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DOMANDE ESAME MUSEOLOGIA (tutte e 42) CON RISPOSTE PROF.SSA PEGAZZANO, Prove d'esame di Museologia

! ! L E G G E R E ! ! Tutte le domande (risposte integrate da MANUALE, APPUNTI e DISPENSE) per l'esame di Museologia con la prof. Pegazzano, UniFi. Le domande sono state fornite dai tutor e sono state aggiunte quelle presenti in altri documenti da Docsity. EDIT: BASTANO QUESTE DOMANDE PER PREPARARE L'ESAME, GLI UNICI ARGOMENTI CHE NON VI RIENTRANO SONO: arte sacra nei musei, revisionismo anni '80 e case museo, mai usciti nelle domande ma che per sicurezza possono essere studiati dagli appunti.

Tipologia: Prove d'esame

2018/2019

In vendita dal 09/07/2019

GinyV.
GinyV. 🇮🇹

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Scarica DOMANDE ESAME MUSEOLOGIA (tutte e 42) CON RISPOSTE PROF.SSA PEGAZZANO e più Prove d'esame in PDF di Museologia solo su Docsity! Esame Museologia 2019 Prof.ssa Pegazzano Domande Museologia con risposte: 1. La nascita della collezione Il gusto della collezione privata nasce nell’antichità per rispondere alle funzioni di prestigio sociale, ostentazione di potere e ricchezza, proiezione di sé oltre la morte attraverso le cose raccolte. Una concezione ben diversa, dunque, dal riconoscimento del valore estetico degli oggetti, elemento distintivo del collezionismo, che rappresenta la preistoria del museo moderno. Non è tuttavia neanche da escludere la presenza di criteri estetici nei confronti dell’esposizione delle opere d’arte nel mondo antico: più fonti ci parlano di un collezionismo privato di opere d’arte caratterizzate da un’armoniosa disposizione all’interno dell’abitazione del collezionista, attento al rapporto tra queste e l’ambiente. Sappiamo, ad esempio, che Cicerone si rivolgeva ad Attico affinché gli procurasse sculture per abbellire la sua villa di Tuscolo e si preoccupava anche della coerenza dei marmi scelti con gli ambienti a cui erano destinati. All’interno del collezionismo medievale rappresenta un unicum il caso dell’abate di Saint Denis nella Francia del XII secolo, Suger, il quale aveva raccolto all’interno dell’Abbazia uno dei più ricchi tesori legati alla Chiesa, contenente oreficerie, reliquiari, arredi liturgici, vasi in pietre dure e una raccolta di gemme antiche. Ciò discostava con i dettami della Chiesa che condannava l’attaccamento a beni terreni, ma Suger obiettava che nella bellezza delle opere d’arte risplendeva la grandezza divina e la loro contemplazione stimolava l’elevazione spirituale, secondo la dottrina dell’anagogicus mos (letteralmente “atteggiamento che porta verso l’alto”). Nel panorama del collezionismo medievale era quasi unicamente la Chiesa a comprenderne ogni iniziativa, formando i tesori delle cattedrali, accessibili indistintamente a tutti i fedeli e definiti dagli studiosi quasi dei musei ante litteram. Di tali collezioni facevano parte non solo manufatti preziosi ma anche dipinti, animali imbalsamati, pietre rare, erbe medicamentose, in una curiosa commistione di Naturalia e Artificialia anticipatrice delle Wunderkammern dell’Europa del nord. La nascita della collezione è dunque da ricercarsi in Età Classica e Medioevo, per poi evolvere dallo spazio ridotto dello studiolo rinascimentale fino al museo moderno come lo concepiamo oggi. 2. Lo studiolo Fra Trecento e Quattrocento si guarda al mondo classico come ad un esempio su cui modellare la propria vita: si avverte la necessità di un luogo appartato in cui studiare e riflettere, sul modello dello scriptorium classico. Nasce così – presso principi, signori e umanisti rinascimentali – lo studiolo, un luogo di dimensioni ridotte e separato dal resto dell’abitazione che custodisse, oltre al materiale scrittorio, piccoli oggetti preziosi (sculture di piccole dimensioni, gemme, bronzetti, vasi di pietre dure, monete e talvolta curiosità naturali come frammenti di corallo, conchiglie, denti di narvalo ecc.) poiché seniofori, vale a dire evocativi e portatori di significati, e non dal particolare valore estetico. Importante caratteristica dello studiolo rinascimentale è il rapporto che sussisteva tra committente, iconografo e artista, in relazione alla decorazione di esso. Lo studiolo di Lionello d’Este nel Palazzo di Belfiore (distrutto nel Seicento) a Ferrara è l’esempio più eloquente del rapporto strettissimo che sussisteva tra committenza, scelte iconografiche e realizzazione pittorica inerentemente ad una decorazione che aveva come tema le nove muse, considerate non solo nelle vesti di protettrici delle arti ma anche rappresentanti delle virtù del buongoverno del marchese. Lo studiolo di Cosimo il Vecchio – non più esistente ma testimoniatoci dal Vasari – presso Palazzo Medici a Firenze, divenuto nel Seicento di proprietà della famiglia Riccardi, era caratterizzato da una volta a botte e decorato con i dodici tondi dei mesi di Luca della Robbia, i quali vennero trasferiti dai Riccardi nel Casino di Valfonda mentre sono attualmente conservati presso il Victoria and Albert Museum di Londra, all’interno di un allestimento che tenta di rievocare – attraverso oggetti e soffitto voltato – l’ambiente originario dello studiolo. Lorenzo de’ Medici fu il raffinatissimo continuatore delle collezioni medicee un tempo appartenute al padre, Piero il Gottoso e, prima di lui, a Cosimo il Vecchio. La collezione non si esauriva nello studiolo e proseguiva nei due cortili all’interno di Palazzo Medici o all’esterno di esso, nel Giardino di San Marco, in cui Lorenzo il Magnifico aveva formato una scuola per giovani artisti dove le sculture rappresentavano il materiale di studio per questi ultimi. Lo studiolo di Federico da Montefeltro presso il Palazzo Ducale di Urbino, realizzato tra 1473-76, era caratterizzato nella parte inferiore da tarsie prospettiche illusionistiche, le quali talvolta erano poste a chiusura degli armadi che racchiudevano piccoli oggetti preziosi, realizzate da Giuliano da Maiano e Baccio Pontelli sui disegni di Francesco di Giorgio Martini. Nella parte superiore erano invece presenti i ritratti di uomini illustri commissionati a Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Federico da Montefeltro non si limitò a far costruire uno studiolo all’interno dei propri appartamenti nel palazzo urbinate, ma vi fece realizzare anche un “tempietto delle muse”, decorato con dipinti di Giovanni Santi, padre di Raffaello, raffiguranti le figlie di Menmosine. L’interesse di Federico da Montefeltro verso questo tipo di ambiente era talmente forte che egli si fece costruire uno studiolo anche nel Palazzo Ducale di Gubbio decorato dai medesimi artisti con tarsie prospettiche ma con, anziché ritratti di uomini illustri, figure di virtù. Esemplare, poiché l’unico appartenuto ad una donna rinascimentale, è lo studiolo di Isabella d’Este all’interno del Palazzo Ducale di Mantova. Isabella era una grande appassionata d’arte e collezionista e sguinzagliò per tutta Italia i suoi agenti ad acquistare antichità da riporre nel proprio studiolo. Sulle pareti di quest’ultimo molti artisti (Correggio, Perugino, Mantegna ecc.) realizzarono le allegorie dei vizi e delle virtù. Isabella si fece anche costruire una “grotta” che fungesse da scrigno per gli oggetti più preziosi, mentre nello studiolo erano collezionati dipinti importanti. L’aumento delle collezioni indusse Isabella a trasferirle in nuovi ambienti al pianterreno secondo una disposizione armoniosa. Ricordiamo poi i Camerini di Alabastro di Alfonso d’Este, anch’essi smantellati, che ospitavano opere molto importanti, tra cui “I Baccanali degli Andrii” di Tiziano. Infine, tornando a Firenze, Cosimo I – in seguito al matrimonio con Eleonora di Toledo ed il trasferimento della corte da Palazzo Medici a Palazzo Vecchio – incaricò il Vasari di intraprendere un’opera di ammodernamento nei confronti dell’edificio. Giorgio Vasari allestì all’interno del palazzo ben cinque studioli che dovessero contenere opere d’arte, il più celebre dei quali è quello dedicato a Calliope, musa della poesia eroica. Al suo interno non vennero realizzate tarsie prospettiche ma cassetti e mensole. Anche Francesco I si fece costruire uno studiolo, tuttavia esso ebbe vita breve: dopo soli tre anni infatti lo abbandonò, preferendo la moderna Galleria degli Uffizi e segnando così l’importante passaggio dallo studiolo alla galleria quale contenitore delle collezioni. L’ultimo studiolo mediceo era un ambiente piccolo e voltato a botte, con armadi la cui decorazione rimandava al loro contenuto (ad esempio “La pesca delle perle e del corallo” del pittore Santi di Tito ci indica che all’interno dell’armadio era contenuto del corallo). Gli affreschi, il cui programma iconografico era stato ideato da Vincenzo Borghini, vennero realizzati dal Vasari e dalla sua equipe e ruotavano attorno al tema dei quattro elementi con al centro la figura di Proteo, dio del mutamento, rispecchiando la passione di Francesco I per l’alchimia. Dopo la morte di Francesco I lo studiolo venne smantellato e dimenticato, ma il locale fu riscoperto da Giovanni Poggi nei primi del Novecento. 3. La nascita della galleria La tipologia di lunghe pareti su cui appendere opere d’arte e passeggiare ammirandole appartiene già al mondo classico. Sappiamo infatti che sull’Acropoli di Atene, al di sotto della stoà, erano esposti dipinti e sculture per celebrare gli artisti greci, inoltre diverse testimonianze nell’antichità parlano di questo modo di esporre i dipinti, ad esempio le “Imagines” di Filostrato, il cui protagonista – un sofista – attraverso l’arte della parola descrive minuziosamente i quadri esposti sotto il portico marmoreo di una villa di Napoli. Anche in Vitruvio quelli che egli chiama “ambulationes” sono lunghi portici coperti – quindi loggiati – che erano il luogo più adatto per esporre i dipinti, sempre con l’idea che l’esposizione dovesse essere funzionale e quindi i quadri potessero essere ammirati. permanente, senza scopo di lucro e al servizio della società; nella seconda parte si prosegue elencando i compiti del museo: la ricerca, che rende il museo attivo, l’acquisizione, per cui il museo non deve rimanere cristallizzato nelle sue originarie collezioni ma provvedere ad acquisirne altre, la conservazione delle opere, che concerne anche il cosiddetto “restauro preventivo”, ovvero l’adozione di accorgimenti inerenti ad illuminazione, umidità, temperatura ecc. e la comunicazione, vale a dire l’attenzione riservata ai pubblici durante l’esposizione; infine la terza e ultima parte espone gli scopi del museo: lo studio, l’istruzione e il diletto. - La definizione del 1951 è stata assorbita anche dalla legislazione italiana, il MiBAC ha solamente aggiunto: “promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la commissione scientifica”. - Nel 2004 vennero infine aggiunte alla definizione anche le cosiddette “testimonianze immateriali”, ovvero tutto ciò che rappresenta il costume e la memoria di una comunità (danze, canti popolari, dialetti ecc.). Ciò impose al museo di aggiornare i propri parametri e venne introdotto un nuovo tipo di museo, teorizzato da Hugues de Varine: l’ecomuseo. 6. Definizione di “Muselogia” La museologia è la disciplina che riflette sul museo, in seguito alla nascita del museo stesso, creato dagli illuministi alla fine del Settecento. Parallelamente alla nuova istituzione museale si delinea anche la disciplina ad essa correlata che, tuttavia, viene inizialmente definita “museografia” e concepita come un ibrido tra due discipline (museologia e museografia) che adesso riteniamo ben distinte e diversificate. Il primo a parlare di “museografia” fu Caspar Friederich Neickel, colto mercante di Amburgo, il quale nel 1727 pubblicò un’opera intitolata: “Museografia. Guida per una giusta idea ed un utile allestimento dei Musei”, una descrizione dei musei del tempo, destinata non ad intellettuali ma a lettori profani, come ad esempio i viaggiatori del Grand Tour. L’autore individuava inizialmente due grandi classi: Naturalia (collezioni naturalistiche) e Artificialia (oggetti prodotti dall’uomo) che poi suddivideva ulteriormente a secondo del luogo e dei contenuti: “Schatskammer” (“camera dei tesori”), “Kunstkammer” (“camera dell’arte”), “Wunderkammer” (“camera delle meraviglie”) e “Naturalien und Raritatenkammer” (“camera delle curiosità naturali e rarità”) in Germania, “cabinet” e “galerie” in Francia, “antiquarium”, studiolo, galleria e camerino in Italia. All’interno del trattato troviamo alcuni principi che ancora oggi caratterizzano il museo moderno: il suo ruolo didattico, la necessità di un catalogo e di una biblioteca, l’attenzione all’esposizione delle raccolte; Neickel, tuttavia, delinea una disciplina ancora confusa, intendendo con “museografia” tutto ciò che riguardava il museo. La moderna museologia si distingue a partire dall’etimologia del termine, che ha a che fare con il “logos”, e privilegia di conseguenza gli aspetti teorici della disciplina: la storia del museo, il suo ruolo all’interno della società, il suo rapporto con il pubblico ecc., mentre la moderna museografia si occupa degli aspetti pratici: le tecniche espositive, le soluzioni illuminotecniche, il sistema di comunicazione, la sicurezza delle opere ecc. Museologo e museografo sono di conseguenza due figure profondamente diverse, il primo con un background da storico dell’arte, mentre il secondo da architetto, tra i quali deve esserci strettissima comunicazione. In Italia la museologia nacque nel 1955, quando venne organizzato un convegno in occasione della riapertura della Galleria Nazionale di Perugia e per la prima volta venne utilizzata la parola “museologia”, dimostrazione del fatto che, dopo la guerra, anche in Italia si fece strada una profonda riflessione sul museo riguardo a cosa esso fosse, a quali fossero i suoi scopi ed i criteri di riordinamento da applicare al suo interno. Successivamente, nel 1957, in occasione dell’XI triennale di Milano si decise di organizzare una mostra mai vista prima, dedicata al processo di rinnovamento del museo italiano che venne articolata in tre parti: la prima dedicata alla storia dei musei, la seconda sulle soluzioni espositive e la terza sul rinnovamento dei musei italiani, prendendo ad esempio alcuni dei più importanti musei italiani che erano stati sottoposti al processo di rinnovamento. 7. Musei italiani e tedeschi del Settecento: la nascita del museo pubblico Nel Settecento inizia a farsi strada l’idea illuminista che i musei dovessero avere una funzione istruttiva oltre che di diletto e di conseguenza che dovessero essere aperti ad un pubblico più largo. Cominciamo a vedere in Europa – in particolare in Italia e Germania – i primi musei pubblici. A Dresda Augusto I di Sassonia fa costruire un edificio adibito unicamente all’esposizione delle sue collezioni, fatto innovativo perché per la prima volta esse si staccano dall’edificio privato. Federico Augusto II continua l’opera di incremento delle collezioni reali che già Augusto I aveva arricchito con le antichità Odescalchi, quelle un tempo appartenute a Cristina di Svezia, alcune sculture antiche dal Cardinale Alessandro Albani, dipinti italiani e le collezioni modenesi di Francesco III d’Este. Francesco Algarotti, polimata illuminista e collezionista d’arte, progetta nel 1742 un nuovo ordinamento del Museo di Dresda che – abbandonando l’allestimento a incrostazione – prevedeva una suddivisione dei dipinti cronologica e “per scuole” ed un nuovo edificio dalle forme di un tempio antico, a pianta quadrata e con quattro ali laterali, all’interno del quale era presente un nuovo tipo di illuminazione che consentiva la migliore visione possibile delle opere: l’illuminazione zenitale. Ricostruzione ipotetica della pianta e dell’alzato del Museo di Dresda secondo la proposta di Francesco Algarotti Sebbene il progetto di Algarotti non venne mai realizzato, si trattò del primo museo moderno in cui vennero studiati esposizione e rapporto con il pubblico, secondo i nuovi principi illuministi, che fece da modello per altri musei europei come, ad esempio, il Palazzo del Belvedere di Vienna: nel 1776 infatti, l’imperatore d’Austria Giuseppe II fece trasferire la galleria di quadri imperiale allo scopo di creare un museo pubblico, secondo il principio illuminista che le collezioni reali non fossero di proprietà privata del sovrano ma del popolo e Christian von Mechel vi applicò l’ordinamento di Algarotti (cronologico e “per scuole”). Un altro dei primi edifici con specifica destinazione museale fu costruito a Kassel nel 1769 per volontà di Federico II, col nome di Fridericianum. Si trattava di una collezione enciclopedica per cui il museo federiciano introdusse il tema del tempio classico come connotazione specifica della progettazione museale, tema che verrà destinato nei principali musei dell’Ottocento. Tra le numerose riforme intraprese dai Lorena in Toscana ci fu il rinnovamento, negli anni ’70/’80 della Galleria degli Uffizi, affidato da Pietro Leopoldo a Giuseppe Pelli Bencivenni e Luigi Lanzi. Quest’ultimo descrive il suo operato ne “La Real Galleria” (1782): il nuovo museo conteneva solo opere d’arte – non anche armi ed armature – sia classiche, sia prodotte dalla grande tradizione fiorentina del Quattrocento, assieme alle nuove acquisizioni; tutte queste erano diventate completamente visibili al pubblico e non chiuse in scrigni o armadi; dei vecchi Uffizi si era mantenuto la struttura originaria ma, anziché otto sale, era stata prevista una suddivisione dello spazio in venti gabinetti specializzati, mentre la Tribuna era rimasta inalterata. Lanzi infine afferma che si sarebbe potuto dire essere presenti, all’interno di un’unica Galleria, quattro musei assieme, poiché i generi delle opere presenti agli Uffizi erano: ritratti di uomini illustri, una quadreria di varie scuole, una serie di busti imperiali e un assortimento di statue “quasi tutte antiche”. È importante ricordare inoltre che la Galleria degli Uffizi venne ufficialmente aperta al pubblico nel 1769 dal Granduca Pietro Leopoldo e che, in precedenza, nel 1737, Anna Maria Luisa, ultima erede Medici, stipulando il cosiddetto “Patto di Famiglia” legò le collezioni d’arte medicee alla città di Firenze, decretandone l’inalienabilità. Scipione Maffei, marchese ed erudito illuminista, venne incaricato inizialmente dal re Vittorio Amedeo II di realizzare un museo sotto i portici dell’Università di Torino dedicato alle varie epigrafi prima sparse per la città. Il marchese realizzò successivamente un museo specialistico dedicato alle epigrafi presso l’Accademia dei Filarmonici di Verona: qui ottenne di realizzare dei portici coperti sotto i quali esporre le epigrafi, che dovevano essere collocate ad altezza d’occhio e suddivise per genere: etrusche, greche e romane, ed in ordine cronologico, mentre vennero raggruppate in un unico punto i numerosi falsi individuati. Sulla scia del pensiero illuminista infatti, Scipione Maffei non considerava le epigrafi quali elementi decorativi, bensì come documenti e, in quanto tali, esse dovevano essere di facile lettura per motivi di studio. Egli anticipò in un certo senso – con la creazione di un museo profondamente radicato nel territorio – i musei civici. I Musei Capitolini romani videro due fasi di accrescimento: la loro fondazione del 1471 si deve alla “restituzione” da parte di Papa Sisto IV di quattro sculture significative (la “Lupa”, lo “Spinario”, la testa del colosso di Costantino e il “Camillo”) al popolo romano, dando inoltre inizio all’azione di tutela e conservazione svolta anche nei secoli successivi dai papi nei confronti del patrimonio artistico della città di Roma. Il secondo nucleo che costituì i Musei Capitolini si deve a Papa Clemente XII Corsini, il quale in un chirografo dichiarò che ciò servisse a manifestare lo splendore di Roma presso le nazioni straniere: di fatto egli aprì ufficialmente i Musei Capitolini al pubblico nel 1734. Il motivo per cui il papa decise di creare questo secondo spazio museale fu perché un importante nucleo collezionistico stava per essere venduto e smembrato all’estero: quello del cardinale Alessandro Albani. Il papa incaricò poi un intellettuale, Alessandro Gregorio Capponi, di essere museografo e museologo al suo servizio. Capponi, assieme all’architetto Filippo Barigioni, realizzò all’interno dei Musei Capitolini un percorso in cui le opere fossero divise per generi, vennero utilizzati colori chiari per le pareti e si diede molta importanza all’illuminazione. Capponi e Barigioni decisero poi di realizzare – sull’eco degli Uffizi, una sorta di tribuna dell’arte classica, che costituisse il centro del museo. Musei Capitolini Il Museo Pio Clementino non venne costruito invece in un luogo pubblico come il Campidoglio, bensì all’interno del Vaticano. Anche in questo caso la sua costruzione vide due fasi, come notiamo dalla pianta dell’edificio, dalla quale si deduce che l’aspetto finale non debba essere stato il frutto di un progetto unitario: in un primo momento Papa Clemente XIV decise infatti di creare un nuovo museo laddove sorgeva il cinquecentesco Giardino del Belvedere e l’annesso Cortile delle Statue. I lavori iniziarono per mano di Alessandro Dori nel 1770 e due anni dopo, a causa della morte di quest’ultimo, passarono a Michelangelo Simonetti. In questi primi interventi la loggia venne trasformata in un’unica ampia galleria, unita dal Simonetti al Cortile delle Statue dotato di varie nicchie in cui erano presenti le statue, in modo da creare uno spazio funzionale all’esposizione. Dopo la morte di Clemente XIV, l’opera venne portata avanti da Pio VI, un papa di moderne vedute, il quale vi aggiunse tre nuove sale in ciascuna delle quali era presente una delle tre piante centrali della classicità: la “Sala delle Muse”, a pianta ottagonale, prende il nome dal gruppo scultoreo delle nove muse assieme ad Apollo ritrovato negli anni ’70 del Novecento presso degli scavi poco fuori Roma; la “Sala Rotonda” conserva grandi statue di antiche divinità e nei pavimenti sono stati reimpiegati antichi mosaici romani; la “Sala a Croce Greca” costituisce invece l’ingresso indipendente al museo. Ritroviamo, infine, nel Museo Pio Clementino le forme del “museo-tempio” che prenderanno sempre più campo con gli anni. Museo Pio Clementino Già verso la metà del Settecento erano state poste le radici, da parte degli illuministi francesi, per la realizzazione di un museo pubblico a Parigi, sull’esempio di Italia e Germania. Fino a quel momento infatti le collezioni reali erano ospitate all’interno della Reggia di Versailles e le Accademie con i Salon detenevano il monopolio nell’ambiente artistico francese. Ai numerosi appelli da parte degli intellettuali francesi, primo fra tutti Etienne la Font de Saint Yenne, il quale chiedeva l’apertura della galleria del Louvre come sede per l’esposizione pubblica delle opere del gabinetto del re, rispose per primo il marchese di Marigny, il quale mise a disposizione una serie di sale nel Palazzo di Luxembourg dove affluì un centinaio di dipinti scelti tra i migliori delle collezioni reali. Nel gennaio del 1750 il museo pubblico era una realtà, aperto a tutti per tre ore il mercoledì e il sabato. Ma le insistenze del fratello del re, che rivendicava l’uso del palazzo, portarono nel 1779 alla sua chiusura. Il conte Charles d’Angiviller, successore di Marigny, si fece successivamente promotore della trasformazione del Louvre in palazzo delle arti. Si fecero a tal proposito anche progetti di ristrutturazione della Grande Galleria, affidati all’architetto Soufflot, ma nonostante gli sforzi di Angiviller non se ne fece nulla: occorreva attendere la rivoluzione. Dopo la rivoluzione, il 26 luglio 1791 l’Assemblea Nazionale Costituente espropriò i beni della Corona e l’anno successivo venne istituito all’interno dei palazzi del Louvre quello che inizialmente si chiamava “Musée Revolutionnaire”, ma cambiò nome varie volte passando a “Musée Francais”, “Musée Central des Arts” e “Musée Napoleon”. Il museo venne dotato di personale specializzato con i pittori Jacques-Louis David e Jean- Honoré Fragonard, l’inaugurazione avvenne il 10 agosto 1793, aprendo una fase nuova nella storia dei musei: poiché da una parte le collezioni del Louvre appartenevano alla comunità, non al sovrano, e dall’altra si palesava il ruolo educativo del museo, apertosi agli strati sociali precedentemente esclusi dai musei illuministi. Inizialmente il nuovo museo aveva conservato il carattere di residenza reale, con arredi e mobili preziosi. Furono gli architetti Percier e Fontaine, incaricati da Napoleone, a dare al museo un nuovo volto neoclassico. Esso infatti era scarsamente illuminato, i dipinti erano allineati in doppio ordine e suddivisi in tre scuole principali (francese, italiana e fiamminga), non erano ancora ordinati cronologicamente. L’ingresso era gratuito il sabato e la domenica per i visitatori, mentre gli altri giorni era riservato agli artisti. Erano disponibili didascalie esplicative, visite private e un catalogo. La svolta per il museo del Louvre avvenne con le campagne napoleoniche, quando i “furti d’arte” fecero fluire a Parigi centinaia di opere dai paesi conquistati, tra cui l’Italia. Napoleone stesso aveva inserito tra le clausole dei trattati di pace o degli armistizi l’obbligo, da parte dei paesi vinti, di cedere opere d’arte alla Francia ed i suoi ufficiali possedevano delle vere e proprie liste su cui erano elencate le opere da requisire, oltre all’utilizzo come ulteriore supporto delle guide dei viaggiatori del Grand Tour. Napoleone inoltre giustificava l’espropriazione delle opere dal punto di vista morale sia col fatto che esse, in quanto realizzate da spiriti liberi, dovessero stare nel paese libero per eccellenza, ovvero la Francia, sia con la volontà di volerle conservare in maniera appropriata sottraendole al buio, alla polvere e al fumo delle candele delle chiese in cui si trovavano. Il primo direttore del museo fu Dominique Vivant Denon, legatosi a Napoleone durante la campagna in Egitto, il quale segnò una svolta per la riscoperta dei cosiddetti “primitivi” italiani (Giotto, Cimabue, Gentile da Fabriano ecc.) e non solo, organizzando una mostra a loro dedicata. Dopo il Congresso di Vienna venne sancita la restituzione delle opere, per cui si prodigò molto Antonio Canova. Tuttavia molte di esse non fecero mai più ritorno alla loro collocazione originaria, ma andarono a riempire, ad esempio, i Musei Vaticani. Nel Novecento, il Louvre venne investito delle novità scaturite dalla nuova museologia degli anni ’30, i cui principi possono essere riassunti in: selezione delle opere da esporre, isolamento dell’opera d’arte, flessibilità, diversificazione dei percorsi, il cosiddetto “restauro preventivo”, che investiva illuminazione e climatizzazione, e i servizi al pubblico. Una delle sculture simbolo del museo del Louvre, la Nike di Samotracia, prima di questo nuovo riordinamento si trovava davanti ad una parete rosso-pompeiano all’interno di una cupola incrostata di mosaici: in seguito a questi ammodernamenti venne invece liberata a posta nella sua attuale collocazione. Negli anni ‘80, il presidente Mitterrand propose il rinnovamento dell’intera area. Il progetto fu ideato dall’architetto cinese Ieoh Ming Pei e comprendeva una piramide di vetro e acciaio posizionata nella Cour Napoléon, ad illuminare un grande atrio sotterraneo che avrebbe funto da nuovo ingresso principale in risposta ai problemi che il Louvre stava cominciando ad avere a causa del grande afflusso di visitatori, una vera e propria città sotterranea con negozi, bar, servizi, auditorium, una grande libreria e una sala per le esposizioni temporanee. La piramide richiama inoltre l’importante collezione di arte egizia presente all’interno del museo e fa senza dubbio avvicinare il Louvre ai Landmark e “musei di se stessi”. 11. Il museo di Lenoir Nel 1795 a Parigi venne fondato il Museo dei Monumenti Francesi il quale ebbe vita breve ma fece da capostipite ai musei riambientativi, per il suo ambiente di ricostruzione di contesti. Al pittore Lenoir venne affidato l’incarico di ricoverare presso l’antico convento parigino degli Agostiniani le opere sottratte a conventi e palazzi poiché, nella furia del fanatismo rivoluzionario, ci si era resi conto che distruggere non era più accettabile. Le tombe reali ad esempio, viste come incarnazione dell’odio nei confronti dell’ancien régime, erano state le opere maggiormente danneggiate. Si trattava di un museo di riambientazione in cui Lenoir creò veri e propri ambienti a temi: suddivisi per cronologia in cui le opere non venivano esposte come in un museo vero e proprio ma rimontate e riallestite. Per Lenoir tale operazione costituì un pericolo, poiché poteva essere accusato di tenere in vita le opere appartenenti all’ancien régime, pertanto decise di dare al museo una giustificazione storica, dicendo che non salvava tali opere per amore della monarchia ma poiché esse erano comunque – anche se in negativo – rappresentative della storia di Francia. Il pubblico iniziò ad amare moltissimo il museo, legato al nascere di una sensibilità preromantica che prova piacere nell’immergersi in epoche lontane. Uno degli esempi più celebri di ricostruzione – sebbene arbitraria – attuato da Lenoir fu la tomba di Abelardo ed Eloisa. Il percorso era cronologico e legato all’idea del progresso delle arti, sottolineato anche dall’illuminazione che aumentava progressivamente dall’oscuro Medioevo fino all’Età Moderna, luminosa. Il museo venne fortemente osteggiato da Quatremére de Quincy, il quale riteneva che tale allestimento trasmettesse falsi messaggi, pertanto venne smantellato nel 1816 e alcune opere vennero ricollocate nei loro luoghi di provenienza segnando la vittoria del contesto sullo sradicamento; altre invece trovarono ospitalità in un secondo momento all’interno di un altro museo dedicato ai monumenti francesi, anch’esso caratterizzato da riambientazione, il Musée de Cluny, allestito dal figlio di Lenoir. 12. I musei dell’Ottocento Dopo l’esperienza del Louvre l’Ottocento si apre come il secolo dei musei, caratterizzati in particolar modo dalle forme classiche del museo-tempio, che connotavano ormai l’edificio e conferivano importanza e solennità al suo contenuto. A Monaco i musei sorgono all’interno di un piano di riqualificazione urbana attuata dal sovrano e, così come per il Louvre, egli non era considerato il proprietario delle opere da essi contenute. Il principe Ludwig I commissiona all’architetto Leo von Klenze due edifici: il Walhalla, un tempio commemorativo degli eroi nazionali, che venne tuttavia eretto a Regensburg e la Glyptotek per la quale il sovrano, di sentimenti filoellenici, scelse le forme del tempio classico. La Glyptotek possiede una pianta quadrata con cortile centrale e si sviluppa su un unico piano, possiede nella facciata un pronao con otto colonne e sei nicchie con statue. All’interno del vestibolo è presente un fregio che reca i nomi di Ludwig I, von Klenze e Cornelius, pittore seguace dei Nazareni che aveva affrescato altre sale all’interno del museo. Le opere contenute erano ordinate cronologicamente, a partire dalla statuaria greca, con una sezione particolarmente ampia dedicata ai marmi di Egina, romana ed egizia, fino ad artisti contemporanei quali Thorvaldsen e Canova. La Glyptotek restava un museo elitario, come dimostra l’assenza di cartellini esplicativi ed il suo stretto legame col cerimoniale di corte. Glyptothek di Monaco Dato l’enorme successo ottenuto dalla Glyptothek, Ludwig I commissionò a von Klenze l’Alte Pinakothek, un museo dedicato questa volta alla pittura e, poiché riteneva che essa avesse raggiunto l’apice col Rinascimento italiano, le forme del museo erano quelle di un palazzo rinascimentale italiano, il cui tema di fondo era la galleria. All’interno del museo le opere erano ordinate cronologicamente e disposte all’interno di una galleria, per quanto riguarda le tele di grande formato, ed in cabinets, per i dipinti di piccole dimensioni; era inoltre presente una loggia affrescata da Cornelius in cui erano rappresentate le vite degli artisti. Alte Pinakothek di Monaco Infine a Monaco venne realizzato il primo museo d’Europa votato alla modernità: la Neue Pinakothek, destinata ad ospitare opere d’arte tedesca contemporanea. Il museo fu raso al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale e ricostruito completamente negli anni ’80, in modo del tutto indipendente dal vecchio edificio. Neue Pinakothek di Monaco A Berlino, invece, il primo museo che venne realizzato sull’“Isola dei Musei” fu l’Altes Museum: esso è caratterizzato da un portico che rievoca la stoà greca con diciotto colonne di ordine ionico, al suo interno le opere vennero ordinate cronologicamente e per scuole e l’allestimento era caratterizzato da una grande eleganza (raffinate scelte di colori, balaustre in ferro battuto, pavimenti intarsiati ecc.). Waagen infatti, giovane storico dell’arte che affiancò Schinkel nei lavori, era stato allievo di Hegel che in quegli anni era docente di Estetica a Berlino. Il nucleo centrale del museo era la luminosa rotonda, definita da Schinkel il “santuario” del museo. Egli inoltre concepiva il museo come uno strumento per elevare lo spirito attraverso la contemplazione della bellezza, che doveva investire anche l’architettura ospitante le opere d’arte (di scultura e pittura) contenute al suo interno. Il secondo museo costruito sulla Museumsinsel fu il Neues Museum, progettato dall’allievo di Schinkel, August Stuler, su commissione del sovrano Federico Guglielmo IV, dato l’incremento delle collezioni. Il museo era destinato ad accogliere le antichità egizie, oltre a quelle greche e romane e nella forma riprendeva il portico colonnato dell’Altes, alle sue spalle. È stato tuttavia semidistrutto durante la seconda guerra mondiale e recentemente restaurato. Sempre a Stuler venne commissionato il terzo museo dell’isola, la Nationalgalerie, voluta da Federico Guglielmo IV per ospitare le collezioni di arte tedesca. Nonostante si trattasse di un museo dedicato alla cultura nazionale e fortemente portatore di valori identitari, Stuler scelse per esso le forme del classiche del museo- tempio, poiché quella tipologia connotava ormai in modo inconfondibile il museo. Il Kaiser Friederich Museum venne realizzato dall’architetto Ernst von Ihne nelle forme di un palazzo neobarocco dallo stile eclettico: per la prima volta non troviamo la tipologia del museo-tempio, sebbene il museo ne riprenda il concetto, poiché possiede all’esterno forme solenni che riflettono i suoi ambienti interni. Il suo primo direttore fu Wilhelm von Bode, in onore del quale nel 1956 il museo venne rinominato “Bode Museum”. Gli interessi di Bode si incentrarono sulla scultura fiorentina rinascimentale che poté acquistare museo era destinato ad accogliere le antichità egizie, oltre a quelle greche e romane e nella forma riprendeva il portico colonnato dell’Altes, alle sue spalle. È stato tuttavia semidistrutto durante la seconda guerra mondiale e recentemente restaurato. Neues Museum Sempre a Stuler venne commissionato il terzo museo dell’isola, la Nationalgalerie, voluta da Federico Guglielmo IV per ospitare le collezioni di arte tedesca. Nonostante si trattasse di un museo dedicato alla cultura nazionale e fortemente portatore di valori identitari, Stuler scelse per esso le forme del classiche del museo- tempio, poiché quella tipologia connotava ormai in modo inconfondibile il museo. Nationalgalerie Il Kaiser Friederich Museum venne realizzato dall’architetto Ernst von Ihne nelle forme di un palazzo neobarocco dallo stile eclettico: per la prima volta non troviamo la tipologia del museo-tempio, sebbene il museo ne riprenda il concetto, poiché possiede all’esterno forme solenni che riflettono i suoi ambienti interni. Il suo primo direttore fu Wilhelm von Bode, in onore del quale nel 1956 il museo venne rinominato “Bode Museum”. Gli interessi di Bode si incentrarono sulla scultura fiorentina rinascimentale che poté acquistare grazie ad i suoi contatti col celebre collezionista d’arte Stefano Bardini: le nobili famiglie fiorentine infatti erano costrette a separarsi dalle loro proprietà ed opere d’arte, che venivano rivendute da antiquari come Bardini a musei oltreoceano ed europei. L’idea di museo di Bode era improntata sugli aspetti didattici, nella convinzione che le opere d’arte sarebbero state meglio comprensibili al pubblico se ambientate, una pratica dunque riambientativa sulla scia delle Period Rooms inglesi. Egli ricreò diversi ambienti all’interno del museo, come la cosiddetta “Basilica”: una copia di chiesa fiorentina del Quattrocento. Successivamente Bode sperimentò le sue innovazioni in una mostra di tipo riambientativo sull’arte medievale tedesca, in cui espresse il concetto dello stilraume, ovvero ambienti integrati da scultura, pittura e arredamento insieme, sull’influenza degli allestimenti di Stefano Bardini, il quale dava l’impressione ai compratori di stare visitando un museo, quindi un luogo di grande importanza, in una cornice decisamente accattivante. Bode Museum Più recente museo dell’Isola è il Pergamonmuseum, nato per ospitare i pezzi archeologici acquisiti nelle campagne di scavo tedesche negli anni ‘20 a Olimpia e Pergamo. I tesori maggiori conservati sono il fregio dell’Ara di Pergamo, il prospetto del mercato di Mileto, la Porta di Ishtar e la Via Sacra di Babilonia. Pergamonmuseum 14. I musei di arte applicata e i musei per la scienza A partire dalla seconda metà dell’Ottocento le maggiori capitali europee, in particolare Londra e Parigi, diedero inizio alle grandi esposizioni alle quali partecipavano numerose nazioni per presentare i loro prodotti. A Londra si tenne la prima esposizione internazionale, inaugurata in Hyde Park nel 1851, la quale ebbe durata di sei mesi e vide il passaggio di oltre sei milioni di visitatori. Gli oggetti esposti erano 100.000 ed erano suddivisi in quattro categorie: materie prime, macchinari, manufatti e opere d’arte. Per l’occasione l’architetto Joseph Paxton costruì in Hyde Park un edificio in ferro e vetro: il Crystal Palace, monumento alla modernità. In seguito al successo ottenuto, il principe Albert decise di creare una collezione permanente degli oggetti della Great Exhibition inaugurando, sotto la direzione di Henry Cole, il South Kensington Museum che venne rinominato “Victoria and Albert Museum”. Il modello inglese fece scuola negli Stati Uniti e in Europa, dove per tutta la seconda metà dell’Ottocento furono organizzate esposizioni nazionali e universali. La prima esposizione italiana si tenne a Firenze presso la stazione Leopolda nel 1861, la quale tuttavia restituì l’immagine di una nazione ancora legata ad una produzione di tipo artigianale. L’anno successivo, per la prima volta una città italiana, Torino, si dotò di un museo industriale, affiancato tuttavia ad un istituto tecnico, esperimento che si rivelò fallimentare. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo però i tempi erano maturi per vedere il sorgere in Italia di musei industriali o legati al commercio: sempre a Torino nacque il Museo Commerciale Italiano, fondato successivamente anche a Milano, il cui pubblico era composto dagli stessi operai. L’evoluzione naturale di queste esperienze furono i Musei della Scienza e della Tecnica, seguiti dai musei naturalistici (eredi delle Wunderkammern dell’Europa del Nord). Questi ultimi hanno visto alcuni problemi di ordinamento poiché gli oggetti esposti al loro interno vanno dal microscopico (come frammenti di minerali) all’enorme (come gli scheletri di animali ricomposti), comportando impegnative soluzioni di allestimento e l’utilizzo di grandi aree destinate al deposito. Nel corso del XX secolo i Musei della Scienza e della Tecnica si sono configurati come vere e proprie cittadelle del sapere, come lo Smithsonian Institute di Washington o la Città delle Arti e delle Scienze di Valencia. 15. Georges Henri Rivière Georges Henri Rivière fu uno studioso e museologo attivo tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento. Tra 1948 e 1965 è il primo direttore dell’ICOM. Le sue lezioni furono raccolte dai suoi allievi nel testo “La museologia secondo G. H. Rivière”, considerato il primo manuale di museologia al mondo. Rivière non si limitò a teorizzare e studiare il museo, ma sperimentò creandone di nuovi, in cui assunse importanza il modo di presentare le collezioni e il pubblico. Egli riallestì il Trocadero di Parigi, museo ancora esistente che oggi ha il nome di “Museo dell’uomo”: uno dei primi a contenere un originale di Moai, ovvero le grandi teste dell’Isola di Pasqua. Il nome di Rivère è legato in particolare al “Museo delle Arti e Tradizioni Popolari Francesi”, all’interno del quale raccolse tutte le testimonianze dell’antica vita francese, palesando uno stretto legame con la Scuola degli Annali, istituzione di cui facevano parte Marc Bloch, Henri Pirenne e Lucien Febvre, che si prefiggeva lo studio non della storia alta, bensì di quella del popolo, tramite l’analisi storica comparata. Per quanto riguarda l’allestimento, Rivière dispose oggetti semplici come fossero opere d’arte in eleganti vetrine su fondo scuro, sul fondo erano presenti allestimenti retrostanti che ricostruivano gli ambienti a cui gli oggetti appartenevano. Inoltre, seguendo l’esempio di Kimball a Philadelphia, egli creò due percorsi differenziati: uno per il grande pubblico, maggiormente comprensibile, ed uno più specifico, destinato agli studiosi. Rivière sarà anche il teorizzatore, assieme a Hugues de Varine, dell’ecomuseo. 16. L’ecomuseo Il termine “ecomuseo” viene coniato in Francia nei primi anni Settanta del Novecento, nell’ambito delle teorizzazioni dei museologi Hugues de Varine e George Henri Rivière. L’ecomuseo viene definito un’istituzione che si occupa di studiare, tutelare e far conoscere la memoria collettiva di una comunità delimitata geograficamente ed il suo rapporto, sia storico che attuale, con il territorio. Prima di tale teorizzazione troviamo come antenati dell’ecomuseo l’esperienza scandinava di Skänsen, i musei open-air e gli Heimatmuseum (musei dell’identità locale) diffusi in epoca nazista, il cui scopo comune era quello di tutelare le tracce delle società rurali in un momento in cui l’urbanizzazione, le nuove acquisizioni tecnologiche e i conseguenti cambiamenti sociali, rappresentavano un rischio reale di completo oblio di un patrimonio culturale millenario. Il primo territorio a ricevere il titolo di ecomuseo, dopo le teorizzazioni di Varine e Rivère, fu quello di Le Creusot Montceau a Le Mines in Francia, una regione della Borgogna che è stata una delle più importanti zone industriali della Francia dei Settecento. L’ecomuseo si rivolge soprattutto alla popolazione locale, poiché il suo obiettivo primario è il tramandare e conservare l’identità di una comunità legata ad un territorio. L’approccio utilizzato è interdisciplinare e si chiede la partecipazione attiva dei visitatori, perciò è imprescindibile la predisposizione di percorsi tematici (mappe di comunità) e visite interattive. I luoghi che diventano parte di questo progetto non devono necessariamente avere una struttura fisica determinata, ma possono essere anche interi quartieri, oppure edifici presenti sul territorio stesso, dalle antiche cascine alle più recenti testimonianze di archeologia industriale, mentre gli oggetti utilizzati saranno gli strumenti di lavoro, i macchinari e loro prodotti. In Italia l’esperienza degli ecomusei ha il suo epicentro in Piemonte. Potremmo dire dunque che, se il museo tradizionale è basato su una collezione, è caratterizzato da immobilità e riceve dei visitatori, l’ecomuseo è basato su un patrimonio, è diffuso sul territorio e visitato da una comunità. 17. La didattica museale Il compito della didattica museale è ravvivare il dialogo tra i visitatori e gli oggetti musealizzati, rendendo attivo quel processo emozionale e conoscitivo che rappresenta il presupposto indispensabile per una piena comprensione e valorizzazione dei musei. L’esigenza precocemente avvertita (già nella seconda metà dell’Ottocento) negli Stati Uniti di cambiare il volto del museo fu influenzata in particolar modo dalle esposizioni universali, le quali proponevano di giovare tanto alla cultura quanto al commercio e al turismo e che per andare incontro alle esigenze delle classi lavoratrici prevedevano aperture serali, illuminazione a gas, sale di lettura, conferenze a tema e punti di ristoro. Da qui nacque l’idea del museo come servizio sociale e il concetto di “museo-tempio” doveva essere sostituito con quello di “sala per esposizioni”, non più monumentale ma dinamico. George Brown Goode fu tra i primi teorizzatori – già nella seconda metà dell’Ottocento – dell’Educational Museum, affermando che il museo del futuro dovesse essere dotato di biblioteche, laboratori ed essere parte della struttura di insegnamento della scuola e dell’università. Anni dopo J. C. Dana, direttore del Newark Museum nel New Jersey concepì il museo come community service (“servizio alla comunità”), volto a offrire conoscenze pratiche al nuovo pubblico attraverso didascalie e pannelli esplicativi, valorizzando i prodotti dell’industria e gli oggetti comuni semplici e poco costosi e puntando anche all’enterteinment, tratto ricorrente nei musei americani. Nel 1899 venne fondato il Brooklyn Children’s Museum, primo museo rivolto ai bambini degli USA e del mondo, il cui obiettivo originario era la presentazione delle scienze naturali ai bambini cresciuti in un ambiente urbano. Di fondazione più recente, ma sulla stessa linea concettuale, è il Please Touch Museum di Philadelphia, un museo interattivo, sempre rivolto ai bambini che fa uscire gli oggetti dalle vetrine dando ad essi la possibilità di manipolarli ed esplorarli. Esemplare e innovativo fu invece l’Anacostia Neighborhood Museum, fondato nel 1967 a Washington, nel quartiere periferico e degradato di Anacostia, e promosso dalla Smithsonian Institution. Lo scopo del museo era quello di ricostruire la memoria e l’identità storica della popolazione afroamericana, fortemente concentrata nel quartiere: il museo, affermò il suo erano state messe al sicuro dalla direttrice Fernanda Wittgens. La Pinacoteca iniziò la sua lenta resurrezione dalle rovine nel febbraio 1946 grazie ai grandi finanziamenti di alcune storiche famiglie milanesi. Furono i luoghi che avevano subito maggiori danni, come Milano, insieme a Genova e a Venezia, ad essere scenario negli anni ’50 dell’elaborazione di proposte maggiormente innovative in campo museografico, tant’è che nel ’53 fu Brera e successivamente Genova ad ospitare le conferenze dell’ICOM in Italia. La Pinacoteca venne riaperta nel giugno 1950, dotata di un nuovo allestimento in cui l’ammodernamento fu calibrato e prudente, una sorta di compromesso tra ripristino e innovazione sotto la direzione di Ettore Modigliani. Si venne a creare così una Brera antica e nuova: antica nell’uso di marmi preziosi provenienti dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e nuova nella nitida presentazione dei dipinti su un solo registro, nelle tonalità chiare delle pareti e nella radicale trasformazione dei sistemi di illuminazione. Bisogna ricordare che strutture leggere e supporti moderni avevano già fatto ingresso a Brera nei primi anni di guerra grazie a Franco Albini, che organizzò al suo interno varie mostre d’arte contemporanea nelle salette attigue a quelle napoleoniche, introducendo già allora un forte segno di rinnovamento. Un chiaro esempio di passaggio dal vecchio al nuovo allestimento lo si ha con lo “Sposalizio della Vergine” di Raffaello, che passò da un allestimento di tipo riambientativo con pesanti tendaggi rossi, sedie savonaroliane ed una sorta di finta abside che lo contenesse, ad un nuovo allestimento in cui l’opera viene completamente isolata, esposta da sola in una sorta di cappella rinascimentale, su pareti chiare per eliminare ogni tipo di elemento che lo “affogasse” in drappeggi e quant’altro. Negli anni ’50, all’indomani della riapertura di Brera, presero campo attività del tutto nuove per il paese, grazie alla soprintendente Fernanda Wittgens, rivolte a scuole elementari e medie. Inoltre Brera veniva aperta anche la sera e le visite erano guidate da giovani assistenti universitari o dalla direttrice stessa. Furono iniziative inedite che furono presto imitate da altri musei. Col procedere degli anni ’70 nella Pinacoteca di Brera si realizzò una mostra estremamente interessante intitolata “Processo per il museo” (1977), la quale si proponeva di polemizzare contro alcune metodologie museali. Essa venne organizzata da Franco Russoli, con la partecipazione di Gillo Dorfles, Pierre Gaudibert e Bruno Munari. La mostra, in occasione della quale si sperimentarono nuove metodologie per avvicinarsi al pubblico, era molto particolare poiché composta di fotografie e opere d’arte, si voleva far comprendere sia il contesto storico che quello di provenienza e attuare confronti tra le diverse rappresentazioni iconografiche di un medesimo soggetto. All’interno di essa Bruno Munari ricevette l’incarico di progettare uno spazio per i bambini che egli allestisce secondo la sua filosofia del “giocare con l’arte”, ovvero far conoscere, in questo caso ai bambini, attraverso la sperimentazione diretta. Tale sperimentazione incoraggiò all’interno dei musei italiani la costruzione delle prime sezioni didattiche. 20. Il dibattito sul museo del Novecento/Il rinnovamento degli anni ’30 All’inizio del Novecento, in seguito ai rivolgimenti politici, economici e sociali si iniziò a riflettere su un nuovo modello di museo, che dovesse rispondere alle esigenze di un pubblico mutato e di cui venivano messe in discussione forma e ruolo all’interno della società. Coloro che maggiormente si fecero portavoce di queste istanze furono i musei americani che sorsero agli inizi del Novecento a Cleveland, Baltimora, Philadelphia, i quali rappresentavano omaggi alla museografia europea per quanto riguarda le forme dell’edificio, ma si discostavano da essi nell’impostazione. I principi che guidavano i musei americani erano infatti: la forte vocazione didattica, il rapporto con la produzione industriale in quanto legata alla vita dei cittadini, il compito del museo individuato nell’enterteinment. L’attenzione per il museo, visto anche come strumento di comunicazione verso un pubblico di massa e non ristretto e composto unicamente da studiosi, si intensificò nel periodo tra le due guerre grazie alla creazione, all’interno della Società delle Nazioni, della Commissione Internazionale di Cooperazione Intellettuale (CICI). Da questo primo nucleo nacquero altri organismi e ad Henri Focillon, docente di archeologia e storia dell’arte medievale alla Sorbona, si deve l’impegno nella creazione di un Centro Internazionale dedicato esclusivamente ai musei l’OIM (Office International des Musées), fondato nel 1926 e che aveva come ambito di indagine la museografia. Nel 1921, in occasione dell’XI Congresso Internazionale di Storia dell’Arte si decise che l’OIM sarebbe stato dotato di una propria rivista ufficiale, “MOUSEION”, che mettesse in comunicazione a livello internazionale tutte le personalità legate al museo e che portava avanti una concezione moderna di museo, di cui possono essere considerati esempi il progetto di Stein e Le Corbusier. C. Stein pubblicò su MOUSEION il progetto per il suo museo dalle forme di un grattacelo a pianta ottagonale, dotato di servizi al pubblico (auditorium, biblioteca ecc.) ed organizzato al suo interno in due gallerie: una interna allestita con period rooms ed una esterna costituita da un luminoso deposito visitabile dagli studiosi. Il progetto di Le Corbusier venne realizzato dall’architetto in occasione del concorso indetto dalla Società delle Nazioni nel 1927 per la costruzione del Mundaneum, un centro culturale internazionale. Le Corbusier non vinse ma fu tuttavia il vincitore morale del concorso, realizzando un museo dalla forma di una spirale che gli ispirò successivamente l’idea del museo a crescita illimitata, massimo esempio di flessibilità. Altro punto che emerse dal congresso, portato avanti da Focillon, fu la necessità di venire incontro al pubblico con cartellini e didascalie esplicative delle opere. Altri due eventi degli anni ’30 ci testimoniano la maturazione di un nuovo pensiero volto al rinnovamento dell’istituzione museale: presso l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, venne introdotto per la prima volta l’insegnamento di Storia delle Collezioni e dei Musei d’arte e la Gazette des Beaux-Arts diede avvio ad un’inchiesta sui problemi e lo stato dei musei a livello internazionale. Punto d’arrivo di queste riflessioni fu la Conferenza di Madrid del 1934, in occasione del nuovo allestimento del museo del Prado. Le esperienze degli anni ’30 del Novecento, fino ad ora elencate, hanno contribuito a formare l’idea di una nuova museologia, la quale auspicava: la necessità di una selezione delle opere d’arte con un conseguente utilizzo dei depositi, l’isolamento dell’opera d’arte, la flessibilità degli edifici museali, la diversificazione dei percorsi, la creazione di servizi al pubblico, il cosiddetto “restauro preventivo”, vale a dire l’attenzione a illuminazione e climatizzazione per una giusta conservazione delle opere. Significativo, all’interno della Conferenza di Madrid, fu l’intervento dei relatori italiani: Ojetti parlò dell’importanza delle mostre temporanee e del fascino che esse esercitano sul pubblico, Paribeni affrontò la tematica dell’adattamento a museo moderno di edifici antichi e Giovannoni auspicò una maggiore limpidezza e semplicità dei percorsi, preferendo la qualità alla quantità. Applicazioni di tali concetti furono il Museo del Prado, in cui è esemplare l’isolamento, in una sala tutta per sé, del dipinto “Las Meninas” di Velasquez o la National Gallery, che si dota di una nuova illuminazione. In Italia Palazzo Bianco – in cui Carlo Albini applica innovativi supporti girevoli per le opere – è uno dei rarissimi casi di applicazione di questi nuovi concetti in Italia. 21. Carlo Scarpa Carlo Scarpa fu, insieme a Franco Albini, uno dei protagonisti indiscussi della nuova museologia degli anni ’50. Egli lavorò principalmente tra Firenze, Palermo e Venezia ed i criteri che guidavano il suo operato erano: esaltare al massimo le qualità formali delle opere d’arte attraverso l’isolamento dell’opera, lo studio della luce con una predilezione per l’illuminazione naturale, la cura del design dei pannelli espositivi e delle vetrine. Nel 1953 Scarpa allestisce a Messina una mostra su Antonello da Messina e la scuola Siciliana che ebbe un grandissimo successo e la cui immagine simbolo fu l’“Annunciata”. Scarpa mise in atto i suoi principi: isola l’opera d’arte utilizzando talvolta il “cannocchiale prospettico”, ovvero ponendo l’opera alla fine di un corridoio, di modo che l’occhio dell’osservatore converga su di essa, inoltre egli predilesse un illuminazione naturale per le opere, filtrata per ragioni conservative. Già affermato come architetto-museografo, Scarpa venne chiamato a progettare l’allestimento di una delle più importanti mostre del dopoguerra: presso la Galleria di Palazzo Abatellis a Palermo, infatti, venne organizzata una mostra sull’arte siciliana dal Trecento al Seicento. Prima della mostra fu necessario restaurare tutto l’edificio quattrocentesco, per il quale l’idea di Scarpa fu quella di togliere tutte le superfetazioni che si erano depositate, al fine di farne riemergere l’autenticità; se tuttavia l’aggiunta era di qualità, essa veniva lasciata, sia nell’architettura che nella scultura antica. Altre soluzioni espositive ottenute da Carlo Scarpa nel Museo Abatellis riguardarono, ad esempio, il busto di Eleonora d’Aragona di Luciano Laurana, per il quale predispose l’isolamento dell’opera sullo sfondo di una parete verde per esaltare il bianco del marmo con il colore, tecnica che successivamente cambiò, utilizzando il bianco stesso per esaltare il bianco. Per quanto riguarda invece l’esposizione di croci trecentesche, originariamente disposte in alto sugli altari maggiori, Scarpa decise di portarle all’altezza dell’occhio dell’osservatore, per permetterne uno studio facilitato, modalità che attuerà anche per le croci trecentesche degli Uffizi. Scarpa applicò lo stesso principio a Genova, nel Museo di Palazzo Bianco: in quest’attività di riordinamento museale si decise di togliere, a quasi tutti i dipinti esposti, le cornici che non sempre appartenevano alla stessa epoca del dipinto: si trattava spesso di un’aggiunta successiva. Tale scelta provocò molte polemiche. Significativo è inoltre l’allestimento della sezione dei costumi del Museo Correr attuato da Scarpa, il quale li ripose in eleganti vetrine, abbinati alla bandiera corrispondente. Carlo Scarpa nel 1956 venne chiamato, insieme a Giovanni Michelucci e Ignazio Gardella, a riallestire le sale degli Uffizi dedicate ai “Primitivi” (sale dalla 2 alla 6) e all’arte medievale. Gli architetti e museografi coprirono la sala con un soffitto a capriate, imitando le chiese medievali e le opere vennero ordinate cronologicamente e per scuole, secondo il principio dell’isolamento, la luce era zenitale ed il pavimento in cotto: Scarpa era infatti molto attento ad utilizzare materiali che provenissero dal territorio. Ma il punto d’arrivo dell’allestimento di Scarpa si ebbe a Castelvecchio, nel restauro e nuovo allestimento del museo. In particolare, la statua di Cangrande della Scala, originariamente posta sopra la sua tomba e divenuta il simbolo del museo, assume grazie a Scarpa una posizione del tutto originale. Scarpa decide infatti di ricollocare la statua in alto, come era il suo contesto originale, ma modernizzandola, ponendola sopra un cubo vuoto in metallo posto subito fuori dal museo, visibile sia da vicino che da lontano. 22. Franco Albini Franco Albini fu, assieme a Carlo Scarpa, uno dei protagonisti indiscussi della nuova museologia degli anni ’50. Egli lavorò principalmente a Milano e Genova, dove si occupò del restauro di Palazzo Rosso e Palazzo Bianco. Palazzo Rosso aveva subito meno danni rispetto al Bianco ed aveva conservato il suo allestimento di palazzo barocco: si decise pertanto di ricostruirlo così com’era. Per quanto riguarda Palazzo Bianco invece, il suo museo era stato distrutto. Pertanto esso venne ricostruito: Albini, insieme alla storica dell’arte e direttrice del museo, Caterina Marcenaro, ebbe campo libero per ricostruire e riallestire l’edificio in un modo completamente nuovo. Le pareti vennero dipinte di bianco, la luce venne molto studiata e grande attenzione fu data alle sedie, dove l’osservatore poteva affondarsi. Si dice che Scarpa ambientasse l’opera d’arte, mentre Albini l’osservatore. È celebre l’allestimento di Albini all’interno di Palazzo Bianco per quanto riguarda il gruppo di Margherita di Brabante sollevata da due angeli, il quale era fissato su un sostegno metallico mobile, ideato da Albini, che permetteva che il gruppo potesse essere osservato da diversi punti di vista Albini a Genova progetterò anche un museo completamente nuovo a partire dalle fondamenta: il Museo della Cattedrale di San Lorenzo. Le forme che egli conferì al museo erano quelle di una cripta sotterranea proprio perché all’interno di questo museo era ospitato il tesoro della Cattedrale di Genova. Per la forma si ispirò alle tombe a thòlos dell’antica Grecia, sono poi presenti luci soffuse e vetrine in cui sono riposti gli oggetti. In questi tre casi portati ad esempio Albini compie tre tipologie diverse di azione: con Palazzo Rosso siamo di fronte ad un edificio antico rinnovato, Palazzo Bianco è la ricostruzione di un palazzo antico ed il Museo della Cattedrale di San Lorenzo è un museo costruito ex novo. 23. La Commissione Franceschini In Italia si decide, negli anni ’60, di porre un freno alla incontrollata dissipazione dei beni storico-artistici ma anche ambientali nel contesto sociale del dopoguerra e del boom economico. Luigi Gui istituisce nel 1964 una greco. Il cuore del Guggenheim è un affascinante vaso vuoto, cinto da una rampa a spirale di 7 piani che costituisce il percorso del museo che inizia dall’alto. Se da una parte la spirale può essere messa in rapporto con il museo a crescita illimitata di Le Corbusier, il Guggenheim ne contraddice tuttavia lo spirito: Wright crea un edificio spettacolare che si impone nel tessuto urbano, cercando un nuovo rapporto con la città. Ma l’aspetto più nuovo e carico di conseguenze è la competizione che si instaura tra la struttura architettonica e le opere d’arte, in cui la prima finisce per prevalere marginalizzando la collezione, in questo senso il Guggenheim è il prototipo delle odierne esperienze museografiche che, in maniera sempre più esplicita, hanno assegnato al museo il ruolo di landmark, investendo l’immagine di un quartiere intero: si ha disinteresse per la funzionalità a vantaggio della forza espressiva del segno architettonico. 25. Il MoMA Nel 1929 nacque la vera e propria novità nel campo dell’arte moderna: il MoMA, voluto da tre donne, una delle quali appartenente alla famiglia dei Rockefeller, le quali chiamarono a collaborare alla creazione di esso un giovane storico dell’arte medievale: Alfred Barr, il quale dette un’impronta molto forte al nuovo museo. Le opere inizialmente erano esposte all’interno di un appartamento sulla quinta strada concesso dai Rockefeller, rifiutando dunque fin dall’inizio il concetto di “museo-tempio”. Una clausola del MoMA prevedeva fin da subito che al suo interno si dovessero esporre solamente le opere del presente, che, una volta invecchiate, sarebbero state spostate; successivamente questa clausola venne cambiata. Dopo pochi anni gli spazi dell’appartamento non erano più sufficienti ad organizzare e contenere le esposizioni artistiche e si decise di costruire una sede per il museo. Si scelse il progetto di Goodwin e Stone nel 1939: un edificio in cemento e vetro che venne salutato dal The New Yorker come una profonda novità. Il nuovo MoMA aveva anche delle novità al suo interno: volendo fare del museo un luogo in cui il pubblico potesse stare giornate intere, si disposero una libreria, un ristorante ed un giardino, all’epoca un fatto estremamente innovativo. La prima mostra organizzata nel nuovo museo è dedicata a Cézanne, Gaugin, Seurat e Van Gogh. Qui Barr stabilisce un modello espositivo che diverrà prevalente in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: quadri esposti simmetricamente su una sola fila, ad altezza di sguardo, secondo una sequenza logica che dipendeva dallo stile e dal periodo, ben distanziati, su pareti neutre, delle quali era molto curato l’apparato didascalico (cartellini, pannelli ecc.). Successivamente Barr organizzò una mostra dedicata solo a Van Gogh. Nel 1936, si esponeva tutta la produzione artistica contemporanea: fotografia, film, teatro e l’arte legata alla produzione di poster con la mostra “Cubism and Abstract Art”. Il MoMA superò gli altri musei stando al passo con la creatività contemporanea. La copertina della mostra venne realizzata da Barr, il quale riprodusse uno dei suoi diagrammi in cui metteva in relazione l’arte cubista e l’arte astratta assieme ad altri momenti artistici, individuando dunque l’arte contemporanea come il frutto dell’evoluzione artistica. Barr dotò, nella mostra, l’arte contemporanea di una propria storia, come si era abituati per fare con l’arte antica e moderna. Per quanto riguarda l’allestimento, i quadri erano disposti lungo una sola fila, ad altezza dell’occhio dello spettatore, le pareti possedevano colori neutri e gli ambienti erano dotati di grande pulizia e razionalità. Nel 1940 Barr allestì invece la mostra “Italian Masters Exhibition”, con la quale volle far capire, attraverso l’esposizione di opere di arte antica italiana, che si poteva applicare lo stesso modello allestitivo, il cui scopo era far valere l’opera d’arte per se stessa, anche a questo tipo di esposizione e non dunque solo all’arte contemporanea. La mostra venne incitata dal regime fascista che inviò le collezioni italiane negli Stati Uniti. Oltre all’isolamento dell’opera d’arte, l’illuminazione venne abbassata per creare un’atmosfera suggestiva e furono allestite delle strutture “robbiane” che ricordassero l’originale ambientazione. 26. Il rinnovamento italiano degli anni ’50 Il secondo dopoguerra aveva rappresentato un momento tragico per i musei europei ed italiani in particolare. Molte città italiane avevano visto la distruzione di edifici storici e opere d’arte. Si poneva il problema di una ricostruzione ma col desiderio di andare oltre, nel segno della modernità, e non solo di ripristinare lo status quo ante. Sono questi gli anni legati alla nascita della museologia in Italia, che si fa risalire al 1955 quando venne organizzato un convegno in occasione della riapertura della Galleria Nazionale di Perugia, in cui per la prima volta venne utilizzata la parola “museologia”. In occasione dell’XI triennale di Milano si decise poi di organizzare una mostra del tutto particolare e mai vista prima, dedicata al processo di rinnovamento del museo italiano e così articolata: una prima parte che trattasse della storia dei musei, per illustrare lo sviluppo del museo dalle origini alla contemporaneità attraverso fotografie che mostrassero i luoghi più importanti della museologia, una seconda parte sulle soluzioni espositive con l’allestimento di quattro diversi ambienti dedicati a pittura, scultura, arte applicata e oggetti eterogenei, una terza parte dedicata al rinnovamento, in cui si prendevano in esame alcuni dei più importanti musei italiani sottoposti al processo di rinnovamento. In seguito all’ingresso della modernità in Italia, essa comincia ad interessarsi all’ICOM e chiede di ospitare anch’essa queste conferenze generali, come accadde nel ’53, prima a Brera e poi a Genova, non a caso città che avevano subito i maggiori danni. Anche in Italia finalmente si inizia a riflettere su mostre, percorso, illuminazione, allestimento e comunicazione, volta sempre più alla didattica. Furono i luoghi che avevano subito maggiori danni, come Milano, insieme a Genova e a Venezia, ad essere scenario negli anni ’50 dell’elaborazione di proposte maggiormente innovative in campo museografico. La Pinacoteca di Brera venne riaperta nel giugno 1950, dotata di un nuovo allestimento in cui l’ammodernamento fu calibrato e prudente, una sorta di compromesso tra ripristino e innovazione sotto la direzione di Ettore Modigliani. Si venne a creare così una Brera antica e nuova: antica nell’uso di marmi preziosi provenienti dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e nuova nella nitida presentazione dei dipinti su un solo registro, nelle tonalità chiare delle pareti e nella radicale trasformazione dei sistemi di illuminazione. Bisogna ricordare che strutture leggere e supporti moderni avevano già fatto ingresso a Brera nei primi anni di guerra grazie a Franco Albini, che organizzò al suo interno varie mostre d’arte contemporanea nelle salette attigue a quelle napoleoniche, introducendo già allora un forte segno di rinnovamento. Carlo Scarpa fu, insieme a Franco Albini, uno dei protagonisti indiscussi della nuova museologia degli anni ‘50. Egli lavorò principalmente tra Firenze, Palermo e Venezia ed i criteri che guidavano il suo operato erano: esaltare al massimo le qualità formali delle opere d’arte attraverso l’isolamento dell’opera, lo studio della luce con una predilezione per l’illuminazione naturale, la cura del design dei pannelli espositivi e delle vetrine. Nel 1953 Scarpa allestisce a Messina una mostra su Antonello da Messina e la scuola Siciliana che ebbe un grandissimo successo e la cui immagine simbolo fu l’“Annunciata”. Scarpa mette in atto i suoi principi: isola l’opera d’arte utilizzando talvolta il “cannocchiale prospettico”, ovvero ponendo l’opera alla fine di un corridoio, di modo che l’occhio dell’osservatore converga su di essa, inoltre egli predilesse un illuminazione naturale per le opere, filtrata per ragioni conservative. Già affermato come architetto-museografo, Scarpa venne chiamato a progettare l’allestimento di una delle più importanti mostre del dopoguerra: presso la Galleria di Palazzo Abatellis a Palermo, infatti, venne organizzata una mostra sull’arte siciliana dal Trecento al Seicento. Prima della mostra fu necessario restaurare tutto l’edificio quattrocentesco, per il quale l’idea di Scarpa fu quella di togliere tutte le superfetazioni che si erano depositate, al fine di farne riemergere l’autenticità; se tuttavia l’aggiunta era di qualità, essa veniva lasciata, sia nell’architettura che nella scultura antica. Altre soluzioni espositive ottenute da Carlo Scarpa del Museo Abatellis riguardarono, ad esempio, il busto di Eleonora d’Aragona di Luciano Laurana, per il quale predispose l’isolamento dell’opera sullo sfondo di una parete verde per esaltare il bianco del marmo con il colore, tecnica che successivamente cambiò, utilizzando il bianco stesso per esaltare il bianco. Per quanto riguarda invece l’esposizione di croci trecentesche, originariamente disposte in alto sugli altari maggiori, Scarpa decise di portarle all’altezza dell’occhio dell’osservatore, per permetterne uno studio facilitato, modalità che attuerà anche per le croci trecentesche degli Uffizi. Scarpa applicò lo stesso principio a Genova, nel Museo di Palazzo Bianco: in quest’attività di riordinamento museale si decise di togliere, a quasi tutti i dipinti esposti, le cornici che non sempre appartenevano alla stessa epoca del dipinto: si trattava spesso di un’aggiunta successiva. Tale scelta provocò molte polemiche. Significativo è inoltre l’allestimento della sezione dei costumi del Museo Correr attuato da Scarpa, il quale li ripose in eleganti vetrine, abbinati alla bandiera corrispondente. Carlo Scarpa nel 1956 venne chiamato, insieme a Giovanni Michelucci, Carlo Scarpa e Ignazio Gardella, a riallestire le sale degli Uffizi dedicate ai “Primitivi” (sale dalla 2 alla 6) e all’arte medievale. Gli architetti e museografi coprirono la sala con un soffitto a capriate, imitando le chiese medievali e le opere vennero ordinate cronologicamente e per scuole, secondo il principio dell’isolamento, la luce era zenitale ed il pavimento in cotto: Scarpa era infatti molto attento ad utilizzare materiali che provenissero dal territorio. Ma il punto d’arrivo dell’allestimento di Scarpa si ebbe a Castelvecchio, nel restauro e nuovo allestimento del museo. In particolare, la statua di Cangrande della Scala, originariamente posta sopra la sua tomba e divenuta il simbolo del museo, assume grazie a Scarpa una posizione del tutto originale. Scarpa decide infatti di ricollocare la statua in alto, come era il suo contesto originale, ma modernizzandola, ponendola sopra un cubo vuoto in metallo posto subito fuori dal museo, visibile sia da vicino che da lontano. Franco Albini, altro protagonista della nuova museologia degli anni ’50, lavorò principalmente a Milano e Genova, dove si occupò del restauro di Palazzo Rosso e Palazzo Bianco. Palazzo Rosso aveva subito meno danni rispetto al Bianco ed aveva conservato il suo allestimento di palazzo barocco: si decise pertanto di ricostruirlo così com’era. Per quanto riguarda Palazzo Bianco invece, il suo museo era stato distrutto. Pertanto esso venne ricostruito: Albini, insieme alla storica dell’arte e direttrice del museo, Caterina Marcenaro, ebbe campo libero per ricostruire e riallestire l’edificio in un modo completamente nuovo. Le pareti vennero dipinte di bianco, la luce venne molto studiata e grande attenzione fu data alle sedie, dove l’osservatore poteva affondarsi. Si dice che Scarpa ambientasse l’opera d’arte, mentre Albini l’osservatore. È celebre l’allestimento di Albini all’interno di Palazzo Bianco per quanto riguarda il gruppo di Margherita di Brabante sollevata da due angeli, il quale era fissato su un sostegno metallico mobile, ideato da Albini, che permetteva che il gruppo potesse essere osservato da diversi punti di vista. Albini a Genova progetterò anche un museo completamente nuovo a partire dalle fondamenta: il Museo della Cattedrale di San Lorenzo. Le forme che egli conferì al museo erano quelle di una cripta sotterranea proprio perché all’interno di esso museo era ospitato il tesoro della Cattedrale di Genova. Per la forma si ispirò alle tombe a thòlos dell’antica Grecia, sono poi presenti luci soffuse e vetrine in cui sono riposti gli oggetti. In questi tre casi portati ad esempio Albini compie tre tipologie diverse di azione: con Palazzo Rosso siamo di fronte ad un edificio antico rinnovato, Palazzo Bianco è la ricostruzione di un palazzo antico ed il Museo della Cattedrale di San Lorenzo è un museo costruito ex novo. Anche il Gruppo BBPR si rende protagonista a Milano di tale innovazione, composto da L. Barbiano di Belgioioso, E. Peressutti e E. N. Rogers. Essi si occupano di restauro e sistemazione dei musei del Castello Sforzesco di Milano (1954-56), di cui lasciarono memoria scritta, spiegando le loro nuove sistemazioni, come quella della cosiddetta Sala Verde dedicata alle armi in cui – scrivono – il carattere delle opere esposte ha consentito loro di dare maggiore sfogo alla fantasia, ispirandosi a scenografie rinascimentali dal clima metafisico. Ma il gruppo BBPR è celebre soprattutto per aver esposto la Pietà Rondanini di Michelangelo: in tale esposizione vediamo l’isolamento totale, poiché l’intento principale era quello di esaltare al massimo l’unicità dell’oprea, creando una sorta di abside tinta di scuro su cui risaltava il marmo bianchissimo. Oggi l’opera si trova isolata in un salone senza niente attorno. 27. Il Museo verso il XXI secolo La museologia di fine XX e XXI secolo vede la comparsa di quello che potremmo definire “musei di se stessi”: ovvero edifici che, a partire dagli anni ’40, vogliono rappresentare essi stessi un’opera d’arte, come accade col Guggenheim di New York, un affascinante vaso vuoto, cinto da una rampa a spirale di 7 piani che costituisce il percorso del museo che inizia dall’alto. Frank Lloyd Wright crea un edificio spettacolare che si impone nel tessuto urbano, cercando un nuovo rapporto con la città. Da anni il pubblico lo gode pienamente anche al di là Un altro esempio di rifunzionalizzazione sono tutti quegli edifici di tipo industriale; negli anni ’80 a Città di Castello si decise di rifunzionalizzare capannoni in cui veniva essiccato il tabacco, al fine di creare un museo monotematico: il museo legato alle opere di Alberto Burri (“Museo Alberto Burri”). Museo Alberto Burri, Città di Castello Uno dei primi musei del nuovo secolo che viene invece realizzato ex novo è il “Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto”, progettato dall’architetto svizzero Mario Botta, che ospitasse l’arte dai futuristi in avanti. Il museo recupero nella sua struttura l’idea della piazza quale luogo di socialità, dalla quale si accede alle diverse sezioni del museo. Esso è inoltre uno dei primi musei in Italia in cui si è applicato il cosiddetto “Atto di indirizzo 2001”. Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto Un esperimento che ha avuto molto successo e che doveva essere inizialmente temporaneo è il “Museo della Centrale Elettrica di Monte Martini”: invece di nascondere e non far vedere al pubblico ciò che era stato temporaneamente tolto ai Musei Capitolini, si decise di esporlo in un altro luogo. La scelta fu quella di utilizzare una centrale elettrica presente a Roma risalente ai primi del Novecento, senza intaccarne l’aspetto originario, lasciando i macchinari già presenti e allestendovi la statuaria romana antica. Museo della Centrale Elettrica di Monte Martini Roma si è successivamente dotata di un nuovo museo per le arti del ventunesimo secolo (Il “MAXXI - Museo nazionale delle Arti del XXI secolo”), progettato dall’architetta Zaha Hadid (2010). MAXXI, Roma L’ultimo museo realizzato a tal proposito è il “Kolumba Museum” di Peter Zumthor, a Colonia, in Germania, sulle basi di quello che rimaneva della chiesa di Santa Colomba. Si tratta di un museo diocesano, non progettato per l’arte contemporanea ma particolare nell’allestimento astorico, che mescola opere d’arte sacra e, secondo quanto stabilito successivamente, un museo di arte moderna. Inoltre non è presente una suddivisione cronologica delle opere, poiché è stato ricercato un continuo dialogo tra quelle di arte antica e contemporanea. Le opere sono isolate ed il museo è caratterizzato da pareti e pavimenti lisci. Ma la particolarità di questo museo è la scelta di una totale assenza di comunicazione: non ci sono cartellini esplicative, audioguide ecc., lo spettatore è lasciato libero di intraprendere il proprio percorso e trarre le proprie considerazioni. Kolumba Museum, Colonia 28. Gli ordinamenti museali Quando ci si accinge a creare un allestimento museale si deve tenere conto di tre elementi diversi che devono amalgamarsi: la cultura da cui provengono gli oggetti da esporre, la cultura dei curatori dell’esposizione e la cultura di coloro che entrano nel museo, ovvero il pubblico. Lo storico dell’arte inglese Charles Saumarez Smith sintetizza nel 1989 quali siano, a suo parere, le strategie museali: l’esposizione astratta, senza alcun riferimento all’originale contesto spazio-temporale dell’opera, e quella realistica, che tenta di ricostruire una parvenza della sua collocazione originaria. Anche la storica dell’arte Patricia Mainardi, dopo aver studiato le strategie espositive del d’Orsay parigino, entra nel dibattito affermando che le opere d’arte possono essere ordinate in varie categorie: secondo un singolo artista, un movimento artistico o un periodo dato, se si segue l’ordinamento tradizionale e secondo una categoria tematica se si segue l’ordinamento di tipo astorico revisionista, di cui può essere considerato un esempio il Kolumba Museum di Colonia che mescola opere d’arte sacra e contemporanea, senza una suddivisione cronologica né cartellini e didascalie esplicative, per lasciare l’osservatore libero di muoversi a suo piacimento. Negli anni ’90 Stephen Greenblatt ha espresso, all’interno del convegno Exhibiting Cultures, interessanti teorie riguardanti l’esposizione museale. Egli individuò due categorie riassuntive in cui posizionare gli ordinamenti e gli allestimenti di ciascun museo: la meraviglia, ovvero il potere che l’oggetto esposto ha di catturare l’attenzione dello spettatore, e la risonanza, ovvero la capacità che l’oggetto ha di varcare i propri limiti formali evocando emozioni in chi lo guarda, due concetti che potremmo semplificare rispettivamente con senso estetico ed emotività. Un esempio di museo che utilizza soluzioni espositive sia di meraviglia che di risonanza può essere il Museo Egizio di Torino, in cui gli spettatori si trovano immersi in sale buie entro le quali emergono, sotto la luce, i reperti (risonanza), ma allo stesso tempo l’emergere delle figure sul fondo scuro comporta un’evidenziazione delle caratteristiche formali di tali opere (meraviglia). Un importante paleontologo italiano, Giovanni Pinna, approva la tesi di Greenblatt ma inserisce una terza categoria: la museologia razionale, tipica delle collezioni naturali come erbari o musei che espongono animali impagliati, fossili ed oggetti mineralogici. 29. Parchi-museo di scultura Considerare giardini e cortili come dei musei non è un’iniziativa recente, già in epoca romana infatti la Villa di Tivoli di Adriano era stata concepita con un grande parco, all’interno del quale vennero ricostruite varie strutture da lui visitate in paesi stranieri: Grecia, Egitto e addirittura anche gli Inferi. Passando poi al Rinascimento è importante il cortile di Palazzo Medici, le cui collezioni non erano disposte unicamente all’interno del palazzo, ma anche nel suddetto cortile, trasformato successivamente dalla famiglia Riccardi. Nel cortile erano presenti opere di grande pregio come il David e la Giuditta di Donatello. Ancora più significativo nella storia medicea è il Giardino di San Marco, staccato dall’abitazione dei Medici, adibito alla formazione di giovani artisti attraverso lo studio diretto delle sculture classiche. A Roma papa Giulio II fece realizzare il Giardino del Belvedere, un museo all’aperto, open air, con nicchie contenenti quelle all’epoca considerate le più importanti sculture dell’antichità, concepito come una sorta di summa dell’arte classica. Sempre Roma non va dimenticato il cortile di Andrea della Valle, che stava a metà strada tra giardino e cortile, poiché l’elemento vegetale era ridotto al minimo, mentre era presente una loggia con nicchie contenenti opere e bassorilievi. Un altro giardino mediceo si trova presso la Villa di Castello, esso conteneva sculture, figurazioni, fontane e grotte. Il passo successivo venne attuato da Francesco I de’ Medici con la creazione del Giardino di Pratolino, contenente giochi d’acqua, figure di automi e dispositivi che volevano porre l’accento sulla capacità dell’uomo di manipolare la natura, addomesticandola. Il giardino, realizzato dal Giambologna è stato spogliato dalle sue opere ma rimane ancora la grande creazione manierista dell’Appennino, uno splendido esempio, diremmo oggi, di opera site-specific. Un giardino non toscano ma certamente importante è il Giardino Orsini a Bomarzo, contenente sculture realizzate appositamente per quel luogo di cui ancora non si conosce il significato, talvolta è stato letto come un percorso di conoscenza alchemico. Esso è caratterizzata da figure di mostri realizzati in pietra locale e non è importante dal punto di vista artistico quanto piuttosto sotto l’idea della manipolazione della natura. Nonostante il pregio di questi luoghi bisognerà aspettare i giorni odierni perché essi acquisiscano valore museologico con la definizione di “parco-museo”, che ha come presupposto l’intenzionale e permanente integrazione dell’arte contemporanea nel contesto naturale, storico e culturale. In Toscana sono esempi di parco-museo la Fattoria di Celle a Pistoia, il Giardino di Pinocchio realizzato a Collodi ed il Giardino dei Tarocchi, realizzato da Niki de Saint Phalle, un unico artista che si fece donare uno spazio in Maremma della famiglia Agnelli all’interno del quale realizzò un parco monotematico sul tema degli arcani maggiori. Celebre è il percorso Arte Sella in Valsugana, creato nel 1986 a Borgo Sella in Valsugana per esprimere il concetto della natura nell’arte contemporanea, sulla scia del movimento internazionale “Art in Nature”. Qui sono presenti opere site-specific realizzate con materiali naturali che col tempo andranno a fondersi con la natura. Uno degli esempi più significativi di questo fondersi con la natura è la “Cattedrale Vegetale” di Giuliano Mauri. Infine si ricorda Ian Hamilton Finlay, poeta, scrittore e architetto del paesaggio scozzese che ha attuato nel proprio giardino una riflessione sull’arte classica, ponendo, ad esempio, in mezzo all’erba capitelli abbandonati o lapidi con iscritti alcuni versi dell’Iliade, con il fine di apporre il proprio segno ma rendendolo tutt’uno con la natura, nel rispetto di essa. 30. Musei per la città: i musei civici Una tipologia di museo caratteristica dell’Italia post-unitaria è il museo civico. Esso è legato a diversi fattori, primo tra tutti la volontà di molti collezionisti di legare le proprie raccolte alla città con l’esplicito proposito, posto come clausola della donazione, di creare un museo. Nel corso del secondo Ottocento moltissime furono le città italiane, specialmente nell’area centro settentrionale, che fondarono musei volti alla conservazione delle rendendole inalienabili. Dopo il Chirografo di Papa Pio VII ci fu l’Editto Doria del 1802, il quale non limitava la tutela ai monumenti ma incluse tutte le opere mobili, imponendo anche ai privati la compilazione di inventari, per intervenire in modo più incisivo sulla salvaguardia dei beni nel loro complesso. Per quanto invece riguarda il Risorgimento, l’Editto Pacca, prima legge veramente innovativa dello Stato Pontificio, fece da modello per la normativa dell’Italia postunitaria. Seguirono le cosiddette “leggi eversive” che affidavano ai Comuni la gestione dei beni espropriati, favorendo l’incremento e la nascita dei musei civici. Il 1875 rappresentò una svolta, con la fondazione da parte del ministro Ruggero Bondi della Direzione Generale degli Scavi e dei Musei. Nello stesso anno veniva introdotta la tassa di ingresso ai musei, con l’intento di svincolarli dalla gestione diretta delle accademie. Un’articolata azione legislativa in materia di tutela ebbe inizio nel Novecento. La legge stabiliva innanzitutto l’inalienabilità non solo dei beni pubblici, ma anche di quelli privati ritenuti di alto valore storico e culturale. L’esportazione del bene privato era vietata, tuttavia non lo era la sua vendita all’interno del territorio nazionale, in tal caso lo Stato si riservava di esercitare il diritto di prelazione, ovvero di intervenire per primo nell’acquisto. Altro punto essenziale della Legge Rosadi riguarda la creazione di una struttura organizzativa centrale, vale a dire le soprintendenze, divise a seconda delle competenze in soprintendenze archeologiche, alle gallerie e ai monumenti. La legge prevedeva inoltre la necessità di compilare un catalogo del patrimonio pubblico. Nel 1939 Giuseppe Bottai elaborò con il contributo di Roberto Longhi e di Giulio Carlo Argan, rese più organica la legislazione fino ad allora vigente. L’attenzione al patrimonio culturale si fece più intensa negli anni ’60, unita ad una più generale consapevolezza dello stato di abbandono in cui essa versava, lo dimostra la relazione Franceschini, elaborata dall’omonima commissione, istituita nel 1963 e presieduta da Francesco Franceschini con lo scopo di verificare lo stato dei beni culturali italiani. Una nuova commissione, la Commissione Papaldo, fu istituita nel 1968 con scopi analoghi, ma con il compito aggiuntivo di predisporre un progetto di legge. I tempi erano maturi per riconoscere il ruolo centrale del patrimonio culturale, svincolandolo dalla subordinazione al Ministero della Pubblica Istruzione. Si giunge così all’istituzione, con la legge del 29 gennaio 1975, nel Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, fortemente voluto da Giovanni Spadolini. Nel 1999 entra in vigore il Testo Unico per i Beni Culturali, che riordina la precedente legislazione e cui fa seguito il Codice dei Beni Culturali. 35. Allestimento e ordinamento Ogni esposizione necessita di un ordinamento, un criterio – scientifico e non – che la distingua da un semplice un accumulo di opere d’arte: infatti si può parlare di collezione, museo o mostra, solo quando si è in presenza di un criterio di vario tipo di allestimento o ordinamento. L’allestimento è tutto ciò che riguarda la collocazione fisica nello spazio delle opere, concernente ad esempio illuminazione, strutture espositive (travi, vetrine ecc.), cartellini esplicativi ecc. Essa è di pertinenza del museografo, ovvero una figura di architetto specializzato nell’allestimento di edifici museali. L’allestimento delle opere è profondamente mutato nel corso dei secoli: durante il Seicento emerge l’evoluzione delle gallerie, in cui i dipinti erano disposti solitamente senza cesure spaziali; fino al Settecento era prevalente un’esposizione dei dipinti “a incrostazione”, una sorta di horror vacui che vedeva le pareti completamente tappezzate di dipinti, come possiamo osservare nel dipinto “La Tribuna degli Uffizi” del pittore J. Zoffany. All’inizio dell’Ottocento, con il Louvre gestito da Denon, si sviluppa la moderna concezione del museo attuale, che elimina l’allestimento ad incrostazione e sperimenta nuovi criteri allestitivi sulla scia dei principi illuministi: lo spazio viene scandito da archi e colonne e l’opera inizia ad essere sempre più isolata; nella seconda metà dell’Ottocento nasce una nuova tipologia di museo, che, attraverso la riambientazione, cerca di ricreare un determinato luogo o periodo, allestendo lo spazio non solo con dipinti e sculture, ma anche con mobili e oggettistica tipica di quel contesto storico, geografico e culturale, secondo il concetto di stilraume elaborato da Bode, che da lui ebbe vasta diffusione. Negli anni ‘30 del Novecento, in seguito ad un processo che culmina con la Conferenza di Madrid, si afferma l’idea di isolamento dell’opera d’arte, si auspicano allestimenti flessibili, un attento studio dell’illuminazione e la presenza di cartellini esplicativi per il pubblico. Si cerca un’illuminazione naturale che non danneggi le opere, e si cerca di effettuare una selezione delle opere evitando il sovraffollamento delle stesse. L’ordinamento invece è tutto ciò che riguarda l’ordine concettuale con cui esporre le opere all’interno dell’allestimento (per scuole, per temi, in ordine cronologico ecc.), compito che spetta al museologo in quanto frutto di una sua riflessione critica sulle opere prese in esame e sul luogo in cui le si vogliono collocare. A partire dal Settecento, i maggiori musei europei e americani utilizzano la tipologia di ordinamento cronologico e per scuole, maggiormente diffusa. È invece a partire dal XX secolo che sorgono nuovi criteri di ordinamento, anche in seguito all’apertura dei musei nei confronti dell’arte contemporanea. Alla fine del Novecento prende avvio un dibattito sui diversi tipi di ordinamento utilizzati nella storia e utilizzabili. Lo storico dell’arte inglese Charles Saumarez Smith sintetizza nel 1989 quali siano, a suo parere, le strategie museali: l’esposizione astratta, senza alcun riferimento all’originale contesto spazio-temporale dell’opera, e quella realistica, che tenta di ricostruire una parvenza della sua collocazione originaria. Anche la storica dell’arte Patricia Mainardi, dopo aver studiato le strategie espositive del d’Orsay parigino, entra nel dibattito affermando che le opere d’arte possono essere ordinate in varie categorie: secondo un singolo artista, un movimento artistico o un periodo dato, se si segue l’ordinamento tradizionale e secondo una categoria tematica se si segue l’ordinamento di tipo astorico revisionista, di cui può essere considerato un esempio il Kolumba Museum di Colonia che mescola opere d’arte sacra e contemporanea, senza una suddivisione cronologica né cartellini e didascalie esplicative, per lasciare l’osservatore libero di muoversi a suo piacimento. Negli anni ’90 Stephen Greenblatt ha espresso, all’interno del convegno Exhibiting Cultures, interessanti teorie riguardanti l’esposizione museale. Egli individuò due categorie riassuntive in cui posizionare gli ordinamenti e gli allestimenti di ciascun museo: la meraviglia, ovvero il potere che l’oggetto esposto ha di catturare l’attenzione dello spettatore, e la risonanza, ovvero la capacità che l’oggetto ha di varcare i propri limiti formali evocando emozioni in chi lo guarda, due concetti che potremmo semplificare rispettivamente con senso estetico ed emotività. Un esempio di museo che utilizza soluzioni espositive sia di meraviglia che di risonanza può essere il Museo Egizio di Torino, in cui gli spettatori si trovano immersi in sale buie entro le quali emergono, sotto la luce, i reperti (risonanza), ma allo stesso tempo l’emergere delle figure sul fondo scuro comporta un’evidenziazione delle caratteristiche formali di tali opere (meraviglia). Un importante paleontologo italiano, Giovanni Pinna, approva la tesi di Greenblatt ma inserisce una terza categoria: la museologia razionale, tipica delle collezioni naturali come erbari o musei che espongono animali impagliati, fossili ed oggetti mineralogici. 36. Storia delle mostre La pratica di esporre un’opera d’arte è assai antica, sappiamo infatti che già alla fine del XIII secolo avvenne una grande processione per vedere la Pala di Cimabue in Santa Maria Novella, quando essa venne terminata. Nelle sue “Vite” poi, Vasari racconta di quando venne esposto il cartone di Leonardo Da Vinci con Sant’Anna, la Madonna, San Giovannino e Gesù e, per l’occasione, la popolazione di Firenze fece capannello attorno all’opera per due giorni. Ancora, quando la “Morte della Vergine” di Caravaggio venne rifiutata dal committente, essa venne esposta per una settimana prima di lasciare la città di Roma e si crearono file di persone che volevano vedere lo straordinario e scandaloso capolavoro. Le prime mostre vere e proprie sono individuate dallo studioso Francis Haskell a Roma all’inizio del Seicento. Si tenevano presso l’Associazione dei Virtuosi del Pantheon, la chiesa di San Giovanni Decollato e soprattutto nel chiostro della chiesa di San Salvatore in Lauro. La loro finalità era principalmente pubblicizzare le attività degli artisti, eccetto che nel caso di San Giovanni Decollato, in cui ad esporre fu una famiglia di collezionisti che desiderava far ammirare la bellezza delle proprie collezioni al popolo. Anche a Firenze gli accademici esponevano in una cappella a loro uso, sotto il patrocinio dei Medici, all’interno del Chiostro Grande della Chiesa della Santissima Annunziata. Il Chiostro fu adibito a queste esposizioni, anche da parte di importanti collezionisti, nei secoli successivi e vide un forte aumento col Grand Tour. Dagli anni Venti del Novecento le mostre iniziarono ad acquisire maggiore importanza: si ricorda la mostra di Palazzo Pitti sulla pittura italiana del Seicento e del Settecento, nel 1922 e la celebre mostra di Parigi del 1934 presso l’Orangerie sui pittori francesi del XVII secolo. Questa mostra è stata considerata talmente importante che su di essa nel 2007 venne organizzata un’ulteriore mostra. Durante il fascismo le mostre diventarono uno straordinario strumento di propaganda per riflettere, attraverso la grande arte italiana del passato, la grandezza italiana del presente. Mussolini si adoperò infatti per organizzare in Inghilterra una mostra sull’arte italiana, in occasione della quale molte importanti opere subirono danni nel trasporto. Si ricorda inoltre la “Mostra Augustea della Romanità”, organizzata a Roma nel Palazzo delle Esposizioni, dove per la prima volta vennero creati modellini con pannelli esplicativi accanto ad opere autentiche e venne elaborato un doppio percorso, mai visto prima in Italia. Anche New York ospitò una mostra sull’arte italiana, nel 1940, grazie all’organizzazione di Barr, il quale voleva dimostrare che anche l’arte antica poteva essere esposta con quei criteri di isolamento applicati all’arte moderna. Molte delle mostre del dopoguerra furono incentrate sulle opere che tornavano “a casa” dopo essere state nascoste per motivi di sicurezza nel periodo della guerra. Tali mostre furono anche occasione di importanti restauri. Negli anni ’50 Roberto Longhi organizzò nel Palazzo Reale di Milano un’importante mostra su Caravaggio e i caravaggeschi, la quale ebbe un grandissimo successo di pubblico e restituì a questi pittori la notorietà che possiedono oggi, poiché all’epoca non erano minimamente conosciuti. La Biennale internazionale di Venezia del 1948 diede grande impulso alle mostre d’arte moderna e contemporanea, per cui iniziò in Italia un processo di rinnovamento del gusto che portò a importanti mostre come la retrospettiva su Pablo Picasso a Roma e a Milano del 1953. Nel 1961 venne poi organizzata la celebre mostra su Andrea Mantegna a Mantova, la prima retrospettiva mai organizzata su questo artista. La mostra venne molto pubblicizzata all’interno delle scuole, sui giornali e nelle fabbriche e vide un’importante innovazione nel catalogo: al posto di piccoli volumi facilmente trasportabili venne creato uno molto grande e costoso contenente immagini a colori. L’altra mostra famosissima degli anni ’80 fu quella dei bronzi di Riace che, prima di tornare a Reggio Calabria, furono restaurati a Firenze, fornendo l’occasione per l’organizzazione di una grande mostra presso il Museo Archeologico di Firenze che inaugurò il periodo delle mostre-evento. Tra gli anni ’70 e ’80 le mostre diventarono anche un’occasione di ripensamento critico sui musei: è celeberrima la mostra “Processo per il Museo”, organizzata nel 1977 da Franco Russoli, Gillo Dorfles, Pierre Gaudibert e Bruno Munari, il cui scopo era quello di portare all’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori proposte concrete per un uso sociale del museo, sulla base di un’analisi delle esperienze condotte in Italia e all’estero. All’interno di essa Bruno Munari ricevette l’incarico di progettare uno spazio per i bambini che egli allestì secondo la sua filosofia del “giocare con l’arte”, ovvero far conoscere, in questo caso ai bambini, attraverso la sperimentazione diretta. L’ultima mostra, in ordine di tempo, dedicata al museo è stata quella del 1999 organizzata al MoMA, intitolata “Il Museo come Musa: gli artisti riflettono”, il cui curatore fu Kynaston Mc Shine. Per l’occasione erano state esposte le opere di 60 artisti del passato e del presente di vario genere: dipinti, sculture, fotografie, disegni, stampe, video, incisioni sonore e installazioni, per mettere in evidenza come, nel corso del XX secolo, il museo d’arte fosse diventato più il soggetto che l’oggetto. Alcune opere celebri esposte nella mostra furono le boxes di Cornell o le celebri scatole di Duchamp che si aprivano e contenevano riproduzioni di opere d’arte. Infine, come esempio di una mostra che non si dovrebbe fare, poiché il fine di ciascuna mostra dovrebbe essere unicamente l’occasione conoscitiva, è quella del 2003 intitolata “Gli Impressionisti e la Neve”, non basata su criteri scientifici ma unicamente improntata ad un ritorno economico. 37. Il Museo dell’Opera del Duomo Inizialmente il Museo dell’Opera del Duomo era un fabbricato utilizzato dalla fine del XIII secolo per ospitare l’Opera del Duomo, un’istituzione laica, fondata dalla Repubblica Fiorentina, formata da amministratori, artisti e operai che si dovevano occupare della costruzione della cattedrale di Santa Maria del Fiore. Nel 1400, per esigenze di spazio, l’Opera traslocò in quella che è la sede attuale, un palazzo costruito su un precedente casolare. Terminata la basilica nel 1436, l’Opera rimase in vita con il compito di provvedere alla tutela e manutenzione del complesso sacro formato da Duomo, Battistero e Campanile e, dal 1891, aprì al pubblico una parte delle sale trasformandole in Museo. Nel corso dei secoli si era infatti radunata una raccolta strabiliante non solo di capolavori provenienti dai tre monumenti, ma anche di inestimabili memorie storiche sulla fabbrica di Santa Maria del Fiore, come il modellino del Brunelleschi per la cupola, i vari progetti cinque- seicenteschi per la facciata e alcune macchine impiegate nella costruzione ecc. Ad oggi fra le opere più importanti del museo sono presenti le formelle originali di Lorenzo Ghiberti della Porta del Paradiso, le Francesco I la Galleria degli Uffizi abbandonò la sua funzione di ufficio delle magistrature, poiché il Granduca decise di utilizzarla come luogo per l’esposizione delle collezioni medicee, segnando così l’importante passaggio nelle esposizioni d’arte dallo studiolo alla galleria. Egli dispose la Galleria di Levante per esporvi la statuaria, al di sotto del soffitto fece trasportare la cosiddetta “Gioviana”, intervallata da ritratti di membri della famiglia Medici ed incaricò Bernardo Buontalenti di progettare la Tribuna: una sorta di scrigno a pianta ottagonale all’interno della Galleria, in cui conservare le parti più preziose della collezione, caratterizzata da un programma decorativo che rimandava all’alchimia, passione di Francesco I. Un’importante testimonianza riguardante la Tribuna ci viene data da Johann Zoffany, il quale nel 1776 la ritrae su commissione della sovrana britannica, allestimento “a incrostazione”, ovvero la parete completamente coperta dai dipinti, chiaramente non presenti in tale quantità ai tempi di Francesco I. Tra le numerose riforme intraprese dai Lorena in Toscana ci fu il rinnovamento, negli anni ’70/’80 della Galleria degli Uffizi, affidato da Pietro Leopoldo a Giuseppe Pelli Bencivenni e Luigi Lanzi. Venne predisposto che gli Uffizi avrebbero contenuto solo opere d’arte, che sarebbero state completamente visibili al pubblico e non chiuse in scrigni o armadi, la struttura venne inoltre divisa in venti gabinetti specializzati. Una novità del 1780, allestita da Paleotti fu la Sala della Niobe, contenente 12 sculture romane di originali greci in bronzo che rappresentano Niobe ed i suoi figli, colpiti a morte da Latona, gelosa della prole feconda di costei. È importante ricordare inoltre che la Galleria degli Uffizi venne ufficialmente aperta al pubblico nel 1769 dal Granduca Pietro Leopoldo e che, in precedenza, nel 1737, Anna Maria Luisa, ultima erede Medici, stipulando il cosiddetto “Patto di Famiglia” legò le collezioni d’arte medicee alla città di Firenze, decretandone l’inalienabilità. Nel 1956 Carlo Scarpa venne chiamato, insieme a Giovanni Michelucci e Ignazio Gardella, a riallestire le sale degli Uffizi dedicate ai “Primitivi” (sale dalla 2 alla 6) e all’arte medievale. Gli architetti e museografi coprirono la sala con un soffitto a capriate, imitando le chiese medievali e le opere vennero ordinate cronologicamente e per scuole, secondo il principio dell’isolamento, la luce era zenitale ed il pavimento in cotto: Scarpa era infatti molto attento ad utilizzare materiali che provenissero dal territorio. Infine, negli anni ’70 e ’80, si decise di riportare per lo meno la Tribuna all’aspetto che essa aveva con Francesco I, oggi vediamo una struttura vicina a quella che diede Lanzi. Per quanto riguarda l’allestimento, gli Uffizi vedono sia ambienti lasciati pressoché intatti, come i corridoi, in cui le statue si fondono con il soffitto a grottesca, sia nuove stanze dotate di allestimenti moderni: come le scarpiane sale di Primitivi, le recentissime sale del Cinquecento, inaugurate a maggio 2019, che si differenziano dalle prime per i colori utilizzati nelle pareti: il verde per i capolavori di Tiziano, il blu per i ritratti del Bronzino ecc. o ancora la nuova sala dedicata a Raffaello e Michelangelo, ospitante il Tondo Doni in una struttura che ha suscitato alcune polemiche, venendo definita un “oblò” e i ritratti dei coniugi Doni sospesi all’interno di una struttura trasparente in vetro. Divisa in varie sale allestite per scuole e stili in ordine cronologico, l’esposizione della Galleria degli Uffizi mostra opere dal XII al XVIII secolo, con la migliore collezione al mondo di opere del Rinascimento fiorentino. Di grande pregio sono anche la collezione di statuaria antica e soprattutto quella dei disegni e delle stampe che, conservata nel Gabinetto omonimo, è una delle più importanti al mondo. Gli Uffizi contengono la più cospicua collezione esistente di Raffaello e Botticelli, oltre a nuclei fondamentali di opere di Giotto, Tiziano, Pontormo, Bronzino, Andrea del Sarto, Caravaggio, Dürer, Rubens ed altri ancora. La Galleria delle Statue ospita una raccolta di opere d’arte inestimabili, derivanti, come nucleo fondamentale, dalle collezioni dei Medici, arricchite nei secoli da lasciti, scambi e donazioni, tra cui spicca un fondamentale gruppo di opere religiose derivate dalle soppressioni di monasteri e conventi tra il XVIII e il XIX secolo. Gli Uffizi sono chiaramente dotati di servizi al pubblico: cartellini esplicativi, punto ristoro e addirittura ricostruzioni tridimensionale per non vedenti delle maggiori opere d’arte. 41. Il Museo Nazionale del Bargello Esternamente, il Museo Nazionale del Bargello possiede l’aspetto di un palazzo medievale che è stato molto restaurato nell’Ottocento. Esso dapprima è stato sede della “polizia” fiorentina denominata appunto “Bargello” e, nell’Ottocento, un carcere. Si decide di restaurare questo luogo e di farne un museo quando nella seconda metà dell’Ottocento si scopre nella Cappella del Potestà un ritratto di Dante Alighieri tra gli affreschi della scuola di Giotto. Al tempo di Firenze capitale, infine, si decide – con un altro traumatico smembramento – di trasformarlo in un museo dedicato all’arte rinascimentale, in particolare alla scultura, con un’attenzione particolare a Donatello. Le opere da ospitarvi vennero per la maggior parte sottratte agli Uffizi, ma il museo si è arricchito di superbi esemplari di bronzetti, maioliche, cere, smalti, medaglie, avori, arazzi, sigilli e tessili, provenienti in parte dalle collezioni medicee, in parte dai conventi soppressi e in parte da privati. Al primo piano tra le sale più importanti troviamo l’imponente Sala di Donatello con le più celebri opere dell’artista fiorentino (David, Attis, San Giorgio, Marzocco), le sculture maiolicate di Luca della Robbia, le formelle bronzee di Ghiberti e Brunelleschi; allo stesso livello seguono in varie sale le raccolte di arte islamica, della donazione Carrand (antiquario di Lione, che nel 1888 legò al Bargello la sua raccolta di oltre 2500 opere fra arti decorative e pitture), la Cappella (con quella che potrebbe essere la più antica effige di Dante Alighieri). All’ultimo piano si trova una delle principali raccolte di capolavori di Andrea e Giovanni della Robbia, la Sala di Verrocchio, la Sala dell’Armeria dove sono esposti i pezzi sopravvissuti alla dispersione dell’armeria medicea. Al piano terra si possono ammirare la fascinosa veduta d’insieme del cortile e la Sala di Michelangelo con le sculture del Buonarroti, di Cellini, Giambologna, Ammannati. Per quanto riguarda il percorso, risulta difficile stabilire di che tipo esso sia: al pianterreno troviamo la scultura cinquecentesca, mentre quella quattrocentesca si trova nel salone principale, dedicato a Donatello; sono poi presenti sculture commissionate da privati e al secondo piano ricomincia l’esposizione della scultura del Quattrocento. Non siamo dunque di fronte ad un percorso lineare: troviamo le opere principali esposte a seconda delle epoche. Le sale sono comunque dotate di cartellini descrittivi delle opere, l’illuminazione muta a seconda delle sale: naturale e uniforme nella Sala di Donatello, ad esempio, e zenitale, in modo da lasciare l’osservatore in ombra, nelle raccolte di arte islamica.
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