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dottrina, Appunti di Dottrina Dello Stato

riassunto antologia

Tipologia: Appunti

2010/2011

Caricato il 06/09/2011

gidelfi
gidelfi 🇮🇹

3.9

(3)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica dottrina e più Appunti in PDF di Dottrina Dello Stato solo su Docsity! Teoria generale dello Stato e della Costituzione I – L’evoluzione storica 1. Le origini Giorgio Del Vecchio: origini ed evoluzione storica dello Stato [brano] Determinare con esattezza in quale momento ha avuto origine lo Stato è impossibile. La vita umana è necessariamente sociale, ed ogni società implica una correlazione e limitazione reciproca; quella specifica società per la quale la vita umana riceve uno stabile ordinamento in tutte le sue manifestazioni, la società politica, o statuale, si forma solo se si ha: α. un numero abbastanza grande di persone, affinché si distribuiscano le varie funzioni della vita in comune; β. un territorio determinato; χ.€ un potere centrale autonomo che coordini le norme regolatrici della convivenza. Lo studio del processo di formazione dello Stato può ricevere un aiuto dall’esame delle condizioni dei popoli che si trovano in una fase arretrata di civiltà. Non è esatto dichiarare a priori come originaria la condizione attuale dei popoli selvaggi o barbari, poiché ci sono esempi di popoli che da uno stato di civiltà decaddero ad uno di barbarie o semi-barbarie. Non dev’essere presa in considerazione la teoria secondo la quale la società e lo Stato avrebbero avuto origine da contratto: con questa teoria molti autori (tra i quali Jean-Jacques Rousseau {Ginevra, 28 giugno 1712 – Ermenonville, 2 luglio 1778}) vollero rappresentare il fondamento razionale dello Stato, non la sua genesi. 2. Il mondo greco e romano La forma tipica in cui si esprimeva la statualità nella Grecia post-omerica è data dalla polis, o “città-Stato”. Oltre alla polis vi era però un’altra forma, l’ethnos, ovvero lo Stato tribale, o Stato cantonale. Avveniva che un singolo abitato si elevasse a centro cittadino della regione ed assoggettasse a sé almeno una parte del resto della tribù. Il procedimento per cui ciò avveniva era detto dai greci “synoikismos”. Il sinecismo era un’unione sia tecnico amministrativa che religiosa. Gli appartenenti alla polis (polìtes) ne costituiscono il demos. Per i cittadini liberi vi sono i vincoli imposti dalla politeia (Costituzione), nonché dalla subordinazione alle leggi civili (nomoi) e religiose. La polis stessa era idealizzata da Aristotele {Stagira, 384 a.C. – Calcide, 322 a.C.}, che vi ravvisava lo specifico fine consistente nell’offrire ai consociati “una vita vissuta in modo bello e felice”. Fustel de Coulanges {Parigi, 18 marzo 1830 – Massy, 12 settembre 1889; storico francese} dice che “La tribù, come la famiglia e la fratria, si era costituita per essere un corpo indipendente, poiché aveva un culto speciale, da cui l’estraneo era escluso. Una volta formatasi, nessuna nuova famiglia poteva più esservi ammessa. Due tribù non potevano fondersi in una sola: la loro religione vi si opponeva. Ma, come più fratrie s’erano unite in una tribù, così più tribù poterono associarsi tra loro, a condizione che fosse rispettato il culto di ciascuna. Quando questo avvenne, si ebbe la città”. La natura della città-Stato è illustrata con chiarezza da Cicerone {Arpinum, 106 a.C. – Formia, 43 a.C.}: “Quid est enim civitas, nisi iuris societas civium?”. 3. Lo Stato nel Medioevo Otto Brunner: le formazioni politiche medievali ed il concetto moderno di Stato [brano] Ci si deve domandare se ci sia nel Medioevo uno Stato, uno Stato in senso moderno. Se si rispondesse negativamente a questa prima domanda, sorgerebbe subito l’altra: di che tipo era allora l’ordinamento mondano nel Medioevo? Gerhard Sappok parla per l’Europa orientale del primo Medioevo non di “fondazioni di Stato”, ma di “formazioni di signoria”. Theodor Mayer {24 agosto 1883 – 26 novembre 1972} considera il processo trattato da Gerhard Sappok come passaggio da “conglomerati di principati distrettuali” (Gaufürstentümern) allo “Stato unitario”. Qui nell’uso della parola “Stato” è implicito un giudizio storico-politico sopra il durevole effetto di tale “fondazione statuale”. Il concetto astratto di Stato si potrebbe applicare ai “principati distrettuali” che sono “costruzioni signorili”: al tempo del loro sorgere non erano ancora “Stati” nel senso odierno, ma lo sono diventati. La signoria può essere su popoli, imperi, territori, servi fondiari ed avvocazionali; e così via. Tutti i rapporti signorili riposano sulla “fedeltà” (Treue). A) Sulla ammissibilità del concetto di Stato nel Medioevo Rudolph Sohm e Georg von Below {19 gennaio 1858 – 20 ottobre 1927} ritennero applicabile il concetto di Stato sullo Stato tedesco del Medioevo, mentre Otto von Gierke {Stettino, 11 gennaio 1841 – Berlino, 10 ottobre 1921} negò che si possa parlare di un “potere statale unitario”. Tale potere “sarebbe sorto solo nella città medievale, intesa come corporazione e interpretata come unione consapevole di individui”. Otto Brunner sostiene che la moderna nozione di Stato rappresenta uno strumento concettuale che non consente un’adeguata caratterizzazione delle formazioni socio-politiche dell’età di mezzo. Il concetto moderno di Stato è, a parer suo, un concetto troppo ampio, un “superconcetto”. In realtà Otto Brunner {1898-1982; storico austriaco} considera solo l’elemento della signoria (Herrschaft) e non l’altro essenziale della indipendenza. Proprio Otto von Gierke ci rammenta che già la giurisprudenza aveva elaborato, a partire da Bartolo di Sassoferrato {Sassoferrato, 1314 – Perugia, 1357}, la distinzione fra entità corporative aventi e non aventi un superior, ed era giunta a parificare queste ultime all’Impero. Otto von Gierke ritiene che all’organizzazione politica del Medioevo possa riportarsi, nel suo nucleo essenziale, il concetto moderno di Stato, quale idea relativa ad una corporazione territoriale sovrana ed indipendente. non il potere dello Stato, era ripartita tra monarchia e popolo, fra sovrano e nobiltà. A ciò corrispondeva una ridotta strutturazione istituzionale dello Stato”, e che “lo Stato per associazioni personali si basava in larghissima misura sulla personalità del suo capo”. B) Diritto feudale e Impero Theodor Mayer pose in evidenza come a partire dal 1180 il rapporto feudale si era tradotto nel legame fra il re e i sudditi, di modo che “la gerarchia feudale finì per determinare la struttura per ceti della popolazione”. Il diritto feudale tuttavia, costituendo più una forma che una forza creativa di Stato, “si trasformò gradualmente in un diritto statale di un Impero con una struttura dualistica e particolaristica. C) Lo Stato patrimoniale L’opinione tradizionale presenta lo Stato patrimoniale come successivo allo Stato feudale. Scrive Guido Astuti {1910-1980} che “la definizione dello Stato patrimoniale come quello in cui la sovranità non viene attribuita all’intero ordinamento, che mancherebbe di personalità giuridica, ma alla persona fisica del sovrano, considerato signore di ogni suo elemento, deve considerarsi […] una formula tralatizia priva di effettivo contenuto storico; una formula che sarebbe arbitrario interpretare con rigore dommatico, per l’impossibilità di identificare il concetto moderno della sovranità con quello del dominium medioevale”. D) Feudalesimo e patrimonialismo Il “Feudalesimo” può essere inteso come peculiare al mondo romano-germanico, o può essere esteso a caratterizzare un momento nella storia costituzionale di vari popoli. Georg von Below considera l’Impero alla stregua di “Stato” e ravvisa nel Feudalesimo “un processo politico- costituzionale attraverso cui vengono sottratti sudditi all’Impero, nella forma della mediatizzazione sotto autorità private”. Per Otto Hintze {27 agosto 1861 – 25 aprile 1940} l’Impero: α. costituisce uno “Stato composito”, le cui parti non sono compiutamente integrate; β. “manifesta la prevalenza del momento personale su quello istituzionale nell’esercizio del potere”; χ.€ è caratterizzato dal principio gerarchico basato sullo “stretto nesso fra Stato e Chiesa senza che siano posti precisi confini fra potere spirituale e potere temporale”. Secondo Otto Hintze il Feudalesimo assolve tre funzioni: α. militare: separazione di un ceto di guerrieri altamente professionale e molto abile, legato da fedeltà al sovrano; β. economico-sociale: costituzione di una forma economica a base signorilterriera-contadina, che assicura al ceto privilegiato dei guerrieri un’entrata da rendita esente da lavoro; χ.€ erezione locale a signori di questa nobiltà militare e loro influsso decisivo in un’unità statale predisposta a ciò. Da ciò emerge come Feudalesimo e Patrimonialismo siano strettamente interconnessi. 4. Lo Stato moderno nell’età dell’Assolutismo A) Le origini dello Stato moderno: Principi e Ceti Il processo di formazione dello Stato moderno prende avvio nel secolo XIII. Werner Näf {7 giugno 1894 – 19 marzo 1959} ne riconosce i prodromi nei radicali mutamenti intervenuti in Francia nel 1300, mentre per l’Inghilterra ne indica le tappe fondamentali nella conquista normanna (battaglia di Hastings: 14 ottobre 1066) e nella Magna Charta (1215). Scrive Werner Näf: “Il passaggio dall’ordinamento giuridico feudale allo smembramento feudalistico aveva portato non solo alla parcellizzazione del territorio statale, non solo alla dispersione del diritto statale, non solo a un trasferimento della competenza sovrana da una o da poche mani in molte o innumerevoli altre, ma questa competenza sovrana aveva perduto, in certa misura, il suo carattere statuale ed era diventata di tipo privato […]. “Privato” ha qui un significato ben preciso: cioè privo del carattere statale”. B) L’Assolutismo: prodromi Gerhard Albert Ritter {6 aprile 1888 – 1 luglio 1967} ha sostenuto – contro la tesi di Burckhard – che le origini dello Stato moderno non devono ricercarsi in Italia. Tale origine va ricercata nell’organizzazione politica delle grandi monarchie. In esse, il potere dei prìncipi si accrebbe e si espanse a scapito delle prerogative delle entità corporative cittadine. Gianfranco Poggi {1934; laureato in Giurisprudenza all’Università di Padova, è Professore ordinario di Sociologia politica presso l’Università degli Studi di Trento} scrive che “L’erosione progressiva del dualismo caratteristico del sistema cetuale condusse a quel sistema assolutistico che può essere considerato come la prima incarnazione storica dello Stato moderno”. È evidente tuttavia che il potere assoluto dei monarchi non sorge agli albori dello Stato moderno. Federico Chabod {Aosta, 23 febbraio 1901 – Roma, 14 luglio 1960} richiama quel che si dice a Roncaglia {frazione del comune di Piacenza} nel 1158: la volontà dell’imperatore è diritto (tua voluntas ius est). Le nuove monarchie traggono forza dall’esistenza – in pace ed in guerra – di eserciti permanenti, formati anche da milizie mercenarie. Nasce inoltre in questo periodo – e qui il primato è senz’altro degli Stati italiani – una diplomazia permanente, che permette lo sviluppo del principio dell’“equilibrio europeo” e della “bilancia del potere”. C) Lo Stato assoluto e le vicende economiche Nell’illuminismo si ricomprendono indirizzi di pensiero assai diversi tra loro, anzi opposti. David Hume {Edimburgo, 26 aprile 1711 – Edimburgo, 25 agosto 1776}, illuminista, demolisce sistematicamente la pretesa illuministica di aver fondato i suoi valori su una solida base. Gli esponenti di spicco del pensiero illuministico ebbero dello Stato – e dello Stato assoluto, in particolare – una visione realistica e positiva, nonché – con Montesquieu {Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e de Montesquieu; La Brède, 18 gennaio 1689 – Parigi, 10 febbraio 1755} – specificamente programmatica. Originariamente l’Illuminismo era convinto che lo Stato fosse in grado di provvedere al benessere del singolo. Gli illuministi non erano affatto favorevoli al governo del popolo: Pierre Bayle {Carla- le-Comte, 18 novembre 1647 – Rotterdam, 28 dicembre 1706} sottolineava i lati negativi della democrazia attica, e Voltaire {François-Marie Arouet; Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30 maggio 1778} riteneva possibile un effettivo governo del popolo soltanto in “paesi molto piccoli”. L’atteggiamento scettico del tardo Illuminismo rese più difficile l’accettazione di una dottrina politica determinata. Secondo il cancelliere austriaco Kaunitz {Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg; Vienna, 1711 – Mariahilf, 1794} il benessere della monarchia è intimamente collegato al benessere dei sudditi. La politica delle riforme contrassegna così il periodo del c.d. Assolutismo illuminato. Guido Astuti: i caratteri dell’Assolutismo illuminato [brano] La politica delle riforme appare spesso diretta, piuttosto che ad un profondo rinnovamento delle strutture della società e dello Stato, a distruggere tutte le residue istituzioni ancora capaci di porre qualche limite al dispotismo dei governi. La politica delle riforme non presenta caratteri di perfetta uniformità, sia nell’oggetto che nei fini: diverse sono infatti le esigenze dei vari Stati. Le riforme in alcuni Paesi sono specialmente rivolte agli ordinamenti politico-sociali, in altri piuttosto all’organizzazione della vita economica, in altri ancora alla disciplina dei rapporti tra Stato e Chiesa. L’opera dell’assolutismo illuminato del secolo XVIII segna l’inizio di una profonda trasformazione della società e dello Stato: l’attuazione delle nuove idee è pur sempre condizionata da concreti interessi politici, ma i sovrani meritano generalmente la qualifica di “illuminati”, e si distinguono dai loro predecessori, troppo spesso sensibili alle sole esigenze della ragion di Stato. 6. Lo Stato inglese A) Lo sviluppo costituzionale La storia costituzionale britannica si fa comunemente risalire alla “conquista” effettuata da Guglielmo I {Falaise, 1028 – Rouen, 9 settembre 1087; fu il primo re d’Inghilterra della dinastia dei Normanni, conosciuto anche come Guglielmo di Normandia, Guglielmo il Conquistatore e Guglielmo il Bastardo (in quanto figlio illegittimo di Roberto il Magnifico, duca di Normandia e di Arlette di Falaise, figlia di un conciatore)} nel 1066 {battaglia di Hastings: 14 ottobre 1066}. La monarchia franco-normanna promosse la formazione della Common law attraverso l’integrazione della tradizione giuridica britannica con gli apporti del diritto romano e canonico. Scrive George Macaulay Trevelyan {Londra, 16 febbraio 1876 – Cambridge, 21 luglio 1962} che il diritto comune “fu un prodotto della Conquista normanna. Gli uomini che lo elaborarono, nel periodo intercorso fra il regno di Enrico II e quello di Edoardo III, erano studiosi di diritto e uomini di legge, che pensavano e pronunciavano le loro arringhe in francese, pur scrivendo gli atti ufficiali in latino”. Il Parlamento – istituzione tipica dello Stato inglese – si sviluppò grazie ad un progressivo depotenziamento della monarchia. Documento fondamentale dello sviluppo costituzionale inglese è la Magna Charta, concessa da Giovanni senza terra {Oxford, 24 dicembre 1166 – Newark-on-Trent, 18 ottobre 1216} ai baroni nel 1215. Paolo Biscaretti di Cuffia scrive che da quell’epoca in avanti, tranne brevi periodi di carattere eccezionale, la limitazione dei poteri regi non venne mai meno in Gran Bretagna. Alcuni princìpi fondamentali dell’attuale diritto pubblico inglese trovarono proprio in quel documento del XIII secolo il loro primo inizio (ad es., dal riconoscimento che i baroni e gli altri uomini liberi avrebbero dovuto essere giudicati in materia penale non da funzionari regi, bensì dai propri pari, prese origine l’istituto della “giuria”). Simone di Montfort nel nuovo Parlamento – convocato contro la volontà del Re Enrico III {I ottobre 1207 – 16 novembre 1272} fece ammettere due cavalieri per ogni Shire {Contea} e due borghesi per ogni borgo: per questa riforma fu chiamato padre della Camera dei Comuni. Emilio Crosa: le conquiste del Parlamento contro l’assolutismo monarchico [brano] Sotto il regno di Giacomo I {Edimburgo, 19 giugno 1566 – Londra, 27 marzo 1625; figlio di Maria Stuart, regina di Scozia; con lui la dinastia degli Stuart subentrò a quella dei Tudor; fu Re di Scozia e per primo regnò su tutto il Regno Unito, avendo unificato le corone di Inghilterra, Scozia e Irlanda} il Parlamento e l’ordine giudiziario rivendicarono indipendenza e diritti. La Camera dei Comuni reclamò il diritto di consentire le imposizioni, fondandosi sulla tradizione e sullo statuto “De tallagio non concedendo”. Giacomo I usò la forza facendo imprigionare i capi dell’opposizione. Il potere giudiziario si arrogò il diritto di decidere sulle questioni costituzionali poggiandosi sulla dottrina che fin dal Medioevo vedeva la common law essere superiore al re. Un primo conflitto tra il re e la Camera scoppiò nel primo Parlamento del 1625 sul diritto di inchiesta sulle spese fatte. Non si esaurì allora ma risorse nel Parlamento successivo. Un deputato, Digges, disse che le leggi inglesi insegnavano che il Re non poteva comandare cose dannose od illegali: quando ciò succedesse, ne avrebbero dovuto rispondere gli esecutori. Fu poi proclamata ai Comuni la necessità di chiarire gli articoli della Magna Charta e degli altri statuti, che garantivano le libertà fondamentali, con un atto solenne declaratorio. La Petition of rights ottenne infine la sanzione reale: in essa si stabilirono i diritti dei cittadini e la supremazia del Parlamento. B) La costituzione inglese nello sviluppo storico del popolo britannico Alla Magna Charta ed alla Petition of Rights del 1628 fecero seguito – nella storia costituzionale inglese – il riconoscimento definitivo dell’Habeas corpus (Habeas corpus amendment Act) nel 1629 e la Declaration of Rights redatta dalle Camere ed accettata da Guglielmo e Maria d’Orange. americano. Locke stesso rifiutò la posizione deista. L’Illuminismo non fu mai in grado di svellere le radici profonde dell’etica protestante, che costituì una delle forze profonde della visione democratica americana. Scrive Clinton Rossiter {1917-1970} che “All’inizio dell’era rivoluzionaria l’avvenire religioso d’America era ormai definito. L’America sarebbe stata una terra di libertà religiosa e la politica americana si sarebbe svolta in conseguenza. Ciò nonostante il vero sentimento religioso era forse più forte e più diffuso che in molti paesi europei dove regnavano il conformismo e la chiesa di Stato. I principi della nascente democrazia americana sarebbero stati di carattere profondamente morale se non addirittura religioso”. Nella “Dichiarazione d’Indipendenza” (4 luglio 1778) viene fatto appello a “determinati inalienabili diritti” che il Creatore ha concesso agli uomini. C) Dai principi astratti alle situazioni concrete Durante la convenzione di Filadelfia del 1787 venne varata la Costituzione degli Stati Uniti. Scrive Mario D’Addio che “La classe politica americana che aveva condotto vittoriosamente la Rivoluzione servendosi della tematica elaborata dal giusnaturalismo, ora s’accorgeva che quella ideologia […] minacciava di bloccare qualsiasi iniziativa tendente a dare al nuovo Stato federale una concreta struttura ed era assolutamente incapace a comprendere la dinamica delle società che cercavano di organizzarsi a Stato, di intendere cioè la positiva natura del potere politico, come strumento in virtù del quale l’interesse si fa libertà”, e che “questo era il problema che si poneva alla Convenzione di Filadelfia”. D) I fattori storici Non dunque il puro razionalismo illuministico, ma la stretta aderenza alle circostanze storiche ed alle necessità sociali determinò il sorgere della Carta costituzionale americana: John Dikinson affermò che “L’esperienza deve essere la nostra sola guida. Il ragionamento potrebbe sviarci”. E) La frontiera Il termine “Frontiera” dà l’idea delle spinte colonizzatrici dirette verso le estreme lande occidentali, e dei sacrifici materiali che tali vicende imponevano. Da questa eredità, che trae avvio dall’epoca coloniale, nasce nel popolo americano una visione della vita del tutto nuova. F) Il radicamento nel diritto inglese L’ordine americano si incentra nel diritto inglese, cosicché si può parlare di un sistema giuridico anglo-americano. Russel Kirk scrive a questo proposito che “Le colonie americane raggiunsero la maturità dopo l’approvazione del Bill of Rights ” (1628), quando sopraggiunsero la rapida crescita della popolazione e la relativa prosperità delle colonie nordamericane. I coloni americani partivano dal presupposto di partecipare delle libertà degli inglesi nati liberi, condizione garantita da diritti costituzionali specifici. Su queste convinzioni poggiano la dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione americana. G) Il sistema giuridico anglo-americano Il diritto anglo-americano è un diritto giudiziario, non scritto, connesso alla consuetudine e radicato nell’etica popolare. Il giudice presiede il processo, è “super partes”, mentre il compito di accertare le accuse è di competenza della giuria. Alla Common law si affianca l’equity, sorta per tutelare alcuni casi con criteri di giustizia estranei alla procedura della Common law. Terza fonte di diritto è lo statute, l’atto legislativo del Parlamento. Trattasi di atti scritti: qui vale la regola “lex posterior derogat priori”. H) La separazione dei poteri Il principio della separazione dei poteri aveva trovato attuazione nelle Costituzioni dei singoli Stati. In esse, l’organizzazione statuale era articolata in due Assemblee legislative, in un potere esecutivo ed in un potere giudiziario dotato di indipendenza. Il principio della separazione dei poteri trovò piena e definitiva attuazione alla Convenzione di Filadelfia (1787). Al principio della separazione dei poteri fa riscontro quello dei “pesi e contrappesi”, che evitano l’uso arbitrario del potere. Corollario del principio della separazione dei poteri è la dottrina secondo cui le “attribuzioni dello Stato sono enumerate”. Il Governo può esercitare solo le mansioni ad esso attribuite. Ambrosini: Lo Stato federale [brano] La nuova struttura data all’Unione degli Stati è quella di “Stato federale”, che consiste: α. nel conferire da una parte all’Unione degli Stati una somma determinata di poteri sovrani direttamente operanti riguardo ai cittadini dell’Unione, sì da farla assurgere alla condizione di unità avente carattere statuale, e perciò dotata dei tre poteri fondamentali dello Stato (a differenza della Confederazione che era dotata soltanto del potere deliberante e non di quello esecutivo e del giudiziario), a “Stato federale”; β. e nel lasciare d’altra parte ai singoli Stati componenti l’Unione il carattere statuale con l’autorità ed i poteri sovrani non attribuiti all’Unione, sì che essi Stati continuano a rimanere tali e vengono denominati “Stati membri”. Nella formula adoperata per la formazione dell’organismo unionale del 1778 (la Confederazione) si parla di Stati che si confederano, in quella dell’organismo del 1787 (la Federazione) si parla del popolo degli Stati Uniti, che decreta e stabilisce la Costituzione. Nel primo caso si ha un “Accordo” che porta alla formazione di una “Lega”; nel secondo una “Costituzione”, che rappresenta l’espressione ed il contrassegno di un corpo politico-territoriale avente carattere statale, di uno Stato composto da unità politico-territoriale avente carattere statale. giuridico senza precedenti. I Padri della Costituzione crearono dunque un nuovo sistema di due ordinamenti giuridici coesistenti, quello dello Stato unionale, federale, e quello degli Stati Membri, ambedue dotati di sovranità nell’orbita dei poteri e coi limiti prescritti dalla Costituzione. John Clarke Adams: Gli attributi della Costituzione [brano] La Costituzione degli stati Uniti è una costituzione formale, è rigida, è una costituzione federativa ed oltre al suo valore giuridico-positivo ha un valore mistico. Costituzione formale Gli Stati Uniti d’America hanno due tipi di Costituzione: la Costituzione in senso materiale che ha ogni corpo sociale e che consiste nel suo ordinamento, e la Costituzione in senso formale, un documento che dovrebbe contenere tutta la Costituzione in senso materiale e nient’altro che questa, ma che non è mai riuscito ad assolvere questo compito. Costituzione rigida La Costituzione americana è del tipo rigido. Le norme in essa contenute sono considerate gerarchicamente superiori alle norme legislative. Questa supremazia varia secondo la c.d. rigidità della Costituzione formale. Nelle Costituzioni rigide, che difficilmente si emendano, la norma costituzionale ha una forte supremazia sulla legge ordinaria. Dove il processo di emendamento è più simile al processo legislativo ordinario, la supremazia della norma costituzionale è di minor rilievo. Dalla sua entrata in vigore nel 1788 fino alla fine del 1951 sono stati aggiunti solo 22 emendamenti alla Costituzione americana. La Costituzione americana è anche una costituzione federativa. Gli Stati Uniti d’America sono un governo con poteri limitati. Tutto il loro potere viene dalla Costituzione. Non hanno una fonte propria dalla quale possano derivare altri poteri da aggiungere a quelli conferiti dalla Costituzione. Tutti i poteri dello Stato federale derivano dalla delega di poteri fatti dai singoli Stati con l’atto d’adesione alla Federazione. Valore mistico-sentimentale della Costituzione La Costituzione federale americana è simbolo, quasi sacro, di questa nazione e delle aspirazioni del suo popolo. Nel cuore degli americani occupa il posto che ha il re nei cuori inglesi. Come il re, la Costituzione non può avere torto. I giuramenti di fedeltà degli alti funzionari governativi e degli ufficiali delle forze armate si fanno alla Costituzione. 8. Le Costituzioni rivoluzionarie francesi A) I fermenti di mutamento nella Francia pre-rivoluzionaria Il borghese fu il protagonista della Rivoluzione francese, nonché il vero beneficiario delle conquiste rivoluzionarie. Dai medici italiani (Francesco Redi {Arezzo, 18 febbraio 1626 – Pisa, 1º marzo 1697}) ai fisici e naturalisti olandesi, dagli anatomisti francesi a quelli scandinavi, è tutto un susseguirsi di scoperte. In campo politico, alcuni pensatori si erano resi interpreti dei fermenti di innovazione che s’erano destati in Francia. B) Lo Spirito dell’Illuminismo Esiste un divario fra le autentiche conquiste della scienza ed il “feticismo scientifico” dei filosofi. Pierre Gaxotte {Revigny-sur-Ornain, 29 gennaio 1893 – Parigi, 21 novembre 1982} scrive che “Le ipotesi per lo spirito scientifico sono soltanto costruzioni provvisorie che consentono di riunire un certo numero di risultati sperimentali. L’esperienza resta il giudice supremo: nessuna teoria […] resiste alla smentita. Ma i filosofi non praticarono mai questa sottomissione del soggetto all’oggetto. Non avrebbero potuto farlo senza condannarsi da sé. Il sentimentalismo declamatorio al quale si abbandonavano, pur invocando continuamente la ragione, li rendeva inadatti all’osservazione ed insensibili all’esperienza”. Hippolyte Adolphe Taine {Vouziers, 21 aprile 1828 – Parigi, 5 marzo 1893} rileva il completo disinteresse dei filosofi nei confronti della ricerca storiografica rigorosa. Rileva Hippolyte Adolphe Taine che “Agli inizi del 1789, è scontato che si sta vivendo nel “secolo dei lumi”, nell’“età della ragione”: “prima, il genere umano era nell’infanzia, oggi è diventato maggiorenne”. La verità si è finalmente manifestata e, per la prima volta, si sta per vedere il suo regno sulla terra. Il suo diritto è supremo, perché, per natura, è universale. Per queste due credenze, la filosofia del Settecento somiglia ad una religione”. Antonio Baldassarre-Carlo Mezzanotte: le Costituzioni rivoluzionarie [brano] Protagonista della rivoluzione fu il “terzo stato”, che si contrapponeva al clero (primo stato) ed ai nobili (secondo stato); il terzo costituiva un insieme composito nel quale prevaleva la borghesia d’ispirazione moderata e liberale, ma non mancavano settori di piccola borghesia (artigiani e bottegai), di contadini e di popolazione urbana, maggiormente orientati verso forme di lotta più estreme. La borghesia liberale guardava all’esperienza inglese, di cui apprezzava la divisione dei poteri divulgata in Francia mezzo secolo prima dal barone di Montesquieu (“Lo spirito delle leggi” è del 1748), i settori più radicali, ed in particolare il gruppo di giacobini (Robespierre, Saint-Just, Dalton ecc.), si ispiravano alle teorie democratiche di Jean-Jacques Rousseau. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel 1789 e la Costituzione del 1791 hanno rappresentato l’espressione più diretta dell’egemonia La permanente eredità delle Costituzioni rivoluzionarie consisterà nel principio della sovranità popolare. 9. La comparazione fra la Costituzione americana e le Carte costituzionali A) Premessa Al laborioso sviluppo costituzionale francese si contrappone la stabilità della Costituzione americana. Un confronto fra queste due espressioni epocali del costituzionalismo è rappresentato dal saggio dello scrittore tedesco Friedrich Gentz, tradotto in inglese da Adams col titolo The American and French Revolution Compared. Le tesi fondamentali dell’opera sono state efficacemente espresse da Russel Kirk. Russel Kirk: La comparazione fra la rivoluzione americana e la rivoluzione francese nel pensiero di Gentz [brano] Friedrich Gentz contrappone la solida conoscenza che gli americani avevano dei diritti naturali all’illusione francese degli astratti “diritti dell’uomo”, “una sorta di formula magica con cui, a poco a poco, vennero dissolti tutti i legami delle nazioni e dell’umanità”. Gli americani cercavano la sicurezza; i francesi, attraverso la loro dottrina armata, il potere privo di responsabilità. Come nota Friedrich Gentz, anche nel corso della rivoluzione americana avvennero persecuzioni, crudeltà, confische ed esilii di persone oneste, ma queste furono singoli esempi d’ingiustizia. Quest’enorme differenza nella conduzione delle due rivoluzioni fu prodotta dalle contingenze e dalle dottrine. Entro i confini dell’America settentrionale gli Americani non avevano nulla da rovesciare se non qualche ufficiale ed un esercito di occupazione inglesi, mentre i rivoluzionari francesi avevano un sistema politico potente e complesso, l’Antico Regime, da abbattere. Gli americani non solo si richiamavano agli antichi “diritti costituzionali”, ma in quei diritti ed in quelle istituzioni credevano fermamente, mentre i francesi erano affascinati dai “dogmi dottrinari”, che oggi chiamiamo ideologia, e giustificavano la loro ferocia immaginando un futuro paradiso terrestre. Come scriverà Tocqueville {1805-1859}, a metà scala i francesi si gettarono dalla finestra per raggiungere il suolo più in fretta. 10. Gli Stati costituzionali moderni e le Dichiarazioni dei diritti A) La tesi di Carl Schmitt Negli Stati Uniti vi fu, pur nella “separazione”, una continuità negli usi civili, cioè nell’“ethos”; al contrario, in Francia l’eclatante novità dei princìpi astratti produsse una cesura nel corpo della nazione. Non sembra perciò condivisibile la tesi di Carl Schmitt {Plettenberg, Westfalia, 11 luglio 1888 – Plettenberg-Pasel, 7 aprile 1985}, per il quale vi è identificazione tra l’unità politica di un popolo e la “dichiarazione dei diritti fondamentali”. Secondo Martin Kriele la realtà costituzionale americana contemplerebbe non un “diritto” alla libertà religiosa, ma unicamente una “tolleranza”. La Costituzione trova il suo centro nella struttura organizzativa dello Stato, ovvero – secondo le parole di Madison – “nel modo in cui la massa dei poteri è distribuita tra gli organi”, perciò fra lo Stato – massima espressione del potere politico – e la sfera di libertà dell’individuo si rende operante una polarità dialettica. È questa l’opinione di Franz Neumann. Franz Neumann: Il concetto di libertà politica [brano] La libertà è, prima di ogni altra cosa, mancanza di costrizione: quest’idea, che sta alla base della teoria liberale della libertà, è il concetto chiave del costituzionalismo. Trasferito in politica, l’aspetto negativo unilaterale della libertà ha portato necessariamente alla formula “cittadino contro Stato”. Il presupposto di questa formula è l’individualismo filosofico, l’idea che l’uomo sia una realtà a prescindere dal sistema politico in cui vive. Il potere politico, incorporato nello stato, sarà sempre estraneo all’uomo. La libertà giuridica corrisponde in linea di massima a quella garantita dalle varie carte costituzionali. Le libertà civili costituiscono una presupposizione a favore dei diritti dell’individuo e contro il potere politico dello Stato. Si tratta di una presupposizione perché non c’è – ed ovviamente non potrà mai esserci – un sistema politico che riconosca assolutamente ed incondizionatamente la sfera di libertà dell’individuo. Lo Stato può interferire nelle libertà dell’individuo, ma deve prima provare che l’intervento è legittimo. Da questa analisi dei diritti civili emergono tre postulati: α. l’onere della prova è sempre a carico dello Stato; β. l’unico mezzo di prova è il riferimento ad un diritto; χ.€ il procedimento con cui si perviene ad una decisione è regolato dalla legge. Risulta chiaramente che il significato di questa formulazione dipende da come si intende il termine diritto. In astratto esistono tre possibili definizioni: α. si può intendere per diritto un sistema di regole di comportamento ritenuto oggettivamente valido in qualunque regime politico (così la teoria tomistica); β. si può intendere per diritto la totalità dei diritti individuali che si presumono esistenti prima della creazione del sistema politico e, nella loro essenza, non toccati da esso (la posizione di Locke); χ.€ si può intendere per diritto le leggi positive dello Stato, ritenute valide se create in accordo con una costituzione scritta o tacita. Ai fini della nostra analisi i primi due significati del termine diritto possono essere tralasciati. Nella realtà della vita politica i diritti naturali (sia nella prima che nella seconda formulazione) hanno validità solo quando siano istituzionalizzati, solo quando ci sia un ente autorizzato capace di renderli operanti contro opposti provvedimenti di diritto positivo. B) I diritti individuali La Costituzione francese del 1789 stabilisce come diritti fondamentali più importanti “la libertà, la proprietà, la sicurezza e il diritto di resistenza, ma non la libertà di religione e nemmeno la libertà di associazione” (Carl Schmitt). Nel “Bill of Rights Nello Stato contemporaneo funziona un doppio sistema di limitazioni. Il primo condiziona lo Stato, il cui potere è limitato dalla preesistenza dei diritti; il secondo condiziona gli individui, la cui attività privata è limitata affinché ciascun individuo abbia, a parità di condizioni, le medesime possibilità. La seconda limitazione è conseguenza della prima. La democrazia non annulla il liberalismo, e per questo possiamo parlare di liberal-democrazia; essa, però, si differenzia dal liberalismo, in quanto puntualizza un problema ignorato nell’epoca liberale, quello relativo all’intervento dello Stato nel settore privato. II – La teoria generale dello Stato e il concetto di Stato 1. Oggetto e compiti della teoria generale dello Stato A) L’“ontologia” dello Stato e il rapporto fra metodo ed oggetto Come riconosce Herbert Krüger {Krefeld, 14 dicembre 1905 – Amburgo, 25 aprile 1989}, la teoria generale dello Stato ha il compito di esaminare l’“essere dello Stato” (das Sein des Staates): compito che egli ritiene disatteso dalle tendenze dottrinali statualistiche dominanti nell’ultimo secolo. Questa preliminare determinazione dell’oggetto si traduce nell’elaborazione di uno statuto ontologico del fenomeno statale. Ora – diversamente da quanto ritiene Friedrich Koja – l’ontologia dello Stato non costituisce un settore della filosofia statualistica (Staatsphilosophie), nel cui àmbito possano ricomprendersi le “idee dello Stato in sé” (Idee des Staates in sich). Infatti gli indirizzi della dottrina generale dello Stato – di tipo sia sociologico-descrittivo (Ludwig Gumplowicz, Schmidt, Rudolf Smend), sia di tipo istituzionalistico (Maurice Hauriou, Santi Romano), sia di carattere giuridico formale (Paul Laband, Georg Jellinek, Hans Kelsen) – non possono intendersi come attinenti alla sfera di una “visione idealizzante” (ideierende Wesensschau), ma devono avere diretto riferimento all’àmbito degli oggetti reali. Scrive Peter Badura che “L’essere in quanto “essenza” è l’oggetto della filosofia, mentre al dominio della conoscenza scientifica appartengono solo gli oggetti. […] Gli oggetti reali si caratterizzano per la loro dimensione spazio-temporale. […] Per contro, l’essere “ideale” è formato da oggetti trascendentali, […] essi sono “privi di tempo”, “atemporali””. Occorre operare una netta distinzione tra la filosofia dello Stato, intesa quale metafisica, e l’ontologia dello Stato. Quest’ultima, che pur si avvale necessariamente di concetti e di sussidi filosofici, è tuttavia di stretta pertinenza alla teoria generale dello Stato. L’ontologia dello Stato designa anzitutto il rapporto fra metodo ed oggetto. Per il neokantismo di Hans Kelsen {Praga, 1881 – Berkeley, 1973}, è il metodo a produrre l’oggetto. Di contro, Felix Ermacora ritiene che l’oggetto preesista al metodo: il metodo è stabilito dall’oggetto di conoscenza. A questa stregua, lo Stato è per Felix Ermacora una grandezza empirica. Tale approccio empirico non è condiviso da Peter Badura, che, riferendosi a Max Weber {Erfurt, 21 aprile 1864 – Monaco di Baviera, 14 giugno 1920} – che nella “realtà empirica” dello Stato ravvisa “una infinità di azioni umane effettuate o subite” –distingue l’unità dello Stato, quale si realizza nell’astrazione concettuale, dall’oggetto che sussiste indipendentemente dalla comprensione intellettuale. B) La dottrina generale dello Stato in rapporto con la politologia, Il fatto che gli Stati si scontrino con altri Stati comporta che il diritto internazionale oggi debba essere incluso nella dottrina generale dello Stato. b) Dottrina dello Stato e diritto comparato Di decisiva importanza per la dottrina generale dello Stato è il diritto comparato. Il diritto comparato può essere applicato ad ogni settore del diritto: diritto civile, diritto penale, diritto pubblico. Tuttavia esso riveste un’importanza del tutto particolare per la dottrina generale dello Stato. Il diritto comparato riceve una salda legittimazione ove si intenda procedere al di là di un puro accertamento conoscitivo. Il diritto comparato è idoneo infatti a scoprire la “natura delle cose” (Natur der Sache), ovvero la natura giuridica delle istituzioni, al cui perfezionamento non può evidentemente rinunciare alcuno Stato. Se non viene trovata alcuna regola corrispondente, è la situazione concreta ad imporre, di necessità, la corrispondente decisione. È questo il caso di uno Stato che versa in una situazione di emergenza e vede minacciata la propria esistenza. In base all’esperienza, se Stati in consimili situazioni possono essere confrontati, occorre constatare che anche le relazioni dei poteri statali sono consimili, dato che le costrizioni alla quale sono sottoposti ne giustificano la comparazione. Ma non è solo questa constatazione a legittimare l’inclusione del diritto comparato nella dottrina generale dello Stato. Nell’interpretazione di ogni ordinamento giuridico può essere necessario ricorrere – al fine di colmare le lacune – alle regole di un ordinamento giuridico straniero. Occorre solo fare attenzione che i sussidi interpretativi non vulnerino il sistema, ma vengano impiegati in conformità al sistema stesso. Anche il diritto internazionale richiede l’uso di punti di vista comparatistici. Come fonte giuridica sussidiaria accanto a trattati e convenzioni, lo Statuto della Corte internazionale di Giustizia menziona i principi generali del diritto (allgemeine Rechtsgrundsätze) che il giudice internazionale può applicare, nella decisione di controversie, ove gli sia dato di scoprirli con l’ausilio del diritto comparato. Questi princìpi generali consistono in regole di diritto oggi pressoché incontroverse, che sono nate negli ordinamenti giuridici nazionali in modo originario, e perciò indipendentemente le une dalle altre. La Corte internazionale di Giustizia stabilisce che quando i grandi sistemi giuridici hanno elaborato tali regole, sia per il diritto civile, sia per il diritto penale, sia per il diritto pubblico, l’uso di esso non solo è legittimo, ma anche doveroso, ove le fonti primarie del diritto internazionale restino improduttive ovvero non siano reperibili. Un ultimo aspetto resta ancora da chiarire, circa l’importanza del diritto comparato. Ogni ordinamento giuridico può ad un certo momento essere abbandonato in quanto non è più idoneo a soddisfare le esigenze richieste dallo sviluppo sociale o tecnico delle condizioni di vita. Così dopo i trenta anni di durata della legge fondamentale è stata affidata ad una Commissione d’inchiesta un’indagine in questo senso. La dottrina generale dello Stato non può rinunciare al diritto comparato in campo giuspubblicistico: giuridico come istituzione; f. la dottrina statualistica dei “Due strati” (Die Zwei-Schichten-Lehre); g. la teoria dell’“Integrazione”; h. la teoria della “Gestalt”. 4. La dottrina organica L’esame della dottrina organica sembra disattendere le premesse antimetafisiche dianzi enunciate. L’analogia organica – che trova i suoi riferimenti in Platone, Seneca e San Paolo – incontrò notevole fortuna nel primo Ottocento, allorché lo Stato venne configurato come organismo etico- spirituale. Tale concezione ha il suo antecedente diretto nella filosofia di Friedrich Schelling {1775-1854}. A) L’organismo “etico-spirituale” quale struttura costitutiva della costruzione giuridico-statualistica La concezione organica dello Stato ricevette la più compiuta elaborazione nelle opere di Joseph Kaspar Bluntschli {7 marzo 1808 – 21 ottobre 1881} e di Otto von Gierke. Joseph Kaspar Bluntschli considera lo Stato “un ente che agisce con volontà propria”. La tesi secondo la quale il popolo si organizza ad unità nello Stato configura lo Stato medesimo come persona giuridica – ma anche etica, sociale ed economica – che assurge a titolare della sovranità. Scrive Joseph Kaspar Bluntschli che “Lo Stato quale persona è sovrano. Perciò denominiamo tale sovranità appunto come sovranità statale. Essa non è anteriore allo Stato, né estranea ad esso, ma costituisce la forza e la maestà dello Stato medesimo”. Otto von Gierke, il maggiore esponente dell’organicismo statualistico, approfondì le tematiche delle associazioni corporative germaniche e – come rileva Erik Wolf {13 maggio 1902 – 13 ottobre 1977} – “scoperse, quale fondamentale istituzione di tal tipo, la “Genossenschaft”. In essa trovò il prototipo per l’ordinamento sociale dello Stato tedesco”. Il concetto di “Genossenschaft” costituì il nucleo del pensiero organicistico gierkiano. Otto von Gierke stesso pone il collegamento fra la teoria dello Stato quale organismo e la teoria della corporazione. Otto von Gierke identifica lo Stato e popolo e spinge la metafora antropomorfica fino al punto di ravvisare nel diritto l’anima, nell’insieme dei cittadini il corpo dell’organismo statale. Egli si oppone alla tesi che denunzia l’assenza di valori giuridici (juristische Wertlösigkeit) nel concetto di organismo statale. Otto von Gierke ribadisce che l’organismo statale non è un’entità atomisticamente costruita, ma un’organizzazione articolata (Gliederung) di elementi. Egli afferma che “Ogni organismo si pone come unità attiva, allorché determinate parti o complessi di parti – quali organi – si incaricano di determinate funzioni”. Organi e funzioni sono regolati dal diritto, ponendosi come base il requisito della “conformità alla Costituzione”. Né il concetto di organismo statale può dirsi in contrasto con la persona giuridica statale, dal dove è la volontà a regolare la volontà, per necessità logica ci si trova di fronte e soltanto al concetto della forza {la volontà senza il diritto è pura forza}. Il diritto non consiste nella volontà collettiva, che qualcosa debba essere, bensì nella convinzione collettiva {razionalità della comunità}, che qualcosa è. Il diritto è la convinzione di una collettività umana – manifestata direttamente mediante la consuetudine oppure dichiarata da un organo della comunità all’uopo designato – di dover conformare la propria volontà a norme esteriori, cioè a limitazioni della libertà esteriormente vincolanti e perciò, in forza del concetto stesso, coattive. Quando la volontà collettiva comanda che ciò che è diritto venga osservato, essa non crea il diritto, ma lo garantisce {lo trova già nell’altra funzione: la razionalità}. Il diritto rimane tale anche se in singoli casi la coazione non ha luogo od ha luogo solo imperfettamente, oppure non è in generale effettuabile in mancanza di un potere capace di esercitarla, purché non manchi la comune convinzione della legittimità della coazione quando ve ne sia la possibilità {il venir meno della forza non corrisponde di per sé al venir meno del diritto (semplicemente, esso non viene applicato)}. Lo Stato non è una semplice istituzione giuridica, la quale esiste soltanto per il diritto; ma tra i suoi fini il diritto si presenta come quello specifico od assolutamente imprescindibile appunto perché alla sua realizzazione è indispensabile la potenza dello Stato. Il diritto poi sembra particolarmente indirizzato a servire i fini della vita dello Stato, ma ciò non esaurisce né limita affatto i suoi compiti. Ammettiamo la possibilità di un contrasto fra diritto materiale e diritto formale, quando poniamo lo Stato nel diritto e non fuori di esso e collochiamo tuttavia anche il diritto nello Stato e non sopra e fuori di esso. Chi nega la possibilità di un tale contrasto nega l’idea stessa del diritto. L’unità di diritto e forza è una profonda esigenza della natura spirituale dell’uomo; il loro contrasto è stato sempre sentito come un’imperfezione. Un tale sentimento è la miglior dimostrazione dell’esistenza di un diritto senza forza e di una forza senza diritto; ma è al tempo stesso un vivo impulso a realizzare l’unità di diritto e forza, poiché alla lunga la coscienza umana non può tollerare quel dissidio. Perciò il diritto che non è capace di farsi valere scompare dalla coscienza collettiva e cessa quindi di esser diritto. Ma la forza {a sua volta essa trova legittimazione se riconosciuta dalla comunità} che esiste senza il diritto deve, per affermarsi, esser riconosciuta dalla coscienza generale come conforme al diritto e si trasforma quindi, da quel momento, in diritto. 5. La dottrina positivistica del formalismo giuridico A) La persona giuridica dello Stato quale centro dell’elaborazione statualistica La seconda metà del secolo XIX conobbe un’eclissi dei sistemi romantici e speculativi. L’indirizzo che incentrò i suoi sforzi in direzione della unilateralità della considerazione giuridica dello Stato fu designato “dottrina inorganica dello Stato” (anorganische Staatslehre) (Häfelin, Hobe). In sintonia con le tendenze positivistiche dominanti, si avvertì l’esigenza di conseguire un maggior rigore metodologico, attraverso l’esclusione di ogni fattore extragiuridico. Venne intensificato lo sforzo – che giunse a piena realizzazione solo col normativismo kelseniano – di utilizzare, nella considerazione della fenomenologia statualistica, un metodo monistico, avente ad oggetto categorie giuridiche. Tale approccio ravvisa l’elemento sintetizzatore dell’unità statale nel concetto di persona giuridica. Il dogma della persona statale – comune sia alla dottrina organica che a quella inorganica – trovò la sua ragion d’essere in quella che Ulrich Häfelin ebbe a qualificare come l’“inconfondibile tendenza verso lo Stato di diritto liberal-democratico”. La personalità giuridica per le dottrine inorganiche tende necessariamente ad assumere come “referente” l’organismo sociale. Per Paul Laband la persona statale è costituita da una mera qualità formale, mentre nell’elegante costruzione di Georg Jellinek alla persona statale fa da supporto una struttura corporativa, che rivela un’unità associativa essenzialmente democratica. B) Lo schema organicistico ed il concetto giuridico di Stato nell’opera di Gerber Carl Friedrich Wilhelm von Gerber {11 aprile 1823 – 23 dicembre 1891} accolse il “modello organico”, riconoscendo nell’organismo sociale l’esistenza di un “principio vitale”. Per quest’autore, tuttavia, il concetto di organismo non vale ad esprimere la realtà giuridica dello Stato. Tale realtà si esprime attraverso il concetto di personalità giuridica che fa dello Stato un soggetto idoneo a volere e ad agire. Trattando della “costruzione giuridica del diritto pubblico tedesco”, Carl Friedrich Wilhelm von Gerber si ricollega alla posizione di Albrecht, il quale – affrontando il problema dei rapporti fra lo Stato e il monarca – rivendica la superiore autonomia della persona giuridica dello Stato (la quale ha per referente l’intera collettività popolare) rispetto alla persona del monarca. Il concetto di Stato, per Carl Friedrich Wilhelm von Gerber, è il prodotto dell’indissolubile collegamento tra l’organismo sociale e la persona giuridica. Egli scrive che “lo Stato non è un oggetto sottoposto dall’esterno al potere monarchico, ma non è neppure un soggetto accanto al monarca, ma il monarca stesso è appunto uno (e più precisamente il più elevato) dei molti membri che trovano, all’interno dell’organismo, il loro ruolo vitale”. La concezione giuridica dello Stato si incentra sul concetto di persona giuridica statale. Dal nesso tra organismo e persona giuridica scaturisce la nozione stessa di diritto pubblico. Afferma Carl Friedrich Wilhelm von Gerber che “una somma di situazioni e di istituzioni derivanti dall’idea dello Stato come organismo, sono dichiarate diritto soggettivo e quindi trovano in se stesse il loro fondamento e la loro ragion d’essere”. Carl Friedrich Wilhelm von Gerber: La costruzione giuridica dello Stato [brano] È impossibile sviluppare il potere di volontà dello Stato senza connessione con la personalità statale {non si può pensare alla volontà dello Stato se non si costruisce lo Stato come persona giuridica}. L’opinione che il diritto pubblico possa fare a meno di questo suo nucleo centrale e che perciò possa bastare il concetto di organismo sarebbe giusta se si potesse ammettere che lo Stato sia un complesso di corpi naturali, regolato nel suo movimento da un ordinamento superiore ed esterno, e che esso agisca non per una cosciente capacità di volere, ma soltanto in funzione di sorde forze, regolate da astratte leggi di natura {se noi pensassimo ad un organismo senza volontà che agisce come una macchina, potremmo limitarci a costruire lo Stato come organismo che funziona secondo criteri puramente biologici (ad es., una pianta)}. Parimenti poi quando si vuol sovvenire a tali esigenze del diritto pubblico con l’adattare il concetto di diritto naturale a fenomeni della vita associata si arriverà pure alla rappresentazione di una collettività che progredisce per una cooperazione non del tutto incosciente dei suoi membri, e che pur sempre però è tenuta insieme dall’innata legge dell’evoluzione, ma invano si cercherebbe di approdare all’idea di stato come entità capace di libera, unitaria, autodeterminazione. Eppure questa idea è sempre necessaria al diritto pubblico {qui troviamo una critica ad una concezione puramente giusnaturalistica dello Stato: se ci 6. La “Teoria dei due aspetti” dello Stato (Zweiseitentheorie) Tale teoria suole riportarsi a Georg Jellinek. L’opera di Georg Jellinek si presenta come il più completo tentativo di comprendere la fenomenologia statualistica mediante l’impiego di una pluralità di discipline: si parla di “sincretismo metodologico”. Come un oggetto naturale può essere studiato grazie all’impiego di varie tecniche di indagine proprie di diverse discipline, così nell’analisi di Georg Jellinek la realtà statale è indagata e ricostruita nella sua “globalità” attraverso l’impiego congiunto e relazionato di vari approcci. Nel capitolo dedicato alla “Metodica della dottrina dello Stato”, Georg Jellinek distingue tra i fenomeni naturali ed i fenomeni storico-sociali. Egli asserisce che “Lo scopo delle scienze naturali, cioè di trasformare le qualità in quantità, non si può conseguire nel mondo dei fatti storici”. L’elemento individuale – peculiare ai fatti storici – ne preclude l’inserimento in categorie e, conseguentemente, l’inclusione in leggi generali. Jellinek fa invece ricorso alla tipizzazione. Al “tipo ideale” conseguito con l’accentuazione unilaterale di elementi caratteristici egli contrappone il tipo empirico, che emerge per via induttiva, attraverso la comparazione degli Stati particolari. L’individuazione di un tipo empirico testimonia il reperimento di uno strumento metodologico volto alla conoscenza dello Stato come fenomeno sociale. Sotto questo aspetto, per Georg Jellinek “Lo Stato è una moltitudine di uomini stabilita su una determinata parte della superficie terrestre, munita di un potere sovrano e per mezzo di questo composta ad unità”. È presente in questa definizione del concetto di Stato la formulazione di quella dottrina dei tre elementi (Drei-Elementen- Lehre) – corrispondenti a popolo, territorio e potere sovrano – che divenne uno dei cardini della teoria statualistica, sia del diritto costituzionale, che del diritto internazionale, nell’età successiva e fino ai nostri giorni. Nel capitolo dedicato ai rapporti della dottrina dello Stato con l’insieme delle scienze l’autore pone in primo piano la psicologia, quale “dottrina degli stati e degli atti psichici”. Notevole importanza rivestono pure l’antropologia, le scienze sociali e l’economia. Al concetto di Stato concepito sul piano sociologico e con metodi empirici ed induttivi si contrappone un concetto giuridico di tipo logico-formale, le cui determinazioni normative si sviluppano attraverso procedimenti logici. Da questa “Doppia natura” prende vita la “Teoria dei due aspetti dello Stato” (Zweiseitentheorie). Georg Jellinek: Il lato giuridico-formale dello Stato [brano] La seconda maniera di considerare lo Stato ha per obiettivo il lato giuridico di esso. Il diritto vive di una duplice vita. In primo luogo, come una reale pratica giuridica; ed in quanto tale, è una delle forze sociali che costituiscono la concreta vita civile di un popolo {la pratica di un diritto}. In secondo luogo, poi, come un complesso di norme, il quale è destinato a convertirsi in azioni. In quest’ultimo significato, il diritto appartiene non più al dominio di ciò che è, bensì a quello di ciò che deve essere; esso consiste di concetti e di proposizioni, le quali servono non alla conoscenza dei fatti, ma al giudizio della realtà. Perciò mediante norme giuridiche non si conosce alcuna essenza reale {la relazione tra popolo ed ordinamento giuridico non ci dà l’essenza reale del popolo: ci dice solo cosa è il popolo rispetto alla norma}. La scienza del diritto è una scienza di norme, simile alla logica, la quale non ci insegna ciò che le cose sono, bensì come debbono essere concepite per poter trarne una conoscenza che non sia in sé contraddittoria. I giudizi cui si perviene sulla base di proposizioni giuridiche ci danno la conoscenza non di una sostanza, ma di una relazione: essi ci insegnano a conoscere il rapporto tra il fatto e la norma. La nozione giuridica dello Stato ha per obietto la conoscenza delle norme giuridiche emananti dallo Stato e destinate a regolare le sue istituzioni e le sue funzioni nonché il rapporto tra i fatti reali dello Stato e quelle norme giuridiche di giudizio. La maniera giuridica di conoscere lo Stato deve quindi integrare quella sociale, ma non si deve in alcun modo confonder con essa. Georg Jellinek: Lo Stato come “corporazione” [brano] Lo Stato è un subietto di diritto: più specificamente definito, una corporazione {cioè quell’unità di associazione giuridicamente conosciuta}. Dal suo aspetto giuridico, lo Stato si può concepire soltanto come subietto di diritto: e precisamente, esso più si approssima al concetto di corporazione, sotto del quale lo si può assumere. Il sostràto della corporazione è sempre costituito da uomini, i quali formano un’unità di associazione, la cui volontà direttiva viene assicurata mediante i membri dell’associazione stessa. Ma il concetto della corporazione è un concetto puramente giuridico, al quale – come tutti i concetti giuridici – nel mondo reale non corrisponde nulla di obiettivamente percettibile. Una gran parte degli errori della dottrina della persona giuridica deriva dalla ingenua identificazione della persona con l’uomo {altra critica alle dottrine dell’organismo}, nonostante che a qualsiasi giurista lo sguardo anche superficiale sulla storia della schiavitù insegni che i due concetti non coincidono affatto. Come concetto giuridico, lo Stato è adunque la corporazione di un popolo con sede fissa {il territorio}, dotata di un potere di dominazione originario o, per usare un termine venuto in uso di recente, la corporazione territoriale dotata di un potere di dominazione originario. 7. La dottrina normativistica A) Il monismo metodologico di Hans Kelsen La più conseguente espressione del positivismo giuridico – estrema espressione dell’indirizzo formalistico di Carl Friedrich Wilhelm von Gerber, Paul Laband e Georg Jellinek – è dovuta all’opera di Hans Kelsen, principale esponente della Scuola di Vienna. Hans Kelsen, opponendosi alla Zweiseitentheorie di Georg Jellinek, scioglie il “nodo gordiano“ della teorizzazione statualistica, semplicemente recidendone uno dei due aspetti: elimina il versante storico-politico e concentra l’attenzione sull’elemento normativo. Resta escluso da Hans Kelsen non solo ogni “fattore materiale” dello Stato, ma anche ogni riferimento a “valori” che – pur strettamente connessi a precise condizioni storico-culturali – risultino estranei alla “pura” inerenza alle norme. L’unico criterio che rende accettabile un “valore” consiste nella sua conformità al comportamento concreto prescritto da una norma. Scrive Hans Kelsen che “Una norma oggettivamente valida, che stabilisca come dovuto un certo comportamento, statuisce un valore negativo o positivo”. Il metodo giuridico kelseniano si caratterizza dunque in senso rigorosamente normativistico. L’eminente giurista viennese deriva da Immanuel Kant {Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804} la distinzione fra “Sein” (essere) e “Sollen” {dover essere). Tale distinzione – come spiega Losano – “che già servì a Kant per fondare l’autonomia della ragion pratica rispetto alla ragione teoretica, serve a Kelsen per fondare l’autonomia del diritto rispetto al mondo naturale”. Ora, la norma si compone di fattispecie – dominata dal “Sein”, ovvero dal “principio di “norma fondamentale” (Grundnorm). Hans Kelsen spiega che “Un ordinamento è un sistema di norme, la cui unità si fonda sul fatto che tutte le norme hanno lo stesso fondamento per la loro validità; e il fondamento della validità, in un ordinamento normativo […], è una norma fondamentale da cui si deduce la validità di tutte le norme dell’ordinamento”. Il sistema normativo – di cui la norma fondamentale fonda la validità – deve essere nelle sue grandi linee efficace. Ecco così lanciato un ponte fra “validità” ed “efficacia”, fra “Sein” e “Sollen”, tra sfera storico- sociale e sfera del diritto quale “categoria logico-trascentendale”. Giacomo Gavazzi {1932; Emerito dell’Università di Pavia} effettua un’efficace analisi della nozione kelseniana di “norma fondamentale” nei termini seguenti. Giacomo Gavazzi: La norma fondamentale kelseniana [brano] La funzione della norma fondamentale è quella di attribuire significato giuridico (o validità giuridica) ad un materiale che altrimenti non sarebbe pensabile giuridicamente. Si è detto che la norma fondamentale non è una norma giuridica; il che è abbastanza esatto; infatti essa non è giuridica come tutte le altre norme, le quali sono poste da un’autorità giuridica; né può dirsi a stretto rigore “valida”, in quanto essendo essa fonte di validità non può validare se stessa. S’è detto infine con due tesi – esattamente opposte – che la norma fondamentale è l’ultimo residuo di un diritto naturale che il positivismo giuridico kelseniano non ha potuto rifiutare e dall’altro s’è detto che essa si identifica con la mera attualità della prima costituzione {c’è pericolo di sconfinare nel diritto naturale o nella realtà storica}. La tesi secondo la quale la norma non è posta, ma presupposta pone due problemi: presupposta da chi? E presupposta liberamente o a certe condizioni? Alla prima domanda si può rispondere tranquillamente: da chiunque si proponga di studiare come giuridico un determinato materiale sociale (normativo). Codesta ampiezza relativa al soggetto che presuppone la norma fondamentale potrebbe sembrare assurda o paradossale. Chiunque potrebbe presupporre la norma fondamentale che più gli garba: un legittimista potrebbe presupporre come norma fondamentale non quella che conferisce validità all’attuale costituzione repubblicana e a tutte le norme che discendono da questa, bensì a quella che dia validità per es. allo Statuto albertino. Tali conseguenze paradossali vengono invece ridimensionate se si considera attentamente la risposta all’altra domanda: la presupposizione di una certa norma fondamentale è libera od è entro certi limiti vincolata? La risposta kelseniana è senza dubbio nel senso che il contenuto della norma fondamentale non è determinabile arbitrariamente dall’interprete. La norma fondamentale deve essere formulata in modo da poter spiegare la realtà di un determinato ordinamento normativo. In altre parole la presupposizione della norma fondamentale deve tener conto dell’efficacia di un certo ordinamento normativo considerato nel suo complesso. Un ordinamento è complessivamente efficace se nel suo complesso è osservato. Ma il fatto dell’osservanza è un puro e semplice fatto sociale, che non è sufficiente secondo il normativismo ad attribuire alle norme significato giuridico. Il significato giuridico può loro derivare solo da una norma (dalla norma fondamentale appunto): questa tuttavia deve avere un contenuto tale da conferire validità non ad un ordinamento quale che sia (immaginato, fantasticato o desiderato), bensì ad un ordinamento che corrisponda (tramite l’efficacia) ad una realtà sociale. Ed è in questo senso che si suol dire, con qualche imprecisione, che l’efficacia dell’ordinamento è una condizione della validità del medesimo. Più esattamente si dirà che l’efficacia di un determinato ordinamento normativo condiziona il contenuto della norma fondamentale, la quale non perciò cessa di essere presupposta dall’interprete. La funzione della norma fondamentale è in questo senso analoga alla funzione assolta dalle ipotesi scientifiche. Un’ipotesi non è una realtà, ma è uno strumento per attribuire un significato o per spiegare una certa realtà. B) L’identificazione kelseniana di Stato e diritto Alla Reine Rechtslehre fa riscontro quella che, con una certa approssimazione, potremmo designare “Reine staatslehre”. Ciò in quanto anche dal concetto di Stato – come dal concetto di diritto – viene espunta da Hans Kelsen ogni determinazione socio-politica sostanziale. L’elemento organico, corporativo ed associativo è così misconosciuto e perde ogni rilevanza. Hans Kelsen ravvisa l’unità dello Stato – ovvero il presupposto di ogni concetto di Stato – solo in un concetto normativo, non in attualità psicologiche, antropologiche e sociologiche. Idea fondamentale di Hans Kelsen è che il concetto giuridico preceda il concetto sociologico: “Lo Stato è la comunità creata da un ordinamento giuridico nazionale, contrapposto a quello internazionale. Lo Stato come persona giuridica è una personificazione di questa comunità o dell’ordinamento giuridico statale che costituisce detta comunità”. Lo Stato dunque – rileva a questo proposito Carl Schmitt – “non è l’autore né la fonte dell’ordinamento giuridico. […] Lo Stato, cioè l’ordinamento giuridico è un sistema di riferimenti ad un punto di riferimento finale e a una norma fondamentale finale. La distinzione, vigente nello Stato, fra un ordinamento superiore ed uno inferiore riposa sul fatto che dal punto centrale unitario fino al gradino più basso si svolgono autorizzazioni e competenze. La competenza più elevata non perviene ad una persona o a un complesso di potere psicologico-sociologico, bensì soltanto allo stesso ordinamento sovrano nell’unità di un sistema di norme”. Hans Kelsen: Lo stato come ordinamento o come comunità costituita dall’ordinamento [brano] Secondo la concezione tradizionale {è una critica, si fa riferimento a Georg Jellinek} non è possibile comprendere l’essenza di un ordinamento giuridico statale, il suo principium individuationis, se non si presuppone lo Stato quale realtà sociale che ne stia alla base. Si suppone così che il diritto francese sia basato sull’esistenza di uno Stato francese quale entità sociale, non giuridica. Il rapporto fra diritto e Stato è considerato analogo a quello fra diritto ed individuo. Si assume inoltre che il diritto – pur essendo creato dallo Stato – regoli il comportamento dello Stato, concepito come una sorta di uomo o di superuomo, così come il diritto regola quello dell’uomo. E come, appunto, vi è il concetto giuridico di persona, accanto a quello bio-fisico di uomo, così si ritiene che esista un concetto sociologico di Stato, accanto al suo concetto giuridico, e che, anzi, quello sia logicamente e storicamente anteriore a questo. Lo Stato e il diritto secondo tale concezione sono due oggetti diversi. Questo dualismo però è teoricamente insostenibile. Lo Stato quale comunità giuridica non è qualcosa di diverso dal suo ordinamento giuridico, come la corporazione non è distinta dal suo ordinamento costitutivo. La comunità non è altro che l’ordinamento normativo che regola il comportamento reciproco degli individui {quindi la comunità è enorme, nella sua essenza}. Il termine “comunità” designa soltanto il fatto che il comportamento reciproco di tali individui è regolato da un ordinamento normativo. Poiché non abbiamo nessuna ragione di assumere che esistano due ordinamenti normativi diversi, l’ordinamento dello Stato ed il suo ordinamento giuridico, dobbiamo ammettere che la comunità da noi detta “Stato” è il “suo” ordinamento giuridico. Il diritto francese può così venir distinto da quello svizzero o da quello messicano senza ricorrere all’ipotesi che vi siano uno Stato francese, o uno Stato svizzero o messicano come altrettante realtà esistenti indipendentemente. si ha invece quando l’idea si comunica alla pluralità delle coscienze soggettive, dando luogo alle assemblee deliberative ed a manifestazioni comunitarie a largo raggio. Avverte Maurice Hauriou che “Bisogna notare che la fase della personificazione non distrugge i risultati dell’incorporamento: la personalità morale si sovrappone all’individualità oggettiva del corpo, ma questa non scompare”. C) Romano e l’ordinamento giuridico come “istituzione” La teoria romaniana considera il fenomeno giuridico come unità che trascende la realtà normativa. Santi Romano attribuisce all’ordinamento giuridico quella connotazione che la Scuola organica poneva ad elemento individuatore della realtà statale, e cioè che “il tutto è più della somma delle parti”. L’unità dell’ordinamento è costituita dunque non da un sistema di norme correlate fra loro, ma da un elemento strutturale a cui le norme stesse ineriscono ed entro il quale trovano la loro composizione. Santi Romano {Palermo, 31 gennaio 1875 – Palermo, 11 marzo 1947} avverte che “Il diritto non è la norma, ma ciò che inviluppa quest’ultima e le imprime un certo aspetto”. In altri termini: il concetto di diritto sussume sia la norma che l’unità strutturale che pone la norma. La sanzione stessa – ritenuta da Jehring l’elemento formale caratteristico della norma – non costituisce per Santi Romano che un elemento accessorio, avente carattere extragiuridico. L’autore identifica la sanzione con l’apparato di organi coercitivi che sono legittimati a renderla esecutiva. Il concetto di diritto è, per Santi Romano, contraddistinto da un carattere interpersonale, riconducibile cioè al concetto di società (ubi ius ibi societas), alla cui base risiede il concetto d’ordine. Ogni ordinamento giuridico si identifica perciò con il concetto di “istituzione”, entro il quale l’elemento normativo è subordinato ad una struttura organizzativa. L’istituzione è dunque un ente o corpo sociale, una sfera di diritto obbiettivo, dotata di individualità propria. D) Romano e lo Stato come “istituzione di istituzioni” Santi Romano enuncia una teoria della “persona giuridica” basandosi sulla dottrina dell’organizzazione: la persona giuridica deve avere un ordinamento interno che ne costituisca il sostrato. Un’istituzione può ricevere – o non ricevere – la personalità da un ordinamento diverso e più comprensivo. Lo Stato quale “istituzione delle istituzioni” non ha un potere “pregiuridico”: Stato ed ordinamento giuridico non sono fenomeni diversi, sono “unum et idem”. Lo Stato, dunque, non è né un prius, né un posterius rispetto ai suoi poteri. Conseguentemente ciò che collega gli elementi statali – quali ad es. il territorio – è l’ordinamento giuridico statale, data l’identità di Stato-istituzione e di ordinamento giuridico. Inoltre le relazioni tra lo Stato ed i suoi organi – diversamente da quanto ritengono Georg Jellinek e Ranelletti – hanno carattere giuridico. I rapporti interorganici sono rapporti giuridici, in quanto regolati dal diritto. Se vi è identità tra diritto ed istituzione (ed essenziale all’istituzione è il fattore organizzativo), dello Stato medesimo. Principale esponente di quest’indirizzo è Franz Oppenheimer {Berlino, 1864 – Los Angeles, 1943}. Lo studio relativo all’origine dello Stato passa così dalla sfera virtuale del razionalismo contrattualistico, peculiare alle correnti giusnaturalistiche, ad una analisi che ha ad oggetto la dinamica concreta dell’assoggettamento di stirpi e gruppi da parte di altre stirpi e gruppi. Il punto di vista fatto proprio da Franz Oppenheimer è dunque di tipo sociologico ed è connesso alla filosofia della storia nonché alla teoria economica. Di recente, questa prospettiva fu fatta propria da Von Der Heydte {30 marzo 1907 – 7 luglio 1994}. 10. La teoria dell’“integrazione” A) La teoria dell’“integrazione” come metodo sociologico ispirato alle Scienze dello Spirito La teoria dell’“Integrazione” di Carl Friedrich Rudolf Smend (1882-1975} è diretta a porre una “connessione inscindibile fra teoria dello Stato e della costituzione e dottrina del diritto dello Stato”. La concezione di Carl Friedrich Rudolf Smend si avvale di un metodo sociologico ispirato alle scienze dello Spirito. Tale metodo, nelle intenzioni dell’autore, deve valere a porre rimedio alla crisi della dottrina dello Stato, la cui causa prima è da ricercarsi nel formalismo giuridico della Scuola di Vienna. L’estraneità, d’altra parte, che la concezione smendiana manifesta nei confronti dei metodi sociologici tradizionali si indirizza – in accordo su questo punto con le note tesi kelseniane – contro gli indirizzi della sociologia di Simmel, di Vierkhand e di von Wiese. Indirizzi tutti improntati – a parere di Rudolf Smend – ad una configurazione sostanzialistica e storico-meccanicistica dei gruppi sociali. Carl Friedrich Rudolf Smend peraltro afferma la realtà dello Stato sociologico e l’identità di questo con l’oggetto del diritto dello Stato. Tuttavia al fenomeno statale come realtà sociale egli accede facendo propria la concezione di Theodor Litt {Düsseldorf, 1880 – Bonn, 1962}: da questo autore Carl Friedrich Rudolf Smend deriva il concetto di “circolo chiuso”, corrispondente al modo d’essere di una massa d’individui in reciproca relazione. La struttura unitaria che ne consegue presuppone un intreccio di azioni e reazioni dinamiche fra i singoli: non è dunque un qualcosa di antecedente e di preformato rispetto agli individui, né qualcosa di susseguente al gruppo concepito come giustapposizione statica di persone. Carl Friedrich Rudolf Smend scrive che “Lo Stato esiste in quanto si integra continuamente”. La “legalità assiologica dello Spirito” – in cui si esplicano i processi di integrazione – è congiunta al diritto positivo dello Stato. L’esame di questo binomio – che si traduce nella consecuzione di due momenti peraltro indissolubili – consente a Carl Friedrich Rudolf Smend una specificazione dei compiti che sono di spettanza alla teoria dello Stato e alla teoria del diritto dello Stato. Carl Friedrich Rudolf Smend scrive che “Il diritto dello stato non è altro che una positivizzazione di quelle possibilità e di quei compiti che derivano dalle leggi dello Spirito e perciò soltanto a partire da questi può essere compreso. Viceversa, quelle possibilità e quei compiti hanno bisogno della positivizzazione giuridica per realizzarsi in modo durevole e soddisfacente. Perciò, da un lato, la prospettiva di dottrina dello Stato si concentrerà prevalentemente sui fondamenti essenziali e si occuperà dell’ordinamento giuridico dello Stato, come di una loro conseguenza; la prospettiva di diritto dello Stato, dall’altro, assumerà l’ordinamento come suo oggetto peculiare, ma, per poter tener conto del suo senso, cercherà di ricondurlo e di comprenderlo a partire da quei fondamenti”. La vita di ogni gruppo umano – e quindi dello Stato – evidenzia la complementarità dei due aspetti: quello temporale reale e quello ideale atemporale. Se nella relazione sociale si considera solo il primo, ci si imbatte in un mero vitalismo sociologico. Se si considera solo il secondo, si privilegia l’elemento teleologico-razionalistico. Per Carl Friedrich Rudolf Smend la “vita” dello Stato è il prodotto dei processi di integrazione. B) I processi di integrazione Carl Friedrich Rudolf Smend evidenzia tre tipi di “fattori integranti” (Integrationsfaktoren): α. l’integrazione personale. Questa non opera come forza esteriore che agisce secondo il pensiero liberale. L’autentica integrazione personale si attua solo là dove i leaders stessi costituiscono la personificazione di una politica, la quale è idonea a determinare il “carattere attuale dell’intero statale”. β. L’integrazione funzionale. Si basa su funzioni o procedure integrative – o forme di vita collettivizzanti – “atte a rafforzare l’esperienza vissuta dalla comunanza” (Gemeinsamkeit). Elezioni, dibattiti parlamentari, referendum, etc. ne costituiscono le tipiche manifestazioni. Occorre tuttavia tener presente che l’efficacia di questa come di ogni altra funzione di integrazione dipende da due momenti: che il suo principio abbia di per sé forza di integrazione e che ne disponga per tutto il popolo dello Stato. χ.€ L’integrazione materiale. Il fondamento di questo “fattore integrante” deve ricercarsi negli scopi comuni in relazione ai quali viene costituito lo Stato. Qui l’elemento teleologico – assente nelle altre due forme – costituisce l’elemento primario. Base dell’integrazione materiale sono pertanto i valori fatti propri dalla comunità. Lo Stato non conferisce realtà a tali valori: viceversa, è l’azione integrante di tali valori che concorre alla realizzazione dello Stato quale “unione sovrana di volontà”. I fattori integrativi per Carl Friedrich Rudolf Smend non si presentano nel loro isolamento. Relativamente alle diverse circostanze storiche in cui si rivelano le diverse realtà statali, un fattore può manifestare più o meno la sua prevalenza sugli altri. Carl Friedrich Rudolf Smend definisce il concetto di “costituzione” nei termini seguenti: “La costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè del suo processo di integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuova produzione della totalità della vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi di singoli aspetti di questo processo”. Rudolf Smend: L’integrazione come processo fondamentale della vita dello stato [brano] realtà spirituale. Come parti della realtà, le strutture spirituali collettive non sono sostanze dall’esistenza statica, ma costituiscono l’unità di senso della vita spirituale reale o di atti spirituali. La loro realtà consiste in un’attualizzazione e riproduzione funzionale, più precisamente in una conquista spirituale permanente e nel suo sviluppo. Tali strutture sono o divengono in ogni momento di nuovo reali soltanto in e per mezzo di questo processo. Così specialmente lo Stato non è una struttura immobile da cui emanano singole espressioni di vita, leggi, atti diplomatici, sentenze, atti amministrativi. Ma piuttosto esso esiste di per sé soltanto in queste singole espressioni di vita, in quanto attivano una connessione spirituale complessiva, e nelle ancora più importanti innovazioni e trasformazioni che hanno come oggetto esclusivo questa stessa connessione. Il cardine dello statale si situa nell’àmbito della realtà, da cui devono perciò procedere le dottrine dello Stato e del diritto dello Stato. In caso contrario, rimane ad esse solo l’alternativa pressoché inevitabile di annettere una meccanica di sociologia dello Stato a determinati portatori rigidi, inammissibilmente sostanzializzati, di queste forze sociologiche, cioè agli individui od allo Stato come intero, che in modo oscuro viene pensato per metà giuridicamente, per metà spazialmente, oppure di contestare con Hans Kelsen la realtà di questo universo quale oggetto della teoria dello Stato; o, ancora, infine, di ritirarsi in un agnosticismo estetizzante. Lo Stato esiste solo perché ed in quanto si integra continuamente, si costruisce nei e a partire dai singoli – e in questo processo continuo consiste la sua essenza di realtà sociale spirituale. L’esame approfondito di questa essenza rappresenta il primo compito della teoria dello Stato, cui si aggiunge, come secondo, quello della chiarificazione dei suoi rapporti con gli altri àmbiti della cultura. Excursus: La dottrina dell’integrazione di Rudolf Smend e l’“integrazione sistemica” La dottrina dell’integrazione enunciata da Carl Friedrich Rudolf Smend si differenzia radicalmente dal concetto di “integrazione sistemica”. Un sistema presuppone l’interdipendenza delle parti: l’integrazione si compie fra parti precedentemente separate. Karl Wolfgang Deutsch definisce l’integrazione politica come “integrazione di attori politici o di unità politiche, come individui, gruppi, regioni o paesi, rispetto al loro comportamento politico”. L’integrazione è dunque il rapporto in cui il comportamento di tali attori può essere modificato. Pertanto l’integrazione è paragonabile al potere. I processi integrativi dell’approccio sistemico – aventi ad oggetto meramente i fattori materiali dello Stato, ovvero il popolo ed il territorio – descrivono dinamiche che coinvolgono elementi preesistenti rispetto ai processi medesimi. Nella visione di Carl Friedrich Rudolf Smend l’unità statale – concepita come “unione reale di volontà” – è il prodotto di un’attività autoformantesi. Nell’integrazione sistemica, l’“unità” è il risultato delle modificazioni che il rapporto di integrazione determina sulle componenti stesse, dal momento che “un sistema globalmente inteso ha anche proprietà sistemiche, che non sono presenti in nessuna delle sue componenti prese singolarmente” (Karl Wolfgang Deutsch). Nella “General System Theory” di Ludwig von Bertalanffy {1901-1972}, gli elementi interagenti hanno carattere sostanzialistico, ma non meccanicistico. Questa distinzione si rende evidente nel modello di “sistema aperto” (Open System). La teoria dei sistemi aperti è una generalizzazione della cinetica e della termodinamica. La teoria cibernetica è basata sulla retro-azione e sull’informazione. Tuttavia l’integrazione sistemica, quale emerge dall’opera di Ludwig von Bertalanffy, contempla nel modello di “sistema aperto” anche sistemi biologici, a cui si riferiscono i concetti di morfogenesi, di equifinalità, etc. Qui pertanto vi è una diretta attenzione alle dinamiche non solo biologiche, ma anche sociali. Ludwig von Bertalanffy scrive che “Un sistema aperto è definito come un sistema che scambia della materia con l’ambiente circostante, esibendo la capacità di importare ed esportare materiali e di operare nel senso di produrre e distruggere strutture con i propri componenti materiali”. 11. La teoria della “Gestalt” A) La “Staatslehre” di Hermann Heller quale scienza politica Hermann Heller {Teschen, 17 luglio 1891 – Madrid, 5 novembre 1933} qualifica la sua teorizzazione “Staatslehre” (Dottrina dello Stato) e non “Allgemeine Staatslehre” (Dottrina generale dello Stato). Tuttavia l’opera è diretta a studiare lo Stato nella sua globalità, a definirne cioè lo statuto ontologico. Hermann Heller rifiuta la qualifica “generale” alla sua “Staatslehre” dato che la designazione di “Allgemeine Staatslehre” aveva contrassegnato, nella tradizione del secondo Ottocento, l’indirizzo giuridico-formale rivolto “alla storia o costruzione di alcuni concetti fondamentali del diritto pubblico”. Egli intende conferire alla propria elaborazione non un carattere giuridico, ma politico, avvalendosi dei metodi di una “scienza politica” critica, che “negli eventi politici prodotti dai gruppi in lotta […] riconosca […] un senso attribuibile a tutte le parti in conflitto”. Questa concezione politica dello Stato si esprime nell’acquisizione delle fenomenologie statualistiche all’àmbito di “questioni di scienza politica”. Scrive Hermann Heller che “L’ambito problematico tanto esteso dell’odierna scienza politico- descrittiva può venir circoscritto alle seguenti questioni: al centro c’è il problema della distribuzione, dell’organizzazione nonché dell’acquisizione del potere politico in uno Stato concreto, oppure nella rappresentazione comparata di una pluralità di caratteri statali concreti o, infine, come dottrina sistematica dello Stato, in una struttura statale più o meno diffusa (ad esempio nello stato occidentale moderno); la descrizione e la spiegazione di questa organizzazione del potere nei suoi legami originari con le condizioni geografiche o climatiche, con le relazioni di discendenza e con le altre condizioni naturali, con le caratteristiche economiche, militari, etiche, religiose, nazionali o con altre caratteristiche specifiche della popolazione, e soprattutto nel suo legame con la costituzione giuridica dello Stato”. Questa caratterizzazione politica della dottrina dello Stato considera l’aspetto giuridico solo per quanto concerne “i rapporti di potere degli organi statali fra loro o in relazione agli abitanti del territorio e agli altri Stati”. B) I caratteri della teoria statualistica di Hermann Heller L’indirizzo politico di cui Hermann Heller si fa portatore pone in primo piano il radicamento dello Stato nella realtà sociale. Dato che lo Stato e la società dell’uomo non sono oggetto conoscitivo delle scienze naturali la dottrina dello Stato deve essere intesa non come scienza della natura, ma come scienza della cultura, il cui elemento caratteristico consiste nel comprendere. Lo Stato non è formazione di senso, ma ha un senso. ci si sottrae alle unilateralità tanto dell’individualismo quanto dell’universalismo. La connessione gestaltica organizzata include tutte le possibilità espressive, tutti i momenti dell’organizzazione e viceversa. Organizzare esprime un agire rivolto a promuovere e a realizzare quelle azioni (od omissioni) necessarie all’esistenza attuale in continuo rinnovamento di una struttura pianificata delle azioni (organizzazione). La struttura fenomenologica mostra tre “elementi” propri di ogni organizzazione che si richiamano reciprocamente: α. un agire sociale orientato ad un atteggiamento di reciprocità della maggior parte degli uomini, la cui interazione β. si orienta normalmente ad un ordinamento costituito da regole a carattere impositivo la cui statuizione e garanzia χ.€ viene tutelata da organi specifici. La capacità dei membri organizzati di porsi come organi dipende dalla struttura più o meno orizzontale o verticale propria dell’organizzazione. In ogni caso, tutte le organizzazioni di dimensioni ampie, ed in particolare lo Stato, si fondano sempre sulla divisione sociale del lavoro. La struttura di azioni chiamata Stato si è resa autonoma proprio trasferendo specifici compiti statali a titolari di organi costituiti a tal fine. L’unità reale dell’organizzazione si realizza come unità d’azione in virtù dell’interazione dei membri e degli organi sulla base di un ordinamento in vista di un effetto unitario. Lo Stato, al pari di ogni altra organizzazione, non si “scompone” in governanti e governati; entrambi agiscono infatti solo grazie all’attivo legame che li unisce sulla base di un ordinamento: questa realtà si impone non soltanto a chi ne sta all’esterno, ma ad essi stessi, all’interno come unità di azione. 12. Considerazioni conclusive Gli indirizzi teorici esaminati sono ben lunghi dall’inquadrare in modo esaustivo il vasto panorama dell’elaborazione statualistica. Tali indirizzi hanno, per così dire, un carattere paradigmatico, in quanto sono intesi a fornire quella caratterizzazione globale del fenomeno statale che costituisce l’oggetto primario dell’“Allgemeine Staatslehre”. L’opera di Carl Friedrich Rudolf Smend – “Verfassung und Verfassungsrecht” – incentrata sul concetto di costituzione – concetto che peraltro riguarda la struttura dello Stato e non lo Stato nella sua totalità – costituisce un modello di ontologia statualistica. E si è notato, del pari, che Hermann Heller, pur considerando la sua Staatslehre “come parte delle scienze politiche”, trova nel concetto di Gestalt – che non è politico, ma epistemologico – un compiuto schema interpretativo della totalità statale. Di contro, per Carl Schmitt il concetto di “politico” integra ed assorbe in sé il concetto di Stato, che altro non è se non “lo Status politico di un popolo organizzato in un territorio chiuso”. Quando Carl Schmitt riconosce nello Stato “l’unità politica decisiva”, egli ne focalizza il fulcro dell’attività, ma non ne delinea la struttura e neppure ne chiarisce l’essenza. In tal modo, i risultati a cui il celebre autore perviene nel corso delle sue penetranti analisi non mettono capo ad una compiuta “Allgemeine Staatslehre”, dal momento che – con piena consapevolezza – egli dichiara di non voler conseguire alcuna definizione relativa all’essenza dello Stato. La propensione ad accentuare l’importanza delle etimologie è diffusa, in generale, fra gli storici dei concetti. Un significato etimologico può costituire un termine “a quo” od un termine “ad quem”. Nel caso del concetto di Stato, Carl Schmitt sembra arrestarsi a quella che potremmo designare come “barriera etimologica”. Egli scrive: “In base al suo significato etimologico e alla sua vicenda storica, lo Stato è una Claude Leclercq: I caratteri dello Stato nazionale francese [brano] Se si apre il primo tomo delle “Memorie della speranza” di Charles De Gaulle {Charles André Joseph Marie de Gaulle; 22 novembre 1890 – 9 novembre 1970; generale e politico francese}, alla pagina uno si trova il raffronto fra il concetto di Stato e di Nazione. “La Francia viene dalla notte dei tempi. Essa vive. La voce dei secoli la chiama. Ma resta sé stessa nel fluire dei tempi. I suoi confini possono modificarsi senza che mutino per questo il rilievo, il clima, i fiumi, i mari che la segnano per sempre. […]. Essa ha abbracciato numerose generazioni, e diverse ne comprende attualmente. Molte altre ne partorirà, ma grazie alla geografia che le è propria, al genio delle razze che la compongono, ai paesi che la circondano, essa riveste un carattere costante per cui i francesi di ogni epoca dipendono dai loro padri, e si sentono impegnati per i loro discendenti. A meno di frantumarsi, questo insieme umano su questo territorio ed in seno a questo universo comporta dunque un passato, un presente, e un avvenire, indissolubili”. In questo passaggio, il generale De Gaulle ha bene esaminato i caratteri della Nazione nel senso sociale del termine. Si può dire, in effetti, che la Nazione si esprime attraverso un raggruppamento di uomini uniti fra loro da elementi comuni, rispettivamente d’ordine obbiettivo (razza, lingua, religione, modo di vita) e d’ordine soggettivo e spirituale fondato su un medesimo passato e su un sentimento di identica parentela (civiltà, storia, tradizione), ed orientato verso l’avvenire da una volontà di vivere insieme. Questi caratteri li rendono solidali e ne fanno un’entità distinta dalle altre comunità umane. B) Il “Principio di nazionalità”: la periodizzazione di Ulrich Scheuner Ulrich Scheuner {Düsseldorf, 24 dicembre 1903 – Bonn, 25 febbraio 1981}, esaminando il ruolo del principio di nazionalità per l’ordine statale, distingue tre periodi: α. genesi del principio. Un primo periodo riguarda l’inizio dell’età moderna, ovvero l’“epoca pre- nazionale delle formazioni di Stato dinastiche”; β. età aurea dello Stato nazionale. Detto principio trovò il suo apice a partire dalla Rivoluzione francese. La Rivoluzione francese segna un autentico spartiacque in quanto, con l’espansione napoleonica, il principio di nazionalità conobbe, specie in àmbito germanico, una forte attivazione; χ.€ il declino del principio in Europa. Dopo una reviviscenza negli anni Trenta, il principio perse rilevanza a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Ciò vale nello “spazio europeo”: nei paesi extra-europei, con l’avvento della decolonizzazione, il principio di nazionalità contribuì a trasformare l’assetto geopolitico globale. C) Nazioni culturali e nazioni territoriali nella distinzione di Friedrich Meinecke A nostro avviso è fuori dubbio che la materia appartenga specificamente al diritto costituzionale, in quanto la più gran parte di norme costituzionali assume la cittadinanza a criterio decisivo e non può dunque essere dissociata da esse. La cittadinanza esplica una sua funzione essenziale nell’organizzazione dello Stato, nell’esplicazione delle sue fondamentali funzioni. Il fatto che essa sia decisiva anche per una gamma vastissima di situazioni di diritto privato non deve trarre in inganno: tutte le situazioni di natura costituzionale hanno tendenza ad irradiarsi nei più vari rami del diritto, il che non impedisce che si debba guardare al principale come criterio individuatore della loro natura fondamentale. Ne consegue che se anche ovvie ragioni di convenienza e di opportunità tecnica sconsigliano di inserire nel testo delle Costituzioni il corpo completo delle norme sulla cittadinanza la materia dovrebbe egualmente venir considerata di rango costituzionale e, in regime di Costituzione rigida, dovrebbe dunque apparire illegittimo l’esercizio al riguardo della funzione legislativa ordinaria. Non basta considerare come materia costituzionale solo quella incorporata nella Costituzione (22: «Nessuno può essere privato, per motivi politici, […] della cittadinanza […]»). Tutti i modi di acquisto, perdita e riacquisto della cittadinanza sono egualmente rilevanti su tale piano. La miglior soluzione sarebbe quella che fu già adottata dalla Costituzione bavarese del 26 maggio 1818 (legge sulla cittadinanza come Annesso e parte integrante della Costituzione). C) Popolo e gruppo etnico Come scrive Peter Pernthaler, una “determinazione concettuale giuridica” di “popolo” e di “gruppo etnico” risulta estremamente difficile. Il diritto internazionale non dà di tali concetti alcuna precisa definizione. Non è infatti riconosciuta la personalità giuridica internazionale né alle nazioni, né ai gruppi etnici. “Esistono bensì norme internazionali” – scrive Gaetano Morelli {Crotone, 1900 – Roma, 1989} – “che si propongono la protezione delle minoranze; queste norme però non conferiscono diritti soggettivi alle minoranze, ma si dirigono esclusivamente agli Stati creando per essi diritti ed obblighi reciproci aventi per oggetto la protezione delle minoranze. Lo stesso deve dirsi a proposito delle norme contenute nella convenzione del 18 dicembre 1948 per la prevenzione e la punizione del genocidio”. Le norme del diritto internazionale hanno come destinatari gli Stati, ai quali impongono obblighi per la tutela dei gruppi etnici. Oggetto di tale tutela sono gli individui appartenenti alle minoranze: pertanto sussiste – per usare un’espressione di Reinhold Zippelius – “una protezione dei diritti individuali”. Peter Pernthaler ritiene che il carattere soggettivo ovvero il carattere obbiettivo di un gruppo etnico debba essere stabilito dall’etnologia o dall’etnosociologia. La propensione di una minoranza a considerarsi tale deve riscontrarsi – per essere oggetto di tutela giuridica – in contrassegni obbiettivi, che si individuano sulla base di 5 determinazioni fondamentali: α. la comune discendenza; β. l’identità di lingua; χ.€ la comune religione; δ.€ la condivisione di storia e di territorio; ε.€ la coscienza e la volontà di appartenere ad una medesima etnia. Peter Pernthaler: Il diritto di autodeterminazione. L’idea originaria e le sue trasformazioni degenerative nella prassi dell’ONU [brano] sarebbe equivalso al riconoscimento di un generico diritto di secessione per ogni gruppo etnico. Fino a poco tempo fa è stata trascurata la possibilità di un mutamento di approccio teorico in grado di fornire la soluzione al dilemma per cui o si nega il diritto all’autodeterminazione, oppure lo si riconosce, restringendolo però arbitrariamente alla sola decolonizzazione. Il primo passo verso questo mutamento – o più propriamente, rivoluzione concettuale – è di esplorare la possibilità che un diritto di secessione possa essere ammorbidito, sviluppando alcune ineccepibili restrizioni alla sua portata che lo rendano di più facile accoglimento. Un diritto di secessione illimitato per ogni gruppo etnico o “popolo” rappresenterebbe indubbiamente un pericolo; ma questa non rappresenta l’unica alternativa. La risposta appropriata consiste nel fornire argomenti essenziali per stabilire quando una secessione risulti giustificata, unitamente a vincoli procedurali ed istituzionali riguardanti l’esercizio del diritto di secessione. In secondo luogo, il diritto internazionale deve essere trasformato dal riconoscimento del fatto che l’autodeterminazione contempla più gradi, e dunque che essa può assumere svariate forme, la più estrema delle quali è rappresentata dalla secessione, volta a costituire uno Stato del tutto indipendente e sovrano. Nella misura in cui è possibile adattare all’ordine internazionale un ampio spettro di differenti status politici dei gruppi l’impulso alla secessione può di fatto risultare indebolito. Va pertanto ribadita l’inadeguatezza del consueto schema tradizionale che riconosce esclusivamente Stati dotati di sovranità assoluta ed individui e gruppi di minoranza a cui è riconosciuto uno status culturale più che politico. È necessario sperimentare nuove forme di “semiautonomia” o di “sovranità limitata”. 4. La sovranità A) La coessenzialità di Stato e di sovranità La coessenzialità di Stato e di sovranità emerge dall’analisi storica. Il nesso fra Stato e sovranità si stabilisce contestualmente al sorgere dello Stato moderno, allorché i giuristi medievali – Glossatori, Canonisti, Giureconsulti francesi – elaborarono il “principio di sovranità” in opposizione agli ordinamenti universalistici (Chiesa ed Impero). Famosa è la formula “Rex est imperator in Regno suo”. Il concetto di Stato moderno s’incentra sul carattere “polemico” del concetto di sovranità. Tuttavia, “stabilita questa correlazione tra la genesi e lo sviluppo dello Stato moderno, è necessario subito precisare che la genesi del concetto di sovranità è anteriore nel tempo rispetto alla genesi del concetto di Stato moderno” {Dino Pasini}. B) Bodin e la fondazione del concetto: natura e caratteri del potere sovrano Jean Bodin {Angers, 1529 – Laon, 1596; giurista francese, avvocato del parlamento parigino e consigliere alla corte di re Enrico III di Francia} individuò nella sovranità il nucleo essenziale della nozione di Stato, affermandone i caratteri di assolutezza e di perpetuità. “Per sovranità s’intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato”. È discussa l’originarietà di tale potere nella concezione bodiniana. Helmut Quaritsch {Amburgo, 20 aprile 1930} esaminando la teoria dello Stato e della sovranità di Jean Bodin evidenzia i caratteri di unità, unicità ed unilateralità del potere statale. Jean Bodin concepisce la sovranità come “puissance souveraine” {potenza sovrana} entro lo Stato e ne individua l’espressione paradigmatica nella legislazione Hermann Heller: La sovranità come caratteristica essenziale dello Stato [brano] Stato significa unità universale di decisione su un determinato territorio, la quale perciò è necessariamente unica e sovrana. È possibile che sul territorio in questione vi siano due eserciti che lottano per la sovranità e che il giurista debba ammettere una pendenza di essa fino all’esito definitivo della lotta. Due unità sovrane di decisione sul medesimo territorio sono però impossibili, ciò significherebbe l’agire reciprocamente contrapposto di due volontà supreme, porterebbe al dissolvimento dell’unità dello Stato ed avrebbe come conseguenza ultima la guerra civile. Il concetto di Stato così definito non avrebbe da temere alcuna contraddizione se a partire dalla metà del secolo scorso non fosse comparsa la forma di organizzazione federale che nella teoria dello Stato ha condotto all’affermazione di una nuova categoria non compatibile con la nostra definizione, cioè quella dello Stato non sovrano. Sembra tuttavia inutile riprendere qui la disputa dottrinaria sollevata migliaia di volte sul problema dello Stato federato e non sovrano. A mio parere sia il punto di partenza che l’impostazione della discussione sono errati. Bisogna infatti prendere le mosse dal fatto diventato ormai innegabile che in ogni caso lo Stato federale nella sua totalità costituisce uno Stato sovrano, il quale decide in modo universale sul suo territorio. Ovunque sia data un’unità di decisione universale sul territorio – essa può formare la sua unità di volontà come vuole – la denominazione “Stato” è senz’altro indispensabile e bisogna attenersi ad essa. Il problema di fronte al quale ci troviamo può essere peraltro formulato in modo teoricamente corretto nel modo seguente: è possibile applicare ai c.d. Stati membri di uno Stato federale il medesimo concetto di Stato che è indispensabile per l’unità di decisione universale? Lo Stato membro, proprio come tutte le Province ed i Comuni, è per sua natura un’unità territoriale particolare di decisione, mentre lo Stato federale, come tutti gli Stati unitari, è per sua natura un’istanza universale di decisione. I concetti di Stato e di sovranità vengono falsari se lo Stato membro e quello federale vengono ricondotti sotto la medesima categoria concettuale e si attribuisce la sovranità all’uno come all’altro. O lo Stato membro è potenzialmente autorizzato a prendere tutte le decisioni sul suo territorio senza alcuna eccezione, e allora non “è contenuto nel vincolo dello Stato federale che lo comanda”, oppure è sottoposto in un punto qualsiasi alle decisioni di un’altra unità universale, e allora non è sovrano e la denominazione Stato in riferimento ad esso ha un significato essenzialmente diverso che per l’unità ad esso sovraordinata. Hans Kelsen: Lo Stato membro ha competenze “delegate” dall’ordinamento “totale” [brano] Non appena la teoria si occupa di determinate formazioni giuridiche, delle costituzioni del Reich tedesco o della Svizzera o degli Stati Uniti d’America, essa abbandona l’ipotesi del primato del diritto internazionale, indispensabile dal punto di vista di una unione di Stati coordinati e si pone dal punto di vista del primato appunto di quell’ordinamento giuridico che si vuol conoscere come “Stato”. Solo il presupposto della sovranità può non far sembrare lo Stato federale una federazione di Stati. Il che per la verità non impedisce agli stessi giuristi di dichiararlo tuttavia una unione di Stati, e a rinunciare al carattere della sovranità per quanto concerne le sue parti, i c.d. Stati membri; il che soltanto rende possibile trattare assieme federazione di Stati e Stato federale, nonostante l’ammissione della loro fondamentale diversità, nella dottrina delle unioni di Stati. Dal punto di vista teoretico è sufficiente osservare che la concezione di uno Stato composto di Stati è la contraddizione di una totalità formata di totalità, e che ciò che viene indicato come “Stato membro” è un ordinamento parziale caratterizzato da determinati mutamenti giuridici contenutistici, specialmente di tipo tecnico-organizzatorio, un ordinamento parziale di cui si può considerare come tratto caratteristico il fatto che il perfezionamento e l’imposizione di questo ordinamento parziale, naturalmente solo nell’àmbito dell’ordinamento totale, è demandato ad organi la cui nomina è delegata a questo stesso ordinamento; il che ha per conseguenza che questi organi vengono scelti solo da quella cerchia di uomini per i quali l’ordinamento parziale specialmente vale. Questa è l’espressione teoretico-giuridica dell’autonomia; tra un Comune autonomo ed il c.d. Stato membro non c’è quindi nessuna distinzione qualitativa, ma solo – se c’è – una distinzione quantitativa. Lo Stato federale è perciò solo un caso del tipo tecnico-organizzatorio dello Stato decentralizzato. Ulrich Häfelin, Walter Haller: I Cantoni non sono Stati [brano] Allo Stato federale compete di garantire la Costituzione federale in un determinato quadro di autonomi poteri decisionali. Ciò può essere indicato come autonomia. Questo non riguarda la sovranità, poiché la libertà dei Cantoni sussiste solo nel quadro della Costituzione federale ed in essa trova il suo limite. Solo la federazione possiede il massimo potere statale sovrano, non i Cantoni. Di fatto la Costituzione federale parla della sovranità dei Cantoni. Laddove però nel 3 stabilisce che la sovranità è limitata diviene chiaro che il concetto di sovranità non può – in conformità della tesi da noi assunta – essere intesa in senso assoluto. La terminologia adottata dalla Costituzione federale ha un fondamento storico: in particolare s’era inteso, nel momento della creazione dello Stato federale, di avere riguardo alla sensibilità. In riferimento alla teoria della sovranità divisa nello stato federale, che Alexis De Tocqueville aveva formulato, Federazione e Stati membri erano dotati di sovranità, nell’àmbito di competenze divise ad essi assegnate dalla Costituzione federale. La teoria della sovranità divisa fu la dottrina dello Stato federale dominante nel XIX secolo. Essa fece il suo ingresso nel pensiero statualistico all’epoca della Costituzione tedesca del 1871 e trovò, a quel tempo, esponenti anche in Svizzera. Tale teoria è tuttavia da respingere, dato che la tesi della sovranità divisa – in conformità alla concezione della sovranità qui sostenuta – contiene una contraddizione logica. Ai Cantoni infatti non compete la qualifica di Stati. Certo essi, in talune Carte costituzionali cantonali, vengono definiti Stati. Anche una parte della dottrina riconosce i Cantoni come Stati sovrani. Questa concezione si fonda prevalentemente su punti di vista storici. Le formazioni statali originarie divennero Cantoni e, in virtù della loro libera unione nello Stato federale, rimasero entità statali (Staatswesen). Senza dubbio i Cantoni amministrano propri territori e popoli, tuttavia non dispongono di potere sovrano. Le loro competenze statali sono soltanto quelle stabilite nel quadro della Costituzione federale. Riguardo all’autonomia con la quale essi regolano le loro particolari incombenze i Cantoni, al pari delle Comunità, vengono designati come Corpi dotati di amministrazione autonoma. Contrariamente alle Comunità, l’autonomia dei Cantoni si fonda sulla Costituzione federale. F) I due momenti del potere sovrano a) La sovranità come potere fattuale: le origini del concetto in Bodin
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