quando uno o più difensori di imputati non sono comparsi in dibattimento per motivi legittimi; e) quando per un imputato l'istruzione dibattimentale è già stata conclusa, mentre per altri deve continuare con tempi lunghi; e-bis) quando stiano per scadere i termini di custodia cautelare in relazione a taluno dei delitti elencati nell'art. 407, comma 2, lett. a (reati di criminalità organizzata e ipotesi assimilate) ed occorra definire con urgenza la fase o il grado per evitare la scarcerazione automatica. La separazione facoltativa dei procedimenti. Fuori dai casi predetti, la separazione può essere disposta, sull'accordo delle parti, quando il giudice la ritenga utile ai fini della speditezza del processo (art. 18, comma 2). Il provvedimento del giudice. Nonostante la presenza di ipotesi di separazione obbligatoria il giudice può ritenere la riunione “assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”. Ai sensi dell'art. 19, la riunione e la separazione dei processi sono disposte con ordinanza dal giudice anche d'ufficio, ma con il limite che devono essere "sentite le parti". Il principio del giudice naturale. In base all'art. 25, comma 1 della Costituzione “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Precostituzione: Non si possono costituire giudici post factum. Si tratta di un principio legato alla competenza, che consiste nell’individuazione del giudice prima della commissione del fatto. Naturalità: il giudice naturalmente più vicino al fatto commesso. È un criterio sussidiario di sistemazione dei rapporti tra più giurisdizioni: prima si individua il giudice precostituito e poi, rispetto al fatto, interviene la naturalità che serve per la ripartizione dei rapporti tra più giurisdizioni (es. ordinaria e militare). La precostituzione impedisce il giudice straordinario; la naturalità distingue la specialità. Dalla norma si ricava il principio del giudice naturale, che a sua volta si esprime in quattro sotto-principi. a) In primo luogo, il principio della riserva assoluta di legge in materia di competenza. Ciò significa che la competenza del giudice può essere determinata soltanto dalla legge, e non da fonti secondarie (regolamenti o atti amministrativi). b) In secondo luogo, si desume quale contenuto debbano avere le disposizioni di legge, che sono destinate a regolare la competenza. Le norme non devono conferire un potere di scelta discrezionale. c) In terzo luogo, dalla necessaria "precostituzione" del giudice si ricava il divieto di applicazione retroattiva delle norme concernenti la competenza; queste sono applicabili ai fatti di reato che siano stati commessi dopo la loro entrata in vigore. Il principio del giudice naturale, in definitiva, impedisce che un organo legislativo, amministrativo o giurisdizionale possa sottrarre discrezionalmente un procedimento ad un determinato giudice. Ne risulta ulteriormente tutelata la garanzia di indipendenza dell'organo giudicante. d) In quarto luogo, il principio della “naturalità” del giudice fa riferimento ad un concetto che preesiste rispetto alla legge e che quest'ultima è chiamata a tutelare. L'opinione prevalente è nel senso che "giudice naturale" è quello che l'ordinamento considera il più idoneo ad accertare il fatto di reato. Il principio della “naturalità” può cedere di fronte ad interessi superiori (secondo criteri legalmente prestabiliti); ad esempio di fronte al principio di imparzialità del giudice (art. 111, comma 2 Cost.). È il caso che si verifica quando nella sede "naturale" l'intero ufficio giudiziario appaia comunque parziale o sia esposto a pressioni ambientali. I conflitti di giurisdizione e di competenza. I conflitti di giurisdizione intervengono tra un giudice ordinario ed un giudice speciale (o tra più giudici speciali); i conflitti di competenza intervengono tra giudici ordinari. Si ha conflitto positivo quando due (o più) giudici contemporaneamente prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona. Si ha conflitto negativo quando due (o più) giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona, ritenendo la propria incompetenza. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo. Esso può essere denunciato dal pubblico ministero presso uno dei giudici in conflitto o dalle parti private; ma può anche essere rilevato d'ufficio da 5 uno dei giudici. L'ordinanza che rileva l'esistenza del conflitto è trasmessa alla corte di cassazione con la copia degli atti necessari alla decisione. La corte di cassazione decide in camera di consiglio con sentenza e indica quale è il giudice competente a procedere. La dichiarazione di incompetenza. L'inosservanza delle disposizioni che regolano la competenza comporta che il giudice dichiari la propria incompetenza. Per quanto riguarda la normativa sull’efficacia degli atti che siano stati compiuti dal giudice incompetente, di regola le prove acquisite restano efficaci, mentre le dichiarazioni, se ancora ripetibili, diventano utilizzabili in giudizio soltanto con il meccanismo delle contestazioni probatorie. Le misure cautelari già disposte conservano un’efficacia provvisoria limitata a 20 giorni dall’ordinanza che dichiara l’incompetenza; entro tale termine il giudice competente deve disporre, se lo ritiene necessario, una nuova misura cautelare. L’incompetenza per materia. Le norme sono più rigorose quando è eccepita o rilevata un'incompetenza "per difetto", e cioè quando sta procedendo un giudice "inferiore" il quale, per definizione, è meno idoneo a giudicare rispetto ad un giudice "superiore". L'incompetenza è rilevabile fino a quando non si è pervenuti ad una sentenza irrevocabile (art. 21, comma 1). Meno rigoroso è il regime giuridico quando un giudice superiore stia procedendo per un reato di competenza di un giudice inferiore. L'incompetenza "per eccesso" può essere rilevata anche d'ufficio, ma non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 491, comma 1). L’incompetenza per territorio. Un regime attenuato vale per la declaratoria dell'incompetenza per territorio, che è eccepibile dalle parti, ma è rilevabile dal giudice fino alla chiusura della discussione finale nell'udienza preliminare. Quando l'udienza medesima non ha luogo, l'incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento. La riforma Cartabia (d.lgs. 150/2022) ha previsto che il giudice, chiamato a decidere una questione concernente la competenza per territorio, possa, anche su istanza di parte, rimettere la decisione alla corte di cassazione, che provvede in camera di consiglio partecipata (art. 24 bis comma 2). Si tratta di una questione pregiudiziale che ha un effetto preclusivo perché la parte, che ha eccepito l’incompetenza per territorio senza chiedere contestualmente la rimessione della decisione alla cassazione, non può riproporre l’eccezione nel corso del procedimento. La questione concernente la competenza per territorio può essere rimessa, anche di ufficio, alla cassazione prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, in dibattimento subito dopo aver compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti. In detti casi il giudice pronuncia un’ordinanza con la quale invia alla cassazione gli atti necessari alla risoluzione della questione. La cassazione decide in camera di consiglio partecipata e, se dichiara l’incompetenza del giudice che procede, ordina la trasmissione degli atti al PM presso il giudice competente. L’effetto preclusivo menzionato fa venir meno la possibilità di riproporre nelle fasi e gradi successivi del processo l’eccezione di incompetenza per territorio e, in tal modo, fissa una importante acquisizione per la certezza del diritto. La declaratoria di incompetenza. La pronuncia del giudice, che dichiara l'incompetenza, presenta alcune particolarità. Nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l'incompetenza con ordinanza e si limita a restituire gli atti al pubblico ministero che in quel momento sta conducendo le indagini. L'ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto e non impedisce al pubblico ministero di svolgere le indagini. Dopo la chiusura delle indagini il giudice dichiara l'incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. La decisione della corte di cassazione di regola è vincolante nel corso del processo. La questione può essere riproposta successivamente soltanto nel caso in cui risultino “nuovi fatti" dai quali emerga un'incompetenza per materia per “difetto”, di modo che sarebbe competente un giudice superiore (art. 25). 6 L’incompetenza per connessione. Nel caso di procedimenti connessi la competenza è determinata secondo le regole stabilite dagli artt. 15 e 16. L’inosservanza di tali regole determina l’incompetenza per connessione: essa deve essere rilevata o eccepita entro gli stessi termini previsti per l’incompetenza per territorio (prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa non ha luogo, nel corso delle questioni preliminari al dibattimento). L’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale. Il legislatore ha escluso che le eventuali violazioni delle norme sulla corretta composizione del tribunale possano incidere sulla capacità dell’organo giudicante. Il problema non deve essere considerato una questione di “competenza” ma di “cognizione”, cioè una semplice questione di forma o di rito. Il termine, entro il quale si può eccepire o rilevare anche d'ufficio l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale e delle disposizioni processuali collegate, è simile a quello che vale per l'incompetenza per territorio, e cioè prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manca, subito dopo compiuto per la prima volta l'accertamento della costituzione delle parti. Le inosservanze per eccesso. Nell'ambito delle inosservanze per eccesso possono verificarsi due ipotesi. In base ad una prima ipotesi, può accadere che il pubblico ministero, sulla scorta dell'imputazione da lui formulata, abbia chiesto il rinvio a giudizio mediante udienza preliminare erroneamente, perché il fatto contestato avrebbe comportato la citazione diretta a giudizio. In tal caso, il giudice deve trasmettere gli atti al pubblico ministero perché questi emetta il decreto di citazione diretta a giudizio. La seconda ipotesi è quella in cui il giudice collegiale nel corso del dibattimento rilevi che il procedimento spetta al tribunale monocratico. In tal caso non si ha regressione del procedimento: il collegio deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento. Le inosservanze per difetto. In primo luogo, se il giudice monocratico in dibattimento ritiene che il procedimento spetti al tribunale collegiale deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento. L'altra ipotesi, che si può verificare, è che il giudice monocratico, nel dibattimento instaurato a seguito di citazione diretta, rilevi che si tratti di un reato per il quale è prevista l'udienza preliminare. In tal caso, vi è una regressione del procedimento: il giudice trasmette gli atti al pubblico ministero sia ove ritenga che il reato spetti al tribunale collegiale, sia ove ritenga che il reato sia attribuito al tribunale monocratico. Il pubblico ministero eserciterà nuovamente l'azione penale. La capacità del giudice. L'espressione "capacità del giudice" indica il complesso dei requisiti indispensabili per un legittimo esercizio della funzione giudicante. Tuttavia, nel codice di procedura penale non troviamo una vera e propria definizione di questa nozione. In base al primo comma dell'art. 33, sono “condizioni di capacità del giudice quelle che appaiono stabilite dalle leggi di ordinamento giudiziario”. Capacità generica e specifica. Occorre precisare che non tutte le disposizioni finalizzate a regolare l'attribuzione e lo svolgimento della funzione giurisdizionale sono previste a pena di nullità. Si ritiene infatti che la sanzione della nullità assoluta sia messa a presidio della sola capacità generica (che si ottiene con la nomina e l'ammissione nel ruolo) e non anche dell'idoneità specifica, che presuppone la regolare costituzione del giudice nell'ambito di un determinato processo. Infatti, l'art. 33, comma 2 stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni riguardanti la destinazione del magistrato giudicante agli uffici giudiziari ed alle sezioni. Il legislatore ha voluto evitare che la violazione delle regole concernenti il funzionamento interno degli uffici giudiziari potesse dare luogo a nullità processuali. Capacità generica: la sua mancanza dà luogo a nullità assoluta > complesso di requisiti indispensabili per legittimare l’esercizio della funzione (es. superato il concorso); capacità specifica: la sua mancanza dà luogo ad incompatibilità > sanzione: solo astensione o ricusazione perché non difetta la capacità generica. Ripartizione tra tribunale collegiale e monocratico. La violazione delle norme sul riparto della cognizione tra le due articolazioni del tribunale e l’inosservanza delle disposizioni ordinamentali concernenti l'assegnazione dei magistrati a sezioni o collegi non danno luogo a nullità processuali. 7 magistrato possa mantenersi equidistante dalle parti. Ed allora la legge lo obbliga a rendere immediatamente la dichiarazione di astensione. Numerosi motivi sono comuni ai due istituti dell'astensione e della ricusazione. In primo luogo, il giudice deve astenersi (art. 36) e può essere ricusato (art. 37) se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli artt. 34 e 35 del codice o previste dalle leggi sull'ordinamento giudiziario. In secondo luogo, integrano motivi comuni all'astensione e alla ricusazione tutte quelle situazioni, nelle quali il giudice abbia legami con le parti o con l'oggetto del procedimento. Il giudice ha l'obbligo di astenersi (art. 36) e può essere ricusato (art. 37): a) Se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli; b) Se è tutore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; c) Se ha dato consigli o ha manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; d) Se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; e) Se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata; f) Se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di PM. L’astensione. La dichiarazione di astensione è valutata da un altro giudice; di regola, è valutata dal presidente dell'organo giudicante al quale appartiene il magistrato (art. 36, comma 3). Non può essere accolta automaticamente perché l'astensione è un istituto che fa eccezione alla regola secondo cui il giudice, una volta investito di un procedimento, ha il dovere di decidere. La dichiarazione di astensione è accolta se si accerta che in concreto esistono le situazioni che mettono in pericolo l'imparzialità. Il codice fa un elenco minuzioso dei motivi che obbligano il giudice ad astenersi (art. 36, lett. a-g). Dopodiché gli impone di astenersi anche in presenza di una situazione indicata con una clausola aperta, e cioè quando vi siano “gravi ragioni di convenienza” (art. 36, lett. h). La ragione è "grave" quando incide sulla libertà di determinazione del giudice. Il giudice presenta la dichiarazione di astensione al presidente della corte o del tribunale, che decide con decreto senza formalità di procedura. Si tratta di un atto di tipo amministrativo, sottratto ad ogni mezzo di impugnazione. La ricusazione. Le parti possono ricusare il giudice in base ai medesimi motivi previsti per l'astensione, con due differenze. In primo luogo, non è possibile ricusare il giudice per "gravi ragioni di convenienza": evidentemente si è ritenuto che una clausola così aperta in favore delle parti potesse rappresentare una lesione eccessiva al prestigio della magistratura. In secondo luogo, il codice aggiunge un ulteriore motivo: le parti possono ricusare il giudice che, nell'esercizio delle sue funzioni, abbia “manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione”. Dunque, le parti possono ricusare il giudice soltanto in presenza di situazioni tassative previste dalla legge. Una volta accertata la situazione pregiudizievole, viene designato un altro magistrato in base alle norme sull'ordinamento giudiziario. Il procedimento con cui si decide sulla dichiarazione di ricusazione è un procedimento incidentale di carattere giurisdizionale. La dichiarazione di ricusazione può essere proposta in udienza subito dopo compiuto l'accertamento della costituzione delle parti; in ogni altro caso, prima del compimento dell'atto da parte del giudice. La dichiarazione contenente l'indicazione dei motivi e delle prove è proposta con atto scritto ed è presentata nella cancelleria del giudice competente a decidere. Nel frattempo, il giudice ricusato non deve sospendere la sua attività, ma non può pronunciare una sentenza (art. 37, comma 2). Se la dichiarazione è valutata come inammissibile (art. 41, comma 1), gli atti compiuti restano efficaci. Ma se è accolta la dichiarazione di ricusazione, la corte chiamata a decidere deve valutare il grado di compromissione del giudice sospetto. 10 Occorre tracciare una distinzione fondamentale. Atti compiuti dal giudice sospetto prima della decisione che accoglie la ricusazione . La corte può disporre che il giudice sospenda temporaneamente ogni attività o si limiti al compimento di atti urgenti. Atti compiuti dal giudice sospetto dopo la decisione che accoglie la ricusazione. Una volta che è stata pronunciata la decisione che accoglie la ricusazione, il giudice non può compiere alcun atto del procedimento. Le Sezioni unite della cassazione hanno statuito che l'ordinanza, con cui viene ricusato il giudice, deve dichiarare se, e in quale parte, gli atti compiuti conservino efficacia. Se l'ordinanza omette di provvedere, la parte interessata può proporre ricorso per cassazione. Ove non lo faccia, gli atti compiuti conservano la loro efficacia. Accoglimento della ricusazione nei confronti del giudice che ha pronunciato il decreto che dispone il giudizio. Le Sezioni unite Gerbino hanno dato un'interpretazione estensiva al termine "sentenza", di cui all'art. 37, comma 2, poiché hanno affermato che in essa è ricompreso il decreto del giudice dell'udienza preliminare che dispone il giudizio. In conclusione, “il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 37, comma 2, c.p.p. è riferibile anche al decreto che dispone il giudizio ed opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione”. Nel caso in cui concorrano una dichiarazione di ricusazione è una dichiarazione di astensione, l’accoglimento dell’astensione fa considerare come non proposta la ricusazione. In base all’art. 42, se la dichiarazione di astensione o di ricusazione è accolta, il giudice non può compiere alcun atto del procedimento. Il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia. Sull’interpretazione di quest’ultima disposizione sono intervenute le sezioni unite della cassazione, sent. 13626 del 2011: in assenza di un’espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci. La rimessione del processo. Vi possono essere casi nei quali è pregiudicata l'imparzialità dell'intero ufficio giudicante territorialmente competente a prescindere da situazioni che riguardino il singolo magistrato che lo compone. In questi casi il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un altro organo giurisdizionale (con la medesima competenza per materia) situato presso quel capoluogo del distretto di corte d'appello che è individuato in base all'art. 11 (e cioè, nell'ipotesi di un reato commesso da un magistrato). Lo spostamento è deciso dalla corte di cassazione se ed in quanto tale organo accerti l'esistenza di almeno uno dei requisiti della rimessione (art. 45). La richiesta motivata di rimessione può essere presentata soltanto dall'imputato, dal pubblico ministero presso il giudice che procede e dal procuratore generale presso la corte d'appello. I casi di rimessione. In tutti i casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti (c.d. motivi di legittimo sospetto) “gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili”. La situazione deve essere "grave", e cioè occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire uno svolgimento non sereno del giudizio. Deve essere "locale", e cioè non diffusa sull'intero territorio nazionale. Deve essere "esterna" rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale. Infine, deve essere "non eliminabile" con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo. Legittimo sospetto - vera e propria situazione di pericolo che può comportare una situazione di pericolo non solo per il giudice ma per tutto l’ufficio giudicante. 1) Il primo caso di rimessione si ha quando sono pregiudicate la sicurezza e l'incolumità pubblica. 2) Il secondo caso di rimessione sussiste quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone che partecipano al processo. Occorre che siano presenti fenomeni di vera e propria coartazione fisica o psichica di persone che possono anche non essere soggetti del procedimento (es. testimoni o periti). 3) Il terzo caso di rimessione consiste in gravi situazioni locali che “determinano motivi di legittimo sospetto”. Questa fa riferimento ad una “grave e oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice”, inteso questo come l'intero ufficio 11 giudicante della sede in cui si svolge il processo. Per qualcuno la rimessione si riferiva alla competenza e non all’imparzialità. Ma, dato che si fa riferimento a cause esterne, bisogna interessarsi non del giudice competente ma dell’imparzialità dello stesso. Il procedimento di rimessione. La richiesta di rimessione può essere presentata dall’imputato, dal pubblico ministero presso il giudice che procede e dal procuratore generale presso la corte d’appello. La richiesta deve essere depositata nella cancelleria del giudice che procede e deve essere notificata altre parti a pena di inammissibilità (art. 46). Il giudice trasmette l'istanza alla corte di cassazione e può sospendere il procedimento in attesa della decisione della suprema corte; deve, tuttavia, sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni e non può pronunciare sentenza (né emettere il decreto che dispone il giudizio). Il provvedimento, che ordina la sospensione, non impedisce il compimento di atti urgenti, ha effetto fino a che la cassazione non si sia pronunciata sulla richiesta di rimessione e comporta la sospensione della prescrizione del reato e dei termini di custodia cautelare. La corte di cassazione verifica l'esistenza delle situazioni che impongono la rimessione e, dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni, decide in camera di consiglio. Ove accolga la richiesta, trasferisce il processo ad un altro giudice che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello individuato in base all'art. 11 c.p.p. La rimessione determina, pertanto, uno spostamento della (sola) competenza per territorio. Ove la cassazione rigetti o dichiari inammissibile la richiesta delle parti private, queste, con la stessa ordinanza, possono essere condannate al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma. Le questioni pregiudiziali alla decisione penale. Il principio di autosufficienza della giurisdizione penale. Nel momento in cui si deve accertare la responsabilità dell'imputato, il giudice penale può avere la necessità di risolvere una questione pregiudiziale; in senso lato è pregiudiziale una questione che si pone come antecedente logico-giuridico per pervenire alla decisione. Esemplificando: per decidere sull'imputazione di furto occorre accertare la altruità della cosa. In senso stretto, una questione può dirsi pregiudiziale quando l'iter logico per approdare alla decisione sull'imputazione presuppone la risoluzione di una controversia non appartenente alla diretta cognizione del giudice procedente. Il codice accoglie la regola secondo la quale il giudice penale ha il potere di risolvere ogni questione da cui dipenda la sua decisione, salvo che una norma di legge disponga diversamente. Ciò costituisce espressione del principio di autosufficienza della giurisdizione penale e, al tempo stesso, attua la massima semplificazione delle forme e la ragionevole durata del processo. La risoluzione della questione in via incidentale. Il giudice penale si limita a “risolvere” la questione in via incidentale: conosce della questione soltanto in quanto presupposto dell'accertamento della responsabilità dell'imputato. Infatti, la pronuncia del giudice penale, che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale, non ha efficacia vincolante in nessun altro processo. Nel risolvere la questione pregiudiziale, il giudice penale di regola non è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili. Ciò significa che le esigenze di speditezza del processo penale possono portare ad un eventuale contrasto con le decisioni di altri giudici penali, civili o amministrativi. Soltanto in due casi il giudice penale deve seguire le regole probatorie speciali vigenti per la specifica materia. Si tratta delle questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza, in presenza delle quali il giudice penale deve osservare i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili. In questo caso prevale il principio della certezza dei rapporti giuridici, che sono regolati in modo esclusivo dalle leggi civili e vincolano il giudice penale. L'autosufficienza totale: le questioni pregiudiziali "penali". Il giudice penale gode di una totale autosufficienza nell'accertare le questioni pregiudiziali penali. Il rapporto tra questione penale pregiudicante e pregiudicata è regolato dal codice. Quale esempio si può citare il caso in cui, nel decidere sull'esistenza della ricettazione, si debba risolvere il problema se la cosa "proviene" da un qualsiasi delitto. 12 3) “esercita l'azione penale” in ogni caso in cui non debba richiedere l'archiviazione, e cioè quando dalle indagini sono emersi elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio; 4) “fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice, nei casi stabiliti dalla legge”. Il pubblico ministero svolge nel procedimento penale la funzione di parte pubblica. Egli rappresenta l'interesse generale dello Stato-comunità, e cioè l'interesse della collettività che è stata lesa dal reato. Ben distinta è la situazione soggettiva dello Stato-persona, che è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Infatti, qualora il reato abbia cagionato un danno ad un bene dello Stato, il ministro competente può decidere di chiedere il risarcimento nel processo penale. In tal caso il ministro, che si costituisce parte civile, è rappresentato dall'avvocatura dello Stato. Status del pubblico ministero. Il magistrato che fa patte dell'ufficio del pubblico ministero ha una piena indipendenza di status (art. 104 Cost.); in quanto “magistrato”, egli è inamovibile nel grado e nella sede (art. 107 Cost.); è nominato a seguito di pubblico concorso (art. 106, comma 1 Cost.); i provvedimenti disciplinati e le promozioni che lo riguardano sono deliberati dal consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.). La Costituzione impone al pubblico ministero l'obbligo di esercitare l'azione penale (art. 112); da ciò si fa comunemente derivare la soggezione del pubblico ministero alla legge. La principale differenza rispetto al giudice sta nel fatto che, ai sensi dell'art. 107, comma 4 Cost., “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario”. All’interno dell’ufficio vi sono alcune caratteristiche dell’organizzazione gerarchica, assenti all’interno degli uffici del giudice. I rapporti con il potere politico. I sistemi totalitari non accettano la separazione dei poteri dello Stato: in essi il PM è diretta espressione del potere politico. I sistemi garantisti sono fondati sull’opposto principio della separazione dei poteri dello Stato. I rapporti all’interno dell’ufficio. I rapporti di dipendenza gerarchica, che esistono all'interno dell'ufficio del pubblico ministero, assumono una configurazione tutta particolare perché devono contemperare due esigenze contrapposte: da un lato garantire l'indipendenza del singolo magistrato, da un altro lato assicurare la buona organizzazione dell'ufficio della pubblica accusa. In base al vecchio principio di "personalizzazione delle funzioni" il titolare dell'ufficio designava il magistrato che doveva svolgere le indagini nel singolo procedimento in modo automatico in base ad un sistema tabellare che era fondato su criteri predeterminati. Detto sistema era previsto dalla legge per il giudice, ma il CSM con varie circolari lo aveva esteso agli uffici della pubblica accusa. Il magistrato designato conservava una vera e propria autonomia operativa, poiché il capo dell'ufficio del pubblico ministero poteva dare soltanto direttive di carattere generale, per l'organizzazione dell'ufficio, e non di carattere particolare, relative allo svolgimento del singolo procedimento. La revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi: e cioè quando il magistrato intendeva formulare richieste in contrasto con le direttive di carattere generale, o quando le richieste del magistrato erano insostenibili sul piano tecnico. La gerarchia attenuata. In base alle norme oggi vigenti, i criteri automatici non costituiscono più l'unica modalità di attribuzione di un caso; il procuratore della repubblica può assegnare un procedimento ad un determinato sostituto in deroga al criterio di automaticità previsto dal "progetto organizzativo". Il principio generale sta nella titolarità esclusiva delle funzioni spettante al procuratore della repubblica, che esercita l'azione penale “personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all'ufficio”. La novità sta nel fatto che non si tratta più di quella " designazione", che era prevista nel testo del 1988 e che lasciava piena autonomia operativa al singolo sostituto. La legge 269/2006 ha introdotto un nuovo istituto: la "assegnazione", la cui natura giuridica consiste nel conferire poteri con limitata autonomia funzionale. Con l'atto di assegnazione il procuratore può stabilire i criteri (generali, ma anche particolari per il singolo procedimento) ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività. La revoca dell’assegnazione al di fuori dell’udienza. Quando le direttive generali o particolari sono violate, o quando si verifica un contrasto con il titolare dell’ufficio, questi può revocare l’assegnazione con provvedimento motivato. 15 La piena autonomia in udienza. Il potere direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in udienza. In tal caso, il magistrato del PM esercita le sue funzioni con piena autonomia. Il capo dell’ufficio provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell’interessato ovvero, se il consenso manca, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Il capo ha l’obbligo di provvedere alla sostituzione se il magistrato ha un interesse privato nel procedimento. Le misure cautelari. Un ulteriore aspetto di gerarchia ha per oggetto le misure cautelari: il singolo magistrato del PM, quando sta per presentare al giudice la richiesta di una misura cautelare personale o reale, deve ottenere l’assenso scritto del procuratore della Repubblica. I rapporti tra gli uffici. Ogni ufficio del pubblico ministero è competente a svolgere le sue funzioni esclusivamente presso l'organo giudiziario davanti al quale è costituito. Il rapporto gerarchico esiste quando l'organo superiore ha un potere conformativo diretto che è realizzabile con gli strumenti dell'ordine e della direttiva in relazione al singolo affare trattato dall'organo inferiore, il quale pertanto è giuridicamente obbligato ad adempiere a quanto richiesto. Ciò detto, nei rapporti tra gli uffici del pubblico ministero non vi è un potere gerarchico tra quello superiore e quello inferiore; l'ufficio superiore ha singoli poteri di sorveglianza riguardanti la disciplina e l'organizzazione. Il procuratore generale presso la corte di cassazione svolge una funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare l'azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente o giudicante; la decisione spetterà poi al consiglio superiore della magistratura. La nozione di contrasto tra uffici. Si ha contrasto negativo tra pubblici ministeri quando due uffici, durante le indagini preliminari in relazione ad un determinato reato, negano la competenza per materia o per territorio del giudice presso il quale ciascuno di essi esercita le funzioni, ritenendo esistente la competenza di un altro giudice. Si ha contrasto positivo tra uffici del pubblico ministero, quando due uffici stanno svolgendo indagini a carico della stessa persona ed in relazione al medesimo fatto e ciascuno di essi ritenga la propria competenza esclusiva. Il procuratore generale presso la corte d'appello svolge, in relazione agli uffici sottordinati, una funzione di sorveglianza che si manifesta nei seguenti aspetti: a) nel potere di dirimere i contrasti tra due uffici del pubblico ministero del medesimo distretto di corte d'appello, i quali ritengano contemporaneamente di affermare (o, viceversa, negare) la propria competenza in un singolo caso; b) nel potere di avocare un singolo affare in casi tassativamente previsti dalla legge. Il potere di avocazione. L'avocazione è il potere dell'organo superiore di sostituirsi all'organo inferiore nello svolgimento di una determinata attività. Il codice attribuisce il potere di avocazione al procuratore generale presso la corte d'appello nei confronti del pubblico ministero presso il tribunale quando sono presenti situazioni espressamente previste dalla legge; ciò avviene quando il titolare, o un magistrato dell'ufficio inferiore, hanno omesso un'attività doverosa o quando comunque il procedimento penale rischia una stasi per l'inerzia del magistrato del pubblico ministero. In concreto, in base al provvedimento di avocazione un magistrato della procura generale presso la corte di appello sostituisce un magistrato del pubblico ministero di primo grado nel compimento di quella attività che quest'ultimo sta svolgendo. Sono previsti casi nei quali l’avocazione è obbligatoria ed altri nei quali è discrezionale. L’astensione del pubblico ministero. Qui si manifesta ancora una volta la differenza tra il magistrato giudicante ed il magistrato requirente. Infatti, il giudice ha l'obbligo di astenersi ove sia presente una situazione che lo faccia apparire "parziale" (art. 36); per gli stessi motivi il giudice può essere ricusato. Viceversa, il magistrato del pubblico ministero non può essere ricusato, in quanto parte. L'astensione. Il pubblico interesse che deve connotare le funzioni da lui svolte, impone al pubblico ministero di astenersi quando vi sono gravi ragioni di convenienza. Sulla dichiarazione di astensione decide il capo dell'ufficio del pubblico ministero. Tra le gravi ragioni di convenienza vi sono le situazioni nelle quali il 16 magistrato ha un interesse privato nel procedimento che gli è stato assegnato o ha un rapporto di interesse con una delle parti. In detti casi il singolo magistrato ha il dovere di astenersi. La sostituzione. Il codice pone al capo dell'ufficio l'obbligo di sostituire il magistrato del PM che abbia un interesse privato nel procedimento e che non si sia astenuto; il potere di sostituire quest'ultimo deve essere esercitato anche durante l'udienza penale nella quale il magistrato svolge le sue funzioni con piena autonomia. I casi di sostituzione sono quelli indicati nell'art. 36, comma 1, lettere a, b, d, e; essi possono così essere sintetizzati: 1) se il magistrato ha interesse nel procedimento come parte anche soltanto potenziale ovvero se è creditore o debitore di una delle parti private; 2) se il magistrato è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se uno di costoro è prossimo congiunto di lui o del coniuge; 3) se vi era già in precedenza una inimicizia grave tra il magistrato e una delle parti private; 4) se un prossimo congiunto del magistrato è offeso o danneggiato o parte privata. Se il capo dell'ufficio omette di provvedere alla sostituzione, il procuratore generale presso la corte d'appello designa per l'udienza un magistrato appartenente al suo ufficio. Quello appena menzionato è un caso di avocazione obbligatoria. Dovere di lealtà processuale. Il pubblico ministero è un magistrato indipendente che svolge la funzione di una parte pubblica. Nella sua qualità di "magistrato indipendente" egli si distingue dal giudice per il fatto di essere collocato in un ufficio che dipende da un capo, sia pure soltanto per gli aspetti organizzativi della sua attività. Per la sua qualità di "parte pubblica" egli si distingue dalle parti private che perseguono un loro personale interesse. L'interesse pubblico impone al pubblico ministero l'obbligo di lealtà processuale. La parte privata (imputato, persona offesa, ecc.) ricerca soltanto le prove a sé favorevoli e non ha l'obbligo di far conoscere alle altre parti le prove che giovano a queste ultime (art. 327-bis). Diversa è la situazione del pubblico ministero. Egli non deve limitarsi a ricercare le prove favorevoli all'accusa; in base all'art. 358 c.p.p. deve svolgere anche “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Pertanto, non può rifiutarsi di compiere investigazioni, se queste portano ad accertare fatti che giovano all'indagato. Inoltre, tutti i risultati delle indagini (anche quelli favorevoli all'indagato) devono essere depositati dal pubblico ministero nei tempi previsti (art. 366) e comunque contestualmente alla notifica dell'avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis). In definitiva, sul pubblico ministero incombe un obbligo di "lealtà processuale" a cui non sono tenute, nella stessa misura, le altre parti private. 4. LA POLIZIA GIUDIZIARIA. La polizia giudiziaria. La funzione di polizia giudiziaria trova la sua definizione nell'art. 55 c.p.p. La polizia giudiziaria “deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale”. La differenza tra polizia di sicurezza e giudiziaria si basa sulla contrapposizione tra "prevenzione dei reati" e "repressione di un reato"; con quest'ultima espressione si vuole indicare la raccolta di tutti gli elementi necessari per accertate il reato e per rendere possibile lo svolgersi del processo penale. La distinzione tra polizia giudiziaria e polizia di sicurezza. Quando svolge la funzione di prevenire i reati, la polizia di regola (salvo rarissime eccezioni) non gode di poteri coercitivi, e cioè non può direttamente limitare le libertà fondamentali. Viceversa, non appena giunge la notizia che è stato commesso un reato, viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l'uso dei poteri coercitivi. In situazioni di necessità ed urgenza la polizia giudiziaria procede all'arresto in flagranza o al fermo di una persona gravemente indiziata (artt. 380-384); inoltre, in caso di flagranza può perquisire persone o luoghi (art. 352). L'esercizio di poteri coercitivi avviene in collegamento con il successivo svolgersi di un procedimento penale, con la garanzia del diritto di difesa e sotto il controllo del pubblico ministero e del giudice. 17 1) interrompere l'esame; 2) avvertire la persona che a seguito delle dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; 3) invitarla a nominare un difensore. Le dichiarazioni rilasciate fino a quel momento “non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese”; viceversa possono essere utilizzate a suo favore o contro altre persone. Il divieto di sentire l’indagato come persona informata e la relativa sanzione. Il codice si preoccupa che le norme garantiste sull'interrogatorio possano essere eluse da un inquirente (pubblico ministero o polizia giudiziaria) che interroghi un indagato senza riconoscergli tale qualità e, quindi, senza rispettare il suo diritto di non rispondere. Se una persona ascoltata come testimone o possibile testimone «doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate». La verifica dell’identità fisica e anagrafica dell’imputato. Può accadere che nel corso delle indagini ci si trovi di fronte ad una persona fisica e non si sappia con certezza se si tratta davvero del soggetto al quale l'inquirente attribuisce il reato. Occorre dunque procedere a verificare l'identità di tale persona. La verifica della identità dell'imputato comporta due accertamenti. 1) Accertamento della identità fisica dell'indagato. Si tratta di stabilire se l'indagato coincide con quella persona, autore del fatto illecito, che ha lasciato la sua impronta sul luogo del reato. A tale accertamento si può pervenire si prova che l'impronta digitale (o quella genetica) rilevata sul luogo del fatto è identica a quella dell'indagato, o se un testimone oculare riconosce l'indagato medesimo. 2) Accertamento della identità anagrafica dell'indagato. Si tratta di attribuire un nome ad un volto o ad una impronta digitale o genetica. Il principale strumento per accertare l'identità anagrafica dell'imputato (o dell'indagato) è l'interrogatorio: sulla propria identità personale egli deve rispondere secondo verità. Sospensione o definizione del procedimento per incapacità processuale dell’imputato. Il giudice deve valutare anche d'ufficio se l'imputato (o l'indagato), per infermità mentale, non è in grado di «partecipare coscientemente» al procedimento penale, e cioè se non è capace di esercitare consapevolmente quel diritto di autodifesa che spetta a lui personalmente. In tal caso, il giudice, prima di porsi il problema di sospendere o meno il procedimento, deve compiere una valutazione preliminare. 1) La pronuncia che proscioglie l'imputato. In via preliminare, il giudice deve valutare se nei confronti dell'imputato può pronunciare una «sentenza di proscioglimento» (in giudizio) o una sentenza «di non luogo a procedere» (in udienza preliminare). Ciò significa che, quando è possibile prosciogliere l'imputato perché innocente, o perché vi è una situazione di improcedibilità (es. manca la querela o l'autorizzazione a procedere) o perché mancava totalmente la capacità di intendere e di volere al momento del fatto di reato, il giudice non deve sospendere il procedimento penale: la sentenza che enuncia una delle formule sopra menzionate deve essere pronunciata. 2) L’impossibilità di prosciogliere l’imputato. Diverso è il caso in cui, in base allo stato degli atti, il giudice si trovi nelle condizioni di dover accertare la responsabilità penale e, di conseguenza, appare probabile una condanna perché l'imputato era imputabile o semi-imputabile al momento del fatto. In tale situazione il giudice deve valutare se l'imputato, a causa di un'infermità mentale in atto, sia in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale. Nel caso in cui non lo sia, la legge n. 103 del 2017 ha imposto al giudice di accertare ulteriormente se l'incapacità dell'imputato sia reversibile o meno. a) L'incapacità dell'imputato appare reversibile: sospensione del procedimento. Quando il giudice accerta che l'infermità mentale appare reversibile, egli deve disporre con ordinanza che il procedimento sia sospeso e contestualmente nominare un curatore speciale. Ogni sei mesi il giudice dispone perizia per accertare lo stato psichico dell'imputato. L'ordinanza di sospensione è revocata qualora l'imputato risulti in grado di partecipare coscientemente al procedimento penale oppure se, nei confronti dell'imputato, deve essere pronunciata quella sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. a) L'imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile e non è pericoloso. Quando si accerta che lo stato mentale dell'imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento; che tale stato è irreversibile; che l'imputato non è pericoloso, il giudice deve revocare l'eventuale 20 ordinanza di sospensione del procedimento e deve pronunciare la sentenza di non luogo a procedere (se in udienza preliminare) o di non doversi procedere (se in dibattimento). b) L'imputato è affetto da incapacità processuale irreversibile ed è pericoloso. Quando si accerta che l'imputato è pericoloso è prevista l'applicazione di una misura di sicurezza diversa della confisca. Questa è considerata come ostativa alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere. 6. IL DIFENSORE. La rappresentazione tecnica. Art. 24,2 Cost. “La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Procedimento non processo > l’uso del termine procedimento ci consente di dire che anche la fase procedimentale è caratterizzata dall’esercizio del diritto di difesa, che è inviolabile e irrinunziabile. Non ha senso parlare del diritto di difesa solo nell’ottica del difeso > si deve guardare alla struttura dialogica > serve alle dinamiche processuali. Il diritto di difesa ha una sua accezione come:  Diritto di difesa tecnica > difesa realizzata attraverso un difensore > difesa formale (assistenza legale);  Diritto all’autodifesa > difesa materiale o personale. Il 24,2 fa riferimento ad entrambi i tipi di difesa > la Convenzione europea (art. 6) richiama l’autodifesa >> qual è il rapporto tra le due? Autodifesa. Art. 6, par. 3 lett. c) Convenzione EDU: “Insieme delle attività attraverso le quali l’imputato contribuisce personalmente alla ricostruzione del fatto e delle sue conseguenze, nonché al controllo sulla regolarità del processo”. Presuppone la capacità dell’imputato. Difesa tecnica. Sent. 125/1979 e sent. 188/1980 della Corte costituzionale hanno sancito l’obbligatorietà della difesa tecnica per la corretta gestione del contraddittorio. Se non è designato un difensore di fiducia se ne nomina uno d’ufficio > conferma l’irrinunciabilità della difesa tecnica. Il difensore è una persona che ha particolare competenza tecnico-giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico e processuale. La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali "per conto" (cioè nell'interesse) del cliente. La rappresentanza tecnica attribuisce al difensore il potere di compiere per conto del cliente tutti quegli atti che il codice riferisce a quella parte, a condizione che i medesimi non siano personali, e cioè che non siano dalla legge espressamente riservati alla parte. Perché il difensore possa disporre di un diritto "in nome" del cliente, deve essergli attribuita una rappresentanza volontaria, cioè il potere di compiere un atto i cui effetti ricadono sul cliente. La rappresentanza volontaria per gli atti personali. Quando si deve compiere nel procedimento un atto "personale" e non può essere presente la parte assistita, non è sufficiente la rappresentanza tecnica del difensore. È necessario che la parte conferisca una rappresentanza volontaria al difensore o ad altra persona di sua fiducia, e ciò può fare soltanto con la procura speciale a compiere un determinato atto. La rappresentanza volontaria permette di compiere un atto “in nome” del soggetto rappresentato. Atti personalissimi. Vi sono atti personalissimi per i quali non vi può essere rappresentanza volontaria. Il rapporto tra il cliente ed il difensore ha natura fiduciaria. Da ciò derivano le seguenti conseguenze. Prima dell'accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina; è sufficiente che lo comunichi immediatamente a colui che l'ha effettuata ed all'autorità che procede. La non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata a quest'ultima. Dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare allo stesso. La rinuncia deve parimenti essere comunicata a colui che ha effettuato la nomina ed all'autorità procedente, ma non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a sette giorni, che sia stato concesso a quest'ultimo; fino a tale momento la parte è rappresentata dal difensore rinunciante. Il rapporto tra l’imputato e il difensore. Tra imputato e difensore esiste una rappresentanza tecnica che assume la forma dell’”assistenza”, nel senso che l’imputato può sempre compiere personalmente gli atti che non siano per legge riservati al difensore. “Assistenza” può essere definita come quella particolare forma di rappresentanza tecnica che non esclude l’autodifesa del soggetto assistito. 21 Il diritto di autodifesa dell’imputato prevale sul diritto alla difesa tecnica: l’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice. Difensore di fiducia e difensore d’ufficio. Quando l’indagato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo, il codice prevede l’istituto della difesa d’ufficio. Da tale norma si ricava il principio della necessità e irrinunciabilità della difesa tecnica in favore dell’imputato. La difesa d’ufficio ha unicamente la funzione di attuare il contraddittorio in un processo basato sul principio dialettico. Il difensore della persona offesa. L’offeso può nominare un difensore nelle stesse forme previste per il difensore dell’imputato. L’offeso ha il potere di esercitare quei diritti e facoltà che sono a lui espressamente riconosciuti dalla legge, agendo anche personalmente nel procedimento, presentando, ad esempio, memorie ed indicando mezzi di prova. In relazione a questi atti l’offeso non è obbligato ad agire tramite un difensore ma non può (a differenza dell’imputato) togliere effetto ad un atto del proprio difensore; l’unico modo che ha per evitare una difesa tecnica è quello di revocare il difensore e nominarne una altro. Il difensore delle parti private diverse dall’imputato (es. parte civile). Ai sensi dell’art.100 “le parti private diverse dall’imputato stanno in giudizio col ministero di un difensore”. La parte civile, il responsabile civile e la parte civilmente obbligata per la pena pecuniaria non possono stare personalmente in giudizio. L’incompatibilità del difensore. L’art. 106 prevede la possibilità che la difesa di più imputati sia assunta da un difensore comune purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili. L’incompatibilità non deriva dalla semplice diversità tra le affermazioni di diversi imputati o tra le loro posizioni processuali. Deve sussistere in concreto un nesso di interdipendenza in base al quale un imputato abbia effettivamente interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole ad un altro imputato. L’incompatibilità può essere eliminata in due modi: mediante la rinuncia del difensore a sostenere una o più difese; mediante la revoca della nomina da parte di uno degli imputati. Nel caso in cui l’incompatibilità non venga rimossa entro il termine fissato, il giudice la dichiara e provvede a sostituire il difensore incompatibile con un difensore d’ufficio. Le garanzie per il libero esercizio dell’attività difensiva. Le garanzie di carattere generale consistono nella forte tutela del segreto professionale, assicurata dall’art. 200 agli avvocati, che non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto in ragione del proprio ministero. Le garanzie di carattere speciale riguardano la tutela dell’ufficio del difensore e dei colloqui con i clienti e sono finalizzate ad assicurare la libertà di predisposizione delle strategie difensive in un processo di tipo accusatorio. Occorre che la raccolta di elementi di prova da contrapporre alle altre parti in condizioni di parità avvenga in modo riservato e immune da interferenze ad opera dell’autorità inquirente. a) Non è consentita l’intercettazione relativa a comunicazioni svolte tra i difensori, i consulenti tecnici e i loro ausiliari tra di loro, né a comunicazioni svolte tra i medesimi e i loro assistiti. b) Le ispezioni, le perquisizioni e i sequestri di regola sono vietati. Sono ammessi in casi tassativamente previsti dalla legge. Il giudice o il PM autorizzato, quando si accinge a compiere una perquisizione, ispezione o un sequestro nell’ufficio del difensore, deve preavvisare, a pena di nullità, il presidente del consiglio dell’ordine perché questi possa assistere alle operazioni. 7. LA PERSONA OFFESA DAL REATO E LA PARTE CIVILE. LA PERSONA OFFESA DAL REATO. 22 risarcire il danno provocato dalla persona che ha commesso tale fatto illecito. Il codice civile prevede singole ipotesi di responsabilità “per fatto altrui”; in tali casi il responsabile civile è obbligato in solido con l’imputato al risarcimento del danno. Si può citare l’art. 2049 c.c., secondo cui “i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito compiuto dai loro dipendenti nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Qualora nell’esercizio delle incombenze venga commesso un illecito penale, questo obbliga al risarcimento non soltanto il colpevole, ma anche le persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui. Se il danneggiato esercita, nel processo penale, l’azione civile risarcitoria contro l’imputato, può anche scegliere di chiedere la condanna del responsabile civile. L’intervento volontario del responsabile civile. Quando vi è stata costituzione di parte civile, il responsabile civile può anche intervenire volontariamente nel processo penale, al fine di chiedere l’ammissione di prove che lo liberino da responsabilità o che dimostrino l’innocenza dell’imputato. Pertanto, il responsabile civile è una parte eventuale del processo penale perché la sua presenza richiede che il danneggiato si sia costituito parte civile e che il responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto volontariamente. 9. LA PERSONA CIVILMENTE OBBLIGATA PER LA PENA PECUNIARIA. Si tratta di una parte eventuale del processo penale: essa è citata a richiesta del PM o dell’imputato. La natura giuridica dell’istituto trae la sua origine da una particolare forma di responsabilità verso lo stato a carico di un soggetto diverso dall’autore del reato. La responsabilità si attiva quando l’autore del reato, che sia stato condannato è sottoposto ad esecuzione per una pena pecuniaria, sia insolvibile. In tal caso, l’obbligo di pagare la multa o l'ammenda è posto a carico della persona fisica civilmente obbligata per la pena pecuniaria. CAPITOLO II GLI ATTI 1. Gli atti del procedimento penale. Viene tradizionalmente definito "atto del procedimento penale" quell'atto che è compiuto da uno dei soggetti del procedimento (giudice, pubblico ministero, polizia giudiziaria, difensore, imputato, ecc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale (sia esso una sentenza, una ordinanza o un decreto). 25 In base a tale definizione rientrano nel concetto di "atto" sia gli atti delle indagini preliminari, sia gli atti dell'udienza preliminare e del giudizio. Il primo atto del procedimento penale è quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero. Occorre precisare che con il termine "atto" si designa quella attività che è compiuta da un soggetto. Tuttavia, nella prassi, il termine individua anche il risultato dell’attività che è stata compiuta. In quest’ultimo significato “atto” sta ad indicare sia il verbale che documenta l’attività compiuta, sia il testo del provvedimento pronunciato dal giudice. 2. Le cause di invalidità degli atti. Considerazioni generali. Il codice prevede dettagliatamente i requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale. Tali requisiti danno luogo al "modello legale" del singolo atto; essi rispondono alla fondamentale esigenza che in concreto l'atto possa svolgere la funzione che è ad esso assegnata all'interno del procedimento. L'atto perfetto è quello che è conforme al modello descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge. Ovviamente, il suo valore probatorio è valutato liberamente dal giudice, che potrà ritenerlo attendibile o meno. L'atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. È invalido quando la singola difformità rientra in uno dei quattro casi di invalidità previsti dal codice; e cioè quando la singola inosservanza di legge è prevista come causa di decadenza, di inammissibilità, di nullità o di inutilizzabilità. L’atto irregolare. L'atto è irregolare se la difformità dal modello legale non rientra in una delle cause di invalidità che sono tassativamente previste dalla legge. Certamente vi è stata una inosservanza di legge nel compiere l’atto, ma tale inosservanza non è prevista a pena di invalidità. Pertanto, l'atto irregolare è valido: il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione. L’irregolarità potrà dar luogo all'applicazione di una sanzione disciplinare a carico della persona colpevole. L'atto invalido. L'inammissibilità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta presentata da una parte quando la stessa non ha i requisiti previsti dalla legge perché possa essere ammessa. La decadenza comporta l'invalidità dell'atto che sia stato eventualmente compiuto dopo che è scaduto un termine perentorio. La nullità è un vizio che colpisce l'atto del procedimento che sia stato compiuto senza l'osservanza di degerminate disposizioni stabilite espressamente dalla legge appunto a pena di nullità. L'inutilizzabilità è una invalidità che colpisce direttamente il valore probatorio di un atto: il giudice non può basarsi su di esso per emettere una decisione. Il principio di tassatività. Nella materia in esame vige uno stretto principio di tassatività; ciò significa che l'inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una norma espressamente vi ricollega una delle invalidità appena citate. Il principio di tassatività è dettato specificamente per la nullità (art. 177) e per la decadenza (art. 173); tuttavia esso è desumibile dall'intero sistema delle cause di invalidità. L’INAMMISSIBILITA’ Questa causa di invalidità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale del procedimento, quando la richiesta non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l'atto; oppure può concernere il contenuto dell'atto; o può toccare un aspetto formale; o ancora può riguardare la legittimazione al compimento dell'atto. 26 Il regime giuridico. L’inammissibilità determina un controllo del giudice. È rilevata dal giudice su eccezione di parte o anche d'ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l'inammissibilità della domanda (con ordinanza o con sentenza) e non decide sul merito della stessa. Il codice non stabilisce un termine entro il quale la domanda deve essere dichiarata, se ne è il caso, inammissibile. Perciò di regola il giudice può rilevare anche d'ufficio tale invalidità fino a che la sentenza sia divenuta irrevocabile, salvo che non sia previsto espressamente un termine anteriore. LA DECADENZA La decadenza denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio. L'atto eventualmente compiuto oltre il termine perentorio è giuridicamente invalido. Sono indispensabili alcune premesse di carattere generale. Lo svolgersi del procedimento penale comporta una successione di atti; la successione deve avvenire in un ordine prestabilito. Gli strumenti che impongono una determinata cadenza al procedimento sono denominati termini; essi indicano il momento in cui un atto può o deve essere compiuto. I termini sono definiti perentori o ordinatori in relazione alle conseguenze che la legge collega alla loro inosservanza. Sono denominati termini perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo; se tale periodo è superato, il soggetto decade dal potete di compierlo validamente. Data la gravità delle conseguenze connesse allo scadere di un termine perentorio, il legislatore ha sancito che «i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge». Sono denominati termini ordinatori quelli che fissano il periodo di tempo entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; tuttavia, a differenza dei termini perentori, dal superamento della scadenza non deriva alcuna conseguenza di tipo "processuale": l'atto è validamente compiuto anche se realizzato dopo il decorso del termine. Semmai il soggetto, che lo ha compiuto oltre il termine ordinatorio, può subire conseguenze di tipo disciplinare ove il superamento della scadenza non abbia una valida giustificazione. Avuto riguardo all'effetto che imprimono sullo svolgersi del procedimento, i termini processuali sono definiti dilatori o acceleratori. Termini dilatori: sono quelli con i quali si prescrive che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso; la prassi li definisce "termini liberi". La finalità è quella di garantire che uno (o più) dei soggetti processuali abbia il tempo necessario per prepararsi al compimento di un determinato atto. Ad esempio, l'art. 429, comma 3 afferma che tra la data del decreto che dispone il giudizio e la data fissata per il giudizio medesimo deve decorrere un termine non inferiore a venti giorni. Attraverso questo tipo di termini l'ordinamento dà alle parti la garanzia di disporre del tempo necessario per organizzare la propria difesa. Termini acceleratori: quando la legge prevede il limite temporale entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; la finalità è quella di ottenere che il procedimento si svolga in modo celere al fine di assicurarne la ragionevole durata. Ad esempio, sono acceleratori i termini, entro i quali le parti devono impugnare il provvedimento del giudice. Il regime giuridico della decadenza. Da quanto sinora esposto si desume che al decorso di un termine perentorio il codice ricollega due diverse sanzioni processuali: dal punto di vista soggettivo, e cioè in relazione al soggetto legittimato a compiere l'atto, si fa riferimento al concetto di decadenza, in quanto egli perde il potere di compiere un atto valido; dal punto di vista oggettivo, e cioè in relazione al regime dell'atto compiuto oltre il termine, si fa invece riferimento alla sanzione dell'inammissibilità, nel senso che tale atto, in quanto compiuto oltre il termine, sarà dichiarato inammissibile e non potrà essere valutato dal giudice nel merito. La restituzione nel termine. La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l'inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza. Il codice prevede tre differenti istituti, uno di carattere generale e due di carattere 27 dibattimentali ed inoltre nelle altre occasioni nelle quali è prescritta espressamente (ad es. nell'udienza preliminare); nell'interrogatorio di garanzia; nell'udienza di convalida dell'arresto in flagranza e del fermo.  Sono colpite da nullità intermedia le inosservanze di media gravità che sono disciplinate nell’art. 180 e che riguardano una sfera più ampia di soggetti. Sono rilevabili anche d’ufficio, ma entro determinati limiti di tempo; sono sanabili. Sono definite dalla dottrina "intermedie" perché hanno un trattamento che è simile in parte a quelle assolute (sono rilevate anche d'ufficio dal giudice) e in parte a quelle relative (sono sanabili). Hanno un termine per poter essere dedotte (dalle parti) e rilevate (dal giudice). Se si verificano prima del giudizio, devono essere dedotte dalle parti entro la chiusura del dibattimento e devono essere rilevate dal giudice al momento della deliberazione della sentenza di primo grado. Se le nullità intermedie si verificano nel giudizio, non possono essere dedotte né rilevate dopo la sentenza del grado successivo (art. 180). Fra queste rientrano: - Le inosservanze delle disposizioni attinenti alla “partecipazione” del pubblico ministero al procedimento: si può ricordare la lesione del contraddittorio nei suoi confronti; il non aver richiesto il suo parere quando è necessario. - Le inosservanze concernenti «l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante”. Nel concetto di "intervento" è ricompresa la difesa personale: pertanto dà luogo a nullità intermedia l'aver omesso la informazione di garanzia nei confronti dell'indagato (equiparato all'imputato). È affetto da tale vizio il compimento dell'interrogatorio dell'indagato senza previo avviso al difensore del medesimo, ove l'avviso sia imposto dalla legge. - L’omessa citazione per il dibattimento nei confronti delle parti private diverse dall'imputato (parte civile, responsabile civile, ecc.).  Le nullità relative sono quelle nullità speciali che non rientrano tra quelle assolute e quelle intermedie (art. 181); sono dichiarabili dal giudice su eccezione di parte ed entro brevi limiti di tempo; sono sanabili. I termini per eccepirle sono più brevi di quelli previsti in relazione alle nullità intermedie; si fa riferimento soltanto alla eccezione di parte, proprio perché il giudice di regola non può dichiarare d'ufficio le nullità relative. Una volta eccepite dalla parte interessata, le nullità relative sono dichiarate dal giudice; ove per qualsiasi motivo il giudice non vi provveda prima del giudizio, le parti devono riproporre l'eccezione tra le questioni preliminari (art. 491). Le nullità relative verificatesi nella fase del giudizio e non dichiarate dal giudice devono essere eccepite con l'impugnazione della relativa sentenza. I limiti di deducibilità. Il codice pone una distinzione tra «limiti di deducibilità» e «sanatorie generali». Si tratta di differenti istituti. Il limite di deducibilità dà luogo ad un difetto di legittimazione della parte, di modo che quest'ultima trova un "ostacolo" ad eccepire la nullità. In particolare, le nullità intermedie e quelle relative non possono essere eccepite da colui che «vi ha dato o ha concorso a darvi causa»; né possono essere eccepite da colui che «non ha interesse all'osservanza della disposizione violata». Le sanatorie generali (principio di conservazione degli atti). La sanatoria è quel fatto giuridico ulteriore e successivo rispetto all'atto viziato, che, affiancato a quest'ultimo, lo rende equivalente all'atto valido; a causa della sanatoria l'atto viziato produce gli stessi effetti dell'atto conforme al modello legale. La sanatoria, se si verifica, impedisce a qualsiasi parte di eccepire (ed al giudice di rilevare) la nullità dell'atto. L'istituto è ispirato al principio di conservazione degli atti. Il codice distingue tra sanatorie generali (art. 183) e speciali (art. 184). Le sanatorie generali si applicano alle nullità di tipo intermedio o relativo; non si applicano alle nullità assolute. Ai sensi dell'art. 183, la nullità è sanata se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirla ovvero ha accettato gli effetti dell'atto anche tacitamente. Si tratta di forme di acquiescenza tipizzata, che si possono verificare, ad esempio, quando al difensore dell’imputato non viene dato avviso di 30 un accertamento tecnico non ripetibile, ma il difensore stesso utilizza i risultati di tale accertamento per chiedere al giudice un provvedimento. Altra causa di sanatoria generale si ha quando la parte si è avvalsa della facoltà, al cui esercizio l’atto omesso o nullo è preordinato. Nell’esempio appena fatto, il difensore, non avvisato, nomina un consulente di parte, il quale partecipa all’atto. Si tratta di una forma di sanatoria per raggiungimento dello scopo. La sanatoria speciale delle nullità delle citazioni, avvisi e notificazioni. L'art. 184 prevede una causa speciale di sanatoria che costituisce una ipotesi di raggiungimento dello scopo tipizzata. Ai sensi del primo comma, la nullità di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni o notificazioni è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire. La dichiarazione della nullità. Il giudice dichiara la nullità di un atto quando, nel caso concreto, non vi sono limiti di deducibilità né si sono verificate sanatorie applicabili a quel tipo di nullità. Si pongono a questo punto due problemi: quello attinente all'estensione della nullità e quello attinente alla rinnovazione dell'atto nullo. L'effetto, e cioè la invalidità, colpisce l'atto non conforme al modello legale; ma ai sensi del comma 1 dell'art. 185 «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo». Estensione della nullità. L’effetto, cioè l’invalidità, colpisce l’atto non conforme al modello legale; ma ai sensi del comma 1 dell’art. 185 “la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo”. L'estensione della nullità tocca soltanto gli atti che, oltre ad essere successivi (consecutivi), siano anche «dipendenti» dall'atto viziato. L'estensione della nullità produce effetti gravi allorché il vizio colpisca un atto propulsivo del procedimento. Per atti propulsivi si intendono quegli atti di impulso che devono necessariamente essere compiuti perché il procedimento possa validamente proseguire. Rinnovazione dell'atto nullo. Ai sensi del comma 2 dell'art. 185 il giudice, se dichiara la nullità di un atto, ne dispone la rinnovazione, qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave. La rinnovazione non è possibile quando l'atto è all'origine non ripetibile o lo è diventato successivamente. Il codice pone una distinzione quando la nullità è dichiarata in uno stato o grado del processo diverso da quello in cui la stessa si è verificata. Se si tratta di una prova, il medesimo giudice provvede alla rinnovazione se necessaria e possibile. Se non si tratta di una prova, bensì ad esempio di un atto propulsivo, la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo, salvo che sia diversamente stabilito. L’INUTILIZZABILITA’ Profili generali. Il termine "inutilizzabilità" descrive due aspetti del medesimo fenomeno. Da un lato, esso indica il "vizio" da cui può essere affetto un atto (causa); da un altro lato, esso illustra il "regime giuridico" al quale l'atto viziato è sottoposto (effetto), e cioè il non poter essere messo a fondamento di una decisione del giudice oppure di un atto del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. L'inutilizzabilità è un tipo di invalidità che ha la caratteristica di colpire non l'atto in sé, bensì il suo "valore probatorio". L'atto, pur valido dal punto di vista formale, è colpito nel suo aspetto sostanziale, poiché l'inutilizzabilità impedisce ad esso di produrre il suo effetto principale, che è quello di essere posto a base di una decisione. L’inutilizzabilità assoluta e relativa. L'inutilizzabilità dell'atto è assoluta quando il giudice non può basarsi su di esso per emettere un qualsiasi provvedimento; è relativa, quando la legge indica le persone nei confronti delle quali non può essere utilizzato un determinato atto o la categoria di provvedimenti che non possono basarsi su tale atto. L’inutilizzabilità speciale e generale. Si ha inutilizzabilità speciale ogniqualvolta una norma del codice commini espressamente tale sanzione per il mancato rispetto delle condizioni previste per l'acquisizione di una determinata prova (es. in base all'art. 271 sono inutilizzabili le intercettazioni che siano state «eseguite fuori dei casi consentiti»). L'inutilizzabilità generale si riferisce a categorie di inosservanze delineate nel genere (art. 191, «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate»). 31 Inutilizzabilità patologica e fisiologica. La inutilizzabilità patologica consegue ad alcuni tra i vizi più gravi del procedimento probatorio (ammissione, assunzione e valutazione della prova). La inutilizzabilità fisiologica è una conseguenza del principio della separazione delle fasi del procedimento ed è posta a tutela del principio del contraddittorio nella formazione della prova: essa tende ad evitare che siano utilizzate per la decisione dibattimentale prove raccolte nel corso delle indagini preliminari. L'inutilizzabilità fisiologica differisce da quella patologica nel fondamento normativo e nella regolamentazione. L'inutilizzabilità patologica. L'inutilizzabilità patologica di tipo generale è disciplinata dall'art. 191, comma 1, in base al quale: «le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate». La norma ha una formulazione estremamente generica; tuttavia, essa deve essere interpretata in senso restrittivo in base al principio di tassatività delle invalidità. Occorre ritenere che i divieti idonei a provocare l'inutilizzabilità patologica siano esclusivamente quelli previsti da norme processuali. Ciò è chiarito dalla rubrica dell'art. 191, che si riferisce alle «prove illegittimamente acquisite». Se il divieto avesse avuto ad oggetto la violazione di una legge penale sostanziale, si sarebbe utilizzata l'espressione "prove illecitamente acquisite". Viceversa, la rubrica dell’art. 191 fa riferimento alle prove «illegittimamente acquisite». Pertanto, le prove raccolte violando una norma della legge penale sostanziale (c.d. prove illecite) sono, di regola, utilizzabili; diventano inutilizzabili se è stata violata una specifica norma processuale che disponga in tal senso. Il divieto probatorio. In base all'art. 191 l'inutilizzabilità è la conseguenza che deriva dall'aver acquisito una prova violando un "divieto" probatorio. Il vizio, che viene in considerazione, consiste nel fatto che il giudice ha esercitato nella acquisizione di una prova un "potere istruttorio" che la legge processuale vietava (divieto relativo all'an). Quando è stata violata una semplice "modalità" di assunzione di una prova (divieto relativo al quomodo), questa di regola è utilizzabile. La prova diventa inutilizzabile soltanto se tale sanzione è prevista espressamente dalla legge come conseguenza della violazione di quella determinata modalità di assunzione. Viceversa, la violazione di modalità di assunzione non espressamente poste a pena di inutilizzabilità non sono idonee a far scattare tale sanzione processuale. Il regime giuridico dell'inutilizzabilità. L'inutilizzabilità colpisce non l'atto in sé stesso, bensì il suo valore probatorio. II giudice d'ufficio, o su richiesta di parte, dichiara che l'atto è inutilizzabile. L'art. 191, comma 2, pone la regola secondo cui l'inutilizzabilità deve essere rilevata anche d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento. L'inutilizzabilità non può essere sanata (a differenza della nullità), e ciò perché l'atto è stato compiuto esercitando un potere vietato dalla legge processuale. Inoltre, per la stessa struttura logica del vizio, che consiste nella violazione di un divieto probatorio, non è possibile procedere alla rinnovazione dell'atto: di regola il divieto impedisce che una determinata prova entri nel processo. Principio di tassatività e divieti probatori. Se è pacifico che le ipotesi di inutilizzabilità speciale devono ritenersi tassative, maggiori problemi crea l’applicazione della clausola generale prevista dall’art. 191. Tale norma commina l’inutilizzabilità se è violato un divieto probatorio. L’individuazione dei divieti probatori è rimessa all’interprete. Soltanto se dalla norma processuale è ricavabile con certezza un vero e proprio divieto probatorio, è possibile applicare l’art. 191; ma per poter superare l’ostacolo del principio di tassatività, occorre che in base ad una determinata disposizione sia sottratto in modo assoluto al giudice il potere di ammettere, assumere o valutare quella prova. I divieti probatori impliciti. In dottrina ci si è chiesti se siano configurabili divieti probatori impliciti. Alla conclusione positiva si perviene se si tiene presente che, in alcuni casi, la rigida applicazione del principio di tassatività nella individuazione dei divieti potrebbe creare pericolosi vuoti di tutela. Ben possono esistere ipotesi nelle quali il legislatore non ha sancito un divieto probatorio espresso o comunque ricavabile dal linguaggio legislativo e tuttavia appare necessario sanzionare determinate attività acquisitive con l'inutilizzabilità degli elementi che ne costituiscono il prodotto. Al tema dei divieti probatori impliciti si collega la questione relativa alla configurabilità della cd. prova incostituzionale. Con tale espressione dottrina e giurisprudenza sono solite indicare quegli elementi di prova 32 fatto tipico punibile; infine valuta se il fatto storico che ha accertato rientra nel fatto tipico previsto dalla legge. Dobbiamo precisare il contenuto logico dei tre momenti fondamentali della decisione del giudice: a) L’accertamento del fatto storico. All’inizio del processo il fatto addebitato all’imputato non è certo: l’accusa ne afferma l’esistenza, la difesa in tutto o in parte la nega. Il giudice deve risolvere il conflitto usando lo strumento della ragione. Perché l’accertamento del fatto sia razionale deve avere le seguenti caratteristiche: 1) Basato su prove : la prova è quel ragionamento che da un fatto noto ricava l’esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali si è verificato; 2) Oggettivo : l’accertamento non deve fondarsi sull’intuizione del giudice né su una mera ipotesi, ma su fatti realmente avvenuti dimostrati nel processo; 3) Logico : cioè fondato sui principi che regolano la conoscenza e basato su prove tra loro non contraddittorie. Il giudice deve riportare nella motivazione della sentenza il percorso che ha seguito nella ricostruzione del fatto storico. L’accertamento effettuato dal giudice può dar luogo a due soluzioni alternative: può consistere in un giudizio sull’esistenza di un fatto storico così come descritto nell’imputazione; oppure in una valutazione che esclude che il fatto storico si sia verificato nel modo ipotizzato dall’accusa. In ogni caso si tratta di un giudizio su di un “fatto”. b) L’individuazione della norma penale incriminatrice. Si tratta di un accertamento di tipo “giuridico”. Il giudice interpreta la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Tale accertamento ha come parametro di riferimento il fatto storico indicato nell’imputazione e ricostruito mediante le prove. c) Il giudizio di conformità. Dal punto di vista formale, la decisione pronunciata dal giudice si presenta come una sentenza: essa è composta da una motivazione e da un dispositivo. Nella motivazione il giudice, in base alle prove acquisite nel corso del processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall’imputato; quindi interpreta la legge e individua il fatto tipico previsto dalla norma penale incriminatrice; infine valuta se il fatto storico rientra nel fatto tipico (giudizio di conformità). Nel dispositivo il giudice trae le conseguenze dal giudizio di conformità: se il fatto storico commesso dall’imputato è conforme al fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice, il giudice condanna; se il fatto storico non è conforme al fatto tipico, il giudice assolve l’imputato con una delle formule previste dal codice. 3. Il ragionamento inferenziale: prova e indizio. I significati del termine “prova”. Il termine “prova” può essere utilizzato per indicare differenti concetti: a) Fonte di prova. Sono fonti di prova le persone, le cose e i luoghi dei quali si può trarre un elemento di prova, cioè tutte le informazioni utili per ricostruire un fatto del passato; b) Mezzo di prova. È lo strumento con il quale si acquisisce al processo un elemento che serve per la decisione (Es. La testimonianza); c) Elemento di prova. È l’informazione che si ricava dalla fonte di prova quando ancora non è stata valutata dal giudice nella sua attendibilità e credibilità; d) Risultato probatorio. È l’elemento di prova una volta valutato dal giudice in base ai criteri della credibilità e dell’attendibilità (credibilità > elemento di prova; attendibilità > fonte di prova). Il ragionamento inferenziale. Il fatto storico di reato è avvenuto nel passato: si tratta di un fatto che può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha lasciato. Da tali tracce (elementi di prova) il giudice ricava l’esistenza del fatto passato. La prova nel suo insieme può essere definita come un ragionamento che da un fatto reso noto al giudice ricava l’esistenza di un fatto che è avvenuto in passato e delle cui modalità di svolgimento occorre convincere il giudice. Per questa sua caratteristica il ragionamento probatorio viene definito inferenziale, poiché da un fatto di oggi ricava l’esistenza di un fatto passato. 35 L’oggetto di questo ragionamento è, in primo luogo, il fatto descritto nell’imputazione, e cioè il fatto storico addebitato all’imputato; ma sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la sanzione penale e quelli dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. La prova rappresentativa. Si distingue tra prova rappresentativa e indizio. Con il termine prova rappresentativa si fa riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare. Es. Tizio riferisce di aver visto Caio sparare. Il fatto noto è la dichiarazione di tizio che narra quanto ha visto. Il fatto storico è ricavabile in via diretta dalla dichiarazione perché è rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone; naturalmente il giudice deve poi valutare l’affidabilità della fonte e l’attendibilità della rappresentazione. Detta valutazione è operata di regola attraverso lo strumento dell’esame incrociato che si svolge mediante domande e contestazioni. Frutto delle operazioni è il risultato probatorio. Il giudice, accertato il grado di credibilità della fonte e il grado di attendibilità della rappresentazione, valuta quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente e di ciò deve dare atto nella motivazione. Una volta ritenuta credibile la fonte e attendibile la rappresentazione, il giudice ottiene il seguente risultato probatorio: è ragionevole ritenere che il racconto del testimone corrisponde allo svolgimento del fatto al quale il testimone ha assistito. Al termine del processo, valutati tutti i risultati derivanti dagli elementi di prova acquisiti, il giudice nella motivazione ricostruisce il fatto storico, indicando in base a quali criteri ritiene attendibili le prove poste a supporto della decisione e per quali ragioni ritiene non attendibili le prove contrarie. La prova indiziaria. Con il termine “indizio” si fa riferimento a quel ragionamento che da un fatto provato (circostanza indiziante) ricava l’esistenza di un ulteriore fatto da provare. Il collegamento tra la circostanza iniziante e il fatto da provare è costituito da un’inferenza basata su una massima di esperienza o su una legge scientifica. Appare chiara la differenza con la prova rappresentativa, mediante la quale da un fatto noto si ricava per rappresentazione il fatto da provare. Nella prova critica, viceversa, dal fatto provato si desume l’esistenza del fatto da provare utilizzando un’inferenza, ad esempio una massima di esperienza, che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi. La massima di esperienza. La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi; più precisamente, è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto noto, che si denomina circostanza indiziante. L’esperienza può permettere di formulare un giudizio di relazione tra fatti; vi è una relazione quando si ricava che una categoria di fatti di solito si accompagna ad un’altra determinata categoria di fatti. Questo ragionamento permette di accertare l’esistenza di un fatto storico non con certezza ma con una probabilità più o meno ampia. La massima di esperienza è una regola che dà luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. Tuttavia, non esiste altra possibilità di accertamento, quando non sia disponibile una valida prova rappresentativa. Occorre comunque che il giurista abbia chiari gli aspetti di opinabilità del ragionamento indiziario. Il primo aspetto sta nello stabilire, tra più fatti storici umani non ripetibili, quali sono gli elementi simili e se tali elementi prevalgono, o meno, sugli elementi dissimili. Il secondo aspetto di opinabilità sta nel fatto che, seppure si può notare che il comportamento umano è condizionato in buona parte dagli istinti, tuttavia non è detto che, in concreto, l’agire di una singola persona rispecchi sempre le regole formulate. Le massime di esperienza ci indicano soltanto che vi è la probabilità che una persona, in una situazione simile, possa essersi comportata in modo identico. Per quanto riguarda il metodo di elaborazione della regola di esperienza, il giudice applica un ragionamento di tipo induttivo quando esamina casi simili alla circostanza indiziante e formula una regola di esperienza: da casi particolari ricava l’esistenza di una regola generale. Successivamente, svolge un ragionamento deduttivo, e cioè applica alla circostanza indiziante la regola generale che ricavato in precedenza. Il giudice deve scegliere in modo corretto quale, tra più massime di esperienza, è applicabile al caso concreto, tenuto conto delle particolarità di quest’ultimo. Le regole di esperienza sono carenti dei caratteri di sperimentabilità, generalità e controllabilità tipici delle leggi scientifiche: non sono sperimentabili in quanto il reato è un fatto umano che per sua natura non è 36 riproducibile a comando; non sono controllabili perché non ci sono tecnici del diritto in grado di seguire il nascere di una regola di esperienza e il suo livello di generalità; non sono generali perché le regole del comportamento umano ammettono eccezioni. La legge scientifica. In materie che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, il giudice deve affidarsi a persone che hanno conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina. Da un lato, la legge scientifica dà maggiore certezza, poiché è possibile conoscere esattamente in quanti e in quali casi risulta valida. Da un altro lato, restano sempre margini di opinabilità, poiché si tratta di: scegliere la legge scientifica che deve essere applicata al caso di specie; valutare in quale modo deve essere applicata; individuare i fatti ai quali applicarla. Le leggi scientifiche hanno le caratteristiche della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità. Sono sperimentabili perché il fenomeno scientifico deve essere riconducibile ad esperimenti misurabili quantitativamente: gli esperimenti sono ripetibili dagli scienziati. Da ciò deriva che, in linea di tendenza, le leggi scientifiche sono generali in quanto non ammettono eccezioni o, comunque, il margine di errore è esattamente conosciuto. Infine, le leggi scientifiche sono controllabili perché la loro formulazione è sottoposta alla critica della comunità degli esperti. La regola giuridica di valutazione degli indizi. L’indizio è idoneo ad accertare l’esistenza di un fatto storico di reato soltanto quando sono presenti altre prove che escludono una diversa ricostruzione dell’accaduto. Il principio è formulato dall’art. 192, comma 2: “l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti”. La gravità degli indizi attiene al grado di convincimento: è grave l’indizio che è resistente alle obiezioni e che, pertanto, ha un’elevata persuasività. Gli indizi sono precisi quando la circostanza indiziante è stata ampiamente provata. Gli indizi sono concordanti quando convergono tutti verso la medesima conclusione. Non devono esservi elementi contrastanti; se questi residuano, occorre poter escludere ogni altra ricostruzione prospettabile. Gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti soltanto quando tendono a dimostrare l’esistenza di un fatto. Viceversa, se l’oggetto della prova è un fatto incompatibile con la ricostruzione del fatto storico, operata nell’imputazione, allora è sufficiente anche un solo indizio. Ci riferiamo all’alibi, quel ragionamento attraverso il quale si dimostra che l’imputato non poteva essere a quell’ora sul luogo del delitto perché nel medesimo momento si trovava altrove. Il fatto provato è che l’imputato nell’ora in cui il reato è stato commesso si trovava in un diverso luogo; la massima di esperienza che si applica consiste nella regola in base alla quale la medesima persona non può trovarsi contemporaneamente in due luoghi differenti. Se ne trae la prova che l’imputato non può aver commesso il delitto con le modalità temporali affermati dall’accusa. La peculiarità dell’alibi consiste nel rilievo che si tratta di una prova critica negativa nel senso che mira a dimostrare l’inesistenza dei fatti affermati dall’accusa. Le leggi scientifiche probabilistiche. Fino a questo momento abbiamo accennato alle leggi scientifiche universali, cioè quelle leggi che hanno un elevato grado di predizione (es. leggi della fisica o della chimica). Dobbiamo dare atto che nel processo penale sono utilizzate anche le leggi probabilistiche, che cioè hanno un grado di predizione non elevato; esse possono servire ad accertare un fatto quando si può escludere ogni ricostruzione alternativa del medesimo. Si tratta, ad esempio, delle leggi della scienza medica. Non vi è nessuna autorità scientifica che può determinare qual è il livello sufficiente di probabilità che serve per risolvere un caso concreto. La probabilità statistica, fin qui esaminata, non deve confondersi con un differente concetto che viene individuato con la locuzione “probabilità logica”. Si tratta del giudizio circa l’idoneità di una o più leggi scientifiche a spiegare il singolo caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice. Es. Lo scienziato dice al giudice che 70 volte su 100 una condotta provoca un evento, e che in altri 30 casi su 100 la condotta non genera l’evento (probabilità statistica). Il giudice, invece, partendo da un evento verificatosi, deve stabilire se esso rientra nella percentuale attribuibile alla condotta oppure no (probabilità logica). Per risolvere questo dilemma è evidente che la legge scientifica da sola non basta, ma è soltanto l’esame del complessivo materiale probatorio che consente al giudice di emettere una sentenza. 37 o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti”. Analogo divieto è contenuto nell’art. 64, 2 in relazione all’interrogatorio dell’indagato. La “acquisizione” della prova. Il termine “acquisizione”, riferito alla prova, è utilizzato dal codice in almeno due significati: in senso stretto, indica l’ammissione della prova “precostituita”, e cioè formata fuori dal procedimento o prima del dibattimento; in senso lato, è utilizzato per ricomprendere anche l’ammissione e l’assunzione della prova “non precostituita” qual è la dichiarazione. d) La valutazione della prova. Un’altra occasione in cui si esprime il diritto alla prova è il momento della valutazione della stessa. Le parti hanno il diritto di offrire al giudice la propria valutazione degli elementi di prova. Si tratta del potere di “argomentare” sulla base dei risultati che sono stati acquisiti. Al diritto delle parti corrisponde il dovere del giudice di dare una valutazione logica dell’elemento di prova raccolto: in base all’art. 192 egli “valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, e cioè delle regole di esperienza e delle leggi scientifiche che ha utilizzato. Il giudice, nella motivazione, non può trascurare di esaminare i risultati di una prova che appaia pertinente e rilevante. Per rendere effettivo il diritto delle parti alla valutazione della prova, il codice di procedura penale prescrive che nella sentenza il giudice debba indicare “i risultati acquisiti e i criteri di valutazione della prova adottati con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”. Il libero convincimento. Il giudice è libero di convincersi e, al tempo stesso, è obbligato a motivare razionalmente in relazione all’attendibilità degli elementi di prova e alla credibilità delle fonti, nonché in merito all’idoneità di una massima di esperienza o di una legge scientifica a sostenere l’inferenza sulla quale si basano le ricostruzioni dell’accusa o della difesa. Il principio in esame attribuisce al giudice un potere con precisi limiti. Il libero convincimento deve così consistere in una valutazione razionale delle prove e in una ricostruzione del fatto conforme ai canoni della logica e aderente alle risultanze processuali; il tutto deve trovare riscontro nella motivazione della sentenza. La non configurabilità della prova legale. Nel processo penale non ha ingresso l’istituto della prova legale. In presenza di una prova legale la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova. Un esempio di prova legale nel processo civile è la confessione. Nel processo penale la confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile perché contrastante con le altre prove assunte nel processo, o non credibile. e) La formulazione della miglior ipotesi e il tentativo di smentita. Verificatosi un fatto di reato, l’investigatore ha la necessità di formulare un’ipotesi ricostruttiva su come si è svolta la vicenda. Assumendo che quel fatto consiste in una pluralità di accadimenti, ciascuno dei quali può avere le cause più varie, si tenta di identificare le possibili cause di ciascun accadimento. In questa fase, le leggi scientifiche e le massime di esperienza vengono utilizzate “a ritroso” (dall’effetto B alla causa A, anziché dalla causa A all’effetto B). Vi è, però, una difficoltà: le leggi scientifiche e le massime di esperienza consentono di affermare che, dato l’evento A, seguirà come conseguenza l’evento B; raramente consentono di affermare che, in presenza di un evento B, l’unica causa di esso è l’evento A. Il problema sta nel fatto che, nel processo penale, di regola, colui che deve ricostruire la causa di un evento utilizza inizialmente il suo bagaglio di conoscenze per formulare tutte le ipotesi sulle possibili cause. Tra queste l’investigatore sceglie quella che appare la più probabile in riferimento al caso concreto. Il tentativo di smentita. Formulata un’ipotesi, l’investigatore va a verificare se questa trova effettivamente conferma nella realtà. Es. Se la causa era l’evento A, sappiamo che in base a regole scientifiche o di esperienza dovrebbe essersi verificato anche l’evento C, di solito collegato alla causa A. Quindi si va a cercare se l’evento C si è verificato in concreto. Se non si è verificato quell’evento che dovrebbe esserci, allora si può mettere in dubbio che la legge scientifica o la regola di esperienza sia applicabile al caso concreto. Quando piove (causa A), la strada è bagnata (evento B). Così, intanto, se partiamo dal fatto che oggi la strada non è bagnata, possiamo affermare che non è piovuto. Ma quando domani la strada appare bagnata, non è detto che sia piovuto; può accadere che la strada sia bagnata per altre cause. Al fine di escludere 40 queste ultime, occorre tenere presente che, quando piove, risultano bagnati e non solo la strada, ma anche il terreno e i giardini circostanti (evento C): pertanto se è bagnata la strada ma non i giardini circostanti, la legge scientifica “pioggia” risulta smentita in concreto. La deriva scientista. C’è una tendenza negli ultimi tempi ad attribuire alle leggi scientifiche un carattere risolutivo nella ricostruzione della vicenda processuale. Occorre fare attenzione, perché la legge scientifica permette soltanto di collegare un evento ad una presumibile causa, ma non può accertare l’esistenza di tutti i fatti che si vogliono provare. Anzi, accertato un fatto mediante una legge scientifica, questa non è mai l’ultima inferenza che ci permette di affermare la responsabilità dell’imputato: es. se la scienza dice che quell’impronta appartiene a tizio, questo ci autorizza a ritenere che Tizio abbia toccato quell’oggetto, non che tizio abbia commesso il furto in quell’appartamento, nel quale potrebbe aver avuto accesso per legittime ragioni. L’ultima inferenza. dobbiamo essere consapevoli che la scienza non offre il passaggio finale per la ricostruzione del fatto storico: l’ultima inferenza è sempre legata all’applicazione di una massima di esperienza. 5. La presunzione di innocenza. a) Il principio nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’art. 27,2 Cost. afferma che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. La disposizione è stata tradotta con l’espressione “presunzione di non colpevolezza”. Il problema dell’interpretazione di questo articolo deriva dal fatto che l’assemblea costituente nel 1947 ha voluto combinare in un’unica formula una regola di trattamento e una regola probatoria. La regola di trattamento vuole che l’imputato non sia assimilato al colpevole fino al momento della condanna definitiva; cioè impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione di misure cautelari nei suoi confronti. La regola probatoria vuole che l’imputato sia presunto innocente; cioè tende ad ottenere l’effetto enunciato dall’art. 2728 c.c., secondo cui “le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite”. Pertanto, l’onere della prova ricade sulla parte che sostiene la reità dell’imputato. La regola probatoria è meglio precisata nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Da tutto ciò deriva che la disposizione costituzionale di cui all'art. 27,2 cessa di essere ambigua ed afferma il principio della presunzione di innocenza dell'imputato. La presunzione di innocenza ha una duplice rilevanza: quella interna al processo si manifesta negli istituti dell'onere della prova e nel diritto dell'imputato a restare silenzioso; la ricaduta esterna al processo si manifesta nel diritto dell'imputato a non essere presentato all'opinione pubblica come colpevole finché la sua reità non sia stata legalmente accertata. La presunzione di innocenza è una presunzione legale relativa, e cioè vale finché non sia stato dimostrato il contrario. Pertanto, all’inizio del procedimento l’onere della prova ricade su quella parte che sostiene la reità dell’imputato: cioè al pubblico ministero, sul quale ricade in prima battuta l’onere della prova. L’onere della prova in senso sostanziale impone alla parte di convincere il giudice dell’esistenza del fatto affermato; l’onere in senso formale impone alla parte di chiedere al giudice l’ammissione della prova che reputa utile per adempiere all’onere sostanziale. b) L’onere sostanziale della prova. L’art. 2697 c.c. afferma che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. L’aver soddisfatto l’onere comporta l’accoglimento della domanda. Nel processo penale, in prima battuta, l’onere della prova grava sul pubblico ministero, che è tenuto a dimostrare l’esistenza del fatto addebitato all’imputato. Se colui che accusa ha provato la reità dell’imputato (ossia gli elementi costitutivi del reato), l’onere della prova può considerarsi soddisfatto; a questo punto incombe sull’imputato l’onere della prova contraria. Alla difesa spetta di provare la mancanza di credibilità delle fonti o l’inattendibilità delle prove 41 dell’accusa; oppure, spetta di dare la prova dell’esistenza di fatti favorevoli alla difesa; oppure, ancora, che il fatto può essere ricostruito in un modo diverso. L’imputato può anche provare che egli non ha tenuto la condotta asserita dall’accusa o che un evento non è avvenuto. Si tratta della cd. prova negativa, che cioè tende a dimostrare la fondatezza dell’affermazione che nega l’esistenza di un fatto. La prova negativa è la più difficile da fornire: è più semplice dimostrare l’esistenza di un fatto che l’inesistenza di un fatto. L’unica soluzione è che una parte riesca ad acquisire la prova dell’esistenza di un fatto diverso, che sia logicamente incompatibile con l’esistenza di quello affermato dalla controparte. Un esempio può essere l’alibi. c) L’onere formale della prova. L’onere formale di introdurre la prova è previsto nell’art. 190 c.p.p., secondo cui “le prove sono ammesse a richiesta di parte”. La necessità che la prova sia introdotta a richiesta di parte è espressa con la locuzione “principio dispositivo in materia probatoria”, secondo cui la parte dispone dell’iniziativa volta all’ammissione del mezzo di prova. Si tratta di una regola che nel processo penale è sottoposta a varie eccezioni. In base all’art. 190, 2 c.p.p. “la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio”. Pertanto, le ipotesi nelle quali il giudice introduce il mezzo di prova senza richiesta di parte costituiscono una deroga al principio dispositivo. In particolare, nel corso del dibattimento, terminata l’acquisizione delle prove, il giudice “se risulta assolutamente necessario” può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova (art. 507). d) L’onere di convincere il giudice. Il fatto che una prova sia stata acquisita non comporta automaticamente l’aver soddisfatto l’onere della prova in senso sostanziale. Es. Il giudice può accogliere la domanda del pubblico ministero di ammettere la testimonianza di Caio a carico dell’imputato, ma se Caio, sottoposto ad esame incrociato, appare non attendibile e credibile, il giudice non sarà convinto dell’esistenza del fatto narrato. Una parte soddisfa l’onere sostanziale della prova soltanto dopo che ha convinto il giudice dell’esistenza del fatto storico da essa affermato. A sua volta, la mancata osservanza dell’onere di introdurre un determinato mezzo di prova (onere formale) non comporta inevitabilmente il rigetto della domanda. La prova potrebbe essere acquisita su richiesta di un’altra parte. Una volta acquisito l’elemento di prova, il giudice deve valutare se esso è idoneo a dimostrare l’esistenza di un fatto oggetto di prova, a prescindere dalla circostanza che il relativo mezzo sia stato introdotto dalla parte che aveva l’onere sostanziale della prova di quel determinato fatto. Si tratta del cd. principio di acquisizione della prova. Al giudice spetta il potere residuale di introdurre d’ufficio i mezzi di prova assolutamente necessari “terminata l’acquisizione delle prove” in dibattimento. Il potere esercitabile dal giudice d’ufficio costituisce l’eccezione all’onere della prova in senso formale. Non incide sull’onere sostanziale: l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir meno l’onere del pubblico ministero di provare il fondamento dell’accusa e tantomeno l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti. Il fatto notorio è un fatto di pubblica conoscenza in un determinato ambito territoriale. L’esistenza di un simile fatto è conosciuta dal giudice senza la necessità che le parti chiedano l’ammissione di un determinato mezzo di prova. Il fatto pacifico è un fatto di conoscenza non pubblica; esso è affermato da una parte ed è ammesso esplicitamente o implicitamente dalla controparte. Il fatto pacifico non ha bisogno di essere provato: il giudice può direttamente utilizzarlo come elemento di prova per la sua decisione. Tuttavia il giudice resta libero di valutare se il testimone è credibile e se quanto ha affermato è attendibile. 6. Il quantum della prova (cd. standard probatorio). La quantità di prova necessaria a convincere il giudice è diversa nel processo civile e in quello penale. Processo civile. Nel processo civile lo standard probatorio viene di solito indicato con la regola del “più probabile che non”. L’attore deve provare i fatti costitutivi del diritto, e se la prova da lui fornita appare insufficiente o contraddittoria il giudice rigetta la domanda. Parimenti avviene quando l’onere della prova 42 le altre leggi scientifiche sono probabilistiche: affermano che quel tipo di condotta determina quel tipo di evento non sempre, bensì con un grado di probabilità più o meno alto. E allora si è posto un nuovo problema: non era più vero che nel processo penale era tutto risolto nel momento in cui il perito forniva una legge, perché era chiaro che non sempre, anzi, quasi mai, esiste un’unica legge idonea a spiegare il legame tra condotta ed evento. In più, nel processo penale l’imputato è presunto innocente e si può condannare solo se risulta provato aldilà di ogni ragionevole dubbio che abbia commesso il fatto. Le percentuali di validità delle leggi scientifiche. Tra il 1990 e il 2002 in giurisprudenza si è registrato il formarsi di due orientamenti contrapposti: il contrasto concerneva l’individuazione di quella percentuale di validità statistica della legge che è necessaria e sufficiente per affermare l’esistenza del nesso causale. Un primo orientamento aveva affermato che il nesso causale esisteva soltanto se la legge scientifica aveva un coefficiente percentuale vicino al 100%, e cioè pari alla certezza. Un secondo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità poteva essere ritenuto esistente se vi erano serie ed apprezzabili probabilità che l’evento fosse conseguenza dell’azione. Il punto di riferimento era diventato il processo civile, nel quale lo standard probatorio è il “più probabile che non”: basta che la pretesa dell’attore sia appena più provata di quella del convenuto e quest’ultimo è condannato a pagare. Ma si tratta di percentuali accettabili nel processo civile. La rivoluzione operata dalla Sentenza Franzese. Su questa spaccatura si sono pronunciate le Sezioni unite Franzese. La sentenza è partita dal rilievo che nel processo penale è possibile condannare soltanto se l’esistenza del fatto e la responsabilità dell’autore risultano provate oltre ogni ragionevole dubbio. Poiché il rapporto di causalità è un elemento oggettivo del reato, occorre che sia eliminato ogni dubbio ragionevole anche in relazione alla sussistenza di tale nesso. Il giudice deve ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto sottoposto alla sua attenzione esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Tale giudizio non ha nulla a che vedere con l’astratta percentuale di validità statistica della legge scientifica. Viceversa, occorre un giudizio che viene effettuato in concreto, alla luce di tutte le risultanze processuali e delle peculiarità del caso singolo. Il modello causale bifasico. La Suprema corte ha prospettato quello che è stato definito come modello bifasico di accertamento della causalità. Nella prima fase (ex ante) si ricerca in astratto la legge scientifica applicabile al caso. Occorre valutare tutte le possibili leggi applicabili e decorsi causali ipotizzabili. Identificata la legge che spiega il fenomeno, il giudice non deve accertare l’esistenza del rapporto di causalità in base alla percentuale di validità statistica della legge considerata in astratto. La sentenza Franzese ha messo in evidenza una seconda fase (ex post) nella quale si controlla se il fenomeno verificatosi in concreto può essere spiegato alla luce di quella legge. Occorre poter escludere qualsiasi fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato. È necessario operare un tentativo di smentita sulla validità della legge in concreto, cioè occorre escludere mediante prove che abbiano operato fattori causali alternativi. Il giudizio di alta probabilità logica. Il giudice deve ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento. Ciò comporta che il giudice utilizzi un concetto di probabilità che non è più quella statistica, bensì logica, formulata in relazione alle caratteristiche del caso concreto. La rivoluzione operata è data dal fatto che il giudice può ritenere non esistente il nesso causale anche se la legge scientifica applicabile esprime una probabilità statistica vicino alla certezza. Per contro, il giudice può ritenere che il rapporto di causalità sia fondato su una forte probabilità logica anche qualora venga in gioco una legge scientifica a bassa predittività, purché in tali casi, alla luce di tutte le risultanze probatorie acquisite, appaia provato oltre ogni ragionevole dubbio che esiste un rapporto causale. Il giudice deve escludere con certezza che l’evento sia stato cagionato da altri fattori (procedimento per esclusione). Per poter funzionare, la prova per esclusione si nutre del contraddittorio tra le parti. La probabilità logica si fonda sul tentativo di smentita ed è perfettamente consentanea ad un sistema processuale di tipo accusatorio. 45 CAPITOLO IV I MEZZI DI PROVA 1. Mezzi di prova tipici e atipici. Con l’espressione “mezzo di prova” si vuole indicare quello strumento processuale che permette di acquisire un elemento di prova. Il codice ha previsto sette mezzi di prova tipici, cioè regolamentati dalla legge nelle loro modalità di assunzione (la testimonianza, l’esame delle parti, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziali, la perizia affiancata dalla consulenza tecnica di parte e i documenti). Il codice non ha imposto un’assoluta tassatività dei mezzi di prova; al contrario, a determinate condizioni, ha consentito che possano essere assunti nuovi mezzi di prova. Tuttavia ha imposto al giudice di sentire le parti sulla richiesta di ammissione di una singola prova atipica e di valutarne i requisiti in base all’art. 189. In sintesi, il giudice deve ammettere una prova atipica soltanto se ritiene che questa sia idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudichi la libertà morale della persona. Il concetto di prova atipica. L’ atipicità consiste nell’utilizzare componenti non tipiche all’interno di un mezzo tipico. Es. Il caso in cui la ricognizione di una persona o di una cosa sia effettuata mediante un cane addestrato anziché ad opera di una persona umana. In tale ipotesi la componente atipica sta nel ricognitore, che richiede la predisposizione 46 delle modalità e delle cautele più idonee al caso. Viceversa, il risultato coincide con quello della ricognizione tipica, giacché si tratta di riconoscere un individuo o una cosa tra altre simili. I requisiti della prova atipica. In base all’art. 189 la prova atipica può essere ammessa se presenta due requisiti:  Deve essere “idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti”: ciò vuol dire che deve essere in concreto capace di fornire elementi attendibili e di permettere una valutazione sulla credibilità della fonte di prova;  Deve assicurare “la libertà morale” della persona-fonte di prova: cioè, deve lasciare integra la facoltà di determinarsi liberamente rispetto agli stimoli. Le modalità di assunzione della prova atipica sono prescritte dal giudice dopo aver sentito le parti. L’ordinanza del giudice che accoglie o respinge la richiesta è controllabile mediante l’impugnazione della sentenza. Es. Nel caso della ricognizione effettuata mediante cane addestrato, il giudice, sentite le parti, dovrà accertare l’idoneità di tale particolare procedura a ottenere l’accertamento dei fatti e regolerà lo svolgimento dell’atto con le modalità più adatte alle peculiarità dell’esperimento da effettuare. Il principio di legalità della prova. È possibile affermare che il sistema delineato è fondato sul principio di legalità della prova, in base al quale quest’ultima costituisce uno strumento di conoscenza disciplinato dalla legge. La dottrina è unanime nel richiamare l’attenzione sulla necessità che la prova atipica non si risolva in uno strumento per aggirare i requisiti delle prove tipiche. Dal sistema è ricavabile il principio di non sostituibilità, che vieta l’aggiramento di quelle forme probatorie che sono poste a garanzia dei diritti dell’imputato o dell’attendibilità dell’accertamento. In casi del genere, si configura un divieto probatorio a pena di inutilizzabilità degli elementi acquisiti. La cd. ricognizione informale in dibattimento. Proprio in quest’ottica, assai discussa è la figura della ricognizione informale dell’imputato: in dibattimento il PM chiede al testimone se è presente nell’aula l’autore del reato. La giurisprudenza ammette tale strumento perché ritiene che nel corso del mezzo di prova tipico, qual è la testimonianza, si possa introdurre un elemento atipico. Tuttavia la dottrina ha ritenuto applicabile il menzionato principio di non sostituibilità tra metodi probatori, secondo cui le caratteristiche essenziali di una prova (es. la ricognizione) non possono essere eluse attraverso l’impiego di differenti modalità acquisitive (es. la testimonianza). Con specifico riguardo alla ricognizione informale, mentre la testimonianza si svolge mediante l’esame incrociato, la ricognizione deve avere luogo in un contesto idoneo ad eliminare la tensione emotiva del ricognitore. Per questi motivi, la ricognizione informale deve, comunque, ritenersi viziata nella sua attendibilità. 2. LA TESTIMONIANZA. Considerazioni preliminari. Il codice distingue in modo netto tra due mezzi di prova: la testimonianza e l’esame delle parti. Il testimone ha l’obbligo penalmente sanzionato di presentarsi al giudice e di dire la verità; viceversa l’ imputato, quando si offre all’esame incrociato, non ha l’obbligo di presentarsi, né l’obbligo di rispondere alle domande, né l’obbligo di dire la verità. La distinzione trova conferma nella normativa sull’incompatibilità a testimoniare: in base all’art. 197 la qualità di imputato è di regola incompatibile con la qualità di testimone. La qualità di testimone. La qualità di testimone può essere assunta dalla persona che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova ma che, al tempo stesso, non riveste una delle qualifiche alle quali il codice riconduce l’incompatibilità a testimoniare (imputato, imputato di un procedimento connesso o collegato, responsabile civile, soggetto civilmente obbligato per la pena pecuniaria). La persona così delineata diventa testimone soltanto se e quando su richiesta di parte (o d’ufficio nei casi previsti) è chiamata a deporre davanti ad un giudice nel procedimento penale. Gli obblighi del testimone. 1) In primo luogo, ha l’obbligo di presentarsi al giudice: se non si presenta senza un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo al pagamento di una somma nonché alle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa; 47  In terzo luogo, le dichiarazioni, per sentito dire, che sono vietate, sono quelle rese “nel corso del procedimento”; l’espressione deve essere intesa nel senso di “in occasione” di un atto tipico e non “durante la pendenza” del procedimento. Pertanto quel testimone che ha assistito ad un colloquio tra un indagato e un’altra persona o che ha ricevuto una dichiarazione fuori di un atto del procedimento, può legittimamente riferire quanto sentito dire;  Infine, il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che abbiano una valenza di “prove”, e non quelle che siano rilevanti come “fatti storici di reato” che devono essere necessariamente accertati mediante un processo penale. Le dichiarazioni rese dall’imputato nel corso di programmi terapeutici. In base all’art. 62, 2, il divieto di testimonianza indiretta “si estende alle dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall’imputato nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori” . La ratio della disposizione consiste nel garantire l’efficacia del trattamento di recupero, assicurando all’imputato che le sue dichiarazioni non potranno avere ingresso nel procedimento a suo carico. La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: l’ambito del divieto. L’art. 195, 4 stabilisce che “gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto” né delle sommarie informazioni assunte da testimoni o imputati connessi, né delle denunce, querele o istanze che hanno ricevuto oralmente, né delle “sommarie informazioni rese” e delle “dichiarazioni spontanee ricevute” dall’indagato. Il divieto ha la sua giustificazione nel principio del contraddittorio, secondo cui le dichiarazioni rese durante le indagini non sono di regola utilizzabili. Infatti, se la polizia potesse riferire al giudice le dichiarazioni ricevute durante le indagini, le dichiarazioni medesime diventerebbero utilizzabili per la decisione e sarebbe aggirata la regola dell’inutilizzabilità fisiologica, che tutela il contraddittorio nella formazione della prova. Gli “altri casi” nei quali è ammessa la dichiarazione indiretta. L’art. 195, 4 stabilisce che, fuori dall’ipotesi di espresso divieto, la testimonianza indiretta della polizia è ammessa e si applicano le comuni norme sulla testimonianza indiretta. Gli “altri casi” ammessi per la testimonianza indiretta sono quelli nei quali la polizia è chiamata a riferire su dichiarazioni ricevute fuori dall’esercizio delle proprie funzioni. Vi sono anche i casi nei quali non vi è “sentito dire” perché la polizia riferisce dichiarazioni prive di contenuto narrativo (si pensi a quando la polizia percepisce un ordine, una minaccia, un avvertimento, un’offesa). In tali casi solo formalmente siamo dinanzi a “dichiarazioni” perché non c’è un contenuto narrativo: la deposizione della polizia ha piuttosto per oggetto fatti. Le dichiarazioni rese alla polizia e non verbalizzate. La formulazione dell’art. 195, 4 ha dato luogo ad un ulteriore problema interpretativo: poiché la norma vieta determinate modalità di acquisizione delle dichiarazioni, e cioè vieta la deposizione per sentito dire di quelle dichiarazioni che risultano dal verbale, ci si è chiesti se fosse consentita la deposizione indiretta sulle informazioni non verbalizzate. La corte costituzionale ha applicato i principi del diritto di difesa e del giusto processo ed ha negato alla polizia giudiziaria la possibilità di deporre su dichiarazioni non verbalizzate: ha affermato che, quando esistevano in concreto le condizioni per verbalizzare, la testimonianza indiretta è vietata. Viene così rafforzato quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha ammesso la testimonianza indiretta sulle dichiarazioni non verbalizzate quando redigere la documentazione risultava impossibile. L’incompatibilità a testimoniare. Il codice pone, in via generale, la regola secondo cui ogni persona ha la capacità di testimoniare (art. 196); prevede poi una serie di eccezioni, che consistono in situazioni di incompatibilità relative ad un determinato procedimento (art. 197). La regola permette che si assumano come testimoni sia l’infermo di mente sia il minorenne. In questi casi il giudice dovrà valutare con particolare attenzione la credibilità del dichiarante e l’attendibilità della dichiarazione; egli può verificare l’idoneità fisica o mentale del soggetto chiamato a deporre ordinando gli 50 “accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge”. Ma l’esame sulla credibilità in generale, operato dal perito, va tenuto distinto dalla valutazione sulla “attendibilità della prova, che rientra nei compiti esclusivi del giudice”. Al generale obbligo di testimoniare si pongono, come eccezioni, le situazioni di incompatibilità previste nell’art. 197. L’incompatibilità a testimoniare ricorre quando una persona, pur capace di deporre, non è legittimata a svolgere la funzione di testimone in un determinato procedimento penale a causa della posizione assunta in tale procedimento o a causa dell’attività ivi esercitata. La ratio dell’incompatibilità. Le situazioni di incompatibilità sono ricollegabili a due ordini di ragioni:  Le prime tre ipotesi (lettere a, b, c) vogliono escludere che alcune persone abbiano un obbligo, penalmente sanzionato, di dire il vero; infatti tali soggetti non possono testimoniare, bensì possono dare il loro contributo conoscitivo senza un obbligo penale di dire la verità, con quel mezzo di prova denominato “esame delle parti”;  Da un altro lato, le situazioni previste nell’art. 197, comma 1, lettera d, vogliono escludere che possano deporre quei soggetti che hanno svolto nel medesimo procedimento le funzioni di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario o altre funzioni incompatibili con quella di testimone. Art. 197, lettera a: Non possono essere assunti come testimoni gli imputati concorrenti nel medesimo reato (o situazioni assimilate: cooperazione colposa o condotte indipendenti che hanno determinato un unico evento). L’incompatibilità opera a prescindere dal fatto che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati. I soggetti menzionati possono essere chiamati a rendere testimonianza quando “nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile” di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. Art. 197, lettera b: di regola non possono essere assunti come testimoni: 1) Gli imputati in procedimenti legati da una connessione debole , e cioè nel caso in cui reati per cui si procede “sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri” (connessione teleologica); 2) Gli imputati in procedimenti collegati (ad esempio quando la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza > cd. collegamento probatorio). Alla regola dell’incompatibilità prevista dalla lettera b, sono state poste due eccezioni: a) I soggetti menzionati possono deporre come testimoni quando nei loro confronti è stata emessa sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento; b) Gli imputati menzionati divengono compatibili con la qualifica di teste se, nel corso dell’interrogatorio, hanno reso dichiarazioni su fatti “altrui”, e cioè concernenti la responsabilità di altri imputati collegati o connessi teleologicamente. In questo caso la compatibilità è parziale, perché è limitata ai fatti altrui, oggetto delle precedenti dichiarazioni. Su fatti diversi restano incompatibili. Art. 197, lettera c: non possono essere assunte come testimoni le persone che, nel medesimo processo, sono presenti nella veste di responsabile civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Esse possono rendere dichiarazioni in qualità di parti e, quindi, senza l’obbligo di dire il vero. Art. 197, letta d: non possono essere assunti come testimoni: 1) Coloro che, nel medesimo procedimento, svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario. L’incompatibilità si fonda sul rilievo che le predette persone non sono psichicamente terze rispetto agli atti compiuti. 2) Sono altresì incompatibili “il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione” dell’intervista o che hanno redatto la relazione che recepisce le dichiarazioni scritte ai sensi dell’art. 391-ter. Poiché l’art. 197 è una norma che fa eccezione al generale obbligo di testimoniare, le menzionate ipotesi di incompatibilità devono essere interpretate restrittivamente. Pertanto, il difensore che ha compiuto un’investigazione è incompatibile a testimoniare sul contenuto dell’attività che ha svolto; per il resto, è compatibile come testimone. Le domande autoincriminanti. Il privilegio contro l’autoincriminazione. Il codice accoglie la regola generale in base alla quale il testimone ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte nel corso dell’esame (art. 198). Tuttavia può accadere che siano formulate domande che potrebbero indurre il testimone ad auto-incolparsi di qualche reato. Una situazione del genere non è compatibile con la costituzione, che garantisce i diritti fondamentali dell’individuo, tra i quali rientra anche il diritto di non incriminare sé stesso. Per questo motivo, il codice 51 tutela il testimone e stabilisce che egli “non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale” (art. 198, comma 2). Il privilegio contro l’autoincriminazione. La situazione giuridica soggettiva, regolamentata dall’art. 198, comma 2, può essere definita “privilegio”, perché si prevede un’esenzione da un regime ordinario, che è appunto l’obbligo di deporre. Alla posizione soggettiva del teste non corrisponde, a carico di chi lo interroga, l’obbligo di informarlo che può non rispondere. Né è vietato alle parti di rivolgere domande autoincriminanti al testimone. In ogni caso, il testimone è libero, se crede, di rispondere. Il destinatario del divieto. L’art. 198, 2 stabilisce un divieto probatorio che ha come destinatario il giudice. A fronte di una domanda potenzialmente autoincriminante, si possono verificare varie ipotesi: 1) Il testimone rifiuta di rispondere opponendo che la domanda è autoincriminante. In questo caso egli deve dare opportuna giustificazione. Il giudice valuta le giustificazioni addotte e, se le ritiene infondate, può rinnovare al testimone l’avvertimento che ha l’obbligo di dire la verità. Se invece le giustificazioni sono fondate, il codice impone al giudice un divieto probatorio in forza del quale egli non può costringere il testimone a parlare, pena l’inutilizzabilità della risposta. 2) Il testimone risponde. Una volta che il testimone abbia, rispondendo a una domanda, reso una dichiarazione dalla quale emergono indizi di reità a suo carico per un reato pregresso, in base all’art. 63, l’autorità procedente deve per prima cosa interrompere l’esame; in secondo luogo deve avvertire il soggetto che “a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti”; infine deve invitarlo a nominare un difensore. Quanto al valore probatorio delle dichiarazioni, il codice prevede una inutilizzabilità soggettivamente relativa: esse non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese. Dichiarazioni rese da un testimone che avrebbe dovuto essere sentito come indagato o imputato. L’art.63, comma 2 contiene una previsione ulteriore, relativa alle dichiarazioni rese da una persona che avrebbe dovuto essere sentita fin dall’inizio dalla polizia o dall’autorità giudiziaria in qualità di indagato o di imputato. Poiché gli inquirenti avrebbero dovuto sentire quella persona nella qualità di indagato o di imputato, avvertendola della facoltà di non rispondere, il codice commina l'inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese da tale soggetto: le dichiarazioni non possono essere utilizzate né contro la persona che le ha rese, né contro altre persone. Il testimone prossimo congiunto dell’imputato. I prossimi congiunti dell’imputato non possono essere obbligati a deporre come testimoni e, pertanto, devono essere avvisati della facoltà di astenersi dal deporre (art. 199). Ciò avviene in sintonia con l’art. 384 del codice penale, in base al quale non è punibile chi ha commesso falsa testimonianza “per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore”, qual è la condanna penale. L’avviso della facoltà di astenersi dal deporre. Il prossimo congiunto dell’imputato deve ricevere a pena di nullità l’avviso della facoltà di astenersi dal deporre e la richiesta se intende avvalersi di tale facoltà. Devono essere avvisate, in quanto prossimi congiunti, le seguenti persone: gli ascendenti; i discendenti; il coniuge; la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso; i fratelli e le sorelle; gli affini nello stesso grado; gli zii e nipoti; colui che è legato all’imputato da un vincolo di adozione. Il codice di procedura penale impone che il testimone prossimo congiunto dell’imputato sia avvisato dal giudice della facoltà di astenersi dal rendere la deposizione. Durante l’indagine gli avvisi devono essere rivolti dal pubblico ministero; i medesimi avvisi devono essere rivolti dalla polizia giudiziaria in base all’analogo rinvio operato dall’art. 351. Se l’avviso è omesso, la dichiarazione resa è affetta da nullità relativa. Nel caso in cui il prossimo congiunto, regolarmente avvisato, decida di deporre come testimone, egli ha l’obbligo di rispondere secondo verità a tutte le domande; non può decidere di non rispondere a singole domande. Pertanto, se rifiuta di rispondere o depone il falso, egli commette reato di falsa testimonianza. Le persone assimilate ai prossimi congiunti. Il codice elenca una serie di persone che hanno la mera facoltà di non rispondere alle sue domande che concernono fatti verificatisi (o appresi dall’imputato) durante la convivenza coniugale con il medesimo. Si tratta delle seguenti persone: colui che, come il coniuge di fatto, o come parte di un’unione civile di fatto, conviva con l’imputato o abbia con egli convissuto; il coniuge 52 costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato”. I pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato. Quando la persona che ha una delle predette qualifiche e che è sentita in qualità di testimone o imputato o altro tipo di dichiarante, oppone l’esistenza di un segreto di Stato, l’autorità giudiziaria procedente ha due obblighi: deve procedere al cd. interpello informando il presidente del Consiglio dei Ministri e chiedendo l’eventuale conferma del segreto; inoltre deve sospendere ogni iniziativa volta ad acquisire e ad utilizzare la notizia oggetto del segreto. Se entro 30 giorni dalla notificazione della richiesta il presidente del Consiglio dei Ministri non dà conferma del segreto, l’autorità giudiziaria acquisisce la notizia e provvede per l’ulteriore corso del procedimento: il dichiarante è svincolato dal segreto di Stato e deve deporre. Se il presidente del Consiglio dei Ministri con atto motivato conferma l’esistenza del segreto di Stato, è previsto un divieto probatorio ampio: il giudice ed il pubblico ministero non possono né acquisire né utilizzare neanche indirettamente le notizie coperte dal segreto. Se per la definizione del processo risulta essenziale la conoscenza di quanto coperto dal segreto di Stato, il giudice deve dichiarare di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato. Il segreto di polizia sugli informatori. Un’altra specie di segreto è quella che consente di non rivelare i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Legittimati ad opporre tale segreto sono sia gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, sia il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare. 3. L’ESAME DELLE PARTI. Considerazioni generali. È denominato “esame delle parti” il mezzo di prova mediante il quale le parti private possono contribuire all’accertamento dei fatti nel processo penale. Possono definirsi “generali” le seguenti regole: a) Il dichiarante non ha l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità né di essere completo nel narrare i fatti; inoltre egli ha la facoltà di non rispondere alle domande; b) Le dichiarazioni sono rese secondo le norme sull’esame incrociato: le domande sono formulate di regola dal pubblico ministero e dai difensori delle parti private nell’ordine indicato nell’art. 503; c) Le domande devono riguardare i fatti oggetto di prova. L’esame delle parti è sottoposto a regimi giuridici diversi in ragione della persona che rilascia la dichiarazione. Il primo regime concerne l’imputato chiamato a deporre nel proprio procedimento sul fatto a lui addebitato; il secondo regime riguarda le parti private diverse dall’imputato; il terzo regime concerne quegli imputati in procedimenti connessi o collegati, chiamati a deporre su fatti concernenti la responsabilità altrui. A. L’esame dell’imputato. Il primo regime giuridico riguarda l’esame dell’imputato nel proprio procedimento (art. 208). L’esame ha luogo soltanto su richiesta o consenso dell’interessato, cioè soltanto se l’imputato lo chiede, o se vi consente quando è chiesto da una parte. Il “mancato consenso” non può essere valutato dal giudice in senso negativo per l’imputato. Tuttavia sortisce un qualche effetto: quando la difesa afferma l’esistenza di un fatto, il rifiuto di sottoporsi all’esame, opposto da quell’imputato, che potrebbe confermarne l’esistenza, non permette a questi di adempiere l’onere della prova, e cioè all’onere di convincere il giudice che quel fatto è avvenuto. La possibilità di mentire. L’imputato non è vincolato all’obbligo di rispondere secondo verità; infatti, egli non è testimone. L’imputato può dire il falso senza incorrere in conseguenze penali: infatti, da un lato, non può commettere il delitto di falsa testimonianza, proprio perché non riveste la qualifica di testimone e la falsa testimonianza è un reato che può essere commesso soltanto da chi depone in tale veste; da un altro lato, l’imputato, qualora con false dichiarazioni commetta altri reati contro l’amministrazione della giustizia, beneficia della causa di non punibilità stabilita dall’art. 384 c.p. in favore di chi agisce costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pericolo nella libertà o nell’onore. Tuttavia, l’art. 384 c.p. è 55 inapplicabile in relazione ai delitti di calunnia e di simulazione di reato. Pertanto, l’imputato è punibile se afferma falsamente essere avvenuto un reato che nessuno ha commesso (simulazione di reato) o se incolpa di un reato un’altra persona, sapendola innocente (calunnia). L’aver detto il falso, se costituisce fatto non punibile per l’imputato, tuttavia può provocare conseguenze almeno dal punto di vista processuale. Se durante l’esame incrociato risulta che l’imputato ha mentito, da quel momento egli può essere ritenuto non credibile; le altre affermazioni che abbia reso difficilmente potranno convincere il giudice. Ecco perché generalmente il difensore consiglia all’imputato di avvalersi del diritto al silenzio, piuttosto che affermare il falso. Il diritto al silenzio. Nel corso dell’esame l’imputato può rifiutarsi di rispondere ad una qualsiasi domanda; del suo silenzio deve essere “fatta menzione nel verbale”. Infine, l’imputato ha il privilegio di poter affermare di aver “sentito dire” qualcosa, senza essere vincolato alle condizioni di utilizzabilità poste dall’art. 195; infatti egli può non indicare la fonte da cui ha appreso l’esistenza di un fatto. B. Le parti private diverse dall’imputato. Il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e la parte civile, che non debba essere esaminata come testimone, sono sottoposti all’esame incrociato sulla base delle regole generali previste dal codice per l’esame delle parti: 1) Sono esaminati soltanto se richiedono il proprio esame o vi consentono; 2) Possono non rispondere alle domande; 3) Non rispondono di falsa testimonianza, poiché non sono testimoni; 4) Se affermano di aver “sentito dire”, valgono le ordinarie condizioni di utilizzabilità previste dall’art. 195. La parte civile, quando è chiamata a testimoniare, è obbligata a deporre in tale qualità e non come parte privata; di conseguenza, assume l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. C. L’esame di persone imputate in procedimenti connessi o collegati. I contributi probatori dell’imputato connesso o collegato. L’imputato connesso o collegato può contribuire all’accertamento dei fatti con quattro differenti strumenti di prova. Ciascuno deve essere esaminato separatamente, poiché ha un differente regime normativo. I contributi sono i seguenti: 1) Esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato e situazioni assimilate; 2) Esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente; 3) Testimonianza assistita prima della sentenza irrevocabile; 4) Testimonianza assistita degli imputati giudicati. Possiamo definire “imputato connesso o collegato” l’imputato di quel procedimento che ha, rispetto al procedimento principale, un rapporto di connessione (art. 12) o di collegamento probatorio (art. 371, 2, b) a prescindere dalla circostanza che i rispettivi procedimenti siano riuniti o separati. L’esame di tali soggetti rinviene la sua disciplina nell’art. 210, che predispone una duplice regolamentazione, in ragione del tipo di connessione che intercorre tra i procedimenti. Disciplina comune agli imputati connessi o collegati. In linea generale gli imputati connessi o collegati godono delle medesime garanzie che sono riconosciute all’imputato principale. L’unica differenza consiste nel fatto che l’imputato connesso o collegato ha l’obbligo di presentarsi per rendere l’esame. Se non si presenta, il giudice “ne ordina l’accompagnamento coattivo”. Poiché si tratta di una persona che, parlando, rischierebbe di incriminarsi, l’imputato connesso o collegato deve essere avvisato della facoltà di non rispondere. Ma, se egli rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi a proprio carico, l’autorità procedente non deve interrompere l’esame, né dare avvertimenti, né invitarlo a nominare un difensore. L’esame prosegue normalmente, poiché l’art. 63 non è applicabile. Inoltre, per gli stessi motivi, l’imputato connesso collegato deve essere assistito da un difensore. 1) L’esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato (art. 12, lett. a). Il codice detta una disciplina apposita per l’imputato di un procedimento connesso nell’ipotesi di concorso nel medesimo reato e situazioni assimilate. Tale soggetto, “imputato concorrente”, è incompatibile con la qualifica di testimone, fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. 56 Es. A e B imputati di aver commesso il furto di una autovettura in concorso tra loro. Occorre che l’esame dell’imputato connesso sia stato chiesto da una delle parti del procedimento principale o, nei casi previsti dalla legge, sia stato disposto d’ufficio dal giudice. Se l’imputato concorrente decide di rispondere, egli non ha l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. Può dire il falso senza incorrere nel delitto di falsa testimonianza perché egli non è un testimone. Gli altri reati commessi con false dichiarazioni sono scusati, con il limite valido per l’imputato in base all’art. 384 del c.p.: restano punibili soltanto la calunnia e la simulazione di un reato. La facoltà di non rispondere riguarda sia le domande sul fatto di reato a lui addebitato come imputato concorrente, sia le domande su fatti commessi dall’imputato del procedimento principale. L’imputato concorrente può tacere anche se la domanda non è suscettibile di assumere un significato autoincriminante. L’imputato del procedimento principale, accusato dall’imputato concorrente nel reato, ha solo formalmente il diritto di contro-esaminare tale soggetto: costui può legittimamente rifiutarsi di rispondere a tutte o ad alcune delle domande e può dire il falso anche se depone su di un fatto altrui. 2) L’esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente. L’art. 210, 6 stabilisce un regime peculiare per gli imputati legati da una connessione debole (teleologica) (art. 12, lett. C) o collegati (art. 371, 2) che “non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato”. Si tratta di persone che sono incompatibili a testimoniare. A loro si applicano comunque le disposizioni comuni all’imputato connesso o collegato: - Hanno il dovere di presentarsi; - Sono assistiti da un difensore; - Sono avvisati che hanno la facoltà di non rispondere. Una disposizione specifica impone che gli imputati collegati o connessi teleologicamente siano altresì avvertiti che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno la qualifica di teste limitatamente a tali fatti (art. 64,3). L’imputato connesso teleologicamente o collegato ha facoltà di tacere e, se parla, non ha obbligo di verità. Tuttavia, se rende dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, da quel momento egli diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito limitatamente ai fatti dichiarati. Una differente interpretazione. Dalle medesime disposizioni è stata ricavata una differente interpretazione di tipo meramente letterale: in base all’art. 210, 6, alle persone imputate in procedimenti collegati o connessi teleologicamente “è dato l’avvertimento” che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno in ordine a tali fatti l’ufficio di testimone; “e, se esse non si avvalgono della facoltà di non rispondere, assumono l’ufficio di testimone” . In base a questa differente interpretazione, a far scattare il mutamento di veste del dichiarante è la sola manifestazione della volontà di rispondere, che impone subito le formalità di espletamento della testimonianza: il giudice deve ammonire sull’obbligo di dire la verità e il testimone può essere punito per falsa testimonianza. Tuttavia una simile esegesi trascura la sistematica del codice per due motivi: - Anzitutto, perché la disciplina delle incompatibilità stabilisce che l’imputato collegato o connesso teleologicamente è incompatibile con la qualità di testimone fino a quando non ha reso dichiarazioni su fatti altrui (art. 197). Per contro, l’interpretazione che critichiamo dà rilevanza ad un inciso contenuto esclusivamente nell’art. 210, 6, secondo cui l’incompatibilità a testimoniare cesserebbe anche solo se l’imputato collegato o connesso teleologicamente decidesse di rispondere. - In secondo luogo, l’interpretazione criticata determinerebbe una vistosa asimmetria tra quanto accade nel corso dell’indagini e quanto accade in dibattimento: mentre nel corso dell’interrogatorio è solo la dichiarazioni sul fatto altrui a far perdere l’incompatibilità a testimoniare, in dibattimento la caduta dell’incompatibilità conseguirebbe alla mera scelta di parlare a prescindere dal contenuto delle dichiarazioni. Il riscontro delle dichiarazioni rese dall’imputato connesso o collegato. 57 che lo riguarda è diventata irrevocabile. L’imputato giudicato può sempre essere chiamato come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui o non ha ricevuto l’avviso previsto dall’art. 64, comma 3. In questo caso l’imputato connesso o collegato “giudicato” è un testimone permanente. L’obbligo di rispondere secondo verità non è limitato al fatto altrui su cui ha già reso dichiarazioni. Gli imputati connessi o collegati: - Che sono stati condannati; - Ai quali è stata applicata la pena su richiesta (patteggiamento); - Che sono stati assolti con formule terminative non completamente liberatorie a) Possono essere “sempre” chiamati come testimoni assistiti in un procedimento collegato o connesso; b) Sono sentiti come testimoni assistiti con l’obbligo di verità penalmente sanzionato. In loro favore opera la garanzia in base alla quale le dichiarazioni rese non sono utilizzabili “contro la persona che le ha rese” nel procedimento a suo carico, nell’eventuale procedimento di revisione della sentenza di condanna e in qualunque processo civile o amministrativo relativo al fatto oggetto delle sentenze o dei procedimenti medesimi; c) Godono del privilegio contro l’autoincriminazione su fatti diversi da quelli giudicati. Per contro, di regola non hanno il privilegio sul giudicato. Gli imputati connessi o collegati: - Che sono stati assolti con una sentenza irrevocabile “per non aver commesso il fatto” o “perché il fatto non sussiste” a) Devono essere trattati in modo simile al testimone comune, in quanto sono in una situazione di assoluta indifferenza rispetto ai fatti oggetto del procedimento: l’assoluzione irrevocabile con formula piena ha sancito l’estraneità di costoro rispetto al fatto, resa ancora più stabile dal principio del ne bis in idem, in base al quale il processo non potrà più essere riaperto nei loro confronti; b) Di conseguenza, tali soggetti devono essere esaminati senza l’assistenza di un difensore e senza che sia indispensabile acquisire un riscontro esterno; c) Resta ferma la disciplina della inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni; d) Quanto al privilegio contro l’autoincriminazione tale dichiarante è obbligato a rispondere secondo verità sul fatto proprio coperto dalla sentenza irrevocabile. Per contro, gode del normale privilegio contro l’auto incriminazione in relazione a fatti diversi da quello per cui si è proceduto a suo carico. La deposizione degli indagati o imputati connessi in caso di archiviazione o di non luogo a procedere.  La situazione conseguente alla sentenza di non luogo a procedere. L’art. 197 non menziona la sentenza di non luogo a procedere tra i provvedimenti che determinano la cessazione dell’incompatibilità a testimoniare. Pertanto, valgono le regole generali per cui gli imputati nei confronti dei quali sia stato pronunciato un provvedimento di non luogo a procedere per un reato connesso o collegato a quello per cui si procede. Ne deriva che: a) Gli imputati connessi per concorso nel medesimo reato che siano stati oggetto di sentenza di non luogo a procedere, sono radicalmente incompatibili con la qualifica di teste e sono esaminati ai sensi dell’art. 210, comma 1; b) Viceversa, gli imputati collegati o connessi teleologicamente, che siano stati oggetto di non luogo a procedere, sono compatibili come testimoni nei limiti dell’art. 64, comma 3, lett. c. Di conseguenza, sono sentiti come testimoni assistiti se hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui precedute da rituale avvertimento. In caso contrario, sono esaminati ai sensi dell’art. 210, comma 6.  La situazione conseguente al provvedimento di archiviazione. L’art. 197, lett. a e b non menziona neppure l’archiviazione tra i provvedimenti terminativi che fanno cessare l’incompatibilità a testimoniare. Pertanto anche in questo caso gli ex indagati continuano a restare nell’area dell’incompatibilità a testimoniare e devono essere trattati in maniera identica agli imputati nei cui confronti sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere: gli ex indagati connessi ai sensi dell’art. 12, lett. a restano sempre incompatibili; gli ex indagati collegati connessi teleologicamente divengono compatibili se rendono dichiarazioni sul fatto altrui. 60 Viceversa, nella giurisprudenza di legittimità si sono registrati differenti soluzioni. Le Sezioni Unite della Cassazione, nel risolvere il contrasto, hanno prospettato una soluzione innovativa, con riferimento all’indagato nei cui confronti sia stata disposta archiviazione. Ad avviso della Cassazione, la persona nei cui confronti sia stata disposta archiviazione, non rischia più nulla e deve essere equiparata alla persona che non ha mai avuto un procedimento a proprio carico. La soluzione non è accettabile perché lascia senza tutela l’archiviato: in qualunque momento, infatti, le indagini a suo carico possono essere riaperte. Considerazioni sulla disciplina della testimonianza assistita. La dottrina si è posta il problema se quella prevista nell’art. 197-bis sia una testimonianza volontaria o coatta. Alcuni ritengono che la testimonianza assistita sia volontaria per due motivi: in primo luogo perché sono dati all’indagato gli avvisi che “ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda” e che “se renderà dichiarazioni su fatti altrui, assumerà l’ufficio di testimone”; in secondo luogo perché il testimone in questione gode comunque del privilegio contro l’auto incriminazione. Tuttavia, anche il comune testimone gode del privilegio contro l’auto incriminazione; e con ciò a nessuno è mai venuto in mente di affermare che la sua deposizione sia volontaria. L’imputato, che sia stato citato, deve presentarsi e non se ne può andare finché gli sono poste le domande. La testimonianza sarebbe configurabile come volontaria soltanto se l’imputato si offrisse come testimone davanti al giudice in situazione di parità rispetto al pubblico ministero. L’imputato collegato o connesso è “costretto” a diventare testimone assistito in un procedimento separato. Ma può anche accadere che diventi testimone nel proprio procedimento, se questo è stato riunito con quello connesso o collegato. Il collaboratore e il testimone di giustizia. a) Il collaboratore di giustizia. È riconosciuta tale qualifica a colui che, pur avendo commesso delitti, con le sue dichiarazioni ha dato un contributo di notevole importanza per le indagini e per i processi che abbiano ad oggetto i soli delitti di mafia e di terrorismo (e assimilati) previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. La persona che ha manifestato la volontà di collaborare è ammessa a misure di protezione se si trova in grave e attuale pericolo per effetto della collaborazione. È riconosciuto al collaboratore, a cagione del suo contributo, il diritto ad ottenere benefici sia in relazione alle misure cautelari, sia a quelle definitive. Il collaboratore di giustizia deve fornire al pubblico ministero tutte le notizie in suo possesso che siano utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sui quali è interrogato; alla ricostruzione degli altri fatti di maggiore gravità e allarme sociale di cui è a conoscenza; all’individuazione e alla cattura dei loro autori; all’individuazione, al sequestro e alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali egli o altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o indirettamente. Il collaboratore di giustizia sarà sentito come imputato concorrente senza obbligo di verità penalmente sanzionato o come testimone assistito con obbligo di verità sul fatto altrui già dichiarato, a seconda del tipo di legame che intercorre tra il proprio procedimento e quello nel quale è chiamato a deporre in base all’oggetto delle precedenti dichiarazioni. b) Il testimone di giustizia. La specificità della situazione del testimone di giustizia, che parla senza un tornaconto personale, è stata assicurata sotto vari profili. La legge ha fornito una precisa definizione giuridica in base alla quale è testimone di giustizia colui che ha reso dichiarazioni di fondata attendibilità, rilevanti per le indagini o per il giudizio; colui che si trova in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo rispetto al quale le ordinarie misure di sicurezza non sono adeguate; colui che non ha riportato condanne per delitti dolosi o preterintenzionali nè ha tratto profitto dall’essere venuto in relazione con il contesto delittuoso; colui che non è e non è stato sottoposto a misure di prevenzione. La legge ha dato al testimone di giustizia una protezione con misure di sostegno economico e di reinserimento; ha attribuito al testimone di giustizia l’assistenza di un referente che lo accompagna in tutto il suo percorso; ha previsto che nei confronti del testimone di giustizia possono essere utilizzati gli strumenti processuali dell’incidente probatorio e dell’esame a distanza. 4. IL CONFRONTO. 61 Alcuni mezzi di prova (confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali) hanno una caratteristica comune: nella fase di assunzione esiste un potere di direzione spettante al giudice. Rispetto a tali atti le parti hanno un ruolo marginale, cioè prevalentemente si limitano a controllare che l’atto si svolga in modo regolare; non possono procedere ad esame incrociato. Il confronto consiste nell’esame congiunto di due o più persone che siano già state esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo tra di esse su fatti e circostanze importanti (art. 211). La ratio dell’istituto è quella di vagliare le dichiarazioni contrastanti: all’esito del confronto è possibile che uno dei protagonisti ricostruisca meglio il fatto, ammettendo l’inesattezza nel suo ricordo. Oppure è possibile che le precedenti dichiarazioni di uno dei soggetti coinvolti siano svuotate di credibilità. Il primo presupposto di questo mezzo di prova consiste nell’esistenza di un disaccordo tra due o più persone su fatti e circostanze importanti; il secondo, nella necessità che le persone da mettere a confronto siano già state esaminate o interrogate. Il confronto può quindi realizzarsi tra soggetti in posizione processuale omogenea o eterogenea; anche più di due contemporaneamente. Ovviamente l’imputato può avvalersi del diritto al silenzio. Il momento nel quale è disposto il confronto. L’esigenza che vi siano precedenti dichiarazioni discordanti svela il momento a partire dal quale il mezzo può essere disposto: nella fase delle indagini, quando si siano già raccolte dichiarazioni; in udienza preliminare; in dibattimento; in appello; nel giudizio di rinvio e nel giudizio di revisione. Il confronto, in quanto mezzo di prova, ne segue i principi generali innanzitutto in punto di ammissione: di regola è richiesto dalle parti, ma in dibattimento può anche essere disposto dal giudice in base all’art. 507. I caratteri della pertinenza e della rilevanza sono strettamente legati ai presupposti di ammissibilità di cui si è detto: il confronto è non manifestamente irrilevante quando vi è un disaccordo tra dichiaranti; è pertinente quando il disaccordo verte su fatti circostanze importanti, e cioè oggetto di prova ai sensi dell’art. 187. Le modalità. Quanto alle modalità del confronto, la normativa esalta il ruolo del giudice (o del pubblico ministero nelle indagini), al quale spetta un potere propulsivo oltreché direttivo; è ridotto il potere delle parti, limitato al controllo della regolarità di svolgimento dell’atto, non essendo previsto l’esame incrociato. Il giudice richiama ai protagonisti le precedenti dichiarazioni discordanti e chiede loro se le confermano. Ove il disaccordo persista, li invita alle reciproche contestazioni. Tutto deve essere verbalizzato. L’imputato continua a godere del diritto al silenzio. 5. LA RICOGNIZIONE. La ricognizione di persone è quel mezzo di prova mediante il quale, ad una persona che abbia percepito con i propri sensi un essere umano, si chiede di riconoscerlo individuandolo tra altri simili (art. 213). La ricognizione è disposta anche quando occorre procedere al riconoscimento di cose (art. 215), voci, suoni o quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale (art. 216). Accertamenti sull’attendibilità (art. 213). Il giudice invita colui che deve eseguire la ricognizione (ricognitore) a descrivere la persona che ha visto indicando tutti i particolari che ricorda. Gli chiede poi: a) Se sia stato in precedenza chiamato eseguire il riconoscimento; b) Se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto la persona da riconoscere; c) Se la persona gli sia stata indicata o descritta; d) Se vi siano altre circostanze che possano influire sull’attendibilità del riconoscimento. La predisposizione della scena (art. 214). In assenza di colui che è chiamato ad effettuare il riconoscimento, il giudice dispone che siano presenti almeno due persone (i cd. distrattori) il più possibile somiglianti a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest’ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre persone, curando che si presenti nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata operare il riconoscimento. Il tentativo di riconoscimento. Introdotto il ricognitore, il giudice gli chiede “se” riconosce taluno dei presenti; ciò presuppone che il giudice deve informare il ricognitore che l’indiziato potrebbe non essere tra le persone presenti. Nel caso in cui il ricognitore affermi di riconoscere qualcuno, il giudice lo invita indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certo. 62 Gli accertamenti criminologi si esplicano attraverso intrusioni nella psiche e nel passato dell’imputato e comportano la violazione della sua riservatezza; e ciò non è compatibile con il dovere di considerare l’imputato non colpevole sino alla sentenza definitiva. Viceversa, dopo la condanna irrevocabile la perizia criminologica è ammessa in relazione alla fase dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza. LA CONSULENZA TECNICA DI PARTE A. Il consulente tecnico di parte all’interno della perizia. Quando è stata disposta perizia, le parti hanno la facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore a quello dei periti (art. 225). Al consulente tecnico si applicano le medesime cause di incapacità ed incompatibilità che sono previste per il perito. Le parti private non hanno l’obbligo di scegliere il consulente tecnico all’interno di albi; tuttavia, sarà loro interesse nominare persone di riconosciuta capacità tecnica. Il pubblico ministero deve nominare il consulente tecnico, di regola, scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti. I consulenti possono assistere al conferimento dell’incarico e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve delle quali è fatta menzione nel verbale. I consulenti possono assistere allo svolgimento della perizia proponendo al perito specifiche indagini; possono presentare richieste, osservazioni e riserve. Se sono nominati dopo l’esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti possono prendere conoscenza delle relazioni e chiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa o il luogo oggetto della perizia. La normativa sulla consulenza tecnica di parte è ricavabile per analogia con quanto previsto per il perito, salvo le differenze dettate espressamente dal codice. Identici sono i limiti, come il divieto di accertamenti sul carattere e sulla personalità dell’imputato. Identico è lo strumento con il quale il perito e il consulente tecnico sono sentiti in dibattimento: sono sottoposti all’esame incrociato, che si svolge in forme simili a quelle con le quali è escusso il testimone. Tuttavia, vi sono alcune differenze sostanziali: mentre il perito assume l’obbligo penalmente sanzionato di far conoscere la verità, nessun obbligo del genere è previsto espressamente dal codice per il consulente di parte. Ovviamente, se dall’esame incrociato risulta che il consulente non è stato corretto nel valutare i fatti, il suo discostarsi dal vero potrà avere influenza sul giudizio di attendibilità che sarà formulato dal giudice. Natura della consulenza tecnica di parte. La consulenza di parte è espressione della difesa tecnica di una parte e, insieme, mezzo di prova scientifica, tecnica o artistica. La prassi sull’obbligo di verità del consulente tecnico. Il principio di tassatività vigente nel diritto penale impedisce di riconoscere in capo ai consulenti la qualifica di testimone. Tuttavia, le sezioni unite hanno riconosciuto all’esperto di parte pubblica l’obbligo di verità penalmente sanzionato dai delitti di false informazioni e di falsa testimonianza in relazione sia ai fatti, sia ai profili valutativi oggetto della consulenza. B. Il consulente tecnico di parte fuori dei casi di perizia. La consulenza tecnica di parte fuori dei casi di perizia (art. 233) è il nuovo istituto introdotto dal codice del 1988 al fine di attuare il diritto delle parti alla prova per esperti. Sia il pubblico ministero, sia le parti private possono avvalersi dell’opera di specialisti al fine di raccogliere elementi di prova scientifica, tecnica o artistica, a prescindere dal fatto che il giudice abbia ammesso o meno una perizia. Il consulente delle parti private e quello del pubblico ministero sono sentiti in dibattimento con esame incrociato su domande del pubblico ministero e del difensore; nell’udienza preliminare in base a domande poste dal giudice. L’oggetto della consulenza di parte. Mediante la nomina di un consulente tecnico fuori della perizia, ciascuna parte ha il diritto di tentare di convincere il giudice applicando la legge scientifica che ritiene più corretta. Il consulente di parte propone valutazioni tecniche che si traducono in memorie scritte e che possono essere oggetto di deposizione orale nell’esame incrociato. Il consulente nominato da una parte privata può svolgere investigazioni difensive per ricercare ed individuare elementi di prova e poi conferire con le persone che possono dare informazioni; nonché può esaminare, previa autorizzazione, il materiale che l’autorità giudiziaria ha posto sotto sequestro. Di regola, il difensore della parte privata può scegliere se presentare o meno al giudice gli elementi di prova che siano stati raccolti dal consulente tecnico. 65 La nomina del consulente. Nell’indicare il titolare della facoltà di nomina del consulente tecnico fuori della perizia, l’art. 233 fa riferimento a “ciascuna parte”. Il termine deve essere inteso in senso atecnico e, quindi, va riferito anche alla persona offesa e all’indagato, che nelle indagini preliminari sono parti “potenziali”. Tali soggetti possono nominare consulenti in numero non superiore a due. Valgono le situazioni di incompatibilità che abbiamo segnalato in relazione alla consulenza tecnica interna alla perizia. Il consulente tecnico del pubblico ministero. Nelle fasi dell’udienza preliminare e del giudizio la pubblica accusa può nominare consulenti tecnici sia nel caso di perizia sia fuori dei casi di perizia. Il pubblico ministero nomina il consulente tecnico, di regola, scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti. Nella sola fase dell’indagini preliminari la pubblica accusa può nominare consulenti tecnici in base ad una normativa che costituisce un’ulteriore specificazione dell’art. 233. La valutazione della perizia e della consulenza tecnica. Risulta difficile valutare una prova scientifica. Si registrano, infatti, due rischi: da un lato, il pericolo che il giudice si rimetta completamente al parere dello scienziato, abdicando alla propria funzione giurisdizionale; da un altro, e per converso, il rischio che il giudice si arroghi il diritto all’ultima parola. Gli opposti pericoli si neutralizzano calando la prova scientifica all’interno degli ordinari meccanismi conoscitivi del processo. Ciò significa che la prova scientifica deve essere valutata con i controlli che si applicano alle altre prove. Pertanto occorre valorizzare quello che è stato definito “modello della motivazione legale e razionale”: il giudice nella motivazione della sentenza deve esporre perché ritiene attendibile la prova (anche di tipo scientifico) sulla quale fonda la sua decisione e perché ritiene non attendibili le prove contrarie. Al giudice spetta di valutare se è stato osservato il metodo scientifico. In presenza di tesi in conflitto non risolto, il giudice è tenuto ad una motivazione rafforzata. Nel quadro così delineato, emerge l’assoluta centralità dell’esame incrociato al quale possono essere sottoposti gli esperti, poiché è grazie a tale strumento che le parti riescono a convincere il giudice. La valutazione sull’affidabilità del metodo scientifico. È fondamentale che il controesame verta sull’analisi della teoria di riferimento accolta dal tecnico. Per verificare la validità dell’opinione che l’esperto ha espresso, occorre che il giudice motivi sui seguenti punti: se questi ha in concreto una specifica idoneità ad espletare l’incarico affidatogli; se la teoria cui ha fatto riferimento sia stata verificata mediante esperimenti e abbia subito un tentativo di smentita; se la teoria sia stato oggetto di pubblicazione scientifica ed esaminata da altri esperti; se è conosciuto il coefficiente di errore relativo alla teoria proposta; se, nell’ambito della letteratura scientifica, la teoria prospettata sia sempre attuale oppure abbia subito nel tempo revisioni o aggiornamenti. Il perito è attendibile se la ricostruzione ha resistito all’urto del contraddittorio. Non esiste, dunque, una gerarchia tra perito e consulente. Nella valutazione il giudice deve necessariamente verificare se il risultato della prova scientifica appare coerente con le altre prove raccolte nel procedimento. Egli deve spiegare se le prove acquisite hanno eliminato ogni ragionevole dubbio sulla ricostruzione dell’accusa. La perizia che richiede atti idonei ad incidere sulla libertà personale. Può accadere che nel corso della perizia si renda necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale dell’indagato o di altre persone; si pensi ai prelievi di campioni biologici finalizzati all’estrazione del profilo del DNA. I prelievi con il consenso dell’interessato. Qualora l’interessato sia consenziente non scatta la necessità di tutelare la libertà personale. I prelievi e gli accertamenti coattivi. Differenti considerazioni si impongono qualora l’individuo non presti il proprio consenso al prelievo di campioni biologici. In tale ipotesi, trova applicazione la disciplina tratteggiata dall’art. 224-bis. La legge ha perseguito un delicato bilanciamento tra la tutela della libertà personale e l’esigenza di accertamento del reato. 1) L’art. 224-bis, comma 1 precisa la tipologia di reati in relazione ai quali possono essere disposti accertamenti coercitivi. È necessario che si proceda per un delitto doloso o preterintenzionale, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione di oltre tre 66 anni nel massimo oppure per i delitti colposi di omicidio stradale e lesioni personali stradali e negli altri casi espressamente previsti dalla legge. 2) L’art. 224-bis, comma 1 reca un requisito di tipo probatorio: occorre che la perizia risulti assolutamente indispensabile per la prova dei fatti. 3) L’art. 224-bis, comma 1 indica quali sono le attività che possono essere compiute: l’esecuzione coattiva concerne gli “atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA” ; oppure concerne l’effettuazione di “accertamenti medici”. I limiti. Non sono ammesse le “operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge”; che possano “mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro”; che “secondo la scienza medica, possano provocare sofferenze di non lieve entità”. Le operazioni peritali sono comunque seguite “nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto” inoltre, a parità di risultato, sono prescelte comunque le tecniche meno invasive. L’ordinanza che dispone la “perizia coattiva”. La perizia coattiva viene disposta con ordinanza motivata. Anzitutto, l’ordinanza reca le stesse indicazioni che sono contenute nel provvedimento che dispone la comune perizia: contiene la nomina del perito, la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini, l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo fissati per la comparizione del perito. Inoltre, deve contenere a pena di nullità: le generalità della persona da sottoporre all’esame; l’indicazione del reato per cui si procede; l’indicazione specifica del prelievo o dell’accertamento da fare e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per la prova dei fatti; l’avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore; l’avviso che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l’accompagnamento coattivo; l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora stabiliti per il compimento dell’atto e delle relative modalità. Regolamentazione. L’ordinanza è notificata all’interessato, l’imputato e al suo difensore, nonché alla persona offesa, almeno tre giorni prima di quello stabilito per l’esecuzione delle operazioni peritali. Qualora l’interessato non compaia senza addurre un legittimo impedimento, il giudice può disporre l’accompagnamento coattivo. Può anche accadere che l’individuo compaia e continui a manifestare un atteggiamento ostile al compimento del prelievo. In tal caso, il giudice dispone che le operazioni siano eseguite coattivamente ed è consentito l’uso di mezzi di coercizione fisica per il solo tempo strettamente necessario all’esecuzione del prelievo o dell’accertamento. 8. LA PROVA DOCUMENTALE. La definizione di documento. In un significato generico, il documento è quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico o digitale. Il concetto di documento comprende quattro elementi: 1) Il fatto rappresentato . Il fatto rappresentato è tutto ciò che può essere oggetto di prova. Può trattarsi non soltanto di un accadimento naturalistico ma anche di un atto umano, e quindi di una dichiarazione. 2) La rappresentazione di un fatto . Rappresentare un fatto significa costruirne un equivalente in modo da renderlo conoscibile quando non è più presente. Le modalità di rappresentazione sono le più varie: parole, immagini, suoni o gesti. La rappresentazione può avvenire per opera dell’uomo (es. testimonianza) o automaticamente mediante lo strumento (es. apparecchio di registrazione). 3) L’incorporamento della rappresentazione . È l’operazione mediante la quale la rappresentazione è fissata su una base materiale. Visti i progressi della tecnica, possiamo affermare che oggi i metodi di incorporamento sono due: quello analogico e quello digitale. 4) La base materiale sulla quale è avvenuto l’incorporamento . Può essere la più varia: è sufficiente l’idoneità a conservare la rappresentazione al fine di riprodurla quando occorra. Sulla base di quanto esposto possiamo tracciare due definizioni basilari:  Il documento tradizionale. Può essere definito come quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su una base materiale con un metodo analogico. Es. Uno scritto; una fotografia; una canzone incisa in un disco. 67 Documenti dei quali è obbligatoria l’acquisizione. Il codice pone l’obbligo di acquisire i documenti che costituiscono corpo del reato “qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga”. Ai sensi dell’art. 253, comma 2, sono corpo del reato “le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo”. Inoltre è consentita l’acquisizione anche d’ufficio di qualsiasi documento di cui l’imputato sia l’autore, anche se sequestrato presso altri o da altri prodotto. Tale disposizione trova tuttavia un limite nel divieto di sequestro in presenza di segreti tutelati dal codice di procedura penale, quale, ad esempio, il segreto professionale. L’uso di atti di altri procedimenti. L’art. 238 permette alle parti di ottenere, a determinate condizioni, che siano acquisite ed utilizzate in dibattimento le prove che sono state raccolte in un altro procedimento penale o civile. Gli atti di un altro procedimento, pur essendo formalmente considerati “documento”, sono nella sostanza una “documentazione” di atti di carattere procedimentale e, pertanto, seguono un regime di utilizzabilità simile a quello che vige, nel procedimento principale, per la documentazione degli atti assunti fuori dal dibattimento. Anzitutto, dall’art. 238 è ricavabile un regime differente a seconda che gli atti assunti nel procedimento a quo siano ripetibili o non ripetibili nel procedimento ad quem.  Atti non ripetibili. I verbali degli atti non ripetibili sono utilizzabili in due ipotesi: 1) Se si tratta di impossibilità di ripetizione originaria; 2) Se si tratta di non ripetibilità sopravvenuta, purché essa sia dovuta a circostanze non prevedibili nel momento in cui l’atto è stato compiuto.  Atti ripetibili. In relazione agli atti ripetibili nel procedimento ad quem, l’art. 238 effettua un’ulteriore distinzione tra i verbali di dichiarazioni e quelli di prove non dichiarative. I. Le prove dichiarative. Occorre distinguere in base alla sede in cui esse sono state assunte: a) I verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini sono utilizzabili in due ipotesi: 1) se l’imputato del procedimento ad quem vi consente; 2) in mancanza di consenso dell’imputato, le dichiarazioni sono utilizzabili se la persona viene esaminata nel procedimento ad quem. b) I verbali delle dichiarazioni assunte in incidente probatorio o in dibattimento sono utilizzabili sia nelle ipotesi appena menzionate, sia, in assenza di tali condizioni, se il difensore dell’imputato del procedimento ad quem ha partecipato all’assunzione della prova. c) Le dichiarazioni rese in un giudizio civile chiuso con una sentenza irrevocabile sono utilizzabili contro l’imputato se nei suoi confronti fa stato la sentenza civile. Ai sensi dell’art. 2909 c.c. il giudicato civile fa stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa. II. Le prove non dichiarative. Le prove non dichiarative che siano ripetibili e che provengano dal procedimento a quo sono utilizzabili nel procedimento ad quem ma soltanto se si tratta di dati raccolti nell’incidente probatorio, nel dibattimento o nel giudizio civile concluso con sentenza irrevocabile. Il diritto di esaminare l’autore delle dichiarazioni. Le parti del procedimento ad quem hanno il diritto di ottenere l’esame della persona le cui dichiarazioni sono state acquisite, purché l’atto sia ripetibile. Ancora una volta il codice valorizza il principio costituzionale secondo cui “la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato del suo difensore” (art. 111, comma 4 Cost.). Le sentenze irrevocabili. Infine, l’art. 238-bis consente che le sentenze irrevocabili possano essere “acquisite ai fini della prova di un fatto in esse accertato”. Ne consegue che la decisione può essere utilizzata al fine di ritenere provato il fatto accertato nella sentenza. Il codice pone come condizione che vi siano riscontri esterni che ne confermino l’attendibilità. Le parti sono ammesse a provare il contrario. I documenti illegali. L’inutilizzabilità rafforzata. L’art. 240, comma 2 disciplina due categorie di documenti predisposti attraverso attività che, in sintesi, possiamo definire spionaggio e dossieraggio illeciti. La norma commina in relazione ad essi la sanzione dell’inutilizzabilità rafforzata dell’obbligo di distruzione. Il requisito comune alle due categorie è insito nel concetto stesso di documento e consiste nel “rappresentare un fatto che deve essere 70 differente da un atto del procedimento penale”. Di conseguenza, sfuggono alle due categorie di documenti illegali quelle intercettazioni che sono state autorizzate dall’autorità giudiziaria. Lo spionaggio e il dossieraggio illeciti.  Quello che definiamo “spionaggio illecito” è indicato nel comma 2 dell’art. 240 con la seguente espressione: “dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico, illegalmente formati o acquisiti” (es. intercettazioni abusive).  Quello che definiamo “dossieraggio illecito” è indicato nel comma 2 dell’art. 240 con la seguente espressione: “documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni”. L’espressione si riferisce a quel trattamento illecito di dati personali punito dagli artt. 161-171 del codice privacy. In relazione alle due categorie di documenti sono previsti i seguenti obblighi e divieti: 1) Il pubblico ministero deve disporre l’immediata secretazione e custodia in luogo protetto; 2) È vietato effettuare copia in qualunque forma in qualunque fase del procedimento; 3) È sancita l’inutilizzabilità dei documenti illegali in questione; 4) Il pubblico ministero entro quarantott’ore deve chiedere al giudice per le indagini preliminari di disporre la distribuzione dei relativi documenti, supporti ed atti. La procedura di distruzione. Le operazioni di distruzione si svolgono nel contraddittorio tra le parti. L’art. 240, comma 4, prevede che il giudice per le indagini preliminari, entro quarantott’ore dalla richiesta del pubblico ministero, fissi udienza in camera di consiglio che dovrà tenersi entro 10 giorni. Le parti private vengono avvisate che potranno nominare un difensore di fiducia. L’art. 240, comma 5 disciplina lo svolgimento dell’udienza: sentite le parti, il giudice per le indagini preliminari legge il provvedimento in udienza e, qualora ne ravvisi i presupposti, dispone la distruzione e vi dà esecuzione subito dopo, alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle parti. All’udienza dovrà applicarsi l’art. 401, comma 1 in base al quale essa si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore dell’indagato e con la partecipazione facoltativa del difensore della persona offesa. Inoltre, troverà applicazione l’art. 401, comma 2 a mente del quale in caso di mancata comparizione del difensore dell’indagato, il giudice deve designare un altro difensore immediatamente reperibile. La distruzione del corpo di reato. La corte costituzionale ha sottolineato che la distruzione appare un rimedio di emergenza; ciò nonostante, allo stato attuale tale strumento si configura come indispensabile a fronte della situazione di incertezza sull’effettività della tutela del diritto alla riservatezza contro indebita diffusione mediatica di informazioni delicate. Il verbale sostitutivo del corpo di reato. La corte ha rafforzato il contenuto rappresentativo del verbale: esso diviene un vero e proprio surrogato di quel corpo del reato che deve essere distrutto. La funzione primaria del verbale è quella di costituire una prova sostitutiva del corpo del reato. Ne consegue che tanto più il verbale risulta dettagliato, tanto meglio esso esplica la propria funzione surrogatoria. Per questo motivo, ad avviso della corte, è costituzionalmente necessario allargare le potenzialità rappresentative del verbale in questione, includendovi anche tutte le circostanze che hanno caratterizzato l’attività diretta all’intercettazione, alla detenzione e all’acquisizione del materiale. Resta fermo quel limite invalicabile a tutela della riservatezza che è costituito dal divieto di fare riferimento all’informazioni contenute nel documento illecito. 71 CAPITOLO V I MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA 1. Profili generali. Il codice definisce “mezzi di ricerca della prova” le ispezioni, le perquisizioni, i sequestri e le intercettazioni di comunicazioni. Le differenze rispetto ai mezzi di prova sono: a. Mentre i mezzi di prova si caratterizzano per l’attitudine ad offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di decisione; i mezzi di ricerca della prova non sono di per sé fonte di convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di attitudine probatoria. b. L’elemento probatorio si forma attraverso l’esperimento del mezzo di prova: ad esempio, il testimone racconta fatti che ha percepito. Viceversa, attraverso il mezzo di ricerca della prova entra nel procedimento un elemento probatorio che preesiste allo svolgersi del mezzo stesso: ad esempio, con la perquisizione si mira ad acquisire al procedimento una cosa pertinente al reato. Lo stesso avviene in caso di ispezione, perquisizione e intercettazione di comunicazioni. c. I mezzi di prova possono essere assunti soltanto davanti al giudice nel dibattimento o nell’incidente probatorio; viceversa, i mezzi di ricerca della prova possono essere esperiti già durante le indagini, oltre che dal giudice, anche dal pubblico ministero e, in alcune ipotesi, dalla polizia giudiziaria. d. I mezzi di ricerca della prova si basano, di regola, sul fattore “sorpresa” e, perciò, non consentono il preventivo avviso al difensore dell’indagato quando sono compiuti nella fase delle indagini. Viceversa, i 72 Il sequestro probatorio consiste nell’assicurare una cosa mobile o immobile al procedimento per finalità probatorie, mediante lo spossessamento coattivo della cosa e la creazione di un vincolo di indisponibilità sulla medesima. Tale vincolo serve per conservare immutate le caratteristiche della cosa, al fine dell’accertamento dei fatti. È necessario un requisito “naturalistico”, e cioè che vi sia un bene materiale. È necessario anche un requisito “giuridico”, e cioè che si tratti del corpo del reato o di una cosa pertinente al reato e che la cosa sia necessaria per l’accertamento dei fatti. I presupposti del potere di sequestro. I presupposti del potere di sequestro probatorio sono stati precisati dalla giurisprudenza. Il sequestro probatorio presuppone l’individuazione di un fatto costituente reato, individuato nei suoi tratti essenziali di tempo, luogo e azione, e, in relazione ad esso, la prospettazione a pena di nullità della condotta incriminata, la riconduzione ad una fattispecie di reato e l’indicazione della relazione intercorrente tra i beni sottoposti a vincolo e l’ipotesi criminosa”. Inoltre, la cassazione ha richiesto che il sequestro osservi il principio di proporzionalità, limite entro il quale la compressione di un’istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima. Ogni misura, per dirsi proporzionata all’obiettivo da perseguire, richiede che l’interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco. Regolamentazione. All’interessato, se presente, deve essere consegnata copia del decreto di sequestro (art. 253, comma 4). Poiché il sequestro è un “atto a sorpresa”, il difensore dell’indagato ha il diritto di assistere senza preavviso. Il sequestro è mantenuto fino a quando sussistono le esigenze probatorie. Il limite massimo è la sentenza irrevocabile; dopodiché la cosa deve essere restituita, salvo che ne sia stata ordinata la confisca. La conversione di un tipo di sequestro in un altro è possibile soltanto se è emesso un provvedimento autonomo rispondente ai requisiti e alle finalità del nuovo tipo di sequestro. Nelle fasi dell’udienza preliminare e del dibattimento il sequestro probatorio è disposto dal giudice con decreto motivato. Nel corso delle indagini preliminari il decreto motivato di sequestro è emanato, di regola, dal pubblico ministero. All’indagato eventualmente presente al sequestro viene chiesto se è assistito da un difensore; qualora l’indagato ne sia privo, è designato un difensore d’ufficio. Sempre durante le indagini preliminari la polizia giudiziaria interviene soltanto in situazioni di urgenza. Infatti, in sede di sopralluogo la polizia di sua iniziativa deve curare che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate fino all’eventuale intervento del pubblico ministero. Se vi è pericolo nel ritardo ed il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente o non ha ancora assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria effettua il sequestro. Il verbale del sequestro è trasmesso entro quarantott’ore al pubblico ministero del luogo dove il sequestro è stato eseguito; questi, nelle quarantott’ore successive, convalida il sequestro con decreto motivato, se ne ricorrono i presupposti. Sequestro operato in seguito a perquisizione illegittima. Il problema della validità o meno del sequestro della cosa rinvenuta a seguito di una perquisizione illegittima è stato risolto in modo contrastante. Nel senso della legittimità del sequestro del corpo del reato conseguente a perquisizione illegittima si sono espresse le sezioni unite della cassazione, secondo cui i vizi della perquisizione non si trasmettono al sequestro quando questo ha per oggetto il corpo del reato e le cose ad esso pertinenti, perché in tal caso si tratta di un atto dovuto ai sensi dell’art. 253. In senso analogo si è pronunciata la sentenza costituzionale 219/2019. Richiesta di riesame. Contro il decreto di convalida del sequestro e contro lo stesso decreto di sequestro, disposto dal pubblico ministero o dal giudice, l’indagato, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre richiesta di riesame. Oggetto di cognizione è la questione relativa alla legittimità o al merito del provvedimento. La questione sulla necessità di mantenere il sequestro. Distinta è la questione sulla necessità di mantenere, o meno, il sequestro in quanto si discute se questo è ancora utile a fini probatori. In tal caso durante le indagini preliminari è previsto un ulteriore procedimento incidentale. La persona interessata può presentare al pubblico ministero richiesta motivata di restituzione della cosa sequestrata. Questi provvede con decreto motivato nei seguenti modi: a) Se valuta che non sussistono più esigenze probatorie, dispone la restituzione all’avente diritto; 75 b) Se ritiene che le esigenze probatorie siano ancora presenti o che sia necessario mantenere il sequestro nella forma di quello preventivo o conservativo, respinge la richiesta di restituzione. In ogni caso, se il PM intende convertire il sequestro probatorio in sequestro preventivo o conservativo, deve farne richiesta al giudice. Contro il decreto del pubblico ministero che accoglie o respinge la richiesta di restituzione, l’interessato può presentare opposizione al giudice per le indagini preliminari; egli può disporre la restituzione, mantenere il sequestro o anche, quando vi è contestazione sull’appartenenza della cosa sequestrata, rimettere la questione al giudice civile competente, fermo restando il sequestro. È possibile impugnare il provvedimento del giudice con ricorso per cassazione. Il sequestro di documenti coperti dal segreto professionale o d’ufficio . L’articolo 256 disciplina il caso in cui la cosa da sequestrare si trovi nella disponibilità di persone tenute al segreto professionale, d’ufficio o di Stato: l’autorità giudiziaria, in tali ipotesi, non può disporre il sequestro in via immediata, ma deve richiedere preliminarmente la consegna della cosa da ricercare, consentendo al depositario di opporre il segreto. La persona tenuta al segreto, a fronte della richiesta dell’autorità giudiziaria, ha un immediato dovere di esibizione e consegna; può opporre un rifiuto solo dichiarando per iscritto l’esistenza di un segreto inerente alla propria professione o al proprio ufficio. La decisione sull’esistenza del segreto spetta al giudice penale se si tratta di un segreto professionale o d’ufficio; spetta al presidente del Consiglio dei Ministri se si tratta del segreto di Stato. Custodia delle cose sequestrate. Le cose sequestrate sono affidate in custodia alla cancelleria o alla segreteria. Quando ciò non è possibile o non è opportuno, l’autorità giudiziaria dispone che la custodia avvenga in luogo diverso, determinandone il modo e nominando un altro custode. 5. LE INTERCETTAZIONI DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI. I principi costituzionali sulle intercettazioni. La nozione di intercettazione. Nel codice non si trova alcuna definizione di intercettazione. Ai sensi dell’art. 15 della Costituzione “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. La carta fondamentale contiene, innanzitutto, quella che è stata interpretata come una riserva di giurisdizione, poiché la giurisprudenza costituzionale ritiene che soltanto con un provvedimento del giudice possa essere autorizzata l’intercettazione. Sempre l’art. 15 pone una riserva di legge rinforzata, dal momento che la legge deve stabilire garanzie con le norme che prevedono le limitazioni alla libertà e segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni. La convenzione europea dei diritti dell’uomo, con la formulazione più ampia stabilisce che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della corrispondenza”. Da tale disposizione la giurisprudenza ricava la tutela del diritto alla riservatezza della vita privata. Il problema della definizione di “intercettazione” è stato risolto dalla giurisprudenza di legittimità: intercettazione è quella “captazione, ottenuta mediante strumenti tecnici di registrazione, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione segreta in corso tra due o più persone, quando l’apprensione medesima è operata da parte di un soggetto che nasconde la sua presenza agli interlocutori”. 1) Comunicazione o conversazione segreta. I soggetti devono comunicare tra loro con il preciso intento di escludere estranei dal contenuto della conversazione e con modalità tali da tenere quest’ultima segreta. 2) Strumenti di captazione. Il soggetto che intercetta deve usare strumenti tecnici di registrazione che siano idonei a superare le cautele elementari, che dovrebbero garantire la libertà e segretezza del colloquio, e a captarne i contenuti. Non effettua un’intercettazione colui che ascolta una conversazione origliando dietro la porta. Viceversa, è intercettazione l’attività di una persona che nasconde, per poi recuperarlo, un apparecchio in funzione nella stanza destinata ad ospitare una conversazione tra altre persone, con ascolto “in differita” della riproduzione. 3) Terzietà e clandestinità. Il soggetto captante deve essere estraneo al colloquio e deve operare in modo clandestino. Non è intercettazione, bensì è documento, la registrazione di un colloquio effettuata da una delle persone che vi partecipano attivamente o da una persona che è comunque ammessa ad assistervi. 76 L’intercettazione è dunque un’attività che nell’ordinamento vigente può essere compiuta soltanto per iniziativa del PM e su autorizzazione del giudice per le indagini preliminari nei casi e modi previsti dalla legge. Essa può avere ad oggetto: a) Conversazioni o comunicazioni telefoniche e altre forme di telecomunicazione; b) Le comunicazioni o conversazioni tra presenti (intercettazioni ambientali); c) Il flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici o intercorrente tra più sistemi. Le ipotesi che non costituiscono intercettazione. Differente dall’intercettazione, perché non ha per oggetto una “comunicazione”, è il pedinamento mediante GPS, che può essere disposto dalla polizia giudiziaria come mera attività atipica. Parimenti, è estranea all’intercettazione l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico. E ancora, non è intercettazione, bensì documento, la registrazione fonografica occultamente eseguita da uno degli interlocutori quando questa non è stata predisposta dalla polizia giudiziaria. La riserva di legge e di giurisdizione. In adempimento della riserva di giurisdizione, le intercettazioni devono essere autorizzate dal giudice per le indagini preliminari con decreto motivato (art. 267). Legittimato a chiedere l’autorizzazione è il pubblico ministero che procede alle indagini. Nel rispetto della riserva di legge, il legislatore prevede i requisiti necessari per procedere all’intercettazione; essi variano in base al tipo di reato oggetto del singolo procedimento. I requisiti possono essere raggruppati nelle categorie dei reati intercettabili, del quantum di prova e dei termini di durata. La motivazione. Nel decreto di autorizzazione all’intercettazione il giudice deve motivare la presenza di ciascuno dei requisiti in modo scrupoloso. Nella prassi, la giurisprudenza ha svalutato l’importanza della motivazione e ha consentito al giudice di riferirsi ai motivi contenuti nella richiesta del pubblico ministero; sono dovute intervenire le sezioni unite della cassazione per indicare i limiti nei quali è accettabile la motivazione redatta attraverso un riferimento per relationem ad altri provvedimenti. I divieti di intercettazione e il controllo sulla ostensibilità delle intercettazioni. Sono previsti divieti assoluti o condizionati di procedere ad intercettazioni in favore di determinate persone per la salvaguardia di valori di rilievo costituzionale che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle comunicazioni e conversazioni: a) Si tratta, in primo luogo, di quei casi nei quali l’intercettazione è subordinata alla previa autorizzazione a procedere. Si pensi alle intercettazioni nei confronti dei parlamentari. b) In secondo luogo, deve essere ricordato il divieto di intercettazione a tutela del segreto professionale dei difensori, dei consulenti tecnici e dei loro ausiliari: è vietato intercettare le comunicazioni tra di loro o le comunicazioni tra i medesimi e le persone da loro assistite. Ove tali divieti siano stati violati, l’intercettazione è inutilizzabile (art. 271). Le riforme. Il decreto legge 161/2019, convertito nella legge 7/2020. La materia delle intercettazioni risente dello scontro tra vari interessi in conflitto. Da un lato, occorre disciplinare attentamente le condizioni che legittimano la compressione per fini processuali del bene costituito dalla segretezza delle comunicazioni; da un altro lato, occorre tutelare la riservatezza altamente compromessa dal mezzo captativo in esame. La problematica in oggetto ha costituito da sempre motivo di iniziative riformistiche. Con il decreto legislativo 216/2017 (riforma Orlando) era stata posta in essere un’ampia manovra che riscriveva la disciplina al fine di attuare un bilanciamento tra le varie istanze in conflitto. Tuttavia, l’entrata in vigore del decreto legislativo è stata più volte rinviata e, al momento dell’ultima scadenza, il governo ha promulgato il decreto-legge 161/2019 che ha rinviato l’entrata in vigore della riforma e ne ha soppresso i punti più caratterizzanti. Con la successiva conversione con modifiche nella legge 7/2020, si è completato il quadro delle nuove disposizioni che hanno dato luogo ad una vera e propria controriforma. Con le nuove norme è stata posta una distinzione tra i procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, che continuano a seguire la disciplina originaria del codice del 1988, e i procedimenti iscritti dopo tale data, che seguiranno le nuove regole. L’effetto sarà la contemporanea esistenza di due regimi normativi. In presenza della scelta del legislatore, esigenze di chiarezza ci costringono a precisare qual è la normativa comune alle vecchie e alle nuove intercettazioni e qual è la normativa che si applica soltanto ai nuovi procedimenti. 77 a) Quando le intercettazioni sono state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge; b) Quando non sono state osservate le disposizioni dell’art. 267, cioè le intercettazioni sono state compiute non rispettando i presupposti e le forme dei provvedimenti di autorizzazione e di esecuzione; c) Quando sono state compiute senza registrare la comunicazione e senza redigere il verbale sommario delle operazioni; oppure sono state compiute al di fuori degli impianti installati nella procura della Repubblica, senza che siano motivate le ragioni di urgenza. Intercettazione autorizzata per imputazione poi derubricata. Ai sensi dell’art. 271, sono sanzionate con l’inutilizzabilità le intercettazioni che siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge. La cassazione, tuttavia, ritiene che, qualora le intercettazioni siano state originariamente disposte per uno dei reati previsti dall’art. 266, esse restino legittime anche quando l’addebito venga successivamente derubricato in un reato che non avrebbe consentito tale mezzo di ricerca della prova. Si sostiene che, per dare luogo ad una inutilizzabilità, servirebbe una disposizione specifica oppure un principio giuridico dal quale far discendere questa conseguenza. IV. Le intercettazioni non ostensibili. Ipotesi eccezionali vi sono quando alla conversazione intercettata prendono parte persone per le quali vige un divieto di intercettazione in considerazione della loro qualità o del segreto a cui sono vincolate: si pensi al presidente della Repubblica o ai servizi segreti. In base alla sentenza 1/2013 della corte costituzionale, vi sono “ragioni di ordine sostanziale, espressive di un’esigenza di tutela rafforzata di determinati colloqui in funzione di salvaguardia di valori e diritti di rilievo costituzionale, che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle comunicazioni”. In presenza di situazioni di tal genere, il pubblico ministero deve svolgere un primo controllo, in seguito al quale la procedura è regolata da discipline speciali: 1) Conversazioni del presidente della Repubblica. Dalla costituzione è ricavabile il principio della riservatezza delle conversazioni e comunicazioni del capo dello Stato. Da tale principio si desume il divieto di utilizzare tutte le comunicazioni presidenziali anche qualora siano captate in modo indiretto o casuale. Le registrazioni delle comunicazioni del presidente della Repubblica devono essere distrutte dal giudice su richiesta del pubblico ministero senza il contraddittorio con le parti private. 2) Le comunicazioni di appartenenti ai servizi segreti. Considerazioni simili valgono anche quando l’autorità giudiziaria abbia acquisito occasionalmente, tramite intercettazioni, le comunicazioni istituzionali di appartenenti ai servizi di informazione per la sicurezza. Il pubblico ministero deve disporre l'immediata segretazione e custodia di documenti, supporti e atti in luogo protetto; quindi, deve chiedere al presidente del Consiglio dei Ministri se le informazioni sono coperte da segreto di Stato. Se la risposta è positiva, l'autorità giudiziaria non può utilizzare le notizie coperte dal segreto.  La normativa sulle nuove intercettazioni. La riforma Orlando, non entrata in vigore. La disciplina originaria delle intercettazioni era stata profondamente modificata dalla riforma Orlando. Scopo della legge delega era quello di tutelare l’efficienza delle indagini e la riservatezza sia delle persone intercettate occasionalmente, sia dei destinatari delle intercettazioni quando fossero state captate conversazioni relative a fatti privati non rilevanti per le indagini. Il presupposto dell’intervento riformatore risiedeva nella considerazione che le sanzioni conseguenti alla pubblicazione arbitraria di atti processuali segreti sono pressoché trascurabili, perché. La pena prevista risulta oblazionabile con 129 euro. Nell’impossibilità di introdurre una sanzione più severa, l’unica via praticabile era quella di impedire che, a monte, fossero verbalizzate dalla polizia le intercettazioni su fatti non rilevanti per le indagini. Così la riforma Orlando aveva imposto alla polizia giudiziaria, diretta dal pubblico ministero, il compito di operare un’immediata selezione delle dichiarazioni non rilevanti. Il passaggio successivo era stato quello di ritardare l’acquisizione delle intercettazioni e di ritardare la pubblicazione della notizia generica delle stesse fino al momento in cui il giudice, in contraddittorio, avesse definitivamente valutato i dialoghi captati come rilevanti per le indagini, o comunque “non manifestamente irrilevanti”. Nel frattempo, le intercettazioni sarebbero state custodite in un archivio riservato. 80 La riforma metteva in atto un congegno complesso di difficile attuazione pratica. Per un verso, il pubblico ministero poteva non essere in grado di attuare un pieno controllo sulle scelte probatorie che finivano per essere rimessa alla polizia giudiziaria. Per un altro verso, il diritto alla prova spettante all’indagato poteva risultare sacrificato vista la difficoltà di operare un effettivo vaglio in tempi brevi su un materiale sterminato. Ma soprattutto, il ritardo nell’attendere la valutazione definitiva di rilevanza da parte del giudice sarebbe andato a colpire la possibilità dei giornali delle televisioni di pubblicare subito le dichiarazioni captate. A tal proposito, il ministro della giustizia aveva accusato la riforma Orlando di aver messo “un bavaglio all’informazione”. Alla luce di tutte le controindicazioni, l’entrata in vigore della riforma sulle intercettazioni era stata posticipata. La controriforma. Approssimatasi l’ultima scadenza il governo, nel provvedere ad un ulteriore rinvio, ha attuato una manovra che ha destato sorpresa. Dopo aver emanato il decreto legge 161/2019, convertito nella legge 7/2020, a causa dell’intervenuta pandemia da COVID-19, l’entrata in vigore delle nuove norme è stata ulteriormente rinviata, con la legge 70/2020. La manovra ha posto una distinzione tra vecchi e nuovi procedimenti: i procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020 sono regolati da una nuova normativa, che rappresenta una netta inversione di tendenza rispetto alle scelte attuate dalla riforma Orlando. I. Le nuove modalità di redazione dei verbali sommari. La verbalizzazione sommaria delle registrazioni. Delle comunicazioni intercettate la polizia redige il verbale nel quale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle registrazioni. In base alle nuove disposizioni il pubblico ministero deve dare indicazioni e vigilare affinché nei verbali non siano riportate: a) Le espressioni lesive della reputazione delle persone; b) Le espressioni che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge. Vi è comunque un’eccezione, che impone la verbalizzazione quando le espressioni siano rilevanti ai fini dell’indagini. Si tratta di un punto qualificante, che attribuisce alla pubblica accusa le scelte fondamentali sulla verbalizzazione, sia pure sommaria, delle intercettazioni. Le intercettazioni delle conversazioni dei difensori. Un altro punto qualificante concerne il divieto di intercettare le conversazioni dei difensori, consulenti tecnici ecc. svoltesi tra di loro e con i loro assistiti. In aggiunta all’esistente comminatoria della sanzione dell’inutilizzabilità, la nuova normativa ha considerato l’ipotesi che dette conversazioni siano state comunque intercettate (da intendersi: casualmente). In tal caso, il loro contenuto non può essere trascritto neanche sommariamente e nel verbale delle operazioni devono essere indicate soltanto la data, l’ora il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Il conferimento nell’archivio digitale. La polizia giudiziaria deve trasmettere immediatamente al pubblico ministero i verbali sommari e le registrazioni. Di questi il procuratore della Repubblica deve disporre il conferimento (cioè, la conservazione) in un apposito archivio definito “digitale”. Il differimento del deposito. Come avveniva nella normativa originaria, il pubblico ministero può scegliere se depositare i verbali e le registrazioni in archivio entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni oppure ritenere che il deposito debba essere differito quando da esso può derivare un grave pregiudizio per le indagini. In tal caso, egli chiede al giudice per le indagini preliminari l’autorizzazione al differimento, che comunque non può protrarsi oltre la chiusura delle indagini. Il deposito delle intercettazioni. Entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni (o comunque dalla data in cui è scaduto il differimento), il pubblico ministero deve depositare tutti i verbali e le registrazioni presso l’archivio digitale insieme ai decreti che hanno autorizzato, prorogato ecc. le intercettazioni medesime. Dell’avvenuto deposito è dato immediato avviso ai difensori delle parti (così sono denominati impropriamente l’indagato e l’offeso dal reato). La documentazione depositata nell’archivio digitale può essere esaminata dai difensori con possibilità di ascoltare le registrazioni, ma non di farne copia. Il segreto delle intercettazioni. L’art. 269, comma 1 stabilisce che non sono coperti da segreto solo i verbali e le registrazioni acquisite al fascicolo delle indagini o comunque utilizzate nel corso dell’indagini; quindi non sono coperti da segreto i verbali sommari che sono stati acquisiti nel corso dell’indagini. Pertanto, tutto il residuo materiale relativo alle intercettazioni, sia pure depositato e accessibile per i difensori resta coperto da un inedito “segreto esterno” che ha ripercussioni sia sul piano sostanziale, sia sul piano processuale. Per un verso, la qualità di atto segreto rende applicabili le sanzioni penali previste per la 81 violazione dello stesso. Per un altro verso, la medesima qualifica di atto segreto porta con sé il divieto di pubblicazione. Il divieto di pubblicazione. Nella normativa originaria, l'intercettazione divenuta conoscibile dal difensore era pubblicabile "nel contenuto" come notizia generica. Per i procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020 le intercettazioni che rientrano nell'area applicativa del nuovo segreto esterno non potranno essere pubblicate neppure come notizia generica. Tutti i brogliacci e le relative registrazioni, ancorché conosciuti o conoscibili dai difensori, restano coperti dal segreto fino a che non siano stati acquisiti al fascicolo dell'indagini. In definitiva, la nuova normativa ha mantenuto il principio, contenuto nella riforma Orlando, secondo cui i verbali sommari delle intercettazioni restano fuori dagli atti del fascicolo delle indagini fino a quando il giudice non ne abbia disposto l’acquisizione in quanto rilevanti. Ove il divieto di pubblicazione sia violato, resta ferma la punibilità a titolo di contravvenzione ai sensi dell’art. 684 c.p.: la sanzione vigente è irrilevante perché la contravvenzione è oblazionabile con 129 euro. Ma, nonostante l’estinzione degli effetti penali dovuta all’oblazione, la pubblicazione è diventata un illecito per espressa disposizione di legge e darà luogo all’obbligo di risarcimento del danno anche non patrimoniale che ha arrecato, il tutto con importi non indifferenti. Ulteriori avvisi. Ai difensori è dato avviso che, entro il termine fissato dal pubblico ministero, hanno la facoltà di indicare i verbali e le registrazioni che ritengono rilevanti, irrilevanti o inutilizzabili. Scaduto il termine, il pubblico ministero e difensori sono avvisati della data e del luogo dell’udienza di stralcio almeno 24 ore prima. II. La nuova udienza di stralcio. In udienza il giudice per le indagini preliminari può emettere i seguenti provvedimenti: a) Dispone l’acquisizione di quelle conversazioni e comunicazioni indicate dalle parti che appaiono non irrilevanti; b) Restituisce al pubblico ministero i verbali o le registrazioni valutate come irrilevanti; c) Procede anche di ufficio allo stralcio di quelle registrazioni e verbali di cui è vietata l’utilizzazione e che sono destinati alla distruzione; d) Procede anche d’ufficio allo stralcio di quelle registrazioni e verbali che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Con tale espressione il codice si riferisce ai dati sensibili. I verbali e le registrazioni valutati dal giudice come irrilevanti, inutilizzabili o contenenti dati personali particolari di cui non sia dimostrata la rilevanza, sono restituiti al procuratore della Repubblica, che li colloca nell’archivio digitale gestito con modalità tali da assicurare la segretezza esterna della documentazione. I difensori possono ottenere copia delle registrazioni e degli atti quando sono stati acquisiti. La trascrizione delle intercettazioni acquisite dal giudice. Quanto alla disciplina della trascrizione delle intercettazioni acquisite, il comma 7 dell’art. 268 afferma che “il giudice, anche nel corso delle attività di formazione del fascicolo del dibattimento ai sensi dell’art. 431, dispone la trascrizione integrale delle registrazioni”. La norma permette al giudice di rinviare la trascrizione ad un momento successivo all’udienza di stralcio, come avveniva in passato. Pertanto, ove a ciò non si provveda durante le indagini, la trascrizione sarà ordinata al momento della formazione del fascicolo per il dibattimento. Quando si dà luogo alla trascrizione, di essa i difensori possono estrarre copia. L’acquisizione concordata dei verbali sommari. In base al nuovo comma 7 dell’art. 268, le parti possono consentire che i verbali sommari, redatti dalla polizia giudiziaria nel corso dell’indagini preliminari, siano resi utilizzabili. Anche qualora si sia proceduto ad acquisizione concordata, in caso di contestazione sul tenore del brogliaccio si applica la disciplina della trascrizione mediante perizia. La pubblicazione delle intercettazioni acquisite. Dopo che il giudice ha disposto l’acquisizione delle intercettazioni rilevanti, o dopo l’acquisizione concordata, queste possono essere pubblicate nel loro contenuto, e cioè come notizia generica. Resta in vigore il divieto di pubblicare il testo delle medesime fino a che le trascrizioni non siano state inserite nel fascicolo per il dibattimento. Il nuovo archivio digitale. I verbali sommari, le registrazioni e ogni altro atto relativo alle intercettazioni sono conservati integralmente in un apposito archivio digitale gestito e tenuto sotto la direzione e la 82 Disposizioni generali per le intercettazioni mediante captatore. Per le operazioni di avvio e di cessazione delle registrazioni con captatore l’ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di ausiliari. Il verbale delle operazioni di intercettazione deve indicare il tipo di programma impiegato e, ove possibile, i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni. Invalidità speciali per il captatore. È prevista la sanzione dell’inutilizzabilità per i dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile e per i dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo. Le attività di captazione che sfuggono ai requisiti delle intercettazioni tra presenti. La sentenza delle sezioni unite della quale abbiamo trattato in precedenza ha dato atto che, mediante il captatore informatico, possono essere compiute attività ulteriori rispetto alle tradizionali intercettazioni di conversazioni tra presenti: a) Mettere in funzione la web camera e fare videoriprese; b) Perquisire l’hard disk e fare copia totale o parziale delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira; c) Decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera collegata al sistema e visualizzare, nonché acquisire, ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio. Le sezioni unite hanno limitato intenzionalmente la propria pronuncia alle sole intercettazioni svolte a mezzo captatore, lasciando impregiudicata ogni questione relativa alle ulteriori attività. Riteniamo che, in assenza di una normativa sul punto, atti del genere in quanto atipici siano preclusi in base al principio di non sostituibilità. VI. L’uso delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali è stata concessa l’autorizzazione. Di regola, i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali le medesime sono state disposte, salvo che appaiono indispensabili per l’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. Secondo un orientamento pacifico, i verbali restano comunque utilizzabili come notizia di reato. La materia è stata oggetto di un’importante sentenza delle sezioni unite secondo cui non si è dinanzi ad “altro procedimento” (e, quindi, le intercettazioni possono essere utilizzate) con riguardo a tutti quei reati “che risultino connessi ex art. 12 a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata disposta, sempre che rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”. Deve trattarsi, in sintesi, di un reato compiuto per nascondere un precedente, oppure di un reato attribuito ad una persona che ha agito in concorso con l’autore del reato indagato, o infine di un reato riconducibile al medesimo disegno criminoso. Le modifiche legislative intervenute per i nuovi procedimenti. Per i procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020 deve ritenersi valido il divieto di utilizzare i risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali esse sono state disposte, da intendersi diversi dai procedimenti connessi a quelli per i quali era stata concessa l’autorizzazione. Tuttavia, i limiti tracciati dalle sezioni unite sono stati superati dalla legge di conversione 7/2020, che ha permesso di utilizzare quelle nuove intercettazioni non autorizzate che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento non soltanto dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, ma anche per l’accertamento di reati comuni intercettabili il cui elenco è stato esteso dalla legge di conversione. L’uso delle nuove intercettazioni con captatore informatico per la prova di reati diversi dall’autorizzazione. Sempre per i procedimenti iscritti dopo il 31 agosto 2020, l’uso delle intercettazioni per reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, è stato ulteriormente ampliato rispetto alla regola generale contenuta nell’art. 270 appena esaminata. I risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, se compresi tra quelli indicati dall’art. 266, comma 2-bis, e cioè se concernono, oltre ai reati di criminalità organizzata, anche delitti contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici ufficiali incaricati di pubblico servizio. VII. Le intercettazioni nei confronti dei parlamentari. Le intercettazioni riguardanti i parlamentari si dividono in tre categorie: 85 1) Siamo in presenza di intercettazioni dirette quando sono sottoposti ad intercettazione utenze o luoghi appartenenti al parlamentare o nella sua disponibilità; 2) Le intercettazioni sono indirette quando l’attività di captazione interessa utenze intestate a differenti soggetti che, tuttavia, possono ritenersi interlocutori abituali del parlamentare, o concerne luoghi a lui non appartenenti, ma che possono presumersi dal medesimo frequentati. Per disporre l’intercettazione diretta e indiretta nei confronti di un parlamentare è necessaria una preventiva autorizzazione a procedere della camera di appartenenza; 3) L’intercettazione è definita casuale quando non è disposta su utenze riferibili al parlamentare e l’ingresso di quest’ultimo nell’area di ascolto e del tutto accidentale. In questo caso sarà applicabile l’art. 6 della legge 140, perché l’autorità procedente, per il carattere inaspettato del coinvolgimento del soggetto politico, non può munirsi preventivamente dell’autorizzazione della camera di appartenenza. In base all’art. 6 il giudice per le indagini preliminari, qualora ritenga irrilevanti i verbali e le registrazioni delle conversazioni intercettate nel corso dei procedimenti a carico di terzi, alle quali abbia preso parte un parlamentare, ne decide in camera di consiglio la distruzione. Viceversa, se considera rilevanti tali intercettazioni, egli deve chiedere un’autorizzazione alla camera cui il parlamentare appartiene. L’autorizzazione è necessaria solo nel caso in cui la conversazione intercettata debba essere utilizzata sia nei confronti del parlamentare sia nei confronti dei terzi; quando l’autorizzazione non viene concessa, le intercettazioni sono inutilizzabili nei confronti del parlamentare coinvolto ma potranno essere impiegate nei confronti di terzi. Qualora, invece, l’autorità giudiziaria intende utilizzare i risultati delle intercettazioni esclusivamente nei confronti di persone diverse dal parlamentare, non occorre alcuna autorizzazione. VIII. Le intercettazioni preventive. Il legislatore consente, per finalità di prevenzione di reati gravissimi, l’uso di intercettazioni che sfuggono alle finalità del processo penale. Si tratta dei delitti di criminalità terroristica o mafiosa e assimilati. I soggetti legittimati alla richiesta sono il ministro dell’interno o, su sua delega, i responsabili dei servizi centrale di polizia, carabinieri, Guardia di Finanza. Il soggetto che concede l’autorizzazione è il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui si trova il soggetto da sottoporre a controllo. Le intercettazioni sono disposte quando siano ritenuti indispensabili per la prevenzione di attività terroristiche o di eversione dell’ordinamento costituzionale. La durata massima è di 40 giorni, prorogabile per periodi successivi di 20 giorni. Delle operazioni svolte e dei contenuti intercettati è redatto verbale sintetico, depositato presso il procuratore della Repubblica che ha autorizzato le attività entro cinque giorni dal termine delle stesse. Il procuratore, verificata la conformità, dispone l’immediata distruzione dei supporti e dei verbali. Gli elementi acquisiti non possono essere utilizzati nel procedimento penale, fatti salvi i fini investigativi. 6. I MEZZI ATIPICI DI RICERCA DELLA PROVA. In giurisprudenza si è posto il problema se siano ammissibili quei mezzi atipici di ricerca della prova che il progresso scientifico ha inventato (ad esempio le videoriprese e le perquisizioni online). Per i mezzi atipici di prova l’art. 189 pone i requisiti dell’idoneità all’accertamento, della mancanza di pregiudizio per la libertà morale della persona e del previo contraddittorio davanti al giudice. I dubbi sono sorti proprio perché l’art. 189 appare difficilmente conciliabile con le caratteristiche dei mezzi di ricerca della prova che, quantomeno con riguardo alle captazione occulta, sono compiuti in segreto durante le indagini e, dunque, appaiono incompatibili con un previo contraddittorio davanti al giudice. La difficoltà è stata superata, in un primo approccio, perché la giurisprudenza ha affermato che il contraddittorio si può operare nel momento in cui risultati dei mezzi atipici di ricerca della prova vengono ammessi dal giudice, che valuta ex post la presenza dei requisiti. Così può svolgersi un contraddittorio successivo sull’idoneità dell’accertamento dei fatti e sulla tutela della libertà morale. I mezzi atipici di ricerca della prova e le libertà fondamentali. Ma è sorta un’ulteriore difficoltà: le nuove acquisizioni scientifiche e tecnologiche hanno inventato strumenti invasivi che aggrediscono le libertà fondamentali inviolabili. Eventuali compressioni sono ammesse nei casi e modi stabiliti dalla legge, con atto 86 motivato dell’autorità giudiziaria, in ossequio al principio di proporzionalità. Il sacrificio del diritto deve essere giustificato dalla gravità del reato. Purtroppo l’incessante e rapido progresso della scienza ha fatto sì che raramente siano stati disciplinati espressamente per legge i nuovi strumenti scientifici; ciò è avvenuto soltanto per i tabulati telefonici e per l’ispezione, la perquisizione e il sequestro di strumenti informatici. Restano non regolate materie quali le videoriprese e l’utilizzo del captatore informatico per attività diverse dalle intercettazioni. La dottrina e la giurisprudenza hanno tracciato alcune regole che permettono di valutare l’ammissibilità dei nuovi mezzi atipici di ricerca della prova. Il principio di non sostituibilità. In primo luogo è necessario accertare se il mezzo non tipico sia inquadrabile in un mezzo tipico di ricerca della prova e trovi in esso la sua regolamentazione. Nel fare questa operazione la giurisprudenza ha posto quello che è stato definito come il principio di non sostituibilità: il mezzo atipico non deve aggirare fraudolentemente le regole sostanziali previste per l’atto tipico. Ove lo facesse sarebbe inutilizzabile. Una volta che il vaglio preliminare abbia condotto a ravvisare un’effettiva atipicità dello strumento, intesa come impossibilità di inquadramento all’interno degli atti già disciplinati dal codice, occorre svolgere un’ulteriore valutazione in ordine al grado di limitazione delle libertà fondamentali prodotto dall’attività atipica: 1) Il mezzo atipico di ricerca che non limita diritti fondamentali. I mezzi atipici di ricerca della prova che non limitano i diritti fondamentali possono essere disposti dalla polizia giudiziaria purché siano compiuti per gli scopi legittimi del processo penale. 2) Il mezzo atipico di ricerca che limita diritti fondamentali protetti da riserva di legge. Per i mezzi atipici di ricerca della prova che limitano diritti fondamentali protetti da riserva di legge la giurisprudenza ha fatto una distinzione: - Quando il mezzo atipico lede il nucleo essenziale del diritto, in mancanza di una norma di legge nel quale possa rientrare, la conseguenza è l’inutilizzabilità; - Quando il mezzo atipico lede non il nucleo essenziale del diritto, bensì una sfera periferica dello stesso, esso è ammesso se autorizzato dal pubblico ministero con un provvedimento motivato. 3) Il mezzo atipico di ricerca che limita diritti fondamentali non protetti da riserva di legge . Considerazioni del tutto analoghe valgono con riferimento ai mezzi atipici che limitano diritti fondamentali non protetti dalla riserva di legge. 87 La presunzione di innocenza (art. 27, comma 2, Cost.) impone che le misure cautelari non abbiano la funzione di anticipare la pena, né quella di costringere l’imputato a confessarsi colpevole. Le esigenze cautelari devono essere previste tassativamente al fine di evitare l’arbitrio del giudice. Nel sistema accusatorio, la presunzione di innocenza e il rispetto delle libertà fondamentali impongono la previsione di una pluralità di misure cautelari; in tal modo, il giudice può scegliere quella che risulta più adeguata al caso concreto e la custodia cautelare in carcere resta la extrema ratio. I principi esposti trovano espressione nel criterio del “minor sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato deve essere contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto. Il criterio impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, adeguati alle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. La riserva di legge e di giurisdizione. Principi costituzionali di riferimento. - Art. 2 Cost.: inviolabilità dei diritti dell’uomo; - Art. 13 Cost.: inviolabilità della libertà personale; - Art. 27, comma 2 Cost.: presunzione di non colpevolezza. Prendendo le mosse dall’art. 13 della Costituzione, questo afferma che “la libertà personale è inviolabile”. Il comma 2 afferma che “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli modi e casi previsti dalla legge”. Dalla lettura si ricava che, per limitare la libertà personale, esiste una doppia riserva: una riserva di legge e una riserva di giurisdizione. La riserva di legge. La costituzione, all’art. 13, comma 2, permette la restrizione della libertà personale soltanto nei casi e modi previsti dalla legge. Da ciò si ricava che il potere di limitare la libertà personale ha il carattere della eccezionalità e, pertanto, può essere esercitato soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge. Il codice precisa i “casi e modi” quando, nell’art. 272, afferma: “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo” avente ad oggetto, appunto, le misure cautelari personali. Riserva di giurisdizione. Ai sensi dell’art. 279 del codice: sull’applicazione, revoca o modifica delle misure cautelari “provvede il giudice che procede”. Tale disposizione costituisce oggi l’interpretazione autentica della costituzione, che, nell’art. 13, comma 2, permette la limitazione della libertà personale con “atto motivato dell’autorità giudiziaria”. Quando si tratta di materia attinente alla libertà personale, per “autorità giudiziaria” si deve intendere “giudice”. Infatti, le misure cautelari possono essere soltanto richieste (e non disposte) dal PM. All’inizio del procedimento, prima dell’esercizio dell’azione penale, tale organo è il giudice per le indagini preliminari. Le regole generali. Il codice prevede varie disposizioni di carattere generale che precisano i presupposti necessari per applicare le misure coercitive; poiché il giudice per le indagini preliminari deve motivare ampiamente il suo provvedimento, ne deriva che il PM ha l’onere di convincerlo che esistono in concreto i presupposti che fondano la singola misura. Per fare ciò, il PM trasmette al giudice i verbali degli atti che giustificano la misura richiesta. Dopo che la misura è stata eseguita, l’imputato ha diritto di essere sentito dal giudice in un interrogatorio definito “di garanzia”. Si ricava che il contraddittorio sulla misura cautelare è posticipato ad un momento successivo all’applicazione di quest’ultima. Il principio della domanda cautelare. Ai sensi dell’art. 291, comma 1, le misure cautelari personali sono disposte dal giudice “su richiesta del pubblico ministero”. Pertanto, al giudice è precluso di disporre d’ufficio le misure cautelari personali. Il principio della domanda cautelare vige sia quando deve procedersi all’applicazione della misura, sia quando devono essere ordinate modalità esecutive più gravose della misura stessa. Ne consegue che, quando le esigenze cautelari risultano essersi aggravate, per poter applicare una modalità più gravosa della misura è necessaria una richiesta della pubblica accusa in tal senso. 90 2. La struttura normativa delle misure cautelari personali. Vi è una prima distinzione fondamentale tra misure personali e reali. Le misure personali comportano limiti alla libertà personale o alla libertà di determinazione nei rapporti familiari e sociali. Le misure reali toccano singoli beni mobili o immobili ed impongono il divieto di disporre di tali beni. LE MISURE CAUTELARI PERSONALI Si dividono in tre categorie: 1) LE MISURE COERCITIVE. Queste, a loro volta, si dividono in: - Misure obbligatorie:  Il divieto di espatrio (art. 281) impone all’imputato di non uscire dal territorio nazionale senza l’autorizzazione del giudice, che può dare tutte le disposizioni necessarie per assicurare l’esecuzione del provvedimento;  L’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria (art. 282) impone all’imputato di presentarsi presso gli uffici di quest’ultima nei giorni e nelle ore indicate dal giudice;  L’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), con il quale il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare. Qualora sussistano esigenze di tutela della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, il giudice può prescrivere obblighi accessori, come il divieto di avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa, o l’obbligo di versare un assegno periodico ai conviventi. Norme specifiche previste per i delitti di violenza alla persona in ambito familiare. Per i delitti indicati dal comma 6 dell’art. 282-bis, che possiamo ricomprendere nella categoria dei “delitti di violenza contro la persona commessi in danno dei prossimi congiunti o del convivente”, le riforme recenti hanno previsto 4 garanzie a tutela delle persone offese: a) È consentito al giudice di applicare l’allontanamento dalla casa familiare anche al di sotto dell’ordinario limite di pena (che è collegato alla presenza di un delitto punito con più di tre anni); b) È consentito al giudice di accompagnare la misura con il braccialetto elettronico; c) È consentito alla polizia giudiziaria di applicare la misura precautelare dell’allontanamento di urgenza su autorizzazione del PM e con successiva convalida del giudice; d) I provvedimenti cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa devono essere comunicati, oltre che alla medesima persona offesa, anche al suo difensore.  Il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter). Il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa, dai prossimi congiunti di questa o da persone legate da relazione affettiva o convivenza con la persona offesa; il giudice può anche prescrivere all’imputato di mantenere una determinata distanza dai predetti luoghi. Inoltre, può vietare all’imputato di comunicare con la persona offesa, i suoi prossimi congiunti e le persone legate da relazione affettiva o convivenza.  Il divieto di dimora (art. 283) impone all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice. Viceversa, con l’obbligo di dimora si prescrive all’imputato di non allontanarsi, senza l’autorizzazione del giudice, dal Comune o da una sua frazione. Può essere aggiunto un obbligo di reperibilità. 91 - Misure custodiali: queste comportano per l’imputato una situazione di custodia, dalla quale derivano due conseguenze: quella negativa, che consiste nella configurabilità del delitto di evasione, ove l’imputato si allontani dal luogo di custodia; quella positiva, che consiste nel fatto che il periodo trascorso in custodia sarà computato come esecuzione della pena detentiva, nel caso in cui questa debba essere eseguita in seguito a condanna. Queste sono:  Gli arresti domiciliari (art. 284). Il giudice impone all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza. A tale misura possono essere aggiunti limiti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano. Il braccialetto elettronico (art. 275-bis) non è una misura cautelare, bensì una modalità di esecuzione dell’arresto domiciliare o dell’allontanamento dalla casa familiare. È uno strumento con il quale è possibile controllare costantemente gli spostamenti dell’indagato. Poiché lo strumento incide sui diritti fondamentali della persona e comprime la riservatezza della vita privata, la sua applicazione è subordinata al consenso dell’indagato. Il braccialetto elettronico è diventato una vera e propria modalità di esecuzione ordinaria dell’arresto domiciliare; ciò ha comportato una serie di conseguenze giuridiche: in primo luogo, quando il giudice non applica il braccialetto elettronico deve motivare perché nel concreto non ritiene necessario tale dispositivo; in secondo luogo, prima di decidere sulla richiesta di arresto domiciliare il giudice deve accertare presso la polizia giudiziaria la disponibilità concreta del congegno elettronico. In caso di indisponibilità, il giudice deve valutare la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna di quelle misure alternative alla carcerazione che possono essere applicate in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso specifico. Divieto di concedere l’arresto domiciliare. Il codice vieta di concedere gli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede.  La custodia in carcere (art. 285). Si tratta della più grave tra le misure coercitive: il giudice dispone che l’imputato venga immediatamente condotto in un istituto di custodia a disposizione dell’autorità giudiziaria, dove dovrebbe essere tenuto separato dai detenuti che stanno scontando una pena definitiva.  La custodia cautelare in luogo di cura (art. 286). Se l’imputato necessita di cure specialistiche che non possono essere fatte in luogo di detenzione, il giudice ne dispone la custodia cautelare in luogo di cura. Secondo la giurisprudenza, non si tratta di una misura autonoma, bensì di una modalità di esecuzione della custodia in carcere. 2) LE MISURE INTERDITTIVE consistono nell’applicazione provvisoria a scopo cautelare di determinati divieti. In concreto, può accadere che sia possibile far fronte alle esigenze cautelari mediante misure meno gravi di quelle coercitive, con la semplice compressione di determinati diritti e poteri collegati ad uno stato civile o professionale, lasciando invece inalterata la libertà fisica in senso stretto. Sono previsti quattro tipi di misure interdittive: - Sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale (art. 288); - Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289); - Divieto di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 289-bis); - Divieto di esercitare determinate professioni, imprese o uffici direttivi (art. 290). 3) APPLICAZIONE PROVVISORIA DI MISURE DI SICUREZZA. Il codice prevede che le misure di sicurezza possano essere applicate provvisoriamente a titolo di provvedimento cautelare (art. 312). L’applicazione provvisoria ha per oggetto: - Il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per l’imputato che sia affetto da vizio di mente totale (OPG, oggi sostituito dalle REMS, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza); - Il ricovero in una casa di cura e custodia per l’imputato semi-infermo di mente; - La libertà vigilata. 92 2) Il pericolo di fuga. (Esigenza processuale). Questa esigenza sussiste quando l’imputato si è dato alla fuga o vi è il pericolo concreto e attuale che egli si dia alla fuga. Occorre, tuttavia, che il giudice ritenga possibile che all’imputato possa essere irrogata in concreto con la sentenza una pena superiore a due anni di reclusione. Al di sotto di tale soglia il legislatore impedisce di dare rilevanza al pericolo di fuga. La legge 47 del 2015, oltre ad aggiungere il requisito dell’attualità del pericolo, ha precisato che “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”. 3) Il pericolo che vengano commessi determinati reati. (Esigenza extraprocessuale). La misura cautelare deve essere applicata quando vi è il pericolo concreto e attuale che l’imputato commetta una delle seguenti categorie di delitti: o Gravi delitti con l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale; o Gravi delitti diretti contro l’ordine costituzionale; o Delitti di criminalità organizzata; o Delitti della stessa specie di quello per il quale si procede. Per i delitti della stessa specie l’arresto domiciliare può essere disposto soltanto quando è prevista la pena della reclusione di almeno quattro anni nel massimo; inoltre, la carcerazione cautelare può essere disposta soltanto quando è prevista la pena della reclusione di almeno cinque anni nel massimo, oppure si tratta del delitto di finanziamento illecito dei partiti. Il pericolo concreto e attuale deve essere desunto da specifiche modalità del fatto di reato e dalla personalità pericolosa dell’autore del fatto, con il limite che la pericolosità non può essere desunta esclusivamente dalla gravità del titolo di reato addebitato, bensì deve essere ricavata dai precedenti penali o da comportamenti o atti concreti, che devono essere espressamente indicati. Le novità introdotte dalla legge 47/2015. Con questa legge sono stati inseriti i due termini “attuale” e “concreto”. L’attualità del pericolo viene distinta dalla concretezza. La misura cautelare viene chiesta dal PM al giudice che procede. Quest’ultimo può decidere in un arco temporale molto ampio: quindi, quando la misura cautelare è adottata dal giudice mesi dopo la richiesta, cosa deve valutare il giudice? Dovrà verificare la concretezza e attualità del pericolo: dovrà verificare se quei comportamenti nel tempo possono far emergere degli atteggiamenti sintomatici di ripetizione dello stesso delitto, di fuga o di inquinamento della prova. L’attualità e la concretezza saranno i punti di analisi del giudice soprattutto quando decide sulla richiesta dopo un lasso di tempo notevole. I criteri di scelta delle misure cautelari personali. Il giudice, dopo aver accertato che esistono sia i gravi indizi di reità, sia almeno una delle esigenze cautelari, dispone la misura con ordinanza. Tuttavia il suo potere è vincolato a limiti formali e sostanziali: - Sotto il profilo formale, il giudice non può disporre una misura più grave di quella richiesta dal pubblico ministero: vale il principio accusatorio della domanda cautelare, che comporta la necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato; - Da un punto di vista sostanziale, il giudice ha il potere-dovere di scegliere la misura cautelare in base ai criteri che sono espressamente indicati nell’art. 275. In base alla presunzione di innocenza (art. 27, comma2, Cost.) le misure cautelari coercitive devono rispettare il criterio del minore sacrificio necessario, secondo cui la restrizione della libertà personale deve essere contenuta entro i limiti indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari nel caso concreto. Ciò premesso, in base all’articolo 275, la misura da applicarsi deve essere: “adeguata” alle esigenze cautelari presenti in concreto; “proporzionata” alla gravità del fatto e della sanzione che potrà essere irrogata; “graduata” in modo tale da applicare la custodia in carcere soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. 1) Il principio di adeguatezza. Ai sensi dell’art. 275, comma 1 il giudice deve valutare la “specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto”. 95 Il sistema è ordinato in base al principio della “pluralità graduata”, secondo cui le misure sono connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale. Una volta che il pubblico ministero abbia adempiuto all’onere di provare l’esistenza di una determinata esigenza cautelare, occorre che vi sia una piena corrispondenza funzionale tra la misura da adottare e il pericolo che si vuole evitare. Attiene al tema dell’adeguatezza tra la misura e il fatto anche una nuova previsione, introdotta dalla legge 128 del 2001, che disciplina l’applicazione di una misura cautelare contestualmente all’emissione della sentenza di condanna. Ai sensi dell’art. 275, comma 1-bis. il giudice chiamato a valutare la sussistenza delle esigenze cautelari deve tenere conto “anche dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti”. Infine, il legislatore ha previsto una disciplina apposita per l’applicazione di una misura cautelare contestualmente alla sentenza di condanna in fase di appello. In tal caso il nuovo comma 2-ter dell’art. 275 stabilisce che il giudice, anche d’ufficio, deve emettere una misura cautelare personale se sussistono esigenze cautelari in relazione ad un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, sempre che tale delitto sia stato commesso “da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole”. 2) Il principio di proporzionalità. L’art. 275, comma 2 dispone che “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata”. La prevedibile esecuzione della pena in uno stato non detentivo. Il legislatore ha voluto regolare i casi- limite nei quali, fin dalla richiesta della misura cautelare, sia prevedibile che al momento della pronuncia dell’eventuale condanna la pena sarà scontata fuori dal carcere. Il divieto di custodia cautelare. Al giudice è posto il divieto di disporre la carcerazione cautelare o l’arresto domiciliare quando si prevede che sarà concessa la sospensione condizionale della pena (art. 275, comma 2-bis). La sospensione condizionale deve essere concessa, di regola, quando la pena detentiva, da irrogare in concreto, non supera i due anni e il giudice ritiene che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il divieto di carcerazione cautelare. Al giudice è posto l’ulteriore divieto di applicare la carcerazione cautelare quando egli “ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni”. Il divieto di carcerazione cautelare non opera nei seguenti casi: o Quando l’indagato ha trasgredito le prescrizioni di una misura cautelare; o Nei procedimenti per i delitti più gravi o di violenza personale; o Quando gli arresti domiciliari non possono essere disposti per inidoneità del domicilio e nessun’ altra misura cautelare e adeguata. Tutto ciò comporta che il giudice debba valutare in anticipo se vi sarà una decisione di condanna e se la pena detentiva potrà essere condizionalmente sospesa o sarà contenuta nel limite di tre anni, salvo reati gravi o di violenza personale. Si tratta di una valutazione complessa e difficile da farsi allo stato degli atti. 3) Il principio di gradualità. La carcerazione cautelare può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. La legge 47/2015, nel modificare il comma 3 dell’art. 275, ha previsto due nuovi istituti che costituiscono un rafforzamento dell’operatività del principio: o Il nuovo comma tre sancisce che le misure coercitive o interdittive diverse dal carcere possono essere applicate cumulativamente dal giudice. L’applicazione cumulativa permette oggi di offrire al giudice un ventaglio più ampio di misure alternative, rendendo più concreto il principio di residualità del carcere; o In base al nuovo comma 3-bis il giudice, nel disporre la carcerazione cautelare, deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene non idonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Eccezioni al principio di gradualità. In presenza di gravi indizi di determinati delitti che denotano una forte pericolosità, il codice prevede eccezioni al principio di gradualità sotto la forma di due presunzioni: o La presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari. In presenza di gravi indizi dei delitti previsti dall’art. 275, comma 3, si considera esistente almeno una delle esigenze cautelari contemplate dall’art. 274. La presunzione è relativa perché ammette la prova contraria e si fonda sul fatto che, in presenza di gravi indizi dei delitti di cui al comma 3 dell’art. 275, che 96 denotano una forte pericolosità, nella “maggior parte dei casi” è presente almeno una delle esigenze cautelari, salvo che in concreto si possa provare che non ne sussiste alcuna. o La presunzione di adeguatezza della carcerazione cautelare. In presenza di gravi indizi di colpevolezza dei summenzionati reati, il legislatore ha ritenuto adeguata la sola custodia cautelare in carcere. Questa presunzione è stata costruita in alcuni casi come assoluta; in altri casi come relativa:  La presunzione assoluta di adeguatezza della carcerazione cautelare è prevista per i soli delitti di associazione sovversiva, terroristica e mafiosa. In presenza di gravi indizi di tali reati si presume: 1) Che esista almeno un’esigenza cautelare (presunzione relativa); 2) Che l’unica misura adeguata sia la custodia cautelare in carcere (presunzione assoluta). La difesa non può dimostrare che un’altra misura meno grave risulta adeguata a soddisfare le esigenze cautelari nel caso concreto. La presunzione assoluta cade soltanto se viene meno la prima presunzione relativa, che ne costituisce il presupposto. Di conseguenza, perché possa cadere la presunzione assoluta occorre che “siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.  La presunzione relativa di adeguatezza della carcerazione cautelare . Per tutti gli altri delitti previsti dall’art. 275, comma 3, la presunzione di adeguatezza della carcerazione cautelare è soltanto relativa. Così, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, si presume: 1) Che esista almeno un’esigenza cautelare (presunzione relativa); 2) Che l’unica misura adeguata sia la custodia in carcere (presunzione relativa). Entrambe le presunzioni ammettono la prova contraria. Pertanto, la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere viene meno: a) Sia quando siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari; b) Sia quando si riesca dimostrare che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari, pur esistenti, risultano attenuate e, dunque, possono essere soddisfatte con altre misure anche applicate cumulativamente. Le situazioni incompatibili con la custodia in carcere. Il codice prevede situazioni che impediscono la custodia cautelare in carcere: quest’ultima non può essere disposta quando l’imputato è affetto da malattia che si trova in una fase così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili e alle terapie curative; donna incinta; madre di prole di età fino a sei anni con lei convivente; padre in analoghe condizioni, se la madre è assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; persona che ha superato l’età di settant’anni. L’imputato che si trova nelle situazioni menzionate è sottoposto al carcere soltanto se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. 3. L’applicazione delle misure cautelari personali. Il procedimento. L’applicazione delle misure cautelari personali avviene in due fasi:  Nella prima vi è una decisione del giudice fondata su di una richiesta che viene presentata dal PM senza che sia sentita la difesa, poiché la misura deve essere eseguita “a sorpresa” per essere efficace;  Nella seconda fase vi è una qualche forma di contraddittorio perché il giudice per le indagini preliminari deve interrogare l’indagato, e il difensore ha il diritto di esaminare i verbali degli atti che sono stati valutati dal giudice. Le due fasi hanno una caratteristica comune: il potere di controllo che può essere esercitato dal giudice è limitato; inoltre, all’indagato non è riconosciuto il diritto alla prova, e cioè la possibilità di far assumere prove a difesa; infine, il giudice decide soltanto su atti e documenti scritti, senza poter sentire a voce alcun testimone. L’applicazione delle misure mediante un procedimento incidentale. Le misure cautelari coercitive sono richieste e decise nel corso di un procedimento incidentale, che costituisce una diramazione collaterale del procedimento principale, che continua a svolgersi autonomamente. 97
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