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Dopo la prima guerra mondiale, Appunti di Storia

Appunti dettagliati sul dopo guerra: gli anni venti, la crisi del '29, il fascismo, il nazismo.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 21/05/2022

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Scarica Dopo la prima guerra mondiale e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! CRISI E RICOSTRUZIONE ECONOMICA Il primo conflitto mondiale aveva lasciato un numero spaventoso di vittime. Furono circa 17 milioni i caduti e i dispersi e più di 20 milioni furono i feriti gravi e i mutilati. Dei 65 milioni di uomini che tra il 1914 e il 1918 parteciparono alla guerra, solo un terzo tornò alla propria abitazione illeso fisicamente, anche se riportò profondi traumi psicologici. Inoltre sul finire della guerra si propagò in Europa un'epidemia influenzale, la spagnola, che infettò oltre 200 milioni di persone nel mondo, con tassi di mortalità altissimi. Fu chiamata così poiché per primi ne parlarono i giornali della neutrale Spagna, anche se in realtà era nata in america e gli altri stati non ne parlarono per non scoraggiare i cittadini Infine il disegno dei nuovi confini sollevò il problema dei profughi e delle minoranze etniche: milioni di persone in fuga o discriminate negli stati che si erano venuti a creare dalla dissoluzione dell'impero turco, russo e austro-ungarico. L'Europa si trovò anche povera di risorse economiche. Durante la guerra, infatti, erano state spese somme gigantesche e ciò aveva prodotto un pesante indebitamento. Finito il conflitto, però, i vari stati non avevano la possibilità di investire sulla ripresa delle proprie economie interne. Era necessaria una riconversione industriale, ovvero il processo di passaggio dall'economia di guerra a quella di pace. La guerra aveva diminuito la produzione di materie prime, così si fece ricorso all'importazione. Questa situazione determinò un generale rialzo dei prezzi e una forte inflazione, con una generale perdita di valore delle monete nazionali. Tutti i paesi europei, vinti e vincitori, furono dunque colpiti da una forte crisi economica e finanziaria. - Francia e Italia erano schiacciate dal forte indebitamento, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, che avevano concesso ampi prestiti durante la guerra; - La Germania si trovava in ginocchio a causa delle gravose riparazioni di guerra imposte dai vincitori; - La Gran Bretagna riuscì a controllare meglio la situazione ma perse gran parte del tradizionale ruolo di leader economico e finanziario internazionale. [Che cos’è l’inflazione? pp.165] ITALIA In Italia i problemi del dopoguerra furono particolarmente gravi. La crisi ebbe il suo culmine nel 1921, quando il fallimento di alcuni grandi trust, come il complesso siderurgico Ilva e quello meccanico dell'Ansaldo, provocò il crollo di importanti istituti bancari con riflessi negativi su tutto il sistema industriale. Nel frattempo la Germania era schiacciata dagli esorbitanti e punitivi risarcimenti di guerra: 269 miliardi di marchi da pagare esclusivamente in oro e non con merci e lavoro, per evitarne la ripresa economica. Non poté tener fede ai pagamenti per tre cause principali: - La chiusura dei mercati tedeschi, - La perdita delle colonie, - Una delle regioni tedesche più ricche, il bacino minerario della Saar, era stato assegnato per quindici anni alla Francia. Nonostante ciò, la richiesta della Germania di frazionare i pagamenti ricevette il netto rifiuto, poiché le potenze vincitrici miravano alla sua distruzione. LE CONSEGUENZE DELLA CRISI La crisi economica e finanziaria post bellica ebbe alcune importanti conseguenze in Europa: - la fine della sua centralità nel mondo e l'ascesa degli Usa a potenza mondiale; - l'intensificazione dell'intervento dello Stato nella gestione delle dinamiche economiche; - l'aumento del tasso di disoccupazione unito all'aumento del costo della vita = nuova emigrazione. IL RUOLO DEGLI STATI UNITI Gli Stati Uniti erano usciti dalla Prima guerra mondiale in una posizione dominante, si erano affermati come i principali esportatori di prodotti e capitali Alla conclusione del conflitto Wilson aveva cercato di creare le condizioni per cui gli Usa potessero esercitare un'egemonia anche politica in ambito internazionale, uscendo dall'isolazionismo (14 punti). Il cosiddetto "wilsonismo", fu però respinto dagli alleati a Parigi e accolto con estrema diffidenza anche dall'opinione pubblica americana, poiché rappresentava la totale adesione alla Società delle Nazioni. Fu così che alle elezioni presidenziali del 1920 venne eletto il candidato repubblicano Harding, il quale aveva una politica opposta a Wilson e adottò misure protezionistiche a difesa del prodotto nazionale, posizioni molto apprezzate dal popolo americano. APERTURA AI MERCATI INTERNAZIONALI A causa però della politica isolazionista, tra il 1920 e il 1921, l'economia americana andò in contro a una crisi di sovrapproduzione derivante dalla diminuzione delle esportazioni di guerra e dal fatto che gli ormai ex partner europei non avevano abbastanza denaro per importare. Si cercò quindi di dare risposta all'esigenza di ampliare il mercato, attraverso l'attuazione del "piano Dawes" (dal banchiere Charles Dawes) nel 1924. IL PIANO DAWES Gli Stati Uniti ripresero l'esportazione dei loro prodotti verso il Vecchio continente, in modo tale che quei paesi potessero procedere al pagamento dei debiti verso le potenze vincitrici, a loro volta alle prese dagli ingentissimi debiti contratti con gli Stati Uniti. La fornitura di aiuti finanziari avrebbe portato benefiche conseguenze e allontanato il pericolo di una rivoluzione di stampo bolscevico (idee basate sulla crisi nata dalla guerra). RILANCIO DELL’ECONOMIA MONDIALE Il piano funzionò, rivitalizzando l'economia europea e portando l’intensificazione degli scambi internazionali, che tra il 1925 e il 1926 portarono ad un vero e proprio boom economico. TRASFORMAZIONI SOCIALI E IDEOLOGIE LA SOCIETÀ EUROPEA IN FERMENTO La larga disoccupazione e l'elevato costo della vita colpirono principalmente i ceti popolari, che versavano in condizioni pessime di vita. Si diffusero forti tensioni e nelle fabbriche crebbero gli scontri tra operai e datori di lavoro: dal 19 aumentarono gli scioperi. Nelle campagne i contadini si astennero dal lavoro nelle terre padronali. La crisi non risparmiò neppure i ceti medi, i quali vedevano i propri risparmi e stipendi erosi dall'inflazione e dalla svalutazione. LE RIVENDICAZIONI DEI REDUCI Il quadro sociale generale era aggravato dalla questione dei reduci del conflitto, che subirono un forte declassamento a causa delle mutilazioni e che videro le promesse fatte loro (gloria, terreni coltivabili, lavori dignitosi) svanire. IDEOLOGIE E CULTURE CONTRAPPOSTE: NAZIONALISMO E SOCIALISMO La situazione di forte incertezza rafforzò contemporaneamente due pensieri contrapposti: da una parte ridiede vigore alle tendenze nazionaliste, autoritarie e antidemocratiche, dall’altra andò a rafforzare le ideologie socialiste e rivoluzionarie. Forte fu l’ascendente esercitato dalla rivoluzione bolscevica, che all’interno di ogni paese radicalizzò lo scontro sociale e ideologico. La reazione antisocialista della borghesia, unita alla frustrazione dovuta alla crisi economica, rianimò, la disoccupazione riguardò circa sei milioni di persone. Nel 1933, con l’ascesa di Hitler al potere, fu avviata una politica di totale subordinazione dell’economia allo Stato, che permise, a breve termine, una notevole ripresa economica. La Gran Bretagna, abbandonò il libero mercato sostituendolo con misure più restrittive e miranti a privilegiare i rapporti fra i paesi del Commonwealth. LA CRISI DEL 1929 IN ITALIA L’intera vita economica finì per subire una forte contrazione produttiva, mentre il progressivo aumento della disoccupazione aggravò le già difficili condizioni degli agricoltori. Alcuni industriali ebbero modo di sfuggire alle drammatiche conseguenze della crisi e, favoriti dalla politica protezionistica del governo fascista e dai bassi salari. IL “NUOVO CORSO” DI ROOSEVELT Il nuovo presidente democratico Franklin Delano Roosevelt affiancato da uno staff di intellettuali, tecnici e docenti universitari, elaborò un piano chiamato New Deal (“nuovo corso”), in base al quale seppe coraggiosamente abbandonò la tradizionale concezione liberista dello Stato, allontanandosi da un'economia libera”, ovvero fondata sulla legge del libero mercato e di tipo esclusivamente privatistico, per adottare un'economia guidata”, basata su un energico intervento dello Stato. L’ABBANDONO DELLA POLITICA DEFLATTIVA Roosevelt introdusse un'inflazione controllata, una maggiore quantità di moneta in circolazione avrebbe, infatti, finito per favorire l’incremento degli investimenti e dei consumi, mentre una difesa troppo rigida del valore della moneta avrebbe diminuito la disponibilità di contante. Svalutò il dollaro del 40%, rialzò i prezzi, immise cartamoneta e introdusse il controllo dello Stato sul sistema bancario. LO STATO COME REGOLATORE DELL’ECONOMIA Il presidente Roosevelt intervenne anche a livello di politica sociale: creò strumenti di tutela dei salari minimi e dei contratti di lavoro, impose la presenza dei sindacati nelle aziende e l’obbligo per gli imprenditori di trattare con essi. Realizzò una vasta serie di grandi lavori pubblici e risollevò aziende in crisi con capitali statali; in questo modo riuscì a combattere la disoccupazione. Nel 1933 il presidente varò inoltre un piano di aiuti all’agricoltura, che prevedeva anche la concessione di sussidi alle famiglie più bisognose. GLI EFFETTI POSITIVI DEL NEW DEAL Roosevelt, eletto una seconda volta nel 1936, riuscì a condurre con risultati positivi la propria battaglia in favore di un capitalismo più democratico, ma malgrado la profonda azione della presidenza Roosevelt, alla fine degli anni Trenta gli Stati Uniti non erano comunque ancora tornati ai livelli precedenti il crollo di Wall Street. L’impulso decisivo e definitivo per la ripresa sarebbe giunto solo dalle commesse militari, allo scoppio della Seconda guerra mondiale. IL REGIME FASCISTA IN ITALIA LE TRASFORMAZIONI POLITICHE NEL DOPOGUERRA L’ASCESA DI NUOVI PARTITI Il clima del dopoguerra fu caratterizzato da una grave crisi economica e da un profondo malessere sociale, inoltre i partiti politici si dimostrarono incapaci di mediare e rappresentare le istanze delle forze sociali in fermento e di trovare una base di intesa per risolvere i problemi che affliggevano il paese. Le forze liberali non erano riuscite a dar vita a un partito di impostazione moderna e adesso si trovavano impreparate ad affrontare la situazione. Nel primo dopoguerra sembrò che il ruolo di protagonista della scena politica italiana potesse essere ricoperto da due partiti di massa: quello socialista, nato nel 1892, e quello di ispirazione cattolica,costituitosi recentemente. IL PARTITO POPOLARE Il Partito popolare italiano (Ppi) (partito laico cristiano indipendente dalla chiesa) fu fondato con il consenso di papa Benedetto XV dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo, nel gennaio 1919. Il nuovo partito proponeva l’adozione del sistema elettorale proporzionale (non uninominale), l’ampliamento del suffragio elettorale anche attraverso il voto alle donne e un maggior decentramento amministrativo, in contrasto con il centralismo statale dell’epoca liberale e giolittiana. Si proponeva anche una radicale riforma agraria per riscuotere l’interesse dei ceti rurali, per contrastare le idee socialiste. Per aiutare le popolazioni della campagne nel 1910 era stato fondato anche un sindacato di ispirazione cattolica, la Confederazione italiana dei lavoratori (Cil). Il partito di don Sturzo si prefiggeva di tutelare i diritti di tutte le classi popolari (proletariato incluso) senza entrare in conflitto con le altre. Inoltre l’essere un partito laico favorì l’aggregazione di persone appartenenti a classi sociali diverse in un’unica organizzazione politica. I popolari entrarono da subito in competizione con i socialisti; tuttavia ciascun partito si ritagliò una sfera d’azione privilegiata: il partito di Sturzo nelle campagne, e quello socialista tra il proletariato industriale. D’altronde i popolari non incontrarono nemmeno il favore dei liberali, che giudicavano il loro programma troppo avanzato e li accusavano di “bolscevismo bianco”. LE DIVERSE CORRENTI DEL PARTITO SOCIALISTA Il Partito socialista soffriva sin dalla sua nascita della spaccatura interna tra l’ala rivoluzionaria o massimalista, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati e l’ala riformista. I riformisti non perdevano occasione per sottolineare come il partito avrebbe dovuto approfittare degli strumenti che il sistema democratico poteva offrire per realizzare una progressiva trasformazione della società. La corrente riformista, inoltre, controllava la Confederazione generale del lavoro (Cgil), sindacato di ispirazione socialista nonché una forza numerica imponente. Proprio mentre la polemica tra le due correnti si faceva più rovente, se ne costituiva una terza, legata ad Amadeo Bordiga e al giornale torinese “L’Ordine Nuovo”, fondato da una vivace e colta élite intellettuale che ebbe tra i suoi esponenti più rappresentativi Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Sollecitavano la formazione di un partito rivoluzionario sul modello di quello realizzato da Lenin in Russia con il compito di organizzare e guidare la lotta armata del proletariato attraverso i consigli di fabbrica, simili ai soviet russi. MUSSOLINI E I FASCI DI COMBATTIMENTO Di questa fase così complessa della politica italiana seppe abilmente approfittare Benito Mussolini. Nel novembre 1914, un mese dopo essere stato espulso dal Partito socialista e dalla direzione dell’“Avanti!” per le sue posizioni interventiste, aveva fondato il quotidiano “Il Popolo d’Italia”, attraverso cui condusse la sua personale campagna a favore della partecipazione dell’Italia alla guerra Criticava la debolezza del governo e si faceva sostenitore dell' “ordine interno” contro i disordini che agitavano il paese. Anche grazie alla sua non comune capacità oratoria, riuscì a raccogliere intorno a sé simpatizzanti di varia estrazione sociale e diverso orientamento politico. Fu con il loro appoggio che Mussolini fondò, il 23 marzo 1919, i Fasci di combattimento. IL PROGRAMMA DI SAN SEPOLCRO La riunione fondativa dei Fasci si tenne a Milano, in un palazzo di piazza San Sepolcro. Per questo motivo il programma è noto come “Programma di San Sepolcro” e “sansepolcristi” sono detti i fascisti delle origini. Il programma si caratterizzava per un forte nazionalismo, ma al contempo prevedeva l’instaurazione di una repubblica con ampie autonomie regionali e comunali, il suffragio universale esteso alle donne, l’istituzione del referendum popolare, l’abolizione del Senato di nomina regia, dei titoli nobiliari, della polizia politica e della coscrizione obbligatoria. Prevedeva inoltre il pagamento dei debiti dello Stato da parte delle classi più abbienti, la distribuzione della terra ai contadini, la concessione di industrie e servizi pubblici a organizzazioni operaie, nonché la riduzione dell’orario di lavoro. Si proponevano come un movimento politico duttile ed elastico, capace di superare i tradizionali schieramenti di destra e sinistra. Nonostante la presenza di differenti correnti all’interno del movimento, era già possibile cogliere gli aspetti fondamentali del primo fascismo: il nazionalismo appunto, l’esaltazione dell'azione individuale (superuomo) e il culto della violenza anche nell’attività politica, l’avversione nei confronti delle classi abbienti (antiplutocrazia) e verso i socialisti, e un sostanziale antiparlamentarismo. Il 15 aprile 1919, durante uno sciopero generale a Milano, un gruppo di fascisti procedette al saccheggio e all’incendio della sede dell’“Avanti!”, il quotidiano del Partito socialista. Nonostante ciò, l’opinione pubblica e i politici del tempo ritennero impropriamente che il gruppo fosse destinato o a una vita effimera o a essere riassorbito nelle forze tradizionali. LA CRISI DELLO STATO LIBERALE IL MITO DELLA “VITTORIA MUTILATA “ Oltre alle gravi difficoltà economiche e ai forti contrasti sociali, l’Italia doveva far fronte anche a un diffuso senso di frustrazione e di delusione riguardante l’esito della guerra. Alla conferenza di pace di Parigi l’Italia era stata relegata a una posizione di secondo piano e, di fatto, aveva subito una severa sconfitta diplomatica. Del resto, le posizioni portate avanti dai ministri Orlando e Sonnino furono per certi versi contraddittorie, avevano chiesto il rispetto del patto di Londra, che assegnava al nostro paese parte della Dalmazia – in violazione del principio di nazionalità, perché abitata prevalentemente da slavi. Al tempo stesso l’Italia aveva rivendicato, in nome dello stesso principio, la città istriana di Fiume (assegnata alla Croazia e non attribuita all’Italia dal patto), si era proclamata italiana dal 1918. Quando si trattò di decidere le sorti delle colonie tedesche, esse furono spartite tra le altre potenze, mentre l’Italia venne ignorata. Si diffuse così il mito della “vittoria mutilata” e in breve si fece largo, negli ambienti nazionalisti, l’idea di riprendere le armi per correggere le storture dei trattati di pace. L’IMPRESA FIUMANA DI D’ANNUNZIO Nel giugno 1919 il governo Orlando cadde e fu sostituito da un altro ministero liberale, retto da Francesco Saverio NittI. Il quale raggiunse con le altre potenze vincitrici un accordo in base al quale Fiume sarebbe stata evacuata dalle truppe italiane, che fino allora l’avevano presidiata, e affidata a reparti anglo-francesi. La decisione però irritò gli ambienti nazionalisti. Il poeta Gabriele D’Annunzio nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1919, partì da Ronchi alla testa di alcune centinaia di volontari armati. Raggiunta Fiume senza incontrare la resistenza delle forze anglo-francesi, D’Annunzio la occupò e ne proclamò unilateralmente l’annessione all’Italia. LA MARCIA SU ROMA Mussolini, intravide la possibilità di una conquista definitiva del potere attraverso la “marcia su Roma”, un’azione di forza, un colpo di Stato che avrebbe permesso ai fascisti di ottenere il governo. La notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922, poco più di 25.000 camicie nere male armate affluirono verso la capitale. Le guidava un “quadrumvirato” formato dai più diretti collaboratori di Mussolini – Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi - mentre il capo del fascismo rimase a Milano in attesa di sviluppi. Facta si preparò a resistere con l’aiuto dell’esercito, ma Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto che proclamava lo stato d’assedio. Facta diede le dimissioni e negoziò l’incarico di formare un nuovo gabinetto. La mattina del 30 ottobre il capo del fascismo giunse a Roma e presentò la lista dei ministri. IL GOVERNO DI COALIZIONE DI MUSSOLINI La notizia della creazione di un nuovo ministero con a capo Mussolini fu accolta con un sospiro di sollievo dalla maggioranza del Parlamento, dagli ambienti di corte e dalle alte gerarchie ecclesiastiche e militari. Mussolini del resto propose un governo di coalizione, composto cioè non esclusivamente da fascisti, ma anche da tre liberali, due popolari, due liberali di sinistra, due alti esponenti delle forze armate. Inoltre lasciò relativamente liberi la stampa e i partiti. IL POTERE FASCISTA TRA VIOLENZE E LIMITAZIONI DELLE FUNZIONI PARLAMENTARI In realtà Mussolini continuava ad appoggiare in forma più o meno scoperta le azioni illegali degli squadristi, al fine di mettere a tacere gli avversari più temibili. Ciò suscitò forti perplessità nei partiti che sostenevano il governo e una sempre più netta opposizione degli antifascisti, i quali cercavano di esprimere il proprio dissenso in Parlamento o attraverso la stampa. Allo stesso tempo Mussolini cercava con ogni mezzo di svuotare il Parlamento di ogni autorità e prestigio: istituì il Gran consiglio del fascismo, supremo organo collegiale del Pnf, destinato a prendere decisioni politiche e quindi a limitare notevolmente le funzioni parlamentari. Pochi mesi prima anche le squadre d’azione avevano trovato una definizione istituzionale in seno al Pnf, con la fondazione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn). LA POLITICA ECONOMICA Tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 era iniziata una favorevole fase di espansione economica in numerosi paesi europei. Il ministro delle Finanze Alberto De Stefani ebbe il merito di comprendere la situazione e di assecondarla procedendo all'abolizione di alcune tasse e alla stipula di trattati commerciali con Francia, Germania, Austria, Unione Sovietica e Svizzera. I provvedimenti adottati determinarono la riduzione del disavanzo (eccedenza delle uscite sulle entrate) dello Stato e un notevole sviluppo dell’industria e dell’agricoltura. Tuttavia sancirono lo strapotere delle grandi concentrazioni capitalistiche a tutto svantaggio della classe popolare, colpita da una politica di austerità e di riduzione dei salari che persero sia in valore nominale sia in capacità di acquisto. LE INIZIATIVE PER RASSICURARE LA BORGHESIA E IL VATICANO Mussolini cercò di dare al fascismo un volto rassicurante per la grande borghesia, motivo per il quale si avvicinò all’ala più radicale e violenta. Pur essendo stato un acceso anticlericale, perseguì una politica di riavvicinamento alla Chiesa cattolica. Il nuovo papa Pio XI guardò con simpatia al fascismo: del resto, anche due membri del Partito popolare facevano parte del primo governo Mussolini. Quando però Sturzo cercò di portare il partito su posizioni antifasciste, Pio XI impose al sacerdote le dimissioni da segretario, che fu costretto all’esilio sin dal 1924. LA LEGGE ACERBO E LE ELEZIONI POLITICHE DEL 1924 Mussolini decise di indire nuove elezioni per il 6 aprile 1924, dopo avere fatto approvare il 18 novembre 1923 una nuova legge elettorale. La legge Acerbo reintroduceva il sistema maggioritario e prevedeva un forte premio di maggioranza per il partito che avesse raccolto più voti. L’iniziativa era fondata sulla certezza di Mussolini di poter ottenere molti consensi, una certezza motivata da tre ragioni: - il clima di violenza, - l’appoggio di alcuni autorevoli uomini politici, - gran parte della popolazione, poteva essere facilmente convinta dalla propaganda fascista. Inoltre, per assicurare il successo al “Listone nazionale”, Mussolini consentì che i suoi incaricati violassero il segreto delle urne e commettessero brogli nello spoglio delle schede. IL DELITTO MATTEOTTI E LA SECESSIONE DELL’AVENTINO L’opposizione, composta da socialisti, comunisti, repubblicani, liberali protestò e chiese l’annullamento delle elezioni in quanto fondate sull’illegalità e sulla violenza. La denuncia più vigorosa delle irregolarità e dei soprusi commessi fu pronunciata dal deputato e segretario del Psu Giacomo Matteotti il 30 maggio, all’apertura dei lavori della Camera. Il 10 giugno 1924 Matteotti fu aggredito in pieno giorno, mentre usciva di casa, caricato a forza su un’auto e subito assassinato. Il suo cadavere fu ritrovato, il 16 agosto, nel bosco della Quartarella alle porte di Roma. L'opposizione decise di non partecipare più ai lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito il suo coinvolgimento nella tragica vicenda. Il 27 giugno cominciò così la protesta detta “secessione dell’Aventino” (patrizi e plebei). Il tentativo di far cadere il fascismo su basi “morali”, non portò però ad alcun risultato: Vittorio Emanuele III, respinta la protesta dell’Aventino, gli ebbe riconfermata la fiducia, Mussolini riprese in mano la situazione e il 1° luglio 1924 dette vita a un governo composto solo di fascisti. IL DISCORSO DEL 3 GENNAIO 1925 Il 3 gennaio 1925 in un discorso alla Camera, rivendicò a sé ogni responsabilità di quanto accaduto a Matteotti ,dopo di chè avviò la costruzione di un regime autoritario basato sulla soppressione di ogni libertà costituzionale e sull’uso della forza contro ogni forma di opposizione e dissenso. Nei giorni successivi al discorso vi fu una recrudescenza delle violenze squadriste accompagnate da misure repressive degli avversari politici: furono chiusi circoli e associazioni politiche antifasciste, con arresti di socialisti e comunisti; tuttavia restavano ancora alcuni margini per manifestazioni di dissenso, sia sulla stampa sia in Parlamento. LA COSTRUZIONE DELLO STATO FASCISTA LE LEGGI FASCISTISSIME La promulgazione, tra il 1925 e il 1926, delle cosiddette “leggi fascistissime” (Alfredo Rocco), segnò il passaggio definitivo al regime autoritario. Erano finalizzate a rafforzare il governo e ad abolire la separazione dei poteri. I principali elementi di novità: - la carica di presidente del Consiglio dei ministri divenne quella di segretario di Stato, il quale rispondeva del suo operato solo di fronte al re; - al governo vennero riconosciute ampie facoltà di emanare le leggi e ottenne più poteri; - furono ampliate le prerogative dei prefetti, che poterono a loro discrezione sciogliere associazioni, enti, istituti, partiti, gruppi e organizzazioni politiche. - l’eliminazione del Consiglio comunale e del sindaco (entrambi elettivi), in favore di un podestà di nomina governativa; - lo scioglimento dei partiti e dei movimenti di opposizione al fascismo; - l’obbligo per tutti i dipendenti pubblici di iscriversi al Partito fascista; - fu istituito il confino come sanzione principale nei confronti anche dei solo sospettati ostili al regime e un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con sentenze inappellabili; - il ripristino della pena di morte; - venne soppressa ogni libertà di opinione e di stampa. LA RIFORMA ELETTORALE E IL PLEBISCITO DEL 1929 Secondo la riforma elettorale varata nel maggio 1928: in base a essa l’elettore era chiamato ad approvare o a respingere, per la Camera dei deputati, una lista unica nazionale; il Senato rimaneva invece sempre di nomina regia. Nel 1928, fra l’altro, il Gran consiglio divenne un organo costituzionale, al quale fu affidato il compito di nominare il capo del governo (prima il re). Il 24 marzo 1929 si svolse, al posto di regolari elezioni politiche, una consultazione plebiscitaria, dove il voto non era più né segreto né libero (schede colorate). Chiaramente furono maggiori i voti favorevoli alla lista unica. La Camera e il Parlamento perdevano i loro ruoli, tanto che nel 1939 la Camera dei deputati fu addirittura soppressa e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. LA PROPAGANDA E IL CULTO DELLA PERSONALITÀ Per accrescere il consenso Mussolini fece ampio ricorso a una martellante propaganda: organizzazioni di partito, stampa, cinema, radio. A partire dal 1926, Mussolini si preoccupò di alimentare il culto della propria immagine: si fece chiamare “duce”, come richiamo al mondo della Roma antica. Sulle facciate degli edifici pubblici e delle abitazioni private comparvero ben presto gigantesche iscrizioni inneggianti al duce. IL RICORSO AI MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA La stampa fu il canale propagandistico cui il fascismo dedicò maggiore attenzione attraverso una scrupolosa opera di “fascistizzazione” dei giornali, controllati attraverso le “veline”. La radio, frutto del “genio italico” di Guglielmo Marconi, raramente utilizzata come strumento di propaganda diretta, preferendo i discorsi pubblici. Negli anni Trenta, con la nascita dell'Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche), la radio divenne allora uno strumento di organizzazione del consenso e il regime ne promosse l’ascolto. Il cinema fu l’altro grande canale di propaganda della dottrina fascista. Nacque l’Istituto Luce per la produzione di documentari e soprattutto cinegiornali. IL CONTROLLO TOTALE DELLA SOCIETÀ La propaganda del regime si rivolgeva in particolare alle giovani generazioni. Nel 1923 era già stata attuata una riforma della scuola elaborata da Giovanni Gentile (intellettuale fascista) che dava all’organizzazione scolastica un’impronta fortemente militarista. Essa fu completata nel 1926 con la creazione dell’Opera nazionale Balilla (Onb). I giovani universitari a loro volta furono inseriti nei Gruppi universitari fascisti (Guf) attraverso i quali il regime voleva formare la futura classe dirigente fascista. REPRESSIONE E ANTIFASCISMO Tra il 1927 e il 1930 fu creata una polizia politica segreta, l’Ovra (piovra), che si dimostrò uno dei più efficaci strumenti per l’individuazione e la repressione degli antifascisti. Nonostante il clima d’intimidazione instaurato, l’opposizione al fascismo continuava comunque a farsi sentire per mezzo di opere scritte e diffuse clandestinamente o attraverso iniziative e movimenti perseguitati con durezza. Benedetto Croce, il filosofo liberale che aveva pubblicato il 1° maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti. A partire dal 1927, però, ogni forma di opposizione al regime venne sistematicamente soffocata. Per condurre la lotta antifascista si poteva ricorrere solo all’esilio oppure alla clandestinità in Italia. Fu soprattutto il Partito comunista a scegliere di continuare la lotta nel paese e i suoi militanti furono così le prime vittime della repressione, tra cui il segretario del partito Antonio Gramsci, Giovanni Amendola e Piero Gobetti ( ultimi due morti poi all’estero per i pestaggi subiti). Filippo Turati e don Luigi Sturzo furono costretti a vivere in esilio all’estero, trovando rifugio in Francia. Il 9 maggio 1936 Mussolini poté annunciare la fine della guerra e la nascita di un “impero dell’Africa orientale italiana”: Vittorio Emanuele III, ormai non più soltanto re d’Italia, diventava anche imperatore d’Etiopia. Il duce, al quale fu attribuito il titolo di “fondatore dell’impero”, raggiunse allora il massimo del consenso e della popolarità. Era inoltre riuscito a dimostrare che la violenza poteva essere facilmente imposta non solo sul piano interno ma anche internazionale. L’AVVICINAMENTO DELL’ITALIA ALLA GERMANIA La guerra costò all’Italia l’uscita dalla Società delle Nazioni e l'isolamento in ambito europeo. In tale situazione Mussolini il 24 ottobre 1936 concretizzò l’alleanza con la Germania (Asse Roma-Berlino). Sul trattato c’era la firma del giovane Galeazzo Ciano, sposato con la figlia primogenita di Mussolini. L’accordo con la Germania in verità prevedeva l'impegno comune a lottare contro il “pericolo bolscevico” e una reciproca consultazione sulle questioni internazionali. Il fronte alleato della Prima guerra mondiale venne così definitivamente infranto e l'Europa si ritrovò divisa in due blocchi contrapposti. LE LEGGI RAZZIALI L’avventura etiopica sollecitò nel 1937 l’emanazione della prima legislazione razziale del fascismo, indirizzata alle popolazioni africane delle colonie italiane e volta ad evitare ogni forma di contaminazione razziale. Il 15 luglio 1938, fu pubblicato un Manifesto di difesa della razza, firmato da 180 scienziati aderenti al regime. Fra l’autunno del 1938 e il giugno 1939, furono emanati diversi decreti legge, definiti “leggi per la difesa della razza”, i cui presupposti ideologici furono chiariti in una Dichiarazione sulla razza. I provvedimenti avevano come obiettivo la discriminazione e la persecuzione degli ebrei e contemplavano tra le altre cose: - l’esclusione dalle scuole pubbliche; - il divieto di matrimonio con italiani; - il divieto di possedere attività commerciali e beni immobili; - il divieto di prestare servizio nelle forze armate, nell’amministrazione statale e parastatale; - forti limitazioni all’esercizio di lavori; - il divieto di svolgere l’attività di notaio e giornalista e qualsiasi incarico che comportasse funzioni di pubblico ufficiale. Numerosi scienziati e intellettuali ebrei, colpiti dai provvedimenti fascisti, emigrarono negli Stati Uniti: tra loro ricordiamo i fisici Enrico Fermi (bomba atomica) ed Emilio Segrè. FASCISMO E ANTISEMITISMO La politica antisemita del regime è un tema su cui il dibattito degli storiciè ancora aperto. Le discriminazioni nei confronti degli ebrei furono una scelta autonoma e svincolata dall’influenza tedesca. Sembrava improbabile che si venisse a creare un problema ebraico in Italia anche in considerazione della legge sulle Comunità israelitiche approvata nel 1931, che garantiva una sostanziale libertà di culto. La svolta di Mussolini sulla questione della razza ebraica, fu determinata da una serie di circostanze tutte interne al paese: - l’opinione contraria di singole personalità e organizzazioni ebraiche alle guerre d’Etiopia e di Spagna; - le critiche alla politica economica del regime mosse da industriali e uomini d’affari ebrei; - il sospetto, sempre più radicato nelle gerarchie fasciste, dell’esistenza di una Internazionale ebraica alleata dei comunisti. Per la successiva messa a punto della politica razziale fu invece decisiva la personale convinzione del duce che per “rendere granitica” l’alleanza italo-tedesca fosse necessario allineare la politica dei due regimi in tutti i campi, compreso quello dell’antisemitismo. LA GERMANIA DEL TERZO REICH LA REPUBBLICA DI WEIMAR LA GERMANIA DOPO LA GUERRA In Germania la fine del conflitto mondiale diede luogo a un vuoto di potere. La guerra aveva logorato fino allo stremo l’esercito, l’economia del paese e la sua stessa struttura sociale. Il Kaiser Guglielmo II, ritenuto responsabile della disfatta, abdicò il 9 novembre 1918. Venne proclamata la repubblica e si formava un governo provvisorio guidato da Friedrich Ebert , esponente del Partito socialdemocratico (Spd). Due giorni dopo il nuovo governo firmò l'armistizio a Compiègne (11 novembre 1918). Il governo repubblicano era però troppo debole, a dimostrare ciò l’armistizio a Versailles, si trasformò in un umiliante trattato di pace (28 giugno 1919). La destra nazionalista contribuì così a creare il mito della “pugnalata alle spalle”, per cui la sconfitta della Germania non sarebbe stata il risultato del tradimento organizzato dalle forze che ora davano vita alla repubblica. LA RIVOLTA DI BERLINO E LA “SETTIMANA DI SANGUE” DEL 1919 Il governo socialdemocratico non trovava appoggio nemmeno nell’estrema sinistra, anzi, il Partito comunista tedesco (Kpd) guidò una rivolta nei primi giorni del gennaio 1919. Il Partito comunista era nato solo qualche giorno prima, dall’unione di alcuni gruppi rivoluzionari tra i quali la Lega di Spartaco. Fondata nel 1916 da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. la Lega si contraddistingueva: - per la critica al leninismo; - per la totale sfiducia nella capacità dei socialdemocratici. Il 9 novembre 1918 Liebknecht aveva già tentato di proclamare una “repubblica socialista tedesca”. Il 5 gennaio 1919, mentre Berlino era ripiombata in un clima insurrezionale per uno sciopero operaio, tentarono di nuovo la via dell’insurrezione, passò alla storia come la “settimana di sangue” e venne brutalmente repressa. Il governo di Ebert poté contare sull’appoggio dell’alta finanza e dell’esercito (a differenza della Russia). Fondamentale fu anche l’impiego di gruppi paramilitari (Freikorps): costituiti dopo la guerra e composti da reduci dell’esercito imperiale. Tra le prime vittime vi furono proprio Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, arrestati e uccisi senza processo. Dopo la loro morte, il Partito comunista tedesco si allineò alle direttive della Terza Internazionale. LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR In gennaio si svolsero le elezioni per un’Assemblea costituente, dove il Partito socialdemocratico ottenne la maggioranza. A Weimar aveva elaborato una nuova Costituzione che entrò in vigore l'11 agosto 1919: la Germania diveniva una repubblica federale, costituita da Länder autonome. Si trattava di una carta costituzionale che prevedeva il suffragio universale maschile e femminile, l’affermazione di ampi diritti civili, politici e sociali e la centralità del Parlamento (Reichstag) a cui spettava il potere legislativo. Il cancelliere (primo ministro) rispondeva del proprio operato al Parlamento e veniva nominato da un presidente, eletto ogni sette anni direttamente dal popolo. Al presidente la Costituzione accordava anche il potere di sospendere in caso di emergenza le libertà civili e di disporre tutte le misure considerate necessarie per mantenere l’ordine; con la pericolosa possibilità che intaccasse la fondamentale divisione tra i poteri. I PROBLEMI ECONOMICI I problemi della repubblica furono aggravati dalla disastrosa situazione economica, resa insostenibile dalle richieste di risarcimenti di guerra. C’era stata una svalutazione della moneta; l’iperinflazione e la massiccia disoccupazione avevano portato al collasso economico e sociale, con un abbassamento della qualità della vita. La popolazione era ormai ridotta alla fame. Solo una piccola parte della borghesia versava in situazioni meno gravi. L’OCCUPAZIONE FRANCESE DELLA RUHR Paralizzato dal crescente disordine economico e monetario, il governo dovette sospendere il pagamento dei risarcimenti di guerra. La Francia reagì e nel gennaio 1923 occupò militarmente il bacino minerario della Ruhr, che così diventò una sorta di “ostaggio” o “pegno” in mano francese a garanzia dei pagamenti. Ciò non fece altro che peggiorare ulteriormente la situazione di ripresa tedesca. L’unico risultato dell’azione francese fu di inasprire ulteriormente il risentimento del popolo tedesco e di esasperare i sentimenti nazionalisti e delle correnti di destra. HITLER E LA NASCITA DEL NAZIONALSOCIALISMO HITLER E IL PARTITO NAZISTA Nel gennaio 1919 si costituì a Monaco un partito di estrema destra (Partito dei lavoratori tedeschi) al quale aderì un ex caporale di origine austriaca, Adolf Hitler. Grazie alla sua intraprendenza e alle sue capacità oratorie, Hitler allargò il partito e nel corso del 1920 lo trasformò nel Partito nazionalsocialista dei lavoratori, più comunemente noto come Partito nazista. Come emblema la croce uncinata o svastica (simbologia solare, fin dall’Antichità) come simbolo di “arianità” e di superiorità razziale. Il Partito nazista creò le cosiddette SA (“reparti d’assalto”), la cui uniforme era contraddistinta dalla camicia bruna. IL FALLITO PUTSCH DI MONACO I membri del Nsdap si distinsero ben presto per i metodi terroristici e per l'uso della violenza col fine di creare in Germania un regime autoritario e anticomunista. Tra l’8 e il 9 novembre 1923, Hitler tentò addirittura un colpo di Stato contro il governo regionale della Baviera. Il cosiddetto Putsch di Monaco però fallì miseramente e Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di carcere (Mein Kampf). Durante la prigionia decise di cambiare strategia e si prefisse come obiettivo la conquista legale del potere. LA STABILIZZAZIONE DELL’ECONOMIA L'economia della Germania stava lentamente migliorando grazie all’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali con l’Unione Sovietica e soprattutto all’intervento diretto degli Stati Uniti che nel 1924 avevano reso operativo il piano Dawes. LA RICONCILIAZIONE FRANCO-TEDESCA Conseguenza indiretta del piano Dawes fu anche il progressivo ritiro delle truppe francesi dalla Ruhr. Nell’ottobre 1925 Francia e Germania, con la garanzia di Inghilterra e Italia, firmarono a Locarno un patto in base al quale diventavano definitivi alcuni punti fondamentali stabiliti dal trattato di Versailles. I tedeschi riconobbero la cessione alla Francia di Alsazia e Lorena e la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni, segno di una concreta riconciliazione intervenuta tra vincitori e vinti: “spirito di Locarno”. Nell’agosto 1928, venne firmato il patto Briand-Kellog (ministro francese e segretario di stato americano). L’accordo fu sottoscritto dai rappresentanti di ben sessanta paesi, tra cui l’Inghilterra, la Germania, il Belgio, l’Italia, l’Unione Sovietica e il Giappone. Tale patto rifiutava ufficialmente la guerra come mezzo per risolvere le contese fra gli stati e stabiliva l’appoggio incondizionato ai paesi aggrediti in violazione degli accordi della Società delle Nazioni o del trattato di Locarno (nessun vero obbligo). Hitler riteneva che queste aree costituissero parte dello spazio vitale (Lebensraum) irrinunciabile per la Germania. Ciò avrebbe portato i tedeschi ad avere un’unica grande patria, secondo i princìpi del pangermanesimo. La concezione dei rapporti tra le nazioni e i popoli del nazismo si fondava inoltre su un feroce razzismo, che avrebbe avuto ben presto esiti tragici. L’ATTEGGIAMENTO DELL’EUROPA NEI CONFRONTI DEL NAZISMO Le democrazie dell’Europa occidentale sottovalutarono l’avvento del nazismo per molte e complesse ragioni: - Hitler aveva raggiunto il potere legalmente; - i successi della Germania avevano riscosso successo anche all’estero; - non era una novità l’imposizione di una dittatura in Europa; - erano nati movimenti di indirizzo fascista anche nei paesi democratici; - le potenze europee avrebbero cercato di evitare un conflitto ancora memori della Prima Guerra Mondiale; - l’avversione al pericolo rosso, ormai diventata una psicosi. L’IDEOLOGIA NAZISTA E L’ANTISEMITISMO RAZZA E INEGUAGLIANZA I fondamenti dell’ideologia nazionalsocialista vennero delineati dallo stesso Hitler nella sua opera Mein Kampf, divenne subito un punto di riferimento del nazismo e nel 1933 ne furono vendute un milione e mezzo di copie. L’ideologia hitleriana proveniva da una tradizione reazionaria e antisemita e si fondava sul sentimento mistico con un miscuglio di teorie nazionalistiche e di teorie eugenetiche e avevano come punto di raccordo due elementi fondamentali: la razza e l’ineguaglianza. Il nazismo sosteneva infatti la teoria della superiorità assoluta e indiscutibile della cosiddetta “razza ariana”, vale a dire la razza germanica. Per Hitler, compito principale e fondamentale dello Stato nazista doveva essere quello di dare corso a un intenso processo di “purificazione” allo scopo di ricreare un solido gruppo razziale tedesco. Era questa la base ideologica dell’espansionismo nazista: se una razza dominante necessitava di uno “spazio vitale”, aveva pienamente il diritto di occuparlo, eliminando o riducendo in schiavitù le “razze locali”. L’ANTISEMITISMO E LE LEGGI DI NORIMBERGA Il razzismo nazista individuò il principale nemico nel popolo ebraico, consideratp come l’origine di tutti i mali. Secondo Hitler l’ebraismo era una sorta di malattia da cui discendevano il liberalismo, la democrazia e il marxismo, tutti “pericoli” che dovevano essere estirpati. Ne conseguì una politica che mirava a una spietata persecuzione degli ebrei (anti razza). La persecuzione divenne poi sistematica con la promulgazione delle leggi di Norimberga: gli ebrei furono privati della cittadinanza, fu loro vietato di contrarre matrimoni con altri cittadini tedeschi e furono obbligati a esibire sugli abiti la stella gialla di David. LA NOTTE DEI CRISTALLI Nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938 – con il pretesto di una ritorsione in seguito all’uccisione a Parigi di un diplomatico nazista per mano di un giovane ebreo – vennero devastati i luoghi di culto, gli esercizi commerciali e le abitazioni private degli ebrei; decine di ebrei furono uccisi, mentre decine di migliaia vennero arrestati e internati in campi di concentramento. Passò alla storia come “notte dei cristalli”. Appena due giorni dopo veniva stabilita l’esclusione degli ebrei dal commercio e dalle professioni e la messa fuori legge delle organizzazioni ebraiche (12 novembre 1938). La persecuzione degli ebrei permetteva inoltre di mettere le mani sui loro patrimoni, in alcuni casi davvero ragguardevoli. In questa fase le autorità naziste spinsero anche all’emigrazione (da 500.000 a 350.000). La persecuzione antisemita varcò i confini della Germania e nel corso della Seconda guerra mondiale culminò nel genocidio di sei milioni di ebrei. LA POLITICA ESTERA AGGRESSIVA DI HITLER LA ROTTURA DELL’EQUILIBRIO EUROPEO L’ascesa del nazismo modificò in modo radicale le relazioni internazionali. Hitler allontanò la Germania dallo “spirito di Locarno” uscendo dalla Società delle Nazioni. Due anni dopo, la potenza tedesca si consolidò grazie alla riannessione della Saar. A questo punto Hitler ruppe gli indugi anche sulla questione del riarmo: mentre già sviluppava l’industria bellica reintrodusse, a dispetto delle clausole di Versailles, il servizio militare universale e obbligatorio. Rinasceva così l’esercito tedesco, la Wehrmacht. Francia, Inghilterra e Italia, riunite in convegno nella cittadina piemontese di Stresa condannarono l’iniziativa tedesca, senza prendere alcun provvedimento concreto. Infatti Hitler non incontrò ostacoli quando, nel marzo 1936 ordinò alle sue truppe di insediarsi in Renania, smilitarizzata dal 1918 (zona cuscinetto). L’ORIGINE DELL’ASSE ROMA-BERLINO-TOKYO Fino al 1935 solo l’Italia aveva in qualche modo contenuto le ambizioni di Hitler. Si era visto nel 1934, in occasione della crisi in Austria, culminata nell’assassinio del cancelliere Dollfus, ma in seguito alla guerra d’Etiopia Mussolini si trovò in una posizione di difficile isolamento e, non potendo rinnovare l’intesa con Gran Bretagna e Francia, si avvicinò alla Germania. Le due potenze firmarono quindi un accordo che prese il nome di Asse Roma-Berlino (24 ottobre 1936). La prima prova concreta della loro concordanza di idee e di programmi era imminente: avvenne sui campi di battaglia della guerra di Spagna, cominciata nell’estate 1936. Germania e Italia trovarono il sostegno non solo degli altri regimi dittatoriali che si erano costituiti nel frattempo in Europa, ma anche del Giappone. In breve tempo si giunse a un avvicinamento e nel novembre 1936, Germania e Giappone firmarono il patto Anticomintern (anticomunista e antisovietico). Nel novembre 1937 anche l’Italia, rappresentata dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, aderì al patto Anticomintern, delineando quell’Asse Roma-Berlino-Tokyo che sarebbe stato formalizzato all’inizio della Seconda guerra mondiale. L’AUSTRIA E IL REGIME DI DOLLFUSS (pagina 282) Dopo la dissoluzione dell’impero asburgico, l’Austria attraversò un periodo di grande conflittualità sociale, durante il quale emersero movimenti conservatori e nazionalisti. Il principale esponente il leader del Partito cristiano-sociale Engelbert Dollfuss. Nominato cancelliere nel 1932, Dollfuss trasformò rapidamente il paese in senso autoritario, modificando la Costituzione e sciogliendo tutti gli altri partiti, anche se avrebbe dovuto temere di più i progetti di Hitler di annessione dell’Austria. Hitler, infatti, facendo affidamento sulla presenza di simpatizzanti nazisti all’interno del paese, organizzò nel 1934 un colpo di Stato per abbattere il governo. Il tentativo fallì (anche perché Mussolini inviò alcune divisioni al confine del Brennero, per ammonire che “non sarebbe stato a guardare”) ma Dollfuss fu assassinato. Salì al potere il leader del partito nazista austriaco Arthur SeyssInquart che spalancò le frontiere a Hitler e il Führer, con il sostegno di Mussolini, immediatamente all’annessione dell’Austria alla Germania. L’ANNESSIONE DELL’AUSTRIA Hitler, sbandierando il mito della riunione in un unico Stato di tutti i tedeschi e confidando nella propria abilità nel valutare le reali intenzioni e le possibili reazioni degli avversari, il 12 marzo 1938, a quattro anni dal precedente tentativo, ordinò alle truppe di occupare Vienna, anche se alla fine si trattò di un’annessione consensuale (Anschluss). La diplomazia internazionale ne fu allarmata, ma questa volta la Germania poteva contare sull’intesa con l’Italia: Mussolini, a differenza di quanto aveva fatto nel 1934, dopo aver ricevuto garanzie sull’inviolabilità della frontiera del Brennero accondiscese all’aggressione nazista. Era la più evidente manifestazione del mutamento d’indirizzo intrapreso anche dall’Italia. LA CONFERENZA DI MONACO E L’OCCUPAZIONE DELLA CECOSLOVACCHIA Poco dopo l’Anschluss (annessione dell’Austria), Hitler intimò alla repubblica cecoslovacca la cessione del territorio di frontiera dei Sudeti, una regione abitata in prevalenza da una popolazione di nazionalità tedesca. La Cecoslovacchia si sentiva però protetta da un accordo con la Francia e dunque rifiutò. Tuttavia i rappresentanti delle forze europee cercarono comunque un accordo con Hitler. Il governo inglese incaricò il suo primo ministro Arthur Neville Chamberlain di avviare le trattative: nel corso di una conferenza internazionale tenuta a Monaco si riuscì a salvare la pace, ma a spese proprio della Cecoslovacchia, la quale si vide costretta a cedere il territorio dei Sudeti. Si trattò di un’ulteriore grande vittoria diplomatica per Hitler che ordinò il 15 marzo 1939 l’invasione della Cecoslovacchia, ne occupò la capitale Praga e creò un protettorato tedesco su gran parte del suo territorio (Boemia e Moravia). IL PATTO D’ACCIAIO E IL PATTO MOLOTOV-RIBBENTROP Le potenze europee arrivarono così alla decisione che bisognava resistere agli atti di forza di Hitler, stipulando dei trattati di garanzia con i territori confinanti con la Germania. Incurante di ciò, il 28 marzo 1939 il Führer intimò alla Polonia la cessione del cosiddetto “corridoio di Danzica”(appartenuto al secondo Reich) nel 1919 concessa alla Polonia perché potesse avere uno sbocco sul mar Baltico. Questa volta Francia e Inghilterra ribadirono gli impegni assunti e assicurarono alla Polonia la loro protezione. Ma era troppo tardi. Il 22 maggio 1939, Germania e Italia stipularono un trattato di amicizia e di alleanza militare, il “Patto d’acciaio”, che impegnava entrambe a prestarsi reciproco aiuto in caso di guerra, sia difensiva sia offensiva. Tre mesi dopo, il 23 agosto 1939, la diplomazia tedesca colse nuovamente di sorpresa l’intera Europa (compresa l’Italia). La Germania sottoscrisse infatti un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica (ministro degli esteri russo Molotov e ministro degli esteri tedesco Ribbentrop). In un’appendice segreta, il patto prevedeva anche la spartizione dell’Est europeo e della Polonia in due sfere d’influenza, una tedesca e una sovietica. Questo patto fu una necessità di Hitler per difendersi le spalle nel caso di scontro con le potenze europee. Si era ormai a un passo dallo scoppio della Seconda guerra mondiale.
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