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Dispense Vittorio Alfieri, Dispense di Lingue e letterature classiche

Dispense complete per studiare su Vittorio Alfieri e le sue opere

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 23/06/2023

gi-vo
gi-vo 🇮🇹

19 documenti

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Scarica Dispense Vittorio Alfieri e più Dispense in PDF di Lingue e letterature classiche solo su Docsity! Vittorio Alfieri LA VITA I viaggi e le irrequietudini giovanili Alfieri nasce ad Asti il 16 gennaio 1749, da una famiglia della ricca nobiltà terriera, che gli permise di garantirsi sempre l’indipendenza economica che gli consentiva di non essere subordinato a nessuno e di potersi mantenere libero da ogni forma di schiavitù (rappresenta quindi la figura dell’intellettuale che può dedicare tutto il suo tempo alla letteratura grazie alle cospicue rendite). Fin dall’infanzia si manifestò in lui la tendenza alla malinconia e alla solitudine, unita però da una forte e caparbia volontà. Nel 1758 (9 anni) comincia a studiare presso la Reale Accademia di Torino (militare), frequentata dai giovani della nobiltà piemontese, che più tardi criticherà in quanto ispirata ancora ai vecchi modelli culturali. Finita l’accademia, tra il 1767 e il 1772 compì vari viaggi per l’Italia e l’Europa, visitando prima tutte le principali città italiane, e poi quelle europee (Parigi, Inghilterra, Olanda, Danimarca, Prussia, Austria, Russia..). Per la nobiltà europea, il desiderio di viaggiare si inseriva nello spirito cosmopolita e nella volontà di conoscenza, tipica dell’Illuminismo; Alfieri però non aveva quella curiosità di conoscere luoghi, costumi, lingue, di fare esperienze, bensì aveva una irrequietezza continua, inappagabile, accompagnata da un senso di scontentezza, di noia, da una cupa malinconia che non gli permetteva di fermarsi in nessun luogo: arrivato alla meta che si era prefissato, sentiva il bisogno di fuggire verso un altro luogo e così via. Questa scontentezza non aveva cause precise, definibili: era come se seguisse qualcosa di ignoto e inafferrabile che gli sfuggisse ogni volta che ne era vicino. Si delinea così, già negli anni giovanili, il suo animo tormentato. Più tardi, nella Vita, lo scrittore avrebbe interpretato questa scontentezza come il bisogno di trovare un fine sublime intorno a cui ordinare l’esistenza, e l’irrequietezza come la mancanza di questo fine. Esso sarebbe poi stato identificato con la sua vocazione poetica, destinata a riempire tutto il resto della sua vita. L’esperienza dell’assolutismo I viaggi che fece in età giovanile, permisero al poeta di accumulare una concreta esperienza delle condizioni politiche e sociali dell’Europa del suo tempo, da cui però rimase deluso a causa dell’assolutismo monarchico: il sovrano aveva un potere senza limiti e restrizioni, da cui provava insofferenza, sdegno, repulsione (ad esempio a Pietroburgo non volle conoscere la sovrana Caterina II di Russia per la sua tirannia). Delle reazioni più positive ce le ebbe nei confronti di quei paesi che lasciavano più libertà civili, come l’Olanda e l’Inghilterra. Ciò che lo affascinò di più però furono i paesaggi solitari, selvaggi e maestosi: come le selve della Scandinavia, che con il loro silenzio gli ispirava idee fantastiche, malinconie ma anche grandiose. Il poeta sentiva che questi ambienti rispecchiavano perfettamente i suoi stati d’animo, anticipando così uno dei concetti tipici del Romanticismo. A Torino: vita oziosa e inizio dell’attività letteraria Ritornato a Torino, nel 1772, la sua insofferenza verso ogni legame e gerarchia, gli impedì di occuparsi della attività politiche e militari tipiche della nobiltà sabauda; cominciò a condurre una vita oziosa di un “giovin signore”, chiuso in una solitudine che alimentava ulteriormente la scontentezza e che sollecitava il bisogno di uscire da quella situazione. La depressione aumentò ulteriormente anche per un’infelice relazione con la marchesa Gabriella Turinetti, da cui non riusciva a liberarsi. Nella letteratura però trovo qualche consolazione. Dopo gli anni di “vuoto intellettuale” nell’Accademia, nel 1778 cominciò a leggere gli illuministi francesi che saranno alla base della sua cultura, dando un fondamento filosofico alla suo odio antitirannico. Alla base della sua cultura vi è anche “vite parallele” dello storico greco Plutarco, una serie di autobiografie di uomini greci e romani che aveva rafforzato in lui il desiderio di compiere imprese gloriose. A Torino Alfieri fondò, insieme ad altri amici, una sorta di società letteraria e cominciò a comporre opere di poca importanza in francese (es. Journal: un diario personale che rispecchia il momento più acuto della sua crisi; o una satira della società nobiliare, ispirata al modello di Voltaire). La conversione letteraria Nel 1775 per Alfieri ci fu una svolta fondamentale che diede un senso alla sua vita, lui la definisce la sua “conversione” (non religiosa ma letteraria). Infatti ritrovò per caso alcuni fogli dell’anno precedente, in cui aveva cominciato a scrivere una tragedia, “Antonio e Cleopatra” e notò come la storia d’amore fra i due, fosse simile alla sua tormentata relazione con la marchesa. Comprese così che l’unico mezzo per alleviare la sua sofferenza psicologica fosse quello di proiettare i suoi sentimenti nella poesia. Decise quindi di portare a termine la tragedia, che fu rappresentata nel 1775 al teatro Carignano di Torino, da cui ottenne gran successo. Da quel momento ritenne che aveva trovato quel fine capace di riempire la sua vita vuota e darle un senso, pacando la sua irrequietudine. Sempre in quell’anno cominciò a scrivere due tragedie, Filippo e Polinice, e da lì dedicò la sua vita alla scrittura. Data l’insufficienza dei suoi primi studi, dovette cominciare ad arricchire il suo bagaglio culturale: si dedicò alla lettura dei classici latini e italiani (solo dopo al greco) e si applicò nello studio dell’italiano letterario, per utilizzare un linguaggio più adatto alle tragedie senza utilizzare più francesismi (molto usati dagli italiani in quel periodo). Per migliorare la conoscenza di questa lingua, che coincideva molto con il dialetto toscano, tra il 1776 e il 1780 soggiornò nei territori toscani, dove conobbe Louise Stolberg, moglie di Charles Edward Stuart (pretendente al trono d’Inghilterra), l’amore che, insieme alla poesia, poteva dare un equilibrio alla sua vita. Nel 1778, per “spiemontizzarsi” definitivamente, decise di sciogliere ogni legame con il re di Sardegna (che svolgeva un rigido controllo sulla nobiltà sabauda), rinunciando a tutti i suoi beni, dati alla sorella Giulia (cambio: minima rendita). Questa insofferenza e questa sradicamento lui non la vive come limitazione o come condanna, anzi crede che fosse un privilegio, un segno di una condizione spirituale superiore (una maggiore superiorità che gli permette di capire meglio queste dinamiche). Da questi impulsi e reazioni emotive si notano come le posizioni politiche di Alfieri si stacchino nettamente da quelle degli illuministi, per aderire a delle posizioni del tutto peculiari e personali: lui ha ben presente cos’è che non gli piace dell’Ancien regim, ovvero la tirannide, ma non critica una forma di governo in particolare, bensì il potere in sé, in quanto ogni forma di potere, capeggiato dalla nobiltà o anche dai borghesi, tende a “schiacciare gli altri”. Motivo per cui non contrappone nessuna soluzione concreta, nessuna soluzione di governo alternativa (lui poteva comunque prendersi il lusso di starsene a fare l’intellettuale) Proprio per questo, anche quando parla di libertà, che lui persegue contro la tirannide (contro l’assolutismo), ne parla sempre in astratto (non parla di libertà costituzionali, di pensiero… bensì in senso generale); infatti molti critici, come Masiello, sostengono che questa concezione è più il frutto del suo grande individualismo, piuttosto che immaginare un futuro per tutti, non è “un’autentica ispirazione politica”. La prova contro questa astrattezza dell’ideale di libertà, che non coincide con nessuna forma definita di ordinamento pubblico, è l’entusiasmo che provò inizialmente per le rivoluzioni del suo tempo (smossa dalla passione, cosa che apprezza perché crede che sia l’unico motore per lo sviluppo della coscienza umana) (poi cominciò ad avere atteggiamenti negativi). Ad esempio, per celebrare la Rivoluzione americana, scrisse 4 odi (America Libera), ma quando si rese conto che era mossa da ragioni materiali ed economici (contro le tasse) compose una quinta ode con tono più critico e polemico; stessa cosa con la Rivoluzione francese: prima scrisse “Parigi sbastigliata” e poi si schierò contro quella che definisce la “nuova tirannide”, contro le nuove forme di governo (borghesi). Titanismo e pessimismo Quindi si è visto che nel pensiero di Alfieri non si scontrano due concetti politici (titanismo e libertà) ma due entità mitiche e fantastiche, due proiezioni che nascono da uno scontro interiore che lui vive: cioè, dal punto di vista pratico, il poeta non incide sulla realtà (non organizza rivoluzioni o fa cose nella pratica che possano cambiare il mondo); la sua sofferenza e il suo malessere sono più che altro una “problematica interiore”, un qualcosa che combatte dentro di sé: uno scontro tra il bisogno di affermazione dell’io e la presenza di “forze oscure”, presenti all’interno di sé, che limitano tale espansione e lo corrodono. Quindi tende a raccontare uno scontro interiore, non qualcosa di pratico, visibile. Già nelle opere politiche, prima della produzione tragica, si delinea il TITANISMO ALFIERIANO: un’ansia di infinita grandezza, di libertà che però si scontra con tutto ciò che la limita e l’ostacola. In questa immagine di un io gigantesco, che vuole oltrepassare ogni limite, si scontra la condizione stessa di Alfieri: il suo conflitto con una realtà politica e sociale mediocre, lo sradicamento, la solitudine la malinconia, ma anche la volontà di un’ideale di grandezza eroica. Questa visione del mondo (scontro tra l’io e la realtà esterna) è una cosa molto soggettiva e molto distante dalla cultura razione propria dell’Illuminismo (il discorso di Alfieri è molto filosofico e poco concreto: gli illuministi propongono soluzioni pratiche ai problemi), per questo il poeta comincia ad entrare nella corrente letteraria del Romanticismo, in cui ci si concentra molto su sé stessi, senza cercare per forza delle risposte concrete. Il limite con cui l’io si scontra però non è solo esterno, ma anche interno, infatti il tiranno non è solo una rappresentazione del potere politico oppressivo, ma anche la proiezione di un limite che Alfieri trova in se stesso, che rende impossibile quella grandezza: dei tormenti, angosce, incubi che impediscono la volontà e lo slancio eroico. Al sogno titanico di libertà quindi vi è anche la consapevolezza pessimistica dell’insufficienza umana, quella consapevolezza di sconfitta, di affermare il proprio io anche oltre i propri limiti. Il titanismo è quindi un qualcosa per cui si cerca di vivere al massimo delle possibilità, in direzione di un qualcosa che decidi tu, in questo caso la libertà, cercando di perseguire un obbiettivo enorme, con la consapevolezza che fallirai. Il titanismo e pessimismo però non sono la stessa cosa: la forte volontà di oltrepassare i propri limiti umani, si accompagna inevitabilmente alla consapevolezza di impossibilità e genera un senso di sconfitta, di impotenza verso i grandi poteri, provocando un senso di angoscia, di terrore, che finisce per far si che Alfieri tenderà ad isolarsi sempre di più (infatti morirà da solo, con la campagna). Queste posizioni si noteranno molto nelle sue opere, soprattutto nelle tragedie (es. Saul). LE OPERE POLITICHE Della tirannide La prima opera politica che scrive è in età giovanile (quindi il periodi in cui uno è più attirato dalle passioni), nel 1777, in concomitanza con l’inizio della produzione tragica. Nei primi capitoli, Alfieri definisce che cos’è la tirannide, rappresentandola come ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano sopra le leggi, e fa una dura critica verso il dispotismo illuminato e riformatore: infatti un governo assoluto (non illuminato) si percepisce subito che è tirannico, che schiaccia le persone che, accorgendosene cercano di compiere quel gesto eroico dell’uomo libero, con la nascita di insurrezioni per la conquista della libertà; l’assolutismo illuminato è peggio invece, perché nasconde il suo essere una forma di tirannia (attraverso ad esempio l’uso di intellettuali nelle riforme) e quindi dà l’apparenza ai cittadini di essere un governo meno oppressivo, lì addormenta e non li permette di insorgere, di seguire le proprie passioni. Lo scrittore passa poi ad esaminare le basi su cui si fonda il potere tirannico (coloro che permettono al governo assolutistico di funzionare), e le individuale nella NOBILTÀ (strumento nelle mani del sovrano, che spesso sono alla guida degli eserciti che schiacciano ogni forma di ribellione) e nel CLERO (i sacerdoti sono uno strumento per l’assolutismo in quanto insegnano una religione, il cristianesimo, che assopisce gli animi: il cristianesimo insegna il perdono, non la rivolta; la fede non li da la spinta a ribellarsi, così come i nobili li bloccano qualora lo fanno). Il modo per non farsi contaminare da queste dinamiche è il ritirarsi dalla vita sociale, isolarsi dal contesto interno, che può concludersi con un gesto eroico (o il suicidio o uccidere il tiranno e quindi andare in contro alla morte). Nel discorso di Alfieri si delineano due figure: il “tiranno” e il “Liber’ uomo” che in fondo sono molto simili, alla fine lui ammira entrambi: da una parte l’uomo libero perché è individualista, ha una coscienza superiore, riesce a vivere in disparte da tutto quello che lo circonda; ma allo stesso tempo ammira anche il tiranno, per quanto non li piaccia, riconosce che ha una volontà che è superiore a quella di tutti, quindi da un punto di vista individualistico, il tiranno è quello che ha la volontà più superiore di tutti: nessuno mette in discussione la sua volontà: quindi anche il tiranno è un uomo libero. Per quanto riguarda l’aspetto letterario, vi è uno schema simile alle prime tragedie, in quanto tratteggia lo scontro tra le due figure eroiche complementari; da un punto di vista politico invece l’opera rappresenta il momento più radicale e rivoluzionario della riflessione politica di Alfieri, in quanto mostra l’odio nei confronti dell’assolutismo e inoltre critica anche la nobiltà, l’esercito e il clero, sostenendo come l’insurrezione popolare sia l’unico strumento per la rigenerazione di uno Stato. Nella dedica “alla libertà” Alfieri afferma che abbandonerebbe volentieri la “penna” per la “spada” (cioè per l’azione pratica), ma è consapevole, soprattutto che in quel tempo, non ci può essere la libertà d’azione e quindi decide di dedicarsi alla scrittura, in quanto rappresenta l’unico strumento di battaglia consentito in quel particolare periodo (scrittura è solo un ripiego, la soluzione sarebbe passare all’azione). Il Panegirico di Plinio a Traiano, Della Virtù sconosciuta e Del Principe e delle lettere Nelle opere successive questo desiderio rivoluzionario, del passare all’azione, comincia a placarsi e a mutarsi, via via, nel rifugiarsi nella scrittura. Nel “Panegirico”, 1785 ci descrive la figura ideale di un principe che abbandona il potere, lasciando ai cittadini la libertà e guadagnandosi così gloria eterna Nel dialogo “Della virtù sconosciuta” riprende un tema già trattato nella Tirannide: comincia a sottolineare come la scelta più adatta per andare contro il potere, compiuta dall’uomo libero, sia di isolarsi, con il fine di non essere contaminato dall’atteggiamento servile che vi era. Quindi dagli atteggiamenti combattivi dell’azione pratica che caratterizzavano lui da giovane, l’eroismo si manifesta ora attraverso la rinuncia e la scelta volontaria di isolarsi. Le commedie La delusione e la crisi degli ideali si riflettono anche nelle sei Commedie, sono le ultime cose che Alfieri scrive e si vede, in quanto sono le opere scritte con più amarezza che alla fine costituiscono la manifestazione più estrema del pessimismo alfieriano, in quanto rappresentano la sconfitta definitiva dell’ideale eroico. Tra questi testi 4 sono di argomento politico, con un impostazione satirica e allegorica: nei primi 3 (L’uno, I pochi, I troppi) evidenzia i limiti e i difetti delle varie forme di governo (prima quello monarchico, poi oligarchico e infine democratico); nella 4° (l’antidoto) propone una forma alternativa di governo, una sorta di miscuglio di queste tre, dove però la plebe è esclusa dalla vita politica, in quanto la creazione di leggi spetta ai nobili. Nella “finestrina” la satira si fa morale. La vicenda è ambientata nell’oltretomba, dove risiedono molte ombre di sovrani, eroi, fondatori di religioni, letterati, filosofici: qui c’è il Dio Mercurio, incaricato da Giove, che esamina i pensieri delle anime aprendo una “finestrina” nel centro del loro petto. In questo modo il poeta mette alla luce le autentiche motivazioni dell’agire dell’uomo (ambizione, egoismo, vanità, materialismo) Fino a qua sono commedie mediocri, che si denota la scontrosa e l’amara cupezza di Alfieri; più felice e “il divorzio”, una satira del cicisbeismo, praticata negli ambienti borghesi e nella società contemporanea, che offre qualche battuta comica e sarcastica, ma che comunque rivela nel poeta un atteggiamento duro. LA POETICA TRAGICA Le ragioni della scelta tragica Come già detto, Alfieri da molta importanza alla scrittura tragica, in quanto per lui rappresenta un rimedio contro la sua inquietudine, con il fine di dare un senso alla sua vita, dominata dalla malinconia, dalla scontentezza a causa della continua ricerca dell’ignoto. I motivi della scelta della tragedia per dare un’espressione al suo mondo interiore sono vari:  storicamente la tragedia aveva sempre avuto come personaggi principali figure eroiche o comunque importanti, eccezionali, quindi era più adatto a mettere in risalto il suo titanismo, la tensione verso una grandezza senza limiti, ma anche il potenziamento dell’io: attraverso queste figure infatti dava sfogo alle sue ispirazione e proiettava anche se stesso  esprimere il suo senso di grandezza: in quanto questa scrittura richiedeva un eccezionale altezza e vigore di ispirazione, oltre al perfetto dominio degli strumenti espressivi  nel campo della tragedia inoltre, nei suoi tempi, mancava un’esponente italiano (come ci fu in Francia ad esempio nel secolo prima, come Corneille di Racine), quindi aveva l’occasione adatta per l’affermazione di sé, per esprimere la sua grandezza e originalità, soddisfano il proprio bisogno di gloria Questi principi che lo ispirarono a scrivere tragedie sono contenuti in vari scritti teorici (che spesso si presentano come una risposta del poeta a lettere di alcuni amici letterati), ma soprattutto nella Vita (il testo in cui presenterà meglio il lavoro che faceva sulle tragedie) La struttura della tragedia alfieriana Consapevole della sua originalità, con lo scopo di diventare un’esponente di punta in questo ambito, comincia ad analizzare tecnicamente i modelli della tragedia classica francese (ancora i più importanti a livello europeo), nei confronti dei quali prende posizioni polemiche: innanzitutto per delle scene troppo lunghe (si perdevano troppo a raccontare sentimenti patetici, struggenti), ma anche per delle vicende romanzesche che complicavano troppo l’intreccio e poi per l’andamento monotono dei versi a rima baciata; il tutto rallentava troppo l’azione e quindi raffreddava l’interesse del pubblico. Per lui alla base dell’ispirazione poetica ci dev’esser e uno slancio passionale: un calore di un contenuto sentimentale ardamente vissuto: questo calore che ci dev’essere per evitare una storia “piatta, nella tragedia, si può mostrare attraverso il dinamismo dell’azione, nella tensione incalzate (che ti fa venire voglia) che finisce nella catastrofe, senza rallentamenti che porterebbero alla diminuzione dell’interesse. È questo il motivo per cui cerca di bandire ogni elemento superfluo, compresi i personaggi secondari, che non sono indispensabili per la vicenda: ci si deve concentrare solo su un numero ristretto di personaggi principali, quelli su cui si basa il conflitto tragico. Questa rapidità lo si nota anche nello stile, uno stile rapido, conciso ed essenziale, con battute brevi. Questo stile si distingue nettamente da quello lirico o epico: quest’ultimi devono “cantare”, la tragedia no, deve solo esprimere conflitti tra individualità, passioni e idee: per questo sceglie uno stile totalmente opposto a quello melodioso della tragedia francese: uno stile duro, aspro, anti musicale, attraverso continue variazioni di ritmo, pause e fratture, inversioni ardite nella costruzione sintattica, con enjambement molto inarcati (anche per spezzare il ritmo) e spesso con suoni aspri, senza rime ma con consonanti che si scontrano. La disciplina classica C’è una sfasatura tra quello che lui parla e il modo in cui ne parla: quello di cui parla è un qualcosa che è naturalmente difficile e caotico (descrivere i conflitti interiori che ognuno ha non è semplice e lineare); però nonostante l’argomento sia difficile e caotico, cerca sempre di disciplinare i contenuti secondo le norme della tradizione classiche; infatti, a differenza dei poeti contemporanei preromantici (es. Schiller) che prendono modello dalla strutta tragica di Shakespeare, Alfieri rispetta sempre le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione: le sue tragedie generalmente si svolgo in un arco temporale breve (non oltre le 24h) (se no la storia tende a confondere lo spettatore), hanno una scena fissa, in un ambiente, ed un’azione unitaria (quindi costruita intorno ad un unico nucleo drammatico, una storia). Quindi pur trattando argomenti caotici, lo fa in maniera ordinata, seguendo i modelli classici Non è solo un’adesione a queste regole retorica e formale, ma anche perché questa scelta risponde a delle esigenze: innanzitutto dar ordine e disciplina al suo mondo interiore tormentato e poi, grazie all’unità dell’azione e alla brevità dell’arco temporale, sono in perfetta armonia con la sua volontà di avere una struttura tesa, rapida e incalzante (punto centrale della commedia alfieriana). Il bisogno di disciplina si riflette anche nel modo stesso di lavorare: nella Vita lui ci spiega materialmente (e non solo formalmente: stile) come scrive una tragedia (da quando gli viene l’ispirazione a quando la mette in scena). Tendenzialmente la sua scrittura tragica si articola in 3 fasi: 1. “IDEARE”: quella fase in cui ti viene l’idea, distribuita in maniera schematica o riassuntiva, fissando il numero di personaggi, mossa dall’entusiasmo e dall’ispirazione, dalla passione 2. “STENDERE”: in questa fase si comincia a scrivere i dialoghi in prosa, sempre mossa dalla passione, quindi senza selezionare troppo i materiali 3. “VERSEGGIARE”: questa fase consiste nella “limatura” cioè nel rielaborare i dialoghi in versi, selezionando con cura i materiali buttati giù dall’impeto, cambiando parole, ordine sintattico o ritmo. Questa parte è la parte più tecnica, da un punto di vista formale, ma meno importante da un punto di vista d’ispirazione. La creazione di Alfieri è quindi un processo spontaneo, si parte da un concetto irrazionale, cioè l’idea, che ti fa venire l’ispirazione e quindi ti fa scrivere le cose (prime due fasi), per arrivare ad un lavoro di pulizia di quel lavoro caotico, per disciplinarlo in una forma rigorosa. Entrambi le condizioni per Alfieri però sono importanti: la tragedia non può nascere senza quell’entusiasmo, passione iniziale (che poi non si spegne con il successivo lavoro letterario), ma nel frattempo non può non esistere se non si trova una perfetta organizzazione formale. Da un lato quindi Alfieri aderisce alla concezione tradizionale che vede la poesia come un fatto irrazionale, una sorta di ispirazione divina, dall’altro a quella concezione tipica del classicismo, in cui la poesia è vista come il controllo razionale dell’ispirazione. Testo tragico e rappresentazione Negli scritti teorici di Alfieri si possono notare spesso delle indicazioni sul modo di come certe battute dovevano venire pronunciate dagli interpreti o dell’effetto che avrebbero dovuto suscitare nello spettatore. Quindi si capisce il suo intendo di scrivere testi non solo destinati ad una lettura “mentale”, ma anche alla recitazione dinanzi ad un uditorio: tuttavia generalmente non fece mai recitare le sue tragedie in teatri pubblici, ma più che altro le destinò a rappresentazioni private tra gruppi di amici aristocratici. Questa scelta non è casuale, bensì nasce da un rifiuto sprezzante del teatro contemporaneo, ritenuto frivole e volgare, per gli attori (giudicati incapaci ad interpretare i suoi eroi), ma anche per il pubblico (troppo mediocre e insensibile); infondo, Alfieri scriveva tragedie (uno La seconda fase: le sperimentazione Con Virginia finisce la prima fase ed inizia la seconda: un periodo di sperimentazioni in cui il poeta si impegnò molto al lavoro di scavo interiore e di revisione dei suoi miti (1777-1782). CONGIURA DEI PAZZI: ambientata nella Firenze di Lorenzo de Medici, Alfieri abbandona il mito classico per assumere una materia più moderna, rinascimentale. Anche questa è una “tragedia di libertà” ma, mentre in Virginia la virtù dell’eroe trionfa, qua viene sconfitta. Infatti la morte di Icilio scatenò la rivolta del popolo, qui, il suicidio di Raimondo dei Pazzi, che si opponeva alla tirannide di Lorenzo, rappresentala sconfitta. In quest’opera lo slancio libertario si infrange contro i limiti della realtà storica (la libertà non può vincere contro un governo assolutista). OTTAVIA: In questa opera, torna alla materia classica e comincia la fase pessimista, nata dalla consapevolezza delle problematiche interiori che bloccano l’essere umano e che lo rendono fragile e debole. Qua Ottavia, una delle moglie di Nerone che si oppone al tiranno, non è più l’eroina titanica delle prime tragedie, è una creatura fragile e debole: compare quindi nella tragedia di Alfieri, dei temi nuovi: la contemplazione della debolezza umana, la pietà, la commozione. La terza fase: la crisi definitiva dell’individualismo eroico SAUL: in questa tragedia, l’individualismo alfieriano e l’aspiratezza alla grandezza eroica entrano in crisi. Saul è il re d’Israele che, alla vigilia dello scontro con i nemici Filistei, sente tutto il peso della debolezza umana (del suo ruolo, lui deve proteggere il popolo), sotto forma di incubi, angosce, ossessioni che lo tormenta che arrivano fino a deliri di follia, privandolo di volontà e forze. Con quest’opera Alfieri arriva alla consapevolezza della reale miseria della condizione umana: il titano scopre la sua debolezza, il suo destino alla sconfitta; la presenza di un male che non è più al di fuori dell’eroe, ma al suo interno, ed è un nemico che difficilmente si sconfigge. MIRRA: l’orientamento presente nel Saul vi è anche qua; Mirra si innamora del padre, la storia quindi racconta questo incesto: il conflitto tragico non consiste più in uno scontro tra la volontà dell’eroe e il mondo esterno, ma la lotta di Mirra è contro gli impulsi dati dalla sua passione (sa che è sbagliato, ma è una passione sfrenata, che la corrode, senza riuscire a vincere questa “guerra” contro i suoi sentimenti, finche non arriva a suicidarsi). In questa tragedia Alfieri rivela la sua pietà verso l’infelice sorte degli uomini, simboleggiata da Mirra, che è vittima di un qualcosa che si sviluppa in lei (di cui non è responsabile). Con quest’opera vi è il punto conclusivo dell’individualismo eroiche alfieriano, già presente nella prima fase alfieriana. IL SAUL L’eroe abnorme Questa ultima parte della tragedia alfieriana, verte sul pessimismo: l’opera che racchiude maggiormente questa visione è il Saul. Saul rappresenta la figura di un eroe del tutto nuovo: un eroe lacerato e perplesso, in cui vengono messi in risalto tutti i conflitti che il re d’Israele ha; sono dei conflitti interiori che lo portano ad isolarsi e che non gli lasciano via di scampo (sconfitta). Sotto un certo punto di vista si può paragonare ai vecchi tiranni delle precedenti tragedie alfieriana (filippo, Lorenzo, Eteocle): il fatto di volere avere un potere smisurato e illimitato, di affermare totalmente la propria volontà, la propria individualità oltre ogni limite. La novità del Saul è che si scontra con un limite invalicabile: la volontà superiore di Dio; fino a questo momento li antagonisti dei tiranni erano delle figure sempre umane, questa volta no. L’affermazione della propria grandezza si trasforma in una sfida verso Dio, ma l’eroe sa già che il suo destino è la sconfitta (titanismo). Sempre con questo motivo del peccato d’orgoglio di una personalità titanica, esistono altre opere che, se pur si presentano in forme diverse, hanno degli aspetti affini, come il dramma giovanile di Schiller “i masnadieri”, scritto all’incirca negli stessi anni del Saul. Questi eroi titanici e ribelli segnano una nuova temperia culturale, una nuova “stagione” (nuovo modo di vivere la cultura), incentrata su questo scontro interiore dei personaggi: finisce l’Illuminismo e inizia il romanticismo; il motivo è che in Europa c’è l’Ancien regine che ha soffocato tutto, e gli illuministi, con la loro razionalità, non hanno fatto altro che dare risposte pratiche e non letterarie; Alfieri ci dice “niente poetico, e tutto ragione, che spegne lo slancio passionale”, quindi critica l’assolutismo che ha assopito gli animi. Lo scontro con il trascendentale Lo scontro dell’eroe con una dimensione trascendentale (tutto ciò che ha a che fare con la spiritualità e religiosità) quindi è una novità della tragedia alfieriana, in quanto appunto vi è lo scontro tra Saul e Dio. Il problema centrale, nonché grande novità, è che il Dio con cui Saul pensa di scontrarsi non esiste (Alfieri aveva comunque una spiritualità, in una figura superiore), bensì quello che Saul chiama Dio, non è altro che una rappresentazione del suo animo, è la coscienza che lo crea: una proiezione dei suoi conflitti interiore, del suo terribile senso di colpa, nato dalla smisurata volontà di potenza , che lo porta a calpestare senza pietà ogni ostacolo che gli si para davanti, facendo soffrire anche i figli, o David. Di conseguenza a questo senso di colpa, la volontà titanica va inevitabilmente incontro alla sconfitto: quella forza diventa un senso di angoscia e di insufficienza, impotenza e di sfiducia umana. Quindi, come dice Masiello, nel Saul vi è la crisi dell’individualismo eroico e titanico e la scoperta dei limiti della condizione umana, i limiti del titanismo. L’interiorizzarsi del conflitto tragico Per questo motivo, il conflitto tragico che fino ad allora vedeva scontrarsi l’eroe con forze esterne (es. volontà degli altri, società, fato), qua si interiorizza, la tragedia si svolge tutto dentro la psiche di Saul: l’eroe ora si scontra contro delle forze che si agitano nel profondo, ed anche questa è una novità della produzione tragica, più moderna e romanticista. Nella prima scena del secondo atto, Saul confida al suo consigliere Abner, la sua “vita orribile”, il continuo oscillare tra stati d’animo opposti (l’insofferenza, il senso di impotenza, le manie, la volontà) che lo tormentano e che indeboliscono quindi il suo titanismo, destinandolo alla sconfitta. Il conflitto interno si manifesta anche nel rapporto con David, suo genero e miglior cavaliere; un altro tema importante della tragedia. Anche qua Saul non ha un conflitto con il David concreto, bensì immaginario, un fantasma creato dalle sue ossessioni: è una proiezione della zona oscura dell’anima di Saul; infatti in lui il re, ormai vecchio e stanco, vede l’immagine di sé da giovane, ancora forte e sicuro. Saul nei confronti di David assume quindi un atteggiamento ambivalente, di amore e odio: amore: vede nel giovane guerriero se stesso; odia: rappresenta ciò che ormai non è più. In questo scontro quindi si proietta solo la frattura interiore del vecchio re, un conflitto tra tiranno ed eroe di libertà. La tragedia si presente quindi come un grande monologo, in quando Saul non parla mai veramente con gli altri, ma sempre con se stesso: i personaggi infatti non sono altro che proiezioni delle sue ossessioni. È quindi un conflitto drammatico tra forze diverse, solo che queste forze sono interne all’animo del protagonista
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