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Domande più frequenti per esame di Tecniche della ricerca etnografica, Appunti di Antropologia Culturale

raccolta delle domande più frequenti per l'esame di tecniche della ricerca etnografica prof Zelda Franceschi

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 15/02/2023

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Scarica Domande più frequenti per esame di Tecniche della ricerca etnografica e più Appunti in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! FARE ANTROPOLOGIA - PAVANELLO 1. Il metodo comparativo La comparazione in antropologia è la chiave di produzione della conoscenza. L’osservazione delle pratiche altrui impone continuamente la comparazione tra ciò che viene osservato e registrato attraverso l’apparato concettuale dell’antropologo e i diversi soggetti osservati. Il metodo comparativo consiste in procedure di comparazione tra oggetti o fenomeni naturali, o tra eventi, per produrre la conoscenza delle loro similarità e delle loro differenza, sia per ordinarli in classi omogenee che per costruirne le leggi delle loro validazioni. Il metodo comparativo permette anche di comparare situazioni in cui i particolari fenomeni avvengono in stretta relazione tra loro. Infatti, quando accadono fatti simili, è presumibile che un fenomeno sia la causa dell’altro, e che il secondo sia l’effetto del primo. Oppure, se due o più fenomeni o istituzioni sociali compaiono insieme, significa che esiste tra loro una correlazione necessaria. In generale, la successione di eventi permette la formulazione di ipotesi di relazioni causa-effetto e quindi la formulazione di spiegazioni. Nel ‘700 si svilupparono in Francia e Gran Bretagna alcune idee sulle fasi di progresso delle società umane in relazione ai loro different modi di sussistenza (caccia, pastorizia, agricoltura, commercio): embrionali teorie della storia naturale dell’umanità in opposizione alla convenzione provvidenzialismo della storia basata sulle sacre scritture. Queste teorie vennero costruite in base a due idee elementari: la comune condizione di barbarie dell’umanità primordiale e la comparabilità delle diverse condizioni di civiltà nel corso della storia europea con le diverse condizioni delle civiltà dei popoli extraeuropei. Qualsiasi teoria del progresso, infatti, poteva basarsi soltanto sulla comparazione tra le condizioni dei selvaggi e le condizioni arcaiche dell’umanità. Uno dei primi esempi di questo metodo fu il gesuita francese Lafitau, che nel 1724 scrisse l’opera Abitudini dei selvaggi americani comparate con le abitudini dell’antichità, in cui paragona le popolazioni degli Huroni e degli Algonkini agli Elleni e ai Pelasgi. Gli Huroni erano coltivatori sedentari, mentre gli altri erano cacciatori nomadi. Secondo Lafitau, i primi sarebbero derivati dai secondi. Lafitau sostiene l’importanza di una comparazione e ricostruzione degli stadi di progresso e elabora la teoria dei 4 stadi: 1. Fase primordiale o di caccia 2. Allevamento di animali 3. Agricoltura 4. Sviluppo dei commerci, delle arti e delle scienze A Turgot e Condorcet si deve la formulazione più articolata della teoria del progresso. Il progresso, in quanto itinerario verso un livello di civiltà sempre maggiore, rappresenta un progressivo miglioramento della mente umana. In una prospettiva coente con questi sviluppi della riflessione europea, Comte definisce i fenomeni sociali come “fatti naturali” e formula la legge dei 3 stati: 1. Stato teologico o fittizio 2. Stato metafisico o astratto 3. Stato scientifico o positivo Comte sostiene che ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascun ramo delle nostre conoscenze passa necessariamente per questi tre stati teorici differenti. Nel terzo stato, ossia quello scientifico o positivo, lo spirito umano rinuncia a cercare l’origine dell’universo e si limita a stabilire le sue leggi positive e reali, cioè le relazioni invariabili di successione e similitudine che legano i fenomeni. A metà dell’ultimo decennio del XIX secolo l’antropologia maturò e si consolidò scientificamente. A differenza della teoria evoluzionistica di Darwin, tutti coloro che scrissero in questa epoca sulla società primitiva sembravano assumessero un atteggiamento più dogmatico, in favore di un percorso evolutivo unilineare, dalla primitività alla modernità. La vecchia teoria del “4 stadi” lascia posto a uno schema tripartito. Tylor fu il primo antropologo accademico e pubblicò una versione scientificamente elaborata della teoria dei tre stadi dell’evoluzione: 1. Stadio selvaggio 2. Della barbarie 3. Della civiltà. 2. Metodo comparativo nell’école sociologique Durkheim e Mauss sostengono che l’attitudine alla comparazione e alla classificazione è presente in forme rudimentali nell’uomo anche nelle sue manifestazioni più primitive, ad esempio la tendenza a formulare associazioni mentali tra oggetti e la rappresentazione collettiva degli elementi del mondo e della società. Il metodo comparativo dell’école sociologique indaga fatto sociale è qualcosa di oggettivo, che si può conoscere attraverso l’indagine empirica osservando i fatti nudi e che non riguarda l’individuo, bensì la società. I fatti sociali sono dunque degli oggetti, possono essere osservati e classificati in base a un procedimento critico rigoroso che altro non è che il metodo comparativo. La sociologia, quindi, si propone come una scienza empirica che osserva gli eventi e i fenomeni sociali e, attraverso la comparazione di eventi simili, ne ricava le regole, cioè le norme sociali, nonché le istituzioni che incorporano con le loro modalità e funzionamento. Secondo Durkheim, la spiegazione sociologica consiste nello stabilire rapporti di causalità. Il metodo comparativo dei nuovi sociologi si propone dunque ugualmente l’ambizioso traguardo di sostenere la spiegazione causale della relazione tra i fatti sociali, ma attraverso una procedura di rigoroso controllo. Questo metodo mira a definire autentiche relazioni causa-effetto attraverso la comparazione rigorosa e circoscritta di fatti sociali la cui osservazione sia ampiamente documentata e le cui correlazioni e le variazioni concomitanti altrettanto ampiamente elaborate. Durkheim suggerisce poi l’integrazione del metodo storico di critica delle fonti nel metodo comparativo, in modo da accumunare storia e sociologia. Così, la nuova sociologia ha fornito alle scienze storiche gli strumenti per ricostruire, accanto ai fatti storici, nuovi e interessanti oggetti di studio, come le strutture di lunga durata attraverso cui le società e mentalità si perpetuano, mutando più o meno lentamente. 3. L’osservazione partecipante Malinowski sviluppa l’istituzionalizzazione della ricerca sul terreno. L’osservazione partecipante consiste nell’osservare una realtà sociale, immergendosi nella sua vita quotidiana, cercando di penetrare nelle sue articolazioni, anche più recondite, al fine di coglierne tutti gli aspetti. “Osservazione” perché la tradizione che va dall’illuminismo al positivismo ha sempre visto nell’attività osservativa la condizione della conoscenza scientifica e oggettiva del mondo. “Partecipante” perché si è sempre avvertita la necessità di un’osservazione mirata e approfondita, che solo un certo grado di partecipazione alla vita sociale degli osservanti può garantire. Malinowski ha prescritto il principio della separazione dell’osservazione dall’inferenza. Ciò indica innanzitutto di non esprimere automaticamente un giudizio su ogni dato dell’osservazione, ma di attendere per poter effettuare dei riscontri capaci di sostenere un giudizio fondato; in secondo luogo, significa che bisogna mantenere separati i dati dell’osservazione dalle deduzioni e dalle spiegazioni dell’antropologo allo scopo di garantire l’esame critico delle fonti, cioè dei dati. La sospensione del giudizio ha lo scopo di tutelare la neutralità e la purezza del dato, ma ha anche l’obiettivo di limitare l’invadenza dello schema concettuale del ricercatore, che rischia di stravolgere la natura dei dati etnografici. È opportuno fare dei riferimenti ai due livelli di giudizio che l’osservatore normalmente utilizza: il livello di senso comune, il livello della teoria. Non sempre questi due livelli sono chiaramente distinguibili, perché quasi sempre il ricercatore esprime giudizi che sono una combinazione del senso comune e dei suoi modelli teorici. Malinowski rovescia la prospettiva e pone la conoscenza della visione del mondo locale come obiettivo principale della ricerca antropologica. Importanti sono le sue disposizioni metodologiche. Prima fra tutte stabilisce la necessità dell’esplicitazione delle fonti: un etnografo deve mostrare in modo chiaro e conciso quali sono le proprie osservazioni dirette e quali indirette che formano la base del suo resoconto. Inoltre, l’antropologo deve esplicitare le sue fonti e le condizioni del suo lavoro per poterne consentire un’analisi critica. Egli elenca poi i tre principi metodologici dell’etnografia in un terreno extraeuropeo: innanzitutto, lo studioso deve possedere reali obiettivi scientifici; in secondo luogo, deve mettersi in condizioni buone per lavorare, cioè vivere in mezzo agli indigeni senza altri uomini Ciascun terreno di ricerca può subire la cosiddetta “rivisita”, che può essere di due tipi. La prima è la rivisita effettuata dopo molti anni dal medesimo antropologo, o al massimo da studiosi che condividono il suo stesso schema, e si chiama studio diacronico. Lo studio diacronico ha come scopo l’indagine sui processi di mutamento culturale e per renderla possibile, bisogna aver accesso ai documenti originali del primo studio. I risultati che si attendono sono soprattutto legati all’esigenza di capire come si trasformano le istituzioni e le pratiche sociali e quali sono i fattori di cambiamento. La seconda è detta “restudy”, è portata avanti da nuovi ricercatori, che si recano in un terreno già studiato precedentemente. I restudies forniscono rappresentazioni della realtà etnografica molto diverse dagli studi precedenti, come se si trattasse quasi di due società differenti. Il terreno etnografico può essere definito “iperluogo”, cioè un punto di condensazione di diverse e molteplici realtà esistenziali, che contiene più dimensioni dell’esistenza quotidiana. Il terreno è un contesto in cui il ricercatore si inserisce attivamente e, volente o nolente, è obbligato a situarsi all’interno del campo di forza in cui si trova. L’antropologo nel suo terreno di ricerca si trova in una situazione analoga quella che vive nei suoi spazi consueti, domestico e professionale, sociale ecc. È come se vivesse una doppia esistenza, su due dimensioni parallele che sembrano difficilmente intersecarsi. In realtà le due dimensioni sono particolarmente vicine, durante tutto il periodo della sua indagine, il ricercatore non può che viverle entrambe contemporaneamente, anzi deve connetterle e gestire i rimandi tra le due, che gli consentono di organizzare al meglio il proprio posizionamento sul terreno. Il terreno è un iperluogo anche in altri sensi. In primo luogo, il terreno è l’insieme delle convenzioni che strutturano le pratiche sociali nei più diversi settori della vita (credenze simboliche e religione, comunicazione, scambi economici…), potremmo definirlo come una cerniera che connette tra loro realtà molto diverse. Un terreno è quindi sempre un punto di snodo di una grande quantità di assi che connettono tra loro ambienti e luoghi differenziati. In secondo luogo, il terreno come iperluogo implica l’intrecciarsi di diversi ambiti di interesse in cui il ricercatore stesso può essere coinvolto. Qualunque oggetto di studio indica immediatamente una serie di connessioni. Infine, il terreno come iperluogo si manifesta ogni qualvolta l’osservatore torna per continuare la sua ricerca. Torna e riconosce i luoghi, le persone, e viene riconosciuto quasi come un parente: percependosi come multidimensionalità, l’antropologo può più facilmente realizzare quel modo diverso di pensare le diverse dimensioni in cui vive, mescolando i modi in cui esse si pensano. 8. Letture cap. 3: Mead, Copans, Mead-Freeman (critiche alla Mead) e Palumbo • Mead a Samoa Margaret Mead fu allieva di Boas. Nel 1925 si recò a Samoa per svolgervi una ricerca sull’adolescenza femminile, che finì poi pubblicata nella sua prima monografia etnografica Coming of Age in Samoa (1928). In una delle lettere che Mead invia a Boas, traspare la sua esigenza di giustificare i metodi poco convenzionali applicati durante la sua permanenza, che però trovava più comodi per i suoi gusti. La Mead decide di recarsi su un’altra isola, Tau, perché più comoda, più densamente popolata e meno modificata dall’influenza del turismo. Inoltre, il capo dell’agglomerato dei villaggi dell’isola, Tutele, si dimostra molto collaborativo nei suoi confronti. Uno degli stravolgimenti messi in atto dalla Mead è sicuramente quello di aver deciso di vivere insieme all’unica famiglia di bianchi presente sul territorio, perché a sua detta mangiare e vivere in mezzo a troppe persone e animali, come sarebbe stato in una casa samoana, avrebbe sicuramente disturbato la sua prestazione lavorativa. Nella monografia, invece, il tono della Mead appare molto aulico e poetico, al contrario della prosa asciutta e verista della lettera a Boas. La Mead scrive anche che, per la sua esperienza, l’etnografo durante la sua formazione non viene a conoscenza di ciò che affronterà una volta sul campo. Infatti, secondo lei, durante la formazione viene fornito il “cosa” cercare, ma non il “come”. Dice che questa mania dell’antropologo di voler scoprire e fare tutto da solo è imprescindibile dalla ricerca etnografica, e la definisce una “malattia professionale” • Freeman VS. Mead Il libro della Mead fu duramente contestato dall’antropologo neozelandese Derek Freeman. Freeman scrive nel 1983 un libro intitolata Margaret Mead and Samoa: the making and unmaking of an anthropological myth. L’opinione pubblica e i mass media sono attratti dal crollo del mito di una società, quella descritta dalla Mead, semplice e felice. Quasi tutti riconoscono che la Mead abbia usato metodi poco ortodossi e aveva offerto un’immagine eccessivamente semplificata e romantica della società samoana, ma questo non significa che Freeman abbia ragione. Egli commette altrettanti errori, ad esempio esagera nel dipingere tutta in negativo la società samoana, concentrandosi sui singoli aspetti decontestualizzati, puntando ad un attacco personale alla Mead. Di questo parla anche lo zoologo e etologo Eibl-Eibesfeldt. Egli si recò sull’isola di Upolu, nelle Samoa occidentali, dove fu ospite presso Freeman e sua moglie. Secondo la sua testimonianza, poté notare anche attraverso i suoi occhi gli errori descritti dalla Mead. Secondo la Mead, i bambini samoani sarebbero allevati collettivamente e per questo il legame madre-figlio non sarebbe molto importante. A quanto pare, la Mead si sarebbe limitata a buttare uno sguardo sfuggevole su quel popolo. Ella descrisse quella società come ideale: egualitaria, permissiva, senza legami privilegiati. Ma non è così. Si nota che tutte le banconote del posto recano la scritta malie toa (guerriero valoroso) e che esiste una gerarchia di capi. Inoltre, secondo la Mead, i samoiani non conoscono l’amore romantico come lo conosciamo noi, ma questo è smentito dal numero di omicidi e suicidi scaturiti da cause passionali. • Copans Si è accennato al sentimento di esclusività che caratterizza il rapporto tra antropologo e il suo terreno. Quando nello stesso terreno vi si reca un altro studioso è sempre visto con fastidio e aperta ostilità. Le società e le culture sono storiche e le loro trasformazioni sono un elemento intrinseco della loro definizione. Etnologi e antropologi sono prodotti di contesti scientifici, istituzionali e nazionali diversi, che impediscono l’apparizione di un consenso mondiale intorno a un modello unico di applicazione metodologica. Infine, il carattere contingente del rapporto col terreno e con gli oggetti di studio rende impossibile standardizzare la configurazione dell’inchiesta. Il confronto di diversi terreni ha fornito nel tempo innovazioni teoriche per la comparazione dei casi significativi, l’analisi delle variazioni strutturali, la verosimiglianza della storia orale e della memoria individuale, il ruolo degli avvenimenti storici. Il caso più frequente e evidente della rivisita è quello del ricercatore che torna più o meno periodicamente sul terreno. Alla fine, questo tipo di lavoro assume l’aspetto di un’inchiesta unica, una sorta di approfondimento permanente. La rivisita che parte da un altro ricercatore è spesso occasione di una reinterpretazione teorica. L’immagine della comunità che ne emerge è totalmente differente sia a livello di relazioni interpersonali che a quello della configurazione globale. 9. La mediazione culturale La mediazione culturale è un processo in cui sono coinvolti sia l’osservatore che i suoi interlocutori nella continua ricerca di comprendersi reciprocamente. Essa consiste in uno sforzo che deve essere compiuto dall’antropologo ad ogni nuova acquisizione di dati, cioè deve continuamente smontare e rimontare i suoi concetti, confrontandoli con quelli locali. Le condizioni in cui la mediazione culturale si rende possibile sono le seguenti: A- la presenza fisica del ricercatore nel Setting etnografico, B- distanziamento metodologico C- distanziamento dai prodotti della ricerca Una volta che un determinato fenomeno è stato osservato, deve essere composto. Dopodiché si può procedere seguendo 3 tipi di analisi: A- decostruzione del segno linguistico (la parola viene divisa nel significato del ricercatore e degli idngieni) B- disposizione sul grafo a d albero C- disposizione sulla tavola delle somiglianze 10. Metodo quantitativo e qualitativo Si definisce qualitativo un metodo basato essenzialmente sull’osservazione di eventi e comportamenti e la loro conseguente interpretazione. Tuttavia, il ricercatore non può limitarsi ad assistere, ma deve interrogare gli individui al fine di ottenere il maggior numero di informazioni possibili. Un metodo quantitativo è, al contrario, ogni modalità di ricerca sociale orientata al trattamento statistico di variabili. Una variabile è ogni aspetto della realtà che può essere valutato in relazione a un insieme di fenomeni di cui è possibile osservare delle variazioni nel corso del tempo. 11. Le fonti Il termine fonte indica ogni entità, oggetto, luogo, persona, documento utile a fornire conoscenza e dati empirici all’antropologo che effettua la ricerca sul terreno. Innanzitutto bisogna distinguere fra: Fonti preesistenti all’osservazione e fonti prodotte dal ricercatore (note di terreno o prodotte da registrazioni di eventi comunicativi) Fonti scritte (documentali e secondarie) e fonti materiali (biotiche e abiotiche) Fonti bibliografiche Fonti statistiche Fonti cartografiche Fotografie e video Fonti orali (persone viventi, messaggi, testi) 12. Informatori Si suddividono in quattro categorie fondamentali: 1- persone che occupano posizioni fondamentali di particolare autorità 2- persone depositarie di saperi specifici 3- protagonisti di eventi di particolare importanza 4- informatori generici LETTURE • PARADOSSO DELL’ELEFANTE: antica fiaba indiana che presenta metaforicamente la condizione dell’uomo costretto a comparare le cose che non conosce mediante il ricorso a cose conosciute. È il paradosso dell’osservatore che giudica gli altri in base alle proprie categorie di conoscenza e al proprio sistema di riferimento morale. Una volta un re convocò tutti i ciechi dalla nascita che vivevano in città. Chiese loro di toccare una sola volta l’elefante e comunicargli a che cosa somigliasse secondo loro. Tutti toccarono parti diverse del corpo, perciò avevano impressioni diverse. Questo causò una discussione, poiché ciascuno di loro pretendeva che la propria rappresentazione fosse quella più veritiera. Alla fine, toccarono l’animale tutti in più punti del corpo e alla fine ammisero di essersi sbagliati. • UN BILANCIO DEL METODO COMPARATIVO - PRITCHARD: il metodo comparativo di tipo estensivo, caratterizzato dalla comparazione acritica di quantità notevoli di casi condotta senza un forte senso critico, è stato oggetto di riconsiderazioni critiche. Evans Pritchard tracciò un rapido bilancio dell’uso del metodo comparativo in antropologia sociale, criticando le procedure e i risultati delle applicazioni del metodo in due illustri personaggi del XIX secolo, McLennan e Tylor. Il primo tentativo sistematico di condurre uno studio comparativo delle società primitive su scala mondiale è stato quello compito da McLennan, nel suo Primitive Marriage, in cui volle dimostrare come nelle società di piccole dimensioni l’esogamia, il matrimonio per ratto, l’uccisione delle figlie femmine, la discendenza per via matrilineare e la poliandria fossero delle istituzioni interdipendenti e come in tutte le società esse subissero regolarmente modifiche man mano che quelle passavano attraverso gli stessi stadi di sviluppo sociale. Nell’opera di McLennan, pregi e difetti del metodo comparativo emergono chiaramente. I pregi sono nel fatto che tale metodo gli permise di distinguere il generale dal segreto. È costume che il venditore, alla fine di una transazione importante, restituisca in modo palese al compratore una parte della somma che ha appena ricevuto. • IL DOLORE E LA RABBIA DI UN CACCIATORE DI TESTE - ROSALDO: in questo testo è rievocata la dolorosa esperienza dell’autore che, avendo perduto sul campo la moglie vittima di un incidente, ha sperimentato la condizione psicologica che l’ha portato vicino alla comprensione di alcune manifestazioni comportamentali e rituali dei cacciatori di teste Ilingot filippini. Se si domanda a un anziano ilongot perché taglia le teste umane, la sua risposta sarà breve e senza dubbio: egli dirà che la rabbia, nata dal dolore, lo spinge a uccidere gli esseri suoi simili. Infatti ha bisogno di un luogo “su cui rivolgere la sua rabbia”, perciò l’atto di troncare la testa alla sua vittima e lanciarla in aria gli consente di sfogarsi, liberarsi dalla rabbia del suo stato di lutto e privazione. Nessuna domanda dell’antropologo, in questo caso, potrebbe portare alla luce alcuna spiegazione più chiara di questa, per gli ilingot rabbia, dolore e taglio della testa sono intimamente connesso, che noi lo capiamo o no. Rosaldo dice che inizialmente non riusciva a capire il punto di vista che portava gli ilingot dal dolore al taglio di teste, probabilmente perché non aveva mai vissuto un tale dolore. Nel 1974 entrò in vigore una legge marziale che vietava il taglio di teste, con pena capitale. Gli ilingot dovevano perciò trovare una soluzione, e si dice che molti provarono a trovare una cessazione del dolore nella conversione al cristianesimo evangelico. Il divieto impose agli ilingot la ricerca di compromessi per sfogare la rabbia causata dalla privazione. La morte della moglie Michelle, provocò in Rosaldo in lui una situazione di dolore e di rabbia terribili. L’autore sovrappone la sua rabbia alla rabbia ilingot, ma comunque rimangono separate perché non sono identiche. Il maggior livello di comprensione del rituale della caccia alle teste che l’autore ha sperimentato dopo la morte di sua moglie è il frutto di un “riposizionamento” del soggetto osservante nel suo contesto di interazione, cioè una nuova posizione, un nuovo punto di vista che assume e dal quale vede le cose in modo diverso. • L’UNESCO E IL CAMPANILE - PALUMBO: parla della ricerca etnografica che Palumbo condusse nel 1994 in una cittadina della Sicilia orientale, Catalfaro. La città era retta da un’amministrazione di sinistra, da poco succeduta a varie giunte di destra. La comunità locale, divisa in due parrocchie, era particolarmente impegnata in contrapposte logiche di costruzione di identità fortemente connotate da processi di riappropriazione e reinvenzione della storia e delle tradizioni. I personaggi implicati nelle vicende sono il presidente, i professori, gli storici. Le poste in gioco sono la gestione dell’identità storica, culturale e religiosa della comunità, la gestione delle sue risorse destinate alle attività legate alle festività tradizionali, la gestione del consenso politico. La ricerca etnografica procede nell’intento di comprendere le dinamiche reali e le logiche che animano la comunità e alla stesso tempo decifrare i codici retorici, smascherandone le finzioni attraverso cui tutti i protagonisti cercano di espandere lo spazio occupato nell’iperluogo. ETNOGRAFIA E CULTURE - FABIETTI 1. La figura dell’informatore e il suo ruolo nella rappresentazione etnografica Sebbene vi sia spesso la tendenza a considerare il testo antropologico come il frutto di un rapporto senza scambio tra qualcuno che osserva e registra in modo passivo e un silenzioso immobile oggetto di studio, in etnografia non esistono “cose” aventi la funzione di essere oggetti da descrivere, c’è invece un discorso, il quale non è né un oggetto da rappresentare, né la rappresentazione di un oggetto. La raccolta di informazioni non avviene come un flusso comunicativo neutro, ma è il risultato di un’esperienza condivisa dell’antropologo e del suo informatore. La concetualizzazione dell’antropologo incontra sempre quella dell’informatore e l’oggetto che emerge da questo incontro è il risultato di una costruzione, negoziazione e contestualizzazione di diversi punti di vista. Gli informatori indigeni vengono sostituiti da una sorta di autore generalizzato e finiscono con l’essere trasformati in vaghi tipi nazionali, quasi “semplici e neutrali trasmettitori di informazioni”. Lo stadio di ricerca che precede la scrittura etnografica finale, l’interazione cioè tra l’etnografo e informatore, rimane così nascosto. Si giunge al paradosso per cui la presenza empirica dell’altro durante il laboro di campo si trasforma nella sua assenza teoretica nei testi. La rottura del silenzio sulla scrittura etnografica ha determinato la necessità di esplorare nuove vie atte a delineare la relazione io-altro all’interno delle quali entrino in una “pluralità di voci soggettive”. Il modello della rappresentazione legato alle categorie della retorica scientifica classica è stato così messo in crisi e ciò ha condotto a porre un maggiore accento sull’esecuzione del metodo di ricerca stesso, nonché a ripensare e a tematizzare il ruolo e l’importanza dei rapporti individuali stabiliti sul campo tra l’antropologo e gli informatori indigeni. Ciò che è poso in discussione quindi non è tanto la nozione di rappresentazione in sé, quanto la pretesa degli etnografi di fornire descrizioni trasparenti ed esaustive delle culture studiate. La rappresentazione etnografica non ha il compito di fornire una copia più o meno perfetta di un determinato oggetto, ma deve essere analizzata come il risultato di un accordo tra soggetti comunicanti. All’elaborazione del racconto partecipatogli stessi indigeni, in quanto l’immagine che essi costruiscono di sé, unita alla rappresentazione che si fanno di Noi, incontra necessariamente la concettualizzazione dell’antropologo stesso. Le culture, dal momento che non sono degli isolati discreti e circoncisi, non possono che configurarsi come delle “invenzioni”, ovvero come il risultato di un’intenzione e di una costruzione discorsiva alla quale partecipano almeno due individui consapevoli e intenzionati. Gli eventi vengono strutturati e definiti attraverso il domandare e il rispondere reciproco di antropologo e informatore. L’indigeno nonna quindi considerato un riflesso o un artefatto dell’antropologo, ma un soggetto attore, parlante, il cui ruolo cruciale è nella costruzione della rappresentazione etnografica. 2. Tipi di informatore (Boas, Kroeber, Griaule) • BOAS: con Franz Boas troviamo uno stile etnografico che non è ancora autorevole nei modi posti oggi in discussione, poiché in molte sue opere è incluso parecchio materiale effettivamente ed esplicitamente scritto dagli informatori stessi. Le sue ricerche sono caratterizzate infatti da un metodo particolare, basato sulla raccolta, la compilazione e l’analisi di testi in lingua nativa. I testi sono presentati con pochi passaggi esplicativi e nel complesso l’insieme del materiale appare disorganizzato. In questo caso, l’etnografo non è presente attivamente nel primo momento della trascrizione del testo, cioè il momento in cui il rischio di distorsione è più grande. Dato che i testi vengono composti in privato tra indigeni, l’informatore che racconta il testo subisce una pressione e un’influenza minore da parte del ricercatore. La rappresentazione che emerge non è quindi costituita dalle descrizioni interpretative dell’antropologo, ma piuttosto da quelle dell’informatore, considerato qui nel ruolo di etnografo indigeno. Cancellando la presenza dell’antropologo dal resoconto etnografico, viene data l’illusione di poter offrire dati oggettivi. La questione che però viene tenuta in ombra è il fatto che la preparazione che Boas ha effettuato su Hunt, insegnandogli a leggere e a scrivere in Kwakiutl, ha sicuramente avuto effetti profondi su Hunt, perché sicuramente Boas lo istruì anche nei modi di pensiero occidentale e questo provocò sicuramente mutamenti nella maniera in cui gli eventi erano visti, registrati e trasmessi. L’utilizzo di informatori indigeni, perciò, lascia i propri segni sui dati. Le pagine scritte da Hunt non offrono infatti che una finzione di sé, in quanto egli ci propone non la sua vita reale, ma ciò che il pubblico occidentale si aspetta. Attraverso i testi noi abbiamo l’illusione che gli indiani ci parlino direttamente, mentre in realtà siamo di fronte a documenti biculturali, nei quali confluiscono le idee dell’indigeno e dell’antropologo. • HUNT: le ricerche etnografiche di Boas sono caratterizzate da un metodo particolare, basato sulla raccolta, la compilazione e, in misura minore, l’analisi dei testi in lingua nativa. Tra i vari collaboratori di Boas, spicca George Hunt, un indiano Kwakiutl al quale Boas insegnò a leggere e scrivere e lo istruì nei metodi di ricerca sul campo, così che Hunt fosse in grado da solo di raccogliere una grande quantità di dati e testi da altri informatori. Indiano si trasformò così in un vero e proprio etnografo. Dal 1894 al 1930 Hunt spedì a Boss i due terzi dei testi che confluirono nelle pubblicazioni riguardanti la cultura Kwakiutl. Questo tipo di ricerca possedeva due scopi fondamentali: in primo luogo, determinare le variazioni e le somiglianze per quanto riguarda il linguaggio, i caratteri fisici e le abitudini sociali dei gruppi indiani; in secondo luogo, er questo un modo per presentare la cultura così come appare all’indiano stesso. Ciò che emerge da questo metodo testuale è un particolare concetto di cultura, intesa come qualcosa che può venir trascritto e trasmesso attraverso i testi. La funzione di questi testi era quella di produrre un corpus di materiale etnografico in grado di riflettere fedelmente la cultura del popolo studiato. I testi possedevano il pregio di svelare i pensieri più intimi e la vita intellettuale delle persone. • KROEBER: l’esperienza costituita dell’antropologia è fondata in primo luogo sulla pratica dello sguardo. Le metafore più comuni della ricerca antropologica si basano su una dimensione visuale. L’immaginazione tassonomica occidentale è fortemente visualista e prefigura le culture come se fossero dei teatri di memoria, degli oggetti ordinati e spazializzati. • ISHI: Ishi fu un informatore per il quale la dimensione fisica assunse un particolare significato. Egli era l’ultimo sopravvissuto della tribù degli Yahoi della California e trascorse gli ultimi anni della propria vita in un museo. Qui Ishi svolse il ruolo di informatore in un duplice senso abbastanza peculiare, in quanto non esercitò tale ruolo solo per gli studiosi, ma anche per un vasto pubblico non specializzato, composto dai visitatori del museo. Di fronte al pubblico Ishi compiva delle rappresentazioni pratiche riguardanti la propria cultura: il modo in cui si costruisce una tenda, come si ottiene il fuoco con lo sfregamento delle pietre… La vicenda di Ishi solleva innumerevoli questioni riguardanti il rapporto tra vita, cultura e musei. Rappresenta il rovescio dell’uomo esotico che agli occhi dell’occidente si trasforma in cosa, in oggetto da osservare, ammirare o temere. Accettando l’impiego come esemplare da museo, Ishi aveva compiuto una metaforizzazione della vita in cultura che caratterizza gran parte della comprensione antropologica. Ishi, però, poteva offrire allo spettatore solo una parvenza di vita, l’ombra di una cultura che, proprio perché aveva la presunzione di essere reale, forse non raggiungeva neppure il rango di finzione, in quanto essa veniva semplicemente recitata ed offerta allo sguardo dello spettatore. Gli esemplari etnografici sono così cultura in un duplice senso: essi vengono prodotti contemporaneamente da chi li ha fabbricati e dall’antropologia. Ed essi posso venir fruiti da noi solo nel secondo senso, ovvero come prodotto dell’antropologia. Dal museo l’utilità sembra essere bandita per sempre, l’unico ruolo di questo cose è quello di essere esposte alla vista. • GRIAULE: il campo va considerato un ambiente comunicativo reale, all’interno del quale l’antropologo seleziona eventi e pone domande, l’informatore risponde, abbellisce, fa digressioni, si sottrae. L’ideale che emerge è quello di un testo polifonico e dialogico, nel quale nessuno ha il diritto esclusivo a possedere una trascendenza sinottica e che ha quindi il compito di rappresentare il movimento, l’alternanza di ruoli e la precarietà che caratterizzano i rapporti sul campo. Il libro di Griaule Dio d’acqua può essere definito come un classico del dialogo sul campo. In esso, l’informatore non viene occultato, ma è protagonista attivo nel processo etnografico ed un interprete originale della propria cultura. Il merito del racconto di Griaule è quindi quello di fare uscire dalla zona d’ombra il lato indigeno della storia. Griaule e Ogotêmmeli sono legati da una relazione dialogica, la quale fa mergere una particolare rappresentazione della cultura, intesa come un complesso sistema di conoscenza che possono venire svelate e comunicate solo attraverso la parola. In un primo momento la figura dell’etnografo viene paragonata a quella del detective, il crimine è il fatto, il colpevole è l’interlocutore, i complici sono tutti coloro che fanno parte della società. Griaule appare Ciascuna cultura produce e rielabora costantemente i suoi immaginari, che costituiscono una delle sorgenti primarie del pensiero stesso. Le immagini prodotte dalle culture possono quindi essere raccolte e analizzate ai fini della ricerca etnografica. L’antropologia visiva si è concentrata soprattutto sulla fotografia e sulla cinematografia. L’analisi dei reperti fotografici può focalizzarsi su tipi particolari di fotografie, consentendo di concentrare l’attenzione su temi specifici. Naturalmente anche le immagini cinematografiche costituiscono elementi significativi per l’etnografo. Il cinema produce documenti visivi in grado di veicolare i suoi contenuti nel tempo e nello spazio. 3. Emozioni La più importante caratteristica della ricerca etnografica sulle emozioni è la sua eterogeneità: prive di una consistenza empirica osservabile e registrabile, le emozioni costituiscono una sfida per il ricercatore, le emozioni sono avvolte da una nebbia concettuale. L’imprecisione e l’ambiguità del concetto di emozione sorgono forse dal fatto che è un concetto di uso quotidiano, che prende il significato dalle concezioni locali che i soggetti impiegano per dare un senso alla loro esistenza. Le emozioni cominciano ad essere considerato come possibile oggetto di studio a partire dagli anni ’70 del ‘900: le emozioni sono interpretate come modelli di esperienza acquisiti, costituiti da prescrizioni e apprendimenti socioculturali, storicamente situati e strutturati sulla base del sistema di credenze proprio di una particolare comunità. A partire dagli anni ’70 inizia ad affermarsi l’interpretazione costruttivista dell’esperienza emozionale: l’emozione deriverebbe dall’interpretazione e dalla valutazione di uno stimolo, ossia da un processo di attribuzione di senso e valore. Lo sviluppo emozionale viene considerato come risultante dell’apprendimento individuale e dell’assunzione di modelli di comportamento socialmente condivisi. Le emozioni sono considerate come un linguaggio primario per definire e strutturare le relazioni sociali e costruire una condotta sociale, indagando i modelli locali di persona. STORIE DI VITA - FRANCESCHI 1. Storie di vita e autobiografie Le autobiografie furono utilizzate dagli antropologi come una fra le modalità privilegiate per carpire il punto di vista del nativo. Boas considerava l’autobiografia come inconsistente e piena di contraddizioni etnografiche, perché metteva a nudo ogni disagio e imbarazzo metodologico che l’antropologo incontrava sul campo. Non era possibile basare una ricerca autorevole su ricordi, memorie, evocazioni e soprattuto su modelli interpretativi che non appartenevano a quelle idee native. A partire dalla fine degli anni ’30 furono compiuti alcuni tentativi di attribuire uno statuto chiaro alle storie di vita. La prima opera a tale proposito risale al 1935: The criteria for the life history di John Dollard. Dollard definisce le storie di vita come un tentativo deliberato e intenzione per definire la crescita di un individuo; dunque è implicita l’interpretazione di alcuni eventi e una ricomposizione materiale. La storia di vita diventava una sorta di esperimento, una prova per dare senso ad un’esperienza, per riordinare alcuni momenti particolari e per ricollocarli nel ciclo naturale dell’esistenza. Biografia e autobiografia trovano continuità retorica nella volontà di arrivare ad una ri-definizione di tipo identitario. Dollard formalizza una serie di presupposti teorici e metodologici da seguire nell’interpretazione delle storie di vita: il soggetto era uno specimen, cioè un campione, un esemplare ideale da esaminare all’interno del suo habitat sociale; l’essere umano veniva interpretato come un insieme di organi. Gli aspetti sociobiologici erano fondamentali per campionare il corpo e individuarne le singole funzioni. La vita doveva essere descritta come un continuum, dalla fanciullezza alla vecchiaia. La storia di vita veniva così interpretata come un percorso con un inizio biologico che prevedeva la costruzione organica dell’esistenza, dalla nascita alla morte. 2. Il diario di Malinowski Sono tre gli obiettivi fondamentali che Malinowski sottopone all’antropologo: 1. L’etnografo deve possedere obiettivi scientifici reali 2. Deve vivere condizioni ottimali per la sua ricerca 3. Deve applicare diversi metodi di analisi La rivoluzione metodologica di Malinowski è da considerarsi in tre fattori: la scrittura di un diario di campo, l’elaborazione del funzionalismo e il rapporto con i propri lettori. Egli scrisse un diario tra il 1914 e il 1915. Secondo Malinowski, la teoria creava gli avvenimenti. Aspirava al raggiungimento dell’ordine mentale e corporale. L’ordine mentale era raggiungibile attraverso la stesura di quelle che definirà “carte sinottiche”: precise mappe mentali in grado di riposizionare il sapere, incorporando il punto di vista dell’indigeno e quello dell’antropologo.
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