Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

divina commedia canto 7 parafrasi, Appunti di Italiano

divina commedia canto 7 parafrasi

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 19/09/2019

noemi-quondam
noemi-quondam 🇮🇹

4.5

(9)

46 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica divina commedia canto 7 parafrasi e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Inferno, Canto VII G. Stradano, Avari e prodighi (1587) Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia e disse: "Taci, maladetto lupo! Consuma dentro te con la tua rabbia..." "...In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi..." L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giù per una via diversa... Argomento del Canto Minacce di Pluto. Ingresso nel IV Cerchio e descrizione della pena di avari e prodighi. Discorso di Virgilio sulla Fortuna. Ingresso nel V Cerchio (Stige) e descrizione della pena degli iracondi, tra cui gli accidiosi. È la notte tra venerdì 8 aprile (o 25 marzo) e sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300. Incontro con Pluto (1-15) All'ingresso nel IV Cerchio i due poeti incontrano Pluto, custode di quella zona infernale. Il mostro, che ha sembianze di lupo, inveisce contro di loro pronunciando parole incomprensibili, ma Virgilio rassicura Dante del fatto che non potrà impedire il loro cammino, quindi rimprovera il demone e lo zittisce ricordandogli la sconfitta subita da Lucifero ad opera dell'arcangelo Michele. A questo punto Pluto cade a terra prostrato e i due poeti possono proseguire. Gli avari e i prodighi (16-66) G. Doré, Avari e prodighi Dante e Virgilio entrano nel IV Cerchio, dove sono stipate moltissime anime. I dannati spingono faticosamente enormi macigni, divisi in due schiere che procedono lungo il Cerchio in senso opposto. Quando cozzano gli uni contro gli altri, si gridano a vicenda: «Perché tieni stretto il masso?» e «Perché lo fai rotolare?», quindi si girano indietro e riprendono la loro bizzarra giostra. Dante, sopraffatto dall'angoscia, chiede a Virgilio chi siano quei dannati e in particolare se le anime che vede con la tonsura siano effettivamente tutti chierici. Il maestro spiega che tutti loro in vita non spesero il denaro con giusta misura, peccando gli uni di avarizia e gli altri di prodigalità. Le anime con la tonsura furono effettivamente chierici, tutti peccatori di avarizia e fra loro ci sono anche papi e cardinali. Dante si stupisce di non riconoscere nessuno di loro, ma Virgilio chiarisce che il carattere immondo del loro peccato ora li rende del tutto irriconoscibili. Per l'eternità le due schiere di dannati si scontreranno nei due punti del Cerchio, finché il giorno del Giudizio gli avari risorgeranno col pugno chiuso e i prodighi coi capelli tagliati. Virgilio conclude dicendo che i beni terreni, affidati alla fortuna, sono effimeri e tutto l'oro del mondo sarebbe insufficiente a placare queste anime afflitte. La teoria della Fortuna (67-99) col pugno chiuso e i prodighi coi crin mozzi, a simboleggiare per l'eternità il loro peccato e ad affermare che l'attaccamento alle ricchezze terrene le ha escluse irrimediabilmente dalla salvezza, mentre tutto l'oro del mondo adesso diventa inutile ai loro occhi. Va aggiunto che tutta questa descrizione è sottolineata da suoni aspri e rime difficili, come -erci, -erchio, -ozzi, -ulcro, -uffa, -anche (in cui abbondano le consonanti gutturali e c'è ampio uso di metafore animalesche e termini rari), mentre nel successivo discorso di Virgilio sulla Fortuna il tono si farà più disteso e i suoni assai più morbidi, forse per creare un voluto contrasto con la materia trattata in precedenza. Gli antichi interpretavano la Fortuna come una dea capricciosa e volubile, che teneva tra branche (tra gli artigli) i beni terreni, come una creatura animalesca, e dispensava e toglieva le ricchezze agli uni e agli altri in modo del tutto casuale e senza alcuna considerazione razionale: Dante ha ben presente questa concezione e ne chiede conto a Virgilio, la cui risposta smentisce decisamente a lume di filosofia i luoghi comuni che nel Medioevo ancora esistevano su questa divinità. Virgilio chiarisce che essa è in realtà un'intelligenza angelica, ministra ed esecutrice della volontà divina, che trasmuta le ricchezze di mano in mano secondo il suo giudizio inconoscibile agli uomini che, è evidente, si conforma a quello di Dio: tale visione è propria della cultura medievale, profondamente diversa dalla concezione classica e umanistica che riconduceva la fortuna al caso e quindi la subordinava alla virtù umana (Virgilio spiega invece che la prudenza umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio è occulto come in erba l'angue); se gli uni si arricchiscono e gli altri si impoveriscono ciò non è dovuto al caso o al capriccio della dea, ma al disegno provvidenziale di Dio in cui tutto ha un senso e nulla avviene per caso, anche se ciò non è immediatamente comprensibile agli uomini il cui intelletto non può penetrare nell'abisso della saggezza divina. Ciò ribadisce la scarsa importanza delle ricchezze materiali, in cui carattere transitorio dimostra che ben poco peso devono avere nella vicenda degli uomini sulla Terra e nulla possono determinare quanto alla salvezza ultraterrena che dipende da ben altro, per cui l'eccessivo confidare nella Fortuna rischia di portare alla dannazione come capitato alle anime di questo Cerchio. L'ultima parte del Canto introduce gli iracondi immersi nella palude Stigia che circonda la città di Dite: tra di essi vi sono gli «accidiosi», ovvero gli iracondi che covarono a lungo il risentimento e meditarono vendetta, posti sott'acqua e intenti a pronunciare parole che fanno ripullulare la superficie della palude, con cui ammettono la loro colpa e il fatto di essere stati tristi nella vita felice. Da scartare l'ipotesi che Dante intendesse con questi i peccatori di accidia, il quarto peccato capitale, e ancor più l'opinione che nello Stige sarebbero immersi anche superbi e invidiosi, per completare il quadro dei peccati di eccesso puniti nei primi sei Cerchi. Questo è anche il primo Canto dell'Inferno in cui la conclusione non coincide con la visione di un determinato luogo e tutto viene lasciato in sospeso, creando un'atmosfera di attesa che verrà sciolta all'inizio dell'episodio seguente: nel Canto VIII verrà infatti mostrata con ulteriori dettagli la pena degli altri iracondi, e verrà in parte spiegata anche la funzione della torre che è indicata alla fine di questo Canto, con la segnalazione luminosa che (forse) sarà il richiamo convenuto per Flegiàs, il demone col compito di traghettare le anime attraverso la palude (benché su questa figura, come già per Pluto, vi sia più di un'incertezza tra gli interpreti). La fortuna nel pensiero rinascimentale: Machiavelli S. di Tito, Ritratto di N. Machiavelli Nel Canto VII dell'Inferno Dante descrive la fortuna come un'intelligenza angelica, una specie di «ministra» incaricata di trasmutare le ricchezze materiali da un individuo all'altro e da una famiglia all'altra in base al giudizio divino imperscrutabile all'uomo: questa è la visione della cultura teocentrica del Medioevo che trova ampia espressione nel poema dantesco, ma già pochi decenni più tardi nel Decameron di G. Boccaccio la fortuna verrà rappresentata come il semplice caso, che interviene nelle vicende umane senza alcun disegno preordinato e a cui l'uomo è in grado di opporsi grazie al ricorso all'industria, ovvero l'insieme delle virtù del mercante e di chi è in grado di costruirsi il proprio destino. Tale visione anticipa per molti aspetti quella che sarà elaborata più tardi in età umanistico-rinascimentale, in cui il teocentrismo del Due-Trecento verrà sostituito dal cosiddetto antropocentrismo e si riconoscerà all'uomo l'effettiva capacità di forgiare la propria sorte, senza essere per forza subordinato al volere divino che, pur non essendo negato, viene tuttavia ridimensionato e posto all'esterno delle vicende umane. È ovvio che il tema della fortuna era destinato ad essere affrontato in una luce nuova, e tra i molti scrittori del Cinquecento che si occuparono a vario titolo della questione spicca N. Machiavelli (1469-1527), il fondatore della politica come scienza disgiunta dalla morale e autore del trattato più importante dell'età rinascimentale, il Principe: nel cap. XXV lo scrittore fiorentino parla proprio della fortuna e parte dalla considerazione che grande sembra essere il suo peso nelle vicende storiche, specie guardando all'Italia e alla grave crisi politica che il Paese attraversa all'inizio del XVI sec., anche se Machiavelli è convinto che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, mentre l'altra metà ricade nel libero arbitrio dell'uomo e dunque questi è in grado, con opportuni accorgimenti, di opporsi ai rovesci della malasorte. L'azione della fortuna è paragonata a quella rovinosa di un fiume in piena che esonda e distrugge campi e coltivazioni, ma i cui danni possono essere limitati da opere quali ripari e argini, per cui la fortuna dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle (l'Italia nel primo Cinquecento dimostra questo assunto, poiché essa appare allo scrittore come una campagna senza argini ed esposta alle invasioni straniere, diversamente da Francia, Germania, Spagna). È chiaro che nella visione di Machiavelli la fortuna è lontanissima dalla visione dantesca dell'intelligenza angelica ed è assimilata al caso che scombina i progetti degli uomini, come del resto dimostra l'esempio del duca Valentino (Cesare Borgia) proposto nel cap. VII: il nobile era riuscito a creare dal nulla un vasto dominio grazie a un'azione politica spregiudicata e all'appoggio di papa Alessandro VI, di cui era figlio naturale, ma l'improvvisa e inattesa morte di questi lo colse di sorpresa e ne causò la rovina, poiché il Valentino non si era premunito ottenendo l'elezione di un nuovo papa a lui favorevole. La fortuna è vista allora come il mutare inopinato delle circostanze in cui agisce l'uomo politico, che deve essere preparato a ogni evenienza ed essere pronto ad adattare il suo modus operandi al cambiamento di situazione, anche se Machiavelli giudica che una condotta impetuosa e irruenta sia comunque da preferire ad una eccessivamente cauta e guardinga: ne è un felice esempio papa Giulio II che, agendo d'impulso, ebbe sempre successo nei suoi progetti politici, per cui lo scrittore può concludere dicendo che la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, battere e urtarla... come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi [riflessivi, cauti], più feroci, e con più audacia la comandano. È appena il caso di osservare quanto tale descrizione della fortuna sia distante da quella dantesca, poiché la mentalità di Machiavelli è ormai saldamente ancorata in quel sistema di pensiero che costituisce la modernità e che, fatte salve le debite differenze, è assai più vicino al nostro di quanto non lo fosse quello in cui nacque la Commedia. Note e passi controversi Il v. 1 è stato variamente interpretato, dando luogo a una vera e propria letteratura critica. Da scartare l'ipotesi che le parole di Pluto siano senza senso, mentre più probabilmente si tratta di una invocazione a Satana-Lucifero di cui forse lo stesso Pluto è figura allegorica (la frase vorrebbe dire pressappoco: «Oh, Satana, oh, Satana, re dell'Inferno», in cui gli studiosi hanno visto analogie col francese, col greco, con l'ebraico e persino con l'arabo). Virgilio zittisce Pluto con una formula simile a quelle già usate per Caronte e Minosse. I vv. 11-12 alludono alla punizione di Lucifero e degli altri angeli ribelli ad opera dell'arcangelo Michele (strupo è metatesi per «stupro», nel senso di «ribellione»). Al v. 14 fiacca vuol dire «si spezza» e ha come soggetto l'albero; altri pensano invece che soggetto sia il vento e che il verbo abbia significato transitivo. Al v. 16 lacca è termine raro per «china», «discesa». I vv. 22-24 indicano che le due schiere di dannati «riddano», ballano cioè la «ridda» (una danza che procedeva in tondo a un ritmo frenetico), come le onde tra Scilla e Cariddi presso lo Stretto di Messina si infrangono l'una contro l'altra. Al v. 28 pur lì è rima composta e si legge pùrli (cfr. XXVIII, 123; XXX, 87, ecc.). Il verbo burlare (v. 30) significa «far rotolare», quindi per estensione spendere, buttare via il denaro (forse lo stesso significato spiega anche il contrappasso, qui meno chiaro che altrove). Al v. 33 anche è avverbio («ancora»). Al v. 58 mondo pulcro è metafora per indicare il Paradiso. Appulcro (v. 61) è neologismo dantesco, dal lat. pulcher, «bello» («non aggiungo belle parole»). Nel v. 61 buffa può significare vento, soffio, instabilità, ma anche «beffa» come in Inf., XXII, 133. I vv. 64-66 possono indicare che tutto l'oro del mondo non avrebbe soddisfatto le brame di questi dannati quand'erano in vita, ma anche che ora non potrebbe alleviare la loro pena (sembra preferibile la seconda ipotesi). Al v. 84 angue è lat. per «serpente» (cfr. Virgilio, Egl., III, 96: latet anguis in herba). Al v. 85 contasto è lectio difficilior per «contrasto». La spera del v. 96 può essere il Cielo che, metaforicamente, la Fortuna deve governare, ma anche la ruota che fa parte dell'iconografia classica della divinità pagana. È evidente il contrappasso degli iracondi, intenti a lacerarsi l'un l'altro come nella vita terrena (vv. 109 ss.), mentre non molto chiaro è il rapporto con il fiume Stige che nel libro VI dell'Eneide circonda con nove giri le anime di coloro che morirono suicidi. Al v. 128 mézzo significa «bagnato». Testo «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, 3 disse per confortarmi: «Non ti noccia Parafrasi «Oh, Satana, oh, Satana, re dell'Inferno!» cominciò a dire Pluto con la voce roca; e quel nobile saggio che seppe ogni cosa, per confortarmi disse: «Non farti sopraffare dalla paura, poiché, per potere che abbia questo demone, non ci impedirà di scendere questa Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì ch’ogne parte ad ogne parte splende, 75 distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce 78 che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d’uno in altro sangue, oltre la difension d’i senni umani; 81 per ch’una gente impera e l’altra langue, seguendo lo giudicio di costei, che è occulto come in erba l’angue. 84 Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi. 87 Le sue permutazion non hanno triegue; necessità la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue. 90 Quest’è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; 93 ma ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode. 96 Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta». 99 Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva sovr’una fonte che bolle e riversa per un fossato che da lei deriva. 102 L’acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l’onde bige, intrammo giù per una via diversa. 105 parole. Colui la cui sapienza supera tutto (Dio) creò i cieli, e dispose delle intelligenze angeliche per governarli, così che la sua luce si rifletta di cielo in cielo e si riverberi egualmente nell'Universo. Allo stesso modo, dispose un'intelligenza per governare e amministrare i beni terreni, che li trasmutasse al momento opportuno tra le varie famiglie e le varie stirpi, al di là dell'opposizione del senno degli uomini; perciò una famiglia prospera e un'altra decade, in base al giudizio della fortuna che è nascosto, come il serpente che si annida tra l'erba. La vostra sapienza non la può contrastare: essa provvede, giudica e attua i suoi decreti, proprio come le altre intelligenze angeliche. Le sue trasmutazioni non hanno tregua; deve essere veloce per ottemperare il volere divino; così succede spesso che vi siano mutamenti di condizione. La fortuna è colei che è tanto criticata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, e che invece la biasimano e insultano a torto: ma lei è felice e non sente tutto ciò: lieta, insieme agli altri angeli, fa girare la sua ruota e gode la sua serenità. Ora è tempo di scendere a una angoscia maggiore; ormai sta tramontando ogni stella che sorgeva quando lasciai il Limbo (sono passate dodici ore) e non possiamo perdere troppo tempo». Noi attraversammo il Cerchio fino all'argine opposto, sopra una sorgente che ribolle e si riversa lungo un fossato che inizia da essa. L'acqua era molto scura e noi, seguendo le onde nere, scendemmo lungo una via malagevole. In la palude va c’ha nome Stige questo tristo ruscel, quand’è disceso al piè de le maligne piagge grige. 108 E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso. 111 Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano. 114 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l’anime di color cui vinse l’ira; e anche vo’ che tu per certo credi 117 che sotto l’acqua è gente che sospira, e fanno pullular quest’acqua al summo, come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira. 120 Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidioso fummo: 123 or ci attristiam ne la belletta negra". Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra». 126 Così girammo de la lorda pozza grand’arco tra la ripa secca e ’l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza. Venimmo al piè d’una torre al da sezzo. 130 Questo triste ruscello va nella palude chiamata Stige, una volta che è sceso ai piedi di quel tetro pendio infernale. E io, che guardavo attentamente, vidi dei dannati immersi in quel pantano fangoso, tutti nudi e con aspetto crucciato. Essi si colpivano non solo con le mani, ma con la testa, il petto, i piedi, strappandosi la carne a morsi. Il buon maestro disse: «Figlio, ora vedi le anime che furono sopraffatte dall'ira; e voglio anche che tu creda per certo che sotto l'acqua ci sono anime che sospirano, e fanno gorgogliare la superficie dell'acqua, come puoi vedere ovunque volgi lo sguardo. Coperti dal fango dicono: "Noi fummo tristi nell'aria dolce che trae allegria dal sole, covando dentro l'animo un'ira inespressa: ora ci rattristiamo nel fango nero". Fanno gorgogliare queste parole in gola, poiché non possono pronunciarle con voce chiara». Così costeggiammo quella sozza palude per un grande arco, tra l'argine roccioso e l'acqua, con gli occhi rivolti alle anime immerse nel fango. Alla fine giungemmo ai piedi di una torre.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved