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Canto VII e VIII del Purgatorio: Analisi e Commento, Appunti di Italiano

Un'analisi e un commento dettagliato dei canti vii e viii del purgatorio di dante alighieri. Esplora i temi centrali, le questioni filosofiche e teologiche, le relazioni tra i personaggi e la struttura morale del secondo regno del purgatorio. Anche una spiegazione del senso del sogno e della scomparsa di virgilio, oltre a un'analisi della figura di beatrice e della sua importanza nel percorso di redenzione di dante.

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 20/02/2024

alessia-somma-5
alessia-somma-5 🇮🇹

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Canto VII e VIII del Purgatorio: Analisi e Commento e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! CANTO I Il Canto si apre col proemio della Il Cantica dove qui il poeta chiede l'assistenza di Calliope, la Musa della poesia epica che dovrà guidare la navicella del suo ingegno in un mare meno «crudele» di quello dell'Inferno che si è lasciato alle spalle. Rispetto al proemio dell'Inferno, quello del Purgatorio è più ampio e si arricchisce del mito delle figlie del re della Tessaglia Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto e furono vinte proprio da Calliope, venendo poi trasformate in uccelli dal verso sgraziato (le piche, cioè le gazze). Il primo dato che si offre al poeta è visivo, in quanto lui e Virgilio sono tornati all'aperto dopo la terribile discesa all'Inferno e Dante può respirare di nuovo aria pura, ammirando il cielo prima dell'alba che è di un bell'azzurro intenso; è la mattina di Pasqua, il giorno della liturgia che segna la Resurrezione di Cristo e la vittoria sul peccato, mentre Dante sta per intraprendere l'ascesa del Purgatorio che avrà per lui lo stesso effetto. Nel cielo non ancora illuminato dal sole brillano quattro stelle, la cui luce intensa colpisce Dante e gli fa compiangere l'emisfero settentrionale che non ha mai visto quella costellazione: nonostante vari tentativi di identificarla (alcuni hanno pensato alla Croce del Sud, forse nota a Dante attraverso cronache di viaggio), è probabile che le stelle simboleggino le quattro virtù cadinali, ovvero fortezza, prudenza, temperanza e giustizia, Il cui pieno possesso è condizione indispensabile per il conseguimento della grazia e, quindi, della salvezza eterna. Possedere le virtù cardinali permette di raggiungere la felicità terrena, a sua volta rappresentata dal colle che Dante aveva invano tentato di scalare nel Canto I dell'Inferno, mentre ora c'è un altro monte che dovrà ascendere con la guida di Virgilio, allegoria della ragione che alla felicità terrena deve condurre; il paesaggio di questo episodio ricorda volutamente quello del Canto iniziale dell'Inferno, fatto che lo stesso Dante ribadisce nei versi finali dicendo che gli sembra di tornare a la perduta strada, che altro non è se non la diritta via che aveva smarrito e che lo aveva fatto perdere nella. selva oscura. La luce delle stelle illumina del resto anche il volto di Catone l'Uticense, il custode del Purgatorio che accoglie i due poeti accusandoli di essere dannati appena fuggiti dall'Inferno: la sua presenza in questo luogo e con il ruolo di custode del secondo regno ha creato molti dubbi fra i commentatori, in quanto sembra assai strano che un pagano, per giunta nemico di Cesare e morto suicida, possa trovarsi tra le anime salve (è Virgilio a dichiarare che la vesta, il corpo lasciato da Catone ad Utica risplenderà il Giorno del Giudizio, quando sarà ammesso in Paradiso). In realtà Dante riserva a lui questo ruolo sulla scorta di una lunga tradizione antica, che riconosceva in Catone un altissimo esempio di vita morale e dignitosa, anche fra gli scrittori cristiani che addirittura interpretavano allegoricamente la vicenda personale sua e della moglie Marzia. Dante, più semplicemente, vede in lui il simbolo di chi lotta tenacemente per la libertà politica e ne fa il simbolo della lotta per la libertà dal peccato, che è il motivo essenziale nella rappresentazione del Purgatorio; Catone è anche un esempio di salvezza clamorosa e inattesa dovuta al giudizio divino imperscrutabile. Del resto Dante afferma chiamaramente che Catone è stato nel Limbo fino a quando Cristo trionfante non lo ha tratto fuori insieme ai patriarchi biblici, quindi nonostante la sua condotta peccaminosa era già collocato fra gli antichi spiriti che si erano distinti per il possesso delle virtù terrene, come Virgilio. I rimproveri di Catone ai due poeti danno modo a Virgilio di riepilogare le vicende della | Cantica in una sorta di breve flashback, forse a beneficio dei lettori che non avevano letto tutto l'Inferno, e il suo discorso e un'abile suasoria con tanto di captatio benevolentiae in cui il poeta latino ricorda a Catone il suo sucidio come atto di suprema protesta per la libertà politica, gli rammenta che lui è comunque salvo e cita la moglie Marzia che lui ha conosciuto nel Limbo, promettendo di parlarle di lui se Catone li ammetterà nel Purgatorio. Il discorso di Virgilio è sostanzialmente inutile, dal momento che il viaggio di Dante è voluto da Dio e non può certo essere ostacolato da Catone, il quale infatti si affretta a dire che Marzia non ha più alcun potere su di lui e che la sola donna a legittimare il viaggio di Dante è Beatrice, che dal cielo guida i suoi passi verso la grazia. Dante può quindi procedere, ma non prima di aver compiuto un duplice atto rituale: prima di presentarsi all'angelo guardiano dovrà lavare il viso, sporco del fumo dell'Inferno e delle lacrime che l'hanno segnato in più di un'occasione, e dovrà anche cingere i fianchi di un giunco liscio, in segno di umiltà e sottomissione alla volontà divina. Il giunco è la sola pianta a crescere sul bagnasciuga della spiaggia del Purgatorio, in quanto col suo fusto flessibile asseconda il battere delle onde. Non sappiamo se la cosa sia casuale o abbia un preciso significato allegorico, ma il rito conclude il Canto preannunciando ciò che avverrà negli episodi successivi e segnando il passaggio ad un luogo retto da leggi del tutto diverse rispetto a quelle del doloroso regno: la pianta strappata da Virgilio rinasce immediatamente tale, qual era, il che riempie Dante di meraviglia e ci fa capire che gli orrori dell'Inferno sono definitivamente alle spalle. CANTO II Il Canto è strutturalmente diviso in due parti, che corrispondono all'arrivo dell'angelo nocchiero con la barca dei penitenti e all'incontro col musico Casella, che si conclude col rimprovero di Catone che, come si vedrà, non è privo di significato allegorico. L'episodio è aperto dall'ampia e complessa descrizione astronomica dell'alba, che rappresenta un piccolo proemio dopo quello della Cantica, del Canto I: Dante descrive il sole e la notte come due figure astronomiche che percorrono la stessa strada ai punti opposti del cielo, per cui il sole sta tramontando sull'orizzonte di Gerusalemme e la notte spunta sul Gange, il punto estremo dell'Occidente; essa è in congiunzione con la costellazione della Bilancia che, metaforicamente, tiene in mano, mentre le cade di mano quando supera in durata il giorno. L'immagine si completa con quella dell'Aurora, personificata come la dea classica, che è rossastra quando il sole sta per sorgere e diventa giallo-arancione ora che sull'orizzonte del Purgatorio è l'alba. La metafora astronomica proseguirà a metà circa del Canto, quando Dante spiegherà che il sole è salito nel cielo tanto da aver cacciato il Capricorno dallo zenit, dardeggiando con le sue saette ogni punto della spiaggía. A questo inizio stilisticamente sostenuto segue poi l'apparizione dell'angelo nocchiero, non a caso introdotta anch'essa da un'immagine astronomica (quella di Marte che rosseggia talvolta nel cielo del mattino, temperato dai vapori che lo avvolgono). È il primo incontro con un ministro celeste e la sua apparizione avviene per gradi, con la descrizione della luce che si muove rapidissima, del biancore che appare ai suoi lati (le ali) e al di sotto (la veste), infine con Virgilio che invita Dante a inginocchiarsi in segno di riverenza poiché ormai vedrà di sì fatti officiali. Quasi tutti i commentatori hanno sottolineato l'enorme differenza tra questo traghettatore e il nocchiero infernale Caronte, che trasportava le anime dannate al di là dell'Acheronte: l'angelo non usa strumenti umani, non ha remi né vele, si limita a spingere da poppa la barca che non affonda nell'acqua e dentro la quale più di cento anime intonano il Salmo che rievoca la fuga degli Ebrei dall'Egitto (il fatto era interpretato come allegoria della liberazione dal peccato). Il vasello snelletto è leggiero è il lieve legno che dovrà portare Dante in Purgatorio, come lo stesso Caronte gli aveva predetto in Inf., III, 91-93 e da esso le anime si accalcano sulla riva, inesperte del luogo e incerte sulla direzione da prendere; si stupiscono nel vedere che Dante è vivo e gli si accalcano intorno come un messaggero che porta buone notizie (è uno schema che si ripeterà più volte nei primi Canti del Purgatorio, in totale difformità dagli incontri con i dannati che erano dominati da sentimenti ben diversi). L'incontro con l'amico e musico fiorentino Casella è il primo colloquio con l'anima di un penitente nel secondo regno, e l'episodio costituisce una pausa narrativa caratterizzata da grande serenità e pace dopo l'asprezza della discesa attraverso l'Inferno. Al di là della difficile identificazione del personaggio, su cui si sono fatte varie congetture, il dato significativo è il grande affetto che egli ancora dimostra a Dante (che tenta inutilmente tre volte di abbracciarlo, con evidente imitazione di due passi virgiliani), mentre l'incontro dà modo a Dante di puntualizzare alcune cose fondamentali circa il destino delle anime non dirette ,all'Inferno: è Casella a spiegare che le anite salve si raccolgono alla foce del Tevere, dove l'angelo raccoglie chi lui vuole e quando vuole, secondo la imperscrutabile volontà divina, il che giustifica il fatto che lui giunga solo ora in Purgatorio (la cosa aveva stupito Dante, che lo sapeva morto da qualche mese). L'indizione per l'anno 1300 del Giubileo da parte di Bonifacio VIII ha permesso a tutte le anime di salire sulla barca ed è per questo che Casella ha potuto fare il suo arrivo in Purgatorio: Dante gli chiede di cantare per lui, per confortarlo della fatica del viaggio che sta compiendo, e l'amico esaudisce la sua preghiera intonando la canzone Amor che ne la mente mi ragiona (quella commentata nel III Trattato del Convivio), che probabilmente lui stesso aveva musicato. La canzone, forse dedicata inizialmente a Beatrice e rientrante nei canoni dello Stilnovo, nel Convivio era stata reinterpretata allegoricamente alla luce della donna gentile e della Filosofia, quindi rimanda al periodo del cosiddetto «traviamento» di Dante e del peccato che la stessa Beatrice gli rinfaccerà nei Canti finali del Purgatorio; il canto di Casella è così melodioso che tutti, incluso Virgilio, si attardano ad ascoltarne le note, come se nessun altro pensiero toccasse loro la mente, avvinti dal potere della musica che Dante, proprio nel Convivio, descriveva come irresistibile. CANTO IV Tutto intento ad ascoltare Manfredi, Dante non si è reso conto dello scorrere del tempo: le anime lo riportano però alla realtà indicando ai due poeti la direzione da prendere per salire. Il sentiero è stretto e scosceso, tanto da richiedere oltre all’uso dei piedi, l’ausilio delle mani. Dante segue Virgilio, camminandogli carponi dietro, fino a che entrambi, lasciatosi sotto il balzo scosceso e raggiunto un pianoro, si siedono. Dante si stupisce che il sole li colpisca da sinistra e Virgilio gliene dà spiegazione. A un tratto si ode un’apostrofe proveniente da un grande macigno ove è raccolto un gran numero di anime. Sono gli spiriti dei negligenti, cioè di coloro che hanno tardato a pentirsi fino all’ultimo istante di vita. Uno di loro, standosene seduto con le braccia avvinte alle ginocchia, colpisce l’attenzione di Dante, che finisce per riconoscere in lui il liutaio fiorentino Belacqua, noto per la sua pigrizia. Lo scambio di battute tra i due è interrotto da Virgilio che sollecita Dante a riprendere il cammino: è già il tramonto di quel primo giorno nel secondo regno. CANTO V Dante, rimasto ad ascoltare i commenti di un’anima circa la sua ombra, è rimproverato da Virgilio. Ripreso dunque il cammino, i due poeti incontrano una terza schiera di anime che canta il Miserere: alla vista dell’ombra di Dante due spiriti chiedono di essere informati sulle ragioni della presenza in quel luogo dei due pellegrini. Virgilio, come spesso accadrà, spiega che Dante è vivo e li esorta a usargli cortesia. I due, allora, tornano indietro. Dalla schiera esce una voce che chiede a Dante se abbia riconosciuto qualcuno e subito dopo rende conto della sua condizione e di quella delle anime che con lei si trovano in quel luogo del Purgatorio. Veniamo così a sapere che lì sostano i morti violentemente e i pentiti in fin di vita. Dante confessa di non aver visto nessuno di sua conoscenza, ma si impegna comunque a esaudire le loro richieste una volta tornato nel mondo dei vivi. Comincia a questo punto il discorso di Iacopo del Cassero fatto uccidere da Azzo d’Este, cui segue quello di Buonconte di Montefeltro, morto nella battaglia di Campaldino. Il canto si chiude con le brevi, accorate parole della senese Pia dei Tolomei, fatta uccidere dal marito. CANTO VI Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all'Italia, simmetricamente al VI dell'Inferno in cui si parlava di Firenze e al VI del Paradiso in cui si parlerà dell'Impero (secondo un crescendo che allarga progressivamente il campo, dalla città di Dante all'Europa cristiana). In realtà il Canto VI del Purgatorio è strettamente legato al VII con cui forma una sorta di dittico, in quanto nell'episodio successivo Sordello mostrerà ai due poeti i principi negligenti della valletta e biasimerà i loro successori che rappresentano una degenerazione rispetto a loro e si sono macchiati di gravi colpe politiche, di cui i sovrani passati in rassegna si rammaricano. La scelta di Sordello quale protagonista dei due Canti non è casuale, in quanto il trovatore lombardo aveva scritto un famoso Compianto in morte di Ser Blacatz in cui biasimava i principi suoi contemporanei per la loro codardia e li invitava a cibarsi del cuore del nobile defunto per acquistarne la virtù, per cui non sorprende che sia lui a passare in rassegna le anime confinate nella valletta e, in questo Canto, a consentire a Dante di lanciare la sua violenta invettiva all'Italia (del resto anche i suoi versi avevano il tono di una satira e di un'apostrofe ai potenti del sec. XIII). Anche l'inizio dell'episodio è in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti per forza che assillano Dante perché li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i Comuni dell'Italia del tempo: tranne Pierre de la Brosse, vittima degli intrighi alla corte di re Filippo III, gli altri sono tutti italiani protagonisti delle lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette ed odi familiari, tra i quali figura anche il figlio di uno dei conti di Mangona già visti coi traditori dei parenti nella Caina (Inf., XXXII) e il figlio di Marzucco degli Scornigiani, ucciso dal conte Ugolino (Inf., XXXIII) nell'ambito delle lotte interne al Comune di Pisa. Tra questo esordio e l'incontro con Sordello si inserisce la parentesi dedicata a chiarire il passo dell'Eneide (VI, 376) in cui la Sibilla diceva a Palinuro che le sue preghiere non avrebbero piegato i decreti degli dei (egli chiedeva con insistenza di essere traghettato di là dell'Acheronte pur essendo insepolto). Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto l'insistenza delle anime che si è lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il quale spiega che i suffragi dei vivi per i penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno soltanto in modo che questa avvenga più rapidamente; nel caso di Palinuro, poi, la preghiera non era rivolta al Dio cristiano e dunque era priva di valore. La chiosa di Virgilio è importante perché sottolinea una volta di più il valore delle preghiere dei vivi per i penitenti, nel che si avverte la polemica di Dante contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti in Purgatorio; il maestro rimanda il discepolo alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice, che in quanto allegoria della teologia arriverà là dove la ragione umana non può giungere (e basta che Dante senta il suo nome perché metta fretta alla sua guida, mentre Virgilio lo avvertirà del fatto che l'ascesa del monte durerà più di quanto pensa). Segue poi l'incontro con Sordello, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre osserva in silenzio e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano, a guisa di leon quando si posa: è stato osservato che ci sono molte analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte politiche, mentre a Sordello è sufficiente sentire che Virgilio viene da Mantova per perdere ogni alterigia e gettarsi ad abbracciarlo affettuosamente (nel Canto seguente, dopo averne appreso l'identità, si inchinerà di fronte a lui per rispetto). E infatti è proprio l'affetto di Sordello verso un suo concittadino di cui non sa ancora il nome a far scattare la violenta invettiva di Dante contro l'Italia, che parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono in lotta l'uno contro l'altro e addirittura entro la stessa città, come dimostra l'elenco delle anime all'inizio del Canto e come dichiara lo stesso esempio di Firenze che tornerà alla fine. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero: è l'imperatore che dovrebbe regnare a Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani, invece il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né governa (e a poco serve che Giustiniano le avesse sistemato il freno, cioè avesse emanato il Corpus iuris civilis visto che nessuno fa rispettare le leggi). L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato è la stessa usata nella Monarchia (III, 15) e nel Convivio (IV, 9), dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di assicurare il rispetto delle leggi: la polemica è rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze non si sottomettono all'autorità imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i suoi diritti, come Alberto I d'Asburgo che lascia la sella vòta e preferisce occuparsi delle cose tedesche, seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I. Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII a comportarsi diversamente; nella visione anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero romano di Cesare e Augusto, quindi il suo compito è quello di ristabilire la sua autorità su tutta Italia stroncando con la forza ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col papa (è quanto Arrigo VII tenterà invano di fare nel 1310-1313 e i toni usati da Dante in questi versi ricordano molto quelli dell'Epistola VII a lui indirizzata: è molto discusso se, al momento della composizione del Canto, Arrigo fosse già sul trono oppure no). L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperità (l'antifrasi è l'artificio usato in questi versi finali, con un sarcasmo quanto mai tagliente). I fiorentini si riempiono la bocca della parola «giustizia», mentre Dante stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici; essi sono fin troppo solleciti ad assumersi l'onere di cariche politiche, al fine di arricchirsi e di colpire i nemici (da notare l'insistenza delle accuse, con l'anafora Molti... ai vv. 130, 133 e tu nell'allocuzione al v. 137, come già c'era la quadruplice anafora di Vieni... ai vv. 106-115 nell'allocuzione ad Alberto I). Atene e Sparta fecero ben poco rispetto a Firenze, i cui provvedimenti di legge sono così sottili (l'aggettivo è ambiguo, potendo significare «elaborati» o «fragili») che durano solo poche settimane, mentre la città cambia nel breve volgere di tempo tutti i suoi costumi, simile a un'ammalata che si rigira nel letto senza trovare pace. L'ultima immagine è molto efficace, in quanto riassume la triste condizione di tante città italiane piene... di tiranni, come è stato detto prima, e in cui anche i cittadini di più umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti a commettere ogni sorta di abuso; è un tema già affrontato varie volte da Dante nel poema e che tornerà soprattutto nei Canti in cui si affronterà ancora la spinosa questione dell'autorità imperiale (ad es. il XVI del Purg., ma anche il VI e i XIX-XX del Par., al centro dei quali sarà il tema della giustizia terrena). Del resto il poema nel suo complesso è un duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella cupidigia nonché nelle lotte tra città che insanguinavano il giardin de lo 'mperio, unitamente alla corruzione ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi (è chiaro che in questa visione Firenze non poteva che essere l'esempio negativo per eccellenza, quindi non stupisce che l'invettiva all'Italia si chiuda proprio con la dura apostrofe dedicata alla città che aveva ingiustamente esiliato Dante per il suo ben far). CANTO VII La prima parte del canto è occupata dal dialogo tra Sordello e Virgilio: il poeta latino, riconosciuto solo adesso dal poeta volgare, parla brevemente della sua condizione di anima relegata nel Limbo per poi chiedere informazioni circa il modo per raggiungere più rapidamente possibile il Purgatorio vero e proprio. Sordello allora consiglia ai due poeti di fermarsi un poco a conversare presso un gruppo di anime che si trovano in un luogo appartato, poco distante da lì, dal momento che sta sopraggiungendo la notte, le cui tenebre impediscono a chiunque di salire. Virgilio accoglie la proposta del mantovano e poco dopo si trova con Dante in una specie di valle, ornata da fiori di mille colori diversi: gli spiriti che qui dimorano cantano il Salve Regina e sono le anime dei principi e dei sovrani, anch’essi puniti per la loro negligenza. Vengono quindi additati da Sordello ai due poeti, come in una sorta di catalogo, Rodolfo imperatore d’Asburgo, Ottocaro re di Boemia, Filippo III re di Francia, Enrico I re di Navarra, Pietro III re d’Aragona, Carlo I d’Angiò re di Napoli e Sicilia, Alfonso III re d’Aragona, Arrigo III re d’Inghilterra, Guglielmo VII marchese di Monferrato. Le figure sfilano, l’una di seguito all’altra, e per ciascuna di esse, Dante non manca di fornire, pur nella massima sinteticità, informazioni circa la loro vita, i loro avi e finanche i loro successori. CANTO VIII Al calar del giorno, una delle anime che si trovano nella valletta dei principi chiede alle altre attenzione e silenzio: al che, intona la preghiera della compieta, il Te lucis ante terminum, richiesta di aiuto a Dio contro le tentazioni della notte. Tutte, allora, si uniscono a lei un canto soave, nell’ascolto del quale Dante si immerge profondamente. Segue un appello del poeta al lettore perché interpreti correttamente - cioè in senso allegorico e non in modo semplicistico - gli eventi che verranno descritti. Due angeli con due spade infuocate, ma prive delle punte, dalle ali e dalle vesti di color verde, scendono sulle anime: la loro chioma è bionda, ma il volto è talmente luminoso che a mala pena può essere scorto. Sordello, dopo aver spiegato che essi vengono dall’Empireo a proteggere la valle dall’imminente avvento del serpente, invita Dante a parlare con le anime che ivi dimorano. Avviene allora l’incontro tra Dante e il giudice Nino Visconti, al termine del quale lo sguardo di Dante è attratto dalla vista di tre stelle, simbolo delle tre virtù teologali. Subito dopo compare, strisciando tra l’erba e i fiori, l’annunciato serpente, tempestivamente messo in fuga dai due angeli. Sventato il pericolo, Dante si mette a parlare con una seconda anima, quella di Corrado Malaspina che prima di congedarsi profetizza al poeta il suo futuro soggiorno in Lunigiana presso la sua famiglia. CANTO IX L’alba del nuovo giorno sorprende Dante immerso nel sonno, mentre si trova ancora nella valletta dei principi. In sogno gli appare un’aquila dalle ali d’oro e gli sembra che essa, dopo averlo ghermito, prenda fuoco. Spaventato dalla visione il poeta si sveglia bruscamente, ma viene subito confortato dalla vista di Virgilio, il quale lo informa che sono finalmente giunti all’ingresso del Purgatorio e che è stata Lucia - simbolo della Giustizia e quindi apparsa a Dante come aquila - a portarlo dalla valletta alla soglia del secondo regno. Si legge a questo punto un secondo appello al lettore che viene avvisato, analogamente a quanto Dante ha già fatto nel canto ottavo, che la materia della sua poesia si va innalzando sempre più e che pertanto essa richiede sempre maggiore concentrazione. I due pellegrini giungono quindi alla porta del Purgatorio cui si accede salendo tre scalini di tre colori diversi (il primo di marmo bianco, il secondo di una pietra quasi nera, il terzo di porfido rosso): la porta è custodita da un angelo che impugna una spada e che, seduto sulla soglia (che a Dante sembra di diamante) poggia i piedi sul gradino più alto. Costui interroga Virgilio su chi li abbia condotti fin lì e il poeta latino risponde che loro guida è stata Lucia. All’umile richiesta di Dante di poter varcare quella soglia, il guardiano celeste inscrive prima sulla fronte del poeta sette P - tante quante i peccati di cui egli via via andrà purificandosi - per aprire poi con due chiavi la porta sacra. Al cigolare dei cardini, si sovrappone un altro rumore, simile a quello prodotto dall’esecuzione di un canto accompagnato dall’organo. infine, Lavinia che piange la morte della madre suicida: in tutti e tre i casi si tratta di esempi di ira. Di nuovo una luce abbagliante e poi la voce dell’angelo che indica il cammino per salire al quarto girone. Di nuovo Dante sente cancellarsi una "P" dalla fronte". Nel cielo brillano già le stelle: alla domanda del poeta circa la colpa espiata in quel quarto girone, Virgilio risponde premettendo una vera e propria disquisizione dottrinaria sulla disposizione dell’anima a eleggere l’oggetto del proprio amore, cui segue una parziale descrizione dell’ordinamento del Purgatorio e quindi l’informazione che di cui Dante ha bisogno: il peccato punito nel quarto girone è l’accidia, cioè la tiepida professione d’amore verso Dio. Nel quinto, sesto e settimo cerchio, aggiunge Virgilio, saranno invece espiate le colpe che nascono dall’amore eccessivo per i beni terreni e cioè avarizia, gola e lussuria. Ma, conclude il poeta latino, tutto ciò Dante dovrà apprenderlo con l’ausilio delle proprie risorse. CANTO XVIII Il Canto ha struttura speculare rispetto al precedente, con cui forma una sorta di dittico, poiché a una prima parte didascalica segue una parte narrativa in maniera rovesciata rispetto al XVII (anche qui le due parti sono intervallate dall'indicazione dell'ora, con la discussa descrizione della posizione della luna in cielo). Virgilio completa e integra la spiegazione dottrinale iniziata alla fine del Canto precedente, che riguardava la struttura morale del Purgatorio basata sulla concezione dell'amore: Dante vorrebbe conoscere nel dettaglio la natura di questa inclinazione dell'animo e Virgilio risponde con una complessa spiegazione filosofica, che si rifà ovviamente ad Aristotele e alla Scolastica, per cui l'amore trae spunto dagli oggetti reali del mondo circostante e trasforma in atto la naturale potenza di amare che è innata nell'anima umana, obbedendo così a un impulso che è connaturato al suo essere. Ciò suscita gli ulteriori dubbi di Dante, poiché se l'amore è un'inclinazione naturale verso la cosa che fa gioire, l'uomo non fa che obbedire a un impulso irresistibile e ciò non può essere ascritto a sua colpa, secondo quanto Virgilio aveva detto nel Canto precedente. La chiosa del maestro, che rimanda a Beatrice per ulteriori dettagli in materia dottrinale, è tale da eliminare ogni dubbio: l'uomo è, sì, naturalmente portato ad amare, ma ad essere sempre lodevole è solo la disposizione innata nell'anima, quindi l'amore in potenza, mentre la sua trasformazione in atto (quando l'uomo sceglie l'oggetto verso cui indirizzare il proprio amore) può essere buona o cattiva a seconda della libera scelta della cosa amata e da questo nasce la virtù o il peccato. In altri termini, l'uomo non deve abbandonarsi in modo indiscriminato alle sue inclinazioni ad amare ma deve sottoporre la sua elezione al vaglio della ragione, o, come direbbe Beatrice, del libero arbitrio; Virgilio completa il discorso di Marco Lombardo nel Canto XVI che aveva ridimensionato la necessità dell'influenza astrale sulla condotta umana, mentre il poeta latino esclude quella dell'amore come impulso naturale e irresistibile contro il quale l'uomo non si può opporre (può e deve farlo, invece, in forza della ragione e del libero arbitrio). Il discorso di Dante è di importanza centrale nel Purgatorio e nella struttura del poema, anche perché il poeta prende le distanze da un concetto base della poesia amorosa di cui lui stesso era stato esponente, ovvero la forza irresistibile dell'amore cui è vano opporsi: ciò era stato ampiamente affermato dalla trattatistica amorosa del XIII sec., ad esempio da A. Cappellano nel De amore, e ripreso dalla tradizione poetica provenzale, dai Siciliani e in ultimo dagli Stilnovisti, specie da Guinizelli e Cavalcanti (quest'ultimo aveva affermato non solo la forza irresistibile del sentimento amoroso, ma anche i suoi terribili effetti sull'anima umana, la sua azione distruttiva). Dante si discosta da questa impostazione e afferma che l'amore è lodevole solo quando è ben diretto e deve quindi essere sempre sottoposto al vaglio rigoroso della ragione: è lo stesso principio per cui Francesca e Paolo erano dannati tra i lussuriosi, in quanto i due avevano seguito il cattivo esempio della letteratura erotica (la donna citava Cappellano, ma anche Guinizelli e Dante) e si erano abbandonati al piacere amoroso subordinando ad esso la ragione, motivo per cui hanno perso la speranza della salvezza. Ciò non significa che Dante rinneghi o rifiuti in blocco tutta la poesia dello Stilnovo, tuttavia la sottopone a una revisione critica e ne corregge almeno in parte alcuni principi, affermati da quei cattivi maestri (i ciechi che si fanno duci, secondo le parole di Virgilio) che dovranno essere intesi come gli autori della trattatistica amorosa che molti danni possono causare a chi li segue senza criterio, come appunto era successo ai protagonisti del Canto V dell'Inferno. Non è un caso che questa digressione preceda e in certo modo prepari l'incontro con Bonagiunta del Canto XXIV, in cui Dante spiegherà in maniera precisa cosa si deve intendere per Dolce Stil Novo, e quello con Guinizelli del Canto XXVI che si troverà proprio fra i lussuriosi del Purgatorio, a scontare la colpa di aver prodotto quella letteratura di cui Francesca era stata avida consumatrice. La seconda parte del Canto è dedicata alla descrizione della pena degli accidiosi, fra cui Dante incontra l'abate di San Zeno, episodio che occupa assai meno spazio rispetto alle altre Cornici e agli altri peccatori visti in precedenza e che si vedranno in seguito. Si è molto discusso sulle possibili ragioni di questa scelta di Dante (che racchiude in soli 51 versi la descrizione dei penitenti, l'incontro con l'abate e gli esempi di sollecitudine e di accidia punita) e che può essere ricondotta a esigenze di carattere strutturali e narrative, nonché al maggior interesse del poeta per peccati profondamente legati al degrado morale del suo tempo, a cominciare dall'avarizia cui saranno dedicati i Canti XIX-XX (e in parte anche i due successivi, attraverso la figura di Stazio che prefigura l'ampia parentesi «letteraria» degli episodi seguenti). La descrizione della IV Cornice rappresenta un momento di pausa narrativa e didascalica che ha l'importante funzione di spiegare l'ordinamento morale del secondo regno, con la digressione filosofica sulla concezione di amore che sarà ripresa nei suoi risvolti poetici e letterari durante gli incontri con Bonagiunta e Guinizelli; da sottolineare la raccomandazione di Virgilio a Dante circa la necessità di integrare la sua spiegazione con quella teologica di Beatrice, preannunciandone la venuta sulla cima del monte di lì a pochi Canti e anticipando la struttura di tanti dialoghi di argomento dottrinale che avverranno nel Paradiso tra lei e il poeta, con la funzione analoga di chiarire i dubbi di Dante (e del lettore) in materia di fede. CANTO XIX Poco prima dell'alba, l'ora più fredda del giorno, quando da levante sorge la costellazione dei Pesci, Dante sogna una donna deforme che, sotto l'insistenza dello sguardo del poeta, diventa bellissima e comincia a cantare in modo melodioso. È la sirena udita da Ulisse, che distoglie i marinai dalla meta con la dolcezza del suo canto. Intanto, grazie all'intervento di una donna santa e premurosa, Virgilio denuda la sirena, dalla quale emana un puzzo che fa ridestare Dante. Al suo risveglio, un angelo indica la scala per accedere alla quinta cornice e cancella con le ali un'altra "P" dalla fronte del poeta. Mentre salgono i gradini, Virgilio spiega a Dante il senso del sogno: la sirena è il simbolo dei peccati che si espiano nelle cornici del Purgatorio. Dante ha visto il peccato, ma ha visto anche come l'uomo può liberarsene. Giunti sulla quinta cornice, Virgilio chiede alle anime penitenti la direzione da prendere per raggiungere i gradini che portano alla cornice successiva. Scontano qui la loro pena gli avari e i prodighi: uno di essi che, come gli altri, tace bocconi piangente, recitando con alti sospiri il salmo CXIX, "la mia anima ha aderito al suolo", risponde che occorre procedere tenendo la destra verso l'esterno della montagna. Dante nota l'anima e chiede il permesso a Virgilio di potersi avvicinare ad essa. Si tratta del papa Adriano V, che racconta a Dante la sua storia di religioso convertito a Dio solamente dopo l'elezione a pontefice. Egli spiega anche la pena stabilita per chi si macchia di avarizia: il peccatore tiene gli occhi rivolti a terra, come fece in vita, e attende immobile, bocconi, con le mani e i piedi legati, il termine della propria penitenza. Prima di congedare Dante, gli rivela che sulla terra gli è rimasta solo la buona nipote Alagia, l'unica che può pregare per lui, che spera non venga resa malvagia dall'esempio della casata. CANTO XX Adriano V non ha voluto sentirsi porre altre domande e Dante, nonostante abbia altro da chiedere, si allontana con Virgilio. Mentre cammina rasente la parete, attento a non inciampare nelle anime che piangono vicine al ciglio esterno della cornice, maledice l'ingorda insaziabile lupa dell'avarizia, chiedendosi quando il veltro verrà a scacciarla dal mondo. Mentre procedono, sente una voce gridare esempi di povertà e di generosità; si avvicina quindi all'anima dalla quale sembra provenire quella voce e, promettendo di rinnovare la sua memoria presso gli uomini quando tornerà sulla terra, le chiede chi sia. Si tratta dello spirito di Ugo Capeto, capostipite della famiglia regnante in Francia, il quale predice la punizione di Dio sui suoi discendenti che si sono macchiati di innumerevoli malvagità, iniziate con l'annessione al regno di Francia della Provenza da parte di Carlo I d'Angiò. Ugo predice altresì che ci sarà un altro Carlo, Carlo di Valois, che scenderà in Firenze per far conoscere la malvagità sua e della sua stirpe, munito delle armi del tradimento; ci sarà infine un terzo Carlo, Carlo II lo Zoppo, che darà in sposa la figlia Beatrice dietro compenso di denaro. Ma il misfatto più grave sarà commesso da Filippo il Bello, il quale non solo oltraggerà il papa Bonifacio VIII assalendolo nel palazzo di Anagni, ma si impossesserà anche illegalmente delle ricchezze dell'Ordine dei Templari. Ugo Capeto rivela infine a Dante che, durante la notte, le anime di quella cornice, a espiazione della propria colpa, gridano esempi di avarizia punita mentre di giorno pronunciano esempi di povertà e di generosità, con voce più o meno alta a seconda dell'intensità del sentimento che le stimola. Ripreso il cammino, la montagna comincia a tremare e si leva al cielo il Gloria a Dio nel più alto dei cieli. Rassicurato da Virgilio, Dante attende che il terremoto abbia termine, quindi riprende la strada CANTO XXI Dante è fortemente desideroso di conoscere perché la montagna del Purgatorio abbia tremato e perché si sia udito il grido Gloria in excelsis Deo, quand'ecco all'improvviso appare un'ombra che segue i due poeti e che porge un saluto di pace. Virgilio allora coglie l'occasione per chiederle spiegazioni sui fenomeni che incuriosiscono Dante e lo spirito li informa che non si tratta di fenomeni di ordine naturale, ma divino. Quando infatti un'anima si è liberata dalle scorie del peccato ed è pronta a salire in Paradiso, la montagna si scuote e contemporaneamente tutte le anime cantano il Gloria in un tripudio festoso di ringraziamento a Dio. È ciò che è appena accaduto proprio allo spirito che sta parlando. Questi, il poeta latino Stazio, rivela di essere stato, in vita, un prodigo, prima di convertirsi segretamente al cristianesimo, e dichiara di dover ringraziare per le proprie doti poetiche e per la fama che ne è conseguita l'opera che fu la sua prima fonte di ispirazione, l'Eneide. Proclama apertamente che sarebbe disposto a rimanere ancora un anno in Purgatorio se gli fosse stato dato di vivere contemporaneo di Virgilio, che tanta parte ebbe anche nella sua conversione. Preso da un'incontenibile gioia, Dante ammicca ma tace, sotto lo sguardo imperioso di Virgilio, che non intende svelare la propria identità. Stazio però si accorge dell'atteggiamento di Dante e gli domanda perché i suoi occhi siano tanto ridenti. Virgilio, alla fine, permette che si sveli la verità e Stazio, d'impulso, si getta ai piedi del Maestro per abbracciarlo in segno di gratitudine. Virgilio gli ricorda, con molto affetto, che le anime non hanno consistenza corporea e Stazio si giustifica affermando che il suo gesto è stato dettato da una riverenza così profonda da fargli dimenticare che gli abitanti dell'aldilà sono solo ombre e non corpi consistenti. CANTO XXII Dopo che l'angelo ha proclamato beati coloro che hanno sete di giustizia e dopo che ha cancellato un'altra "P" dalla fronte di Dante, i tre poeti intraprendono la salita che conduce alla sesta cornice. Durante il percorso Virgilio rivela che aveva già saputo da Giovenale, suo compagno di pena nel Limbo, dell'affetto di Stazio nei suoi confronti: da allora nacque nel suo animo una fortissima benevolenza verso di lui, che pure non aveva mai conosciuto. Si mostra però meravigliato di averlo trovato nella cornice degli avari, ma Stazio gli spiega sorridendo che non di avarizia si è macchiato ma di prodigalità, precisando che nel Purgatorio si scontano in una stessa cornice peccati opposti. Leggendo i versi dell'Eneide che invitano gli uomini alla giusta misura nell'uso dell'oro, Stazio si è ravveduto in tempo. CANTO XXIII Dante guarda incuriosito tra le fronde dell'albero da cui proviene la voce che grida esempi di sobrietà, ma Virgilio lo esorta a riprendere il cammino. Si ode intanto levarsi il canto Signore, apri le mie labbra, accompagnato dal pianto delle anime penitenti. Dietro ai poeti avanza una schiera di spiriti pallidi e magrissimi, con gli occhi incavati e la pelle secca e squamosa. Dante sta ancora chiedendosi la ragione del loro aspetto così sofferto quando uno di essi, felice di incontrarlo, gli rivolge la parola: è l'amico Forese Donati, a tal punto sfigurato dalla magrezza, da essere irriconoscibile al poeta se non dalla voce. Forese vuole sapere come mai Dante si trovi vivo nel Purgatorio e chi siano i suoi compagni, e il poeta, sopraffatto dall'emozione, lo prega di svelare che cosa consumi quelle anime. Forese gli spiega che la magrezza dei golosi dipende dal desiderio insoddisfatto di bere e di mangiare provocato dall'odore dei frutti dell'albero e dalla visione dell'acqua che bagna la sua chioma. Dante chiede ancora all'amico come sia accaduto che, pentitosi solamente in punto di morte, si trovi nel Purgatorio, a distanza di soli cinque anni dalla sua morte. nasce da una fonte perenne che, per volontà divina, ne versa tanta quanta ne basta per far scorrere due fiumi in direzione opposta. Uno si chiama Letè e ha il potere di liberare l'anima dal ricordo del peccato, l'altro si chiama Eunoè e ha la capacità di farle ricordare il bene. L'acqua di questi corsi è il nettare che gli antichi poeti immaginarono nelle loro opere, quando descrissero l'età dell'oro e il Paradiso terrestre, e il suo sapore supera quello di ogni altra bevanda. Udite queste parole, Dante si volge a guardare Virgilio e Stazio, poi, incoraggiato dal loro sorriso, riprende a fissare la donna. CANTO XXIX Matelda ha terminato di parlare e riprende a cantare Beati coloro ai quali sono stati cancellati i peccati, avanzando controcorrente lungo la riva del fiume Letè. Dopo qualche passo una luce intensa e improvvisa si diffonde per l'aria insieme a una dolce melodia e Dante pensa con rammarico al peccato di Eva che lo ha privato del piacere di nascere e vivere nell'Eden. Intanto l'aria assume il colore di fiamma viva e il dolce suono si rivela un coro di voci. Improvvisamente gli sembra di vedere sette alberi d'oro, ma, avvicinandosi, si accorge che si tratta di sette candelabri, la cui punta brilla intensamente e che avanzano verso di lui. Matelda lo invita a guardare anche a ciò che c'è dietro ai candelabri e Dante distingue così una schiera di persone vestite di bianco. Nota inoltre che le fiammelle dei candelabri lasciano nell'aria, come gonfaloni tesi nel vento, la scia dei sette colori dell'arcobaleno. Sotto la volta luminosa, avanzano cantando ventiquattro seniori (anziani), coronati di gigli, seguiti da quattro animali che scortano un carro trionfale trainato da un grifone. A destra avanzano danzando in cerchio tre donne, la prima rossa come il fuoco, la seconda verde come lo smeraldo e la terza bianca come la neve, mentre a sinistra danzano quattro donne vestite di porpora, guidate da quella fra loro che ha tre occhi sulla testa. Dietro all'intero gruppo avanzano altri anziani, incoronati non di gigli ma di rose e di altri fiori purpurei: due sono vecchi austeri, l'uno somigliante a un medico, desideroso di curare la salute degli uomini, l'altro che si atteggia a soldato con una spada lucida e appuntita. Seguono quattro uomini di umile parvenza e, infine, un vecchio dal viso penetrante che sembra assopito. Chi guardasse da poco distante giurerebbe che i sette vecchi ardano in fronte per il rosso dei fiori. Intanto il carro giunge di fronte a Dante e si ferma al rumore di un tuono. CANTO XXX Protagonista assoluta del Canto è naturalmente Beatrice, la cui apparizione è stata più volte evocata nel corso dei Canti XXVII-XXIX e che rappresenta l'evento centrale della prima parte del poema, il primo fondamentale traguardo raggiunto da Dante nel suo percorso di redenzione. Il Canto risulta diviso in due parti, la prima dedicata al preludio dell'apparizione della donna e alla scomparsa di Virgilio, col primo rimprovero di Beatrice, la seconda riservata al pianto di Dante e alle dure accuse di «traviamento» che lei gli rivolge. L'episodio si apre con la stessa atmosfera di attesa con cui si era chiuso il precedente e con i ventiquattro vegliardi che si voltano a guardare il carro vuoto: uno di loro grida Veni, sponsa de Libano (il versetto del Cantico dei Cantici solitamente riferito alla Chiesa, qui rivolto evidentemente a Beatrice) e uno stuolo di angeli si alza in volo gettando rose sul carro, preparando l'avvento della donna che sarà protagonista di una sorta di trionfo e verrà descritta con forti immagini cristologiche come già nella Vita nuova (inclusa l'espressione Benedictus qui venis, il saluto rivolto a Cristo al suo ingresso a Gerusalemme e che qui è rivolto esso pure a Beatrice). La scena è descritta con numerose citazioni scritturali e classiche, specie nel verso virgiliano Manibus... date lilia plenis tratto da Aen., VI, 883 in cui Anchise celebrava la figura di Marcello, accentuando il carattere sacrale di tutta la cerimonia: Beatrice che appare dietro la nube di fiori è paragonata a un sole nascente, immagine che rimanda al suo significato allegorico di grazia santificante e teologia rivelata, in quanto illuminerà Dante mostrandogli il giusto cammino da compiere (già in XXVII, 133 Virgilio gli aveva detto che il sole gli splendeva in fronte). Analogo significato ha anche il suo abbigliamento, con il velo bianco che la ricopre, simbolo di purezza, la ghirlanda di ulivo che rimanda a Minerva come dea della sapienza (tale accostamento è anche biblico), la veste rossa che ricorda l'abito di colore sanguigno indossato da Beatrice al primo incontro col poeta (Vita nuova, II), per quanto i tre colori siano quelli tradizionalmente associati a fede, speranza, carità, come già per le tre donne danzanti alla destra del carro. L'apparizione di Beatrice è tale da suscitare ovviamente la forte emozione di Dante personaggio, che riconosce la donna da lui amata quando era in vita e ne rimane profondamente scosso: si volta verso Virgilio per comunicargli la sua emozione, ma il poeta latino è scomparso per lasciare il posto alla nuova guida di Dante, in quanto allegoria della ragione umana che cede il passo alla teologia. Al di là del senso allegorico, in ogni caso, Dante è toccato da un profondo dolore per l'abbandono di colui che l'ha assistito per i due terzi del viaggio, e la sua disperazione è sottolineata dalla triplice anafora Virgilio..., nonché dall'appellativo dolcissimo patre con cui il poeta latino è qualificato (patre è un forte latinismo, in contrasto col popolare mamma di pochi versi prima, anch'esso riferito indirettamente a Virgilio). Da rimarcare anche la citazione letterale di Aen., IV, 23 (adgnosco veteris vestigia flammae) con cui Dante indica il riconoscimento di Beatrice, che è l'ultimo commosso omaggio al maestro perduto: Dante ha perso il proprio padre poetico e ha ritrovato la donna amata, ma questa gli rivolge subito dure parole di accusa, chiamandolo per nome (la prima e unica volta nel poema che questo è citato, di necessità) e rimproverandolo per aver osato accedere all'Eden, sede dell'uomo felice. Qui si apre la seconda e altrettanto importante parte del Canto, con la prima reazione di forte vergogna da parte di Dante, le parole consolatorie degli angeli, la sua commozione e il pianto: quest'ultimo è descritto con l'ampia e complessa similitudine della neve ghiacciata sull'Appennino che si scioglie ai primi venti caldi, come il gelo del cuore del poeta si scioglie in pianto per le parole degli angeli. Segue poi un più ampio e dettagliato rimprovero di Beatrice, le cui accuse circostanziate ci permettono di parlare di traviamento da parte di Dante che corrisponde al peccato che lo ha condotto nella selva oscura iniziale, anche se è assai arduo precisare in cosa consistesse effettivamente tale peccato (si veda in proposito più oltre): di sicuro Beatrice sottolinea la natura virtuosa di Dante nella sua vita nova (in gioventù), per effetto degli influssi celesti e della grazia divina, ma anche il suo allontanamento dalla guida di lei dopo la sua morte per seguire altrui, delle imagini di ben... false che non mantengono alcuna promessa e che conducono altresì alla dannazione. È chiaro che Beatrice accusa Dante di averne tradita la memoria con un peccato di natura morale, amando cioè altre donne (come la donna gentile), o intellettuale, trascurando la teologia per intraprendere studi filosofici, ma in ogni caso questo comportamento fu tale da fargli rischiare seriamente la dannazione ed è il motivo che l'ha spinta a scendere nel Limbo, invocare l'aiuto di Virgilio, mostrargli le perdute genti per riportarlo sulla diritta via (fuor di metafora, condurlo alla salvezza attraverso un percorso di espiazione: ora Dante ha scontato i suoi peccati e si è riappropriato della sua innocenza perduta, pronto a essere illuminato dalla grazia per proseguire il suo viaggio). Beatrice rivolge i suoi rimproveri non direttamente al poeta, ma rivolgendosi agli angeli perché lui ascolti, dal momento che quelle creature vedono tutto nella mente di Dio e ben sanno quindi la natura delle azioni peccaminose da lui commesse: la donna sottolinea la necessità che Dante si renda conto della cattiva strada intrapresa a suo tempo e ammetta le sue colpe, attraverso un sincero pentimento manifestato attraverso il pianto, prima di essere immerso nel Lete le cui acque cancelleranno in lui ogni ricordo del peccato compiuto. Il Canto si chiude appunto con questa giustificazione di Beatrice della propria durezza agli occhi degli angeli, che avevano voluto intercedere con parole di misericordia a favore del poeta, riassumendo in breve anche la vicenda allegorica che l'aveva vista protagonista insieme a Virgilio nel Canto II dell'Inferno: la prima parte del viaggio si è conclusa e sta per iniziare quella più importante, che condurrà Dante in Paradiso e, allegoricamente, lo porterà alla vera conoscenza che non può prescindere dalla fede nelle verità rivelate, senza ombra di superbia intellettuale. Il rimprovero al poeta avrà un seguito, come si vedrà, nel Canto seguente, in cui Beatrice alluderà in modo ancor più esplicito alla sua vita peccaminosa successivamente alla sua morte terrena, prima che Matelda lo conduca al rito dell'immersione nel fiume Lete.
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