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Dispense DIRITTO DEL LAVORO Prof. Altimari - UCSC 2023/2024, Dispense di Diritto del Lavoro

appunti delle lezioni di diritto del lavoro e diritto sindacale (2024), mirko altimari, unicatt

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 20/05/2024

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Scarica Dispense DIRITTO DEL LAVORO Prof. Altimari - UCSC 2023/2024 e più Dispense in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Maria Carolina Nolli UCSC – EGA 2023 / 2024 DIRITTO DEL LAVORO Prof. Mirko Altimari Introduzione CENNI STORICI 27.02.24 Gli esiti del diritto di lavoro sono influenzati da economia e da storia. Il contratto di lavoro si attua quando è il rapporto paritario: nelle prime fasi il diritto del lavoro volle rispondere al problema che, dal punto di vista sostanziale, il rapporto non era paritario (datore vs chi cerca lavoro), lo scopo di questo ramo del diritto è quindi mettere in equilibrio il rapporto squilibrato tra le parti. Il diritto del lavoro nasce come conseguenza della rivoluzione industriale della fine dell’800 e nasce in ordinamento liberale, caratterizzato in eco e nei rapporti con i sindacati, di cui però non si hanno grandi normative. La prima legislazione sociale dell’800 è frutto della pressione politica e sociale delle forze di lavoratori (sindacati) che chiedono migliori condizioni di vita. Il sindacato nasce con il ruolo di concordare la tariffa, cioè nasce per poter insieme davanti al datore di lavoro meglio tutelate gli interessi del lavoratore subordinato concordando la tariffa, in assenza della quale il lavoratore subordinato non avrebbe prestato la propria attività. Le prime norme disciplinano la riduzione delle ore di lavoro e abbozzano un’assicurazione sociale. L’ordinamento interviene poco. La connessione tra rapporto di lavoro e diritto sindacale è importante perché le regole del rapporto di lavoro sono debitrici del ruolo della contrattazione collettiva posta in essere da sindacati e associazioni. Nel ventennio del fascismo si ha un ruolo di mortificazione delle libertà: con i fascisti esisteva un sindacato unico e imposto i cui contenuti dei contratti avevano efficacia particolare. In quel periodo non c’è stata libertà sindacale. Il fascismo puntava a ricomporre le risultanze del socialismo ma mortificando l’autonomia dei corpi intermedi. I sindacati furono abrogati e il fascismo impose un contratto collettivo…ma le parti non erano in equilibrio. Il sindacalismo ha ruolo importante nella liberazione e porta a nascita della repubblica. FONTI La costituzione del ‘48 rappresenta la struttura principale all’interno di cui si collocano le vicende del diritto del lavoro. La costituzione è repubblicana, è sociale, entra in ordinamento che non è solo ordinamento liberale, è costituzione rigida perché iter particolare per modifiche e sancisce diritti utili per le norme singole. La costituzione si basa sul principio lavoristico. Il lavoro è valore base di ordinamento repubblicano: [art 1] L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Il lavoro è accesso alla cittadinanza. È costituzione per stato non solo liberale, in cui i cittadini sono uguali di fronte alla legge, ma anche sociale, cioè (comma 2 art 3) in cui si ha uguaglianza sostanziale tra cittadini, non ci sono ostacoli di ordine economico e sociale tra cittadini. L’articolo ci dice quindi che, presupponendo che i cittadini siano tra loro uguali - e di fatto dal punto di vista materiale i cittadini non sono uguali, la repubblica debba rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto non di diritto la libertà e l’uguaglianza tra i cittadini. Questo ruolo è stato sostenuto notevolmente in alcuni decenni rispetto ad altri. Per esempio, in questi giorni nei decreti-legge si sono modificati alcuni ambiti del rapporto del diritto di lavoro. Questo succede perché il diritto del lavoro è un termometro sociale, dipende da ambito politico e storico economico del momento. [art 4] La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. L’ordinamento deve cercare di rendere effettivo questo diritto. Il lavoro a cui ci si riferisce è quello subordinato, la repubblica parla di lavoro in senso ampio, il comma 2 di art. 4 infatti parla di lavoro in senso ampio, cioè ogni cittadino ha la funzione di svolgere un’attività che concorra allo sviluppo della società. È lavoro anche quello dello studioso, del missionario, del monaco, perché è pregresso materiale o spirituale della società. avere patrimoniale datore di lavoro dipendente [art 35] = La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, è la concretizzazione dell’articolo 4. La repubblica cura la formazione dei lavoratori e promuove le unioni internazionali (riferimento velato a OIL, organizzazione internazionale del lavoro). Riconosce libertà di emigrazione e tutela lavoro italiano all’ estero. Parla di emigrazione, perché all’epoca gli italiani erano quelli che emigravano e non c’era fenomeno contrario di immigrazione. [art 36] comma primo = retribuzione: il lavoratore ha diritto a retribuzione in proporzione a qualità e quantità lavoro e che permetta a sé e alla famiglia di garantire esistenza libera e dignitosa. comma secondo = durata: max di durata lavorativa stabilita da legge. comma terzo = diritto a riposo settimanale e a ferie retribuite e non può rinunciarvi. [art cc] = lavoro delle donne, donna ha stessi diritti dell’uomo. Si deve anche assicurare la funzione famigliare: a madre e bambino speciale protezione (congedi famigliari). Limite minimo di età per il lavoro salariato. [art cc] = cuore del diritto della previdenza sociale, si parla di previdenze e delle pensioni e assistenza sociale. [art cc] = organizzazione sindacale è libera, è tutelata anche la possibilità di non iscriversi a un sindacato. Obblighi che dovevano essere imposti al sindacato sono enunciati in altri commi. Dell’art. è stata attuata solo la libertà dei sindacati, ma gli obblighi non sono mai stati attuati ma non sono stati abrogati. [art 40] = diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano. Quindi dice che lo sciopero è un diritto, esiste una legge che regola lo sciopero che si applica nei servizi pubblici essenziali. [art 40] = è compromesso tra le anime politiche che hanno condotto alla nascita della repubblica e della costituzione, quindi cattolica, socialista e liberale. comma 1 iniziativa economica privata è libera ma essa non può svolgersi in contrasto con utilità sociale o in modo da recare danno sicurezza e libertà umana. È quasi la continuazione di art 3 comma 2 in cui si dimostra che la costituzione sancisce elenco ampio di diritti sociali e impegna governo a prendere atto delle disparita e impone allo stato di intervenire. Il come si interviene è limitato da ragioni di carattere economico. Quindi a seconda di periodi storici il diritto di lavoro è influenzato da stessi. GENERALITA’ Il diritto del lavoro può essere suddiviso in tre macro-argomenti: • norme che riguardano il rapporto individuale del lavoro • autonomia collettiva (accordi di natura collettiva) • legislazione sociale (previdenza sociale) Il diritto del lavoro si innesta nell’ambito del diritto privato, ma condivide anche alcuni principi costituzionali con il diritto pubblico. Il contratto collettivo dal punto di vista formale è un contratto di diritto privato, uguale a qualsiasi contratto esistente tra due parti. Chiaramente è un contratto che regolamenta orario, retribuzione, mansione di un dipendente e non tratta un oggetto (perciò è una materia a parte rispetto a privato). Storicamente il diritto del lavoro si occupa dei contratti di lavoro, che possono essere lavoro autonomo (art. 2222 c.c.: contratto d’opera) e lavoro subordinato (art 2094 c.c.). La distinzione tra i due tipi di lavoro è stata fatta perché, a fine ‘800, il legislatore mirava a tutelare il lavoratore (parte debole del contratto) e garantire un rapporto tra pari, che mancava nel mercato del lavoro. La legge, infatti, avrebbe dovuto sanare alcuni squilibri che si instaurano tra dipendente e datore. Nel diritto del lavoro la cosa più importante è l’esplicitazione del rapporto di lavoro e la sostanza prevale sulla forma. In natura non esiste un lavoro autonomo o subordinato bensì ciò che li distingue è la modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. Contratto di diritto privato Il diritto del lavoro si innesta nell’ ambito del diritto privato ma condivide anche alcuni pri cipi costituzionali con il diritto pubblico. Il contratto collettivo dal punto di vista formale è un contratto di diritto privato, uguale a Contratto di diritto del lavoro I diritto del lavoro si innesta nell’ ambito del diritto privato ma condivide anche alcuni principi costituzionali con il diritto pubblico. Il contratto collettivo dal punto di vista formale è un contratto di diritto privato, uguale a OGGETTO PARTI parasubordinazione, che vanno sotto il nome di collaborazioni – a metà strada tra il lavoro autonomo e subordinato (para subordinazione = vicino alla subordinazione). [art. 409 cpc] La collaborazione coordinata e continuativa è un'ipotesi di lavoro autonomo caratterizzata dall'obbligo del collaboratore di svolgere, in via continuativa, una prestazione prevalentemente personale a favore del committente ed in coordinamento con quest'ultimo. Il tema centrale è il confine tra il coordinamento, che non è a carattere subordinato, ma con il committente. La prestazione di opera deve coordinarsi con quanto predisposto da committente. A partire dagli anni ‘90 i contratti venivano usati da imprenditori con finalità di risparmio, perché i collaboratori avevano aliquota previdenziale bassa e quindi costava meno per imprenditore, quasi la metà, non si aveva retribuzione minima, no tredicesima, no TFR… al tempo stesso però era un abuso, perché venivano stipulati contratti di collaborazione ma nel rapporto i collaboratori erano trattati come subordinati. Formalmente le collaborazioni non sono lavoro subordinato, quindi sono lavoro autonomo. Non rientra nel lavoro subordinato ma è una prestazione che si concretizza in una prestazione d’opera: viene definito contratto d’opera, però mentre il contratto d’opera è un servizio puntuale, non è continuativo nei confronti del committente. Il collaboratore nei confronti del committente si impegna a fare una certa opera in maniera continuativa e coordinata con il committente. Le collaborazioni sono dunque prestazioni in cui il collaboratore si deve coordinare con il committente. Indisponibilità del tipo – un rapporto di lavoro subordinato non può essere sostituito con un contratto diverso, la volontà espressa al momento di perfezionamento del contratto (il nomen iuris) ha valore minore e scarso rispetto al contenuto effettivo del rapporto. Il momento attuativo del rapporto e i modi con cui si concretizza prevalgono su momento dichiarativo, quindi le parti devono associare la subordinazione con l’attuazione del contratto. Non si può fare contratto subordinato ma per le ferie non è applicato quanto dice il diritto. Se c’è collaborazione ma poi il collaboratore prova davanti a giudice che orario di lavoro era dato dal committente, che ordinava lui le prestazioni e quindi dimostra gli indici della subordinazione, allora io non è eseguito il contratto e non conta quanto era stato scritto sul contratto. Nel corso dei decenni sono stati fatti abusi, soprattutto con la collaborazione. Da un lato il legislatore ha provato a ridurre il costo del lavoro, poi ha provato a modificare la norma, sottolineando che il collaboratore doveva compiere un progetto. Nel 2015 vi fu un ulteriore passaggio normativo, che specifica cosa si debba intendere per collaborazione. Riforma dell’Art. 2 del decreto legislativo del 2015 sull’etero-organizzazione In soluzione all’incertezza delle norme, il legislatore è intervenuto (jobs act) in maniera peculiare sull’etero- organizzazione del lavoro, per tracciare confine tra ciò che è eterodirezione e ciò che è coordinamento con committente. In breve, anche se un lavoro è organizzato dal committente, non per forza è un lavoro subordinato, ma in ogni caso si applicano le norme del lavoro subordinato. Nello specifico  Non è stato semplice e legislatore decise di tralasciare la questione teorica, ma considerare la concretezza: le collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro personali e continuative (a art 409 si ha termine coordinate con committente) e le cui modalità di prestazione sono organizzate dal committente (etero- organizzazione, cioè collaborazioni organizzate dal committente) si applica la disciplina del lavoro subordinato. Non viene definito come lavoro subordinato, rimane lavoro parasubordinato, ma si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. L’etero-organizzazione si ha quando qualcun altro, un committente, organizza il lavoro. L’etero-organizzazione può derivare anche dall’uso di piattaforme digitali. Quando il coordinamento sfocia nel coordinamento dei luoghi, degli spazi o dall’etero-organizzazione tramite piattaforme, si ha un contratto di co.co.co (contratto di collaborazione coordinata continuativa). Le eccezioni alla normativa su questa norma sul lavoro subordinato sono (comma 2): le disposizioni non trovano applicazione (=non si applicano le norme del lavoro subordinato) quando ci sono: a) contratti collettivi b) collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali (per cui è necessaria l’iscrizione agli albi ( c) attività prestate nell’esercizio delle funzioni dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dei partecipanti a collegi/commissioni (revisore dei conti, sindaco collegiale, amministratore delegato). d) alle collaborazioni rese ai fini istituzionali (con società sportive e dilettantistiche). La costituzione del rapporto di lavoro CONTRATTO O NO? [dispe] Il contratto di lavoro rivede il tema del contratto nel diritto privato. • [art 1321 cc] contratto sui generis: accordo di due o più parti per costituire o regolare un rapporto giuridico patrimoniale. • [art 1325 cc] elenca i requisiti del contratto. Sappiamo che il contratto di lavoro è fonte del rapporto di lavoro, il rapporto consegue alla stipulazione del contratto di lavoro (1321). Nonostante sia in auge il principio della libertà di forma, nella stipulazione dei contratti di lavoro si preferisce quasi sempre la forma scritta. Ad oggi è evidente che, dietro un rapporto di lavoro subordinato, debba esserci un contratto. In passato non tutti ritenevano che il rapporto conseguisse a un contratto di lavoro, quando iniziarono i primi approfondimenti teorici dal Codice Civile si era diffusa teoria acontrattuale o istituzionalistico comunitaria: teoria giuridica di derivazione tedesca che comprendeva una nozione di impresa come comunione di scopo tra datore e lavoratore che si esprimeva in rapporto di lavoro gerarchizzato e la cui fonte era inserzione del lavoratore nell’impresa e la prestazione di attività lavorativa, cioè l’essere parte di impresa. Questa teoria esisteva perché: − Il lavoro era regolamentato in un libro a parte rispetto alla definizione dei contratti, non c’è definizione di contratto di lavoro tra gli altri contratti. − art 2094 cc parla di prestatore di lavoro subordinato e non parla di contratto di lavoro. − art 2086 dice che l’imprenditore è capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. TEORIA CONTRATTUALISTICA La teoria pacifica è quella contrattualistica, secondo la quale il rapporto di lavoro deriva da un contratto. Sebbene non ci sia articolo che enuncia elementi del contratto di lavoro, vedendo art 1325 si prendono quei contenuti. [art 1325 cc] (Indicazione dei requisiti). I requisiti del contratto sono: 1) l'accordo delle parti; 2) la causa; 3) l'oggetto; 4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità. Per quanto riguarda la forma nel diritto del lavoro, vige il principio della libertà di forma (nella stragrande maggioranza dei casi sin forma scritta). L’oggetto è sinallagma prestazione – retribuzione. Per causa non si intende quello che nel linguaggio normale possiamo definire il motivo, il motivo è lo scopo personale e i motivi in generale non rilevano. Per causa si intende l’elemento del contratto che, è richiesto a pena di nullità, ne individua lo scopo economico e sociale e che è meritevole di tutela da parte del legislatore. Nel nostro caso è lo scambio tra le obbligazioni delle due parti del contratto. Per il contratto di lavoro la causa è lo scambio tra collaborazione del prestatore (2094) versus retribuzione del datore. [art. 2126 cc] (Prestazione di fatto con violazione di legge). La nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall'illiceità dell'oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione. Norma a favore del lavoratore, secondo cui la nullità o l’annullamento (e quindi, in generale, l’invalidità) del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, es. sicurezza, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione. es contatto di lavoro giornalistico la sua condizione è iscrizione a albo di giornalisti, se il lavoro si fa senza che sono iscritto ho comunque diritto alla retribuzione. Sono immigrato, il mio contratto di lavoro vale a patto che io abbia la cittadinanza ma ho diritto comunque a retribuzione. → eccezione alla retroattività. La tutela del lavoratore non vale se l’attività è illecita. Molti considerano questa norma come conferma di natura acontrattuale del rapporto, perché si dice che anche se il contratto è nullo, mentre nel privato è come se non esistesse, nel lavoro il contratto è efficace comunque, quindi sostengono che il contratto non è la fonte del rapporto. È solo una corrente di pensiero. CAPACITA’ GIURIDICA AL LAVORO Riguardo alle parti del contratto ci si concentra sul lavoratore perché l’implicazione della persona del lavoratore nel contratto di lavoro ne determina una rilevanza essenziale e quindi ci sono delle disposizioni in ordine alla capacità giuridica al lavoro. [art. 37 Cost. comma 2 e 3] La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. La legge deve stabilire il limite minimo di età. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi il diritto di parità di retribuzione. Ma se si parla di limite minimo di età si deve ritornare al discorso di capacità giuridica: nel diritto privato si acquista con nascita ed idoneità ad essere titolare di azioni giuridiche soggettive, quella di agire è idoneità di mettere in essere azioni giuridiche valide e si acquista a 18 anni. Nel lavoro si ha capacità giuridica speciale: sono i requisiti minimi di accesso al lavoro, al cui interno rientra capacità giuridica e di agire. Una delle norme da considerare è la legge 977 del 1967. Età minima stabilita per il lavoro stabilita da legge 977 è 15 anni, questa legge è stata modificata più volte. Si individua età minima nella conclusione del periodo di istruzione obbligatoria. Questa disposizione va lette in raccordo con la legge 296 del 2006 in cui si innalza l’età di accesso al lavoro a 16 anni, perché dichiara obbligatoria l’istruzione per 10 anni; quindi età minima va di pari passo con conclusione di periodo di istruzione obbligatoria e comunque non inferiore a 15 anni. La legge 977 distingue tra lavoro dei bambini e quello degli adolescenti: bambini quelli con meno di 16 anni, adolescenti minori di 18 anni non soggetti a obbligo scolastico. Sussiste divieto generale per lavoro dei bambini. Il minore di 16 anni può lavorare in caso di deroga, per esempio le pubblicità che coinvolgono bambini, in questo caso, il lavoro è legittimo con consenso scritto dei titolari della potestà genitoriale, autorizzazione delle sedi locali del ministero del lavoro e impiego può essere culturale, artistico, sportivo, pubblicitario, spettacolo, purché non si pregiudichino sicurezza e istruzione e salute. Per gli adolescenti c’è divieto di adibizione di attività previste da art 6 della legge del 977, quindi per esempio lavori che comportano rischi di crolli, elettrici etc. Il lavoro notturno è proibito per tutti i minori. Nell’ambito dei soggetti del contratto si approfondisce di più il tema della capacità giuridica al lavoro, perché mentre la capacità di lavoro del prestatore è soggetta a condizioni specifiche, al datore si applicano le normali regole della capacità giuridica e di agire. FORMAZIONE DEL CONTRATTO E CLAUSOLA DI PROVA Se le parti simulano un contratto di lavoro questo non produce effetto. La FORMA è elemento del contratto dall’art 1325 cc; la legge non prescrive una forma per il contratto, quindi vige libertà di forma. Perché a differenza di altri contratti non si ha una forma ad hoc. Vi sono delle eccezioni al principio di libertà di forma: in alcune ipotesi è richiesta a pena di nullità la forma scritta e alcune clausole. L’eccezione più importante è quella della clausola di prova art 2096 cc: [art 2096 cc] Salvo diversa disposizione delle norme corporative, l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L'imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro. Lo scopo della prova è la verifica della capacità professionale del lavoratore in relazione alle mansioni affidate. L’ordinamento impone una durata massima, stabilita dalla contrattazione collettiva, e il periodo richiesto massimo è di sei mesi. Il patto di prova è la maggiore eccezione perché richiede la forma scritta ab substantiam del contratto di lavoro. La ratio del patto di prova è lo scopo della verifica della capacità professionale del lavoratore; esistono dei contratti per cui la verifica della capacità avviene con il patto di prova ma il datore ha anche altri strumenti per La forza debole dei millenials nel mercato Il dato demografico conta nel futuro assetto del mercato del lavoro italiano. Il tema di ordinamento e di politiche attive ha da anni problemi che sono conseguenza di ineffettività di norme che ci sono state per anni. Il centro per impiego è previsto che sia il fulcro delle politiche attive dalla normativa, ma in Italia è affidata a caratteri di tipo informale, quali per esempio conoscenze, siti internet… ma il pubblico non può disinteressarsi di quello che stabilisce la legge. SOMMINISTRAZIONE DEL LAVORO (EX INTERNALE) La somministrazione di lavoro è un istituto (l’insieme delle regole che disciplinano una certa materia) che tocca entrambi i temi di mercato del lavoro e rapporto di lavoro, perché quello di cui stiamo per parlare è uno dei primi contratti che verranno affrontati nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. Ci occupiamo del peculiare contratto della somministrazione di lavoro (chiamato in passato lavoro interinale). Storicamente In passato, in tema di interposizione di manodopera, dobbiamo dire che avevamo due leggi: • Legge 264/1949; • Legge 1369/1960; Queste due leggi, pur molto diverse, contrastavano quella che il Legislatore definiva e definisce divieto di interposizione/intermediazione di manodopera. In altre parole, la fattispecie vietata era quella della fornitura di manodopera e questo divieto era accompagnato da sanzioni sia sul piano civile che sul piano penale. In passato, nel nostro Paese il Legislatore per decenni ha visto con disfavore quando, nell’ambito di un rapporto contrattuale, caratterizzato da datore e prestatore, qualcun altro si interponeva tra i due, ponendo in essere un’opera di intermediazione di manodopera. L’intermediazione, cioè il match di domanda e offerta, la faceva solo lo Stato: era illecito che qualcuno si interponesse tra datore e prestatore di lavoro. La Legge 1369/1960 all’art 1 vietava il capolarato: la realizzazione del rapporto triangolare in cui un committente, imprenditore o non imprenditore, si rivolge ad un altro soggetto, cioè l’interposto o caporale, per richiedere la fornitura di un certo numero di lavoratori assunti e retribuiti direttamente da quest’ultimo, ma operanti nell’orbita e alle reali dipendenze del primo. Questa modalità continua oggi, secondo cui vi è una sorta di schermo, ovvero qualcuno che si pone tra chi è il vero datore di lavoro e il lavoratore. Questa figura è vista in maniera sfavorevole perché queste persone si fanno pagare da chi è alla ricerca di lavoro e storicamente perché vi sono stati tanti casi di abuso. Le agenzie del lavoro non fanno capolarato; l’attività era vietata fino a quando negli anni ’90, dove il mercato del lavoro è cambiato, è parzialmente venuto meno anche l’antico divieto di interposizione di manodopera; questo perché, nell’ottica di aprire il mercato del lavoro anche a soggetti qualificati che possono operare a vantaggio dei lavoratori nasce il: • lavoro internale - Legge n. 196/1997: un qualificato ruolo di alcuni operatori, chiamati agenzie per il lavoro, che devono avere dei requisiti di solidità economica e finanziaria, affidabilità sul piano organizzativo, professionale e sociale e devono essere iscritte ad un apposito albo del Ministero del lavoro. L’agenzia del lavoro Si tratta di soggetti privati autorizzati dallo stesso Ministero del lavoro o, in casi particolati, dalle Regioni a svolgere diverse attività e possono fare intermediazione. L’intermediazione è l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, la raccolta di cv, possono curare alcune preselezioni, promuovere iniziative di incontro di domanda e offerta, possono porre in essere iniziative di orientamento professionale etc. Queste agenzie, inoltre, possono fare ricerca e selezione del personale (alcune aziende esternalizzano questa ricerca e selezione), cioè attività di consulenza finalizzata alla risoluzione di una specifica esigenza del committente attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative. Questo possono farlo solo le agenzie perché, se un altro soggetto, anche imprenditore e non malintenzionato, com’è invece il caporale, si ponesse tra datore e lavoratore, questo continua a non essere possibile. Non può esservi somministrazione senza agenzia per il lavoro: solo le agenzie per il lavoro possono porre in essere il contratto di somministrazione. Quindi, la somministrazione di lavoro non è l’unica cosa che fa l’agenzia (che deve essere autorizzata), ma una delle cose che può fare l’agenzia e quest’ultima è il soggetto privato per eccellenza nell’ambito del sistema dei servizi per il lavoro. Il contratto di somministrazione: decreto legislativo 81/2015, agli articoli 30 e seguenti - somministrazione: il contratto di somministrazione di lavoro è il contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un’agenzia di somministrazione autorizzata, mette a disposizione (cioè fornisce manodopera) di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Spiegando l’articolo, si può dire che il contratto di somministrazione è un contratto di natura commerciale, che può essere sia a tempo indeterminato che a termine, stipulato tra un’agenzia autorizzata dal Ministero del lavoro e un soggetto utilizzatore avente ad oggetto la messa a disposizione, da parte della prima e in favore del secondo, di lavoratori, assunti o retribuiti dalla prima, affinché lavorino nell’interesse e sotto la direzione e il controllo del secondo per tutta la durata della missione. NB: Rispetto al tradizionale rapporto di lavoro subordinato, la somministrazione si differenza per la presenza di dissociazione tra il soggetto che assume i lavoratori (è l’agenzia di somministrazione autorizzata allo scopo di metterne le prestazioni a disposizione di un terzo) e il soggetto che utilizza tali prestazioni (tale soggetto è chiamato “utilizzatore”). Vi è l’intreccio di 2 diverse relazioni contrattuali, che ricomprendono 3 parti distinte: - agenzia - utilizzatore - lavoratore Questi tre soggetti determinano due diversi contratti: a) tra lavoratore e agenzia (contratto di lavoro) b) tra agenzia e impresa utilizzatrice (contratto di natura commerciale = contratto di somministrazione di lavoro) formalmente, l’utilizzatore non ha contratto con il lavoratore (definito da art 30). Entrambi i contratti possono essere a tempo determinato (staff leasing) o indeterminato. art 31: il numero di lavoratori somministrati a tempo determinato non può eccedere il 20% del numero di lavoratori con contratto somministrato a tempo indeterminato. Nell’art 31 si hanno dei limiti perché si ritiene che utilizzatore non possa usare solo lavoratori che sono solo altrui, ma quelli a tempo determinato non possono superare il 20 % dei lavoratori a tempo determinato che egli stesso ha. Se il contratto di somministrazione è a tempo determinato il numero di lavoratori non può essere più del 30% rispetto alla mia forza lavoro. Se l’agenzia assume qualcuno a tempo indeterminato che deve mandare in missione, e vi è un periodo in cui questo soggetto non è inviato in missione, egli non ha diritto ad una piena retribuzione, ma ad una sorta di indennità. L’agenzia mette a disposizione la manodopera all’utilizzatore, il quale ha nei confronti del lavoratore dei poteri riassunti in tre ambiti: − potere direttivo − potere di controllo − potere disciplinare In tutti i normali contratti di lavoro, questi tre poteri procedono di pari passo, mentre in questo caso c’è una dissociazione, nel senso che:  datore di lavoro: dal momento che quel soggetto è inviato in missione presso l’utilizzatore, è l’utilizzatore stesso a dirmi cosa devo fare e, quindi, lui ha il potere direttivo e di controllo.  agenzia: il potere disciplinare, nell’ambito della somministrazione di lavoro, spetta all’agenzia. Ciò non toglie che il datore di lavoro di questo lavoratore è solo e soltanto l’agenzia. Da ciò discendono una serie di conseguenze, come il fatto che il lavoratore riceve la remunerazione dall’agenzia, che ne è il datore, ma l’agenzia avrà una remunerazione da parte dell’utilizzatore: è un contratto di lavoro commerciale, quindi l’utilizzatore verserà una certa cifra. [art. 33 comma 2] L’utilizzatore ha un obbligo di parità di trattamento, nel senso che l’utilizzatore ha l’obbligo di comunicare all’agenzia il trattamento economico e normativo applicabile ai lavoratori suoi dipendenti che svolgono le medesime mansioni dei lavoratori da somministrare. Ad esempio: Il lavoratore, per tutta la durata della missione, ha diritto a condizioni non inferiori: se io pago 1000, l’agenzia non può pagare 900 quel lavoratore, ma lo pagherà sempre 1000. Inoltre, sul tema della retribuzione, è l’agenzia che deve versare la retribuzione, ma l’utilizzatore è obbligato in solido per evitare che il lavoratore possa rischiare di essere senza retribuzione, qualora l’agenzia non gliela versi, l’utilizzatore è obbligato in solido. Nel caso in cui l’agenzia non paghi l’utilizzatore resta obbligato in solido per il trattamento della retribuzione. Il motivo per cui l’utilizzatore si rivolge ad un’agenzia, quindi, non è economico (l’utilizzatore non risparmia nulla), ma si hanno, per esempio, delle soglie numeriche in cui si hanno delle norme diverse e quindi datore non vuole avere alle sue dipendenze tot di soggetti, può avere bisogno per alcuni lavoratori per periodo limitato di tempo e magari quelli di agenzia sono già formati; sono quindi motivazioni di tipo culturale e socioeconomico. [art 35]: utilizzatore è obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i relativi contributi previdenziali, salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore. Il tempo determinato o indeterminato può essere legato o al rapporto tra utilizzatore e agenzia o tra agenzia e lavoratore. Se io sono assunto a tempo indeterminato da agenzia come lavoratore, è possibile che in un certo periodo anche se sono assunto io non sto lavorando, nel momento in cui il lavoratore non lavora ha diritto a indennità a disponibilità. [art. 32] Divieti di utilizzazione …di personale in manodopera, che valgono sia per i contratti di lavoro somministrati a tempo indeterminato, sia per contratti di lavoro somministrato a termine. In relazione a ciò, possiamo dire che io imprenditore, utilizzatore non posso utilizzare lavoratori somministrati in determinati casi, quali: a) per la sostituzione di lavoratori in sciopero: non posso sostituire i lavoratori che sono in sciopero con dei lavoratori che mi manda l’agenzia, perché lo sciopero è un diritto costituzionalmente garantito ed ha lo scopo di portare un disagio al datore di lavoro; b) per unità produttive che, nei sei mesi precedenti, hanno posto in essere dei licenziamenti collettivi: se, meno di 6 mesi fa, ho licenziato collettivamente i lavoratori, quindi in numero superiore a 5, non posso assumerne altri; c) se sono in cassa integrazione: essere in cassa integrazione vuol dire essere senza lavoro e parte dello stipendio è versata dall’INPS. Quindi, se ho licenziato qualcuno non posso prendere lavoratori in somministrazione; d) se non ho posto in essere la valutazione dei rischi sulla sicurezza del lavoro: si fa riferimento alla mancata valutazione dei rischi, in ordine alla legge sulla sicurezza del lavoro. Quindi, io utilizzatore valuterò io stesso quando assumere qualcuno direttamente alle mie dipendenze e, nel rispetto dei limiti percentuali, quando chiamare l’agenzia, stipulare con essa un contratto di somministrazione, di manodopera e decidere quando e come utilizzarli, tranne dei casi in cui il legislatore pone in essere un vero e proprio divieto di utilizzazione. Forma del contratto di somministrazione Stiamo parliamo del contratto commerciale, tra agenzia e utilizzatore (NON E’ UN CONTRATTO DI LAVORO). ART 33 del d.l. 81/2015, “Forma del contratto di somministrazione” 1. è stipulato in FORMA SCRITTA; e presenta i seguenti elementi: 2. gli ESTREMI dell’autorizzazione rilasciata al somministratore: es, un contratto di somministrazione tra Ggroup ed Eni; 3. il NUMERO DEI LAVORATORI da somministrare: ad esempio, 15 dipendenti. 4. l’indicazione di eventuali RISCHI PER LA SALUTE E LA SICUREZZA DEL lavoratore e le MISURE DI PREVENZIONE ADOTTATE 5. DATA DI INIZIO E LA DURATA prevista della somministrazione di lavoro; 6. MANSIONI alle quali saranno adibiti i lavoratori e l’inquadramento dei medesimi; 7. LUOGO, ORARIO DI LAVORO E IL TRATTAMENTO ECONOMICO E NORMATIVO dei lavoratori. Tutto ciò serve a definire i rapporti tra agenzia e utilizzatore, perché si ha un rapporto tra tre soggetti. Come anticipato prima, quelli che sono i tradizionali poteri del datore di lavoro (potere direttivo, potere di controllo e potere disciplinare) subiscono una dissociazione: non sono imputabili allo stesso soggetto, che è il datore di lavoro, ma sono ripartiti tra il datore, che è e resta solo l’agenzia, e l’utilizzatore, che, in base a quanto scritto dall’art 33, gode del potere direttivo e di controllo; mentre all’agenzia rimane il potere disciplinare. In mancanza di forma scritta del contratto di somministrazione è prevista la nullità dello stesso, con la conseguenza che i lavoratori saranno considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore. con l’adozione di una scala di classificazione unificata (operai e impiegati sono inquadrati nella stessa cornice); ciò che cambia sarà il livello. In altre parole, l’inquadramento tra operai e impiegati avviene nell’ambito di uno stesso quadro e dunque ci sono anche delle funzioni che possono essere svolte da entrambe le categorie: non è sempre esclusivamente appannaggio dell’operaio di lavoro meramente manuale, ma soprattutto in una nuova concezione del lavoro operaio e impiegatizio, si va verso realtà delle mansioni interscambiabili.  Per la categoria dei dirigenti possiamo dire che una nutrita serie di norme del diritto del lavoro non si applicherà: ad esempio, in tema di licenziamenti, i dirigenti sono esclusi da una larga parte di queste norme che tutelano il lavoratore subordinato, anche perché sono soggetti in posizione apicale (mancata applicazione di alcuni istituti a garanzia del lavoratore dipendente e subordinato, alla quale tutte queste categorie appartengono). In realtà, il nostro Legislatore non dice quasi niente su chi sono questi soggetti, quindi dobbiamo capire quali sono le possibili definizioni e, soprattutto, come si può esercitare il potere del datore di lavoro, cioè il potere direttivo, nell’ambito delle mansioni. MANSIONI [art 2103 cc] La prestazione di lavoro possiamo definirla come l’oggetto dell’obbligazione principale del lavoratore. L’oggetto è l’obbligazione del lavoratore, nel senso che il lavoratore è obbligato a tenere un certo comportamento, dovrà avere una determinata diligenza, un determinato orario di lavoro, un determinato luogo di esecuzione. Le mansioni sono ciò che estrinseca l’oggetto di queste obbligazioni principali, cioè sono l’oggetto della nostra prestazione di lavoro. Essendo una prestazione complessa, vi è la necessita che tali prestazioni vengano raccolte e “omogeneizzate” (si viene assunti per una pluralità di prestazioni). Le mansioni, infatti, possono cambiare nel corso del tempo. A questa prestazione lavorativa facciamo corrispondere una retribuzione: per questo nasce il contratto collettivo, per determinare le retribuzioni, in presenza di una certa serie di obbligazioni lavorative similari. Il contratto di lavoro è sinallagmatico, cioè vi è nesso di reciprocità, ogni parte del contratto assume obbligo di eseguire una data prestazione. Le tipologie di prestazioni in generale sono di - dare - fare - non fare La sinallagmaticità è tipica di tutte le tipologie di contratto, non solo di quello di lavoro. Le prestazioni del contratto di lavoro sono prestazioni corrispettive, è un rapporto complesso che si basa su due contrapposte obbligazioni fondamentali, principali ma non uniche: - obbligazione di lavoro del prestatore di lavoro - retribuzione da parte di chi assume Si hanno poi altri obblighi specifici tra loro connessi e correlati, per esempio l’obbligo di diligenza, fedeltà, obbedienza del lavoratore e obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro. Obbligazione di lavoro è obbligazione di fare, che impone a prestatore di tenere certo comportamento, non necessariamente di ottenere un risultato. Non sempre si ragiona per “obiettivi”. Per quanto riguarda il dirigente, possiamo dire che ad esso non si applica, in parte, la disciplina sul lavoro subordinato, perché è una figura di vertice, e per il fatto che è retribuito maggiormente rispetto al lavoratore subordinato lo ha sempre allontanato dalle tutele che spettano al dipendente. Tradizionalmente, la giurisprudenza definisce dirigente colui che, oltre a godere della fiducia del datore, costituisce l’alter ego dell’imprenditore, preposto alla direzione dell’intera impresa o di un ramo importante e autonomo di questa, ed è provvisto, a tal fine, di piena autonomia nell’ambito delle direttive generali dell’imprenditore. Riassumendo, le mansioni si raggruppano nell’ambito delle categorie legali di inquadramento (dirigente, quadro, impiegato e operaio): quindi, le mansioni sono raggruppate in categorie legali. È, poi, nell’ambito dello stesso inquadramento che vi sono funzioni operaie, nella scala più bassa perché legato ad una retribuzione più bassa e non ad una reputazione e di dignità, e funzioni impiegatizie a seconda delle responsabilità. In altre parole, all’interno del contratto collettivo sarà indicato il livello a cui quel determinato lavoratore appartiene e, in base al livello del lavoratore, saranno stilate una serie di compiti e mansioni che il lavoratore stesso ha. Questo contratto si applica a centinaia di migliaia di persone che possono lavorare in settori ben diversi. Quello che, poi, effettivamente fa, ad esempio, un capocassiere, un docente universitario, sarà la singola azienda, la singola realtà produttiva a declinarlo concretamente, ma il riferimento del contratto collettivo serve ad avere raggruppate alcune mansioni dal livello, dalla qualificazione similare. Quindi, il contratto collettivo mette, all’interno di un inquadramento unico sia lavori manuali, sia lavori solo di concetti, una serie di livelli, i quali saranno tanto più alti, quanto più le responsabilità sono maggiori e quanto più il contratto collettivo prevede una retribuzione associata a questi livelli, associata a questi livelli. IUS VARIANDI (art 2103 cc) L’ oggetto dell’obbligazione è determinato in base alle mansioni e specificare quali mansioni deve mantenere in concreto il lavoratore è in capo al datore di lavoro. Il datore di lavoro ha lo ius variandi: potere di modificare le mansioni del lavoratore anche oltre l’ambito convenuto in sede di assunzione in modo unilaterale, a prescindere dal consenso del lavoratore. Questo è un potere importante, perché nonostante ci sia stata la stipulazione di un contratto di lavoro, all’interno del quale c’è scritto che ad es. Mario Rossi sovraintende capocassiere di una filiale di Intesa San Paolo, vi è la possibilità, in gran parte unilaterale, che l’altra parte del contratto, cioè il datore, modifichi i termini del contratto e non necessariamente deve chiedere il contratto. Lo ius variandi, quindi, è uno dei poteri più incisivi che ha il datore di lavoro e, quindi, proprio per la sua tendenziale ampiezza, la Legge è molto attenta a procedimentalizzare e a limitare questo potere. Per capire come, il datore di lavoro, può modificare i livelli a cui accennavamo prima, dobbiamo partire dalla norma dall’art 2103 cc. Questa norma parte con un principio contrattualista, perché il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ma ciò non significa che il datore di lavoro non possa modificarle. Avendo idea dei livelli, possiamo dire che questa modifica consiste, ai sensi dell’art 2103 cc, in 3 tipologie di mobilità e, quindi, lo ius variandi si esplica in 3 diversi ambiti: (1) mobilità orizzontale: è il passaggio ad altre mansioni appartenenti allo stesso livello e categoria legali; (2) mobilità verticale verso il basso: quindi verso mansioni inferiori, per cui si ha demansionamento. Questa mobilità è articolata in tre distinte ipotesi: unilaterale, collettiva e a negoziazione individuale; (3) mobilità verticale verso l’alto: quindi mobilità verso mansioni superiori, per cui ha promozione. Mobilità orizzontale delle mansioni In passato (prima del 2015) il concetto era in riferimento alle cosiddette mansioni equivalenti, secondo cui al lavoratore si potevano modificare le mansioni nel limite delle mansioni equivalenti a quelle di assunzione, ovvero a quelle successivamente svolte con carattere di stabilità, senza alcuna diminuzione di retribuzione. Si faceva riferimento ad una: − equivalenza professionale formale, secondo cui le mansioni di destinazione dovevano essere collocate nel medesimo livello di inquadramento; − equivalenza professionale sostanziale, secondo cui le nuove mansioni dovevano consentire l’utilizzazione, ovvero il perfezionamento e l’accrescimento del corredo di nozioni, esperienze e competenze acquisite nella fase pregressa del rapporto, in modo che vi fosse una tendenziale omogeneità, continuità ed assimilabilità tra i contenuti professionali dei nuovi compiti e quelli propri dei precedenti. Ci sono stati tanti e tanti anni per capire cosa fosse l’equivalenza delle mansioni, ma è sempre un argomento estremamente vago e non del tutto chiaro, per cui creava anche situazioni complesse per il datore di lavoro. A differenza del Legislatore del 2015 (Jobs Act), ora tale mobilità è molto più concreta, perché è possibile determinare una mobilità orizzontale nei confronti di mansioni che siano riconducibili, cioè riferibili, allo stesso livello oltre che categoria legale di inquadramento di quelle originariamente convenute o effettivamente svolte: vi sono diversi lavori che si esercitano nell’ambito dello stesso livello, come responsabile dell’ufficio studio, responsabile dell’ufficio commerciale, enologo, capocassiere; si immagini che un’azienda abbia al suo interno tutte queste posizioni, più datore di lavoro o dirigente, che ha potere direttivo, può unilateralmente mutare le mansioni allo stesso livello e categoria legale di inquadramento, senza chiedere il permesso al prestatore di lavoro, quindi non c’è una necessità di consenso, ma c’è al più ove necessario l’assolvimento di un obbligo formativo. La mancanza di formazione rende non imputabile al dipendente la sua eventuale inadeguatezza al nuovo ruolo, per cui ad esempio, il lavoratore non sarà passibile di sanzioni disciplinari per gli errori commessi nello svolgimento della nuova attività lavorativa, se questi siano imputabili al difetto delle conoscenze necessarie a causa della mancanza di un adeguato periodo di addestramento. Il lavoratore, inoltre, potrà richiedere un risarcimento del danno per l’inadempimento dell’obbligo formativo, ma con onere della prova a suo carico circa la necessità dello stesso e con tutte le difficoltà connesse alla quantificazione del danno. Mobilità verticale verso il basso (demansionamento) Quando è possibile collocare qualcuno in mansioni inferiori rispetto al proprio livello. In questo caso, vi è però da tutelare anche la professionalità del lavoratore. I casi in cui si può determinare il demansionamento, rispetto a quelle di assunzione e rispetto a quelle contrattuali, sono tre: a) per potere unilaterale del datore di lavoro (non significa potere senza limiti del datore di lavoro), in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che abbia effetti che incidono sulla posizione del lavoratore: può essere demansionato soltanto al diretto inquadramento inferiore (solo un livello) ad esempio, quando a seguito una fusione (o trasferimento d’azienda in generale) quel posto di lavoro non c’è più, o quando a seguito di chiusura di un determinato reparto, quella posizione non c’è più. Quindi, in presenza di modifica degli assetti organizzativi aziendali, il datore di lavoro può demansionare il lavoratore in questione (professionalità viene meno). In questo caso, questo demansionamento, per potere unilaterale del datore di lavoro, determina, con riferimento alla retribuzione, che il lavoratore ha diritto alla conservazione del trattamento retributivo in godimento, pur venendo collocato a mansioni inferiori (=no alterazione stipendio). L’onere della prova del giustificato motivo di demansionamento grava sul datore di lavoro; possono esserci degli elementi retributivi che cambiano solo se si tratta di importi precedentemente dovuti al lavoratore per quella specifica mansione (ad esempio il cassiere, oltre allo stipendio, prende ad esempio dei soli per maneggio denaro; se dovesse essere demansionato, perderebbe questo importo aggiuntivo). b) sempre per potere unilaterale, il nuovo art 2103 rinvia alla contrattazione collettiva. In altre parole, il nuovo art 2103 prevede che l’autonomia collettiva possa autorizzare “ulteriori ipotesi”, per ragioni del datore, di assegnazioni a mansioni inferiori (sempre nell’ambito in cui il demansionamento avviene per potere unilaterale del datore di lavoro). c) nella terza ipotesi, il demansionamento non avviene per potere unilaterale del datore di lavoro, ma avviene a seguito di un patto/accordo individuale. Il Diritto del lavoro non vede sempre di buon occhio eventuali patti individuali, perché si teme che un accordo individuale, tra datore e lavoratore, possa determinare un’ampia deroga a molta della Legislazione garantista svolta. Come spesso avviene nel diritto del lavoro, quando abbiamo un patto individuale, l’accordo avviene presso specifici luoghi e sedi, definite sedi protette, come le sedi di commissioni di certificazioni, le sedi sindacali (sia quelle dal lato lavoratori, sia lato datori di lavoro). In questa sede, ci si può accordare per modificare in peggio le mansioni: a differenza della prima casistica, in questo terzo caso, la modifica può essere molto ampia, perché con il consenso, espresso nelle sedi protette, il lavoratore può essere adibito non solo a livelli inferiori rispetto a quell’inquadramento, ma anche superando il tema della categoria legale; per quanto riguarda la relativa retribuzione, quindi, essa si adegua alle mansioni concordate alle nuove mansioni. In realtà, il Legislatore prevede il demansionamento a seguito di un patto individuale non per un interesse generico del lavoratore, ma un interesse qualificato, in relazione a tre distinti obiettivi: 1 - conservazione dell’occupazione; Trasferimento: in questo caso non è richiesto alcun consenso al prestatore di lavoro: lo spostare qualcuno da un’unità produttiva ad un’altra è una decisione del datore. L’art 2103, già analizzato in tema di mansioni, ci dice che, affinché ci sia un trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra, lo stesso deve avvenire per comprovate (il datore di lavoro deve dimostrare l’inutilità del lavoratore presso la sede di provenienza e la possibilità di utilmente impiegarlo presso la sede di destinazione) ragioni tecniche, organizzative e produttive. Importante è ricordare che in realtà, il trasferimento non potrebbe essere determinato a mo’ di sanzione: ad esempio, “il lavoratore non si sta comportando bene a Milano, mandiamolo a Varese (per punizione)”. Il tema dell’utilizzo del trasferimento come sanzione disciplinare è discusso e, in realtà, il datore di lavoro non può farlo. Trasferta (o missione): ha carattere di provvisorietà, la differenza tra le due è la durata. Questo è importante anche in un’ottica di retribuzione, perché magari i contratti collettivi prevedono, per chi svolge la propria prestazione una tantum viaggiando, quindi in trasferta, si prevedono delle indennità ulteriori. Il tempo della prestazione lavorativa DURATA [21.03.24] L’orario di lavoro. Il tema dell’orario di lavoro, storicamente nell’ambito della nostra materia, è centrale: le prime norme in tema di diritto del lavoro limitavano una durata che, in passato, era lasciata alla mera volontà del datore di lavoro e questo non è tollerabile. Quindi, storicamente, inizia a determinarsi una regolamentazione dell’orario di lavoro. Nel lavoro subordinato, l’orario è la misura della prestazione dovuta: qui si è retribuiti in misura del tempo che si impegna nella prestazione lavorativa. Il lavoratore autonomo non viene pagato a tempo solitamente. La contrattazione collettiva è un atto stipulato tra sindacati e imprese che serve a stabilire l’orario. Vi sono delle regole di base che stabiliscono come la contrattazione collettiva e le aziende possono fare direttive v/ i propri lavorativi. D.L. 66/2003 È attuazione delle direttive della comunità europea. L’ambito di applicazione è molto ampio ma non è l’intero universo del lavoro subordinato; infatti, non rientrano l’orario di lavoro di alcuni settori come quello dei trasporti, la pubblica sicurezza etc. Questa norma, si può dire, che si applica alla gran maggioranza dei lavoratori subordinati e quindi ai datori di lavoro pubblici e privati. Una norma che si prefissa di dare paletti (ok derogabili in meglio dalla contrattazione collettiva). L’orario di lavoro è qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro (1), a disposizione del datore di lavoro (2) e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni (3). Questi tre elementi non devono esserci contemporaneamente. Il fatto di essere a disposizione del datore di lavoro è comunque “lavorare”, si pensi al medico in PS che una sera non ha pazienti. Il tema della reperibilità: essere potenzialmente a disposizione (vi è una limitazione delle cose che il tipo può fare) ma non è tempo di lavoro. Molto importanti sono i tempi di riposo: qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro. L’art 1 del decreto legislativo 66/2003 per “orario di lavoro” si indica qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, sia a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni. Il periodo di riposo è qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro. [art. 3 d.l. 66/2’003] comma 1 - durata dell’orario settimanale: l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali. Contratti collettivi di lavoro possono stabilire, come orario normale, una durata minore. L’orario normale, se così decide e determina la contrattazione collettiva, può essere definito multiperiodale, con cui intendiamo che queste 40 ore possono essere calcolate non su base rigidamente settimanale, ma con una modalità di calcolo secondo cui questo orario normale si riferisce alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno → posso calcolare le 40 ore come media, sulla base non superiore all’anno, con la conseguenza relativamente al non pagamento di prestazioni straordinario. comma 2 - I contratti collettivi di qualsiasi livello possono “stabilire una durata minore” rispetto a quella legale e “riferire l’orario normale alla durata media” delle prestazioni lavorative per periodi ultrasettimanali non superiori all’anno). Dunque, se non avessi l’orario multiperiodale il datore di lavoro dovrebbe pagare quelle due ore con una maggiorazione. Ipotizziamo che le 40 ore sono su bisettimanale: 1° settimana 38 e seconda 42 -> le 2 non sono straordinarie ma portano ad una media di 40: l’orario multiperiodale da flessibilità al datore di lavoro, soprattutto nei luoghi in cui il lavoro concreto è soggetto a picchi di mercato/domanda. Per questo motivo il legislatore da questa possibilità alla contrattazione collettiva. [art. 4 d.l. 66/2’003] durata massima: la durata massima dell’orario di lavoro settimanale è 48 ore, comprensive delle ore di straordinario (max 250 ore annuali di straordinario). Anche qui vi è una modalità di calcolo come media, che può essere per un periodo o non superiore a 4 mesi o, per particolari esigenze, fino a 12 mesi. Quindi, l’art 4 prevede che il limite di 48 ore per ogni periodo di 7 giorni, va calcolato non settimana per settimana, ma come media in un arco temporale non superiore a 4 mesi o, per particolari esigenze, fino a 12 mesi. Dunque, max 48 ore di media e in caso di lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con maggiorazioni retributive, la cui determinazione è integralmente rimessa alla contrattazione collettiva. Quest’ultima può, altresì, consentire ai lavoratori di usufruire, in aggiunta o in alternativa alle maggiorazioni retributive, di riposi compensativi. [art. 36 Cost.] Durata dell’orario giornaliero: la legge non parla di durata massima di orario di lavoro giornaliero; in passato era definito in 8 ore, ma non è più così da 20 anni.  comma 2: la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge; formalmente i contratti collettivi non hanno efficiacia v/tutti i lavoratori di quel settore (erga omnes). Pertanto, l’articolo prevede che sia il legislatore a prevedere la durata massima della giornata lavorativa. Qualora il legislatore non lo facesse, sarebbe inadempiente nei confronti della costituzione  comma 3: il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. [art 7 d.l. 66/2003] riposo giornaliero: L’orario massimo giornaliero non viene previsto espressamente ma il Legislatore prevede, invece, espressamente che tra una prestazione e l’altra il lavoratore abbia diritto a 11 ore di riposo consecutivo, ogni giornata di 24 ore. Quindi, la prestazione lavorativa può essere resa, per differenza, per un massimo di 13 ore. [art 8 (66/2003)] pause: anche se le ore, da 13, diventano 12,50, perché per il lavoratore sono previsti 10 minuti di pausa obbligatoria, dopo 6 ore di prestazione lavorativa consecutiva. Quindi, ricaviamo che la giornata massima lavorativa è costituita da 12 ore e 50 minuti. Un lavoratore non può lavorare 12,50 ore tutti i giorni della settimana, perché la durata massima dell’orario di lavoro settimanale è di 48 ore. Quindi i due limiti devono essere entrambi rispettati! Inoltre, la legge ad impone che la pausa minima di 10 minuti, non può essere collocata né in corrispondenza dell’inizio né della fine della giornata lavorativa. [art 9 del d.l. 66/2003] riposi settimanali: il lavoratore ha diritto, ogni 7 giorni, a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica (a determinate condizioni, i contratti collettivi, possono prevedere che la domenica si lavori). È previsto anche il caso in cui si consideri un periodo bisettimanale (non superiore a 14 giorni): il lavoratore potrebbe svolgere la propria prestazione ogni 7 giorni, con un giorno di riposo, per 14 giorni e poi vedere 2 giorni consecutivi di riposo. In altre parole, la norma legittima periodi di lavoro anche superiori ai 6 giorni consecutivi, a patto, però, di garantire nell’ambito dei 14 giorni di calendario almeno 2 riposi, ciascuno di 24 ore consecutive. Quindi, cumulando il riposo settimanale con le 11 ore di riposo giornaliero, si garantiscono al prestatore di lavoro 35 ore di riposo consecutive ogni 7 giorni (24 + 11). Il lavoro nella giornata dimenicale da diritto, in considerazione della sua maggior penosità, ad una maggiorazione retributiva prevista dai contratti collettivi. Questa maggiorazione retributiva viene quando il contratto collettivo già preveda per i turnisti, che appunto effettuano lavoro domenicale, un trattamento complessivamente più favorevole rispetto a quello degli altri dipendenti. [art 10 del d.l. 66/2003] ferie: il periodo di riposo determinato dopo lo svolgimento di una prestazione dopo un determinato periodo. Già l’art 2109 cc prevede il tema delle ferie: il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo di non meno di 4 settimane di ferie retribuite, elevabile dai contratti collettivi. Le ferie sono di 4 settimane all’anno e decide il datore di lavoro come collocare in ferie tenendo conto sia delle sue attività aziendali, sia delle eventuali richieste dal prestatore di lavoro. Tali 4 settimane di ferie vanno godute per almeno 2 settimane in maniera consecutiva, se lo richiede il datore di lavoro, nell’anno di maturazione e le restanti 2 potrebbero essere consumate nei 18 mesi successivi (prima soprattutto i dirigenti non andavano in ferie perché una volta cessato il rapporto avevano diritto ad una retribuzione per ogni anno in cui non si era goduto delle ferie → monetizzazione). Proprio per questo la Legge esclude la cosiddetta monetizzazione delle ferie: è l’art 36 della Costituzione a prevedere che le ferie abbiano come scopo quello di far riassumere le energie psico-fisiche spese nel corso della prestazione lavorativa e, quindi, anche in presenza di un eventuale consenso del prestatore di lavoro le ferie non possono essere monetizzate (non ci si può rinunciare!). Ci sono, invece, alcuni casi, magari in presenza di cessazione del rapporto di lavoro o magari a frutto di periodi di lavoro a tempo determinato anche brevi, in cui è possibile monetizzare le ferie: - quando il rapporto di lavoro cessi prima della maturazione o del godimento della pausa feriale - quando è assunto a tempo limitato il lavoratore avrà diritto alla corresponsione di un’indennità sostitutiva, cioè alla monetizzazione, proporzionale alle ferie non godute. Nell’ambito di un’organizzazione aziendale, per questioni di carattere sociale/morale/solidaristico, a titolo gratuito, vi può essere anche una cessione di qualche giorno di ferie ad altri lavoratori. [art 1 del d. l. 66/2003] lavoro notturno (il più gravoso). Per periodo notturno si intende un periodo di almeno 7 ore consecutive, comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino. È interessante la definizione di lavoratore notturno: si intende qualsiasi lavoratore che, durante il “periodo notturno”, svolga almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero: non c’è bisogno che il lavoratore notturno lavori da mezzanotte alle cinque, ma che nel suo ordinario tempo di lavoro giornaliero sia impiegato per almeno 3 ore in quella fascia oraria. Il lavoratore notturno ha diritto anche ad una retribuzione maggiore. In questo ambito, ci sono dei limiti ben precisi: uno di questo è se il lavoratore si intende come lavoratore notturno non può superare le 8 ore complessive nel periodo di 24 ore. Il Legislatore ha deciso tale limite di orario rigido, fatta salva la facoltà dei contratti collettivi di individuare “un periodo di riferimento più ampio” delle 24 ore sul quale calcolare “come media” il limite delle 8. Tutela lavoro femminile: nel nostro ordinamento, fino a non molti anni fa, vi era un vero e proprio divieto, in parte temperato dalle norme del contratto collettivo, di lavoro notturno per le donne. Questo divieto determinava di più di un problema riguardanti la parità di genere: l’Italia fu condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per disparità prevedendo questo divieto assoluto. Adesso questo divieto assoluto non c’è più. C’è ancora, per alcuni casi che riguardano le donne, un divieto assoluto di svolgimento del lavoro notturno, ma non di per sé per il fatto di essere donna, ma per le lavoratrici in gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino. Qui il bene giuridico che si tutela è la gravidanza e non necessariamente la donna in quanto tale. IL LAVORO AGILE: art. 18 e seguenti d.l. 81/2017 Il lavoro agile non è un contratto a sé, né è l’ennesimo contratto di lavoro atipico, ma è una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, stabilità mediante accordo tra le parti, per cui si tratta di una modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato quanto ai luoghi e ai tempi di lavoro, allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Può essere a tempo determinato o indeterminato ed è stipulato in forma scritta ai fini della prova, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario no di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa: in questo caso, abbiamo un ulteriore momento contrattuale (“mediante accordo tra le parti” significa che almeno fino a febbraio del 2020 e, probabilmente, dopo settembre 2021, per porre in essere una prestazione lavorativa con modalità agili, deve esserci tra datore e lavoratore un ulteriore contratto, patto che si chiama patto di lavoro agile che si affianca al contratto già in essere, che è in forma scritta e che può essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato). NB Il lavoro agile che conosciamo da un anno a questa parte non ha visto, nella stra grande maggioranza dei casi, alcun patto ulteriore: per decreto, a causa della zona rossa e del lock-down, i lavoratori sono stati costretti a lavorare da casa, quindi, in questo caso, questo articolo di legge sul lavoro agile è stato sospeso per tutta la durata dell’emergenza. Cenni storico-normativi La norma di riferimento del lavoro agile è contenuta agli artt 18 e seguenti della legge 81/2017. prestazione lavorativa. Quindi, strumenti di lavoro come tablet, computer e smartphone potranno essere consegnati al lavoratore senza necessità di un previo accordo collettivo, ovvero di una preventiva autorizzazione. [art 2 dello Statuto dei lavoratori del 1970] sulle guardie giurate: vi era una sorta di vera e propria polizia provata del datore di lavoro, in cui queste guardie giravano per verificare se i prestatori di lavoro stessero lavorando o no: la norma fa divieto al datore di lavoro di adibire la vigilanza alle guardie, o meglio alla vigilanza nei confronti del lavoratore. Le guardie giurate possono essere impiegate dal datore di lavoro solo per scopi di tutela del patrimonio aziendale. [art. 3] Le guardie giurate debbono essere identificabili. [art. 5 statuto del lavoratore] accertamenti sanitari: è vietato, per il datore di lavoro, utilizzare un suo medico per accertare uno stato di salute del dipendente (potrebbe essere di parte); deve necessariamente fare questi controlli, per esempio in caso di malattia, anche per il mezzo dei medici del servizio sanitario. In altre parole, se un collaboratore dirà che è in malattia e sta a casa, non è che ci si deve fidare sulla parola, ma il datore di lavoro avrà modo di fare un controllo tramite l’Inps. [art. 6 statuto del lavoratore] visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale. Deve verificarsi a campione, rispettose delle dignità della persona etc. [art 8 dello Statuto dei lavoratori], sul divieto di indagini sulle opinioni. Per il datore di lavoro è vietato fare ricerche, magari con investigatori privati, su come un certo lavoratore la pensa, se è iscritto a particolari sindacati o se è iscritto a partiti, di centro, di destra o di sinistra, sulle sue opinioni religiose, ecc, perché nel valutare qualcuno, ai fini dell’assunzione, vale solo l’attitudine professionale del lavoratore. Questa è una norma pienamente in vigore. Il datore può chiedere al lavoratore se è incensurato o meno ad esempio, questa tipologia di ricerca è lecita. Poteri del datore di lavoro: il potere disciplinare Questo è il classico caso di procedimentalizzazione del potere datoriale, nel senso che la Legge non elimina un potere innato del datore di lavoro e che gli deriva dal contratto, ma in alcuni casi, lo limita e lo regola con quelle che, molto spesso, sono regole di procedura. In altre parole, non basta essere titolari di un potere per poterlo sempre legittimamente esercitare, ma occorre rispettare anche quelle regole previste dalla Legge. DEFINIZIONE Il potere disciplinare – Il datore di lavoro può / deve sanzionare l’eventuale lavoratore inadempiente, cioè quando il lavoratore non esercita la propria prestazione lavorativa correttamente, o quando viola l’obbligo di fedeltà, facendogli concorrenza. [art 2106 cc] l’inosservanza, da parte del prestatore di lavoro, degli obblighi previsti nei due articoli precedenti, può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione e in conformità delle norme corporative. Per essere correttamente esercitato ci sono delle regole che possiamo definire requisiti di carattere sostanziale e requisiti di carattere procedimentale. Devono essere entrambi rispettati, altrimenti si rischia che quella sanzione sia nulla e che, quindi, il potere viene ad essere non utilmente esercitato. REQUISITI SOSTANZIALI Tra i requisiti sostanziali, art 7 statuto dei lavoratori che è la Legge 300/1970, vi sono: 1) sussistenza del fatto addebitato: il fatto che si addebita al lavoratore deve essere sussistente. La prova di una eventuale sussistenza di un fatto che si addebita è compito del datore di lavoro. Sul lavoratore, invece, grava l’obbligo di discolparsi, con la possibilità, in alcuni casi, di provare l’eventuale riconducibilità del fatto addebitato ad una situazione di impossibilità, non imputabile, secondo i principi generali in materia di responsabilità contrattuale; 2) proporzionalità fra il fatto contestato e l’azione: in presenza di un fatto che può determinare un inadempimento, le sanzioni non possono essere slegate da qualsiasi proporzionalità: ad esempio, “hai fatto un minuto di ritardo, sei licenziato” non è possibile. Le sanzioni che possono sussistere in presenza di inadempimento contrattuale sono sanzioni di carattere conservativo (art 7 statuto dei lavoratori), perché determinano comunque la conservazione del posto di lavoro. Queste sanzioni conservative, che il datore può attuare, in maniera proporzionale tra infrazione e sanzione, sono: − rimprovero verbale − richiamo scritto − multa, per un massimo di 4 ore (può essere per un importo pari a determinate ore di retribuzione: 4 ore di multa, significa che 4 ore della mia retribuzione, non mi verranno erogate) − sospensione dal servizio per un massimo di 10 giorni − licenziamento disciplinare. Il datore di lavoro, però, non può demansionare il prestatore di lavoro all’esito di un procedimento disciplinare, e non può effettuare il trasferimento sanzionatorio, anche se su questo la giurisprudenza, in alcuni casi, prevede che il datore di lavoro potrebbe provvedere anche ad un trasferimento per incompatibilità aziendale. REQUISITI PROCEDIMENTALI Vi è, poi, tutta una serie di requisiti procedimentali, i quali, ai pari dei requisiti sostanziali, sono presupposti del potere disciplinare. La loro assenza si traduce nella inesistenza del potere e conseguentemente nella nullità della sanzione. In questo caso, cioè in presenza di requisiti procedimentali, è come una sorta di processo, in cui il datore di lavoro è sia parte in causa, sia giudice e dunque il datore di lavoro non può procedere direttamente a irrogare una sanzione disciplinare. La procedura è la seguente: a) deve essere affisso in azienda il codice disciplinare, cioè un articolo estrapolato dal contratto collettivo, che si applica a quell’azienda, in cui vi è scritto quali conseguenze si determinano. Ad esempio, in caso di ritardo vi è la sanzione scritta; in caso di reiterato ritardo vi è la multa, ecc. Quindi, vi è una proporzionalità, prevista dal codice disciplinare, tra eventuali inosservanze e sanzioni applicabili. La proporzionalità può essere in parte derogata, in presenza della cosiddetta recidiva, nel senso che se un lavoratore entra in ritardo, senza aver avvisato, per una volta, il datore di lavoro, magari, farà una sanzione scritta, ma se reiterano lo stesso comportamento, il datore di lavoro ha due anni per tenerne conto e aumentare l’importo della sanzione o prevedere una sanzione di carattere più grave; quindi il reiterare può determinare una sanzione più grave. Nel caso di affissione dell’onere disciplinare, ho l’onere di pubblicità del codice disciplinare. Quindi, è necessario che il codice disciplinare venga portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. b) contestazione dell’addebito: prima di sanzionare qualcuno, dal punto di vista della pratica, la prima lettera che partirà all’indirizzo di quel lavoratore è la contestazione dell’addebito, cioè significa che il datore di lavoro deve scrivergli, avvisandolo, dicendogli ad esempio “Gentile sig. Rossi, mi risulta che questa mattina Lei non si è presentato sul posto di lavoro e non ha avvisato per coprire la sua assenza”. Quindi, il datore di lavoro non può irrogare la sanzione al lavoratore “senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa”. Inoltre, il lavoratore “potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato”. La contestazione deve avere la caratteristica dell’immediatezza, nel senso che, dal momento in cui il datore di lavoro conosce il fatto, per la contestazione non può far trascorrere un tempo molto lungo, nel senso che l’addebito deve essere contestato con immediatezza; inoltre, l’addebito deve essere specifico e immutabile: il datore non può scrivere “Gentile sig. Rossi, mi risulta che negli ultimi tempi, Lei è spesso assente dal lavoro”. Infatti, ai fini della difesa del lavoratore è necessario che questo comportamento sia determinato in maniera specifica e in maniera immutabile, nel senso che una volta che il datore di lavoro ha contestato una certa assenza, in una certa data non può cambiare le carte in tavola. Questo perché il datore di lavoro deve offrirgli la possibilità di difendersi. Infatti, il datore di lavoro è tenuto a sentire oralmente il lavoratore che ne fa richiesta oppure il lavoratore può anche affidare le sue difese ad una difesa di carattere scritta, in cui il prestatore di lavoro offre le sue giustificazioni, anche in presenza di un avvocato o di un sindacalista. Importante è che il datore di lavoro, non prima dei 5 giorni dalla contestazione (cosiddetta pausa di riflessione), può decidere di archiviare o di sanzionare il prestatore di lavoro. In questo ambito, quindi, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale, non possono essere applicati prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Tale periodo di attesa era finalizzato a favorire una pausa di riflessione per lo stesso datore di lavoro, scongiurando decisioni “a caldo”. Poteri del datore di lavoro: il potere direttivo (di conformazione) [dispe] Lo stesso ius variandi altro non è che la manifestazione più palese del potere direttivo del datore di lavoro. Nell’ambito del potere direttivo, il nostro manuale parla in una logica propria degli interventi legislativi che vanno a limitare e tutelare i soggetti che sono soggetti a questo potere direttivo del datore di lavoro. Quindi, il potere direttivo del datore di lavoro non è un potere senza limiti: nel manuale è presentato come tutela contro le discriminazioni, nel senso che la normativa a tutela, che contrasta le discriminazioni, è una delle normative che tutela il lavoratore o la lavoratrice da un potere, altrimenti, senza limiti. Basti pensare alle discriminazioni e al caso in cui un datore di lavoro, nell’ambito della sua azienda, decida di dare un aumento ai soli lavoratori uomini: questo comportamento non è tollerabile, perché riguarda la disciplina discriminatoria e, in particolare, sul tema uomo-donna; neanche se il bonus fosse stato alle donne non sarebbe stato comunque tollerabile, anche se vi è tutta una serie di azioni positive che, in alcuni casi, possono favorire il sesso sotto rappresentato, quello femminile: ad esempio, pensiamo alle cosiddette quote rosa, in alcuni casi il favorire un sesso sottorappresentato rientrerebbe nell’ambito delle procedure necessarie per portare una effettiva uguaglianza. CENNI STORICI Quando parliamo di discriminazione, parliamo di quella tra sessi differenti: l’art 37 della Costituzione tutela la lavoratrice donna. Secondo tale norma, la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore maschio. A livello Europeo, la cosa sorprendeva, perché la logica dell’allora comunità europea non era la logica sociale che abbiamo in mente oggi, ma lo scopo della comunità europea era quello di creare un mercato unico, in cui le merci, i servizi e i lavoratori potessero liberamente circolare. Quindi, nella visione della comunità europea dell’epoca, la norma sulla parità di retribuzione tra uomo e donna aveva indirettamente un ruolo sociale, ma serviva per non creare dumping sociale, per cui era funzionale ad una concorrenza che prevedesse tutti allo stesso livello di partenza. Solo successivamente, si svilupparono una serie di normative che portarono poi alla situazione attuale. D.L. 198/2006: CODICE DELLE PARI OPPORTUNITA’ Di notevole importanza è anche il codice delle pari opportunità (principio di uguaglianza formale e sostanziale), il quale è frutto di una serie di disposizioni che si sono stratificate nel tempo, ma il decreto legislativo che lo contiene è 198/2006, chiamato anche testo unico. Le due nozioni che dobbiamo ricordare sono contenute all’art 25 del decreto legislativo 198/2006 “discriminazione diretta e indiretta”. • discriminazione diretta: secondo l’art 25 è qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga. La discriminazione di cui abbiamo parlato, riguardante il bonus per i soli uomini, è un esempio di discriminazione diretta; es. a parità di curriculum viene assunto Tizio piuttosto che Caia solo perché il datore di lavoro non vuole donne nella sua azienda; • discriminazione indiretta: meno diffusa; ai sensi del medesimo art. 25 si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio riguardo ai lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino i requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Ad esempio, se il datore di lavoro non da una gratifica per impegno dei prestatori di lavoratori, a fine anno, ai soli lavoratori part-time e, magari in quell’azienda, i part-time sono prevalente le donne: questo è un criterio apparentemente neutro, in cui in realtà si pongono le donne in una situazione di svantaggio; altro esempio può riguardare il fatto che, magari, per entrare nelle forze dell’ordine è richiesto a tutti un’altezza di 1.70: statisticamente, l’altezza è connotata da un punto di vista biologico, quindi senza che questo sia un requisito essenziale allo svolgimento dell’attività lavorativa, si sta discriminando un sesso rispetto ad un altro, responsabile, ma anche che ci sia una sorta di modello partecipato della sicurezza, cioè che, in un ambito complesso, ogni soggetto, ai quali la normativa attribuisce dei compiti, faccia il suo. Quindi modello partecipato significa che, accanto al datore di lavoro, ci sono altri soggetti previsti e ai quali la legge da dei compiti molto dettagliati. Gli obblighi del datore di lavoro Questi obblighi sono in capo e di diretta responsabilità del datore di lavoro che non può, in alcun modo, delegare e sono una serie di adempimenti che rientrano nel più generale obbligo di sicurezza → principio di effettività, è lui che organizza il lavoro, è lui che ne è responsabile. Ha lui la paternità de: • valutazione dei rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa: vi è una mappatura dei rischi e, quindi, la valutazione dei rischi è connessa allo svolgimento della prestazione lavorativa, al fine di individuare le fonti di pericolo e l’entità del danno che ne può derivare. In accordo con il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile, il testo unico stabilisce, a carico del datore di lavoro, un obbligo di aggiornamento continuo e immediato della valutazione del rischio, nonché delle misure di prevenzione, tenuto conto del grado di evoluzione della tecnica; • documento di valutazione dei rischi: devo concretizzare la valutazione dei rischi in uno specifico documento (redazione del documento di valutazione dei rischi), in cui non solo parlerà dei rischi connessi all’attività lavorativa, ma indicherà tutte le misure di prevenzione e dei dispositivi che adotta. Nel documento di valutazione dei rischi inoltre dirà e farà qualcosa per evitare tale rischio (ad esempio, se so che qualcosa può prendere fuoco, in risposta a questo rischio, faccio si che ogni reparto, ogni stanza sia attrezzata con materiale ignifugo, estintori, etc.). In altre parole, il documento di valutazione dei rischi deve essere munito di data certa e deve contenere: una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa. Deve essere firmato dal datore ed è sua responsabilità. Questi due adempimenti sono di diretta responsabilità del datore di lavoro e non può, in alcun modo, delegarli ad altri, e deve esercitarli in collaborazione con: - il responsabile del servizio di protezione e prevenzione designato dallo stesso datore di lavoro - il medico competente - previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Per tutta una serie di norme, anche di carattere penale, l’inadempimento di questi obblighi porta anche a sanzioni, non solo amministrative e pecuniarie, ma anche di carattere penale. La designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Il datore può delegare delle attività a questo responsabile, ma non può delegare ad altri la “designazione”: lui può scegliere il responsabile, e deve firmare lui l’atto facendolo di persona. Affinché sia una nomina genuina e il soggetto possa lavorare correttamente (e non un intermediario fittizio), la legge prevede dei requisiti per questo soggetto: gli deve essere attribuita un’autonomia di spesa necessaria allo scopo. Innanzitutto, vi deve essere una delega in forma scritta, il soggetto designato deve avere requisiti di professionalità ed esperienza. Il soggetto che riceve la delega deve successivamente accettare per iscritto la delega stessa. Gli deve essere attribuito un margine di autonomia di spesa da utilizzare per effettuare le attività ritenute necessarie e corrette. La delega ricevuta deve essere “pubblicizzata” nell’ambito del luogo di lavoro, poiché con esso deve interagire il personale. Se il datore di lavoro ha posto in essere correttamente le attività, egli sarà coperto dall’assicurazione dello stato (INAIL) che risarcisce il lavoratore. Obblighi del datore di lavoro: la retribuzione DEFINIZIONE [26.03.2024+dispe] La retribuzione è il corrispettivo che spetta al lavoratore per l'attività lavorativa svolta. È la principale obbligazione in capo al datore di lavoro. La retribuzione connota il rapporto di lavoro come un contratto oneroso di scambio (o a prestazioni corrispettive). Nel caso di retribuzione percepita da un lavoratore dipendente si usa il termine salario. Definizione legale di retribuzione, art 2121 cc: si distingue la nozione dal punto di vista del diritto civile da quella ai fini contributivi e fiscali. Quella codicistica si trova nell’art 2120. Le due nozioni non sono rubricate come retribuzione, sono delle definizioni che servono ad altri fini. art 2120 cc: computo dell’indennità di mancato preavviso, la definizione di retribuzione è compenso di carattere continuativo con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Quindi si enfatizza il carattere di continuità. art 2121 cc: nel tfr si comprendono tutte le somme corrisposte in sussistenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale (aventi carattere continuativo = sono esclusi i rimborsi spese). Ai fini fiscali e contributivi si ha definizione ampia tutte le somme e i valori in relazione a rapporto di lavoro a qualsiasi titolo percepiti. CCNL E RETRIBUZIONE Nell'ordinamento italiano della retribuzione se ne occupa la Costituzione: l'art. 36, comma 1, infatti, stabilisce che “il lavoratore deve essere retribuito proporzionatamente alla quantità e alla qualità di lavoro svolto e sufficientemente per poter aver una esistenza libera e dignitosa”. In Italia non c’è un minimo salariale definitivo dalla legge, ma i minimi esistenti sono stabiliti dai contratti collettivi di lavoro e sono applicabili erga omnes.  CCNL: contratti collettivi nazionali di lavoro → stabiliscono la “retribuzione tabellare”. Tali contratti collettivi nonostante quanto scritto nella costituzione prevedono una prassi diversa. La Costituzione prevedrebbe una modalità per attribuire a questi contratti un’efficacia pari a quella della legge – erga omnes: nei confronti di tutti quelli che fanno parte di quella categoria. I contratti di lavoro non hanno efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce: non c’è un vincolo che porta la sua applicazione nei confronti dei lavoratori (= viene confutato l’ultimo comma dell’articolo 39 della costituzione). Formalmente questi contratti CCNL (collettivi) non hanno efficacia nei confronti di tutti, dato che i contratti collettivi nazionali disciplinano tante cose e non solo la retribuzione. Il fatto che non ci siano leggi che facciano riferimento ad una cifra non vuol dire che la costituzione si disinteressi della retribuzione. Dal punto di vista macroeconomico l’andamento dei salari ha una sua valenza anche dal punto di vista più ampio del singolo rapporto tra i due. La retribuzione è la prestazione fondamentale del datore verso il lavoratore. Storicamente la retribuzione ha profilo collettivo in tema della politica dei redditi. Quello di autonomia collettiva nel definire standard minimi retributivi è il motivo per cui nasce il contratto collettivo. Il ruolo dell’autonomia individuale invece è quello di miglioramento di standard produttivi a seconda di qualifiche e livelli del lavoratore, storicamente la legge ha ruolo contenuto di definizione, ma non esiste un salario minimo per legge, come in altri paesi. ART. 36 COST, I PRINCIPI DELLA RETRIBUZIONE L’obbligo retributivo caratterizza il rapporto di lavoro come rapporto di scambio e quindi la retribuzione è la corrispettiva della prestazione lavorativa. Il nesso di corrispettività subisce delle variazioni, quindi per esempio ci sono dei casi definiti da legge in cui anche in assenza di prestazione lavorativa c’è un corrispettivo. Il suddetto articolo recita che “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata a quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” I principi costituzionali che emergono sono: • proporzionalità: la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità (in termini di difficoltà, importanza e responsabilità) del suo lavoro. La proporzionalità è determinata, salvo qualche valutazione affidata alla discrezione delle parti, dalla disciplina sindacale. La giurisprudenza, infatti, ritiene sufficiente la retribuzione quando questa è pari o superiore ai minimi tabellari contenuti nei contratti collettivi. La sufficienza è normalmente considerata sussistente dalla giurisprudenza allorquando è rispettato il principio di proporzione. • sufficienza: la retribuzione deve essere sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Il principio della sufficienza è una norma di difficilissima applicazione, poiché tutt’altro che semplice è identificare una retribuzione minima che garantisca a tutti, dunque anche ai lavoratori appartenenti alle famiglie più numerose, un’esistenza ugualmente libera e dignitosa. Tale enorme problema, in realtà irresolubile, è stato affidato alla contrattazione collettiva, e la scelta amara è stata di non fissare un minimo uguale per tutti aumentabile in base alla qualità del lavoro, ma di fondere la proporzionalità con la sufficienza, portando così alla creazione di livelli di sufficienza retributiva differenziati a seconda del livello della scala retributiva. Fino al 31/12/1991 i valori indicati come limite minimo di sufficienza dalla contrattazione collettiva erano adeguati all’indice ISTAT dei prezzi al consumo, secondo un meccanismo chiamato “scala mobile”; dal 01/01/1992, invece, tale meccanismo è stato abolito, passando ad una periodicità di aggiornamento triennale. I due principi devono integrarsi a vicenda. Per capire se la retribuzione è consona e rispettosa dei principi costituzionali suddetti, storicamente le retribuzioni si individuano nell’ambito di tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali (CCNL), in cui si indicano i minimi retributivi che costituiscono per il giudice un sicuro approdo per definire qual è la retribuzione idonea a soddisfare i principi di art 36 della Costituzione. Il contratto collettivo in Italia tecnicamente si applica solo alle parti ma la parte della retribuzione ha estensione di efficacia. La costituzione dice anche che la donna lavoratrice ha stessi diritti e stesse retribuzioni che spettano all’uomo a parità di lavoro; quindi, si ha eguaglianza tra uomo e donna anche per la retribuzione. Si sostiene poi che una volta rispettato il minimo retributivo il datore può trattare diversamente i lavoratori, anche se c’è una sentenza della corte che cerca di trovare una via mediana perché dice che possono essere tollerate delle disparità se hanno giustificazioni ragionevoli. Non esiste un principio di retribuzione assoluta, mentre nel settore pubblico si ha parità assoluta retributiva. Non vi è un principio di parità di trattamento, ma vi è un divieto di discriminazione: trattare in maniera differente situazioni simili a causa di fattori quali il sesso, orientamento politico etc. (*) Esistono due principi fondamentali da tenere in considerazione nella formulazione della retribuzione:  principio di non discriminazione: si inibiscono i trattamenti differenziati per specifici motivi (sesso, razza, età);  principio di uguaglianza: parificazione del trattamento dei lavoratori che ricoprano la stessa posizione professionale. Nella pratica si ha però una sostanziale non operatività del principio di uguaglianza: un lavoratore non può rivendicare una retribuzione maggiore solo perché altri lavoratori con analoghe qualifiche o mansioni godono di un trattamento più favorevole. Anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sul fatto che sono tollerabili possibili disparità di trattamento per i lavoratori in posizione di identico valore qualora simili differenziazioni risultino giustificate e comunque ragionevoli. ART 2099 CC secondo comma, Intervento del giudice “In mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice”. L’accordo può riferirsi anche ad una potenziale nullità di ciò che le parti hanno stabilito: se si prevede contrattualmente una cosa (ma in modo forzoso), ad esempio bassa retribuzione, si può ritenere quella pattuizione come inesistente, poiché nulla. È necessario quindi che intervenga il giudice (la legge lo stabilisce). Anche quando la retribuzione è così bassa si prevede che quella clausola (dell’accordo) sia nulla, e che pertanto la retribuzione debba essere stabilita dal giudice. I giudici per stabilire la corretta retribuzione per ciascun mestiere prendono quale parametro di riferimento le tabelle previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro. I CCNL formalmente oggi non hanno efficacia erga omnes, tuttavia indirettamente un’efficacia erga omnes la hanno le tabelle retributive presenti all’interno dei CCNL. Un imprenditore che non applica contratti collettivi (cosa legittima), i minimi contributivi presenti nei contratti collettivi devono essere applicati poiché, ove non lo facesse, potrebbe essere obbligato a rispettare questi ultimi da un giudice. Retribuzione minima La retribuzione base (o tabellare) è quindi definita dai contratti collettivi nazionali di lavoro. A fronte di 11 mesi effettivi di lavoro (12 – 1 di ferie), dunque, ogni lavoratore subordinato percepisce 13 mensilità retributive, a differenza dei lavoratori autonomi, che si collocano invece in un rapporto 12:12 (es. un collaboratore coordinato continuativo è pagato 12.000€ annui per il raggiungimento di un determinato risultato con acconti mensili di 1.000€ per 11 mesi ed un saldo finale di 1.000). Contratti atipici: a termine, flessibili, formativi 4.04.24 [appunti + dispe] vedi anche su capitoli mercato del lavoro e successivi CONTRATTI A TERMINE E SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO Il contratto a tempo indeterminato è la forma di contratto ideal-tipica per il lavoro subordinato, ma esistono anche contratti “ATIPICI” (inteso come diversi da contratto indeterminato, NON inteso come non previsto legislativamente come nel diritto privato). Questi tipi di contratto nascono per una duplice esigenza:  flessibilità aziendale e per i lavoratori  utilizzati come strumenti per incrementare l’occupazione Questi contratti subordinati atipici sono presenti in questo decreto che fa parte del jobs act: decreto leg. 81 del 2015. Attuazione di accordi sindacali a livello europeo. CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO L’atteggiamento che si è avuto nei confronti del contratto a tempo determinato è stato ambivalente, perché da un lato si è cercato di liberalizzarlo rendendolo possibile ai datori di lavoro, e dall’altro lato si è verificata una pendenza uguale e contraria perché si è cercato di tutelare i lavoratori cercando di utilizzarlo il meno possibile. → cambiavano le norme al cambiare dell’orientamento dei governi. Da un lato, a partire dal job act, del 2015, si diceva che il datore di lavoro dovesse rispettare dei limiti, ma non per forza motivare il perché si assumeva un lavoratore a tempo determinato (causali giustificatrici). Dall’altro lato però, si voleva avere una motivazione valida del perché si assumeva qualcuno a tempo determinato. Vi sono alcune regole fondamentali (art. 19 del decreto): • un requisito di carattere formale, infatti il contratto a tempo determinato deve essere stipulato in forma scritta, ab substantiam (per contratto di più di 12 giorni). In particolare, si impone in forma scritta la posizione del termine. In caso contrario sarà nulla la clausola di termine e quindi se la clausola non esiste è come se il contratto fosse a tempo indeterminato. Nella logica, dunque, di salvare il contratto, il contratto sussiste ma è a tempo indeterminato (è nulla la clausola di termine). • un requisito di durata, infatti il contratto a tempo determinato deve avere una durata massima. Sia tale contratto, sia il part time hanno regole direttamente applicabili in forza di direttive Europee. In questa direttiva Europea i vari paesi si devono impegnare a non prevedere contratti della durata superiore a 24 mesi a partire dal 2018 con il decreto dignità. Prima del 2018, la durata massima era invece di 36 mesi. Proroga È possibile proroga straordinaria (fino a 36 mesi): prorogare per altri dodici mesi il contratto, nell’ambito delle sedi sindacali, della direzione provinciale o direzione territoriale del lavoro e nell’ambito dell’ispettorato del lavoro (nelle SEDI PROTETTE, che possono essere le sedi sindacali, la direzione provinciale o territoriale del lavoro, ispettorato del lavoro, in presenza quindi di esigenze eccezionali) per esigenze particolari. Concetto di proroga = un prolungamento. Nell’ambito dei 24 mesi totali (che è il massimo possibile) si può prorogare il contratto per 4 volte (es. da 8 mesi a 12). Se il legislatore non avesse parlato di ‘’proroghe’’, la conseguenza sarebbe che il datore di lavoro potrebbe assumere il lavoratore per 24 mesi, ma mensilmente potrebbe prorogargli il contratto. Se il datore di lavoro assume un lavoratore per meno di 12 mesi, egli può non specificare le causali giustificatrici che lo spingono ad assumere tale lavoratore. Se invece, egli assume un lavoratore per un periodo superiore a 12 mesi, o appone una proroga al lavoratore che ha assunto per meno di 12 mesi, egli deve garantire una causale giustificatrice secondo l’articolo 19. Rinnovo Le parti possono rinnovare un contratto a termine, cioè stipulare un contratto nuovo con termine di durata. Il rinnovo, però, differisce dalla proroga, in quanto quest’ultima interviene sul contratto originario, prolungandone la durata, senza soluzione di continuità. Il rinnovo, invece, comporta la stipula di un nuovo contratto a termine tra le stesse parti ed è subordinato alla ricorrenza di una delle causali di cui all’art 19 co. 1 del decreto legislativo 81/2015, a prescindere dalla durata del rinnovo e/o del contratto che lo ha preceduto, nonché alla durata massima di 24 mesi. È importante precisare che, nel rinnovare un contratto a termine, le parti devono osservare un intervallo minimo, pari a 10 giorni nel caso in cui il contratto precedente avesse avuto una durata fino a 6 mesi; e pari a 20 giorni nel caso in cui il contratto precedente avesse avuto una durata superiore ai 6 mesi. La violazione dell’intervallo minimo prescritto per il caso di rinnovo comporta la conversione a tempo indeterminato del secondo contratto. ART 19 DEL DECR. LEGLS 81/ 2015 comma 1: al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:  nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51;  in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il ((31 dicembre 2024)), per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;  in sostituzione di altri lavoratori. Se si sfora il termine del contratto (e la proroga) con lo svolgimento di fatto dopo che il contratto è formalmente terminato; se il contratto è di 6 mesi (e si sfora di oltre 30 giorni) se è 12 mesi (e si sfora oltre i 50 giorni) poi diventa contratto indeterminato. Quindi, possiamo dire che la durata del contratto a tempo determinato è di massimo 24 mesi; cambia però la modalità, lato datore di lavoro, per poter utilmente utilizzare questo periodo: se io mi limito ad un periodo inferiore o pari a 12 mesi, ovvero se assumo un lavoratore da qui ad un anno, posso non specificare quali sono le causali giustificatrici che mi spingono ad assumere quel lavoratore per 12 mesi. Se, invece, assumo altri lavoratori per un periodo superiore ai 12 mesi, devo spiegare e individuare, in concreto, una delle causali giustificatrici presenti all’art 19 del decreto legislativo 81/2015 (elenco su). e Anche nel caso di stipulazione di un contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi, senza causali, il contratto si trasforma a tempo indeterminato. Adesso, la complessità consiste nel fatto che il Legislatore distingue a seconda della durata del contratto: fino ai 12 mesi non sono necessarie le causali giustificatrici; oltre i 12 è necessario specificare perché, nell’azienda, ho bisogno di nuovi lavoratori. Le stesse causali devono sussistere in caso di rinnovo di un contratto a TERMINE, cioè in caso di stipula di un nuovo contratto a termine tra un datore di lavoro ed un lavoratore che già in passato avevano utilizzato tale contratto, a prescindere dalla sua durata iniziale e/o dalla durata complessiva. Vincoli e divieti Clausola contingentamento: non più del 20% dei contratti possono essere a tempo determinato in un’azienda (particolare: derogabile in peggio), a meno che se si hanno meno di 5 dipendenti si può sempre averne 1 a tempo determinato. Inoltre, vi sono altri limiti da art. 20 d. legls. 81/2015 - L'apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa:  per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;  presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi;  presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione;  a parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. art. 23 d. legls. 81/2015 - Per quanto riguarda i divieti e la percentuale massima che un datore di lavoro può avere come lavoratori a tempo determinato: l’art 23 del d. l. 81/2015 prevede che, dati 100 lavoratori, a tempo indeterminato, un datore di lavoro può avere una percentuale di lavoratori a termine (cosiddetta clausola di contingentamento) non superiore al 20%. NB Quasi sempre, i contratti collettivi possono prevedere deroghe soltanto in meglio della Legislazione, tranne in alcuni casi per cui in realtà il Legislatore prevede questo limite del 20%. La Legge dispone che la contrattazione collettiva può prevedere un limite o minore o maggiore: ad esempio, la contrattazione collettiva, in un certo settore, può prevedere che il limite di percentuale, con riferimento ai contratti a tempo determinato, dati 100 può essere 30% o 40%. È comunque possibile dire che la contrattazione collettiva può prevedere anche solo deroghe migliorative ai limiti percentuali fissati e non incrementare la percentuale del 20%. L’art 22 del d.l.81/2015 disciplina il caso in cui il rapporto continui oltre la scadenza del termine pattuito tra le parti. Per questa ipotesi, il Legislatore ha previsto un periodo di “interregno” durante il quale il rapporto resta a termine, ma il datore di lavoro deve riconoscere al lavoratore una maggiorazione sulla retribuzione dovuta. Tale maggiorazione è pari al 20% per ogni giorno di continuazione fino a 10 giorni e sale al 40% per i giorni dall’11esimo al 30esimo. Oltre il 30esimo giorno, se il rapporto di lavoro a termine continua, esso si considera a tempo indeterminato. CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE DEL LAVORO NON è un contratto del diritto del lavoro. La procedura di somministrazione è costituita da due contratti: uno tra agenzia e lavoratori (contratto di lavoro) e uno tra agenzia e utilizzatore (contratto di somministrazione). Vi sono 3 soggetti coinvolti: agenzia per il lavoro, lavoratore e datore di lavoro. ART 30 DECR. LEGSL. 81/2015 Il contratto di somministrazione è un contratto a tempo determinato (quasi sempre) o indeterminato di origine commerciale con cui un’agenzia di somministrazione autorizzata mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Vi è una dissociazione dei poteri che solitamente spettano al datore di lavoro: potere direttivo e di controllo spettano all’utilizzatore, mentre il potere disciplinare spetta all’agenzia di lavoro. Per la somministrazione a tempo indeterminato “Staff leasing” (molto rara) devono essere somministrati esclusivamente lavoratori assunti dall’agenzia a tempo indeterminato. In capo all’utilizzatore, vige un obbligo di parità di trattamento tra i lavoratori da lui assunti direttamente e quelli ricevuti tramite missione; la retribuzione è determinabile in base all’inquadramento e deve essere la stessa per entrambe le categorie di lavoratori. (NON c’è risparmio, anzi probabilmente il costo è superiore data la percentuale dell’agenzia). Il vantaggio è dato dal non dover cercare, selezionare e formare il personale oltre a non avere il “peso” di avere tali lavoratori in organico (ad esempio per non superare la soglia massima di lavoratori per cui scattano determinate norme). Vigono gli stessi limiti per cui è vietato il lavoro determinato (vedi art 20 sopra). Nei 24 mesi massimo del tempo determinato rientrano anche eventuali rapporti precedenti (i mesi passati in somministrazione). Il PART TIME – CONTRATTO A TEMPO PARZIALE [10.04.24+dispe] Vi è una femminilizzazione del part time. Importante dal punto di vista del mercato del lavoro, aumentano numero di occupati – ai fini dell’ISTAT un’ora di lavoro basta per considerarci occupati. Il regolarizzare il contratto part time serve a far emergere un dato occupazionale di soggetti che sarebbero fuori dal mercato di lavoro, dato il numero di ore limitate che questi soggetti possono riservare al lavoro. La disponibilità di ore ridotta può derivare da cura (di figli o persone anziane) e altre motivazioni. Circa il 20% dei lavoratori italiani fa part time. L’antagonista del part time è il tempo pieno (indipendentemente dal fatto che siano a tempo indeterminato o indeterminato). L’orario normale di lavoro è di 40 ore e i contratti collettivi possono prevederne di meno (e solo di meno). Il contratto part time è un orario ridotto rispetto al tempo pieno (40 ore o inferiori previste dalla contrattazione collettiva). Part time = orario ridotto rispetto al tempo pieno (non vi è una soglia fissa di ore). adesione all’articolo 36 della costituzione: il part time è legittimo quando permette almeno astrattamente di poter svolgere un'altra attività lavorativa. Non si va contro l’obbligo di non concorrenza qualora i due lavori siano in settori diversi. Il contratto part time è legittimo nella misura in cui vi è una tutela dell’orario lavorativo. ➢ sussistenza di gravi ragioni di salute del lavoratore, dei familiari, dei conviventi o di cura dei figli di regola fino a 13 anni (si fa, quindi, riferimento a quei casi che conferiscono al lavoratore il diritto alla trasformazione o alla priorità nella trasformazione del rapporto full time a part-time); ➢ sussistenza di ragioni di studio o di formazione. È esplicitamente consentita la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale purché vi sia l’accordo, in forma scritta, di entrambe le parti, ma solo in caso di lavoratori affetti da patologie oncologiche o da gravi patologie cronico-degenerative e in caso di lavoratori aventi diritto al congedo parentale. Per tutti gli altri lavoratori, il decreto legislativo 81/2015 non prevede un diritto soggettivo a tale trasformazione, ma si limita a stabilire una mera priorità nella trasformazione del contratto per ragioni di cura di familiari e conviventi. La parità di trattamento È importante parlare anche del principio di parità di trattamento, clausola contenuta all’art 7 del decreto legislativo 81/2015: anche la direttiva europea ci parla del part-time, sottolineando che il lavoratore a tempo parziale ha diritto allo stesso trattamento del lavoratore con orario pieno. Con riferimento alla retribuzione, questo principio va declinato nell’ambito del principio di pro rata temporis, per tutti gli istituti economici e normativi, nel senso che se un lavoratore a tempo pieno guadagna €2000 al mese e svolge metà delle ore o i 2/3 delle ore, egli guadagnerà la metà di €2000 o i 2/3 di €2000; in questo modo, è garantito il principio di parità di trattamento, nel senso che ciò che viene radicalmente escluso, da sempre, e che la Corte di giustizia delle comunità Europee ha sempre sanzionato, sono disposizioni che, soprattutto, in altri paesi, si rivolgevano al lavoratori a tempo part-time, pagandolo di meno, ovvero pagando la singola ora di lavoro meno per il solo fatto che si è in part-time: questo è intollerabile, perché la mia ora di lavoro non è qualitativamente diversa rispetto a chi svolge lavoro a tempo pieno. Sarebbe, quindi, radicalmente nullo un contratto collettivo che, a fronte di un’ora di lavoro pagata €10 al lavoratore a tempo pieno, al part-time è pagato 9 euro. Quindi, parità di trattamento significa non solo parità intesa in senso retributivo, ma anche parità nella proporzione di ciò che può essere il calcolo delle ferie: se svolgo la metà delle ore rispetto ad altri colleghi, alcuni istituti, legati alla presenza fisica in ufficio, vengono ad essere riproporzionati, ma come lavoratore part-time ho comunque tutte le tutele che ha un lavoratore a tempo pieno, come le mansioni, i diritti sindacali, la retribuzione. È possibile avere un contratto a termine determinato che prevede un numero di ore inferiori, per cui il contratto a termine può anche essere part-time. Quindi, contratto a termine e contratto part-time si possono ritenere due principali casi di contratto atipico, perché vanno a destrutturare quella è la forma comune di contratto, che è prevista a tempo indeterminato e a durata piena. Tutta la disciplina del tempo pieno si applica al part time: - dimensionamento - trasferimento CONTRATTO DI APPRENDISTATO Un altro contratto atipico, presente nel nostro ordinamento da decenni, è il contratto di apprendistato: si tratta di un contratto che, altrove, ha come scopo primario quello di rappresentare il primo accesso dei giovani nell’ambito del mercato del lavoro. Il contratto di apprendistato da dei vantaggi rilevanti nei confronti di chi lo utilizza, lato impresa, dal punto di vista fiscale e dei contributi; altri strumenti, come stage e tirocini sono più comuni, ma esulano dal diritto del lavoro perché, tecnicamente, non sono contratti di lavoro. È un contratto dove ad essere importante è la causa del contratto stesso. La causa è l’elemento economico sociale sotteso alla motivazione: lo scambio nel contratto di apprendistato è “retribuzione + formazione + prestazione”. La causa del contratto di apprendistato è una causa mista, perché certamente è presente la causa tipica, che è la prestazione di lavoro contro la retribuzione, ma la retribuzione non è l’unico obbligo che si demanda al datore di lavoro: il lavoratore in apprendistato, infatti, deve ricevere la RETRIBUZIONE e la FORMAZIONE. L’elemento formativo è così importante che non è un elemento accessorio del contratto, ma assurge a causa del contratto. La procedura di assunzione degli apprendisti segue le regole previste per l’instaurazione di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato: il datore di lavoro che intende assumere un apprendista deve limitarsi a stipulare e sottoscrivere il contratto di lavoro e inviare la comunicazione obbligatoria al centro per l’impiego. Art. 41 d. 81/2015 Il contratto di apprendistato è molto particolare ed è disciplinato all’art 41 del d. l. 81/2015: il contratto di apprendistato si allontana, per certi aspetti, all’ordinario contratto di lavoro: la causa tipica di un contratto di lavoro subordinato è lo scambio sinallagmatico prestazione – retribuzione. Il contratto di apprendistato consiste nel fatto che si tratta di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani. I giovani sono intesi tali fino a 29 anni. La forma Per quanto riguarda il profilo formativo, i principi riguardano: - presenza di un tutore o referente aziendale; - finanziamento dei percorsi formativi aziendali degli apprendisti per il tramite dei fondi paritetici interprofessionali; - riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e delle competenze acquisite ai fini del proseguimento degli studi, nonché dei percorsi di istruzione degli adulti; - registrazione della formazione effettuata e della qualifica professionale a fini contrattuali nel libretto formativo del cittadino. Tipologie Analizzando i vari tipi di apprendistati, per i quali valgono le stesse regole dette, essi sono: a) apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (art 43 del decreto legislativo 81/2015): è legato al tema dell’istruzione della scuola superiore. Fino a pochi anni fa, era possibile solo per i giovani tra i 15 e i 18 anni; adesso, invece, il legislatore ha aperto la possibilità di questa tipologia agli individui tra i 18 e i 25 anni, in quanto è spendibile, oltre che per l’ottenimento della qualifica, anche per il conseguimento di un diploma. La durata di questo apprendistato può variare in considerazione della qualifica o del diploma da conseguire e non può superare i 3 anni o 4 anni nel caso di diploma quadriennale regionale; b) l’apprendistato professionalizzante (art 44 del decreto legislativo 81/2015): è la classica tipologia di apprendistato, che è destinato a giovani tra i 18 e i 29 anni; c) l’apprendistato di alta formazione e ricerca (art 45 co. 4 del decreto legislativo 81/2015), legata anche al percorso universitario e di dottorato e a soggetti che abbiano già il diploma di scuola secondaria, riservata ai soggetti tra i 18 e i 29 anni. L’apprendistato è strettamente connesso al momento che, nel nostro momento, è anche competenza delle singole regioni, per cui questo accresce una sorta di difficoltà nell’utilizzo. Durata La durata dell’apprendistato cambia di volta in volta, in base alle differenti tipologie di apprendistato ed è rinviata ai contratti collettivi nazionali, in relazione ai tempi necessari per apprendere le mansioni. Il contratto di apprendistato e il relativo piano formativo individuale devono avere la forma scritta; vi è, inoltre, un divieto di retribuzione a cottimo, che mira ad impedire che si realizzino modalità di lavoro incompatibili con le esigenze formative; è previsto il prolungamento del periodo di apprendistato in caso di malattia, infortunio o altra causa di sospensione involontaria del rapporto superiore a 30 giorni. La fase formativa va dai 6 mesi ai 3 anni. Alla fine della fase formativa il datore di lavoro può licenziare, senza motivazioni, l’apprendista (ad nutum). Qualora il datore di lavoro non lo facesse, si applicheranno delle regole. Il giovane non diventa a tempo indeterminato, lo era già: semplicemente il datore di lavoro perde il potere di licenziare unilateralmente il lavoratore (ad nutum). La retribuzione è inferiore durante la fase formativa. L’apprendista può essere anche sotto inquadrato anche a 2 livelli rispetto a quello che fa. Per evitare che il contratto di apprendistato diventi lavoro pagato meno e sfruttato il legislatore prevede che il datore di lavoro possa usare questo metodo se conferma almeno una certa percentuale di apprendisti. Se su base triennale non si conferma almeno una percentuale di apprendisti, questo datore di lavoro non potrà più porre in essere l’apprendistato. Nel momento in cui diciamo che il contratto di apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato e che il contratto di apprendistato è a causa mista, è importante dire che il contratto di apprendistato è un contratto unitario, ma al suo interno convivono un normale rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato, e un rapporto di formazione che, però, non dura per tutta la vita del soggetto, ma ha una durata ben determinata; questo DUALISMO, che è dentro l’unico rapporto, ci porta a delle regole molto particolari, perché una volta terminato il momento formativo, il datore di lavoro, pur in presenta di un contratto a tempo indeterminato, non applica tutte le tutele per il licenziamento già studiate, per cui nel momento in cui termina la parte sulla formazione, il datore di lavoro può recedere liberamente dal contratto: se, invece, decide di continuare nel contratto, ovvero decide di tenerci, non dovrà riassumerci o stipulare un nuovo contratto. Quindi, al termine del momento formativo, che ha una durata determinata, il datore di lavoro può recedere liberamente dal contratto, per cui il licenziamento non è oggetto a tutte le tutele previste e già studiate e, se non lo fa, il contratto continua normalmente come un qualsiasi altro tipo di contratto a tempo indeterminato, quale è fin dal primo momento. Retribuzione Oltre alla formazione, devo garantirgli una retribuzione in cui però il datore di lavoro ha la possibilità di inquadrare l’apprendista fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante e alla qualifica che gli spetterebbe e, quindi, anche se sta imparando un lavoro che dovrebbe fare, ad esempio, l’operaio specializzato di primo livello, posso pagare di meno quel lavoratore apprendista, legittimamente, sotto-inquadrandolo (posso farlo perché lo sto anche formando). Quindi, è possibile una riduzione della retribuzione. Cessione del rapporto Non è così semplice recedere dal contratto durante il periodo di formazione: posso licenziarlo solo per giusta causa o per giustificato motivo, ovvero per grave inadempimento, durante il periodo di formazione. Quindi, vi è un divieto di recedere dal contratto durante il periodo di formazione, se non per giusta causa o per giustificato motivo. Al termine del periodo di formazione, fermo restando che se non esercito il diritto di recedere quel rapporto continua come un normale rapporto di lavoro, terminato il periodo di formazione ho un potere di licenziare quel lavoratore ad nutum, ovvero liberamente e senza doverlo motivare (come accade per i lavoratori in prova). Il legislatore guarderebbe con sospetto chi fa grande uso di contratti di apprendistato, ma che poi licenzia tutti: infatti, vi è una sorta di obbligo di stabilizzare almeno una parte degli apprendisti assunti. In altre parole, il datore non può stipulare altri rapporti di apprendistato se, nei 36 mesi precedente, non ha mantenuto in azienda almeno il 30% degli apprendisti = obbligo di “stabilizzare” almeno una parte degli apprendisti assunti: infatti, condizione per stipulare nuovi contratti di apprendistato è la conferma in servizio, al termine del percorso formativo, nei 36 mesi precedenti l’assunzione, di almeno il 30% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro; questo vincolo si applica solo alle aziende con almeno 50 dipendenti. Tirocinio (stage) È evidente che quello che altrove è svolto dall’apprendistato, nel nostro paese, nei fatti, è svolto dal tirocinio formativo e di orientamento o stage, che non è un rapporto di lavoro subordinato, ma è un inserimento, di carattere temporaneo non superiore a 12 mesi, regolato dalle singole regioni, che consiste in un ingresso nell’ambito della realtà imprenditoria e produttiva allo scopo di sperimentare un contatto diretto con il lavoro e un addestramento pratico. Si tratta, quindi, di uno strumento diretto a promuovere l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. I tirocini, però, non sono mai rapporto solo bilaterali, ma alla base di un tirocinio deve esserci comunque una convenzione stipulata tra la realtà imprenditoriale o datoriale e soggetti che sono promotori dei tirocini, come scuole, università, agenzie o centri per l’impiego, i cui tirocinanti sono parte terza. Non si prevede, normalmente, la corresponsione di alcuna somma di denaro al tirocinante e in aggiunta, tutti gli stagisti devono essere assicurati contro gli infortuni, le malattie professionali. CONTRATTO INTERMITTENTE [11.04.24] Art. 13 Decr. Legs. 81/2015 Nel caso del lavoro intermittente quello che è promesso è una generica disponibilità, che di suo non viene compensata, poiché il lavoro e la corrispettiva retribuzione si materializzano come obbligazioni reciproche, di scambio, solo a due condizioni: che il datore chiami il lavoratore (obbligato a rendersi reperibile) e che il lavoratore accetti di prestare la sua attività come, quando e dove richiesto ex ante nel contratto. Il contratto deve avere forma scritta ai fini di prova. Molto flessibile: prestazione lavorativa discontinua, intermittente, senza ore garantite  chiamato in base a necessità, lavoratore può declinare. DISTACCO Art. 30 decr. Lgsl. 276/ 2003 istituto che consente di porre temporaneamente un dipendente (distaccato) a disposizione un soggetto terzo (distaccatario) da parte del suo datore di lavoro (distaccante). Permane la titolarità del rapporto e dell’obbligo retributivo in mano al distaccante, però il distaccatario può avere potere direttivo di controllo e disciplinare. * quando il distacco non comporta un cambiamento di mansione, non c’è bisogno del consenso del lavoratore. Tre soggetti: DISTACCANTE (chi distacca), DISTACCATO (dipendente), DISTACCATARIO (a chi viene distaccato). Per essere legittimo e possibile questo, sono necessari dei requisiti, le condizioni di legittimità: • determinatezza: no invio e messa a disposizione generica, ma deve essere determinata una specifica attività lavorativa. • temporaneità: non si ha limite di tempo, è correlata al concetto di interesse, ma deve essere comunque temporaneo – si deve fare l’interesse del datore di lavoro. • interesse: motivazione di tipo tecnico, produttivo, organizzativo, non c’è scopo di lucro perché altrimenti si tratterebbe di somministrazione (ex somministrazione di manodopera —> non si tratta di un’attività determinata). Per esempio, Eni ha assunto ingegnere e deve fare attività con altra società che si occupa di trivellazioni e con cui ho rapporto commerciale → io eni invio ingegnere a società per un anno ai fini di determinata attività lavorativa, per esempio in questo caso è la ricerca del petrolio nell’adriatico. Interesse di eni è trovare petrolio per fare attività insieme. Temporaneità è un anno. L’attività determinata è la ricerca del petrolio. In caso di mancanza dei requisiti siamo nella somministrazione illegittima e il lavoratore interessato può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di chi ne ha utilizzato la prestazione. Inoltre, il distaccante verrà sanzionato. Comma 1: ‘’L’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.’’ Differenze con la somministrazione: 1) per l’interesse che caratterizza i due fenomeni: per quanto riguarda il distacco l’interesse non è collegato a una remunerazione, dunque non è uno scopo di lucro = non si manda il personale con il fine di essere pagati, ma per altri interessi imprenditoriali; non è un servizio ma è per un PROPRIO INTERESSE. 2) il distacco deve essere temporaneo. 3) l’attività deve essere posta in essere dal distaccante perché, come detto, deve essere un’attività per il soddisfacimento di un proprio interesse, non deve essere meramente mettere i lavoratori a disposizione del distaccatario. Importante la differenza, perché se non vengono rispettati i requisiti del distacco c’è una conseguenza importante: “il lavoratore può richiedere di essere assunto direttamente dal soggetto che ne ha usato la prestazione”. Comma 2: “in caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore”. Comma 3: “’Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato. Quando comporti un trasferimento a un’unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive”. DOMANDA → COLLOCAMENTO DEI DISABILI? Si tratta di tutelare dei soggetti in debolezza sul mercato del lavoro, in base a norma legge 68 del 1999, modificata dai decreti del 2015, i datori di lavoro che occupano almeno 15 dipendenti sono obbligati a assumere un numero di soggetti appartenenti a categorie protette, il numero varia in base alle dimensioni di azienda e a seconda di numero di lavoratori già occupati. L’accesso che porta i soggetti disabili al mondo del lavoro avviene attraverso sistema di collocamento mirato. DOMANDA → RAGIONI DI SOMMINISTRAZIONE? Diritto appronta degli strumenti che sta a imprenditore utilizzare, con riferimento a ragioni non deve essere una questione di risparmio di costi perché questo risparmio non c’è. Nel caso in cui faccio la somministrazione, i costi che deve sostenere imprenditore sono maggiori, perché oltre a pagare i lavoratori bisogna pagare anche agenzia. Per esempio se ho picco produttivo posso: - chiedere straordinario a dipendenti - assumo a tempo determinato - assumo dei collaboratori che non siano legati però a sistema produttivo - assumo con somministrazione Il diritto del lavoro, quindi, offre una serie di opzioni e soluzioni all’imprenditore sta a lui poi scegliere quella che preferisce. La somministrazione la posso scegliere per es perché mi servono dei lavoratori già formati, perché se assumo devo sostenere degli obblighi in più. DOMANDA → DURATA DELLA NASPI E CONDIZIONALITÀ? Per la durata si parte dai 4 anni precedenti alla disoccupazione, che servono per calcolare la media di indennità di partenza. La durata massima è 2 anni, la durata è la metà dei miei contributi versati per gli ultimi 4 anni. Se negli ultimi anni ho versato contributi per un anno e quindi godo della naspi per 6 mesi; se per 10 anni ho versato contributi, godo della naspi per 2 anni perché è la durata massima. Condizionalità: il legislatore ha cercato di legare le politiche passive per il lavoro (cassa integrazione e indennità di disoccupazione) con le politiche attive ed è la condizionalità. Il disoccupato deve essere iscritto nel centro di impiego che dovrebbe offrire corsi, prove di colloquio, come scrivere cv; il disoccupato deve seguire queste direttive date dal centro e deve parteciparci attivamente. Ci possono essere delle sanzioni, come sospensioni da ricevere indennità, se disoccupato è inadempiente. Spesso questo non accade perché i numeri di disoccupati sono alti e quindi il centro può poco. Reddito di cittadinanza = slegato da indennità di disoccupazione Sfida del legislatore è quella di legare politiche passive e offrire un servizio pubblico che possa far si che il disoccupato cerchi lavoro e si ponga attivamente in questo. Estinzione del rapporto di lavoro [23.04.24 + dispe] Ci sono svariate cause per cui un rapporto di lavoro può cessare; tuttavia, le principali cause di cessazione del contratto sono: 1) Dimissioni: volontà di recessione del lavoratore; 2) Licenziamento: volontà di recessione del prestatore. Possono essere:  per risoluzione consensuale, con cui le parti decidono concordemente di sciogliere il rapporto di lavoro che li lega ed è sempre prevista, senza necessità di alcune causale o giustificazione;  per scadenza del termine nei contratti di lavoro a tempo determinato;  per altre particolari circostanze specificatamente previste dalla legge  per morte del lavoratore. Per il Codice civile dimissioni e licenziamento sono trattate alla “pari” (non prende parti, considera quasi il rapporto come paritario): due elementi con cui cessa il contratto e su cui non viene data una grande distinzione. Ci si può dimettere liberamente, quasi sempre, ma non si può licenziare liberamente. Il lavoratore dipendente può sempre dimettersi, senza dare alcuna motivazione. Lo può fare in qualsiasi momento con modalità telematica, in modo da poter combattere le “dimissioni in bianco” (= foglio già firmato delle dimissioni in modo che il datore di lavoro senza scrupoli poteva far risultare le dimissioni in qualsiasi momento). Attualmente ci si può dimettere con modalità telematiche e la volontà e la data viene certificata dalla modalità di effettuazione, al fine di evitare questo tipo di abusi. Con riferimento al licenziamento invece la motivazione per cui si è licenziati va esplicitata. Art 2118 cc RECESSO DAL CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO (comma 1) Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità. (comma 2) In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo del preavviso. = se io mi dimetto oggi e dovevo lavorare per altri 2 mesi, mi verrà decurtato da ciò che mi spetta la retribuzione dei due mesi. (comma 3) La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro. Il preavviso è un periodo di tempo entro cui il lavoratore continua a lavorare e questo serve al datore, in caso di dimissioni, alla tempestiva sostituzione del lavoratore e al lavoratore stesso, in caso di licenziamento, alla ricerca di un’altra idonea occupazione. Il preavviso cambia a seconda di anzianità e altri parametri, ed è a tutti gli effetti l’unico vincolo che bisogna rispettare nella disciplina delle dimissioni. Da quando viene dato il preavviso, il lavoratore deve continuare a lavorare per il proprio datore di lavoro. Oltre al preavviso, il motivo della dimissione era libero e non richiedeva alcune particolari forme. Dimissioni Con riferimento alle dimissioni, possiamo dire che questo non ha mai più di tanto preoccupato il Legislatore, infatti su questo tema c’è da dire solo che rimangono libere, non vanno motivate. C’è tuttavia il tema della forma, che però non è ricompreso nel cc, per evitare un fenomeno, negli anni passati molto diffuso, che era il caso delle dimissioni in bianco: dal momento che non ci sono particolari forme, dal punto di vista codicistico, per le dimissioni, in passato, succedeva che nel momento stesso dell’assunzione del lavoratore o della lavoratrice il datore di lavoro preparava loro una lettera di dimissioni alla quale mancava la data, perché la data avrebbe potuto inserirla lui successivamente, mascherando un eventuale licenziamento in dimissioni. Adesso la normativa è cambiata per cui ci si può comunque dimettere liberamente dal rapporto di lavoro, ma seguendo delle modalità online e telematiche: deve essere questo passaggio telematico perché si accerterà che le dimissioni derivino da una valutazione libera del lavoratore, senza alcuna pressione da parte di terzi. Le dimissioni sono sempre libere per cui un lavoratore può dimettersi quando vuole; l’unico vincolo consiste nel preavviso che muta a seconda della mansione, della qualifica, del contratto collettivo (aumenta in base alle responsabilità). Le dimissioni, inoltre, devono essere rese con una libera e genuina espressione del consenso; esse sono annullabili nell’ipotesi in cui siano viziate da errore, violenza o dolo, oppure quando sono state rassegnate dal lavoratore in stato di incapacità naturale. Le dimissioni possono anche essere annullate con il consenso di entrambe le parti, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro e l’onere di fornire la prova di detto accordo incombe sul lavoratore. ART 2119 RECESSO PER GIUSTA CAUSA In presenza di una giusta causa, il preavviso “decade”. Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. La giusta causa serve al pagare o meno a qualcuno l’identità. Giusta causa: causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. È successa una cosa che ammette il licenziamento immediato/ dimissione immediate in modo che la prosecuzione del rapporto cessi, anche provvisoriamente = in questo modo si evita il preavviso! Sussiste giusta causa di dimissioni quando il datore di lavoro tenga un comportamento gravemente lesivo dei diritti fondamentali del prestatore: ad esempio, mette a rischio la sua salute, tenendo condotte vessatorie e/o molestie, non versa la retribuzione per un periodo di tempo prolungato. Licenziamento Vi è stata una vera e propria modifica del tema del licenziamento perché, a partire dalla Legge 604/1966, intitolata “Norme sui licenziamenti individuali”, la modalità con la quale si può licenziare si trasforma completamente: nell’ambito dei licenziamenti individuali il licenziamento non è più libero, perché tale Legge sostiene che il licenziamento deve essere in forma scritta; soprattutto a partire da questa legge pienamente in vigore, il licenziamento non può essere immotivato. Le dimissioni continueranno ad essere, anche per questa norma, immotivate. Il licenziamento inoltre deve avvenire con forma scritta e per giusta causa o giustificato motivo. Se giusta causa o giustificato oggettivo non vi sono è stato effettuato un licenziamento illegittimo: • indennità; • reintegrato al lavoro come se il licenziamento non fosse mai successo. L’elemento dimensionale preso come discrimine non considera l’impresa ma una articolazione di questa: l’unità produttiva al cui interno è avvenuto il licenziamento illegittimo – dalla teoria al concreto. Dimensione: numero di dipendenti subordinati. Il numero discrimine tra grande e piccolo è 15; le azienda dai 16 dipendenti vedono applicata una normativa, quelle sotto una diversa. Un ulteriore requisito da considerare a partire dal 2015 (jobs act) d.l. 23/2015: contratto a tutele crescenti – unico contratto subordinato che può essere stipulato dopo il 7.03.2015, lo scadere dei 15 giorni di vacatio legis dopo i quali la legge si applica. Dopo quella data tutti i contratti subordinati sono contratti a tutele crescenti. È l’ordinario contratto di lavoro subordinato che può essere stipulato dopo il 7.03.2015 e l’unica differenza è la casistica di conseguenze in caso di licenziamento illegittimo. ! La difficoltà normativa applicativa: il giudice che deve decidere di licenziamento illegittimo ha davanti a sé quattro strade a seconda dell’unità produttiva e della data di stipulazione del contratto poi cessato; i due elementi formano un quadrante:  piccola azienda (15 >) / prima del 7 marzo 2015: art. 8 legge 604/1966 – (maggioranza dei contratti di lavoro in Italia) un’alternativa: o RIASSUNZIONE (≠ reintegrazione) – rara, in genere dinamiche personali; o INDENNITÀ parametrata alla retribuzione media mensile (stipendio non preso nel periodo di licenziamento illegittimo): che il giudice definisce tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità. Difetto: non distingue il motivo del licenziamento illegittimo, non definisce un grado di illegittimità (es. mancanza di giusta causa, mancanza di forma scritta, difetti nel procedimento disciplinare etc.)  ci sono invece per altre casistiche gradazioni di illegittimità, qui lasciate al giudice.  grande azienda (15 <) / prima del 7 marzo 2015: art. 18 legge 300/1970 (statuto dei lavoratori) – legge tabù; vengono distinte quattro diverse ipotesi sulla base del grado di legittimità; pur nella complessità distingue il motivo dell’illegittimità mettendoli su piani diversi con conseguenze diverse. 1. discriminazioni: orientamento politico, personale, religioso, sessuale etc.; le più gravi, tuttavia difficile la prova: il datore non è deficiente e non scrive “ti licenzio perché sei donna”  REINTEGRA (O TUTELA REALE) + INDENNITÀ PARI AL RISARCIMENTO PIENO DI TUTTE LE MENSILITÀ MATURATE + (il dipendente potrebbe non voler tornare dove è stato discriminato) EVENTUALE RIFIUTO DI REINTEGRA CON INDENNITÀ PARI A 15 MENSILITÀ. [ in realtà si applica a tutti i casi di discriminazione a prescindere da data e datore] 2. insussistenza del fatto: il fatto contestato non sussiste, non esiste, non è stato realmente commesso dal licenziato (il datore si inventa il fatto grave); / mancato rispetto della proporzionalità (del codice disciplinare): es. uno manca un giorno e invece che sospenderlo lo licenzio  REINTEGRA + INDENNITÀ DI MASSIMO 12 MESI (LIMITE). 3. altri casi diversi dai precedenti (caso più comune)  INDENNITÀ TRA UN MINIMO DI 12 E UN MASSIMO DI 24 MENSILITÀ. 4. violazione della procedura formale (questioni/vizi formali): questioni formali es. non motivato bene  INDENNITÀ DA 6 A 12 MENSILITÀ. Il c. a tutele crescenti cercava di predeterminare l’eventuale costo (ratio!!) dell’imprenditore in caso di comportamento illegittimo  cresce l’indennità che spetta nel caso di licenziamento illegittimo. Nei casi finora visti il giudice deve motivare un numero tra 12 e 24… ma è 12 o 24? Come motiva? Il contratto a tutele crescenti vuole aiutare nella predeterminazione. d.l. 23/2015: misura del pagamento prima ancora del processo: moltiplicazione per l’anzianità in azienda.  grande azienda / dopo il 7 marzo 2015: d.l. 23/2015 si riprendono le gradazioni, cambia la condanna – 1. discriminazioni  REINTEGRA (O TUTELA REALE) + INDENNITÀ PARI AL RISARCIMENTO PIENO DI TUTTE LE MENSILITÀ MATURATE + (il dipendente potrebbe non voler tornare dove è stato discriminato) EVENTUALE RIFIUTO DI REINTEGRA CON INDENNITÀ PARI A 15 MENSILITÀ con riferimento alle 15 mensilità = aliunde perceptum: se il lavoratore licenziato illegittimamente ha trovato, dal momento del licenziamento al pagamento dell’indennità, un’altra occupazione, l’ex datore di lavoro può richiedere che, dalla somma che deve corrispondere al dipendente come risarcimento del danno, venga detratto l’aliunde perceptum, ovvero ciò che il prestatore di lavoro ha percepito altrove. Il giudice deduce se hai lavorato altrove nel periodo. 2. insussistenza del fatto: non più il tema della sproporzione del licenziamento  REINTEGRA + INDENNITÀ DI MASSIMO 12 MESI (LIMITE). 3. altri casi diversi dai precedenti: per il legislatore doveva essere proprio questo il caso di predeterminazione del costo del licenziamento illegittimo (anche per dare certezze all’imprenditore); idea originale: indennità rigidamente proporzionali all’anzianità in azienda (non più discrezione del giudice) → 2 mensilità ∙ anni di servizio. Plurimo intervento della corte costituzionale che ha portato alla normativa in essere  INDENNITÀ IN PROPORZIONE MA NON INFERIORE A 6 (anche chi ha anzianità di un anno ha diritto a minimo 6 mensilità) E NON SUPERIORE A 36 MENSILITÀ (perché andando a marzo 2015 nessuno ad oggi ha più di 36 mensilità) – caso concreto: il giudice deve tenere grande considerazione dell’anzianità (più sei stato in azienda più è grave l’illegittimità), tuttavia il giudice può sempre motivare un distacco da questo rigido schema. 4. violazione della procedura formale (questioni/vizi formali): questioni formali es. non motivato bene  INDENNITÀ PROPORZIONALE ALL’ANZIANITÀ DA 1 MENSILITÀ ∙ ANNI DI SERVIZIO MA NON INFERIORE A 2 E NON SUPERIORE A 12.  piccola azienda / dopo il 7 marzo 2015: d.l. 23/2015 nell’ambito delle piccole imprese tutti i calcoli visti nel punto precedente si dimezzano: si dimezzano tutte le indennità, senza superare il limite di 6 mensilità. 2.05.2024 LICENZIAMENTO INDIVIDUALE Esiste, per alcune aree del lavoro subordinato, la possibilità di libero recesso – dal lato impresa, poiché dal lato lavoratore è sempre libera; per quelle determinate aree (descritte sotto) il licenziamento è libero e non serve la forma scritta. Ci sono quindi diversi ambiti dove il datore di lavoro può porre in essere un licenziamento che deve rispettare solo il preavviso (c’è un articolo) – è il licenziamento ad nutum: a) periodo di prova: le norme di vincolo per la motivazione del licenziamento e la forma scritta non si applica. La prova aveva necessità di forma scritta, ma il licenziamento no. b) al termine dell’apprendistato. c) la categoria del dirigente (art.2095): alcune norme a questa categoria non si applicano, riduzione rispetto ad alcune tutele. Il dirigente è l’alter ego dell’imprenditore, la legge non prevede la forma scritta né particolari motivazioni per il licenziamento. Solitamente però una motivazione viene esplicitata. d) pensione: licenziamento ad nutum per coloro che sono già in condizioni di andarci. e) lavoratore domestico f) atleti professionisti: professionismo = collocato in federazioni che prevedono il professionismo, c’è tutta una disciplina riguardo al professionismo. LICENZIAMENTO COLLETTIVO Per i soggetti coinvolti, come il sindacato, ma non solo, i licenziamenti collettivi rappresentano una materia che, per alcuni aspetti, può fungere da trade union con il diritto sindacale, ovvero il momento collettivo dei rapporti di lavoro. Infatti, rapporto individuale e diritto sindacale non sono argomenti divisi da un confine rigido, perché ci occupiamo sempre di regole di lavoro, ma semplicemente da profili diversi. Il licenziamento collettivo, che è un recesso del contratto di lavoro, che viene da una decisione del datore, rimanda ad un profilo che non è quello individuale. Dividere la materia del licenziamento individuale dal licenziamento collettivo è molto importante dal punto di vista procedurale. Il discrimine non è solo numerico, rileva il motivo. Il motivo è il giustificato motivo oggettivo, quindi per questioni legate al funzionamento aziendale (per ragioni economiche). Devono essere più di cinque con un motivo di organizzazione aziendale nell’arco di 120 gg. La legge di riferimento è la 223/1991. ART. 24 LEGGE 223/1991 L’articolo disciplina il licenziamento per riduzione del personale e si applica in genere alle “grandi imprese” (più di 15 dipendenti); non riguarda licenziamenti già attuati, ma l’intenzione del datore di lavoro di licenziare per motivi economici più di 5 dipendenti nell’arco di 120 gg (4 mesi). !! Non da quando arrivano le lettere di licenziamento, basta l’intenzione. Ci si siede con i sindacati, questo tema coinvolge spesso la politica, aspetti istituzionali. Prima di porre in essere i licenziamenti, non per forza ci deve essere un accordo con sindacati ma comunque vanno fatte delle riunioni. Ad esempio, se io datore di lavoro scopro che 50 dei miei dipendenti rubano o non si presentano al lavoro, non è un licenziamento collettivo, ma saranno 50 licenziamenti individuali dovuti a inadempimento contrattuali. Anche 1000 licenziamenti per giusta causa non sono licenziamento collettivo, perché il licenziamento collettivo attiene, sicuramente, al numero di lavoratori che si intende licenziare, ovvero almeno 5 nell’arco di 120 giorni, ma il motivo di questi licenziamenti collettivi deve essere una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro! Anche se in termini diversi, stiamo parlando di licenziamenti per motivi economici e questo motivo economico è la riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Due distinte fasi La prima che possiamo definire di carattere sindacale, per cui il datore di lavoro che ha intenzione di porre in essere questi licenziamenti, per via dell’impatto che gli stessi hanno su quell’azienda e soprattutto per il fatto che siano determinati da una modifica organizzativa e aziendale, dovrà avvisare i sindacati, con cui magari andrà a porre in essere una sorta di trattativa, la quale non necessariamente andrà a buon fine: ci sono casi in cui, magari, il datore di lavoro ha intenzione di licenziare un numero molto elevato di lavoratori o, magari, intervengono i sindacati, cercando di utilizzare una serie di strumenti, come la cassa integrazione. L’imprenditore è, comunque, libero di non accettare le proposte sindacali. Questa procedura ha una durata non superiore a 45 giorni. Quindi, questa fase sindacale “congela” per 45 giorni il possibile licenziamento, per cui questa fase è un confronto libero, in cui si cerca di accordarsi su qualcosa, ma non è necessario che ci si accordi. Esaurita la fase sindacale vi è una biforcazione, ovvero si può aver trovato un accordo o un’intesa tra datore di lavoro e sindacati, anche sui numeri effettivi delle persone da licenziare. In caso di cessazione di questa fase, senza un accordo, ovvero nel caso in cui non si è giunti ad un’intesa formalizzata con il sindacato, vi è una possibile apertura di un’ulteriore fase, definita di carattere amministrativo, che viene ad essere svolta presso gli uffici provinciali della direzione territoriale del lavoro che, in molti casi, quando si tratta di numeri che creano dei problemi di ordine sociale, il tavolo amministrativo riguarda anche vertici di carattere amministrativo, come ministero, la Regione, etc. Rispetto al passato, i margini per muoversi sono molto risicati, perché vi sono una serie di vincoli molto rilevanti, di derivazione europea, in ordine anche alla libera concorrenza: si possono avere delle de-tassazioni per le imprese che poi decidono di rimanere in una determinata area, possono coadiuvare, per cui magari si può concedere un anno o più di cassa integrazione alle aziende con sede nel territorio nazionale che si occupano di produzione, etc. Criteri di licenziamento Nell’art 24 specifica “intendano effettuare almeno 5 licenziamenti …”: il problema è dare un nome e un cognome a questi licenziati, perché non si tratta di sanzionare i lavoratori perché hanno fatto qualcosa, ma si tratta, magari, di una riduzione permanente di attività a fronte di un reparto che ha 10 persone e io ho fatto i calcoli che ne devo licenziare 5. È quindi importante capire quali sono i criteri di scelta su chi licenziare. Criteri per decidere quali lavoratori licenziare: - carichi di famiglia - anzianità - esigenze tecnico-produttive ed organizzative Sono accordi vincolanti. La legge prevede che ci siano quei criteri, ma si rimanda all’attuazione, nel senso che come declinare quei criteri è difficile, per cui vengono concretizzati da una decisione del datore o dalla contrattazione collettiva. Nei confronti del lavoratore identificato come destinatario del provvedimento espulsivo potrà essere intimato il licenziamento in forma scritta, col rispetto del prescritto preavviso e senza necessità di alcuna motivazione. Tutela del lavoratore La tutela reintegratoria piena del lavoratore è prevista nell’ipotesi di mancata osservanza della forma scritta; la tutela reintegratoria, ma con indennità limitata a 12 mensilità, viene mantenuta solo nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta. Il Legislatore ha previsto un correttivo al rigore sanzionatorio della reintegrazione: il datore di lavoro ha la facoltà, senza doversi sottoporre ad una nuova procedura, di intimare il licenziamento ad un altro lavoratore facendo, questa volta, un corretto uso dei criteri di scelta, con l’unico onere aggiuntivo consistente nella comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali. Congedi parentali (genitoriali): Questi sono pari a 11 mesi, ma ogni parte della coppia non può usufruirne di più di 6 entro i 6 anni di vita del bambino, pagati al 30%. Questo 30% è retribuito sempre fino al sesto anno di vita del bambino e dal sesto anno in poi è retribuito solo in presenza di determinate soglie di reddito. Per la madre ci sono anche due ulteriori ore pagate che giornalmente si possono saltare entro l’anno del bambino (se lavora almeno 6 ore al giorno). La madre lavoratrice, che torna al lavoro, ha diritto, fino al primo anno di vita, dei riposi giornalieri che vengono ad essere attribuiti, se si lavora a tempo pieno, di due ore: la mamma lavoratrice, fino al primo anno di vita del figlio, può uscire dal lavoro due ore prima e queste due ore sono retribuite al 100%. In caso di adozione l’ADOZIONE è equiparata al tema della maternità e, quindi, si ha diritto sia ai 5 mesi successivi l’ingresso in famiglia del bambino. MALATTIA Il prestatore di lavoro malato o infortunato ha diritto alla tutela del suo posto di lavoro, per un determinato periodo di tempo chiamato periodo di comporto, che è il periodo, di diversi mesi o anni, per cui anche il lavoratore, che è a casa ammalato, ha diritto non solo a non essere licenziato e, quindi alla conservazione del posto, ma ha diritto al mantenimento di una quota del suo reddito, che è una percentuale, in base alla retribuzione a lui spettante. In realtà, la Legge mantiene ancora la distinzione storica tra impiegati e operai, secondo cui gli impiegati hanno tendenzialmente il diritto al mantenimento della retribuzione integrale a carico del datore per un certo periodo di tempo e parziale per un periodo successivo; mentre, gli operai ricevono un’indennità a carico dell’Istituto previdenziale, ma anticipata in busta paga dal datore di lavoro. Inoltre, la Legge prevede una distinzione, nel senso che prevederebbe una indennità più ridotta nei confronti degli operai e prevedeva un periodo, pari a 3 giorni, per i quali i primi 3 giorni di malattia non avrebbero avuto diritto ad essere indennizzati, anche se in realtà poi i contratti collettivi prevedono il tema del mantenimento del reddito, sia da parte degli operai sia da parte degli impiegati, e quindi questo tema del trattamento economico previsto dalla legge viene meno. La malattia stessa viene accertata dal certificato medico (terzo soggetto), posto dal medico del servizio sanitario nazionale, cioè dal medico curante del lavoratore, perché se fosse un dipendente del datore di lavoro ci si potrebbe aspettare una maggior severità nel valutare uno stato di malattia. È lo stesso motivo per cui, il soggetto che è in malattia, ha una serie di oneri, le cosiddette fasce di reperibilità, imposte dalla Legge n. 638/1983, nel senso che ci sono delle fasce orarie in cui lo stesso prestatore di lavoro deve farsi trovare a casa e, allo stesso tempo, per la stessa questione il datore di lavoro può mandare una visita di controllo o visita fiscale, però anche in questo caso, la visita di controllo la aziona il datore, ma il medico che è inviato non è un medico dipendente del datore di lavoro, ma utilizzerà il servizio dell’Inps, per cui è il datore di lavoro a richiedere all’Inps un’eventuale visita di controllo, per verificare lo stato della malattia. Vi è tutta una questione, per esempio riferita alle fasce di reperibilità e anche alla questione se il soggetto che è in malattia possa uscire o meno: egli non è un recluso in casa. Basti pensare ad un lavoratore che ha uno stato morboso che non gli permette di lavorare in modo efficace, e che magari vive solo, non è obbligato a stare in casa recluso, ma basta farsi trovare in casa all’interno di alcune fasce di reperibilità, che consentano al datore di lavoro, per il tramite dell’Inps, di verificare il suo stato di salute. È stato stabilito l’esonero dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità qualora l’assenza dal lavoro sia riconducibile a patologie gravi che, quindi, richiedano terapie salvavita oppure a stati patologici sottesi o connessi ad una situazione di grave invalidità riconosciuta. Al fine di giustificare la propria assenza e i conseguenti trattamenti economici, il lavoratore ha l’obbligo di comunicare immediatamente al datore la infermità e di fargli pervenire tempestivamente la relativa attestazione medica, previa visita del medico curante. Quando le malattie riguardano qualcosa di più pesante, vi è il tema del periodo di comporto, secondo cui il lavoratore in malattia ha diritto, per un determinato ammontare di mesi, di solito numerosi (18 mesi), a non perdere il posto di lavoro per il fatto di essere malato. Poi, al termine di un periodo che può essere di 2 o 3 anni, vi è un eventuale potere di licenziamento del datore di lavoro, per cui il tema del diritto alla salute confligge con l’ambito delle attività imprenditoriali legittime che lo stesso datore di lavoro può porre in essere. Tutela dei diritti del lavoratore 3.05.2024 Il diritto si occupa di attribuire diritti. Lo scopo primario è, quindi, quello di avere una funzione garantistica, ovvero a garanzia dei diritti del lavoratore. Bisogna anche che ci siano delle norme ad hoc che li tutelino, anche in fase di concretizzazione e attuazione di questi diritti. Nella stra grande maggioranza dei casi, la regola è che la norma lavoristica sia inderogabile in peggio, proprio perché entra nel patrimonio giuridico del lavoratore e può portare solo a un miglioramento della stessa e, quindi, abbiamo un’indisponibilità dei diritti che derivano da norme inderogabili: tutte le norme lavoristiche, tranne piccole eccezioni, sono norme inderogabili da parte dell’autonomia provata individuale e collettiva: più precisamente, sono derogabili solo in senso migliorativo per il lavoratore. Articolo 2113 cc – rinuncia e transazione Definisce: • rinunzia → atto unilaterale con il quale il titolare di un diritto, vi rinuncia. Sono molto rare e tendenzialmente sono incluse all’interno di contratti di transazione. • transazione → accordo con cui le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite o ne prevengono una (mettono fine a controversie). Come già visto le norme di diritto del lavoro sono differenti da tutte le altre: qualunque sia la fonte (legge o contratto collettivo), queste norme sono inderogabili (non è concessa l’inderogabilità in peius ma è sempre concessa quella in meius, ovvero in meglio) da cui deriva l’indisponibilità. Quindi ai sensi dell’art. 2113, quando hanno per oggetto i diritti del lavoratore derivanti da norme inderogabili, non sono valide la rinunzia e la transazione. In diritto privato ci sono due tipologie di invalidità: • nullità • annullabilità Nel caso del diritto del lavoro la categoria di riferimento è l’annullabilità, perché il comma 2 stanzia: il lavoratore ha 6 mesi di tempo (dalla data di cessazione del rapporto o dalla data di rinunzia/ transazione) per impugnare la sua rinunzia o transazione (a pena decadenza) es. rinuncio al TFR ma fino a 6 mesi posso ripensarci ed è possibile annullare la rinuncia. NON è nullità perché altrimenti sarebbe imprescrivibile (non soggetta a limitazioni di tempo, la nullità è infatti sia retroattiva che vale senza limiti): lo si fa per la “certezza del diritto”. Le rinunzie e le transazioni sono valide se presentate in sedi protette, cioè luoghi diversi all’azienda e davanti a qualcuno che si assicuri della legittimità dell’atto, altrimenti valgono i 6 mesi di annullabilità. Quindi, se presentate in sede protetta, sono inoppugnabili (non annullabili). LA PRESCRIZIONE La prescrizione nel diritto privato è un istituto che produce l’estinzione di un diritto qualcosa non sia esercitato entro 10 anni (a meno di interruzione di prescrizione → prescrizione ≠ decadenza). Nell’ambito del diritto del lavoro, la prescrizione dura generalmente 5 anni e decorre (in passato 2 alternative): (1). dal momento in cui il diritto è entrato nella mia titolarità cioè dal momento in cui il diritto può essere esercitato; (2). dal momento della cessazione del rapporto. Le due alternative dipendevano (sempre in passato) della tutela che il lavoratore avrebbe ottenuto in caso di licenziamento illegittimo (prof. spara supercazzola per spiegare cosa c’entri il licenziamento illegittimo con la prescrizione, ma sostanzialmente è solo per bilanciare): a) prima alternativa: valeva nel caso di un’azienda di più di 15 dipendenti in cui, anche in caso di licenziamento illegittimo = si veniva reintegrati. b) seconda alternativa: questo valeva nel caso di un’azienda piccola – non era garantita la reintegra ma l’indennità. Oggi, la prescrizione decorre sempre dalla cessazione del rapporto di lavoro (esempio per assurdo dopo 40 anni richiedo diritto di credito al datore di lavoro risalente a 40 anni prima, non è prescritto perché la prescrizione parte dal momento in cui cessa il rapporto del lavoro). PARTE II DIRITTO SINDACALE 7.05.2024 INTRODUZIONE Il diritto del lavoro ha come oggetto il lavoro, inteso come “lavoro subordinato”, prestato “mediante retribuzione, alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” – non riguarda tutto il lavoro subordinato, ma solo quello soggetto al codice civile, alla legislazione del lavoro e alla contrattazione collettiva. Esistono sia i sindacati dei lavoratori che le associazioni degli imprenditori (Confcommercio, Confindustria, CIA etc). Non vi è una legge organica del sindacato (non vi sono norme che stabiliscono come il sindacato debba organizzarsi, funzionare etc). Ad oggi, non esiste una disciplina legale che regolamenti i soggetti (organizzazioni sindacali), il prodotto (contratto collettivo), le modalità con cui si addiviene alla stipula del contratto collettivo nonché la sua efficacia nel sistema delle fonti. L’oggetto del lavoro sindacale sono i contratti collettivi: sono ciò che caratterizza l’operare dei sindacati. Prima ancora del contratto collettivo, l’altro polo entro cui poter dare racconto del sindacato è la parola sciopero, ovvero l’astensione collettiva dal lavoro. Con riferimento alla contrattazione collettiva, è necessario dire che i contratti si stipulano in due: i sindacati stipulano i contratti collettivi con gli imprenditori, ma comunque la maggior parte delle volte in cui si evocheranno i contratti collettivi si fa riferimento ai contratti collettivi nazionali del lavoro e, in questo caso non è singolo imprenditore, ma vengono stipulati con delle organizzazioni, chiamate associazioni datoriali (= sono la controparte dei sindacati). Il contratto collettivo è uno strumento indispensabile per governare l’impresa: dettare regole che fanno funzionare settori vitali della nostra economia, è molto importante, perché in assenza l’imprenditore non potrebbe governare da solo un’azienda solo con i contratti individuali (potrei, ma è complicato). Le fonti di diritto del lavoro, di cui fa parte il diritto sindacale, sono quelle del diritto in generale, cioè internazionali, comunitarie, costituzionali, statali e regionali. Il diritto sindacale ha, nel nostro Paese e in tutti i Paese a noi paragonabili, una formazione extra-legislativa, nel senso che esce dalla nozione base per cui la fonte primaria è la Legge: oltre alla legge, ci sono anche altre fonti del diritto. Quindi, il fenomeno sindacale è nato e si regge sul momento contrattuale, sugli accordi applicati tra le parti. La natura extra legislativa spesso non basta e bisogna aggiungere molte questioni spesso regolate da rapporti di forza che non vengono definiti da “legge” o “norme”. Ad esempio: se il datore di lavoro applica il minimo sindacale retributivo, lui dal punto di vista normativo è a posto ma magari i lavoratori chiedono un aumento = lui non ha l’obbligo di accettare la richiesta. Questa è una dinamica di rapporti di forza; per la costituzione è legittimo che tra datore e lavoratori possano esserci punti di vista diversi, aspirazioni diverse ed anche interessi diversi. [L’ART 41 della costituzione] L'iniziativa economica privata e' libera. Non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana. In Italia si può liberamente fare impresa (nel rispetto di alcuni limiti): i punti di vista sono diversi e questo contratto è ciò che deve fare sintesi tra punti di vista divergenti. Talvolta per trovare un accordo tra dipendenti e imprenditori si adottano scioperi, momenti confluttuali etc. CENNI STORICI Il fenomeno sindacale nasce a seguito del diritto del lavoro che si occupa del rapporto individuale del lavoro, con l’obiettivo di riequilibrare una situazione di sostanziale disparità. Queste regole che tendono a rendere meno disequilibrato il rapporto, inizialmente, si pongono individualmente. È da ribadire quindi che il sindacato non nasce da una norma di legge, ma la sua nascita e la sua formazione ha origine dalla richiesta di migliori condizioni di lavoro in maniera collettiva. I primi sindacati nascono per concordare insieme, in un certo settore, magari localizzati in una certa città, la tariffa, ovvero i concordati di tariffa: si trattava di concordare, per una pluralità di lavoratori, il “prezzo”, inteso come il corrispettivo di una giornata di lavoro (allora si parlava di singola giornata). Questa situazione così descritta subisce un brusco stop con il fascismo, il quale prevedeva solo il sindacato fascista: viene meno la libertà di associarsi in sindacati diversi e, in un’ottica corporativa, i sindacati dei lavoratori presente all’art 39, il quale vuole tutelare anche fenomeno meno strutturati di un’associazione, come un comitato spontaneo, una serie di lavoratori che si riunisce a contestare una scelta sindacale. Non c’è nessuna norma a cui rivolgersi: con il termine “sindacato” si intende ciò che si intende nella realtà fattuale; quindi, non vi è una norma da andare a vedere. Fermo restando la libertà sindacale, poi il Legislatore deve fare un equilibrio tra le cose e non può richiedere troppo ad un datore di lavoro, per cui è necessario capire chi, tra i sindacati, ha dei poteri ulteriori rispetto a quello di organizzarsi, di scioperare. Bisogna, inoltre, capire cosa distingue il fenomeno sindacale da altri fenomeni che possono essere simili, come quello politico: non è solo la finalità, che è la tutela degli interessi del mondo del lavoro subordinato, ma anche gli strumenti attraverso cui si determinano queste finalità, come manifestazioni, presentarsi alle elezioni, portare delle proposte di Legge, contestarle se non piacciono, sciopero, assemblea e contratto collettivo. ALTRE FONTI Oltre alla costituzione e allo statuto dei lavoratori, vi sono anche altre fonti internazionali, come le convenzioni dell’organizzazione internazionale di lavoro, in maniera collettiva. Nello statuto dei lavoratori, in materia di libertà sindacale, si ribadisce il diritto di associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro, si vietano gli atti e i trattamenti discriminatori in ragione di affiliazione o attività sindacale DIFFERENZA PARTITO – SINDACATO La differenza tra partito e sindacato consiste nel fatto che il sindacato parla alla società, e il sindacato, o meglio la contrattazione collettiva, ambisce a regolamentare una quota non indifferente dei rapporti di lavoro subordinati, in un’ottica migliorativa, dando ulteriori garanzie al lavoratore subordinato. Quindi, se il ruolo del sindacato è accrescere le garanzie nell’ambito del rapporto di lavoro individuale, il luogo dove il sindacato deve stare è dove quelle regole si fanno, come l’azienda. Il problema del sindacato italiano, fino al 1970 (Legge 300/1970 – Statuto dei Lavoratori), consisteva nel fatto che il sindacato era forte fuori, promotore di momenti di grande partecipazione, formazione di norme, premendo sull’autorità governativa. Quindi, dovette intervenire lo statuto dei lavoratori, analizzando come il sindacato può stare e sta in azienda, come diritto delle organizzazioni sindacali a stare all’interno delle organizzazioni del lavoro, esercitando dei diritti. Il tema è capire a quali condizioni il sindacato ha diritti in azienda, come potere contrattuale nei confronti del datore, il diritto di assemblea retribuita, il diritto di referendum, il diritto di pubblicizzare le nostre idee anche se non piacciono al datore. Tutto ciò è presidiato da norme molto particolari e che se non rispettate sono molte temute dagli imprenditori, perché possono determinare anche una condanna penale. Questo statuto dei lavoratori, oltre a prevedere dei diritti, ha previsto alcune modalità di attuazione e di garanzia di questi diritti. Ciò che caratterizza il fenomeno sindacale è: 1) sciopero: diritto dei lavoratori, non retribuito (è un peso sia per datore che per prestatore) 2) contrattazione Collettiva. Questi sono i due elementi che distinguono il sindacato da altre associazioni che hanno uguali / coincidenti ambiti di applicazione. IL DIRITTO ALLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI Lo sciopero dei prestatori di lavoro nei confronti del loro datore di lavoro (ente pubblico) genera disagi non tanto al dator di per se ma più ai cittadini che sono terzi rispetto al conflitto. [L’ART 40 COSTITUZIONE] tratta sia il diritto allo sciopero che il diritto alla salute, trasporti e sicurezza; quando i diritti sono equi ordinati occorre un equilibrio e occorre che la Legge ordinaria procedimentalizzi e limiti questo diritto di sciopero, perché può contrastare con altri diritti allo stesso modo importanti o più importanti, come il diritto alla salute. È necessario fare un equilibrio tra la libertà di circolazione del cittadino e il diritto del lavoratore del settore dei trasporti. Quindi, ora il diritto di sciopero, che parte dall’800 in una logica conflittuale datoriale, dal legislatore, è lasciato alla regolamentazione delle parti: in Italia, non abbiamo una Legge sul diritto di sciopero nel settore puramente privato. L’unica legge ordinaria, nel nostro ordinamento, che concretizza l’art 40 della Costituzione, secondo cui il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle Leggi che lo regolano, è la Legge n. 146/1990, sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, più volte modificata, e quindi la dinamica non è necessariamente quella conflittuale datore-sindacato, ma è quella che vede partecipi i cittadini, ai quali sono garantiti dei servizi minimi nei trasporti: ciò avviene con delle fasce orarie. Libertà sindacale 7.05.2024 LIBERTÀ SINDACALE POSITIVA E NEGATIVA Nel nostro ordinamento vi è un profilo di libertà positiva, ossia la libertà di fare qualcosa: l’organizzazione sindacale è libera. Si fa riferimento alla libertà che il singolo ha di costruire un sindacato, aderirvi, riunirsi in assemblea La libertà sindacale va intesa anche come libertà di privilegiare all’interno dell’organizzazione sindacale, il ruolo e i poteri del vertice o, viceversa, della base secondo le contingenti valutazioni di strategia e di opportunità; può anche essere intesa come possibilità di valorizzare il ruolo di rappresentanza degli associati o di rappresentanza dell’intera classe dei lavoratori. Inoltre, la libertà sindacale implica la possibilità di privilegiare il confronto con la controparte datoriale e, quindi, di agire soprattutto sul mercato. Inoltre, l’ordinamento italiano prevede anche un profilo di libertà negativa, ossia la libertà di NON fare qualcosa. Assumendo il punto di vista del lavoratore, a partire dal 1948, possiamo dire che l’arti 39 è traducibile come “il lavoratore può iscriversi ad un sindacato” = libertà positiva. Inoltre, è possibile interpretare questo articolo anche in un’altra logica: “puoi iscriverti ad un sindacato”, quindi dice che la libertà sindacale è anche la libertà di non iscriversi (sei talmente libero che puoi anche non iscriverti ad un sindacato) => libertà negativa. Questa è una cosa molto importante, perché in altri ordinamenti anche non particolarmente vicini al sindacato e in altri Paesi sono abbastanza usuali accordi tra datori e associazioni sindacali, che vanno sotto il nome di closed shop, secondo cui in sede di assunzione o in sede espulsiva di licenziamento il datore di lavoro si vincola a subordinare quell’assunzione all’affiliazione o meno al sindacato => questo vuol dire che altrove, anche in luoghi dove il sindacato non è così tutelato, si può fare un accordo legittimo dove in sindacato funge anche da agente nel mercato del lavoro. Ad esempio, se la Fiat in Italia facesse una clausola di questo tipo in un accordo, l’accordo sarebbe NULLO, perché non è possibile subordinare nessuna assunzione o un licenziamento al fatto che un soggetto abbia o meno una tessera sindacale. Questa tutela perché l’art 39 è così intenso che per “libertà sindacale” comprende anche la libertà di non iscriversi ad un sindacato. Quindi, in Italia, una clausola di questo tipo non è consentita. [ART 15 dello statuto dei lavoratori] È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte. Riprende il tema della libertà e decreta la nullità degli atti (o patti) discriminatori, rivolti a colpire un lavoratore in ragione della sua adesione ad un’associazione sindacale, dello svolgimento di attività sindacale o della partecipazione ad uno sciopero. Una concretizzazione di questa libertà negativa la vediamo all’art 15 dello statuto dei lavoratori, rubricato Atti discriminatori, secondo cui è nullo qualsiasi atto o patto diretto a: · Subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte à questo articolo è la concretizzazione della libertà negativa prevista all’art 39 co. 1 della Costituzione; · Licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale, o della sua partecipazione ad uno sciopero. LE CARATTERISTICHE DEI SINDACATI ITALIANI: Una caratteristica italiana è che spesso i sindacati sono una confederazione di sindacati ovvero l’essere confederali. Il sindacato non nasce per mettere insieme soltanto per mestiere e per alcune categorie ma in Italia i sindacati si organizzano per settori e all’interno di questi vi sono le federazioni che si occupano delle singole categorie (scuola etc). Si cerca di tenere insieme anche lavori differenti nell’ambito dello stesso settore produttivo CIGL, UISP, UIL sono vere e proprie confederazioni. Il sindacato italiano è confederale e ha l’obbiettivo di rappresentare tutto il mondo del lavoro subordinato. Tendenzialmente cerca di tutelare tutti i lavoratori (indipendente dalla mansione svolta) e il fatto di essere uniti come confederazione aiuta questi a non parcellizzare la tutela. I sindacati, in Italia, si differenziano per orientamento politico e sono CIGL (= di sinistra), CISL (= dottrina sociale della chiesa), UIL (= socialisti). Questo fa comprendere che in Italia i sindacati erano (oggi meno) molto politicizzati. Il sindacato il più delle volte si è organizzato come insieme dei sindacati dei settori produttivi ma questo non è stato imposto dalla legge. “C” sta per “unione insieme dei sindacati”. Più propriamente, i sindacati che vanno a proteggere i lavoratori saranno poi le singole confederazioni settoriali. La controparte, ossia il sindacalismo datoriale, è un sindacalismo di risposta che ha organizzazione speculare a quella del sindacato dei lavoratori. [ART 21 della Costituzione] dice che tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero. I soggetti sindacali 9.05.2024 Confindustria, CIGL, CISL e UIL sono i sindacati più rappresentativi in Italia, ma ne esistono anche di minori. Vi sono due principali confederazioni di sindacati: CGIL e CISL (e UIL) Quelli che noi intendiamo come sindacati, nella realtà, sono associazioni di secondo livello, ovvero un insieme di sindacati. Le confederazioni di sindacati al loro interno hanno più sindacati o federazioni (FEDERAZIONI DI CATEGORIA, sulla base dei settori produttivi (es. FIM per settore metalmeccanica) . Ogni sigla sindacale, in base al principio di libertà sindacale, è libera di definire i propri modelli organizzativi e di modificarli nel tempo. Dal punto di vista organizzativo, la struttura sindacale si basa su una duplice articolazione (esegue due movimenti): • articolazione verticale: un’articolazione legata alla categoria produttiva. Il punto di partenza sono le “categorie” in quanto queste firmano i contratti collettivi nazionali di lavoro. L’articolazione verticale ha come elemento di aggregazione l’appartenenza dei lavoratori allo stesso settore o categoria produttiva: ad esempio il sindacato o l’associazione imprenditoriale dei tessili, dei metalmettanici etc. Le categorie non vengono imposte al sindacato; i sindacati sono liberi di articolarsi al loro interno per meglio rispondere alle esigenze che vengono a crearsi = ognuno si articola come ritiene più adatto fare. Tra le maggiori categorie, quella che ha il maggior numero di aderenti sono i pensionati, perché il sindacato ha un ruolo di erogatore di servizi ed anche perché una volta che si arriva alla pensione si diventa iscritti alla federazione dei pensionati di quel sindacato. • articolazione orizzontale: è legata al territorio (es. CISL Lombardia). A partire ai luoghi di lavoro, per andare più su, il sindacato è strutturato a livello territoriale. Quindi ci sarà un sindacato su base cittadina, provinciale, regionale, nazionale. Le strutture orizzontali dei sindacati dei lavoratori comprendono tutti i lavoratori e le imprese dei vari settori merceologici presenti in un determinato ambito geografico. Vi è quindi una duplice struttura sindacale: una legata alla categoria produttiva (verticale) e una legata al territorio (orizzontale). Per anni il sindacato aveva più potere esternamente all’azienda piuttosto che all’interno, poi dal 1970 le cose cambiano. Titolo II della legge Si usa dire che il principio di libertà sindacale ha accesso al luogo di lavoro (mentre prima veniva di fatto confinato fuori da esso, ad esempio, con un ruolo politico). [art 15]: visto in precedenza [ART 14]: Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro. Questo articolo è una concretizzazione dell’art 39 della costituzione [ART 17]: È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori. Si vuole evitare la nascita dei sindacati di comodo e per tutelare l’effettiva libertà sindacale. L’impossibilità del datore di lavoro di finanziare un sindacato deriva dal fatto che potrebbe esservi un conflitto di interesse (= questi sono i cosiddetti sindacati gialli). Titolo III della legge [ART 19]: “costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali” (RSA) Secondo questo articolo, le rappresentanze sindacali aziendali godono di tutti i diritti quali assemblea, referendum, trasferimento, permessi etc. Non vi è alcuna contraddizione in quanti si parla di diritti ulteriori rispetto alla libertà sindacale (garantita a chiunque). Queste rappresentanze sindacali si possono trovare solo nelle unità produttive con più di 15 dipendenti. Il legislatore deve selezionare qualche sindacato con criteri oggettivi. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento. Ne consegue che vi deve essere una relazione tra sindacato interno all’azienda e sindacato esterno che firma contratti collettivi. Secondo tale articolo sono le rappresentanze sindacali aziendali a godere di ulteriori diritti (es. diritto di assemblea, diritto di referendum) rispetto alla mera libertà sindacale. Essendo diritti ulteriori, è evidente che la libertà piena sindacale non è in contrasto con questi ultimi. VERSIONE ORIGINARIA ART 19 STATUTO LAVORATORI Le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva (con più di 15 dipendenti), nell’ambito di due requisiti alternativi (o uno o l’altro): a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative* (CGIL, CISL E UIL) sul piano nazionale: queste RSA le potevi costruire tu lavoratore liberamente ma dovevi aderire (quindi sei iscritto) ad una confederazione maggiormente rappresentativa (come CGIL, CISLe UIL)  ABROGATA; b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni maggiormente rappresentative, ma che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro (nazionali o provinciali) applicati nell'unità produttiva. Sindacato maggiormente rappresentativo* Importantissimo il criterio della rappresentantività, ossia l’idoneità del sindacato a esprimere e tutelare l’interesse collettivo di un’ampia fascia di lavoratori. Attualmente vi sono più norme di Leggi che citano il cosiddetto “sindacato maggiormente rappresentativo” (s.m.r.). È ancora attuale capire chi è il sindacato maggiormente rappresentativo, perché la Legge non lo dice. Si tratta dell’accesso a diritti importanti e, quindi, abbiamo tante pronunce dei giudici in cui, non solo Cgil, Cisl e Uil hanno avuto l’attributo di maggiormente rappresentativi, per cui dobbiamo astrarre dei requisiti. Con la sussistenza di questi requisiti, si comprende quale sia un sindacato maggiormente rappresentativo e quindi anche la possibilità o meno per le associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative di poter costituire le RSA: 1. l’equilibrata presenza in un ampio arco di categorie professionali – non ritenendosi adeguatamente rappresentativo un sindacato concentrato solo su alcuni settori o categorie merceologiche: si fa riferimento al fatto che questi sindacati fossero o ambissero ad essere confederali, ovvero una presenza, da parte di questi sindacati, di una più o meno numerosa rappresentanza di categorie professionali → ampia platea di settori produttivi tutelati; 2. la diffusione su tutto il territorio nazionale: requisito della nazionalità, inteso come diffusione su tutto il territorio nazionale e non concentrazione territoriale; 3. l’esercizio continuativo dell’azione di autotutela con riguardo a diversi livelli e a diversi interlocutori, ovvero il fatto che questi sindacati esercitino una tutela effettiva e continua, tutelando il mondo del lavoro subordinato; 4. la reale capacità di influenza sull’assetto economico e sociale del Paese: una reale capacità di influenzare ampi strati dei lavoratori, anche al fine di mantenere la pace sociale. Pur costituendo un criterio significativo, l’elevato numero di iscritti non è mai stato, da solo, sufficiente a conferire una “patente” di maggiormente rappresentativo. Quindi, da questi requisitivi, si capisce che i sindacati maggiormente rappresentativi non solo Cgil, Cisl e Uil, ma anche Ugl, Confsal, Cisal, Cisa, Snals. Con il referendum abrogativo del 1995, la norma dell’art. 19 si modifica com’è oggi: − la lettera a è stata abrogata, nel senso che non vi è più riferimento al sindacato maggiormente rappresentativo; − la lettera b è l’unica lettera sussistente e sono stati abrogati gli aggettivi “nazionali” e “provinciali”, per cui viene dato un senso nuovo alla norma, perché comprenderà anche il contratto collettivo aziendale. Ad oggi quindi chi può costituire una RSA sono solo le associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati all’unità produttiva (ovvero bisogna aver firmato un contratto collettivo). Il fatto che siano firmatarie collettivo aziendale c’entra con il fatto che siano rappresentative, perché se fossi un datore di lavoro e ho esigenza di normare un certo settore, in base all’orario di lavoro, i turni, e ho bisogno che questo contratto sia applicato mi conviene chiamare qualcuno che ha la forza di rappresentare e che rappresenta, per cui non vi è criterio di numero. Quindi, il nesso consiste nel fatto che, se sei firmatario di un contratto aziendale, vuol dire che rappresenti qualcuno e puoi costruire RSA. In realtà l’articolo è cambiato ulteriormente con il caso Marchionne alla FIAT. CASO FIAT Fino a quella data può diventare RSA chi ha firmato un contratto collettivo; una vicenda importante ha determinato il pronunciarsi della Corte Costituzionale e ne ha ampliato ulteriormente l’ambito di applicazione. Si fa riferimento alla Fiat con l’amministratore delegato Marchionne che, nel rinnovare alcuni processi produttivi in alcune fabbriche decise di uscire da Confindustria (la Fiat uscì da Confindustria e in particolar modo, la Fiat non applicò più il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici): di conseguenza non c’era più un contratto nazionale da applicare. L’atto importante è che la FIAT si è fatta un suo contratto aziendale, che hanno formato solo le organizzazioni dei metalmeccanici di Cisl e Uil e non la Cgil. Il giorno dopo la stipula del contratto aziendale e il giorno dopo il recesso della Fiat dal contratto collettivo nazionale, il sindacato più grande (CGIL) non era firmatario di alcun contratto collettivo applicabile all’unità produttiva; quindi, il sindacato più grande non poteva costituire rappresentanze sindacali aziendali. All’esito di anni di una lunga controversia, la Corte Costituzionale decide di interpretare il termine firmatario come colui che ha partecipato alle trattative: • possono costituire rappresentanze sindacali aziendali anche quelle associazioni sindacali che, pur non firmatarie, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti rappresentati dei lavoratori dell’azienda (=se hai partecipato alla negoziazione, ti è riconosciuto che rappresenti qualcuno). = partecipando alle trattative di un contratto collettivo aziendale, il datore di lavoro ti ha, implicitamente, riconosciuto come soggetto rappresentativo. Essere firmatario è un requisito oggettivo. Il TESTO UNICO DELLA RAPPRESENTANZA del 2014 Firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, che si danno loro stesse (lo Stato non c’entra niente) delle regole sulla rappresentanza a livello nazionale e aziendale. L’intenzione di questo accordo è quello di regolamentare come debba funzionare a livello nazionale la rappresentanza. In questo Testo unico, si parte da una domanda: Confindustria chi obbliga a chiamare al tavolo nazionale quando si devono rinnovare i vari contratti collettivi? Si è raggiunta una quota e un livello di rappresentatività: partendo dalle regole, in precedenza previste per la pubblica amministrazione, Cgil, Cisl e Uil e Confindustria si sono obbligati a chiamare al tavolo delle trattive nazionali qualsiasi sindacato anche diverso da Cgil, Cisl e Uil che abbia, nell’ambito di quel comparto e settore produttivo, almeno il 5% di rappresentatività. Questo 5% si ha come media di un dato associativo (ovvero gli iscritti) e di un dato elettorale: se hai il 5% come media tra il dato associativo e i voti riportati, sei rappresentativo a livello di contratto collettivo e devi partecipare alle trattative. Questo accordo coinvolge anche l’Inps, perché nella stra grande maggioranza dei casi, i sindacati, dai loro iscritti si fanno rilasciare una delega che consente loro di trattenere una quota dello stipendio di ciascun lavoratore mensilmente. Per cui è l’Inps a sovraintendere e l’Inps sa quante deleghe sindacali ci sono in un determinato settore: l’Inps ha il suo ruolo certificatore. In realtà, questo testo unico, del 2014, è molto importante perché non dice solo, a livello nazionale, chi è rappresentativo, ma la seconda parte ci parla di regolamentazione delle rappresentanze in azienda: Cgil, Cisl e Uil non si mettono d’accordo per regolamentare le rappresentanze sindacali in azienda, ma insieme a chi aderisce a questo accordo e ai datori, si danno loro delle regole per le rappresentanze aziendali, non abrogano la Legge. Nelle RSA non c’è scritto da nessuna parte che si vota, e in quel modo sono interessati solo gli iscritti alle vicende; tuttavia, ci sono magari nuovi lavoratori che non hanno la tessera sindacale. I rappresentanti che emergono all’esito delle elezioni sono le RSU, ovvero Rappresentanze Sindacali Unitarie. Il rapporto tra RSA e RSU è che i sindacati che stipulano questo accordo, che vincola loro a non costituire da soli una RSA (non esiste l’RSA della Cgil, l’RSA della Cisl e l’RSA della Uil), ma esisterà una sola rappresentanza unitaria. RSA vs RSU A livello aziendale, l’RSA, l’art 19 dello Statuto dei Lavoro, è il sistema legale previsto dal Legislatore, che si contrappone al sistema costituito da una differente fonte. Anche per una serie di motivi, anche legate ad un deficit democratico, per ragioni anagrafiche, il tasso di sindacalizzazione, rispetto agli anni ’70, sta scendendo. Per questo motivo, i sindacati, a partire dagli anni ’90, con degli accordi, Cgil, Cisl e Uil (e Confindustria) si sono autoimpegnate e autovincolate a costituite le RSA tramite questa modalità elettiva, ovvero con elezioni ogni 3 anni, con distinzioni in svariate liste (quindi le RSU); in questo modo partecipano alle elezioni triennali tutti i dipendenti di una unità produttiva e non solo gli iscritti. Quindi, le RSU non modificano l’art.19 dello Statuto dei Lavoratori, ma vincola loro. Cgil, Cisl e Uil sono firmatari dell’accordo del Testo Unico del 2014, ma non sono gli unici sindacati. Quindi, per ampliare la base democratica di queste elezioni, le elezioni stesse sono consentite anche a sindacati diversi da Cgil, Cisl e Uil, purchè facciano una formale adesione al contenuto di questo testo unico (anche se non lo hanno firmato) e, soprattutto, si impegnano, anche qualora ne avessero i requisiti, a non costituire da soli RSA. RSA e RSU possono convivere perché i sindacati con una minor rappresentatività, ovvero i sindacati meno grandi, ci tengono a misurarsi con le elezioni. Nella stra grande maggioranza dei casi, in azienda, ci sarà solo l’RSU, che è unica (Rappresentanza Sindacale Unitaria), al cui interno partecipano forze sindacali diverse, in base alla proporzione dei loro voti. Quindi, sicuramente Cgil, Cisl e Uil non costituiscono RSA da soli, perché si sono autovincolati, ovvero hanno firmato un accordo. È importante anche capire che se uno dei tre sindacati non prende i voti necessari, non avrà suoi membri nelle RSU, pur vincolandosi a non costituire da solo RSA, perché vincolati. L’RSU è un accordo pattizio con cui sindacati, che ben avrebbero diritto a costituirsi da soli in RSA, si sottopongono al giudizio degli elettori, ovvero tutti i dipendenti di un’azienda. Anche i sindacati minori che aderiscano a quell’accordo, si accordano sulle regole (si sottopongono alle elezioni e votano tutti). Il sindacato in azienda, quindi, sta tramite l’RSA (che è il modello legale) o tramite l’RSU (che è la modalità di ordine pattizio, ovvero di accordo). Diversamente dalle RSA, le RSU si configurano come strutture organizzate su base unitaria, elette dalla collettività aziendale. La loro costituzione, infatti, è demandata ad elezioni cui partecipano tutti i lavoratori (iscritti e non iscritti). Per quanto riguarda i poteri riconosciuti alla RSU si segnala quello della legittimazione a negoziare per la stipula del contratto collettivo aziendale di lavoro. Il Testo Unico dice espressamente che le RSU sono deputate a trattare per il rinnovo del contratto aziendale: quindi, nell’ambito del contratto aziendale, se vi è una RSU, il datore di lavoro si è vincolato perché Cgil, Cisl e Uil con Confindustria hanno firmato quell’accordo di dire “se vi è una RSU, io datore di lavoro è con loro che mi siedo al tavolo delle trattative”. nelle immediate vicinanze di essa; invece nelle unità produttive con un numero inferiori di dipendenti, le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di usufruire, ove ne facciano richiesta, di un locale idoneo per le loro riunioni. In questo caso, vi è una distinzione da fare a seconda della dimensione e a seconda del numero di lavoratori impiegati in quella unità produttiva: il datore di lavoro, nelle unità produttive – • con almeno 200 dipendenti, deve prendere un locale aziendale suo e deve dare, in maniera permanente, un idoneo locale (idoneo nel senso che deve avere una certa capienza, un minimo di attrezzature, la possibilità delle RSA di riunirsi nel predetto locale in ogni momento che essa ritengano opportuno, senza nessuna limitazione e nessun obbligo di darne notizia al datore di lavoro) nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa; • sotto i 200 dipendenti non ci sarà un locale fisico fisso sempre a disposizione, ma i lavoratori hanno diritto ad usufruire di un locale idoneo per le loro riunioni. Per quanto riguarda la rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza, possiamo dire che la svolta si è avuta con l’istituzione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, ad opera del decreto legislativo 626/1994 e dal decreto legislativo 81/2008. Quest’ultimo stabilisce che il rappresentante per la sicurezza nelle aziende con: • più di 15 dipendenti viene eletto o designato nell’ambito delle rappresentanze sindacali presenti in azienda (RSA o RSU); • nelle aziende o unità produttive con occupano fino a 15 dipendenti viene eletto direttamente dai lavoratori. Quindi, RIEPILOGANDO, nel settore pubblico, fermo restando il principio di libertà sindacale, saranno solo i sindacati (sufficientemente) rappresentativi a godere dei seguenti diritti: accesso alla trattativa nazionale; costituzione di RSA, attribuzione dei relativi diritti sindacali ed iniziativa per la formazione di RSU; legittimazioni a stipulare accordi per la disciplina delle RSU, nonché a presentare liste per la loro elezione; eventuale accesso alla contrattazione integrativa e partecipazione sindacale. Il contratto collettivo di lavoro Quando parliamo di contratto collettivo, facciamo sempre riferimento al contratto collettivo nazionale di lavoro o CCNL (siamo nell’ambito del privato). Non vi è un rapporto di gerarchia (quindi questo contratto nazionale non è più importante di quello aziendale). L’EFFICACIA ERGA OMNES La costituzione prevedeva una strada ben chiara, nei confronti del contratto collettivo: la prima parte dell’art 39 della Costituzione prevede la libertà dell’organizzazione sindacale; la seconda parte prevede una qualche forma di registrazione, ma in questa intenzione, il contratto collettivo avrebbe dovuto avere efficacia erga omnes, nell’ambito di quel settore produttivo (così come avveniva nel fascismo). Il contratto collettivo significa contratto collettivo di diritto privato; ora dobbiamo capire come si fa ad applicare, in maniera tendenzialmente erga omnes, ovvero a tutti, il prodotto dell’autonomia individuale. Il contratto collettivo è un contratto di diritto privato, ma ha una tendenziale, quanto meno, volontà delle parti (ovvero i sindacati che hanno la rappresentanza a livello nazionale, etc.) di uniformare a quel contratto i contratti individuali di larga parte della popolazione dei lavoratori. Il legislatore, pur senza applicare l’art 39 della Costituzione aveva proposto, alla fine degli anni ’50, la Legge Vigorelli, secondo cui vi sono dei contratti collettivi che si applicano solo alle parti. La Legge Vigorelli prevedeva, in modo banale, di copiare il contenuto del contratto collettivo ad un decreto-legge, il quale si applica a tutti. In questo modo, il contratto collettivo avrebbe avuto efficacia erga omnes. La corte costituzionale ha tuttavia ritenuto che vi era già l’art 39 che disciplinasse questa situazione. NON si può aggirarlo, va rispettato. Quindi, per arrivare all’efficacia erga omnes hanno intrapreso altre strade: un contratto collettivo nazionale ha, al suo interno due parti, due parti: una parte obbligatoria e una parte normativa. La parte obbligatoria o economica (obbligazione tra gli stipulanti effettivi) consiste nel fatto che sono le parti stipulanti (sindacati e associazioni datoriali) a prevedere, tra loro, reciproci obblighi e doveri. Sulla parte normativa vi è da dire qualcosa in più: un contratto collettivo nazionale impatta al di là del suo ambito preventivato dal diritto civile. La prima cosa da dire è che se abbiamo Cgil, Cisl e Uil e Confindustria, il contratto è efficace tra i lavoratori che aderiscono a Cgil, Cisl e Uil e tra i datori di lavoro che aderiscono a Confindustria. Però non tutti i datori di lavoro e i lavoratori sono iscritti al sindacato, quindi è necessario scomputare le varie opzioni: A. datore iscritto ad un’associazione sindacale datoriale che, quindi, si è obbligato ad applicare il contratto e, tecnicamente, dovrebbe applicarlo solo agli iscritti al sindacato (solo il datore di lavoro iscritto all’organizzazione sindacale dei datori di lavoro, è tenuto all’applicazione del contratto collettivo nei confronti dei soli lavoratori sindacalmente associati); Se dei lavoratori non sono iscritti al sindacato, il datore di lavoro, tecnicamente, potrebbe scegliere di applicare regole diverse a chi non è iscritto al sindacato, seppur rispettando le regole di Legge. Quindi, di fatto (di fatto perché non è obbligato), l’imprenditore applicherà spontaneamente il contratto collettivo, a cui lui è vincolato perché aderisce all’associazione datoriale, a tutti. B. datore non iscritto ad associazioni sindacali datoriali: in questo caso, con un’azienda con 15 dipendenti, di cui né il datore, né i lavoratori sono iscritti al sindacato è possibile procedere leggendo l’art 36 della Costituzione, di cui sappiamo che la retribuzione deve essere proporzionale al lavoro svolto e comunque sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. I minimi retributivi sono rintracciabili all’interno dei contratti, quindi, attraverso un’operazione giurisprudenziale, che valorizza l’art 36 della Costituzione, i minimi retributivi di un contratto comunque devi applicarli, anche se il datore di lavoro non è iscritto ad alcuna associazione datoriale, né dei lavoratori. Questa è l’unica parte che possiamo intendere come ERGA OMNES in cui si farà riferimento ad un PARAMETRO per la retribuzione minima prevista dai contratti collettivi (dunque applicabile a tutti -> iscritti e non iscritti). C. un’altra tecnica che fa si che ci sia un obbligo da parte delle parti di rispettare un certo contratto è quando si fa riferimento ad un contratto individuale che richiama liberamente il contenuto di un altro contratto eteronomo, cioè che altri hanno stipulato, ma al quale io ho aderito. Al datore conviene perché parte da un regolamento già predisposto. COLLETTIVO vs INDIVIDUALE (derogabilità in meglio / inderogabilità in peggio) Una volta arrivati a dire a chi si applicano i contratti collettivi, è necessario vedere il rapporto che vi è tra contratto collettivo e contratto individuale: qui riprendiamo il parallelismo sul ruolo della contrattazione collettiva nei confronti della Legge, secondo cui vi è inderogabilità in peggio e derogabilità in meglio (dal contratto collettivo come da quello individuale), perché vi è una disciplina minimale di protezione del lavoratore. Con riferimento al contratto collettivo, nei confronti del contratto individuale, dobbiamo trovare il fondamento che ci dica che i rapporti tra contratti collettivi e i contratti individuali consistono nel fatto che il contratto individuale può derogare in meglio il contratto collettivo. Derogabilità in meglio: • art. 2077cc: questo articolo parla di efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale, secondo cui “i contratti individuali devono uniformarsi alle disposizioni del contratto collettivo stesso”, ovvero non possono prevedere difformità; e continua dicendo che “le clausole difformi dei contratti individuali, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro” = questo articolo, quindi, di fatto dice che il contratto collettivo può essere derogato solo in meglio dal contratto individuale. Il problema, però, consiste nel fatto che quello di cui parla il codice civile è un altro contratto collettivo: il Codice Civile risale al 1942, epoca fascista; quindi, è ovvio che il contratto collettivo si impone sul contratto individuale. Il “contratto collettivo” di cui all’art 2077 del cc è un contratto collettivo stipulato da sindacati che non hanno libertà, che si atteggia a mo’ di apparato burocratico dello stato e, quindi, a caro prezzo della libertà di opinione dava l’efficacia erga omnes. IMPORTANTE art 2113cc (già visto) (Rinunzie e transazioni). Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del Codice di procedura civile*, non sono valide. * Controversie individuali di lavoro Qui, il Legislatore ci dice che dai contratti collettivi derivano dei diritti che hanno gli stessi atteggiamenti di quelli che derivano da norme di legge → inderogabili → come tali, sono indisponibili. Quindi, per dire che il contratto collettivo si impone in caso di clausole difformi, ma il contratto individuale può prevedere norme migliorative, abbiamo due strade: - in base all’art 2077 cc, in cui, però il contratto collettivo fa riferimento ad altra cosa - far riferimento all’art 2113 cc che, invece, parla espressamente da disposizioni inderogabili che derivano da contratti collettivi. Quando si tratta di regole da applicare al caso concreto non è superfluo cercare di capire se è migliore il contratto collettivo o quello individuale, anche perché nel raffrontare un eventuale contratto collettivo e individuale che preveda norme diverse per valutare quale applicare al caso concreto, si deve procedere con una comparazione che non ha ad oggetto la singola clausola, ma l’istituto. La comparazione per vedere se una materia è normata in maniera migliorativa dal contratto individuale o dal contratto collettivo non si fa per singola clausola, ma globalmente, da parte del giudice, per l’intero istituto. Quindi, non si fa uno spacchettamento delle varie regole che disciplinano, dal punto di vista contrattuale, parti così rilevanti del rapporto individuale di lavoro. CONTRATTO COLLETTIVO AZIENDALE E EFFICACIA ERGA OMNES Finora abbiamo parlato di contratto collettivo nazionale e contratto collettivo aziendale. Vi è una tendenza, negli ultimi anni, a valorizzare maggiormente il contratto aziendale: questo non è del tutto sbagliato, ma il problema è che non in tutte le aziende vi è il sindacato. Quindi, per questo motivo, è evidente che il ruolo nazionale dei contratti collettivi (ovvero i contratti collettivi nazionali di lavoro) continui ad avere una rilevanza molto importante. Sempre più, nelle aziende medio-grandi (con più di 15 dipendenti), si ha il discorso del contratto aziendale: sull’efficacia è ovvio che, essendo anch’esso un contratto di diritto comune, dovremmo porci gli stessi interrogativi del contratto collettivo nazionale, ma abbiamo una serie di elementi che ci fanno propendere per una soluzione più semplice, in ordine all’efficacia erga omnes del contratto aziendale. In primo luogo, perché sarà l’RSU o le RSA a trattare con il datore di lavoro questo contratto aziendale e, soprattutto nel caso delle RSU queste rappresentano tutti nell’azienda (perché quanto meno tutti sono chiamati alla sua elezione). = Il discorso è relativo alla rappresentanza, che discende in maniera diversa da un contratto collettivo nazionale: per il contratto aziendale abbiamo un organismo, l’RSU che, non per legge, ma per regole che ci si è dati, è quanto meno potenzialmente rappresentativo di tutti i dipendenti e, quindi, gli effetti di quel contratto che stipula l’RSU si stipula a tutti, anche a chi esercita la libertà negativa sindacale. = almeno da un punto di vista logico, è legittimato a rappresentare tutti i dipendenti. Il datore di lavoro, inoltre, in un contratto aziendale può stare in piedi da solo, nel senso che il datore di lavoro può essere parte di un contratto collettivo e non sempre ha bisogno di un’associazione datoriale: il datore di lavoro e, quindi, l’azienda stipula un contratto collettivo con le RSA o con le RSU. ART 8 LEGGE 138/2011 CONTESTATISSIMO anche per cercare di rispondere alle esigenze che erano state frutto della diatriba tra Fiat e Fiom; prevede un’eccezione a quanto detto finora in termini di rapporto tra legge e contratto collettivo aziendale, in presenza di alcuni requisiti:  quando si tratta di ottenere maggior occupazione, emersione del lavoro irregolare, incrementi di competitività, etc.: − che questi accordi, chiamati accordi di prossimità, ma letti come aziendali si applichino a tutti i lavoratori; − tecnicamente, si applicherebbero a tutti anche eventuali difformità e deroghe, non necessariamente in meglio, previste sia dalla legge che dai contratti collettivi nazionali. In ogni caso, abbiamo un utilizzo molto scarso di questa norma, perché i sindacati tanto datoriali quanto quelli dei lavoratori, si sono impegnati tra loro a NON UTILIZZARLO. Si tratta di uno strumento che, tecnicamente, potrebbe portare alla deroga di Legge e dei contratti collettivi. NB. Il contratto collettivo è un contratto atipico, nell’accezione privatistica del termine: non abbiamo regole legislative sul contratto collettivo. Le regole circa la durata del contratto collettivo, la scadenza del contratto collettivo, etc. le stabiliscono le parti: che i contratti collettivi nazionali durano 3 anni non c’è scritto nel Codice Civile, ma sono Cgil, Cisl e Uil e Confindustria che, in quel testo unico, dicono che quel contratto dura 3 anni. Si parla anche di ultrattività nel senso che, anche se il contratto collettivo scade, vi sono delle regole ultra-attive, secondo cui fino al prossimo rinnovo si applicheranno le regole contenute nel vecchio. Adesso, la durata è triennale. Questo solitamente ha una durata predefinita e non prevede nessun preavviso; prevede una durata giornaliera. Magari può anche essere uno sciopero simbolico (ad esempio, un’ora di sciopero); ma può anche essere uno sciopero ad oltranza, ovvero uno sciopero per settimane o addirittura mesi (sciopero per 35 giorni consecutivi alla Fiat) = è legittimo, nel senso che è un diritto, scioperare ad oltranza, ad esempio di un mese, ma viene ad essere sospesa la prestazione e, quindi, la retribuzione. In generale, l’esercizio del diritto di sciopero produce la sospensione dell’obbligazione lavorativa per gli scioperanti, con correlativa perdita della retribuzione. Per quanto riguarda, invece, l’estensione dello sciopero, questo può essere: a. sciopero generale, il quale è uno sciopero che i sindacati proclamano per tutte le categorie, quindi ad esempio per tutto il lavoro subordinato di un paese (è il più forte); b. sciopero categoriale (ad esempio, sciopero delle scuole, sciopero dei trasporti); c. sciopero a livello territoriale (ad esempio, sciopero nella regione Lombardia); d. sciopero aziendale (ad esempio, quella determinata azienda sciopera), il quale può essere totale o parziale, a seconda che sia programmato, proclamato e attuato con riguardo a tutti i dipendenti o ai soli dipendenti di uno stabilimento o reparto. Per quanto riguarda l’articolazione dello sciopero, questo può essere: A. sciopero a singhiozzo, nel senso che in una giornata di lavoro, si proclama un’ora di sciopero, l’ora successiva sciopero, quella ancora successiva di lavoro, etc. quindi è costituito dal susseguirsi di brevi interruzioni e riprese del lavoro da parte di tutti i lavoratori interessati = causa un danno più elevato rispetto alle singole ore; B. sciopero a scacchiera, è dato dall’alternarsi di interruzioni di lavoro, volta a volta da parte dei soli lavoratori di determinati reparti, gruppi, profili professionali. GLI SCOPI Per quanto riguarda lo scopo/finalità dello sciopero, possiamo, anche in assenza di norme, avere un quadro ben definito, in virtù delle tante sentenze della Corte Costituzionale. La prima grande dicotomia, nell’ambito dello sciopero è tra: A. SCIOPERO CONTRATTUALE: attuato al fine di avere un miglioramento a livello del contratto (es. avere un aumento, avere un nuovo contratto aziendale); quindi, contrattuale significa nei confronti del proprio datore di lavoro. es. scopo di premere sul datore di lavoro, per ottenere un trattamento migliore o evitarne uno peggiore, rispetto a quello pattuito. B. SCIOPERO NON CONTRATTUALE: che distingue diverse tipologie di sciopero, come:  sciopero di solidarietà, ovvero uno sciopero secondario e che si collega ad un altro tipo di sciopero (esempio, nell’azienda a fianco hanno licenziato ingiustamente 3 persone, faccio sciopero anche io che sono di un’altra azienda); è, quindi, uno sciopero “secondario”, attuato da alcuni lavoratori a sostegno di uno sciopero “primario” eseguito da lavoratori dipendenti di altri datori. Inoltre, un’altra distinzione tra due tipi di sciopero molto diffusi, la cui linea di distinzione non è solo dal punto di vista terminologico, ma anche alla qualificazione giuridica da dare nei confronti dello stesso: lo sciopero lo subisce il datore di lavoro anche se non riguarda direttamente il proprio datore di lavoro.  sciopero economico politico: è sempre un diritto; il destinatario è l’esecutivo, il governo, più correttamente, la politica intesa come il soggetto decisore che pone in essere determinate decisioni di carattere economico che tocchino direttamente o indirettamente il lavoratore subordinato. Ne deriva, quindi, che questo tipo di sciopero è sempre un diritto. È quello che è politico nel destinatario, ma la propria richiesta ha a che fare, in senso lato e ampio, con lo status del lavoratore subordinato. Ha sempre come destinatario della protesta un soggetto che non è il datore di lavoro; (es-> sciopero nei confronti di come si sta attuando il PNRR).  sciopero politico: è una libertà; es. uno sciopero proclamato contro la guerra o legge elettorale: fa riferimento ad uno sciopero il cui discrimine non è così netto con il precedente sciopero economico politico. Lo sciopero meramente politico, non tocca l’ambito economico, e nel nostro ordinamento, secondo la Cassazione di qualche anno fa, non è un reato, ed è una mera libertà e in questo caso, quindi, il dipendente può essere sanzionato dal datore di lavoro, con l’ordinario procedimento disciplinare. (potrebbe-> perché lo sciopero meramente politico non è un diritto ma una libertà). LA SERRATA La serrata, da alcuni, è vista come la risposta ad un’eventuale risposta allo sciopero (da parte dei datori di lavoro), ovvero rendere impossibile ai lavoratori accedere in azienda: in realtà, la serrata nella Costituzione, che quindi riguarda i datori di lavoro, non la troviamo, in quanto NON È UN DIRITTO, ma rimane vincolata e nell’ambito della mera libertà. Quindi, possiamo dire che per serrata si intende una chiusura o interruzione temporanea dell’attività aziendale, totale o parziale, nonché dal rifiuto di accettare e retribuire le prestazioni di lavoro, attuata da una sola o da più imprese, con finalità di pressione e di lotta. CRUMILIO Momento in cui il lavoratore, durante la proclamazione di uno sciopero, pone comunque in essere la sua prestazione lavorativa (è un suo diritto). LO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI Quest’ultimo tema è estremamente importante. Mentre abbiamo visto che non c’è una legge che regola lo sciopero, la lezione di oggi individuerà la legge che regola lo sciopero non in generale ma soltanto la legge che regola lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Legge 146/1990 (poi modificata in gran parte con la Legge 83/2000) Può essere intesa come la concretizzazione dell’art 40 della Costituzione. Per quanto questa norma abbia impattato moltissimo sulle vite di ciascuno di noi, è limitata ad un determinato ambito imprenditoriale. Dobbiamo, quindi, capire come mai ci fu e c’è l’esigenza di regolare il settore dei servizi pubblici essenziali, che non significa settore pubblico (anche se comunque gran parte del settore pubblico è ricompreso, ma ci sono molte strutture non pubbliche e, quindi, formalmente private che possono erogare servizi pubblici, come l’Unicatt o un ospedale privato, linee di trasporto aereo). Motivi e definizione del tema I motivi per cui nel settore privato puro non vanno rispettate le norme che vedremo, come il preavviso o il fatto che lo sciopero deve essere comunicato all’utenza, sono molteplici e sono molteplici anche le ragioni per le quali si giunge ad una vera e propria Legge. Un motivo è perché sicuramente, nell’ottica del Legislatore, non ha mai sentito l’esigenza di come regolare uno sciopero nell’ambito privato. In realtà, anche in questo settore pubblico, all’inizio, non si è proceduto attraverso una norma di Legge, ma si è avuta comunque la necessità di regolamentarlo, perché vi è stata un’evoluzione da una struttura sociale ed economica collegata all’industria e al settore primario ad un’industria legata al settore terziario. Inoltre, perché l’ambito pubblico era incomparabile rispetto a tanti altri settori; quindi, la pubblica amministrazione in senso ampio era sempre più forte nell’ambito dell’economia. Al contempo, in questi settori, non necessariamente i sindacati che conosciamo noi erano egemoni, nel senso che vi fu e vi è stata una nascita di sindacati minori, con meno iscritti, ma in alcuni settori, l’essere un sindacato minore e l’avere pochi iscritti, non significa che un eventuale sciopero di quei sindacati determini un danno trascurabile (perché, ad esempio, se alla Fiat, Cgil, Cisl e Uil hanno il 90% e domani proclama lo sciopero un sindacato che ha % molto basse, vi è comunque un certo tipo di danno). Quindi, anche i sindacati maggiori avevano una concorrenza da parte di soggetti più piccoli, ma che per la modalità concreta in cui l’eventuale sciopero andava a insistere poteva fare più di un danno e non prevedere regole, determinando spesso anche tante conseguenze negative nei confronti dei cittadini, i quali da soggetti terzi nell’ambito di un conflitto nell’ambito industriale o della produzione diventano parte integrante, seppur indiretta, che pagano le conseguenze di un eventuale sciopero in quei settori. Si era cercato di procedere con le modalità classiche del diritto sindacale, ovvero facendo degli accordi che vedevano protagonisti i sindacati, i rappresentanti delle aziende, in cui ci si dava delle regole anche in questi settori. Intervenne, inoltre, la Legge che, a differenza dei contratti collettivi che vincolano solo le parti, vincola tutti: con l’avanzare del decennio ’80 diventa infatti sempre più forte la spinta verso una Legge regolatrice dello sciopero nei servizi pubblici essenziali. Nel Giungo 1990 ci furono i mondiali di calcio, che aiutarono il Legislatore a intervenire nella regolamentazione dei servizi pubblici essenziali: nel Giugno 1990, si ebbe una Legge, poi modificata nel 2000, che, nei suoi ambiti essenziali, da un lato, aveva lo scopo di concretizzare l’art 40 della Costituzione e, dall’altro lato, di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Quindi, sulla base di una riflessione riguardante il fatto che vi sono anche altri diritti della persona che sono costituzionalmente tutelati, è anche importante cercare di equilibrare l’esercizio di diritti tutti importanti e tutti costituzionalmente garantiti. Questa Legge dice che ci sono altri diritti importanti come il diritto di sciopero, come il diritto alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza (art 1 co.1 Legge 146/1990), alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione. Quindi, sono servizi pubblici essenziali “quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute alla libertà, ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione. A questo elenco tassativo di diritti della persona consegue un elenco non tassativo, perché può anche essere ampliato, sul concreto esercizio di quei diritti: per quei diritti vi è tutta una concretizzazione perché quei diritti siano tali. Elenco tassativo perché non vi potranno mai essere diritti costituzionali diversi da quelli individui nella lista dei diritti (art 1 co. 1), ma vi potranno essere servizi essenziali ulteriori rispetto a quelli compresi nell’elencazione dei servizi. Inoltre, per la loro individuazione non rilevano criteri soggettivi, ma solo criteri oggettivi, costituiti dall’esistenza di uno dei diritti tutelati che non possa essere goduto senza il servizio preso in considerazione. È con questi diritti che lo sciopero di cui all’art 40 della Costituzione, va contemperato, sì da rendere necessaria la previsione di “regole da rispettare e procedure da seguire in caso di conflitto collettivo per assicurare l’effettività dei diritti medesimi”. I soggetti Tornando alla Legge 146/1990, dobbiamo dire che è stata una vera e propria Legge concertata, ovvero è stata scritta insieme alle principali organizzazioni sindacali, che ne sono state le maggiori fautrici (ovvero le confederazioni Cgil, Cisl e Uil). I protagonisti di questa Legge sono: • il Legislatore, ovvero la Legge, la quale delinea sia l’ambito operativo oggettivo con l’elencazione tassativa dei diritti da tutelare, sia quello oggettivo con l’individuazione dei destinatari, ovvero le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi stessi, le organizzazioni sindacali coinvolte, i promotori e i lavoratori scioperanti. La Legge, inoltre, ne precisa il modus operandi, riservandosi l’indicazione di alcuni obblighi, come quelli relativi al preavviso, alla comunicazione preventiva, all’indicazione della durata, alla previsione da parte degli accordi. La Legge vincola anche la contrattazione collettiva a cercare da sé, per ogni settore, quali sono le regole da applicare e quali sono i servizi minimi da garantire che, poiché in presenza di settori molto diversi tra di loro, delega alla contrattazione collettiva; • la contrattazione collettiva, la quale si fa carico di individuare “le prestazioni indispensabili” da assicurare nell’ambito dei servizi essenziali, nonché “le modalità e le procedure di erogazione e le altre misure dirette a salvaguardare i diritti protetti secondo i criteri previsti dalla Legge”. NB: i servizi minimi sono garantiti dalla contrattazione collettiva, in base al tipo di servizio svolto (quello che va per fasce orarie è il metodo più diffuso solo nell’ambito dei trasporti, ma ad esempio non nell’ambito sanitario (non è possibile ad esempio che vengano garantite le fasce orarie ad un pronto soccorso, secondo cui è aperto dalle 7 alle 9 … se cado alle 9:30?). • la commissione di garanzia, considerata un’autorità amministrativa indipendente, composta da 5 membri nominati dal Parlamento; ha tanti ruoli, il principale dei quali è il controllo di questi accordi, in cui la commissione di garanzia interviene anche nell’ottica di tutelare i cittadini. In altre parole, il ruolo della Commissione di garanzia è quello di controllare le regole poste in essere dalle parti sociali (giudizio di idoneità) e varare delle regole sostitutive (provvisoria regolamentazione), avendo come competenza principale il giudizio di idoneità della disciplina contenuta negli accordi e nei contratti collettivi circa le prestazioni indispensabili, le modalità e le procedure di erogazione delle stesse. La commissione di garanzia ha avuto e ha un ruolo che precede un possibile sciopero, nel senso che valuta i servizi minimi garantiti dalla contrattazione collettiva e, soprattutto in una prima fase, poteva porre in essere una regolamentazione provvisoria; per cui il ruolo è di garantire, anche in base ai diritti dei cittadini, che quei servizi minimi siano effettivamente svolti. La commissione ha anche un altro ruolo, successivo ad un eventuale sciopero, con riferimento al fatto che è anche dotata di poteri sanzionatori, nel caso in cui quei servizi minimi essenziali non vengano garantiti, cui si accompagnano specifici poteri di accertamento, ai sensi dell’art 13 co.1 Legge 146/1990.
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