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domande media e geografia Frixa, Prove d'esame di Geografia Della Comunicazione

possibili domande, ripasso per esame di media e geografia con Frixa 2022/2023

Tipologia: Prove d'esame

2022/2023

Caricato il 19/03/2023

martina-marastoni
martina-marastoni 🇮🇹

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Scarica domande media e geografia Frixa e più Prove d'esame in PDF di Geografia Della Comunicazione solo su Docsity! « La Questione Mediterranea » 1. A cosa è ispirato il titolo del libro? Il titolo del libro è ispirato all’opera “La questione meridionale” di Gramsci del 1926. Fra i due scritti corre un parallelismo nel paragone fra Nord e Sud Italia e Mediterraneo settentrionale e meridionale/orientale. Gli spazi vengono contrapposti per il divario socio-economico da cui sono caratterizzati, e vi è un opposizione fra due mondi che vengono descritti come diversi, uno dominante e uno subalterno e secondario. Nel caso di “La questione mediterranea”, si cerca di superare la visione dell’Occidente e dell’Europa come mondo superiore e moderno, mentre il Medio Oriente e il mondo islamico vengono rappresentati come realtà subordinate e secondarie, dominate dal fondamentalismo religioso. Un chiaro esempio in cui è possibile individuare i riscontri, anche subconsci, di questo (falso) mito della supremazia Occidentale, sono i fatti successivi alla strage di Charlie Hebdo, il giornale satirico francese la cui sede è stata vittima di un attentato terroristico in seguito alla pubblicazione di vignette con intento satirico ritenute offensive nei confronti dell’Islam e dei suoi praticanti: la testata francese è stata rappresentata come vittima, simbolo della libertà di stampa che vige in Francia, paese moderno e all’avanguardia, mentre gli attentatori sono stati rappresentati come l’emblema di società chiuse, inferiori ed arretrate. Il Mediterraneo è quindi erroneamente sottoposto ad un pensiero dominante euro-centrico: in realtà l’intreccio di storie e culture che lo hanno caratterizzato, specialmente nel passato quando l’Europa è stata a sua volta considerata come periferia, lo rendono una realtà ibrida, in continuo cambiamento. Questo perché è il risultato di processi sociali, politici e culturali. Il Mediterraneo è una costruzione, e il suo inquadramento è fortemente legato alla cartografia, ovvero la rappresentazione dei suoi spazi, sempre più sottoposta ad un punto di vista dominato dall’Occidente. 2. Pensando con il tuffatore. Il tuffatore è un dipinto riscoperto all’interno di un sarcofago di origine greca trovato a Paestum, ai tempi colonia greca, e quindi testimonianza del passato coloniale e dello scontro e incontro fra culture che ha caratterizzato il Mediterraneo ancora prima del colonialismo strutturale dell’800 e ‘900. Il dipinto raffigura uomini dalla pelle scura, scontrandosi con la visione erronea che rappresenta i personaggi della Bibbia come bianchi e ariani nonostante la narrazione dei fatti abbia luogo in Medio Oriente. Trovandosi all’interno di un sarcofago per millenni rimasto occulto, il dipinto del tuffatore non era destinato ad essere trovato. Il sarcofago è stato aperto come un archivio, e grazie a questo è riuscito a portare testimonianza di un passato che non avremmo altrimenti potuto conoscere, capacità che solo l’arte in quanto anacronistica possiede: lo stesso va fatto con la storia del Mediterraneo. L’archivio del Mediterraneo e della storia che lo hanno caratterizzato va aperto, e i suoi contenuti fatti riaffiorare, per indagare tutte quelle narrazioni che sono state messe in secondo piano dalla storia e dalle geografia del potere, cercando di rompere la linearità della storia e degli spazi, mantenendo un inquadramento dinamico. 3. Mappe e cartografia Le mappe sono delle rappresentazioni semplificate dello spazio, che ne mostrano le relazioni fra le parti che lo compongono. Le mappe non sono piatte, perché lo spazio non si limita alla superficie, ma si estende sopra le nostre teste e sotto i nostri piedi. Le mappe non sono neutre, ma la cartografia è un atto fortemente arbitrario: parliamo di geografia del potere, oltre che di geografia degli spazi. Dunque, le mappe non rappresentano solo confini fisici e lineari, ma anche confini cognitivi: dettano il tipo di inquadramento che dobbiamo adottare, suggerendo ciò che è incluso e ciò che è escluso. I confini sono quindi criticamente e culturalmente produttivi. 4. Rappresentazione dei fenomeni di immigrazione – mappe alternative La rappresentazione del fenomeno dell’immigrazione, che nell’ultimo decennio in particolare ha caratterizzato il Mediterraneo con movimenti di migranti attraverso i Balcani o dalle coste della Libia verso l’Italia Meridionale, è fortemente condizionata dai media. Mappe alternative, dette countermaps, o altri tipi di mappe come le deep-maps o le partecipative-maps, hanno lo scopo di raccontare questi fenomeni migratori sotto un altro punto di vista, servendosi della cartografia per ricostruire storie e per documentare gli eventi tragici che avvengono nelle acque del Mediterraneo. Alcuni esempi sono Eurosur live map, the left to die boat, the migrant files, frontex, the migmap… Eurosur live map è un sistema di sorveglianza delle coste dei paesi membri dell’Unione Europea, che tramite l’uso di tecnologie all’avanguardia, fra cui sensori termici e di movimento, radar e dispositivi di tracciamento, cerca di prevedere e prevenire (cartografia anticipatoria) eventi tragici nelle acque del Mediterraneo. Lo scopo è quello di coordinare le operazioni di salvataggio in mare, combattendo i fenomeni di immigrazione clandestina e di criminalità transfrontaliera. Le tecnologie vengono impiegate per la creazione e il continuo aggiornamento (solitamente con aggiornamenti pubblicati 24 ore dopo la registrazione dei dati) di una mappa interattiva, costituita da punti e frecce di diverso colore che si muovono fra i colonialismo: classico e di insediamento. Il colonialismo classico prevede l’occupazione territoriale con una marginalizzazione delle popolazioni locali, ritenute inferiori e non utili per lo sviluppo socio-economico del paese invadente. Un esempio di colonialismo classico è quello della Francia e della Gran Bretagna in Medio Oriente: durante la Prima guerra mondiale i due paesi firmarono un accordo per la divisione delle province circostanti al canale di Suez per avere entrambe un accesso garantito all’oceano Indiano. Con colonialismo di insediamento ci riferiamo invece a tutte le pratiche di sterminio delle popolazioni locali, con genocidi e pulizia etnica, come avvenne ad esempio in Nord Africa. L’Italia si impegnò negli anni ’10 del XX secolo in una campagna coloniale nel corno d’Africa, che risultò fallimentare. A prescindere dal ricavo di risorse umane ed economiche, tuttavia, il colonialismo strutturale del XIX e XX secolo aveva anche un altro obiettivo: quello di coniare l’idea di identità ed appartenenza nazionale, un concetto quindi non naturale, perché frutto di un esercizio di violenza brutale. Possiamo quindi constatare che l’integrità dell’ideale di appartenenza e identità degli Stati europei si basi esclusivamente sull’attività coloniale che questi paesi hanno svolto. 7. Storiografia alternativa Così come la cartografia e la geografia, anche la storia è stata scritta da un certo punto di vista. È necessario riaprire l’archivio storico del Mediterraneo, questa volta dando spazio a tutti quei corpi, quelle voci e quelle culture che sono state silenziate o marginalizzate dalle narrazioni lineari convenzionali e dominanti, come quella araba e quella turca. La linea convenzionale spazio-temporale si interrompe, e si compie un tentativo di ricostruzione adottando un cambiamento di prospettiva. Il Mediterraneo è un’entità ibrida e multi-stratificata, e ogni strato è stato ed è tutt’oggi fondamentale per la sua definizione. Parliamo di contro-storiografie, che comportano una rottura dell’uniformità delle narrazioni dominanti. L’archivio viene riaperto e rivitalizzato: le narrazioni europee ed occidentali non vengono cancellate, ma affiancate da altre storie che fino a questo momento sono state limitate sullo sfondo, e di cui ormai si coglie solo l’eredità culinaria, musicale o artistica. 8. Mediterraneo migrante Il Mediterraneo è da sempre stato caratterizzato da movimenti migratori e spostamenti di grandi gruppi, che ne hanno reso i confini estremamente liquidi e malleabili. È interessante notare come le narrazioni autoreferenziali e dominanti dell’Europa costruiscano, specialmente attraverso i media, l’immagine del fenomeno dell’immigrazione e del corpo delle migliaia di persone coinvolte (rifugiati di guerra, richiedenti asilo…). L’immagine dominante è senza dubbio quella dei barconi stracolmi di persone che arrivano sulle coste dell’Italia meridionale, spesso con percorsi tutt’altro che semplici, e mai senza lasciare indietro delle vittime, fra uomini, donne e bambini. Tuttavia, la rotta migratoria più usata dal 2015 è quella dei Balcani, attraverso cui i migranti cercano di avere accesso all’Ungheria per poi spostarsi verso la Germania e il cuore dell’Unione Europea servendosi del trattato di Schengen. I due percorsi sono tuttavia rappresentati diversamente. L’attraversamento dei Balcani e le immagini diffuse riguardo ad esso sembrano suscitare maggiore compassione dei confronti dei cittadini europei; un esempio è la fotografia del bambini siriano morto su una spiaggia dell’Egeo, con il volto nascosto nella sabbia, che ha fatto il giro del mondo ricevendo commenti di compassione. I motivi sono inconsci e trovano le loro radici nel passato coloniale delle nazioni europee, specialmente quelle in cui appunto l’identità nazionale si è formata durante il periodo coloniale lungo ‘800 e ‘900. 9. Razzializzazione Parliamo di razzializzazione, un processo che prevede una classificazione dei migranti sulla base della loro appartenenza etnica o religiosa. Il concetto di razza, ormai si spera superato, prevede l’attribuzione di competenze particolari a gruppi specifici di individui sulla base delle loro caratteristiche biologiche. Questi processi non vengono ovviamente resi espliciti ed evidenti dalle politiche di gestione dell’immigrazione europee, ma è chiaro che siano in maniera inconscia inseriti all’interno delle logiche sociali e culturali dei cittadini europei (razzismo culturale). Un esempio di classificazione e gerarchizzazione dei migranti può essere, come mostrato dagli studi di Gerner del 2007, il pregiudizio nei confronti delle persone non bianche per quanto riguarda la facilità di inserimento ed integrazione nei paesi europei. Le persone non bianche sarebbero infatti ritenute più problematiche, e il loro inserimento a sua volta più complicato a causa delle differenze culturali e religiose. Un altro esempio sono le diverse concessioni per la libertà di movimento fra i paesi membri dell’UE, che dovrebbe essere garantita a tutti i cittadini dei paesi partecipanti e a tutti coloro in possedimento di regolare permesso di soggiorno. Nella classificazione e gerarchizzazione dei migranti entra in gioco anche il valore economico, ovviamente legato al sistema capitalistico, che prevede un più facile accesso ed inserimento per coloro che dimostrano di avere una maggiore disponibilità economica o coloro che posseggono una migliore offerta di forza-lavoro. L’integrazione dei migranti può seguire due tipi di sistemi, uno emergenziale, con l’integrazione primaria dei rifugiati di guerra e rifugiati politici, o uno capitalistico, con la priorità a chi promette maggiore forza-lavoro. Tutti questi processi di classificazione hanno quindi origine da logiche inconsce, e il Mediterraneo è in grado di riportarle alla luce e di renderle evidenti. Parliamo di scapegoating, ovvero la ricerca di un capro espiatorio, un individuo o gruppi di individui da marcare come causa di tutti i problemi presenti. In Italia queste logiche inconsce sono note in superfice ad esempio attraverso le numerose proposte politiche avanzate ma mai concretizzate sullo ius soli, ovvero sull’assegnazione della cittadinanza italiana a individui nati in Italia anche da genitori non italiani, mentre restano in vigore solo lo ius sanguinis e lo ius scholae. 10. Cosmopolitismo Con cosmopolitismo ci riferiamo alla convivenza con un rapporto più o meno egualitario fra diverse culture, lingue, religioni, costumi… Nell’area del Mediterraneo dobbiamo però parlare di cosmopolitismo egemonico, perché tutto ciò che riguarda l’Europa, i suoi interessi e le sue caratteristiche, assumono sempre una posizione dominante. Questo fenomeno è alimentato inoltre dall’UNESCO, che agisce per la salvaguardia dei patrimoni culturali e naturali del mondo. Il primo intervento dell’UNESCO è stato in Egitto nel 1960 per lo spostamento di alcuni templi che sarebbero altrimenti stati sommersi dall’acqua rilasciata da una diga: l’intervento è stato giustificato dall’idea che qualunque patrimonio artistico, storico, culturale o natura sia in possesso dell’intera umanità, e non solo delle popolazioni locali. Così facendo il fulcro è stato spostato da una dimensione locale a una globale, dove ovviamente prevalgono le potenze europee ed occidentali, mettendone quindi in rilievo gli interessi e le logiche. L’UNESCO contribuisce inoltre al rafforzamento di questo fenomeno nell’attribuzione dei titoli di patrimonio: in Europa sono concentrati tutti i patrimoni culturali, mentre nel resto del mondo sono distribuiti principalmente patrimoni naturali. Ciò alimenta l’idea secondo la quale il resto del mondo sia considerabile come una periferia, non urbana, non cosmopolita, non metropolitana, opposta al centro che è costituito dall’Europa e dall’Occidente. 11. Donne del Sud Maureen Giovannini ha svolto degli studi sulla figura della donna nel Sud Italia. Dagli studi è emersa la natura simbolica della figura femminile, caricata di diversi significati frutto di costruzioni culturali che non trovano le radici in una sola tradizione, ma in un intreccio fra culture e tradizioni toccate dal Mediterraneo. La figura simbolica della donna si pone come protettrice a difesa della famiglia e dello stesso corpo femminile. Le radici di questa rappresentazione sono quindi riconducibili alle tradizioni delle tre principali religioni diverse malattie giravano fra i detenuti e si diffondevano con estrema facilità. Lo spazio per distendersi a terra era limitato, e i detenuti facevano a turni per dormire poche ore, mentre gli altri erano costretti a stare in piedi. Amir racconta anche del suo passato prima di essere imprigionato: era uno studente di ingegneria e fuggì dal suo paese in cerca di un futuro migliore, ma una volta arrivato in Libia ed imbarcato il suo gommone si danneggiò e la nave fu intercettata da una banda armata, e lui fu quindi condotto a Zawiya. Amir parla anche degli scafisti, rappresentati come organizzatori dell’immigrazione clandestina dai media europei, ma in realtà a loro volta migranti, scelti perché in grado di parlare arabo e di leggere un gps ed una bussola. 3. Isaa e Hafed Isaa lavora per la guardia costiera libica a Garabulli, a est di Tripoli. Il suo compito è quello di intercettare le imbarcazioni in difficoltà e di intervenire per il salvataggio dei migranti, ma il compito è reso difficile da diversi fattori: in primo luogo, la sua base è una piccola stanza con pareti di cemento, con strumenti non adeguati per un’intercettazione tempestiva delle barche in difficoltà; in secondo luogo, l’unico mezzo che ha a disposizione è una barca di proprietà della sua famiglia, visto che il governo non fornisce nessun tipo di aiuto economico. Si può dire che il governo libico oltre a non intervenire non è nemmeno definibile come tale, in quanto formato da militanti armati. Isaa difficilmente riesce ad avere successo nelle operazioni di salvataggio. Sostiene inoltre che tutti a Garabulli abbiano un ruolo ed una responsabilità nel traffico di esseri umani, perché è l’unico modo per guadagnare dei soldi e perché in caso di rifiuto i trafficanti minacciano di morte, e che ai tempi di Gheddafi la situazione fosse migliore: i migranti dovevano raggiungere l’Europa per mettere pressione politica, mentre al giorno d’oggi ai trafficanti interessano solo i soldi del biglietto, e non il destino delle migliaia di persone che si imbarcano alla svolta di un mondo migliore. Hafed è un trafficante di cinquantacinque anni, e svolge il suo lavoro dai tempi di Gheddafi. Sostiene che il traffico degli esseri umani verso l’Europa sia ormai divenuto un vero e proprio business, e che coloro a capo di questa economia siano figure anonime, che nessuno conosce, di cui nessuno parla. Hafed è costretto a questo lavoro per mantenere la sua famiglia, avendo tre figli. Ormai tutto in Libia ruota intorno al denaro e alla paura. 4. Wered – la Libia come trappola Wered racconta il suo passato a Francesca Mannocchi. Aveva 16 anni quando decise di lasciare l’Eritrea con l’aiuto della famiglia, che avrebbe aiutato economicamente una volta arrivata in Europa. Camminò per otto giorni prima di incontrare un gruppo di trafficanti che la aiutarono ad attraversare il deserto. Il viaggio fu intrapreso su un camion che ospitava altre sedici donne, di cui alcune morirono di sete, ma prima dell’arrivo un gruppo dell’ISIS li intercettò e li condusse a Sirte, sede del gruppo. Lì Wered fu costretta a convertirsi all’Islam e fu resa una schiava sessuale. Fu abusata decine, centinaia di volte, e nel momento dell’intervista dichiara di essere incinta. Racconta di essere terrorizzata e di non volere assolutamente un bambino che sia figlio del diavolo, figlio di abusi e torture sul suo corpo. Sirte viene liberata dal controllo dell’ISIS ma Wered non è comunque libera, questa volta detenuta in una prigione libica. Sogna di raggiungere l’Europa e di potersi imbarcare un giorno. 5. Un’altra rivoluzione? Ogni mattina a Tripoli centinaia di persone, principalmente donne ed anziani, si mettono in fila di fronte alle banche dalle prime ore del mattino. La Libia è molto ricca per quanto riguarda gas e petrolio, eppure i suoi cittadini vivono nella povertà e non sono liberi di gestire i loro risparmi, e per questo sono sempre più costretti ad appoggiarsi al mercato nero. Il prelievo di soldi è controllato dalle milizie militari del governo, che impongono un limite di 500 dinari prelevati al mese e che una parte di questo denaro finisca nelle loro stesse mani. La città di Tripoli è divisa in quartieri, ognuno affidato ad una milizia e comprendente una sede di una banca. Al di fuori di ogni banca i militari tengono sotto controllo i giornalisti. Salem è uno di loro, ed insieme ad un gruppo di cinque colleghi si batte per la difesa della libertà di stampa, che ovviamente in Libia non è garantita. Il suo scopo è infatti quello di raccogliere informazioni da spedire all’estero, dove poi verranno diffuse liberamente. Fra minacce di morte e furti di telecamere e fotocamere, Salem cerca di non mollare ed ha aperto un ufficio in cui poter lavorare in sicurezza, ovviamente senza nessuna targhetta che indichi l’attività che si svolge al suo interno. L’Italia e la Libia sono legate sia economicamente che politicamente. Dal 2014 un gasdotto permette il trasporto di gas verso Gela, in Italia, e sempre dallo stesso periodo in particolare la tratta dei migranti lega le coste libiche con quelle del Sud Italia. Ibrahim, intervistato da Francesca Mannocchi, racconta la recente storia del governo della Libia. Nel 2011 delle milizie armate fecero cadere il governo di Gheddafi, ma anziché portare alla liberazione della nazione presero il suo posto, occupando le città con la violenza e grazie ai finanziamenti governativi. Un colpo di stato nel 2014 spaccò la Libia in due, con lo stabilirsi di due governi: quello riconosciuto, con sede a Tobruk, e quello di Tripoli, entrambi con disponibilità di gruppi militari per il controllo dei cittadini. Le milizie persero però il supporto finanziario governativo e furono costrette a trovare nuovi mezzi di finanziamento, dandosi al contrabbando di armi e al traffico di esseri umani, e controllando giacimenti, porti, armerie… Approfittando dell’instabilità governativa nel 2015 l’ISIS occupò diverse città, fra cui Sirte, che fu liberata solo sei mesi dopo con un elevato numero di vittime. Nel 2016 un nuovo governo si è poi stabilito a Tripoli, il GNA, sostenuto dalle Nazioni Unite e guidato da al Sarraj. Il secondo governo di Tobruk è sostenuto a sua volta da alcune potenze mondiali. La situazione di instabilità politica del paese è quindi causata anche dagli interessi internazionali. 6. La dittatura dell’abbondanza Nel 2014 Haftar lancia l’operazione dignità con lo scopo di liberare la Libia dai terroristi. Senza l’uso di armi e violenza trova accordi con le tribù e stabilisce una dittatura vera e propria, controllando i giacimenti petroliferi ed eliminando ogni tipo di opposizione politica. La dittatura appare come l’unica alternativa alla confusione politica. Nel 2019 marcia su Tripoli, sempre con lo scopo di liberarne il territorio dai terroristi, ma in realtà non vi sono terroristi: il vero fine è quello di prendere il controllo di tutti quei palazzi in cui passano i provenienti dei giacimenti. Francesca M. intervista Tewa, madre di Anas, e le chiede cosa significhi per lei essere una madre in Libia. Tewa definisce la Libia a sua volta come una madre, severa e rigida, che dà molto ai suoi figli, ovvero i cittadini libici, ma altrettanto toglie. La dittatura in Libia è una dittatura dell’abbondanza: abbondano gas e petrolio, eppure i cittadini vivono in condizioni di povertà. Solo chi acconsente all’ubbidienza e alla subordinazione al potere di chi possiede il denaro potrà vivere una vita economicamente - ma non moralmente – dignitosa. « Terra e confini – metamorfosi di un solco » 1. Il confine e la sua rappresentazione cartografica Il gesto che traccia il confine è un gesto produttivo e creativo, perché assegna nuovi significati alla terra. Parliamo quindi di metamorfosi della terra: le caratteristiche della terra cambiano. Potremmo paragonare il tracciamento del confine di un territorio al confine disegnato nel terreno prima della costruzione di un edificio sacro, che delimita dove finisce il terreno sacro e dove inizia quello profano; allo stesso modo, un confine politico determina cosa viene incluso e cosa viene escluso, su cosa è esercitato il controllo e su cosa no. Una volta tracciato, il confine
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