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divina commedia canto 4 parafrasi, Dispense di Italiano

divina commedia canto 4 parafrasi

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 19/09/2019

noemi-quondam
noemi-quondam 🇮🇹

4.5

(9)

46 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica divina commedia canto 4 parafrasi e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! Inferno, Canto IV G. Stradano, Il Limbo (1587) "Or discendiam qua giù nel cieco mondo," cominciò il poeta tutto smorto. Io sarò primo e tu sarai secondo"... Intanto voce fu per me udita: "Onorate l'altissimo poeta; l'ombra sua torna, ch'era dipartita"... Venimmo al piè d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura, difeso intorno d'un bel fiumicello... Argomento del Canto Ingresso nel Limbo. Descrizione delle anime e salvezza dei patriarchi biblici. Incontro con Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Il castello degli «spiriti magni». È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300. Risveglio di Dante (1-24) Un forte tuono risveglia Dante dal suo sonno, per cui il poeta si rialza e si guarda intorno. Comprende di essere al di là dell'Acheronte, nel primo dei nove Cerchi in cui è diviso l'Inferno, il cui fondo è così oscuro che non riesce a vedervi nulla. Virgilio invita Dante a seguirlo, ma con un pallore che allarma Dante, il quale infatti ne chiede il motivo. Virgilio risponde che la sua angoscia è dovuta alla presenza in quel luogo di anime che lui ben conosce, essendo lui stesso uno spirito relegato nel Limbo. Dopo aver ricordato a Dante che la strada da percorrere è lunga, lo conduce all'interno del Cerchio. Ingresso nel Limbo (25-63) G. Doré, Il Limbo Appena entrato nel Cerchio, Dante sente trarre sospiri da ogni parte, emessi dalle molte anime presenti che non subiscono alcuna pena. Virgilio spiega al discepolo che queste anime non commisero alcun peccato, ma non ricevettero il battesimo, il che li esclude per sempre dalla salvezza. Tra di essi vi sono anche i pagani che vissero virtuosamente ma non adorarono il Dio cristiano, compreso Virgilio stesso; la loro unica pena consiste del desiderio inappagato di vedere Dio. Dante comprende che nel Limbo sono «sospese» anime di grandissimo valore e virtuose. Dante chiede poi a Virgilio se mai qualcuna di queste anime sia uscita dal Limbo, per merito suo o di altri. Virgilio risponde che poco tempo dopo il suo arrivo vide entrare Cristo trionfante (dopo la Risurrezione), che trasse fuori dal Limbo i patriarchi biblici per portarli in Paradiso: tra essi Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe e i suoi figli, Isacco, Rachele. Prima di loro, conclude Virgilio, nessuno si era mai salvato. Incontro con i poeti antichi (64-105) dei ladri nella VII Bolgia e manifesta con un certo orgoglio la propria abilità che gli consente, a suo dire, di superare di gran lunga il loro esempio e il loro magistero. Già in questo Canto, del resto, il poeta moderno viene accolto nella compagnia di quelli antichi e si vanta di essere sesto tra cotanto senno, ammesso alla discussione di profondi argomenti che, in virtù di una sorta di reticenza, non esplicita al lettore. Nella seconda parte viene descritto il castello degli «spiriti magni», ovvero i pagani virtuosi che si sono distinti per meriti letterari, militari, scientifici o morali, e che pur non essendo salvi godono di un maggior grado di considerazione rispetto alle altre anime. Tra questi Dante cita personaggi del mito classico, sia del ciclo troiano sia di quello latino e personaggi dell'antica storia romana, come il Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia moglie di Collatino che si suicidò per la violenza subita da Sesto Tarquinio, la figlia di Giulio Cesare, la moglie di Catone Uticense. Cita anche personaggi musulmani, come il Saladino e i filosofi Avicenna e Averroè, nonché quasi tutti i filosofi greci, tra i quali Aristotele è definito maestro di color che sanno. Il luogo in cui essi risiedono è un nobile castello che li tiene separati dal resto delle anime del Limbo, in ragione dell'eccellenza che essi raggiunsero durante la vita terrena, e che rappresenta l'unico punto luminoso nella tenebrosa oscurità del I Cerchio; all'interno vi è un giardino la cui descrizione ricorda molto quella classica del locus amoenus, nonché la raffigurazione dei Campi Elisi dove Enea, nel libro VI dell'Eneide, incontra l'ombra del padre Anchise (l'eroe troiano figura tra gli spiriti indicati da Dante, mentre curiosamente assente è il padre che non viene mai presentato direttamente nel poema). L'episodio ha anche una certa attinenza con quello della valletta dei principi negligenti (Purg., VII-VIII), in cui sarà il poeta Sordello a indicare a Dante e Virgilio alcune anime particolarmente eminenti, in modo a simile a quanto Anchise fa col figlio Enea nel poema virgiliano mostrandogli i futuri eroi dell'antica Roma. La speranza per i bambini morti senza battesimo Papa Benedetto XVI (2007) Uno degli aspetti più problematici inerenti le anime confinate nel Limbo riguarda i bambini morti prima di essere battezzati, che pur essendo innocenti e non avendo commesso alcuna colpa sono irrimediabilmente esclusi dalla salvezza: il punto doveva colpire non poco i teologi medievali, che infatti se ne occupano in più di uno scritto, ed anche lo stesso Dante vi accenna ripetutamente nella sua descrizione del I Cerchio da cui proviene la sua guida nella prima parte del viaggio, il poeta latino Virgilio. In Inf., IV, 29-30 egli sottolinea che nel Limbo si sentono dei profondi sospiri emessi dalle anime lì relegate, turbe, ch'eran molte e grandi, / d'infanti e di femmine e di viri, mentre in Purg., VII, 31-33 è Virgilio a spiegare al concittadino Sordello che nel I Cerchio ci sono anche i pargoli innocenti / dai denti morsi de la morte avante / che fosser de l'umana colpa esenti, parole in cui è evidente l'apparente ingiustizia che la volontà divina sembra riservare a questa categoria di anime. Va aggiunto che l'aquila degli spiriti giusti, nel suo discorso sulla predestinazione e sulla salvezza nei Canti XIX-XX del Paradiso, risponde al dubbio di Dante sull'argomento (che lui stesso dichiara che lo ha tormentato a lungo) riconducendo tutto all'imperscrutabile giudizio divino, per cui ciò che può sembrare un'apparente ingiustizia trova la sua spiegazione nell'abisso della saggezza di Dio, che però è inconoscibile al limitato intelletto umano. Il tema è delicato, in quanto l'esistenza del Limbo era ammessa dalla dottrina cristiana ma non trovava giustificazione in nessun punto delle Scritture, senza contare che il battesimo non era sempre condizione indispensabile per essere ammessi alla grazia: oltre all'eccezione rappresentata dai patriarchi biblici, rimasti nel Limbo fino alla Resurrezione di Cristo e poi portati da Lui in Paradiso, la dottrina riconosceva il caso di quei pagani che per meriti eccezionali e in virtù di un alto privilegio erano stati salvati, di cui vi sono vari esempi anche nel poema dantesco (i più clamorosi sono quelli di Catone Uticense, Rifeo e Traiano). Recentemente la Chiesa Cattolica è tornata sulla questione dei bambini morti senza battesimo e ha cautamente ipotizzato che per essi vi possa essere una speranza di salvezza, rimuovendo dunque il carattere di perentorietà circa la loro perdizione che era posta dalla teologia medievale: nel 2007 la Commissione Teologica Internazionale ha infatti redatto un documento, approvato dal pontefice Benedetto XVI, in cui si afferma che il battesimo è condizione necessaria per essere ammessi alla grazia, ma che è lecito sperare che Dio possa salvare i bambini morti senza aver ricevuto il sacramento (dunque l'esistenza del Limbo non viene negata e, anzi, esso viene ritenuta un'«ipotesi teologica possibile», ma viene di molto attenutata la sua importanza sul piano della salvezza individuale). Ecco come si esprime la Chiesa nel citato documento: «La conclusione dello studio è che vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione. Nessuna delle considerazioni che il testo propone per motivare un nuovo approccio alla questione, può essere addotta per negare la necessità del Battesimo né per ritardare il rito della sua amministrazione. Piuttosto vi sono ragioni per sperare che Dio salverà questi bambini, poiché non si è potuto fare ciò che si sarebbe desiderato fare per loro, cioè battezzarli nella fede della Chiesa e inserirli visibilmente nel Corpo di Cristo... Gli adulti, essendo stati dotati di ragione, coscienza e libertà, sono responsabili del proprio destino, nella misura in cui accolgono o respingono la grazia di Dio. I bambini tuttavia, non avendo ancora l’uso della ragione, della coscienza e della libertà, non possono decidere per se stessi... Da un punto di vista teologico, lo sviluppo di una teologia della speranza e di una ecclesiologia della comunione, insieme al riconoscimento della grandezza della misericordia divina, mettono in discussione un’interpretazione eccessivamente restrittiva della salvezza» (testo approvato il 19 genn. 2007 e pubblicato sul sito ufficiale del Vaticano). Tale posizione della Chiesa non fa che risolvere, almeno in parte, i dubbi teologici che già Dante e i pensatori del suo tempo avevano avanzato sulla questione, e pur non dichiarando espressamente che questi bambini saranno salvi, tuttavia riconduce ancora tutto alla volontà di Dio, mettendo maggiormente l'accento sulla Sua misericordia piuttosto che sul carattere implacabile della Sua giustizia. Non sappiamo cosa avrebbe pensato Dante se avesse potuto leggere queste considerazioni, ma è lecito affermare che il documento citato resta nel solco della dottrina e non ne mette in discussione i principi fondamentali (caso mai, li interpreta in maniera meno restrittiva), per cui l'attuale posizione della Chiesa non è certo in contrasto con quella espressa da Dante il quale, non dimentichiamolo, si rifaceva anch'egli strettamente alle affermazioni dei teologi a lui coevi. (Foto: © F. Pozzebom / Wikimedia Commons) Note e passi controversi Non è chiaro cosa sia il truono che risveglia Dante all'inizio del Canto (vv. 1-3): probabilmente si tratta di un evento prodigioso, come il terremoto e la luce rossastra che ne hanno provocato lo svenimento alla fine del Canto III. Il v. 30 riecheggia Aen., VI, 306-307: matres atque viri... pueri innuptaeque puellae («donne e uomini, fanciulli e ragazze ancora non maritate»), riferito alle anime che si affollano in riva all'Acheronte. Le parole di Virgilio ai vv. 33-36 anticipano la spiegazione dell'aquila nel Cielo di Giove, Par., XIX, 103-105: A questo regno / non salì mai chi non credette 'n Cristo, / né pria né poi ch'el si chiavasse al legno. Al v. 45 l'agg. sospesi è lo stesso usato da Virgilio in II, 52. Il v. 69 (ch'emisperio di tenebre vincia) assume diverso significato a seconda che il sogg. sia che oppure emisperio, e che il verbo voglia dire «vinceva» o «attorniava»: nel primo caso si legge una luce che vinceva un emisfero di tenebre, nel secondo che un emisfero di tenebre attorniava, sempre riferendosi alla luce che proviene dal castello. La spada che Omero tiene in mano (v. 86) è un riferimento al fatto che fu poeta guerresco (specie nell'Iliade), ma è anche una connotazione della sua superiorità sugli altri tre. Il v. 95 (di quel segnor de l'altissimo canto) può riferirsi a Omero o Virgilio, anche se quanto detto prima da Dante fa pensare al poeta greco, definito sire degli altri tre. La descrizione del castello degli «spiriti magni» si rifà in gran parte a quella dei Campi Elisi dell'Eneide (VI, 638 ss.), specie nel particolare dei poeti che si pongono su una specie di altura da cui possono vedere tutti gli spiriti (si tratta di una sorta di locus amoenus e la scena è simile anche a Purg., VII, 70 ss., quando Sordello indica a Dante e Virgilio le anime dei principi negligenti nella valletta). Le sette mura e le sette porte del castello sono state oggetto delle più svariate ipotesi interpretative (le sette arti liberali, le sette virtù, le sette ripartizioni della filosofia...), ma nessuna sembra in grado di prevalere sulle altre. Nei vv. 130-135 è indicata la netta superiorità di Aristotele rispetto a tutti gli altri filosofi, dal momento che lo Stagirita siede più in alto e tutti onor li fanno (ciò è dovuto all'enorme importanza del suo pensiero nel tomismo e nella teologia cristiana dei secc. XII-XIII). Il v. 136 allude alla teoria atomistica di Democrito (Dante si rifà probabilmente a san Tommaso d'Aquino). Dioscoride è detto buono accoglitor del quale (v. 139) in quanto autore di una classificazione delle qualità medicinali delle piante. Al v. 141 Dante cita Seneca morale, ma non è affatto certo che volesse distinguerlo da Seneca tragico, visto che probabilmente sapeva bene trattarsi dello stesso autore. Testo Ruppemi l’alto sonno ne la testa un greve truono, sì ch’io mi riscossi come persona ch’è per forza desta; 3 e l’occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dov’io fossi. 6 Vero è che ’n su la proda mi trovai de la valle d’abisso dolorosa che ’ntrono accoglie d’infiniti guai. 9 Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa. 12 «Or discendiam qua giù nel cieco mondo», cominciò il poeta tutto smorto. «Io sarò primo, e tu sarai secondo». 15 E io, che del color mi fui accorto, dissi: «Come verrò, se tu paventi che suoli al mio dubbiare esser conforto?». 18 Ed elli a me: «L’angoscia de le genti Parafrasi Un forte tuono interruppe il sonno nella mia testa, così che io mi scossi come qualcuno che si sveglia di soprassalto; e mossi intorno lo sguardo riposato, fissandolo dritto, e osservai con attenzione per capire dove mi trovassi. In effetti mi ritrovai sull'orlo estremo della valle dolorosa dell'Inferno, che accoglie in sé un rimbombo di infiniti lamenti. Era a tal punto oscura, profonda e nebulosa che pur figgendo lo sguardo al fondo, non riuscivo a vedere nulla. «Ora iniziamo a scendere nel mondo cieco,» cominciò Virgilio pallido in volto. «Io andrò per primo, tu mi seguirai». E io, accortomi del suo pallore, dissi: «Come potrò venire, se tu, che solitamente conforti ogni mio dubbio, sei spaventato?» Lo buon maestro cominciò a dire: «Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire: 87 quelli è Omero poeta sovrano; l’altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano. 90 Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, fannomi onore, e di ciò fanno bene». 93 Così vid’i’ adunar la bella scola di quel segnor de l’altissimo canto che sovra li altri com’aquila vola. 96 Da ch’ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, e ’l mio maestro sorrise di tanto; 99 e più d’onore ancora assai mi fenno, ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, sì ch’io fui sesto tra cotanto senno. 102 Così andammo infino a la lumera, parlando cose che ’l tacere è bello, sì com’era ’l parlar colà dov’era. 105 Venimmo al piè d’un nobile castello, sette volte cerchiato d’alte mura, difeso intorno d’un bel fiumicello. 108 Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura. 111 Genti v’eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne’ lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi. 114 Traemmoci così da l’un de’ canti, quella spada in mano, che precede gli altri come il loro signore: quello è Omero, il più grande di tutti i poeti; l'altro che lo segue è Orazio, autore delle Satire; il terzo è Ovidio e l'ultimo è Lucano. Poiché ognuno di essi ha in comune con me il nome che pronunciò quella sola voce (il nome di poeta), mi rendono onore e in questo fanno bene». Così vidi radunarsi la bella scuola poetica di quel signore che scrisse altissimi versi, che vola sopra gli altri come un'aquila. Dopo che ebbero parlato un poco tra loro, si rivolsero a me facendomi cenni di saluto e il mio maestro sorrise di questo; e mi resero un onore ancora maggiore, poiché mi accolsero nella loro schiera, così che fui il sesto membro di quel gruppo così assennato. In questo modo procedemmo fino alla luce, dicendo cose che è bello tacere, proprio come era bello parlarne in quel luogo. Giungemmo ai piedi di un nobile castello, circondato da sette ordini di mura e protetto intorno da un bel fiumicello. Lo oltrepassammo come fosse di terra; entrai con questi saggi attraverso sette porte e giungemmo in un prato di fresca erba verde. Vi erano delle anime con sguardi tranquilli e austeri, dall'aspetto molto autorevole: parlavano poco, con voci dolci. Ci portammo in un angolo, in un punto aperto, luminoso e posto in alto, così che li potessimo vedere tutti quanti. in loco aperto, luminoso e alto, sì che veder si potien tutti quanti. 117 Colà diritto, sovra ’l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso m’essalto. 120 I’ vidi Eletra con molti compagni, tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni. 123 Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l’altra parte, vidi ’l re Latino che con Lavina sua figlia sedea. 126 Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; e solo, in parte, vidi ’l Saladino. 129 Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, vidi ’l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia. 132 Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid’io Socrate e Platone, che ’nnanzi a li altri più presso li stanno; 135 Democrito, che ’l mondo a caso pone, Diogenés, Anassagora e Tale, Empedoclès, Eraclito e Zenone; 138 e vidi il buono accoglitor del quale, Diascoride dico; e vidi Orfeo, Tulio e Lino e Seneca morale; 141 Euclide geomètra e Tolomeo, Ipocràte, Avicenna e Galieno, Averoìs, che ’l gran comento feo. 144 Io non posso ritrar di tutti a pieno, però che sì mi caccia il lungo tema, Lì di fronte, sopra l'erba verde come smalto, mi furono mostrati gli «spiriti magni» (le grandi anime), e in me stesso mi esalto di averli visti. Io vidi Elettra con molti compagni, tra cui riconobbi Ettore ed Enea, Cesare armato con gli occhi minacciosi. Vidi Camilla e Pentesilea; dalla parte opposta vidi il re Latino, che sedeva con sua figlia Lavinia. Vidi Lucio Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo, Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia; e tutto solo, in un angolo, vidi il Saladino. Dopo aver alzato un poco più lo sguardo, vidi il maestro di tutti i sapienti (Aristotele) che sedeva in mezzo ad altri filosofi. Tutti lo ammirano, tutti gli rendono onore: qui io vidi Socrate e Platone, che gli stanno più vicini degli altri; (vidi) Democrito, che dice che il mondo è governato dal caso, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone; e vidi il saggio che descrisse le qualità delle piante, ovvero Dioscoride; e vidi Orfeo, Cicerone, Lino e il filosofo Seneca; (vidi) Euclide, fondatore della geometria, e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, e Averroè che scrisse il grande commento (ad Aristotele). Io non posso parlare dettagliatamente di tutti, poiché la vastità della materia mi incalza a tal punto che, spesso, devo omettere dei particolari. Il gruppo di sei poeti si divide in due: il saggio maestro mi conduce per un'altra strada, fuori dell'aria quieta e in quella che è burrascosa. E giungo in una parte dove non c'è nulla che sia illuminato. che molte volte al fatto il dir vien meno. 147 La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l’aura che trema. E vegno in parte ove non è che luca. 151
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