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divina commedia canto 6 parafrasi, Appunti di Italiano

divina commedia canto 6 parafrasi

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 19/09/2019

noemi-quondam
noemi-quondam 🇮🇹

4.5

(9)

46 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica divina commedia canto 6 parafrasi e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Inferno, Canto VI G. Stradano, Il III Cerchio (1587) Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gola caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa... "...Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco..." E 'l duca a me: "Più non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, quando verrà la nimica podesta..." Argomento del Canto Ingresso nel III Cerchio. Apparizione di Cerbero. Pena dei golosi. Incontro con Ciacco e sua profezia sul destino politico della città di Firenze. Ciacco indica come dannati alcuni fiorentini illustri, tra cui Farinata Degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Mosca dei Lamberti. Apparizione di Pluto. È la notte di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300. Incontro coi golosi. Cerbero (1-33) Cerbero (min. ferrarese, XV sec.) Dante si risveglia dopo lo svenimento al termine del colloquio con Paolo e Francesca e si accorge di essere arrivato nel III Cerchio, dov'è tormentata una nuova schiera di dannati. Una pioggia eterna, fredda, fastidiosa cade incessante nel Cerchio, mista ad acqua sporca e neve; forma al suolo una disgustosa fanghiglia, da cui si leva un puzzo insopportabile. I golosi sono sdraiati nel fango e Cerbero latra orribilmente sopra di essi con le sue tre fauci. Ha gli occhi rossi, il muso sporco, il ventre gonfio e le zampe artigliate; graffia le anime facendole a brandelli e rintronandole coi suoi latrati. I dannati urlano come cani per la pioggia, voltandosi spesso sui fianchi nel vano tentativo di ripararsi l'un l'altro. Quando Cerbero vede i due poeti gli si avventa contro, mostrando i denti, ma Virgilio raccoglie una manciata di terra e gliela getta nelle tre gole. Il mostro sembra placarsi, proprio come un cane affamato quando qualcuno gli getta un boccone. Incontro con Ciacco (34-57) G. Doré, I golosi Dante e Virgilio proseguono e passano letteralmente sopra le anime, che essendo immateriali non oppongono ostacolo. Tutte giacciono al suolo, ma una di esse si leva improvvisamente a sedere e si rivolge a Dante, chiedendogli se lo riconosce, dal momento che il poeta è nato prima che lui morisse. Dante risponde che il suo aspetto è talmente stravolto da renderlo irriconoscibile, quindi gli domanda il suo nome, affermando che superbia, invidia ed avarizia, quindi le tre disposizioni peccaminose che sono all'origine del disordine morale dell'Italia del tempo (l'avarizia era già simboleggiata dalla lupa, la superbia dal leone; l'invidia è il peccato che spinse Lucifero a ribellarsi a Dio e che aveva fatto uscire la lupa dall'Inferno, secondo quanto detto in Inf., I, 111). Col discorso di Ciacco, Dante intende stigmatizzare le divisioni interne di Firenze, che tante ingiustizie e dolori causeranno e che saranno frutto della avidità di denaro: l'avarizia dei Fiorentini sarà duramente criticata anche in altri celebri passi del poema, specie nel discorso sul maladetto fiore di Folchetto di Marsiglia (Par., IX, 127-142) in cui la città verrà addirittura definita come il prodotto di Lucifero, mentre l'invidia di cui secondo Ciacco è piena Firenze è anche quella provata dai concittadini di Dante verso il poeta per la sua condotta politica, che causerà il suo esilio in seguito ai fatti del 1301-1302 (discorso simile verrà fatto da Brunetto Latini nel Canto XV dell'Inferno). Sempre in quest'ottica va letta l'altra domanda sul destino escatologico dei fiorentini illustri (quelli ch'a ben far puoser li 'ngegni), vissuti nella prima metà del XIII sec. e protagonisti di una Firenze ideale, la stessa vagheggiata dall'avo Cacciaguida nel Canto XV del Paradiso: se ebbero meriti politici, non altrettanto può dirsi di quelli morali, visto che Ciacco preannuncia la loro dannazione (Dante incontrerà Farinata tra gli eresiarchi del VI Cerchio, Tegghiaio e il Rusticucci tra i sodomiti del VII, Mosca tra i seminatori di discordie della IX Bolgia dell'VIII Cerchio). L'ultima parte del Canto riguarda il destino dei dannati dopo il Giudizio Universale, spiegato da Virgilio in base ai principi della Fisica di Aristotele e in seguito alla sua affermazione secondo cui Ciacco, ricaduto nel fango al termine del suo discorso con Dante, non si rialzerà più fino all'angelica tromba (allora le anime risorte si rivestiranno dei loro corpi mortali, secondo un punto qualificante della dottrina che sarà toccato anche altrove da Dante: cfr. Par., XIV, 34-60). Secondo Virgilio il maggior grado di perfezione di una creatura ne accresce la sensibilità al piacere e al dolore, quindi, anche se i dannati non saranno mai perfetti, dopo che si saranno riappropriati del corpo il loro essere sarà più completo, quindi le loro pene accresceranno. L'accenno al Giudizio finale rimanda allo scontro tra Cristo e l'Anticristo, che dirimerà ogni divisione terrena e ristabilirà la giustizia in eterno: il primo è definito qui nimica podesta, il secondo è implicitamente evocato attraverso Pluto, il gran nemico (ovvero il demonio) che appare alla fine del canto e si ricollega in parte a Cerbero, definito demonio e gran vermo, lo stesso attributo di Lucifero. Note e passi controversi I due cognati (v. 2) sono Paolo e Francesca, i lussuriosi incontrati da Dante nel Canto V; ascoltando la loro storia il poeta era svenuto e all'inizio di questo Canto riprende i sensi. Il v. 14 presenta una cesura in tmesi, tra canina- e -mente (l'avverbio di modo è spezzato nei suoi elementi etimologici). Al v. 21 miseri profani è probabilmente una dittologia sinonimica che sta per «miseri moralmente e materialmente» (altri intendono l'espressione come «dannati»). Il v. 36 allude al fatto che le anime hanno corpi inconsistenti, quindi Dante e Virgilio possono porre su di loro le piante dei piedi come se non esistessero. Tavolta Dante è coerente con tale principio, in altri casi invece descrive le anime come corpi solidi (ciò per esigenze poetiche di maggior realismo). Il v. 42 contiene il bisticcio verbale disfatto / fatto, di gusto tipicamente guittoniano. Al v. 61 Dante definisce Firenze la città partita in quanto divisa in fazioni politiche. Al v. 65 la parte selvaggia indica i Bianchi, detti così perché i Cerchi che ne erano a capo venivano dal contado. Il fatto di sangue citato da Ciacco è la cosiddetta zuffa di Calendimaggio (1° maggio 1300) tra sostenitori dei Cerchi e dei Donati, in cui fu coinvolto anche l'amico di Dante, Guido Cavalcanti, che venne poi esiliato con provvedimento firmato dal poeta che ricopriva la carica di priore. Il v. 69 indica certamente Bonifacio VIII, che nel 1301-1302 fingeva di far da paciere tra le due fazioni e in realtà parteggiava segretamente per i Neri; alcuni hanno pensato a Carlo di Valois, le cui armi rovesciarono i Bianchi nel 1301. Il v. 73 (giusti son due) vuol dire probabilmente che i giusti, a Firenze, sono pochissimi, ma non sono mancate interpretazioni più puntuali (i due giusti sarebbero Dante e Dino Compagni, Dante e Guido Cavalcanti, ecc.). Alcuni commentatori hanno inteso giusto come sinonimo di diritto, quindi i due giusti sarebbero il diritto naturale e quello codificato con la legge, ma è ipotesi poco probabile. Al v. 79 Tegghiaio è bisillabo per via del trittongo -aio. L'Arrigo di cui parla Ciacco al v. 80 è un personaggio non identificato, che non viene più nominato fra i dannati. Al v. 84 attosca significa propriamente «avvelena», da tosco, «veleno» (cfr. XIII, 6, stecchi con tosco). Al v. 96 la nimica podesta è Cristo giudicante, così definito in quanto nemico dei dannati. I vv. 97-99 alludono alla credenza cristiana per cui, il Giorno del Giudizio, le anime risorte andranno nella valle di Iosafat a riappropriarsi dei loro corpi mortali (cfr. XIII, 103-108). La spiegazione di Virgilio ai vv. 106-111 si rifà strettamente al commento di san Tommaso d'Aquino al De anima di Aristotele, che cita quasi alla lettera: quanto anima est perfectior, tanto exercet plures perfectas operationes et diversas («quanto più l'anima è perfetta, tanto più numerose e perfette e diverse sono le operazioni che esercita»). Testo Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d’i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, 3 novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch’io mi mova e ch’io mi volga, e come che io guati. 6 Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l’è nova. 9 Grandine grossa, acqua tinta e neve per l’aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve. 12 Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa. 15 Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e ’l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra. 18 Urlar li fa la pioggia come cani; de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani. 21 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. 24 Parafrasi Quando mi tornarono i sensi, sopraffatti davanti all'angoscia dei due cognati (Paolo e Francesca) che mi riempì di tristezza, mi vedo intorno nuove pene e nuovi dannati, in qualunque modo mi muova, e mi guardi intorno. Sono nel III Cerchio, dove cade una pioggia eterna, maledetta, fredda e molesta; il suo ritmo e la sua qualità non mutano mai. Nell'aria oscura si riversano una grandine spessa, acqua sporca e neve; la terra che ne è bagnata manda un odore sgradevole. Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra come un cane con tre teste sopra i dannati che sono sdraiati nel fango. Ha gli occhi rossi, il muso sporco e unto, il ventre gonfio e le zampe con artigli; graffia, scuoia e fa a pezzi i dannati. La pioggia li fa urlare come cani; cercano di proteggersi l'un l'altro coi fianchi; i miseri peccatori si voltano spesso. Quando Cerbero, il mostro orribile, ci vide, spalancò le fauci e ci mostrò le zanne; non aveva parte del corpo che non tremasse. E ’l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne. 27 Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, e si racqueta poi che ’l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, 30 cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che ’ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde. 33 Noi passavam su per l’ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona. 36 Elle giacean per terra tutte quante, fuor d’una ch’a seder si levò, ratto ch’ella ci vide passarsi davante. 39 «O tu che se’ per questo ’nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto». 42 E io a lui: «L’angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, sì che non par ch’i’ ti vedessi mai. 45 Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente loco se’ messo e hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente». 48 Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. 51 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. 54 E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa». E più non fé parola. 57 E il mio maestro aprì le mani, prese un po' di terra e la gettò coi pugni pieni nelle fauci fameliche del mostro. Come quel cane che abbaia ed è affamato, e poi si placa quando addenta il boccone, poiché non ha altro pensiero che divorarlo, allo stesso modo si placarono le facce sozze del demonio Cerbero, che rintrona a tal punto le anime che vorrebbero essere sorde. Noi camminavano sulle anime che la pioggia pesante abbatte, e poggiavamo i piedi sui loro corpi inconsistenti, dall'aspetto umano. Esse erano tutte sdraiate per terra, tranne una che si mise a sedere non appena ci vide passare davanti. Mi disse: «O tu che sei guidato attraverso l'Inferno, riconoscimi, se ne sei in grado: tu nascesti prima che io morissi». Gli risposi: «L'angoscia che dimostri ti rende irriconoscibile, proprio come se non ti avessi mai visto. Ma dimmi chi sei tu, che sei posto in un luogo così doloroso e subisci una pena tale che, forse, altre sono più gravi, ma nessuna è altrettanto spiacevole». E lui rispose: «La tua città, che è tanto piena di invidia che ormai ha raggiunto il limite, mi ospitò nella vita terrena. Voi fiorentini mi chiamaste Ciacco: a causa della colpa della gola, come vedi, sono fiaccato dalla pioggia. E io non sono l'unico dannato qui, poiché queste altre anime sono soggette alla stessa pena per lo stesso peccato». Poi non disse più nulla. Io risposi: «Ciacco, il tuo affanno mi angoscia al punto
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