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Le funzioni specifiche dei servizi minorili nella procedura di messa alla prova, Dispense di Diritto Processuale Penale

Le funzioni dei servizi minorili nella procedura di messa alla prova di un minore, compreso il compito di redigere il progetto d'intervento, la partecipazione all'esecuzione, la facoltà di chiedere modifiche e l'obbligo di fornire chiarimenti al giudice. Il documento anche tratta dell'attività di controllo, assistenza e sostegno ai minorenni sottoposti a una misura penale di comunità, della possibilità di integrare il contenuto percettivo della misura tramite la limitazione o il divieto della facoltà di comunicare con determinate persone, e della presenza dei genitori e della persona offesa durante l'udienza preliminare. Il documento illustra anche la differenza tra la sospensione del processo con messa alla prova e la sospensione del processo penale minorile, e la possibilità per il giudice di applicare la messa alla prova solo in determinate situazioni.

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 23/11/2022

clara1111
clara1111 🇮🇹

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Scarica Le funzioni specifiche dei servizi minorili nella procedura di messa alla prova e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Le cause e i processi della devianza minorile. Premessa. Clifford Geertz definisce circolo ermeneutico la possibilità di ricostruire e interpretare un contesto socio-culturale partendo da un aspetto particolare. Entrano in gioco un alto numero di variabili ne consegue che lo studio della devianza minorile può diventare un peculiare angolo visuale da cui condurre una analisi del contesto che lo genera. Vengono coinvolti: il livello economico, le modalità di socializzazione, il funzionamento istituzionale delle agenzie di socializzazione e di controllo sociale, le modalità di operare dell’apparato giuridico, e cosi via. Punto di riferimento di Parsons è la teoria dell’azione sociale, in quanto: atto elementare. In primo luogo, importante sottolineare che la sua teoria volontaristica dell’azione ha come assunto base la considerazione che l’agire umano non è mai meccanicistico, ma è il risultato di una volontarietà condizionata sia da componenti soggettive che da influenze sociali. In questo senso l’autore distingue tra l’aspetto soggettivo dell’azione e i condizionamenti sociali dell’agire. Disarticola l’azione, naturalmente a fini analitici, in quattro componenti: a) il soggetto che la compie, B) le finalità che si pone, C) la situazione contestuale, D) l’ordine simbolico e normativo. A loro volta, i parametri interpretativi sono riconducibili a tre specifiche discipline afferenti alle scienze sociali: psicologia, antropologia culturale, sociologia. In Parsons l’azione sociale non è mai automatica ma viene in qualche modo mediata dalla sfera normativa. Quindi la cultura sostituisce in buona parte il comportamento puramente instintuale; a sua volta, Jerome Bruner ha coniugato Psicologia e Cultura. Adolescenza è quella fase della vita umana, compresa tra i 12\14 anni e i 18\20, durante la quale nell’individuo avvengono i maggiori e più importanti mutamenti sia nell’apparato fisico, che in quello psichico. È questo, infatti, il periodo in cui la persona costruisce, se stesso attraverso il modello contestuale che lo circonda; la modalità con cui verrà completata tale costruzione lo accompagnerà per il resto della vita. Ogni tappa ha ben precisi compiti di sviluppo che altro non sono se non i modelli comportamentali proposti, ma anche pretesi, dal contesto sociale di appartena. Diseguaglianza: la devianza minorile sia in stretto rapporto con una condizione di deprivazione. Ciò significa che, nella maggior parte dei casi, tale fenomeno può essere considerato una variabile dipendente da un generale stato di povertà. Non vi è dubbio infatti che uno stato di deprivazione possa avere conseguenze fortemente incisive sul percorso evolutivo che porta alla formazione della personalità. La nostra trattazione non può che iniziare facendo riferimento ad almeno 2 psicologi, Winnicott ed Erikson, il loro contributo è essenziale perché mette in luce la relazione esistente tra tali comportamenti e ben precisi vissuti esperienziali; come, cioè, vissuto di deprivazione, possa creare quelle basi di personalità che è da considerare all’origine di una gran parte delle condotte devianti. Di Erikson viene condivisa l’interpretazione dell’adolescenza. Privazione- adolescenza- comunicazione costituiscono la situazione di disagio che porta alla devianza minorile. La devianza. Le scienze sociali offrono un vasto numero di definizioni con cui viene descritta la devianza: in quasi tutte, si sottolinea come ci si debba riferire, in ultima analisi, ad un non adeguamento comportamentale, del singolo attore o di interi gruppi sociali, agli schemi normativi, sia formali che informali, del contesto socioculturale di appartenenza; tale trasgressione, porta sempre a una sanzione nei confronti di chi, tale comportamento, pone in essere. Ma il concetto stesso di devianza muta nel tempo. È infatti un’acquisizione relativamente recente distinguere tra fenomenologia criminale e forme di devianza sociale; tra devianza tout court e forme di diversità culturale spesso omologate alla devianza; ed infine: tra devianza scelta dall’attore sociale e quella imposta da circostanze ben precise. Il concetto di devianza fa diretto riferimento all’incapacità, o al rifiuto, da parte di un individuo, o di un gruppo di individui, di attenersi ai valori o alle regole della società di appartenenza. È implicita una dicotomia tra il rispetto di tali valori che costituisce la normalità sociale e il non rispetto, a sua volta, definibile come anormalità. Vi è sempre un limite, al di là del quale l’attore sociale, non può, sul piano comportamentale, andare senza essere considerato anormale. Indubbiamente può accadere di superare occasionalmente tale limite, colui che oltrepassa, ripetutamente o abitualmente, viene considerato deviante. All’interno di una società salda si crea una rete di aspettative predeterminate secondo le quali ci si aspetta che i singoli individui e i gruppi sociali abbiano comportamenti conformi alle norme condivise dalla maggioranza. Qualora ciò non dovesse accadere scatterebbe la sanzione sociale, la cui intensità è sempre direttamente proporzionale al livello di gravità della condotta deviante messa in atto. Coesione tra gli individui e controllo sociale sono, i capisaldi prioritari. Nel più generale concetto di devianza, infine, è incluso quello di reato; definibile come quella particolare forma di devianza con la quale viene violato il diritto scritto, cioè istituzionalmente codificato, di un determinato gruppo sociale. A riprova delle proprie affermazioni, gli autori citano alcuni casi particolarmente significativi; innanzitutto la legge 75\1958 che trasformò la prostituzione da attività lecita a illecita, in secondo luogo l’eliminazione del reato di adulterio etc. Anche la sanzione è in stretta relazione con i due livelli; nel caso in cui vi sia infrazione sociale la sanzione è informale, legata cioè a una reazione sociale relativa al solo livello di relazionalità tra il singolo individuo e il suo gruppo di appartenenza; la penalizzazione può variare secondo criteri prevedibili ma non codificati. Nel caso in cui, invece, si infranga una norma giuridica, la sanzione è formale e istituzionalmente codificata; e codificato è anche il grado di intensità e la severità con cui viene erogata. 2. La devianza minorile: un fatto sociale complesso. In molti casi il comportamento deviante di un infradiciottenne può configurarsi come anticipatori di quello adulto, tale tipologia di devianza si manifesta con elementi talmente particolari da costituire un fenomeno del tutto originale e diverso da altri tipi di difformità comportamentale. Possiamo dire che la devianza minorile è configurabile come quel tipo di comportamento anomalo messo in atto da soggetti appartenenti alla fascia d’età, successiva all’infanzia, ma non ancora maggiorenni. Occorre fare una distinzione: in termini giuridici è, infatti, abbastanza facile definire la classe d’età coinvolta, perché è con precisione definita dal codice, che indica nei giovani compresi tra i 14 e i 18 anni coloro a cui la giustizia minorile attribuisce la possibile imputabilità e punibilità per i reati commessi. Il problema è più ampio e complesso perché, dovendo far riferimento alla fascia adolescenziale o immediatamente post adolescenziale, la instabilità della transizione dall’età infantile a quella adulta pone problemi di delimitazioni temporali molto sfumate e difficilmente definibili; è opportuno ricordare un terzo livello: la gioventù, quale fase di passaggio tra adolescenza ed età adulta. Segue a) la devianza minorile come processo: alcune precisazioni terminologiche. Si ritiene di dover sottolineare come la devianza minorile costituisca un vero e proprio processo sociale, che si evolve attraverso 4 tappe: disadattamento, disagio, devianza, emarginazione. Con il termine disadattamento si vuole indicare la difficoltà, riscontrabile nella condizione giovanile, di rapportarsi in maniera soddisfacente con il mondo adulto. Il disagio è il risvolto soggettivo dello stato di disadattamento: si concretizza in difficoltà ad inserirsi con facilità nel contesto sociale e assumere responsabilmente una identità personale. Con devianza si sottolinea l’attivazione di un determinato comportamento, non conforme alle aspettative sociali, con cui, attraverso l’infrazione delle norme condivise, gradualmente si acquisisce un ruolo socialmente percepito in termini negativi. Il termine emarginazione, in quanto esclusione, denota l’essere relegati ai limiti del contesto socio-culturale quale diretta conseguenza, sanzionatoria, delle condotte devianti. Disadattamento, disagio, devianza ed emarginazione sono fasi strettamente interconnesse. Ma non esiste un automatico o meccanico succedersi delle varie tappe. Segue b) il vissuto di deprivazione: all’origine della devianza minorile. e dalla struttura giudiziaria nel suo complesso; il controllo informale esercitato dalle agenzie di controllo del comportamento, quali famiglia, scuola. In qualche modo il concetto di disorganizzazione sociale, ricorda quello durkheimiano di anomia. Teoria ecologica: essa ha origine dall’osservazione di come, determinate forme di devianza, sarebbero soprattutto riscontrabili in ben specifici quartieri: in quelle zone urbane che, in quanto caratterizzate da situazioni di forte instabilità economica e da scarsa integrazione sociale, sono marginalizzate ed evidenziano un alto tasso di disorganizzazione sociale. 7. La teoria della trasmissione culturale. Shaw e McKey osservarono, come non solo un alto tasso di devianza, soprattutto giovanile, fosse caratteristico di alcune zone di Chicago, ma soprattutto, come tale tasso si mantenesse pressoché constante nel tempo, pur variando le condizioni da cui era stato determinato. Ne dedussero l’ipotesi secondo cui ben precise zone metropolitane sono caratterizzate da una cultura deviante che sopravvive perché viene trasmessa dagli adulti ai più giovani. Riscontriamo una visione di trasmissione culturale. Tale visione troverà la sua formulazione più completa ed esaustiva nella teoria della “devianza appresa”, ma le osservazioni di Shaw e McKay ci fanno comprendere come sia possibile il perpetuarsi, diacronico, della cultura deviante. 8. L’associazione differenziale: la devianza appresa. La teoria dell’associazione differenziale può essere considerata la naturale e sostanziale evoluzione della teoria ecologica. Vengono poste al centro della riflessione le modalità di acquisizione del comportamento deviante, che viene considerato il risultato di un processo di apprendimento non dissimile da quello di altri comportamenti. L’asserzione portante è: se il comportamento sociale è appreso, anche la devianza, si apprende. Va, anche, evidenziato come l’apprendimento deviante, non sia tanto di tipo tecnico quanto, soprattutto, tendenziale e valorialmente orientato: riferito a peculiari impulsi e motivazioni che, dipendono dal giudizio, favorevole o sfavorevole, attribuito alle norme sociali e alla loro infrazione. Bisogna, in primo luogo, evidenziare che, il comportamento deviante è espressione di forze e valori che non possono essere spiegati sulla base di valori espressi dall’agire non deviante. Non va sottovalutata la considerazione secondo cui la condotta deviante viene appresa non per semplice imitazione, bensì mediante l’associazione interpersonale con altri individui già devianti. Ne consegue che l’apprendimento deviante è da mettere in relazione con il tipo di persone con cui si viene in contatto e con la loro cultura. Si impara il comportamento difforme assimilando i modelli devianti proposti dall’ambiente. Sutherland, nel tentativo di trovare un fattore unico da sottendere alla spiegazione della devianza, ritenne che, con questo schema interpretativo, si potesse spiegare la modalità di formazione delle condotte delinquenziali in genere, non solo di quelle messe in atto dalle classi svantaggiate. Vengono evidenziate quelle dinamiche grippali che avranno maggiore influenza sui comportamenti dell’individuo; viene, soprattutto, rilevato quanto i gruppi frequentati con maggiore intensità determinino la maggiore incidenza nel condizionare le scelte comportamentali. Il legame con tali tipo di gruppo può essere, a sua volta, particolarmente favorito da quelle situazioni di disorganizzazione sociale precedentemente descritte; o dall’aver vissuto dinamiche familiari particolarmente complesse. La teoria dell’associazione differenziale è di grande interesse per spiegare i meccanismi di formazione e apprendimento di condotte particolari; occorrerebbe integrarla con la comprensione di quei meccanismi psicologici, in primo luogo le dinamiche di interiorizzazione della cultura, con le quali si darebbe a tutto il costrutto interpretativo una maggiore valenza euristica. Una teoria quasi parallela è la teoria delle opportunità illegittime o delle opportunità differenziali. Essa offre altri spunti interessanti per capire le modalità con cui avviene il coinvolgimento dei minori nei comportamenti delinquenziali. Si basa sull’assunto che la delinquenza è riconducibile a 3 tipologie: -criminale: con valori devianti profondamente sentiti e interiorizzati, ma non necessariamente violenti; - conflittuale: dedita essenzialmente alla violenza fine a se stessa; - Astensionista: deviante ma non direttamente criminale. Il diversificarsi delle adesioni ai tre tipi di gruppo dipende dall’intreccio di vari fattori che caratterizzano la condizioni sociale degli individui interessati; tali fattori sono determinati soprattutto dalla posizione occupata nella gerarchia sociale, nonché dal tipo di famiglia di appartenenza. L’adesione ai comportamenti irregolari dipenderebbe dall’intersecarsi di alcuni di tali fattori. 9. discrepanza\strain, ovvero: obiettivi perseguiti\mezzi disponibili. discrepanza\strain, consiste nel sottolineare come la non adesione ad alcune norme sociali sia, molto spesso, in stretta relazione con l’eccessiva condivisione di determinati valori sociali, sarebbe una sorta di eccesso di socializzazione. È basato sull’assunto secondo cui è la difformità, nelle opportunità di successo, a stimolare la non osservanza di quelle norme con cui vengono regolate le modalità lecite di conseguire le mete sociali. Ciò presuppone che vi sia condivisione piena dell’assetto valoriate dominante e come tale assetto sia considerato condizione indispensabile per la conquista della propria realizzazione, all’interno del contesto di appartenenza. L’adesione ai comportamenti dissociali, è vista come il risultato di un acuto conflitto tra mete fortemente intrise di valore culturale e l’idoneità dei mezzi a disposizione, per raggiungerle. Discrepanza\strain, ovvero la forza della differenza; quello’autopercezione di diversità, derivante da una condizione svantaggiata, in conseguenza della quale viene ritenuto legittimo qualunque strumento, pur di raggiungere traguardi senza il conseguimento dei quali non ci si possa considerare socialmente realizzati e integrati. Appare chiaro come risentano maggiormente di tale circostanza, coloro che si trovano in una condizione di maggiore debolezza. La potenzialità deviante aumenti, ulteriormente, quando concorra l’essere adolescenti ed esserlo in condizioni di svantaggio sociale ed economico. In questo caso, quel conflitto mezzifini, proprio per le condizioni tipicamente legale alla fase dello sviluppo giovanile, può essere gestito e padroneggiato con estrema difficoltà. Una difficoltà, sicuramente maggiore rispetto a quella che si verificherebbe se si affrontasse tale condizione da adulti. Cohen attribuisce grande importanza alla condivisione dei valori dominanti e al loro porsi come mete socialmente necessarie da raggiungere; punta proprio l’attenzione sulle modalità con cui i giovani emarginati percepiscono il divario tra l’importanza del perseguimento di alcune mete sociali e le effettive risorse di cui dispongono per raggiungere i propri fini. 10. La devianza come sub-cultura: l’importanza del gruppo. Il forte legame solidaristico, che si instaura all’interno di un gruppo, sembrerebbe servire agli adolescenti per riconoscersi e per darsi reciproche conferme. Secondo questa impostazione la devianza ha una sua strutturazione culturale. La mancanza di una buona integrazione sociale, favorisce il formarsi di gruppi giovanili che costruiscono ed esprimono norme e valori propri. L’enfasi interpretativa, viene posta sull’analisi di come si formino quei gruppi, le cui regole interne permettono comportamenti del tutto diversi, molto spesso in contrasto, da quelli ritenuti socialmente legittimi. In ultima analisi, la giustificazione delle scelte valorizzi viene rintracciata in elementi interni al gruppo stesso, in quanto si forma una sub-cultura. L’inserimento dell’adolescente in questo tipo di gruppi, ne determina, pertanto, il suo comportamento deviante. Dallo studio di Cohen, infatti, scaturiscono alcuni fattori comuni ai gruppi giovanili devianti, riassumibili in 5 punti: 1: innanzitutto, la devianza giovanile coinvolge, prevalentemente, adolescenti appartenenti a ceti economicamente svantaggiati e marginalizzati. 2: l’adolescente definisce se stesso facendosi fortemente condizionare dal peso che attribuisce ai giudizi espressi da altri. 3: vengono, però accettati, valori espressi da ceti diversi dal proprio. 4: per tale motivo assume una intensa risonanza negativa e, per certi versi, cruciale, avvertire il divario tra la propria condizione, posta a livelli bassi della gerarchia sociale, e quelle mete e quei valori, ritenuti socialmente rilevanti, ma difficilmente raggiungibili, a causa proprio della propria condizione marginalizzata. 5: l’unione in gruppo è conseguenza diretta di tale modalità di autopercepirsi, diviene infatti una sorta di situazione compensatoria per superare la frustrazione, generata dallo scarto tra limitatezza dei mezzi a propria disposizione e il possibile raggiungimento di quelle mete avvertite, dai singoli attori, come estremamente prestigiose, perché intrise di forte contenuto valoriale. 11. La devianza nella prospettiva interazionista: etichettamento. La teoria dell’etichettamento o labelling teory, si inserisce nella ampia prospettiva concettuale che fa riferimento rll’interazionismo simbolico. Secondo la teoria dell’interazionismo simbolico, la rilevanza maggiore deve essere attribuita alle interrelazioni che si stabiliscono proprio tra i vari membri. Pertanto, nella determinazione e qualificazione del funzionamento sociale, sono fondamentali le aspettative, le risposte agli altrui comportamenti. Secondo tale orientamento la devianza viene socialmente costituita, in quanto culturalmente definita nel processo di interazione sociale. Guadagnano particolare importanza categorie concettuali quali consenso sociale e reazione sociale; quest’ultima è vista come risposta negativa alle condotte socialmente non condivise, e, quindi, in definitiva, come applicazione di etichetta. Nell’ottica interazionista, la devianza non è un aspetto disfunzionale del sistema sociale, ma è, a esso, complementare: diviene necessaria e utile in quanto, proprio con l’individuazione della condotta deviante, si traccia una importante linea di demarcazione: il confine tra il giusto e l’ingiusto. L’interesse esplicativo e la riflessione teorica vengono, pertanto, indirizzate verso i processi di consolidamento e rafforzamento della devianza. Ma proprio perché quasi tutto è imperniato sull’immagine e sulla percezione sociale, diviene estremamente difficile per il soggetto sottrarsi all’etichettamento, una volta che gli sia stato attribuito. La persona, pur di guadagnare un ruolo e uno status sociale, finisce per accettare quanto gli viene inequivocabilmente attribuito, l’etichetta di deviante, dal contesto di appartenenza. Becker, a sua volta, individua tre passaggi con cui, in successione, si perviene all’etichettamento definitivo: 1: una prima fase è costituita dalla violazione, anche non voluta, di una norma; tale violazione può essere occasionale, non intenzionale o può addirittura avvenire per ignoranza della norma stessa. 2: proprio in seguito a questo primo episodio che, come detto, potrebbe essere involontario, la persona subisce il pubblico etichettamento a causa del quale viene relegato ai margini della comunità e vengono operati nei suoi confronti alcuni divieti; 3:il soggetto interessato è costretto ad accettare, infine, l’identità negativa attribuitagli eliminando ogni sua, eventuale, ambiguità residua. Uno dei maggiori esponenti dell’interazionismo è sicuramente Goffman, mette in risalto come, attraverso l’esperienza delle istituzioni totali, l’etichettamento acquisisca un generale e definitivo riconoscimento sociale; proprio l’esistenza dell’istituzionalizzazione determina un definitivo rinforzo facendo nascere categorie e concetti quali stigma e stereotipo del criminale. È proprio lo stigma a stabilire in maniera definitiva lo status di deviante, ancorando il soggetto a una condizione sociale nella quale è impossibile ripercorrere a ritroso, per eliderle, le varie tappe attraverso le quali vi è giunto. All’interno delle istituzioni totali, con l’alibi della potenziale riabilitazione, si realizza esclusivamente l’annullamento della personalità dell’interessato. Sintonizzato su teorizzazioni molto simili è David Matza. Questi nella sua opera più famosa, Come si diventa devianti, analizza il rapporto tra deviante e potere, considerando il secondo, non solo potere istituzionale, ma, soprattutto, sociale e culturale. Come gli altri integrazionisti, anch’egli vede nell’agire deviante, una modalità definitoria della cultura dominante. Matza prende in considerazione i meccanismi messi in atto nei confronti del deviante, il bando, la selezione e l’esclusione e, dalle sue analisi, scaturisce quella che, a suo parere, è la palese violenza del potere. 12. La devianza minorile come modalità comunicativa. Il modello fa riferimento a quelle intelaiature teoriche che potremmo chiamare tradizionali, ma si orienta entro coordinate che, muovendo dall’interazionismo simbolico, pervengono alla teoria dell’azione e alla teoria della comunicazione. L’agire deviante dei minori viene essenzialmente spiegato quale strumento, con cui veicolare che sciogliersi, danno vita a una cristallizzazione che chiamiamo comportamenti devianti. 16. Bullismo e cyberbullismo. Bullismo sia un comportamento di estrema violenza che a sua volta affonda le proprie radici nell’aggressività. Vi è molta somiglianza tra le definizioni di bullismo e aggressività. Vi è molta somiglianza tra le definizioni di bullismo e aggressività. Dollard e Miller mettono in relazione l’aggressività con il livello di frustrazione subita. Prendono le mosse dalle considerazioni di Freud secondo cui la frustrazione è uno stato di scontentezza e delusione derivate dall’essere stati ostacolati nella soddisfazione di un bisogno psichico. Quel che emerge, dai loro studi, è come sia proprio l’interruzione del processo di soddisfazione a creare aggressività, che è direttamente proporzionale all’intensità della delusione subita. In base a questa impostazione, quindi, il comportamento violento sarebbe la risultante di un processo di malsana evoluzione soggettiva. Ciò dice abbastanza su come il bullo sia una persona con notevoli problematiche. Il bullismo è un fenomeno ormai molto diffuso e crea un notevole allarma sociale. Proprio per la fascia d’età che ha prevalentemente come scenario l’ambiente scolastico. Il bullismo, per quanto abbia un preciso protagonista centrale, è pur sempre un fenomeno di gruppo. È necessario metterne in evidenza alcune componenti. Innanzitutto la sistematicità e prosecuzione nel tempo del comportamento aggressivo\persecutorio. Ma soprattutto la consapevole intenzione di voler arrecare, reiteratamente, danno alla vittima, sia in maniera fisica che psicologica. Una distinzione importante da fare è sicuramente tra bullismo maschile e femminile, perché, quest’ultimo, viene stimato in continua crescita, costituendo il 35\40% del fenomeno. Il bullismo femminile mira ad escludere dal gruppo e maltrattare uno o più elementi attraverso maldicenze e pettegolezzi. Quindi, il bullo è al centro del gruppo e lo gestisce con una qualche, sua abilità. Tra bullo e vittima si interpongono assistente e spettatori, più o meno attivi, a volte un difensore. Il cyberbullismo: il sistema di connessione alla rete, l’uso continuo dei new media hanno fatto si che buona parte della comunicazione umana ormai avvenga prevalentemente per via telematica. De Kerchove, allievo di Mc Luhan, sostiene che l’essere umano ha ormai elaborato una intelligenza connettiva. I cosiddetti social, in altri termini, garantiscono, con estrema facilità, una platea di enorme estensione e una altrettanto facile fruibilità da parte della suddetta platea. Nonché la possibilità di diffondere il messaggio in tempo reale. Il messaggio può rimanere per un tempo assolutamente indeterminato sul web. Sono interessanti 3 condizioni che vengono sottolineate per definire in maniera appropriata il fenomeno: Intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione; bisognerebbe aggiungerne un altro: l’esigenza che una platea, quanto mai vasta, conosca gli episodi di cui il bullo porta vanto. 17. I minori stranieri. Ultimamente il nostro paese è a sua volta divenuto meta di flussi migratori provenienti dall’estero, spesso da zone particolarmente depauperizzate. Tra i minorenni italiani, che in qualche modo entrano nel circuito penale, le ragazze rappresentano una quota non troppo significativa, circa il 5%. Tra i minorenni di origine straniera, invece, la presenza femminile è molto più consistente: intorno al 20%. L’incidenza della devianza dei minori stranieri, almeno stando a statistiche molto attendibili non è numericamente superiore a quella degli italiani. I minori stranieri, come d’altronde gli adulti, non rappresentano un unicum compatto ma suddiviso secondo le etnie. Emerge una multiforme tipologia di problematiche, che in buona parte li accomuna tra loro e agli italiani. È necessario rammentare che i minorenni stranieri costituiscono una fascia estremamente fragile nel tessuto sociale e sono, quindi, particolarmente esposti. Un aspetto particolare che sicuramente incide intensamente sulle condizioni della vita futura di molti giovani stranieri, è relativo alle modalità con cui essi sono arrivati nel nostro paese; perché il viaggio in ogni caso è un evento fortemente traumatico. Non sempre i giovani protagonisti del progetto migratorio hanno la possibilità di superare positivamente per le difficoltà in cui si imbattono, dopo essere giunti in Italia. Tra coloro che vi arrivano, bisogna distinguere i ragazzi che hanno viaggiato insieme un gruppo di adulti, quasi sempre i genitori, e i, cosiddetti minori non accompagnati. Vi è poi una fascia di minori stranieri particolarmente problematica: la seconda generazione, i ragazzi arrivati da piccolissimi o nati in Italia. La loro problematicità è in relazione alle modalità sfumate e ambigue con cui sono costretti a inserirsi nel nuovo contesto ambientale; è sicuramente una condizione di notevole disagio causata da una auto percezione conflittuale che oscilla tra senso di appartenenza e, al contempo, di estraneità. La sensazione di instabilità e precarietà può essere ulteriormente accentuata dalle difficoltà istituzionali. Non è sufficiente essere nati nel nostro paese per essere considerati italiani: bisogna attendere il compimento della maggiore età per poter richiedere la cittadinanza e ottenerla, solo dopo un iter burocratico piuttosto complesso. Al frastagliato mondo di ragazzi di origine non italiana va infine aggiunta un ulteriore categoria: i nomadi. Anche per essi, più ancora che per altri, si ripresenta il fulcro del problema: costruire una propria identità. I minori stranieri incontrano maggiori difficoltà proprio perché si trovano in situazione di auto percezione, e quindi di definizione di se stessi, quanto mai precaria. Già il pregiudizio esercitato nei loro confronti, agendo in maniera sfavorevole, ostacola l’iter che porta sia al presentarsi a se stesso, che al presentare il se al sociale, con un notevole pericolo di auto etichettamento negativo. Sono emblematici, gli appartenenti alla seconda generazione. Viene fortemente compromesso quel processo di socializzazione normativa che, ha lo scopo di formare quel capitale morale che delinea i profili identitari, grazie ai quali determinate coordinate comportamentali vengono ritenute socialmente legittime. 18. L’esigenza di integrare le teorie. Un contributo sicuramente interessante è quello che propone la costruzione di un complesso sistema all’interno del quale buona parte degli orientamenti teorici trovano una loro organizzazione, venendo considerati come vere e proprie variabili che, interagendo con altre variabili, acquisiscono una loro funzione specifica. L’assetto di fondo, con cui viene, globalmente, strutturato il modello, è basato sul presupposto secondo cui la devianza minorile può essere considerata una variabile dipendente da una condizione di deprivazione; quest’ultima assume la funzione di variabile indipendente ed è a sua volta, determinata dalla struttura socio-economica del contesto di appartenenza. Tra le due variabili si inseriscono le altre varie teorie esplicative: che, agendo come variabili intervenienti, qualificano la specificità effettiva del fenomeno. 19. Tertium non datur. Le cause del disagio adolescenziale e della devianza minorile sono da ricercarsi in dinamiche psico sociali. Esiste una ben precisa correlazione tra devianza e stato di deprivazione. Una conseguenza particolarmente rilevante consiste in quanto abbiamo definito privazione di futuro: l’intralcio all’esigenza progettuale del singolo individuo; esigenza che, soprattutto negli adolescenti, risponde al bisogno di potersi proiettare in un futuro attendibile. Le varie fasi evolutive descritte da Erikson, possono essere lette proprio in quest’ottica: ogni fase è preparatoria di quella successiva e determina il constante formarsi di un progetto complessivo, con cui verranno cadenzate le varie tappe del ciclo esistenziale, facendo rimanere costante l’esigenza di strutturarsi nel tempo e nello spazio. Qualora la disuguaglianza sociale fosse tale da rendere inverosimile la concreta realizzazione della propria attività progettuale, ne viene notevolmente vanificata la valenza e la funzione di stimolo alla crescita. Si può affermare che lo stato di deprivazione ostacola, a volte impedisce totalmente, molto più spesso distorce, l’attività programmatori della persona adolescente. Il vissuto adolescenziale di deprivazione, immette il minore in una sorta di circolo vizioso. 20. Lo sviluppo metropolitano. In anni recenti Harris ha evidenziato come, negli stati uniti, le donne divorziate a causa della repentina diminuzione della propria capacità economica, siano costrette a trasferirsi in quartieri malfamati, esponendo i propri figli ai pericoli delle cattive frequentazioni. Lo sviluppo urbano, avviato ormai su una direttrice di tipo metropolitano, con le sue contraddizioni è, quindi, una ulteriore tematica da non trascurare per comprendere il fenomeno devianza minorile. Le forme di interazione all’interno di questi vasti consessi urbani non solo sono sempre più composite e articolate, ma presentano spesso aspetti che potremmo definire: accentuata patologia sociale; in primo luogo il tasso di criminalità che è valutabile in almeno 10 volte superiore a quello delle zone rurali. Quindi la città è, nel suo assetto complessivo, fortemente gerarchizzata secondo una modalità non certamente causale, ma determinata dai processi di sviluppo economico. 21. Progettare per prevenire. Proprio per la sua ben specifica matrice psico sociale, intervenire sui processi di devianza minorile, sembra un problema piuttosto complesso e articolato. Creare condizioni che riducano la possibilità di adesione giovanile alla devianza, significa intervenire in quegli ambiti della società eziologicamente individuati come causa originaria del fenomeno. Una via può consistere nell’implementare una serie di iniziative di politiche sociale con le quali si permetta a porzioni sempre più larghe della popolazione minorile di non subire in maniera irreversibile gli effetti perversi della privazione di futuro. Parlare di prevenzione deve significare individuare le modalità maggiormente opportune, per attenuare le conseguenze della marginalità sociale e inibire, il più possibile, fenomeni di devianza minorile particolarmente vistosi e diffusi. La strada da seguire è costituita da quei progetti di intervento. Si tratta di formulare progetti tendenti all’incisione sociale. La reale differenza tra la progettazione sociale e altri tipi di intervento, per quanto apprezzabili questi possano essere, consiste proprio nel fatto che, contemporaneamente alla formulazione del progetto vengano anche costruiti gli indicatori attraverso cui si potranno misurare gli effetti più immediati della sua attuazione. È di non secondaria importanza, quindi, che un progetto sociale regga la sua credibilità e, la sua efficacia sulla costruzione di tali indicatori. Definizione di obiettivi realisticamente raggiungibili, metodologie da seguire, costruzione degli indicatori e valutazione finale, sono passaggi essenziali per la formulazione e la messa in opera di interventi sociali che abbiano un’effettiva delineazione tecnica e scientifica e, quindi, la massima incisività possibile. La progettazione sociale implica, a sua volta, la piena collaborazione delle varie agenzie di controllo e intervento sociale. Queste devono formulare progetti, tra loro coordinati, con un obiettivo comune: creare le condizioni più opportune per promuovere l’inclusione sociale dei minori. F) Tramite l’audizione di esperti (psicologi, psichiatri etc) Nell’effettuazione di tali accertamenti non è necessario rispettare formalità di procedura. Gli accertamenti vanno effettuati sin dal primo momento di contatto del giovane con l’autorità e vanno periodicamente aggiornati. Gli accertamenti sulla personalità andrebbero svolti solo se l’imputato è ancora minorenne al momento della loro effettuazione. 3.5. l’assistenza affettiva e psicologica al minorenne coinvolto nel procedimento. L’instaurazione di un procedimento penale a carico di un minorenne può produrre effetti negativi nello sviluppo della personalità del giovane. Per cercare di ridurre al massimo il pericolo il legislatore del 1988 ha previsto che in ogni stato e grado del procedimento sia garantita l’assistenza affettiva e psicologica al giovane tramite la presenza di determinati soggetti in grado di fornire il sostegno necessario per ridurre, nei limiti del possibile, il trauma dell’impatto col sistema giudiziario: la necessità cessa se il giovane, nel frattempo, compie il 18esimo anno di età. Le categorie di soggetti ai quali la norma si rivolge sono A) i genitori, B) l’altra persona idonea e C) i servizi minorili. G) normalmente coloro che possono sostenere al meglio i minorenni sono i genitori, il loro coinvolgimento per la prestazione del supporto psicologico e affettivo appare ordinariamente insostituibile. H) L’altra persona idonea indicata dal giovane e ammessa dall’autorità giudiziaria. È necessario che la richiesta pervenga dal giovane. È necessario un provvedimento di ammissione dell’autorità procedente, fondato sulla valutazione dell’idoneità della persona indicata a fornire l’assistenza psicologica e affettiva richiesta. Competenti nel periodo delle indagini sono il G.i.p., se l’istanza è inoltrata nel corso di un’udienza, e il p.m. negli altri casi. L’intervento della persona idonea va considerato alternativo a quello dei genitori. I) Al contributo dei servizi minorili si aggiungerà a quello fornito dai genitori o dall’altra persona idonea. 3.6. il divieto di pubblicazione e di divulgazione. Durante l’attività d’indagine è fatto divieto di pubblicare e divulgare qualsiasi notizia o immagine idonea a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento. La norma, sarebbe applicabile non solo ai casi in cui il giovane rivesta la qualità di indagato, ma anche se egli sia testimone o persona offesa. Il divieto appare violato anche quando, pur essendo state omesse le generalità del giovane, siano stati forniti elementi tali da agevolarne l’identificazione. La trasgressione del divieto determina l’integrazione del reato di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”. 3.7. i servizi sociali. Un ruolo fondamentale è rivestito dai servizi sociali. L’art 6 è stabilito che “in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria si avvale dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali”: vi sono indicati, quindi, sia i c.d. servizi ministeriali sia i servizi territoriali. Perplessità sorgono con riferimento al rapporto tra le due tipologie di servizi richiamati nell’articolo: se gerarchico o funzionale. Farebbe propendere per la prima soluzione il dato letterale, ma ragioni sistematiche inducono a ritenere che sussista fra i due servizi una distribuzione di competenze di tipo funzionale, legata ai ruoli di appartenenza. L’attribuzione di un ruolo sostanziale ai servizi sociali è una delle caratteristiche innovative del d.P.R n 448\1988. Particolarmente importante è l’attività da loro svolta nell’ambito della messa alla prova: di osservazione, trattamento e sostegno. L’osservazione e il trattamento sono da intendersi in maniera diversa rispetto agli omologhi del sistema penitenziario, ove sono strumenti, di individualizzazione della pena e di perseguimento della funzione rieducativa della medesima; qui si tratta, invece, di attività comunque funzionali allo svolgimento della prova comportamentale. Nell’art 27 d.lgs. n. 272\1989, poi, sono definite le funzioni specifiche dei servizi minorili nell’ambito della messa alla prova; in particolare, il compito di redigere il progetto d’intervento, la partecipazione all’esecuzione dello stesso, la facoltà di chiederne modifiche fino alla revoca in caso di ripetute e gravi trasgressioni, l’obbligo di fornire chiarimenti al giudice. Altro ruolo fondamentale svolto dai servizi è quello di contribuire alla ricostruzione della personalità del giovane. Sebbene, nell’art 9 d.P.R. n. 448\1988 il compito di effettuare gli accertamenti sulla personalità sia devoluto espressamente al p.m. e al giudice, nella prassi sono i servizi a eseguire tale attività. I contributi che i servizi forniscono nel processo, sono di due tipi: di apporto cognitivo all’autorità giudiziaria, attraverso l’anamnesi personale e sociale del minorenne, nonché il controllo operato sulla esecuzione delle varie misure disposte per dare indicazioni al giudice su eventuali determinazioni da assumere. In definitiva, i servizi minorili diventano strumento di realizzazione delle finalità di risocializzazione e di protezione del minore nello svolgimento del processo penale: mediante l’informazione costruiscono la consapevolezza del minore, attraverso il sostegno ne impediscono la stigmatizzazione, con la progettazione alimentano il reinserimento sociale, per mezzo dell’assistenza riducono al minor danno possibile gli effetti dell’impatto col sistema giudiziario. La giustizia minorile coinvolge l’ambiente avvalendosi della mediazione sociale dei servizi minorili: studiano la realtà socio- economico-culturale del territorio, rappresentano le esigenze del minore rispetto alla società, propongono soluzioni in virtù delle possibili risorse. In dottrina si ritene invocabile la sanzione della nullità, ai sensi dell’art 178 c.p.p., “soltanto qualora dovesse ritenersi violato il diritto all’assistenza difensiva tutelato dal comma 1 lett c della predetta norma”. Un ruolo molto importante è riconosciuto ai servizi sociali nel d.lgs. 2 ottobre 2018, n 121, contenente le norme sull’ordinamento penitenziario minorile. È in particolare l’ufficio di servizio sociale per i minorenni (USSM) a ricoprire funzioni essenziali perché: - redige, la proposta di programma di intervento educativo per l’ammissione del minorenne alle misure penali di comunità - Svolge, l’osservazione del minorenne, acquisendone i dati giudiziari e penitenziari, sanitari, psicologici e sociali, in coordinamento con i servizi socio-sanitari territoriali di residenza del giovane - Predispone gli interventi necessari per individuare un domicilio o un’altra situazione abitativa tale da consentire l’applicazione di una misura penale di comunità. Il ruolo di entrambi i servizi nell’esecuzione del programma, è definito nell’ordinanza che dispone la misura. Nel corso dell’esecuzione, l’USSM effettua delle relazioni al Magistrato di sorveglianza, che possono essere pure funzionali alla modifica delle prescrizioni, incontra l’affidato e lo assiste nel percorso di reinserimento sociale. - Ha rapporti con il minorenne ammesso alla semilibertà, definiti nel programma di intervento educativo - Ha la facoltà di proporre l’adozione di una misura penale di comunità al tribunale di sorveglianza. Nessuna facoltà di iniziativa è prevista per la sostituzione o la revoca della misura; l’USSM potrà solo fornire gli elementi informativi su cui si baserà l’eventuale decisione del giudice in tal senso; - Svolge, in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali, attività di controllo, assistenza e sostegno ai minorenni sottoposti a una misura penale di comunità per tutta la durata dell’esecuzione. - Fornisce informazioni, insieme con i servizi socio-sanitari territoriali, al direttore dell’istituto di pena in merito ai legami affettivi dei minorenni detenuti, per lo svolgimento dei colloqui previsti - In collaborazione con l’area trattamentale, nei 6 mesi precedenti, prepara e cura la dimissione dall’istituto del minorenne detenuto: elaborando programmi educativi, di formazione professionale, di lavoro e di sostegno all’esterno. 4. Le misure c.d. pre-cautelari. Nel capo II del d.P.R. n 448\1988 sono. Contenuti i provvedimenti interlocutori in materia di libertà personale, che possono essere adottati nei confronti del minore d’età. Sono disciplinate le ipotesi dell’arresto in flagranza, del fermo e dell’accompagnamento, definire misure pre cautelari; per l’altro, le misure cautelari applicabili ai minorenni. 4.1. l’arresto in flagranza di reato. Rispetto ai minori d’età, l’essere colti nell’immediatezza del fatto di reato dovrebbe essere indice di minore pericolosità soggettiva per la ridotta attitudine criminosa del minorenne. Si ha flagranza in 3 casi (art 382 c.p.p.): J) quando la persona è colta nell’atto di commettere un reato; K) Quando la persona, subito dopo aver commesso il reato, è inseguita dalla polizia giudiziaria, dall’offeso e da altro individuo. L) Quando la persona è sorpresa con cose o tracce tali per cui appaia autrice di un reato commesso immediatamente prima Perche si possa procedere all’arresto di un minorenne colto in flagranza di reato deve trattarsi, di un delitto non colposo punibile con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a 9 anni, oppure violenza sessuale o di uno dei reati previsti ex art 380 comma 2 lett e), f), g), h) c.p.p. L’immediata limitazione della libertà personale risulta giustificabile, cosi, solo se l’illecito commesso provochi un particolare allarme sociale. Non è poi possibile procedere all’arresto qualora ricorra la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere o dell’esercizio di una facoltà legittima o una causa di non punibilità. Poiché nell’ottica del legislatore la condizione di minorità richiede massime cura e attenzione, l’arresto, a differenza di quanto previsto nel codice di rito, non è mai obbligatorio, ma gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono titolari di una facoltà, il cui esercizio è condizionato sia dalla gravità del fatto che dall’età e dalla personalità del giovane. In generale, il potere della p.g. di arrestare un individuo è condizionato non solo dalla tipologia del fatto commesso, ma anche dalla gravità del reato e dalla pericolosità del soggetto; quest’ultima è desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto. Nel procedimento a carico di minorenni rileva parimenti la gravità del fatto. Per gravità del fatto deve intendersi l’allarme sociale e le conseguenze prodotte in concreto dalla condotta. Fra i criteri dell’art 16 non è menzionata espressamente la pericolosità del soggetto, ma si richiede soltanto di tenere conto dell’età, quindi dello sviluppo psico- fisico del giovane, e della personalità. Gli elementi dell’età e della gravità del fatto possono essere valutati abbastanza agevolmente da chi procede all’arresto, lo stesso non può dirsi con riguardo al requisito della personalità. Del concetto di personalità possono fornirsi due letture. Secondo un primo punto di vista, la personalità va valutata con riguardo ai processi educativi utili alla formazione del giovane; secondo altro punto di vista, la personalità va connessa con le esigenze di difesa collettiva, con la pericolosità del giovane e con la necessità dell’arresto sotto il profilo cautelare. Una volta che è stato effettuato l’arresto del minorenne, la polizia giudiziaria, se non procede alla liberazione del giovane, deve provvedere all’immediata comunicazione di quanto avvenuto a una pluralità di soggetti. All’esercente la responsabilità genitoriale o all’eventuale affidatario, perché fornisca il sostegno affettivo; infine, ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, perché diano il necessario supporto psicologico. Nel decreto sul processo ai minorenni, per garantire il dirotto costituzionale alla difesa, anche il difensore deve essere informato immediatamente. l’inosservanza del dovere d’informativa al p.m. dovrebbe produrre una nullità a regime intermedio e la stessa soluzione pare accoglibile nel caso del difetto della comunicazione al difensore; nessuna sanzione procedimentale è prevedibile per le altre omissioni. Il minorenne deve essere messo a disposizione del p.m. nelle 24 ore successive all’arresto; entro lo stesso termine deve essere trasmesso il verbale d’arresto, salvo che sia autorizzato un termine maggiore. Ricevuta la comunicazione dell’avvenuto arresto, il p.m. può disporre: a) che il minorenne sia condotto presso un centro di prima accoglienza o presso una comunità; b) Che il minorenne sia condotto presso l’abitazione familiare criterio di affettività crescente, nel senso che la successione topografica nella descrizione normativa delle singole misure ne rispecchia il grado d’incidenza, via via maggiore, sulla libertà personale. È stato previsto, un meccanismo tendenzialmente sanzionatorio in caso di violazione delle misure disposte: ogni qualvolta, il minorenne contravvenga agli obblighi che gli sono stati imposti, il giudice potrà sostituire la misura già disposta con quella immediatamente più grave (c.d. effetto a cascata). Il criterio della progressione sanzionatoria graduale è proprio del solo sistema minorile. Il limite dell’applicazione della misura immediatamente più grave riguardi la mera trasgressione al provvedimento già disposto, non anche l’ipotesi dell’aggravamento delle esigenze cautelari che rendano opportuna una misura diversa di quella progressivamente ulteriore. La custodia cautelare, che è la più grave fra le misure cautelari, è utilizzabile solo se si procede per delitti non colposi punibili con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a 9 anni, oltre che in alcune ipotesi nominalmente indicate; le altre misure nei casi di delitti per cui è previsto l’ergastolo o la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. La scelta giudiziaria del tipo di misura cautelare da disporre in concreto dipende dalla ponderazione di una serie di criteri; il giudice deve tenere in conto l’idoneità della misura alla realizzazione dell’esigenza cautelare, che può avere, di volta in volta, natura e intensità differenti. È necessario che la misura disposta sia proporzionata all’entità del fatto, che si ritiene commesso dal minorenne, e alla sanzione che sia stata o si reputi possa essere irrogata all’esito del giudizio. È stato individuato un requisito specifico per il procedimento minorile, consistente nell’esigenza di non interrompere i processi educativi in atto. Si realizza la c.d. personalizzazione delle misure cautelari, cioè il raccordo tra esigenze cautelari ed esigenze educative in relazione alla peculiarità del singolo minore ed alle sue caratteristiche di personalità ed alle sue risorse da potenziare; le esigenze educative possono\debbono porsi come limite alla applicazione di misure cautelari e come guida nella scelta delle misure più opportune, ma non come ragione della loro applicazione. In dottrina è stato anche sostenuto che le esigenze educative non vadano considerate presupposto di applicazione della misura coercitiva, bensì criterio di scelta del provvedimento più opportuno nel caso concreto, dopo che la decisione sul provvedimento cautelare sia stata già presa. Durante l’esecuzione della misura cautelare rivestono un ruolo essenziale i servizi minorili, cui è affidato il giovane per lo svolgimento delle opportune attività di sostegno e di controllo. Le misure sono disposte dal giudice con ordinanza motivata, sulla base della richiesta del p.m. Tale richiesta può essere consequenziale all’arresto in flagranza o al fermo del minorenne, come pure può pervenire in qualsiasi altro momento delle indagini o all’esito delle medesime. Quando è il G.i.p. a disporre la misura cautelare, la decisione è presa de plano. Tale procedura, rende più difficoltosa la valutazione giudiziaria della condizione personale del minorenne, con particolare riferimento ai processi educativi: l’esigenza di non interromperli potrebbe motivare invero il diniego di ogni provvedimento coercitivo. Gli unici elementi, di cui il giudice può servirsi, sono rappresentati dai risultati degli accertamenti sulla personalità del giovane e dalle eventuali relazioni dei servizi minorili. Inoltre, presa la decisione, il giudice può ricorrere all’interrogatorio di garanzia. L’interrogatorio costituisce comunque un obbligo per il giudice, a pena di inefficacia della misura disposta. Sulla richiesta del riesame o dell’appello contro le decisioni in materia di misure cautelari è competente il Tribunale per i minorenni del luogo dove ha sede l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza impugnata. Si è stabilito, che le misure cautelari siano applicate secondo le norme e con le modalità particolari previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che divengono maggiorenni durante l’esecuzione del provvedimento, a condizione che non abbiano compiuto il 25esimo anno di età, sempre che non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente. Può evidenziarsi che la funzione educativa delle misure cautelari è solo secondaria rispetto al principio della minima offensività del procedimento, se non sussistono i presupposti per dar corso a un provvedimento coercitivo, la misura cautelare non può essere utilizzata per favorire il processo educativo: a tal fine esistono i rimedi amministrativi. 5.1. Le prescrizioni. La prima delle misure cautelari applicabili al minorenne è costituita dalle prescrizioni. Esse consistono nell’imposizione al giovane di obblighi inerenti lo studio, il lavoro o ogni altra attività utile al suo percorso educativo. È sembrato doversi escludere che i contenuti delle prescrizioni possano consistere in comportamenti omissivi, non perché tale eventualità sia inattuabile, quanto per la struttura della norma, limitandosi cosi le potenzialità operative dell’istituto. La qualificazione normativa delle prescrizioni come specifiche impone al giudice di individuarle con esattezza e non di limitarsi a un generico rinvio, per esempio, alla frequentazione di un corso scolastico o all’intrapresa di un’attività lavorativa. La specificazione serve al minorenne per comprendere cosa deve fare, ai servizi per modulare il proprio intervento e allo stesso giudice per valutare l’entità delle violazioni. Condizioni per disporre le prescrizioni sono l’insussistenza di esigenze che impongono il ricorso a misure diverse e l’audizione dell’esercente la responsabilità parentale. Il primo di tali requisiti sembrerebbe connesso con la minima invasività del provvedimento, che renderebbe residuale la sua applicabile; il secondo con la scelta delle attività più utili e più fattibili. Il difetto dell’audizione dovrebbe dare origine a una nullità a regime intermedio. Il giudice, impone le prescrizione se in relazione a quanto disposto dall’art 19, comma 2, non risulta necessario fare ricorso ad altre misure cautelari: quindi, se riguardo al tipo di esigenze cautelari da soddisfare, all’entità del fatto, alla sanzione irrogabile e, soprattutto, al percorso educativo del minorenne ogni provvedimento più coercitivo appaia inopportuno in vista del conseguimento dell’obiettivo del recupero. Le prescrizioni hanno una durata ordinaria non superiore ai due mesi, decorsi i quali esse perdono efficacia. Il giudice, quando ricorrano esigenze probatorie, può rinnovare la misura per non più di una volta, al massimo, per altri due mesi. Secondo una parte della dottrina, la perdita di efficacia delle prescrizioni, una volta decorso il termine di durata, non si realizza automaticamente, occorre che il giudice adotti i provvedimenti necessari per l’immediata cessazione della misura; secondo altra parte della dottrina, invece, la necessità dell’adempimento giudiziario costituirebbe un formalismo ingiustificato rispetto agli obiettivi educativi del processo ai minorenni. Se il minorenne non ottempera agli obblighi che gli sono stati imposti, il giudice può sostituire le prescrizioni con la misura immediatamente più pervasiva: la permanenza in casa. È necessario che le violazioni delle prescrizioni siano state gravi e ripetute: occorrono le qualificazioni dell’entità e della frequenza. 5.2. La permanenza in casa. La permanenza in casa consiste nell’obbligo per il minorenne di rimanere presso l’abitazione familiare o in un altro luogo di dimora privata: c.d. obbligo di stare. Se il minorenne è infermo, la misura può essere eseguita in un luogo di cura pubblico o privato. Il legislatore ha riconosciuto al giudice la possibilità di integrare il contenuto percettivo della misura tramite la limitazione o il divieto della facoltà del minorenne di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono. Poiché, però, il procedimento deve rappresentare un’occasione di risocializzazione, il giudice, anche successivamente alla disposizione della permanenza in casa, può permettere al giovane di allontanarsi dal luogo in cui la misura è eseguita per svolgere ogni attività utile al suo percorso di crescita, secondo modalità di determinazione giudiziaria. La funzione di vigilanza nell’espletamento di questa misura cautelare è attribuita, in primo luogo, ai genitori, se il provvedimento è eseguito nella casa familiare, ai responsabili dell’abitazione, se il provvedimento è eseguito in un altro luogo di privata dimora. Compiti di controllo hanno i servizi minorili. Gli operatori sociali, poi, devono fornire il sostegno necessario per il raggiungimento dell’obiettivo educativo. L’inadempimento degli obblighi di vigilanza da parte dei genitori o delle persone diverse, presso le quali il minorenne vive, non dà origine a responsabilità penale. L’unico illecito, riguarda l’ipotesi in cui impediscano ai servizi minorili di svolgere le funzioni di sostegno e controllo e agli altri organi, come la polizia giudiziaria, di procedere alle verifiche sulla condotta del giovane. La condizione del minorenne sottoposto alla misura della permanenza in casa è equiparata allo stato di custodia cautelare ai soli fini del computo della durata massima del provvedimento; ne consegue che, il giovane non commetterà il delitto di evasione dell’art 385 c.p. Il termine di durata della misura inizia a decorrere dal momento dell’arresto, del fermo o dell’accompagnamento, nei casi in cui essa sia disposta a seguito di uno di tali provvedimenti, dalla sua esecuzione, nelle altre ipotesi. Per l’analogia con gli arresti domiciliari, secondo certa dottrina, appare necessario che il minorenne sia interrogato entro 10 giorni dall’esecuzione della misura; se non si dovesse procedere, la stessa perderebbe efficacia. Se il minorenne si allontana ingiustificatamente dall’abitazione o viola gravemente e ripetutamente gli obblighi ulteriori imposti dal giudice, la permanenza in casa può essere sostituita con la misura del collocamento in comunità. 5.3. Il collocamento in comunità. La misura del collocamento in comunità comporta il ricovero del minorenne presso una struttura pubblica o autorizza indicata dal magistrato; analogamente a quanto statuito per la permanenza in casa, se il minorenne è infermo, la misura può essere eseguita in un luogo di cura pubblico o privato. La funzione dell’istituto consiste nell’impedire la libera circolazione del giovane indagato. La peculiarità del procedimento a carico di minorenni impone, di salvaguardare le aspettative di recupero. È fondamentale il contributo dei servizi minorili. Le comunità, cui si fa riferimento nel decreto sul processo ai minorenni possono essere pubbliche. Le comunità pubbliche o autorizzate devono rispondere a determinati criteri legalmente definiti: 1) devono avere un’organizzazione di tipo familiare, con la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale e con capienza non superiore alle 10 unità, in modo cosi da garantire un contesto educativo e la predisposizione di eventuali progetti personalizzati; 2) devono ricorrere a operatori professionali delle diverse discipline; 3) devono avvalersi della collaborazione di tutte le istituzioni interessate e delle risorse del territorio, compresi gli operatori dell’amministrazione della giustizia, i quali possono essere distaccati presso tali organizzazioni. Il periodo di collocamento in comunità va computato nell’eventuale pena detentiva da espiare e la condizione del giovane ricoverato presso la struttura è equiparata allo stato di custodia cautelare per la determinazione della durata massima della misura: l’allontanamento dal centro non integra il delitto di evasione. Il giudice deve procedere all’interrogatorio del giovane entro 10 giorni dall’esecuzione della misura. Le violazioni gravi e ripetute delle prescrizioni imposte al minorenne o il suo allontanamento ingiustificato dalla comunità possono comportare l’applicazione della custodia in carcere. Si prevede che il periodo di carcerazione non possa essere superiore al mese. Concluso il periodo di detenzione, potrà essere applicato nuovamente il collocamento in comunità. 5.4. La custodia cautelare. La custodia cautelare è il più incisivo dei provvedimenti interlocutori limitativi della libertà personale, poiché implica lo stato di detenzione dell’indagato presso l’istituto penale per i minorenni. Questa situazione era stata oggetto di profonde critiche a causa degli effetti nocivi sulla personalità del giovane che era possibile rilevare dopo il contatto con l’istituzione carceraria. Si era evidenziato, che la carcerazione preventiva, anche per la sua durata limitata, non consentiva un intervento educativo. Proprio per circoscrivere al massimo il ricorso a tale rimedio, sono stati previsti dei limiti formali di applicabilità più ampi di quelli normalmente richiesti per le altre misure cautelari. Pertanto, la custodia cautelare può essere disposta solo se si procede per delitti non colposi punibili con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a 9 anni. Un’eccezione è costituita dall’ipotesi in cui la carcerazione sia consequenziale alla violazione del collocamento in comunità: in tal caso, basta che si proceda per un delitto punibile nel massimo con almeno 5 anni di reclusione. Il legislatore, ha temuto che il riferimento al solo criterio della misura edittale della pena non fosse sempre idoneo a garantire le esigenze di difesa sociale; perciò ha consentito il ricorso al provvedimento custodiale, sebbene il fatto fosse anche punibile con una sanzione inferiore a quella prima indicata. È stato statuito, che la detenzione cautelare possa essere disposta anche quando si procede per uno dei delitti, consumati o tentati, quello nel quale deve essere garantito il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova. Questa stessa garanzia non è riconosciuta, almeno in prima battuta, con il citato procedimento per decreto penale di condanna, che non è meramente acceleratori del dibattimento, ma alternativo a quest’ultimo. Qui, il pubblico ministero chiede al giudice per le indagini preliminari di definire il procedimento penale con un provvedimento decisorio non preceduto né dall’udienza preliminare né da altri strumenti difensivi volti a confutare l’intenzione dell’accusa di esercitare l’azione penale, quali l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini. L’imputato può recuperare il diritto al giudizio dibattimentale opponendosi al decreto penale di condanna e chiedendo lo svolgimento. Cosi impedisce al decreto di divenire esecutivo e conserva il diritto di provare la propria innocenza dinanzi al giudice del dibattimento. Proprio la facoltà di opposizione riconosciuta all’imputato ha indotto la Corte costituzionale a ritenere il decreto penale di condanna compatibile con il principio del contraddittorio nella formazione della prova, si rientra al quinto comma dev’art 111 Cost. 1.1. Nel procedimento penale minorile. Non vi sono reati per i quali il legislatore ha previsto procedimenti penali privi della fase dell’udienza preliminare. Non sussiste la divisione della competenza tra tribunale monocratico e collegiale. La notizia di reato relativa ad un soggetto minorenne non può, allorché il p.m. eserciti l’azione penale, essere sottratta al vaglio del G.u.p. Il G.u.p. non è un giudice singolo e togato, come nel procedimento ordinario, bensì collegiale e a composizione mista. È formato da tre 3 giudici: un magistrato e due giudici onorari ( un uomo e una donna). L’affinità tra la composizione del G.u.p. minorile e la composizione del tribunale minorile si spiega con il fatto che il primo è chiamato ad assumere decisioni assimilabili a quelle del secondo. Il G.u.p., tutte le volte in cui non deve emettere sentenza di non luogo a procedere, ha ugualmente la possibilità di evitare il rinvio a giudizio dell’imputato e chiudere nel merito la vicenda processuale del minore emettendo una sentenza di condanna o una sentenza che, non determina l’irrogazione sanzioni penali. Nel rito minorile la centralità contrassegna l’udienza preliminare e non il dibattimento. Nel procedimento minorile non tutti i riti speciali sono ammessi, essendo prevista l’esclusione del patteggiamento e del procedimento per decreto. Riguardo al primo, l’esclusione dovrebbe trovare giustificazione, nel fatto che l’applicazione della pena su richiesta delle parti presuppone nell’imputato una capacità di valutazione e di decisione che richiedono piena maturità e consapevolezza di scelte. Più coerente con i principi generali del processo penale minorile sembra, la motivazione adottata dalla Corte costituzionale nel respingere la questione di legittimità costituzionale dell’art 25 d.P.r. n 448\88 nella parte in cui, escludendo l’applicabilità del patteggiamento agli imputati minorenni, determinerebbe una disparità di trattamento tra questi ultimi e gli imputati maggiorenni. Se ne ricava, che non è configurabile un’incompatibilità assoluta tra la giustizia negoziale e il processo penale minorile, riguardando, l’incompatibilità quella specifica forma di giustizia negoziale che oggi vive nell’art 444 c.p.p. L’incompatibilità, scatta, non per il solo fatto che si attribuisca rilevanza all’accordo intercorso tra le parti, bensì perché non si subordina l’efficacia di tale elemento consensuale alla verifica del giudice in ordine all’insussistenza di pregiudizi per le esigenze educative del minore. Riguardo al procedimento per decreto, l’inoperatività nel rito minorile si spiega, oltre che per le stesse ragioni del patteggiamento, per la scarsa connotazione pedagogica della pena pecuniaria. Se ad essere incompatibile con la finalità educativa del processo penale minorile fosse la pena pecuniaria in sé, questa dovrebbe essere eliminata del tutto dal novero delle sanzioni delle quali dispone il giudice minorile. Nulla vieta al giudice minorile di emettere una sentenza di condanna a pena pecuniaria tutte le volte in cui tale pena sia prevista a livello edittale. Quel che, pertanto, determina l’incompatibilità è il modo in cui tale procedimento rende applicabile la pena pecuniaria: si passa dalle indagini preliminari alla condanna del giudice senza alcun contatto intermedio tra quest’ultimo e l’imputato. Contatto che nel rito minorile è assolutamente imprescindibile affinché il giudice possa responsabilizzare il minore e verificare tra i possibili epiloghi, sia il più utile alle sue esigenze educative. Per il giudizio direttissimo, alle normali condizioni codicistiche si aggiungono le condizioni specificamente prescritte dall’art 25 co 2 e 2 ter. È il giudice che deve verificare, volta per volta, quando i tempi contratti stabiliti per l’adozione di tale rito siano materialmente compatibili con i tempi richiesti per lo svolgimento delle suddette attività. Riguardo alla seconda condizione rappresenta lo strumento attraverso il quale il pubblico ministero, pur dopo avere accertato la sussistenza dei requisiti applicativi del rito acceleratorio, può legittimamente sottrarsi alla prescrizione di esercitare l’azione penale conducendo l’imputato dinanzi al giudice del dibattimento quando ritenga che tale modo di procedere rischierebbe seriamente di avere un impatto negativo sull’equilibrio psicofisico del minore, pregiudicandone in concreto le esigenze educative. Del giudizio immediato a richiesta del pubblico ministero esistono due ipotesi codicistiche: la prima è subordinata all’esistenza di una prova evidente e la seconda all’applicazione di una ordinanza di custodia cautelare che non sia stata annullata dal tribunale del riesame o rispetto alla quale siano decorsi i termini per proporre riesame. Il pubblico ministero è tenuto a richiedere al G.i.p. il giudizio immediato, ma, cosi come accade per il rito direttissimo, può decidere di procedere con il rito ordinario tutte le volte in cui ravvisi il pericolo di un grave pregiudizio per le esigenze educative del minore. I tempi materialmente necessari per lo svolgimento degli accertamenti personologici e per gli interventi assistenziali non sembrano contrastare con i termini, sufficientemente ampi, entro i quali può essere richiesto il giudizio immediato: 90 giorni dalla iscrizione della notizia di reato nel registro all’uopo previsto o 180 giorni dall’esecuzione della ordinanza di custodia cautelare che non sia stata annullata in sede di riesame o in relazione alla quale siano ormai decorsi i termini per la proposizione della richiesta di riesame. In relazione al giudizio abbreviato, è da escludere che le omesse indagini sulla personalità dell’imputato possano determinare la non ammissibilità del rito. Per la semplice ragione che tali accertamenti rientrano certamente tra quegli elementi che, in quanto necessari ai fini della decisione, il giudice, disposto il giudizio abbreviato, può assumere anche d’ufficio. 2. Lo svolgimento dell’udienza preliminare: i soggetti legittimati a parteciparvi. La disciplina per lo svolgimento dell’udienza preliminare nel processo penale minorile si ricava dalla lettura coordinata dell’art 31 d.P.R n 448\88 con gli artt. 416 e seguenti c.p.p. L’udienza viene fissata dal G.u.p. dopo che nella cancelleria di quest’ultimo sia stata depositata, la richiesta di rinvio a giudizio. l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare deve essere comunicato al o.m. e notificato all’imputato, alla persona offesa, ai servizi minorili che hanno svolto attività per il minorenne e all’esercente la responsabilità genitoriale. Lo stesso avviso va notificato al difensore di fiducia dell’imputato e, qualora il minorenne ne sia sprovvisto, al difensore d’ufficio. Tra la data in cui si perfeziona la notifica di tali avvisi e quella in cui si celebra l’udienza devono trascorrere almeno 10 giorni (c.d. termine a comparire). Sono previste a pena di nullità. Durante il termine per comparire e fino alla conclusione dell’udienza preliminare, le parti, la persona offesa e i rispettivi difensori possono prendere visione del fascicolo contenente la documentazione delle indagini preliminari, cosi come del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato. L’udienza si svolge in camera di consiglio. Nel rito ordinario normalmente pubblico, a pena di nullità, e solo eccezionalmente a porte chiuse. Nel rito minorile l’udienza non pubblica è la regola, atteso che il regime a porte chiuse non è previsto per la sola udienza preliminare ma anche per quella dibattimentale. Ipotesi nelle quali il dibattimento può eccezionalmente svolgersi in udienza pubblica non sono legate soltanto alla presenza di requisiti formali: a) richiesta proveniente da un imputato che abbia compiuto gli anni 16 b) Insussistenza di coimputati minori degli anni 16 c) Consenso di tutti i coimputati, ma anche a una valutazione finale di opportunità che il giudice deve adottare nell’esclusivo interesse dell’imputato. Tra i soggetti processuali destinatari dell’avviso di fissazione dell’udienza ve ne sono alcuni ( pubblico ministero e difensore dell’imputato) la cui partecipazione è necessaria e altri ( persona offesa e civilmente obbligato per la pena pecuniaria) la cui partecipazione è facoltativa. Vi sono poi altri soggetti processuali la cui presenza non è necessaria, ma la cui assenza non è priva di conseguenze giuridiche. La prima ipotesi riguarda l’esercente la responsabilità genitoriale, se assente senza un legittimo impedimento, può essere condannato dal giudice al pagamento di una sanzione pecuniaria. Mira a stimolare l’attiva e responsabile partecipazione di tali soggetti alla vicenda processuale del minore. Ma la presenza dei genitori può avere anche un’utilità di tipo probatorio, poiché consente al giudice di acquisire direttamente elementi cognitivi indispensabili per valutare l’opportunità e la fattibilità di determinate scelte processuali a preminente sfondo educativo (irrilevanza del fatto, messa alla prova). La seconda ipotesi concerne l’imputato non comparso, del quale il giudice può disporre l’accompagnamento coattivo. L’adozione di tale provvedimento è successiva alla dichiarazione di assenza dell’imputato dovuta a una sua esplicita o implicita rinuncia a parteciparvi, nel caso in cui manchi la prova di tale rinuncia, il giudice deve disporre con ordinanza la sospensione del processo; qualora l’assenza sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, l’udienza deve essere rinviata e di tale rinvio deve essere dato avviso all’imputato. Nel rito ordinario la possibilità di disporre l’accompagnamento coattivo dell’imputato è legata a finalità probatorie. Nel rito minorile, la stessa facoltà, assume potenzialità più ampie, direttamente riconducibili alla finalità educativa dell’intervento penale. L’accompagnamento coattivo appare funzionale, all’acquisizione di un imprescindibile contributo informativo del minore nell’ambito della predisposizione di progetti pedagogici e riconciliativi, a loro volta funzionali alla sospensione del processo e messa alla prova o all’adozione di provvedimenti urgenti di carattere civilistico. L’interesse alla presenza coatta dell’imputato potrebbe emergere anche in una fase avanzata dell’udienza preliminare, allorché il giudice maturi il convincimento in ordine alla sussistenza dei requisiti necessari per pervenire a una decisione definitoria del processo. Speculare all’accompagnamento coattivo è l’allontanamento del minore, che il giudice può disporre, sentite le parti, nel suo esclusivo interesse. Sancisce una deroga al diritto di quest’ultimo a partecipare personalmente al procedimento. L’allontanamento, non può essere disposto per tutta l’udienza ma con esclusivo riferimento a quelle specifiche attività processuali potenzialmente dannose per la psiche del minore. Fondamentale è anche la presenza in udienza dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia dei servizi dell’ente locale, in una duplice direzione. La prima ha come destinatario il minore, che dai servizi viene assistito psicologicamente nella scelta della strategia difensiva. La seconda ha come destinatario il giudice per il quale i servizi rappresentano gli interlocutori privilegiati per conoscere a fondo la personalità del minore e le sue risorse socio-familiari. Al giudice che constati, in udienza, l’assenza ingiustificata dei servizi, pertanto, non resta che tentare di rimediare a tale condotta omissiva rinviando l’udienza e disponendo che delle stessa sia dato nuovamente avviso ai suddetti. Qualora, l’assenza perduri, il giudice non può disporre l’accompagnamento coattivo degli operatori appartenenti ai servizi minorili o dell’ente locale, non essendo, qualificabili né come testimoni né come consulenti tecnici. Anche la possibilità di ritenere che l’assenza dei servizi incida sulla validità degli atti processuali sembra di difficile configurazione. 2.1. Il contraddittorio. L’udienza preliminare ha inizio con gli accertamenti del giudice relativi alla costituzione delle parti. G.u.p controlla la regolarità delle notificazioni relativi all’esercente la responsabilità genitoriale e ai servizi. Le notifiche e le comunicazioni che siano state omesse determinano la nullità dell’avviso di fissazione dell’udienza e devono, essere rinnovate. Conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice dichiara aperta la discussione. Il consenso dell’imputato è condizione verrebbero a creare disparità di trattamento, dato che vi sarebbero valutazioni diverse da giudice a giudice che inciderebbero sulla sostanza del fatto-reato. La cassazione ha ritenuto la questione manifestamente infondata. Il giudizio di tenuità è riferito al fatto e non alla fattispecie astratta di reato. In ciò si rinviene l’obbligo del giudice di effettuare una valutazione che non si arresti alla gravità edittale del reato ma che, prenda in esame anche gli aspetti propri della natura del fatto-reato, delle specifiche modalità della condotta oltre che delle sue conseguenze. Il requisito dell’occasionalità del comportamento non deve essere inteso con senso cronologico: se, il legislatore avesse voluto attribuirgli tale significato, avrebbe dovuto indicare un limite certo. Di difficile decifrazione è l’ultimo requisito: il pregiudizio per le esigenze educative dell’imputato. Alcuni ritengono trattarsi di una formula avente funzione esplicativa degli altri presupposti. L’impostazione, però, appare troppo radicale per poter essere accolta. Esiste, un requisito non scritto: l’accertamento della responsabilità dell’imputato sulla base degli elementi di conoscenza sino a quel momento acquisiti dal giudice. Molto indicativa, è la circostanza che l’art 27 non riferisce l’irrilevanza al reato ma al fatto, vale a dire ad un dato la cui valutazione non può operare su di un piano esclusivamente astratto. Ancora più indicativo è il riferimento all’occasionalità del comportamento. È nel giusto, quindi, chi osserva che i suddetti parametri cui il giudice deve ispirare la propria decisione postulano già risolto il quesito sulla responsabilità, di cui rappresentano un posterius. Determinante è il fatto che l’art 32, co.1 d.P.R. n 448\88 indichi l’irrilevanza del fatto tra le sentenze di non luogo a procedere la cui emissione in sede di udienza preliminare è subordinata all’esplicito consenso del minore. La necessità del consenso si pone proprio in quanto il giudice può pervenire anticipatamente a quella prova che l’art 111 cost colloca fisiologicamente in sede dibattimentale. Constatato, nella prassi giudiziaria, il significativo e proficuo ricorso alla formula di proscioglimento prevista dall’art 27 d.P.R. n 448\88, il legislatore nel processo minorile, introducendo, nell’ambito del procedimento penale davanti al giudice di pace, una nuova ipotesi di irrilevanza del fatto. Caratterizza l’irrilevanza del fatto applicabile dal giudice di pace penale è la sua preminente funzione conciliativa e il conseguente posto di rilievo che a tal fine viene attribuito alla vittima del reato. La particolare tenuità del fatto non può essere dichiarata, nel corso delle indagini preliminari, quando risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento e, una volta esercitata l’azione penale, allorché vi sia opposizione della medesima persona offesa. L’eterogeneità di questa disciplina rispetto ai principi generali del processo penale minorile consente di ritenere che il giudice minorile, quando si trovi a giudicare reati ordinariamente rientranti nella competenza del giudice di pace, non possa far uso della irrilevanza del fatto. Più recentemente, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è stata introdotta nel codice penale, con una disciplina (art 131 bis c.p) il cui contenuto ricalca solo in parte quello dell’art 27 d.P.R n. 448\1988. La norma codicistica limita l’applicabilità dell’istituto ai reati per il quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, ovvero la pena pecuniaria pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena e fissa alcuni fattori ostativi alla valutazione giudiziale sia della particolare tenuità dell’offesa sia della non abitualità del comportamento deviante. Nel diverso ambito riservato alla discrezionalità del giudice minorile si palesa la differenza fondamentale tra le due misure: l’una (quella codicistica), finalizzata alla rapida definizione del procedimento penale in quelle situazioni in cui la modesta lesività del reato renderebbe ingiustificato il dispendio di risorse processuali; l’altra (d.pr. 448\1988) volta alla destigmatizzazione del minore sulla base di una valutazione specifica della sua personalità. Può ritenersi che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, non è applicabile, in via residuale o congiunta, al processo minorile. Perdono giudiziale (art 169 c.p), nonostante la comune finalità, però questo istituto non si sovrappone integralmente all’irrilevanza del fatto, mentre l’irrilevanza del fatto può essere applicata a qualunque ipotesi di reato, indipendentemente dall’entità della pena irrogabile, il perdono giudiziale non può essere disposto quando, per il reato commesso dal minore, la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale superiore nel massimo a due anni o una pena pecuniaria superiore a 1549,37 euro, anche se congiunta a detta pena. Per l’irrilevanza del fatto non esiste, almeno sul piano formale, un limite massimo di applicazione, per il perdono giudiziale un limite di tal fatta esiste: esso non può essere concesso più di una volta. Il problema subentra quando a) il reato rientra nei limiti di pena di cui all’art 169 co1, cp.; B) il minore si asterrà nel futuro dal commettere ulteriori reati. In questi casi, l’ambito operativo dell’irrilevanza del fatto rischia di sovrapporsi a quello del perdono giudiziale, cosi da rendere necessaria l’individuazione di uno spartiacque; a nostro avviso deve applicarsi il perdono giudiziale quando, le esigenze di prevenzione generale e speciale non sembrano poter essere soddisfatte da una pronuncia che, non solo non punire il reo, ma si astiene altresì dall’affermare la significanza antisociale che connota il suo comportamento. Se con declaratoria di cui all’art 27 d.P.R. n 448\1988 non si punisce il reo sia perché ritiene che non tornerà a delinquere sia perché si valuta il fatto-reato oggettivamente irrilevante; con il perdono giudiziale si trasmette un messaggio di diverso tenore: il fatto-reato è grave al punto che meriterebbe una condanna, ma lo stato si astiene dall’esercitare la propria pretesa punitiva perché crede che il reo abbia compreso l’antisocialità del comportamento posto in essere e che, pertanto, non vi ricadrà. La maggiore afflittività che, si attribuisce al perdono giudiziale trova riscontro in un pregiudizio che sussiste per tale misura e non anche per l’irrilevanza del fatto, vale a dire l’iscrizione della relativa sentenza nel casellario giudiziale sino al compimento del 21esimo anno di età. 4. La messa ala prova: la ratio. La messa alla prova disciplinata dall’art 28 d.P.R. n. 448\88 rientra nella categoria giuridica del probation. Possono essere cosi definiti quegli istituti con i quali lo Stato rinuncia, in tutto o in parte, alla sua pretesa punitiva in cambio della dimostrazione, da parte del reo, di aver compreso il disvalore della propria scelta deviante e di non volere, per il futuro tornare a delinquere. Tali istituti, poi, possono essere distinti, in base alla fase procedimenyale nella quale sono applicati, in probation processuale e probation penitenziario. Il probation processuale sospende lo svolgimento del processo di cognizione e, in caso di esito positivo della prova, fa si che il giudice si astenga dall’emettere la sentenza di condanna. Il probation penitenziario, si applica nella fase esecutiva della pena e incide, sulla quantità e qualità della pena stessa. Alla prima categoria appartengono la “sospensione del processo e messa alla prova” dell’imputato minorenne e quella, introdotta più recentemente, dell’imputato adulto; nella seconda categoria rientra l’affidamento in prova al servizio sociale, la cui concessione e revoca è di competenza del tribunale di sorveglianza. Elemento comune a entrambe le categorie è la prova comportamentale che si richiede al reo. L’imputato viene sottoposto a una forma di trattamento rieducativo extrapenitenziario, la cui esecuzione viene affidata al Servizio sociale. Nella messa alla prova si incarnano alcuni dei principi fondamentali del nuovo processo penale minorile. Al suo interno è possibile cogliere, l’intento di responsabilizzazione del minore: la rinuncia alla sanzione penale tradizionale è offerta al minore come il positivo completamento di un progetto educativo. La messa alla prova è lo strumento che più di ogni altro consente al giudice di fornire al minore una risposta educativa individualizzata: la prova alla quale viene sottoposto l’imputato non è soggetta a vincolanti indicazioni legislative, dovendo di volta in volta collegata al modus vivendi del minore e al suo prevedibile sviluppo personologico. A tutto ciò deve aggiungersi il fattore della tempestività dell’intervento educativo. Cosi da evitare un tardivo intervento post-iudicatum, che comporterebbe il rischio di dover agire su una personalità ormai consolidata in senso deviante. 4.1. I presupposti. Le norme da analizzare sono contenute negli artt. 28 e 29 d.P.R n 448\1988 e nell’art 27 d.lgs n. 272\89. L’udienza preliminare è il primo momento nel quale la messa alla prova può essere disposta. L’art 28 è molto scarno di indicazioni, limitandosi a stabilire che: “il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova disposta a norma del comma 2”. Tale vuoto legislativo è stato colmato dall’elaborazione interpretativa della giurisprudenza e della dottrina. Deve, ritenersi la necessità che il giudice, prima di mettere alla prova il minore, ne accerti la penale responsabilità, pur astenendosi dalla sua formale attribuzione. Se cosi non fosse, la stessa finalità dell’istituto ne uscirebbe compromessa, giacché si mirerebbe alla rimozione di una scelta deviante dal presupposto logico non ancora dimostrato. Potrebbe obiettarsi, che ciò che importa è soltanto accertare un atteggiamento mentale di devianza. Il che, però, vorrebbe dire far regredire il sistema penale minorile da diritto penale del fatto a diritto penale dell’autore, ove ciò che si punisce non è l’effettiva lesione di un bene giuridico costituzionalmente protetto ma la mera intenzione di porsi in contrasto con l’ordinamento giuridico. Con l’ulteriore conseguenza di fare entrare l’art 28 in netto contrasto con uno dei capisaldi della riforma del processo penale minorile, cioè quello di porre fine al c.d. “paternalismo giudiziario” e di assicurare al minore le stesse garanzie processuali riconosciute all’imputato adulto. Si consideri, con la messa alla prova il giudice può impartire prescrizioni comportamentali in grado di incidere sulla libertà del minore. Il secondo requisito applicativo della messa alla prova (il consenso del minore) discende dal modo in cui il suddetto accertamento di responsabilità viene effettuato dal giudice. In sede di udienza preliminare, è inevitabile che l’accertamento probatorio sia strutturalmente incompleto, non ancora passato, cioè, alla verifica del giudizio dibattimentale, dove la prova non viene importata dal fascicolo del p.m. ma formata ex novo nel contraddittorio tra le parti. Il consenso del minore, allora, diviene necessario perché, ai sensi dell’art 111 co, 4 e 5 Cost, possa prescindersi da tale verifica e giungersi, con la sospensione del processo e messa alla prova, a una definizione anticipata della vicenda processuale. Ma il consenso del minore, a nostro avviso, deve ritenersi necessario anche la funzionalità dell’istituto. La messa alla prova ambisce alla progettazione di un nuovo percorso di vita che sia idoneo ad allontanare definitivamente il minore dalla scelta deviante. Condizione imprescindibile è che il minore vi aderisca spontaneamente. Il terzo requisito applicativo dell’art 28 d.P.R. n. 448\88 riguarda la personalità del minore. La messa alla prova non può essere utilizzata come uno strumento per conoscere la personalità del minore imputato. I suoi destinatari, piuttosto, sono soggetti la cui personalità il giudice è già in grado di formulare un giudizio prognostico a evoluzione positiva. Il giudice, può sospendere il processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova a tal fine disposta. Occorre un ulteriore filtro che consenta al giudice di non applicare l’istituto in modo generalizzato, bensì di riservarlo a quelle sole situazioni in cui siano già riscontrabili potenzialità positive che, se ulteriormente e adeguatamente stimolate dalla messa alla prova, appaiono suscettibili di consolidamento. Questa impostazione è condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale condizione essenziale per la sospensione del processo con la messa alla prova del minore è la possibilità che questa consenta un giudizio prognostico positivo sulla sua rieducazione e sull’evoluzione della personalità verso modelli socialmente adeguati. Non rientrano tra i destinatari tutti quei soggetti nei cui confronti la messa alla prova si rivelerebbe inutile, o peggio, dannosa. Il quarto e ultimo requisito applicativo consiste nella funzionalità del progetto rispetto alle prospettive di risocializzazione dell’imputato. Formulato il giudizio positivo in ordine all’evoluzione della personalità del minore, il giudice deve accertare che vi siano le condizioni affinché tale prospettiva non rimanga teorica. Il documento nel quale tali risorse vanno individuate ed organizzate è il progetto di intervento, deve essere elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali. Il progetto deve prevedere: D) le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare. E) Gli impegni specifici che il minorenne assume F) Le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa. 32, co 1 d.P.R. n 448\88, non menziona la sentenza de qua, la quale, sembrerebbe subordinata alla sola richiesta del pubblico ministero. Se cosi fosse, sarebbe lecito avanzare più di un dubbio sulla ragionevolezza di tale differenziazione normativa in presenza di un presupposto comune. Da qui, la giusta convinzione che il principio posto dal primo comma dell’art 32 d.P.R. n 448\88 abbia carattere generale e il consenso preventivo dell’imputato si debba considerare condizione imprescindibile anche per la pronuncia prevista dal comma 2. Il consenso del minore non sostituisce l’accertamento della responsabilità da parte del giudice, limitandosi a modificarne le forme rispetto al modello costituzionalmente imposto in via generale. Poiché opera esclusivamente sul metodo, il consenso del minore non modifica neanche l’intensità del convincimento che il giudice deve raggiungere al fine di affermare la colpevolezza dell’imputato. Esso non può essere assimilato al consenso che nel processo penale caratterizza il patteggiamento. Ne deriva che nel processo penale minorile l’udienza preliminare non può concludersi con la sentenza di condanna tutte le volte in cui il giudice ritenga gli elementi acquisiti insufficienti o contraddittori: qualora la carenza probatoria non appaia suscettibile di evoluzione dibattimentale, s’impone la sentenza di non luogo a procedere; in caso contrario, il rinvio a giudizio. Il minore che presta il consenso apporta un importante contributo all’economia del processo, giacché, determinando la definizione anticipata del proprio processo, permette al giudice dibattimentale di concentrarsi sui casi che necessitano di un maggior dispendio di energie. La diminuzione della pena può incidere, sia sull’entità della pena pecuniaria principale sia sulla determinazione dei limiti massimi di pena detentiva entro i quali la stessa pena può essere convertita in sanzione sostitutiva. Inizialmente, la riduzione di pena derivante dall’emissione della sentenza di condanna in sede di udienza preliminare si aggiungeva a un altro vantaggio, riguardava la delimitazione dei presupposti applicativi delle sanzioni sostitutive nei confronti degli autori di reato minori d’età, senza alcun collegamento con la sede processuale nella quale veniva adottato il relativo provvedimento. Il vantaggio stava nel fatto che il limite di due anni era ben più ampio di quello stabilito all’epoca dall’a l. n. 689\81 per l’applicazione delle medesime sanzioni ai condannati adulti: sei mesi per la semidetenzione e tre mesi per la libertà controllata, successivamente aumentati, ad un anno e sei mesi. Ciò che per gli adulti era uno strumento volto a fronteggiare gli effetti negativi delle sanzioni detentive brevi (inidonee, proprio perché troppo brevi), per i minori fungeva da rifiuto della pena detentiva tout court (non potendosi, definire breve una pena detentiva di due anni). Oggi, tale considerazione non è più rilevante, anche per gli adulti il limite di pena detentiva entro il quale può essere applicata la più grave delle sanzioni sostitutive è stato ampliato a due anni. Residua, un vantaggio, mentre per i minori il limite dei due anni riguarda indistintamente la semidetenzione e la libertà controllata, per gli adulti i limiti di pena detentiva continuano a essere differenziati in relazione alle singole sanzioni sostitutive: due anni per la semidetenzione, un anno per la libertà controllata e sei mesi per la pena pecuniaria. La volontà dell’imputato assume rilevanza, oltre che in via preveniva, anche successivamente all’emissione della sentenza di condanna. Egli, entro 5 anni dalla pronuncia, può togliere efficacia alla condanna presentando opposizione al G.u.p.. Con tale atto l’imputato richiede il giudizio davanti al tribunale per i minorenni. Il G.u.p., qualora non debba dichiarare l’inammissibilità dell’opposizione, deve trasmetterla al tribunale per i minorenni competente per il giudizio, il quale, a sua volta, deve revocare la sentenza di condanna e procedere nelle forme ordinarie. Il sistema cosi configurato ricalca il procedimento per decreto. Con una differenza: in quello, il G.i.p, su richiesta del pubblico ministero, emette il decreto penale di condanna a pena pecuniaria senza alcuna previa forma di contraddittorio, né verbale né cartolare; in questo, la sentenza di condanna giunge dopo l’udienza preliminare, che, sebbene, in forme diverse da quelle stabilite per il dibattimento, garantisce il contraddittorio tra le parti. Mentre nel procedimento per decreto le esigenze di economia processuale giustificano il sacrificio del diritto di difesa dell’imputato, nella situazione relativa alla sentenza di condanna le medesime esigenze di celerità non possono, neanche in via provvisoria, prevalere sull’obbligo istituzionale di perseguire il recupero del minore. Il giudice, può emettere la sentenza di condanna solo dopo che gli elementi acquisiti nell’udienza preliminare gli abbiano consentito di escludere il ricorso a strumenti aventi maggiore connotazione educativa, quali la messa alla prova, l’irrilevanza del fatto o il perdono giudiziale. 6. Il dibattimento: lo schema generale. L’ampio ventaglio degli strumenti messi a disposizione del G.u.p. dovrebbero rendere il dibattimento un evento residuale. Sono molteplici le situazioni il cui verificarsi determina l’instaurazione dell’udienza dibattimentale: 9) il minore non presta il consenso e non vi sono gli estremi per l’emissione della sentenza di non luogo a procedere. 10) Il minore presta il consenso ma, non essendo certa la sua penale responsabilità, le possibili definizioni anticipate del procedimento risultano inapplicabili. 11) Il minore presta il consenso e la sua penale responsabilità è sufficientemente provata, ma del rito speciale astrattamente applicabile difetta di diverso requisito 12) Il minore o il pubblico ministero chiedono il giudizio immediato 13) Il pubblico ministero procede con il rito direttissimo. Affinché il dibattimento si instauri validamente è necessario, che siano stata rispettate le regole volte a garantire che l’imputato abbia conoscenza della data dell’udienza e disponga di un congruo periodo di tempo per preparare la difesa. La disciplina muta in base al fatto che l’imputato sia o meno presente al momento della lettura del provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare: l’imputato presente apprenderà in quello stesso momento la data dell’udienza dibattimentale e non riceverà nessun ulteriore avviso; l’imputato del quale il G.u.p ha legittimamente dichiarato l’assenza, ha diritto alla notifica di tale provvedimento. In entrambi i casi (imputato presente o assente) è previsto che tra la data del decreto e la data fissata per il giudizio intercorra un termine non inferiore a 20 giorni. Durante tale periodo è possibile prendere visione dei due fascicoli formati dal G.u.p.; il fascicolo per il dibattimento e il fascicolo del p.m. Il primo fascicolo è cosi denominato perché destinato alla cancelleria del giudice competente per il giudizio. All’inizio del dibattimento e per tutta la sua durata, il giudice disporrà esclusivamente di tale fascicolo, che sarà integrato con la documentazione delle nuove prove. Tutti gli atti diversi da quelli destinati al fascicolo del dibattimento concorrono a formare il fascicolo del pubblico ministero. In tale fascicolo, confluisce, ove esistente, il fascicolo del difensore cosi denominato perché contenente gli atti delle investigazioni difensive che nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare, il difensore della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa ha ritenuto di presentare direttamente al giudice. Durante il dibattimento, il fascicolo del pubblico ministero non è nella disponibilità del giudice, bensì delle sole parti. È espressamente stabilito che le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del p.m., nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva. L’accordo può essere raggiunto sia in sede di udienza preliminare, sia in sede di atti introduttivi del dibattimento. Aperta l’udienza, il presidente del tribunale controlla la regola costituzione delle parti. Successivamente, le parti possono sollevare questioni preliminari, concernenti: N) la competenza per territorio o per connessione O) Le nullità indicate nell’art 181 co, 2 e 3 c.p.p. P) La citazione o l’intervento della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria Q) L’intervento degli enti e delle associazioni previsti dall’art 91 c.p.p. R) Il contenuto del fascicolo per il dibattimento S) La riunione e la separazione dei giudizi. Il termine entro il quale le questioni devono essere proposte è previsto a pena di decadenza. Le questioni vanno discusse sinteticamente dal p.m. e da un difensore per ogni parte privata e sono immediatamente decise dal giudice con ordinanza. Quest’ultima è impugnabile dopo la conclusione del dibattimento unitamente all’impugnazione contro la sentenza. Concluse le suddette attività, il presidente dichiara formalmente aperto il dibattimento e dispone che sia data lettura dell’imputazione. Le parti indicano i fatti che intendono provare e chiedono l’ammissione delle prove. L’oggetto all’interno del quale le parti possono esercitare il proprio diritto alla prova delineato come l’art 187 c.p.p. A) i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità, alla determinazione della pena o della misura di sicurezza; B) i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. Possono essere richieste sia prove già disciplinate dalla legge sia prove atipiche. Queste ultime, solo se risultano idonee all’accertamento dei fatti e non pregiudicano la libertà morale della persona. Affinché il contraddittorio rappresenti una contrapposizione dialettica reale è necessario garantirne l’uso corretto, evitando, le prove a sorpresa e consentendo alle parti di prepararsi adeguatamente. Il codice di rito pone a carico di ciascuna delle parti l’onere di depositare nella cancelleria del giudice, almeno 7 giorni prima della data fissata per il dibattimento, una lista contenente l’indicazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici etc. Nella stessa lista la parte deve indicare i verbali di prove di altro procedimento penale dei quali intende chiedere l’acquisizione. Il mancato assolvimento di questo onere comporta l’inammissibilità della richiesta. L’art 495 co 2 c.p.p. che l’imputato ha diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico e che lo stesso diritto spetta al p.m in ordine alle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico. L’esercizio del diritto alla controprova non è subordinato al rispetto del termine fissato per il deposito della lista. L’art 468 co,4 c.p.p. ciascuna parte può richiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici anche quando si tratti di soggetti non compresi nella propria lista. Qualora se ne abbia la possibilità, si può perfino prescindere dalla richiesta di autorizzazione alla citazione, presentando gli stessi soggetti direttamente al dibattimento. Per il diritto alla controprova un limite generale sussiste ed è individuabile proprio nelle richieste di prova che seguono la dichiarazione di apertura del dibattimento e precedono l’inizio dell’istruzione dibattimentale. È questo il momento in cui il giudice è chiamato a provvedere con ordinanza all’ammissione delle prove richieste dalle parti. Coerentemente con l’ideologia del modello accusatorio, il sindacato del giudice in ordine alle richieste di prova è molto ristretto, cosi facendo, si garantisce alle parti un vero e proprio diritto (diritto alla prova) e per un altro verso, si preserva l’imparzialità del giudice. Stante il disposto dell’art 190 co 1 c.p.p. le sole prove che il giudice non può ammettere sono quelle vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti. È manifestamente superflua la prova che si propone di dimostrare una circostanza già acquisita in altro modo e non contestata da alcuno. È manifestamente irrilevante la prova assolutamente inconducente rispetto alla regiudicanda. È preclusa al giudice qualsiasi valutazione preliminare sulla fondatezza del potenziale risultato probatorio e, ancora di più, sulla mera opportunità della prova. I requisiti ai quali è subordinata l’ammissione della prova non hanno una dimensione necessariamente statica. Partendo da questo presupposto, si consente al giudice di revocare sentite le parti in contraddittorio, i provvedimenti sull’ammissione della prova. La revoca può avere effetti limitativi o ampliativi: nel primo senso, è previsto che il giudice possa revoca l’ammissione di prove che risultano superflue; nel secondo, che il giudice possa ammettere prove già escluse. L’istruzione dibattimentale inizia con l’assunzione delle prove richieste dal p.m. e prosegue con l’assunzione di quelle richieste dalle altre parti. Prima le prove richieste dalla parte civile, dal responsabile civile e dal civilmente obbligato per la pena pecuniaria, poi quelle richieste dall’imputato, nel medesimo ordine può svolgersi, appena terminata l’assunzione delle prove a carico dell’imputato, l’esame delle parti private, sempre che le stesse parti ne abbiano fatto richiesta o vi abbiano consentito. Questo ordine deriva dalla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art 27 co,2 Cost, è sul p.m. che grava l’onere di provare l’ipotesi accusatoria al di là di ogni ragionevole dubbio. Se l’onere non viene assolto, l’ipotesi rimane tale la suddetta presunzione si trasforma in una regola di giudizio. Se, invece, il p.m. ha dato un contenuto probatorio all’accusa, 6.2. gli epiloghi. Il tribunale per i minorenni dispone di una varietà di epiloghi del giudizio di primo grado più ampia rispetto a quella della quale usufruisce il tribunale nel procedimento penale ordinario. In quest’ultimo, il giudice, oltre alla tradizionale alternativa decisoria dispone della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, mentre non può applicare la sospensione del processo con messa alla prova. Nel processo penale minorile alla tradizionale gamma decisoria del giudice penale di primo grado si aggiunge l’applicabilità del perdono giudiziale e della messa alla prova, che, non incontra limiti formali di ammissibilità derivanti dalla pena edittale o dal tipo di reato. La presenza di tali istituti nel dibattimento minorile, dovrebbe costituire l’eccezione e non la regola, dovendosi presumere che al giudizio di primo grado giungano solo quelle notizie di reato per le quali il G.u.p. ha già ritenuto non praticabile un esito non sanzionatorio e inevitabile il rinvio a giudizio. Dell’applicabilità del perdono giudiziale e della messa alla prova al giudizio di primo grado non è lecito dubitare. L’art 169 c.p. afferma che il giudice può concedere il perdono giudiziale astenendosi dal pronunciare il rinvio a giudizio o, quando si proceda al giudizio, dal pronunciare condanna. Riguardo alla seconda, l’art 29 d.P.R. n 448\88 prevede che decorso il periodo di sospensione, il giudice, quando ritiene che la prova non abbia dato esito positivo provvede con le forme previste, rispettivamente, per l’udienza preliminare e l’udienza dibattimentale. Prima della sentenza della corte costituzionale n 149 del 2003 era controversa l’applicabilità al dibattimento dell’irrilevanza del fatto. Parte della dottrina riteneva non tassative le indicazioni contenute nell’art 27 co.1 e 4 d.P.R. n 448\88, secondo le quali l’irrilevanza del fatto può essere pronunciata durante le indagini preliminari oppure nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato. La natura sostanziale dell’irrilevanza del fatto trovava un riscontro solo parziale nella sentenza n 250\91 della corte costituzionale, la quale aveva ritenuto tale natura prevalente. Ma il vero ostacolo all’estensione applicativa dell’irrilevanza del fatto era rinvenibile nel citato art 27 co 4 d.P.R. n 448\88. Tale norma, nel sancire l’operatività dell’istituto all’interno del giudizio immediato e del giudizio direttissimo, rendeva manifesto il proprio intento. Infatti è intervenuta la sentenza n 149\03 della consulta, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 27 d.P.R. n.448\88 nella parte in cui prevede che la sentenza di proscioglimento per irrilevanza del fatto possa essere pronunciata solo nell’udienza preliminare, nel giudizio immediato e nel giudizio direttissimo. 7 Le impugnazioni: l’appello. I provvedimenti giurisdizionali emessi nell’ambito del procedimento penale minorile sono impugnabili negli stessi casi e con le stesse forme previste nell’ambito del procedimento penale ordinario. È quindi, valida la classica bipartizione dei mezzi di impugnazione: ordinari (appello e ricorso per cassazione) e straordinari (revisione, rescissione del giudicato, ricorso straordinario per errore materiale o di fatto). Le linee di riforma, dapprima, si sono mosse lungo tre direttrici: 1) drastica riduzione dell’ambito di appellabilità delle sentenze di proscioglimento; 2) ampliamento del sindacato della cassazione sulla motivazione della sentenza; 3) introduzione di una nuova ipotesi di revisione, volta alla riapertura del processo il cui giudicato si sia formato in violazione delle regole dell’equo processo di cui all’art 6 Cedu. La c.d. riforma orlando ha mirato da un lato, alla riduzione dell’ambito di operatività del ricorso per cassazione (attraverso un restringimento delle ipotesi, soggettive e oggettive, di ricorribilità) e, dall’altro, per quanto concerne l’appello a un innalzamento qualitativo dei requisiti di ammissibilità, unitamente a un restringimento del potere di impugnazione del p.m. Il tentativo della legge n. 46\2006 (c.d. riforma Pecorella) di incidere sul regime di appellabilità delle sentenze di proscioglimento è stato vanificato dalle successive prese di posizione della Corte costituzionale. La legge citata, aveva escluso l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere e delle sentenze di proscioglimento, sia per il p.m. sia per l’imputato. Per le sole sentenze di proscioglimento provenienti dal rito ordinario la stessa riforma Pecorella aveva, previsto una specifica deroga alla inappellabilità, rappresentata dalla proponibilità dell’appello nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive. La riforma, nonostante i nobili principi è stata progressivamente disintegrata dalla giurisprudenza costituzionale. L’argomento primario che ha indotto la consulta ad assumere un orientamento demolitori è stato rappresentato dalla violazione del principio di ragionevolezza\proporzionalità, ricavabile dall’art 3 Cost in rapporto al contenuto dell’art 111 co. 2 Cost. La corte, in particolare, non ha negato che il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, possa attribuire al p.m e all’imputato poteri di impugnazione asimmetrici. È necessario che la limitazione al potere di impugnazione del p.m. risulti, considerata nel suo complesso proporzionata e tale non è quella che, da un lato, esclude quasi interamente l’appello della parte pubblica nei confronti delle sentenze che lo vedono soccombente ma, dall’altro, in relazione alle sentenze che vedono soccombente l’imputato, lascia inalterato il diritto di appello esercitabile da quest’ultimo e dal suo difensore. Alla luce delle riforme indicate in premessa, l’attuale assetto normativo del mezzo di impugnazione in esame è il seguente: Sono appellabili dal p.m. - le sentenze di non luogo a procedere - Le sentenze di proscioglimento emesse al termine del giudizio abbreviato o del dibattimento - Le sentenze di condanna emesse al termine del giudizio abbreviato quando modificano il titolo del reato - Le sentenze di condanna emesse al termine del dibattimento, quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato Sono appellabili dall’imputato e dal suo difensore: - le sentenze di non luogo a procedere, salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso - Le sentenze di condanna emesse col giudizio abbreviato o al termine del dibattimento - Le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento, fatta eccezione per le sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto - Le sentenze di proscioglimento per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente, emesse col giudizio abbreviato Sono inappellabili, tanto dal pubblico ministero quanto dalla parte privata: - le sentenze di proscioglimento emesse, senza l’opposizione delle suddette parti, prima del dibattimento - Le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. L’appellabilità oggettiva non è ancora sinonimo di sicura ammissibilità dell’impugnazione. Sulla configurazione di tale requisito ha recentemente inciso la riforma Orlando, ha limitato il potere di impugnazione del p.m. finalizzato alla realizzazione dell’interesse generale all’osservanza della legge. Il suddetto propone impugnazione diretta a conseguire effetti favorevoli all’imputato solo con il ricorso per cassazione. Questa nuova fisionomia del giudizio di appello, non appare confacente al processo penale minorile, nel quale la funzione cognitiva deve coesistere con la finalità educativa volta al recupero del minore, che, coinvolge tutti i soggetti processuali, p.m compreso. È quindi, ragionevole ipotizzare che nel rito minorile, l’interesse del p.m. a proporre l’impugnazione, tanto in appello quanto in cassazione, possa essere determinato adeguandolo alle esigenze educative del minorenne. Muovendo da tale presupposto, l’impugnazione del p.m. volta al conseguimento di un epilogo processuale più funzionale alle esigenze educative del minore dovrà essere ritenuta ammissibile in quanto diretta a conseguire effetti favorevoli, non solo all’imputato ma anche all’ordinamento. Una specifica notazione merita il tema relativo all’appellabilità della sentenza di irrilevanza del fatto emessa, ex art 27 co 3, d.P.R. n 448\88, dal G.i.p, su richiesta del p.m., durante la fase delle indagini preliminari. In ordine a essa, la norma citata conferisce espressamente il diritto di appello al minorenne e al procuratore generale presso la corte di appello. All’indomani della riforma pecorella, che aveva eliminato l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere emesse in sede di udienza preliminare, si era dubitato della persistente vigenza dell’art 27, co3, d.P.R. n 448\88. La questione, comunque, ha oggi perso di rilevanza pratica, posto che la riforma orlando, ha ripristinato l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere emesse dal G.u.p. Nel rito ordinario, competente sull’appello proposto contro le sentenze pronunciate dal tribunale è la corte di appello; sull’appello contro le sentenze della corte di assise è, invece, competente la corte di assise di appello. L’art 58 ord. giud stabilisce che sulle impugnazioni dei provvedimenti del tribunale per i minorenni giudica una particolare sezione della corte, al cui interno operano giudici laici esperti e giudici togati scelti tra i componenti la corte di appello, che abbiano svolto attività presso uffici giudiziari minorili o presso uffici del giudice tutelare o che siano comunque dotati di specifici attitudine, preparazione ed esperienza. Diversa è anche la composizione del collegio normalmente è comporto da 3 giudici; quando a decidere è la sezione specializzata, la corte giudica con un collegio composto da 5 unità, vale a dire i tre magistrati della sezione e i due giudici laici esperti (1 uomo e 1 donna). Nel procedimento minorile, perde rilevanza la divisione di competenza, tra corte di appello e corte di assise d’appello, atteso che per i reati commessi durante la minore età la competenza per materia del tribunale per i minorenni è prevista in via esclusiva. L’appello è il più ampio dei mezzi di impugnazione ordinaria, giacché attribuisce al giudice di secondo grado una cognizione tendenzialmente completa. Il giudice di appello, ha gli stessi poteri del giudice di primo grado, seppure nei limiti delle doglianze e delle richieste provenienti dagli appellanti. In altri termini, la proposizione dell’appello non attribuisce automaticamente al giudice di appello il potere di effettuare un novum iudicium. Vi sono, però, delle deroghe a questo principio. Improntate al favor rei stabilite dall’art 597 co 5 c.p.p.: il giudice di appello, con la sentenza, può applicare anche di ufficio la sospensione condizionale della pena e una o più circostanze attenuanti. Quando occorre può effettuare il giudizio di comparazione tra circostanze attenuanti e aggravanti. Altre ipotesi di devoluzione ope legis sono individuabili tutte le volte in cui una previsione normativa stabilisce che una determinata questione può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Questi casi non sono accomunati dalla logica del favor rei. I motivi proponibili con l’appello possono riguardare sia il merito della vicenda processuale sia la commissione di errori di diritto nell’applicazione delle norme processuali o sostanziali. L’appello è pur sempre un giudizio di controllo a carattere prevalentemente cartolare: il giudice non assume nuovamente le prove richieste dalle parti, bensì decide sulla base delle prove già acquisite nel giudizio di primo grado e documentazione all’interno del fascicolo del dibattimento. La connotazione dell’oralità è limitata alla relazione introduttiva della causa, alla discussione finale delle parti tecniche e alle eventuali dichiarazioni spontanee dell’imputato. Solo eccezionalmente, tramite la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale il giudice di appello può riassumere prove già acquisite in primo grado o assumere nuove prove. In entrambi i casi, la rinnovazione è richiesta dalla parte appellante ed è disposta dal giudice qualora ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. La discrezionalità del giudice di appello si riduce quando la prova della quale si richiede la rinnovazione, non solo ha il carattere della novità, ma è anche sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado. In ogni caso, il giudice può disporre di ufficio la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale se la ritiene assolutamente necessaria. Alle ipotesi ora elencate deve aggiungersi quella introdotta, inizialmente, per via ermeneutica e, dopo dal legislatore, ha inserito un nuovo comma 3 bis nell’art 603 c.p.p. Opera nel caso in cui il pubblico ministero proponga appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, deve essere disposta d’ufficio dal giudice, indipendentemente cioè dal fatto che la richiedano le parti interessate. Il giudizio di appello assume una all’applicabilità nel procedimento penale minorile del concordato in appello. La disciplina a esso relativa si trova adesso nell’art 599 bis c.p.p., in virtù del quale: a) le parti possono, nelle forme previste dall’art 589 c.p.p., dichiarare di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi ed indicare anche la nuova pena sulla quale sono d’accordo; B) il giudice di appello provvede adottando le forme del procedimento in camera di consiglio, ma quando ritiene di non poter accogliere, allo stato, ordina la citazione a comparire al dibattimento, dove la richiesta può essere ripresentata dalle parti. Sono esclusi dall’applicazione i procedimenti aventi ad oggetto determinati reati di maggiore gravità. La tesi dell’incompatibilità fonda la sua forza argomentativi sulla stretta analogia del patteggiamento in appello con l’istituto previsto dall’art 444 c.p.p.- applicazione della pena su richiesta delle parti- del quale è espressamente vietata l’applicazione nel procedimento minorile di primo grado. Il patteggiamento ex art 444 c.p.p. non è strutturalmente configurato in modo da consentire al giudice di dare preminenza a tali obiettivi, giacché attribuisce al giudice stesso, previa verifica della insussistenza di causa di non punibilità, un controllo limitato alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto e alla congruità della pena. Inoltre, chiusa negativamente la verifica, il rito comunque si conclude con una sentenza, equiparata ad una pronuncia di condanna, che irroga una pena, anche detentiva, all’imputato. Ora, questi stessi limiti non si rinvengono nel concordato in appello, dove la negoziabilità, oltre a essere molto attenuata rispetto a quella caratterizzante il patteggiamento, non vincola in alcun modo il giudice, il cui controllo di congruità rimane pieno e di tipo discrezionale. Un secondo e più condivisibile orientamento che, prendendo le mosse dalla diversità strutturale esistente tra il patteggiamento della pena a norma dell’art 444 c.p.p. e il c.d. patteggiamento in appello, sottolinea come l’espressa inapplicabilità del primo al rito minorile non possa precludere l’applicabilità, allo stesso rito, del secondo. 7.1. il ricorso per cassazione. Il ricorso per cassazione si distingue dall’appello essenzialmente per due ragioni: V) mentre l’appello è un mezzo di impugnazione a devoluzione potenzialmente piena, il ricorso per cassazione è a devoluzione circoscritta, giacché la corte può essere investita solo dei vizi tassativamente indicati nell’art 606, co 1 c.p.p.; b) tali vizi riguardano esclusivamente gli errori di diritto del provvedimento impugnato, non potendo, il controllo della cassazione estendersi al fatto. In base al nuovo dato normativo, il ricorso per cassazione è ammesso, non solo quando il vizio della motivazione risulta dal testo del provvedimento impugnato, ma anche quando esso risulta da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame. Compito della corte di cassazione non è quello di sovrapporre il proprio convincimento a quello del giudice di merito e ad essa è tuttora precluso di procedere a una rinnovata valutazione dei fatti ovvero a una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite. Allorché si deduca il vizio di motivazione risultante dagli atti del processo, non è sufficiente che detti atti siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice. Occorre, che gli atti del processo dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. La cassazione svolge una duplice funzione: a) con riferimento al caso concreto, è il giudice dinanzi al quale le parti, possono esercitare il proprio diritto di difesa nel tentativo di rimuovere una sentenza ritenuta ingiusta; W) In un’ottica più generale, è l’organo che cura l’interesse pubblico all’osservanza della legge, della quale assicura l’uniforme interpretazione (c.d. funzione di nomofilachia) A quest’ultimo obiettivo sono finalizzate le previsioni degli artt 610 e 618 c.p.p., secondo le quali il ricorso, quando ha ad oggetto una questione di speciale importanza o che ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, può essere deciso dalle sezioni unite. L’art 606 co2, c.p.p. sancisce la ricorribilità per cassazione contro tutte le sentenze pronunciate in grado di appello o inappellabili. Il ricorso per cassazione è ammesso nei casi e con gli effetti determinati da particolari disposizioni. Rientra l’ordinanza con la quale il giudice dispone la sospensione del processo e messa alla prova. Invero, l’art 28, co3 d.P.R n 448\88, stabilisce che la suddetta ordinanza è autonomamente ricorribile per cassazione su iniziativa del pubblico ministero, dell’imputato e del suo difensore. Non può invece estendersi alle ordinanze con le quali il tribunale rigetta l’istanza di messa alla prova. Dovranno essere impugnate congiuntamente alla sentenza che definisce il giudizio. La legittimazione attiva è attribuita all’imputato e al p.m. Il giudizio in cassazione può svolgersi attraverso un procedimento ordinario o un procedimento semplificato. Si ricorre al secondo quando il ricorso è proposto contro provvedimenti non emessi nel dibattimento e in ogni altro caso particolare previsto dalla legge. Mentre nel procedimento ordinario il p.m. e i difensori sono ammessi a esporre in udienza le proprie argomentazioni, in quello semplificato la corte giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie delle altre parti senza intervento dei difensori. Anche il potere cognitivo della corte di cassazione incontra un limite nell’effetto devolutivo dell’impugnazione il ricorso attribuisce alla corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti e sempre che non si tratti di questioni ormai intangibili per non essere state investite da tempestiva doglianza nella fase di merito. Al divieto di novum nel giudizio di legittimità sfuggono, però, le questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello e quelle verifiche che la legge impone al giudice di operare ex officio in ogni stato e grado del procedimento. Non sempre la definizione del giudizio in cassazione costituisce l’epilogo dell’intero procedimento penale. Gli epiloghi coincidono quando la corte dichiara il ricorso inammissibile o lo rigetta , cosi come quando, pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio. Non coincidono allorché la corte, pronuncia sentenza di annullamento con rinvio degli atti al giudice di merito. La seconda soluzione si impone allorché la sentenza sia annullata per un vizio la cui riparazione implica un nuovo giudizio di merito, al quale la corte, in quanto giudice di diritto e non di fatto, non può procedere direttamente il giudice al quale sono rinviati gli atti è vincolato all’osservanza del principio di diritto fissato nella sentenza di annullamento pronunciata dalla cassazione, il mancato rispetto è uno dei motivi per i quali la sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata. L’annullamento può riguardare solo alcune delle disposizioni della sentenza (annullamento parziale). Le parti non annullate acquistano autorità di cosa giudicata. 8. L’impugnazione straordinaria. Esauriti gli ordinari mezzi di impugnazione a disposizione delle parti, la sentenza diviene irrevocabile. È questo il momento in cui la sentenza di condanna diviene esecutiva. Il passaggio in giudicato della sentenza mira a garantire la certezza del diritto e salvaguardare la stabilità dei rapporti giuridici. È cosi previsto che, in situazioni eccezionali tassativamente prestabilite dalla legge, anche la sentenza divenuta irrevocabile possa essere impugnata (c.d. impugnazione straordinaria). Il tradizionale mezzo di impugnazione è rappresentato dalla revisione, alla quale si sono aggiunti, il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto e la rescissione del giudicato, deputati, il primo, alla rimozione degli errori non valutativi compiuti dalla Cassazione e, il secondo, alla riapertura del processo svoltosi in assenza dell’imputato a causa di una sua incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo stesso. Il rischio di dicotomia tra la giustizia formale e quella sostanziale non è del tutto eliminabile, poiché tutti i suddetti mezzi di impugnazione straordinaria possono essere proposti solo a favore del condannato e non anche in suo danno. La revisione può essere richiesta dal condannato, da un suo prossimo congiunto o dalla persona che ha sul condannato l’autorità tutoria e dal p.m. La richiesta è ammessa in ogni tempo, anche quando il condannato sia morto o la pena sia già stata interamente espiata. La sua funzione è anche quella di ripristinare la dignità all’innocente erroneamente giudicato colpevole. La revisione può essere chiesta in 4 ipotesi: 24) i fatti stabiliti a fondamento della sentenza penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile. 25) La sentenza di condanna ha ritenuto la sussistenza del reato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’art 3 ovvero una delle questioni previste dall’art 479 26) Dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, solo o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto con una delle formule previste dagli artt 529 c.p.p. (sentenza di non doversi procedere), 530 c.p.p (sentenza di assoluzione) o 531 c.p.p (dichiarazione di estinzione del reato). Le sezioni unite hanno precisato che il concetto di nuove prove va ricostruito sotto un profilo teleologico, cosi che nuove devono intendersi anche le prove non acquisite nel precedente giudizio o acquisite, ma non valutate neanche implicitamente dal giudice. 27) La corte di appello la quale, valuta ammissibile l’istanza, procede osservando le norme del giudizio di primo grado, in quanto applicabili e nei limiti delle ragioni indicate nella richiesta di revisione. In ogni momento del procedimento, la corte può sospendere l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza e applicate una misura cautelare personale diversa dalla custodia cautelare in carcere. Contro l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità della revisione e contro la sentenza che decide la revisione è possibile ricorrere per cassazione. Nel 2011 la corte costituzionale ha dichiarato illegittimo per la violazione dell’art 117 primo comma cost e dell’art 46 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, l’art 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede universo caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo. Ciò in quanto l’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della corte europea dei diritti dell’uomo, sancito a carico dei paesi che, come l’Italia, hanno aderito alla suddetta convenzione, comporta anche l’impegno degli stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla convenzione particolarmente in tema di equo processo. Il ricorso straordinario alla corte di cassazione per la correzione dell’errore materiale o di fato contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla stessa corte può essere proposto dal procuratore generale o dal condannato. A differenza della revisione, non può essere proposto in ogni tempo, bensì entro 180 giorni dal deposito del provvedimento. L’errore materiale è quello che non incide sul processo formativo della decisione e determina, semplicemente, la mancata corrispondenza tra la volontà e la sua estrinsecazione grafica. Il ricorso diretto a rimuovere questo tipo di errori, quindi, rappresenta, un mezzo avente funzione di mera rettifica. L’errore di fatto, che consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto ad una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso. Mira ad incidere sul contenuto della volontà del giudice, in questa ipotesi il mancato rispetto del termine di 180 giorni determina l’inammissibilità. La cassazione decide adottando il procedimento in camera di consiglio ex art 127 c.p.p., all’interno del quale il pubblico ministero e i difensori sono sentiti solo se compaiono. 9. Le peculiarità delle impugnazioni nel processo penale minorile: l’opposizione. La prima peculiarità attiene alla tipologia dei mezzi di impugnazione. È necessaria una distinzione tra le normali sentenza di non luogo a procedere e quelle che, pur dichiarando il non luogo a procedere, presuppongono la responsabilità dell’imputato. età dell’imputato. Pertanto la sentenza pronunciata nei confronti di imputato che, minore degli anni 18 al momento della commissione del fatto, sia diventato maggiorenne alla data della pronuncia, può essere impugnata soltanto da lui. Riguardo al profilo oggettivo, occorre individuare i provvedimenti e i mezzi di impugnazione ai quali si riferisce la legittimazione concorrente dell’esercente la responsabilità genitoriale. Art 34 d.p.r. 448\88 è esplicito nel fare coincidere l’area dei provvedimenti impugnabili dall’esercente la responsabilità genitoriale con quella dei provvedimenti impugnabili dall’esercente la responsabilità genitoriale con quella dei provvedimenti impugnabili dall’imputato minorenne. Dubbi sono emersi relativamente all’opposizione e al ricorso per cassazione. Il primo dubbio è legato alla natura giuridica dell’opposizione. Il potere concorrente degli esercenti la responsabilità di genitore potrebbe essere escluso ritenendo che l’opposizione non rientri nella categoria dei mezzi di impugnazione, categoria che delimita l’ambito applicativo dell’art 34 d.P.R. n 448\88. In senso contrario, può sostenersi che il principio generale di cui all’art 34 d.P.R. n 448\88 vada esteso all’opposizione quantomeno analogicamente. Riguardo al ricorso per cassazione, l’esclusione della legittimazione ad impugnare dell’esercente la responsabilità dei genitori è stata affermata dalla giurisprudenza di legittimità. La limitazione di tale legittimazione alla fase dell’appello deriverebbe dal rinvio dell’art 1 d.P.R. n 448\88 alle norme del codice di rito, il cui art 571, co2, contempla soltanto la legittimazione del tutore, per l’imputato soggetto alla tutela e del curatore speciale, per l’imputato incapace di intendere o di volere, che non ha tutore. L’affermazione non è condivisibile. 9.2 Le spese processuali. La terza e ultima peculiarità trova origine nell’art 29 del d.lgs n 272 del 1989 in tema di pagamento delle spese del processo e di custodia cautelare, stabilisce che la sentenza di condanna nei confronti di persona minore degli anni 18 al momento in cui ha commesso il fatto non comporta l’obbligo del pagamento delle spese processuali e di quelle per il suo mantenimento in carcere. La deroga si inserisce nel quadro della disciplina del processo minorile, strutturalmente finalizzato alla ripresa o al recupero del percorso educativo del minore. Parte della giurisprudenza ha ritenuto che la deroga vada limitata alle fasi del giudizio che si svolgono davanti al tribunale per i minorenni e all’apposita sezioni di corte di appello e non possa essere applicata nel giudizio di legittimità davanti alla corte di cassazione, atteso che questo, si svolge in composizione ordinaria e secondo le regole sue proprie. Altra parte della giurisprudenza non ha condiviso tale distinzione ed ha esteso la deroga al giudizio di legittimità. Il conflitto interpretativo può dirsi definitivamente superato dopo l’intervento delle sezioni unite, secondo le quali il minorenne che abbia proposto ricorso per cassazione non può essere condannato, in caso di rigetto o di dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione, al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria in favore della cassa delle ammende. La corte ha precisato dovendosi rinvenire la ratio della deroga nella considerazione prioritaria accordata dal legislatore al soggetto imputato ed al suo recupero. Capitolo ottavo Sezione I Il trattamento penitenziario dei minori nel regno d’Italia. L’idea del recupero sociale, in ambito giuridico si affermò in italia verso la fine dell’Ottocento, grazie al contributo di Martino Beltrami Scalia, direttore generale delle carceri, ispirò il regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi del 1891, che fece seguito all’emanazione del codice penale zanarcelli del 1889. Il regolamento, operò una prima innovativa distinzione tra stabilimenti carcerari e stabilimenti riformatori. Il regolamento delineò un sistema dettagliato di punizioni e permessi, funzionali alla disciplina del regime carcerario, il carattere repressivo disciplinare del carcere rimase immutato in quegli anni, fatta eccezione per alcune modifiche al sistema sanzionatorio. Alessandro Doria, successore di Beltrami Scalia si pose l’obiettivo di aumentare il numero degli istituti detentivi per i minorenni. L’interesse di Doria si tradusse con l’impegno profuso per l’emanazione di due importanti provvedimenti, il r.d. 22 dicembre 1904 n 716, regolamento organico per il personale di sorveglianza dei riformatori.ì governativi, attraverso il quale si volle rispondere alla preoccupante carenza di preparazione pedagogica del personale carcerario, ed il r.d. 14 luglio 1907 n 606, regolamento per i riformatori governativi, attraverso il quale venne attuato un completo riordinamento dei riformatorio governativi per minorenni. Un nuovo regolamento venne approvato nel 1931 attribui alla punizione un carattere sia emendato che afflittivo\intimidatorio: il lavoro, l’istruzione e la religione costituirono gli unici mezzi attraverso i quali rieducare e risanare i condannati. R.d. 20 luglio 1934 n 1404, istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni, istituti due nuove strutture rappresentative della base organizzativa giudiziaria, penitenziaria e rieducativa per i minori, cioè il tribunale per i minorenni e il centro di rieducazione per minorenni: il primo decideva e il secondo applicava le misure penale sul piano istituzionale e operativo. Il tribunale per i minorenni venne concepito come organo autonomo e fu composto da due magistrati togati e da due cittadini benemeriti dell’assistenza sociale. Il centro di rieducazione minorenni comprendeva una vasta gamma di istituzioni e servizi, tra i quali gli istituti di osservazione, gli uffici di servizio sociale per i minorenni, le case di rieducazione e gli istituti medico-psico-pedagogici, le prigioni scuola, col tempo poi ridotti e modificati. 2 trattamento e rieducazione nella legge 26 luglio 1975 n 354. Negli anni successivi alla caduta del fascismo, la conduzione del carcere fu, nella sostanza, immutata. Numerosi congressi internazionali, contribuirono a orientare un nuovo assetto nelle politiche penitenziarie. Ricordiamo il congresso internazionale di diritto penale dell’aja del 1950, il congresso di Roma del 1953, il congresso di Anversa del 1954. L’interesse verso il recupero sociale dei detenuti, fu inoltre spinto dall’affermazione del principio di umanizzazione delle pene, e delle loro finalità rieducativa, sancito nella costituzione repubblicana, dai principi espressi nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dalle numerose commissioni parlamentari e dai comitati di studio istituiti per la riforma del regolamento del 1931. Tra gli elementi qualificanti del trattamento rieducativo, la l. n. 354\1975 individuò: l’attività scolastica o le attività formative professionali, la cui adesione da parte del detenuto deve essere libera; le attività culturali, ricreative e sportive, il proprio rito religioso assistito da ministri del proprio culto; le relazioni con la famiglia, colloqui telefonici. La riforma penitenziaria introdusse l’importante principio di considerare il carcere come risposta non isolata alla criminalità, promuovendo le misure alternative alla detenzione, volte al collegamento costante con il mondo esterno. Furono introdotti nuovi operatori penitenziari specializzati e tra questi le figure degli educatori per adulti. Sezione II Un nuovo modello pedagogico nel sistema dei servizi minorili della giustizia. 2. Organizzazione e gestione tecnica degli interventi educativi. Con il d.lgs 28 luglio 1989, n 272, norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del d.P.R. 22 settembre 1988, n448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, i centri di rieducazione per i minorenni dipendenti dal ministero di grazia e giustizia assunsero la denominazione di centri per la giustizia minorile, con competenza regionale. A comporre il quadro dei centri per la giustizia minorile, l’art 8 del d.lgs n 272\1989, al comma 1, si elencarono i nuovi servizi per la giustizia minorile: BB) gli uffici di servizio sociale per minorenni CC) Gli istituti penali per minorenni DD) I centri di prima accoglienza EE) Le comunità FF)Gli istituti di semilibertà con servizi diurni per misure cautelari, sostitutive e alternative. Gli istituti penali per i minorenni (denominati IPM) venivano deputati all’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti dei minorenni autori di reato. All’interno degli IPM, si stabiliva la necessità di garantire i diritti soggettivi dei minori. Tali obiettivi si concretizzarono attraverso un programma di interventi progettuali, il cui scopo fu quello di stimolare lo sviluppo, la maturazione, la crescita e la responsabilizzazione dei minori detenuti. La circolare del 1995 regolamentò la presenza sul territorio nazionale degli IPM, suddividendoli in relazione alla capienza, e strutturò gli istituti in tre aree funzionali: quelle tecnico-pedagogica, quella della sicurezza, quella amministrativo-contabile; si definirono complessivamente alcuni importanti aspetti organizzativi, come la suddivisione in gruppi dei minori detenuti, gli orari di servizio e di lavoro degli operatori, le attività scolastiche di lavoro. L’area tecnico-pedagogica, comprendeva tutti gli educatori, i consulenti, gli insegnanti, gli animatori, gli istruttori e i volontari, variamente coinvolti nelle attività trattamenti. All’educatore più alto in grado vennero assegnate le funzioni di vicario del direttore. Nell’ultima parte della circolare vennero definiti i piani di trattamento. In relazione agli obiettivi fissati, la circolare prescrisse l’obbligo di procedere all’assegnazione degli specifici compiti da attribuire ai singoli educatori e all’equipe tecnica complessivamente. Importante fu l’introduzione di una scheda tecnica, allegata alla circolare, per la raccolta dei dati inerenti al minore in transito dai centri di prima accoglienza agli IPM. La scheda doveva essere curata dall’educatore. L’esigenza di aggiornare le disposizioni determinò l’emanazione della citata circolare del 2006. La circolare si differenziò dalla precedente per l’attenzione specifica ai diritti soggettivi del minore, dedicandovi un’apposita sezione. Le modifiche riguardarono la possibilità, da parte degli istituti, di dotarsi di propri criteri nella suddivisione dell’utenza in gruppi, orientando tale scelta in relazione alla tutela dei diritti soggettivi dei minorenni, e alla promozione dell’integrazione sociale ed etnica. Fu posto inoltre l’accento sulla necessità di intervenire per superare la scissione tra gli interventi della sicurezza e quelli educativi, sottolineando il valore educativo dei provvedimenti disciplinari posti in essere. 2. Le nuove linee di indirizzo per i servizi minorili. Venne prestata particolare attenzione al sistema e agli strumenti di comunicazione tra le differenti aree funzionali, per la definizione, la realizzazione, la valutazione e la verifica del progetto di istituto. Le indicazioni per la realizzazione del progetto si limitarono ai seguenti punti: 1) necessità di definire il progetto di istituto attraverso l’elaborazione di un documento condiviso e partecipato dai responsabili e dagli operatori di tutte le aree, nonché dall’autorità giudiziaria minorile, il cui consenso è determinante al fine di rendere concretamente realizzabili i programmi operativi; 2) adesione del progetto alle finalità istituzionali; 3) verifica annuale dello stesso sulla scorta dei possibili, e cambiamenti dell’utenza e del quadro normativo di riferimento; 4) integrazione tra le varie aree e professionalità coinvolte nel trattamento nel perseguire degli obiettivi istituzionali; 5) articolazione del trattamento secondo un percorso rieducativo: accoglienza, orientamento e dimissioni; 6) costruzione del progetto con il raccordo degli altri servizi minorili presenti nel territorio. Nella circolare del 2006 s’introdusse il progetto educativo (individualizzato), doveva essere definito un progetto-patto educativo individualizzato contenente gli obiettivi da raggiungere, gli strumenti educativi prescelti, prevedendo la partecipazione e l’integrazione delle diverse aree nell’attuazione del percorso di trattamento. Si sollecitava il pieno coinvolgimento dell’equipe tecnica, degli operatori di polizia penitenziaria. Un aspetto dei tribunali per i minorenni, che consentirono una effettiva specializzazione dell’organo giudiziario e dei suoi incaricati. Furono creati un riformatorio giudiziario, un riformatorio di rieducazione, un carcere per i minorenni, un centro di osservazione. Con l’entrata in vigore della l. N 354 del 1975 si è avuta una prima disciplina, tale provvedimento era nato al fine di regolare la normativa di matrice penitenziaria dettare per i soggetti adulti e solo provvisoriamente l’esecuzione penale minorile. Art 79 co1, all’interno di tale provvedimento si possono rinvenire solo alcune scarne specificazione sull’esecuzione minorile, in materia di lavoro, alimentazione o vestiario. Molteplici sono stati gli interventi della consulta, investita della necessità di colmare il vuoto normativo nel rispetto dei dettami costituzionali e, in specie, della finalità rieducativa della pena ex art 27 co 3 Cost e della tutela della gioventù con la promozione degli istituti necessari a tale scopo ex art 31 co 2 Cost. 2. La riforma. Il nuovo assetto del diritto penitenziario minorile è stato delineato dalla legge della 23 giugno 2017, in particolare dal comma 85, lett p dell’art 1. Nelle intenzioni del legislatore delegante vi è stata la necessità di adeguare le necessità educative del detenuto minore alla realizzazione di una struttura normativa al centro della quale devono essere poste le esigenze di prospettiva per la personalità dell’infradiciottenne o del giovane adulto. Tale struttura doveva fondarsi nel rispetto di 8 direttive: 36) giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni 37) La previsione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona 38) Previsione dell’applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto 39) Previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanza educative del condannato minorenne. 40) Ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione 41) Eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefici penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento 42) Il rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni 43) Rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale. L’intenzione del delegante è stata quella di porre al centro della riforma sia i bisogni del minore che l’evoluzione della sua personalità da attuarsi anche attraverso l’individuazione e la flessibilità dell’intervento educativo. Le direttive che la legge delega proponeva sono rimaste inattuate. Il d.lgs n 121\2018 presenta varie criticità. Il d.lgs. n 121\2018 si apre con le previsione delle fonti del diritto penitenziario minorile. L’art 1 al comma 1, stabilisce che si applicheranno le disposizioni del codice di procedura penale, della legge di ordinamento penitenziario e relativo regolamento di esecuzione, nonché le norme sul processo penale a carico di imputati minorenni. Una rivoluzione copernicana nel campo dell’esecuzione minorile, sul piano applicativo, si farà ricorso alle disposizione della l. N 354\1975, solo qualora sia necessario colmare eventuali lacune delle disposizioni contenute nel decreto legislativo di ultimo conio. Si concretizza, il principio della specialità minorile e del favor minoris. Il secondo comma detta le linee guida e gli obiettivi da raggiungere attraverso il nuovo sistema penitenziario. La riforma mira a massimizzare la funzione educativa della pena. Le norme disciplinano in particolare: a) l’implementazione delle misure alternative, significativamente rinominate misure penali di comunità, rivisitate accentuando lo scopo di favorire l’evoluzione positiva della personalità ed un proficuo percorso educativo e di recupero. b) Le condizioni di estensione della disciplina in oggetto ai giovani adulti c) La necessità di un progetto educativo personalizzato dal carattere non meramente formale, previo ascolto del condannato d) L’esigenza di separazione, nell’assegnazione dei detenuti, dei minorenni dai giovani adulti e degli imputati dai condannati e) La necessità che le camere di pernottamento in istituti penitenziari minorili non ospitino più di 4 persone f) La permanenza dei detenuti all’area aperta per almeno 4 ore al giorno g) Il diritto del detenuto ad effettuare otto colloqui visivi mensili e da due a tre colloqui telefonici settimanali della durata di 20 minuti ciascuno h) La possibilità di consentire visite prolungate, fino a 4 al mese, con i congiunti o con le persone con cui sussiste un significativo legame affettivo. i) La rafforzata tutela del principio di territorialità dell’esecuzione: la pena deve essere eseguita in istituti prossimi alla residenza o alla abituale dimora del detenuto e delle famiglie j) La composizione del consiglio di disciplina per le sanzioni più gravi k) La puntuale cura e preparazione delle dimissioni dagli istituti onde evitare discontinuità tra il progetto educativo e di reinserimento predisposto prima delle dimissioni e il programma di formazione e sostegno all’esterno. 3. Il giudice dell’esecuzione e la magistratura di sorveglianza minorile. La giurisdizione di esecuzione è garanzia predisposta, per verificare la legittimità del titolo passato in giudicato, per realizzare la finalità educativa e socializzante della pena e per consentire il controllo sul perdurare delle condizioni previste dalla legge per la sottoesposizione del soggetto a misura di sicurezza. Tali garanzie sono state devolute al giudice dell’esecuzione ed alla magistratura di sorveglianza. Con riferimento al profilo della esecuzione in senso stretto all’art 665 c.p.p., si ricava che la competenza a conoscere l’esecuzione dei provvedimenti è attribuita al tribunale per i minorenni, e tale competenza viene conservata senza limiti di tempo relativi alla età del condannato. Il comma 4 dello stesso articolo precisa che in caso di esecuzione di più provvedimenti emessi dal giudice ordinario e dal magistrato minorile va applicato il principio generale secondo cui la competenza spetta al giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, e ciò anche quando sia quello minorile. Il criterio previsto dall’art 665, co 4 c.p.p. va integrato con quello di cui al successivo comma 4 bis del medesimo articolo, competente all’esecuzione è il collegio. Resta ferma, la competenza del tribunale per i minorenni, a prescindere dal criterio cronologico, nel caso di pluralità di provvedimenti di cui alcuni emessi dal tribunale monocratico. Invece, l’art 79 co 2 c.p.p. e l’art 3 d.P.R. n 448\88 affidano al tribunale per i minorenni tutte le competenze che l’ordinamento penitenziario assegna al tribunale di sorveglianza e ad un giudice presso l’ufficio minorile tutte le attribuzioni ordinariamente assegnate al magistrato di sorveglianza. L’art 68, ult co., o.p. il magistrato di sorveglianza minorile può essere la stessa persona fisica che ha pronunciato la sentenza di condanna. Il limite massimo per l’esecuzione penale rimane fissato al compimento del 25esimo anno di età. Viene superata la distinzione tra infra e ultra ventunenni, che prevedeva, solo per questi ultimi, l’ipotesi di una diversa valutazione del giudice qualora ricorressero particolari ragioni di sicurezza tenuto conto altresì delle finalità rieducative. Tale valutazione è ora estesa a tutti coloro i quali abbiano compiuto il 18esimo anno di età. Il legislatore ha voluto porre alle finalità rieducative, nel senso che queste ultime non devono risultare in alcun modo perseguibili, richiamando la responsabilità degli operatori minorili. Le norme e le modalità previste per i minorenni si estendono, al giovane adulto sino al compimento del 25esimo anno di età, semprechè il giudice competente non ravvisi particolari ragioni di sicurezza o, quando le predette finalità non risultino in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto. In tal caso il giudice può disporre che l’esecuzione nei confronti del giovane adulto prosegua nelle strutture detentive ordinarie. Importante novità introdotta dal d.lgs. n 121\2018 è dettata dall’art 22; che stabilisce il criterio della territorialità dell’esecuzione. 4. Le misure penale di comunità: profili generali. Le misure penali di comunità sono strumenti alternativi al carcere che costituiscono la modalità prioritaria di esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni. L’inedita nomenclatura da un lato, si vuole sottolineare la differenza rispetto ai tradizionali rimedi sostitutivi della pena detentiva previsti per gli adulti; dall’altro, il riferimento alla comunità rafforza l’idea che nel processo educativo va coinvolta in modo diretto la collettività nella quale inserire il minore. Si reputa che gli scopi educativi possono essere realizzati in modo proficuo con modalità esecutive esterne all’istituto di pena; al carcere è invece assegnato il ruolo di estrema ratio. L’obiettivo principale è garantire al minorenne un trattamento differenziato calibrato sulle sue specifiche esigenze. Il d.lgs. n 121\2018 regola le misure penale di comunità in ordine crescente di afflittività: l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare e la semilibertà; tra queste misure rientra anche l’affidamento in prova. L’applicazione degli strumenti alternativi al carcere è orientata da un duplice giudizio prognostico; in primo luogo, è necessario verificare se la misura sia idonea a favorire lo sviluppo positivo della personalità; in seconda battuta, va scongiurato il pericolo che il minore si sottragga all’esecuzione o commetta altri reati. Tutte le misure di comunità devono essere corredate dal programma di intervento educativo, specificando le attività che il minore deve eseguire. Si tratta dell’elemento centrale dell’esecuzione esterna: il progetto educativo, per un verso, indica la finalità del trattamento minorile; sotto diverso aspetto, individua gli elementi indispensabili che orientano la valutazione prognostica del giudice sull’ammissibilità della misura di comunità. Un ruolo fondamentale è svolto dall’ufficio di servizio sociale per i minorenni (U.S.S.M): a questo organo è affidato il compito di proporre al tribunale di sorveglianza il programma di intervento educativo. Attraverso il progetto educativo, si assicura al condannato minorenne un trattamento individuale calibrato sulle specifiche esigenze. Gli elementi raccolti dall’U.S.S.M offrono al giudice la piattaforma cognitiva indispensabile per valutare la concessione della misura extra moenia. Inoltre si assegnano poteri istruttori integrativi attuabili d’ufficio: il tribunale di sorveglianza può disporre approfondimenti sanitari sul minore. La scelta è governata dal criterio del minor sacrificio necessario. Il criterio in analisi, sembra operare su due piani distinti: in primo luogo è necessario determinare la misura più adatta, partendo dalla meno intensa, applicando quella più grave solo qualora le altre si rivelino inadeguate a soddisfare le segnalate esigenze; in seconda battuta, una volta individuato il beneficio da eseguire, anche le singole prescrizioni impartite dal tribunale di sorveglianza devono sacrificare la libertà del minore nei limiti strettamente necessari per assicurare gli obiettivi educativi e socializzanti. Le attività di utilità sociale indicate dal tribunale di sorveglianza, devono essere compatibili con le esigenze di istruzione, lavorative, di famiglia e di salute del condannato, senza pregiudicarne i percorsi educativi; dall’altro, il provvedimento applicativo della misura di comunità deve indicare le modalità di coinvolgimento della famiglia. Nel complesso, le previsioni in analisi, mirano a responsabilizzare il minore. l’esecuzione extra moenia è governata dal principio di territorialità. Si vuole cosi evitare lo sradicamento del condannato rispetto al proprio tessuto sociale. Il principio in questione può essere derogato se sussistono motivi contrari o elementi da cui desumere collegamenti con la criminalità organizzata. Le indicate ipotesi derogatorie non appaiono connotate da un sufficiente grado di determinatezza: il riferimento ai motivi contrari assegna al giudice un ampio margine di discrezionalità. I possibili collegamenti con la criminalità organizzata, non è chiaro se il criterio operi con riferimento solo ai consorzi criminosi tipici o abbia portata più ampia. Per incentivare il ricorso alle modalità esecutive extra moenia si assegna all’ufficio di servizio sociale per i minorenni il ruolo proattivo di determinate il domicilio in cui eseguire la misura; si permette cosi di individuare dimore alternative, compatibili con le finalità educative e di inserimento nella comunità. Se vi sono situazioni ostative all’esecuzione della misura alternativa, il condannato può essere collocato in comunità pubbliche o del privato sociale. Anche questa previsione, favorisce l’impiego delle misure di comunità, consentendo di applicare nei confronti di quei soggetti privi del necessario supporto familiare e sociale, evitando che, in mancanza di un luogo idoneo, il minore esegua la pena in carcere. L’obiettivo del nuovo sistema minorile è calibrare l’esecuzione esterna al solo il magistrato di sorveglianza a modificare le prescrizioni inerenti all’obbligo di permanere presso l’abitazione. L’unica lettura conforme al dato normativo, sembra quella di ammettere l’intervento del servizio sociale limitatamente alle autorizzazioni temporanee relative ai precetti dell’affidamento in prova, assegnando, viceversa, al giudice il compito di decidere su quelle concernenti la detenzione domiciliare. Affidando, al magistrato di sorveglianza la competenza sulle istanze urgenti per allontanarsi dal domicilio. 4.4. la detenzione domiciliare. L’art 6 d.lgs 121\2018 consente al condannato minorenne di espiare la pena detentiva non superiore a 3 anni presso la propria dimora, assume cosi funzione residuale: è possibile ricorrervi solo quando i precetti limitativi della libertà di movimento, applicabili con le misure più lievi, sono reputati inidonei a scongiurare il pericolo di commissione di altri reati. La disciplina di riferimento permette di applicare anche ai minori le ipotesi di detenzione domiciliare previste per gli adulti (art 47 ter). L’art 47 ter o.p. ha lo scopo di assicurare il rapporto affettivo del detenuto con la prole, consentendo al genitore con figli conviventi di età inferiore a 10 anni di poter espiare la pena presso il domicilio, su un piano diverso, poi, la detenzione domiciliare può essere concessa anche alle persone gravemente ammalate, o al minore di anni 21 per comprovate esigenze di salute, studio, lavoro e famiglia. L’art 284, co3 c.p.p. consente di autorizzare l’allontanamento dal domicilio solo nelle ipotesi ivi indicate in modo tassativo; si tratta di un regime particolarmente rigoroso teso a soddisfare le esigenze tipiche delle cautele ad personam. La misura è modellata secondo criteri elastici, che consentono al tribunale di sorveglianza di stabilire le prescrizione in modo compatibile con il processo educativo del minore, favorendo la possibilità di allontanarsi dal domicilio per eseguire il percorso di recupero indicato dai servizi sociali. Per scongiurare il rischio di involontarie trasgressioni, i precetti imposti al condannato vanno delineati in modo nitido nel provvedimento applicativo della misura, specificando le fasce orarie in cui il minore può allontanarsi dalla propria dimora per eseguire le attività indicate nel programma educativo. Si garantisce che le attività educative siano sempre calibrate alla personalità in fieri del condannato, assicurandone il positivo sviluppo. Non è invece previsto l’intervento del servizio sociale per autorizzare deroghe temporanee nei casi di urgenza; in assenza tale potere è assegnato in via esclusiva al magistrato di sorveglianza. L’allontanamento non autorizzato dal domicilio è punibile ex art 385 c.p; la pena è tuttavia diminuita se il condannato si costituisce prima della condanna. Quando è stata concessa al minore la detenzione domiciliare speciale, l’allontanamento dal luogo di esecuzione della misura per un periodo inferiore alle 12 ore, non integra il delitto di evasione. L’esclusione della punibilità è estesa anche agli altri casi di detenzione domiciliare. 4.5. La semilibertà. La semilibertà consente al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario per svolgere le attività idonee a garantire all’inclusione sociale. La relativa disciplina si discosta dal parallelo beneficio previsto per gli adulti, sia sul piano dei presupposti di ammissibilità, sia per quanto riguarda i contenuti. La semilibertà può essere concessa ai minori quando è stata espiata almeno un terzo della pena. Se ne affianca un altro specializzante: se la condanna riguarda i delitti c.d. ostativi commessi dal minorenne, il tribunale di sorveglianza, nel valutare l’ammissione alla semilibertà deve, altresì considerare il significativo rapporto tra la pena espiata e la pena residua. Anche in questo caso subordina l’accesso alla semilibertà alla previa espiazione di almeno due terzi della pena. Il segnalato presupposto non appare però delineato in modo nitido. L’assenza di chiari riferimenti normativi, consegna al tribunale di sorveglianza un eccessivo potere discrezionale. La scelta di stabilire presupposti diversi per i c.d. delitti ostativi, mal si concilia con il recente intervento della corte costituzionale che ripudia qualsiasi differenza di trattamento fondata sulla sola gravità del reato commesso. Il progetto di intervento educativo deve indicare le attività che il semilibero è ammesso a svolgere all’esterno, stabilendo altresì gli orari di rientro in carcere. In realtà, la semilibertà costituendo piuttosto una particolare modalità esecutiva della pena detentiva, che consente al condannato il graduale inserimento nella società. La misura si differenzia dall’analogo beneficio previsto degli adulti: l’ampio catalogo delle attività che l’interessato può eseguire extra moenia non è tassativo, permettendo cosi al tribunale di sorveglianza, di modellare il trattamento sulle specifiche esigenze educative e formative del soggetto. La possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario mira a responsabilizzare il minore. Si reputa necessario il coinvolgimento attivo del nucleo familiare. Inoltre, per incoraggiare il consolidamento delle relazioni socio-familiari, il minore può essere collocato o trasferito in appositi istituti, consentendo di separare i semilibertà dagli altri condannati pericolosi. 4.6. Il procedimento appellativo, la sostituzione e la revoca. L’art 8 d.lgs n 121\2018 regola il procedimento applicativo di tutte le misure penali di comunità. La previsione assegna al tribunale di sorveglianza per i minorenni la competenza a decidere sull’ammissione, la sostituzione e la revoca. Al magistrato di sorveglianza è attribuito il potere di anticipare l’intervento dell’organo collegiale, disponendo l’applicazione provvisoria della misura quando lo stato di detenzione arreca un grave pregiudizio al percorso di inserimento sociale. La norma mira ad assicurare una rapida decisione. Legittimati a chiedere la misura extra moenia sono: interessato se maggiorenne, il difensore e, nel caso in cui il condannato non ha raggiunto la maggiore età, l’esercente la potestà genitoriale. Il condannato minorenne dunque non è abilitato ad agire personalmente. Non sembra del tutto convincente: il minore è soggetto dotato di piena capacità processuale, di conseguenza, privarlo della legittimazione ad agire nella fase esecutiva della pena non appare ragionevole. Impedire all’interessato di poter chiedere in modo autonomo le misure alternative al carcere stride con l’obiettivo di responsabilizzare il condannato attraverso scelte consapevoli sulle modalità esecutive della pena, in grado di favorirne l’inserimento nella collettività. Su un piano diverso, l’assenza di un adeguato supporto familiare potrebbe privarlo della possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Per arginare questo rischio, la facoltà di innescare il procedimento applicativo è conferita anche al p.m. e al servizio sociale per i minorenni. L’art 8 d.lgs. 121\2018 vieta in modo esplicito al giudice di disporre d’ufficio la misura. Anche questa norma mal si concilia con i principi generali che governano l’ordinamento penitenziario: si determina una irrazionale disparità di trattamento con il parallelo regime dettato per gli adulti. Per quanto concerne gli ulteriori profili dinamici, l’art 8 d.lgs. 121\2018 disciplina le successive vicende modificative e estintive. La misura può essere revocata o sostituita qualora il condannato violi le prescrizioni imposte nel provvedimento applicativo o tenga un comportamento contrario alla legge. Circa le ipotesi specifiche di revoca, l’unica espressamente stabilita è quella indicata dall’art 7 co 4 d.lgs. n. 121\2018, in tema di semilibertà. Sul piano generale, la norma assegna al tribunale di sorveglianza il compito di valutare l’entità della trasgressione, consentendo di sostituire o caducare il beneficio solo se la condotta del minore è di gravità tale da renderla incompatibile con la prosecuzione della misura. L’inosservanza di lieve natura alla legge o ai precetti indicati nel provvedimento applicativo, può rendere opportuno inasprire i contenuti prescrittivi della misura o sostituirla con una dotata di maggiore afflittività; solo nei casi più gravi, invece, è ammessa la revoca. L’art 8 co 4 d.lgs n 121\2018 consente al magistrato di sorveglianza di sospendere in via provvisoria le modalità esecutive extramurarie; si consente di sostituire la misura sospesa con altra più restrittiva. Ragioni di coerenza sistematica impongono di ammettere la sospensione della misura solo nei limiti in cui è consentito revocarla. Il provvedimento adottato dal giudice monocratico deve essere trasmesso immediatamente al tribunale di sorveglianza per le decisioni di sua competenza. Il controllo dell’organo collegiale è diretto a verificare la sussistenza dei presupposti per disporre la revoca o la sostituzione. Per contenere la indicata valutazione in tempi certi, la decisione deve intervenire entro il termine perentorio di 30 giorni stabilito a pena di inefficacia del provvedimento del magistrato di sorveglianza. Il periodo trascorso in detenzione domiciliare o in semilibertà è scomputato dalla pena ancora da espiare. Per quanto riguarda invece le altre misure, il tribunale di sorveglianza individua la pena residua tenendo conto della durata della misura concessa, delle limitazioni imposte al condannato e del suo comportamento durante il periodo trascorso. Si tratta di parametri eterogenei, che consegnano all’organo giudicante una notevole discrezionalità. L’ampiezza dei criteri indicati dalla previsione è imposta dalla necessità di assicurare un giudizio individualizzato del minore, calibrato sulle specificità del caso concreto; la decisione può operare solo in favore del reo, riducendo la pena inflitta con la sentenza di condanna. 5. L’esecuzione delle misure penali di comunità. Regolati dal capo III del d.lgs n 121\2018: le regole del trattamento esterno al carcere si applicano anche a coloro che dopo la condanna abbiamo compiuto il 18esimo ma non il 25esimo anno di età. La norma consente dunque, di non interrompere il percorso pedagogico e di inclusione sociale avviato con la misura extra moenia; dall’altro, permette anche a coloro che non hanno compiuto ancora i 25 anni di poter usufruire, delle più favorevoli modalità esecutive esterne fissate dal d.lgs. n 121\2018, evitando il contatto con la realtà carceraria, che potrebbe rivelarsi diseducativo. Le norme del sistema minorile si applicano quando non vi sono particolari ragioni di sicurezza o se le finalità educative non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto. Il sintagma in alcun modo impone al giudice di adeguare le modalità esecutive, al fine di favorirne l’adesione da parte del condannato; il collocamento in istituto deve costituire l’estrema ratio, da percorrere quando non vi è alcuna chance di realizzare le finalità educative con l’esecuzione esterna. Sul punto, però, la norma, determina una modifica peggiorativa prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n 121\2018, nei confronti degl infraventunenni, il ricorso alle modalità esecutive stabilite per i minori era automatico; viceversa, oggi, al compimento del 18esimo anno di età, l’applicabilità del regime minorile è sempre subordinata alla previa valutazione del giudice. La competenza è affidata al magistrato di sorveglianza del luogo dove la misura deve essere eseguita. Al giudice monocratico è assegnato il potere di modificare le prescrizioni, con decreto motivato, da comunicare all’ufficio di servizio sociale per i minorenni. È ammesso quando sussistono elementi sopravvenuti rispetto al momento genetico della misura di comunità; si consente di adeguare in modo constante il contenuto prescritto alle esigenze formative del condannato. In assenza di precise coordinate normative, devono reputarsi legittime anche le modifiche che inaspriscono il trattamento. All’ufficio di servizio sociale per i minorenni è affidato il compito di prendere in carico il condannato, assistendolo nel corso della misura e controllando il regolare svolgimento delle attività prescritte. Terminata l’esecuzione della misura, l’organo socio- assistenziale prosegue la propria attività di sostegno del condannato garantendo anche l’adeguato coinvolgimento dei familiari. Si vuole salvaguardare il successo del progetto educativo, prescindendo dalla durata della misura extra moenia. Non interrompere in modo brusco il percorso di recupero in atto, l’art 12, co.5, d.lgs n 121\2018 stabilisce che al compimento del 25esimo anno di età, se è in corso una misura di comunità, può esserne ordinata la prosecuzione con le modalità previste dall’o.p. La decisione è affidata al magistrato di sorveglianza ordinario, chiamato a verificare se ricorrono le condizioni per applicare gli strumenti alternativi al carcere previsti dall’ordinamento penitenziario. Tutte le misure di comunità hanno una parallela disciplina nel corrispondente sistema per gli adulti, consentendo cosi di poterne mantenere l’operatività nei confronti del condannato ultra venticinquenne. L’art 13 d.lgs n 121\2018, infine, regola il concorso omogeneo di titoli esecutivi: se nel corso della misura di comunità interviene una nuova condanna per reati commessi da minorenni, il p.m. è tenuto a sospendere il relativo ordine di esecuzione e a trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza. L’organo monocratico, valutata la sussistenza dei presupposti per la prosecuzione della misura, la dispone con ordinanza; viceversa, il beneficio cessa di produrre effetti e va disposto l’accompagnamento del minore nell’istituto di pena. Il provvedimento è reclinabile dinanzi il tribunale di sorveglianza, entro il termine perentorio di 10 giorni decorrenti dalla notifica o comunicazione del provvedimento. Al sopravvenire di una nuova
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