Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Drammaturgia, Corso Gerardo Guccini, Appunti di Drammaturgia

Appunti del corso e riassunto libri d'esame

Tipologia: Appunti

2018/2019
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 23/04/2019

alessandro-cavaggioni
alessandro-cavaggioni 🇮🇹

4.7

(18)

3 documenti

1 / 166

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Drammaturgia, Corso Gerardo Guccini e più Appunti in PDF di Drammaturgia solo su Docsity! Drammaturgia Lettere e Beni culturali - Campus di Bologna SSD: L-ART/07Laurea in Dams - discipline delle arti, della musica e dello spettacolo (cod. 0956) Docente: Gerardo Guccini Appunti dalle lezioni e dalla bibliografia (di Alessandro Cavaggioni) 1 - Gerardo Guccini, Nicoletta Lupia (a cura di), Periodizzazioni storiche: la tragediagreca, il teatro elisabettiano, il dramma borghese. Con un'A ppendice sulle nozioni di ”scrittura scenica” e di “postdrammatico”. Dispensa del corso. 2 - Peter Szondi, Teoria del dramma moderno (1880-1950), Einaudi 3 - Franco Perrelli, Le origini del teatro moderno. Da Jarry a Brecht, Roma-Bari, Editori Laterza, 2016. (esclusivamente le pp. 1-42; 134-141; 172-190) 4 - Hans-Thies Lehmann, Il teatro postdrammatico, Cuepress, 2018 (2a ed.) Indice: Riassunto “Le origini del teatro moderno, da Jarry Brecht” Di Franco Perelli 1. Con Cyrano e Ubu, verso il XX secolo 2. Il teatro fra vita e poesia (1901-1908) 3. Epifanie di un teatro nuovo (1921-1926) 4. La metafisica e l’Agit-Prop (1927-1931) Riassunto “Teoria del dramma moderno” Di Peter Szondi 1 1. Il Dramma 2. La Crisi del Dramma 3. La Transizione 4. Tentativi di Salvataggio 5. Tentativi di Soluzione Riassunto “Il teatro postdrammatico” Di Hans-Thies Lehmann 1. Prologo 2. Dramma 3. Sulla preistoria del teatro postdrammatico 4. Breve retrospettiva sulle avanguardie storiche 5. Panorama 6. Segni teatrali postdrammatici 7. Esempi 8. Performance 9. Elementi 10. Epilogo Riassunto “Le origini del teatro moderno, da Jarry Brecht” Di Franco Perelli 1. Con Cyrano e Ubu, verso il XX secolo (capitolo primo de “Le origini del teatro moderno”, Franco Perelli) Alla fine del XIX secolo, Parigi continuava a essere la capitale mondiale del teatro. Il 28 dicembre 1897 in uno dei suoi circa cinquanta luoghi di spettacolo, il popolato Théatre de la Porte-Saint-Martin, andò in scena il Cyrano de Bergerac, di Edomnd Rostand. “La messainscena è stupenda – riportano le cronache dello spettacolo – Dizione, gestualità, tutto è stato perfetto” 2 nel suo caso i motivi della crisi erano stati essenzialmente economici, ma Thalasso fa notare che “aveva fatto il suo tempo. Era nato per scalzare e per demolire. Aveva scalzato e demolito. Compiuta la sua missione, rientrava nell’ombra”. Un italiano a Parigi Bisogna considerare anche una nuova forma di teatro popolare e rituale, essenzialmente classico, tra cui ricordiamo l’impegno di Gabriele D’annunzio. D’annnunzio avrebbe sviluppato le sue idee di riforma nel romanzo teatrale Il Fuoco (1900), nel quale afferma che “Il dramma non può essere se non un rito o un messaggio”. La restaurazione di un teatro fondato sul verbo poetico – ma anche sul ritmo e una presenza pressoché mitica dell’attore – non guarda semplicemente al passato del teatro. D’Annunzio cerca di connettersi alle forme contemporanee di teatro-rituale che si manifestano in tutta Europa nelle rappresentazioni festive di Bussang sui Vogi e delle tragedie del mago Joséphin Pèladan negli anfiteatri. Come tante utopie teatrali del Novecento si fissarono principalmente sulla carta. In concreto, il primo rilevante tentativo dannunziano di conquistare Parigi e quindi l’Europa con un teatro di poesia si può considerare la messinscena della Città morta, una tragedia promessa dapprincipio alla Duse, poi girata alla sua rivale Sarà Bernhardt, ma rappresentata il 21 gennaio 1898, in uno di quegli “angusti teatri urbani”. La critica parigina non si faceva facilmente sedurre e non fu convinta dalla sonora letterarietà di questo teatro: “vedere una delle nostre prime scene occupate da un autore straniero, la cui opera non supera la media, quando tanti francesi sono in attesa del loro turno”. Il circolo quadrato Ammesso che si possa davvero parlare di qualche Big Bang del teatro moderno, mai fenomeno del genere, fra il 1896 e il 1898, si sarebbe verificato più lateralmente con il cortocircuito di un dramma, Verso Damasco di August Strindberg, la cui profetica rilevanza sarebbe stata riconosciuta solo nel tempo, e uno spettacolo, Ubu roi di Jarry, che, subissato dai fischi, ebbe appena un paio di rappresentazioni. Questi due eventi capitali nella storia del teatro moderno trovano una radice comune, il Peer Gynt di Ibsen. Il Peer Gynt è un colossale capriccioso poema drammatico del 1867, nel quale Ibsen adotta, su una base favolistica, una struttura itinerante, lunga una vita, per tracciare il percorso di esperienza del proprio eroe, attanagliato dal problema dell’identità. C’è una scena in cui il protagonista sprofonda nel regno infero dei trold, superando certe modalità con cui la drammaturgia occidentale tradizionalmente ha trattato la materia onirica, “il susseguente sviluppo del teatro del sogno vedrà svanire il mondo esterno e la condizione stessa del sogno si farà forma dramamtica”. Secondo Fjelde, “da Strindberg e Jarry, ambedue chiaramente influenzati dal Peer Gynt, si diparte la principale tendenza del teatro antirealistico contemporaneo” e la scena dei trold del Peer Gynt si pone come il preannuncio dell’espressionismo e del teatro dell’Assurdo. Strindberg scrive Verso Damasco alla decantazione di una sofferta crisi personale, religiosa e creativa di almeno quattro anni, vissuta a Parigi a contatto con gli ambienti degli occultisti, 5 degli alchimisti e dei simbolisti. In questa prospettiva, Verso Damasco deve non poco, nella sua essenza, al programma stesso dell’(Euvre, che mirava a imporre “un teatro semi- fiabesco in grado di animare un poema; un teatro della fantasia e del sogno”. Per il resto, la sua struttura descrive il pellegrinaggio di ricerca dell’assoluto della coppia archetipica dello Sconosciuto, in lotta con Dio, e della signora: “L’arte sta nella composizione che simbolizza la ‘ripresa’ di cui parla Kierkegaard; lo svolgimento si dipana in direzione dell’Asilo”.. L’opera si modella su un’antica féerie di Strindberg, il viaggio di Per Fortunato del 1882, che si rifaceva, a sua volta, a Ibsen, tanto da essere considerata un Peer Gynt svedese. Al di là di questo suo oggettivo retroterra antico, l’opera è stata recepita nel Novecento come il modello del Wandlungsdrama (dramma di trasformazione, che si contrappone al Handlungsdrama, dramma d’azione), strutturato secondo il principio del dramma a tappe (Stationendrama) espressionistico, e sovente è stata rappresentata in questa chiave. Il Dio Selvaggio Solo un mese dopo la messinscena di Peer Gynt l’(Euvre presentava al Nouveau Théatre l’Ubu Roi di Alfred Jarry. Il personaggio di Ubu aveva origini nientemeno che in uno scherzo per marionette di alcuni liceali ai danni di uno strambo professore, tanto che sul testo grava un sospetto che, in questi termini, non possa considerarsi neanche tutto di Jarry. Questi presenta una formula di spettacolo comico elementare semplificato, con fondale unico e un solo soldato a rappresentare un esercito. Ancora, di “costumi il meno possibile caratterizzati dal colore locale o storico”, ma di “preferenza moderni, visto che moderna è la satira”. Père Ubu, aizzato da Mère Ubu, uccide il re di Polonia Venceslas e instaura un regno del terrore, imponendo i balzelli più assurdi, facendo fuori la nobiltà, pianificando l’eliminazione di magistrati e finanzieri e cercando di tamponare alla meglio il malcontento interno. Bordure, uno dei suoi adepti, accusati di cospirazione, si rifugia dallo zar Alexis di Russia, che gli assicura appoggio per restaurare sul trono il figlio di Venceslas, Bougrelas, ch’era riuscito a fuggire con la madre. Père Ubu fa la guerra allo zar, ma, sconfitto e scampato all’assalto di un orso, si ricongiunge a Mère Ubu, che aveva tentato d’impossessarsi del tesoro dei polacchi, e insieme fuggono verse nuove avventure. Il personaggio di Ubu è integralmente estetico; vive e si comporta come gli piace, ma a differenza di Peer, domina un mondo d’ininterrotta soggettività, che rispecchia in tutti i modi la selvaggia irrazionalità dei suoi capricci, appetiti e desideri. L’accoglienza in teatro sarebbe stata tumultuosa: “Merdre!” Rievoca Lugné-Poe: “Alcuni spettatori si allontanarono subito, altri ribelli resistettero” Su “La Critique” si poteva leggere: “Dopo il preludere di una musica, il sipario si apre su una scena che vorrebbe rappresentare Nessun Posto. Il signor Ubu è un essere ignobile, per questo somiglia, visto da giù, a noi tutti”. I cambiamenti di scena furono di fatto affidati a cartelli elisabettiani, ma volutamente sgrammaticati. Era giocoforza a rincorrere un certo numero di segni suscettibili di suggerire ciò che non si poteva mostrare, sicché l’insieme delle azioni compresse e assai 6 espressivamente sintetiche costituiva una sorta di linguaggio teatrale nuovo. Il poeta irlandese William Butler Yeats così rievoca: “fra il pubblico volano minacce. Gli attori vanno visti come bambole, giocattoli marionette”. Nel 1926 la pièce fu allestita da Anton Giulio Bragaglia nel teatrino sperimentale romano degli Indipendenti e, nel 1952, dal Living Theatre nella sala di Charry Lane a New York; nel ’63, sarà la volta di Carmelo Bene e, nel ’77, di Peter Brook. Qualche critico si era sbagliato: il XX secolo sarebbe stato largamente di Ubu, non di Cyrano. 2. Il teatro fra vita e poesia (1901-1908) (capitolo secondo de “Le origini del teatro moderno”, Franco Perelli) Al culmine ideale del fenomeno della scena libera possiamo collocare, nel 1898, la fondazione del teatro d’arte di mosca da parte di Vladimir Nemirovic-Dancenk, cui si associò Konstantin Stranislavskij. Nel programma del Teatro d’arte, Dancenko si proponeva: 1. Accessibilità comparativamente popolare al teatro 2. Finalità artistica 3. Finalità cosiddetta pedagogica Un’altra caratteristica era la “centralità della figura del regista”. Nel 1908 Edward Gordon Craig scriveva che il Teatro d’arte, pur avendo appena dieci anni di vita, già si imponeva per “serietà e carattere” su una linea “non commerciale”. Il suo direttore Stranisslavskij crede “nel realismo come mezzo attraverso il quale l’attore può rivelare la psicologia del drammaturgo”. Di fatto, fra le caratteristiche del Teatro d’Arte si imponeva proprio un peculiare perfezionismo: “fanno centinaia di prove per ogni lavoro, sempre con un’intelligenza vivida e russa”. Stanislavskij, secondo Craig, è un attore un po’ intellettuale e d’impostazione realistica, ma tutt’altro che freddo: “le sue creazioni sono straordinarie per la grazia che anno” e il suo teatro “giunto all’età virile si sveglierà a una nuova coscienza, dispiegherà le ali della fantasia e si leverà in alto per quella strada più vasta e più aperta che non ha nome e non conduce in alcun luogo al di là di se stessa”. Craig era convinto che “Il realismo, la precisione dei dettagli fossero inutili in scena” e che solo la “maschera” potesse rendere “l’espressione dell’anima” fino al trascendimento dell’attore in una ideale Supermarionetta. L’inquieto Stranislavskij inaugurò uno studio, recuperando al suo interno l’attore-regista Mejerchol’d, che insofferente al realismo aveva abbandonato il teatro d’arte. Nel ’12, insieme a Sulerzickij, un collaboratore con cui era in particolare sintonia, Stanislavskij riprese l’idea e avviò quello che viene denominato il Primo Studio. “vorrei che in tutti i paesi ci fossero degli studi, si propagandasse l’arte nel mondo”. 7 dopo della prima messinscena “il tempo” pubblica, il 9 maggio 1921, una lunga e sorvegliata recensione di Adriano Tilgher, per il quale il dramma dovrebbe “essere la realizzazione scenica del lavorio di sintesi donde sgorga l’opera d’arte, del passaggio dalla vita all’arte, dall’impressione alla espressione. È realizzata scenicamente questa intenzione dell’autore? Rispondiamo subito: non compiutamente” Insomma: una delle tante e clamorose contestazioni al manifestarsi in scena del Dio Selvaggio, qui delle destrutturazioni dei concetti di realtà e finzione, ma anche, per chitare Gaspare Giudice: della dissociazione e della visionarietà da ricatturare e da scacciare” Antonin Artaud ce ne ha restituito una visione personalissima: “ed è come un gioco di specchi in cui l’immagine iniziale si assorbe e rimbalza ininterrottamente, cosicché ogni immagine riflessa è più reale della prima e il problema non cessa di porsi”. La sua lettura si concentra sul magnetismo scenico e atmosferico del testo, si smarca dalla ponderosa dimensione speculativo con cui Tilgher aveva affrontato l’opera pirandelliana, serrandola nella gabbia di una filosofia che, nel drammaturgo siciliano, si presenta al più come una poesia della dialettica e, per fortuna, solo come il superficiale riflesso di un’intricata intuizione poetica relativa al teatro della condizione umana. Al di là dell’evocazione in attenuata chiave borghese della tragedia d’incesto, protagonista dei Sei personaggi è il teatro e i mestieri che, all’interno di esso, si esercitano. Inevitabile la sinergia fra pagina scritta e storia scenica. Non solo il sottotitolo dell’opera promette una commedia da fare, ma il manifesto della compagnia Niccodemi, al debutto, aveva aggiunto “in tre atti e senza scene”, da un lato, formalizzando un evento teatrale che ambiva a essere fluido, da un altro, mettendo in guardia sull’ambientazione in un “palcoscenico com’è di giorno, senza quinte e senza scena, quasi buio e vuoto”, ch’era lo spazio sperimentale di tanti registi-riformatori dell’epoca, ma restava ancora prevedibilmente disturbante per il grosso pubblico. Nel 1921 giunge Enrico IV, il secondo dramma che dà respiro internazionale all’arte pirandelliana anche se, portato a Parigi nel ’25, in un’interpretazione espressionistica di Georges Pitoeff, suscitò non poche perplessità e la generosa difesa del campione di tutte le avanguardie, Lugné-poe: “un’opera di qualità superiore, che merita di suscitare l’interesse”. Enrico IV e Sei Personaggi costituisce il fulcro della drammaturgia pirandelliana, in seguito l’autore scriverà ancora ventuno opere di teatro, ma, secondo Gaspare Giudice, poche ormai si sarebbero presentate davvero realizzate all’insegna delle “più segrete potenze dell’artista”. 4. La metafisica e l’Agit-Prop (1927-1931) (capitolo quinto de “Le origini del teatro moderno”, Franco Perelli) In Germania, attorno alla metà degli anni Venti, l’espressionismo teatrale, nei suoi connotati più lirici e deformanti, è in declino. Anche della messinscena, spiega Masini, s’impongono “procedure costruttivistiche e le risoluzioni allegoriche”. Subentra qui la Nuova Oggettività, con il suo costruttivismo e funzionalismo, una delle ricorrenti ricomposizioni del Dio Selvaggio: questa volta in transito dall’allucinazione simbolico-emblematica dello spazio espressionista in direzione di una fredda descrizione, mediante la rottura delle convenzioni spazio-temporali ottenuta con la segmentazione dei luoghi e degli ambienti. 10 Tale processo implica un rimpicciolimento del gigantismo espressionistico dell’Io e un’epicizzazione più distesa e attenta agli eventi e alla storia, carica di “valori ritmici”, con “la nuova visibilizzazione di figure geometriche la cui funzione strutturale è quella di organizzare l’impianto stesso delle forme reali” In uno scritto del 1936 Bertold Brecht sottolineava che Berlino aveva assunto un ruolo di guida, riuscendo a esprimere “nella maniera più forte e momentaneamente più matura” una sorta di tendenza generale e di sintesi di ciò che caratterizzava il teatro moderno, per l’appunto l’epicità. Gli anni venti su questa linea sono in Germania il teatro politico di sinistra. Infinite polemiche e irrisolti distinguo non risolveranno mai il problema terminologico riguardante ciò che si intendeva con proletario o propriamente rivoluzionario. Piscator e Brecht, la vocazione a questo genere di teatro germoglia essenzialmente dal pacifismo, conseguenza dei traumi della prima guerra mondiale. Chi intercettò e diete compiuta espressione alle istanze del teatro di tendenza, tra il 1919 e 1930, fu proprio Erwin Piscator. Gli bastarono tre anni di trincea per spingerlo ad applicare il concetto di teatro alla “comunità di tutti gli uomini”. Una svolta in senso marxista, “necessaria comprensione del rapporto esistente tra società e arte”, in direzione di un “teatro analitico-dialettico”. Il termine dramma epico lo lancio per “Bandiere”, nel 1924. Organizzò poi una serie di riviste teatrali di carattere politico, che nel luglio del 1925 culminarono nello spettacolo totale “Ad onta di tutto!”. Si trattava di una “messa in scena in cui per la prima volta il documento politico formava l’unica base come testo e come scenario”. Si trattò di un ambizioso esperimento di teatro di masse, fondato su un “enorme montaggio” di disparati documenti e scene recitate, e dato di fronte a migliaia di spettatori che divennero inevitabilmente attivi, avendo vissuto in prima persona le vicende rappresentata. In particolare nello spettacolo, “film e scena si intensificavano con un effetto reciproco”. Le diffidenze negli ambienti della sinistra radicale portarono ad una rottura e si avviò a Berlino uno studio attorno cui si riunirono notevoli attori e collaboratori del calibro di Bertlolt Brecht. Il teatro di Piscator si inaugurò il 3 settembre 1927 con “Oplà, noi viviamo!” di Ernst Toller. Il dramma fu disinvoltamente rimaneggiato da Piscator in una chiave più oggettiva, quasi filmica e, nella sostanza, antiespressionistica. Come ricorderà Piscator “Oplà, noi viviamo!” fu dato su un palcoscenico “alto 12 metri e con una fonte luminosa trasparente, dove sarebbe apparso simultaneamente il mondo intero”. Nel teatro politico la scrittura drammaturgica e la scrittura scenica si contaminavano: Rasputin da dramma di una figura storica si trasformò in “documento di un’era” e, sul testo originale di Toltoj, fu operata, a più mani, una lunghissima serie di sovrapposizioni. Piscator e Brecht si confrontarono con stima ma anche sfumato dissenso. Brecht non avrebbe mai colto nel regista quella perfetta integrazione in rigorosi termini di dialettica di teatro e politica cui personalmente aspirava. Piscator tendeva infatti maggiormente a idealizzare, mentre Brecht “non considerava il teatro un’istituzione morale ma un luogo d’intrattenimento che produce delle conoscenze”. Epicità dialettica 11 In Brecht riscontriamo l’ultima grande transizione del teatro tedesco del primo dopoguerra: “il passaggio dall’astrazione alla costruzione d’un teatro dialettico” marxista. Nel 1925, lavorando a Un uomo è un uomo, Brecht adotta la formula del “teatro epico”, rendendosi sempre più conto delle difficoltà della drammaturgia moderna a restituire efficacemente i progressi sociali: “queste cose non sono drammatiche nel senso che noi intendiamo”. “il dramma che avevo progettato non fu scritto. Invece mi misi a leggere Marx, e allora, soltanto allora, lessi Marx. Le mie sparse esperienze pratiche e impressioni divennero veramente vive”. Nel 1926 al Landestheater di Darmstadt, era stato intanto rappresentato Un uomo è un uomo, regia di Jakob Geis e scenografia di Caspar Neher. L’opera e la sua messinscena si impongono quindi nel percorso brechtiano in direzione della nuova oggettività a un teatro più pregno d’ipoteche marxiste. Un uomo è un uomo si prospetta come un dramma scanzonato e cinico, il cui protagonista sembra l’incrocio di figure formidabili di clown quali Charlie Chaplin. Vi si narra la storia di uno scaricatore di Kilkoa, Galy Gay, che esce di casa per andare a comprare il pesce, ma si trasforma presto in Jeraiah Jip, un soldato intruppato nell’esercito inglese in marcia verso il Tibet. Galy Gay infatti ha incrociato un plotone di mitraglieri che perso il quarto uomo in un tentativo di furto in una pagoda affinché nessuno se ne accorga, lo rimpiazza con il malcapitato. Herbert Ihering nella sua recensione scrive: “perché si possa giungere a questo, egli viene smontato e rimontato di nuovo come una macchina. Che cosa non si è declamato, in teatro e in versi, contro l’uomo macchina!”. Brecht si concentra spassionatamente su una sorta di dato di fatto ovvero che, nel mondo moderno, a New York come a mosca, stia nascendo un “nuovo tipo di uomo”. Galy Gay era pertanto inteso come l’essere umano intercambiabile, che diventa forte proprio nel momento in cui perde l’individualità e guadagna quella dimensione collettiva caratteristica della modernità. Dunque “Brecht non celebra il meccanismo della macchina e neppure lo maledice, ma lo dà per scontato e quindi lo supera”. Un uomo è un uomo cambierà lungo le varie rappresentazioni, soprattutto nel ’31, era mutato il punto di vista di Brecht: lo smontaggio dell’uomo era diventato un orrore (“un uomo smontato e rimontato, se non lo si sorveglia dalla notte al mattino possiamo trovarcelo mutato in assassino”) e l’allestimento lo mostrava. Pare che pur mutato in un “dramma grottesco contro la guerra” il capovolgimento della parabola non riuscisse ancora a manifestarsi integralmente nel corso dello spettacolo, tanto che Brecht stesso avrebbe chiesto daccapo di palesarlo dopo l’avvento del nazismo, individuando ormai due tipi d’integrazione dell’individuo nella sfera collettiva: quella fascista livellante e quella comunista che implicava per contro l’acquisizione di una nuova coscienza sociale. Nel ’31 il drammaturgo puntò quindi molto su una formula di spettacolo che facesse emergere le contraddizioni, anche grazie a “una nuova arte del recitare”. In alcune note relative alle ultime opere, come “L’opera da tre soldi” o “ascesa e rovina della città di Mahagonny”, delinea una teoria del teatro epico, partendo dal principio dialettico e materialista che “l’arte è merce”. Stigmatizza il teatro commerciale, denuncia un sistema che 12 1. Il Dramma Il dramma dell’età moderna è nato nel Rinascimento. Fu l’audacia spirituale dell’uomo pervenuto a se stesso dopo il crollo della concezione medievale del mondo a costruire la realtà dell’opera d’arte in cui voleva fissare e rispecchiare se stesso, sulla riproduzione dei meri rapporti interumani. L’uomo entrava quindi nel dramma solo come membro della società umana. E soprattutto doveva rimanere estraneo al dramma ciò che è privo di espressione, il mondo delle cose, se non penetrava direttamente nel contesto interumano. Il contesto espressivo di questo mondo dir apporti intersoggettivi era il dialogo. Nel rinascimento, dopo la soppressione del prologo, del coro e dell’epilogo, il dialogo divenne la sola componente del teatro drammatico. Ciò dimostra che il dramma è una dialettica conchiusa in se stessa, ma libera, e che si determina di nuovo ad ogni momento. Il dramma è assoluto e non conosce nulla al di fuori di sé. Le parole dette nel dramma sono tutte decisioni, sono sviluppi della situazione e rimangono in essa. Lo spettatore assiste al dialogo drammatico in silenzio, trascinato nel gioco drammatico, diventa egli stesso parlante, beninteso per bocca di tutti i personaggi. Anche l’arte dell’attore è orientata, nel dramma, sull’assolutezza del dramma stesso. Il dramma è infatti primario, non è la rappresentazione (che è secondaria) di qualcosa (che è primario); la rappresenta se stesso, è sempre se stesso. Si realizza nell’atto stesso in cui si manifesta. Il decorso del tempo nel dramma è una successione assoluta di presenti. Il dramma stesso, come assoluto, garantisce e crea da sé il proprio tempo. Ogni istante dell’azione drammatica deve quindi contenere il germe del futuro, deve essere carico di futuro. Ciò è reso possibile dalla struttura dialettica del dramma, che poggia a sua volta sul contesto dei rapporti intersoggettivi.Considerazioni analoghe per ciò che riguarda lo spazio motivano l’esigenza anche dell’unità di luogo. Anche l’ambiente spaziale deve essere espunto dalla coscienza dello spettatore. Solo così si determina una scena assoluta, e cioè drammatica. Il dramma è, infine, un tutto compiuto ed autonomo, e questa totalità è di origine dialettica. Essa non è dovuta, cioè, a un io epico che entri nell’opera, ma alla risoluzione della dialettica intersoggettiva, che diventa, nel dialogo, linguaggio. 2. La crisi del dramma Cinque punti di riferimento: • Ibsen (1828-1906) • Cechov (1860-1904) • Strindberg (1849-1912) • Maeterlinck (1862-1949) • Hauptmann (1862-1946) 15 Il rapporto alla forma classica del dramma è di volta in volta diverso per ciascuno dei cinque autori drammatici. Ibsen ad esempio non aveva carattere critico, ma la perfezione esteriore a cui giunge nasconde un’interna crisi del sistema drammatico, mentre Cechov non garantisce un’unità formale, lasciando trasparire la vecchia base tradizionale in disgregamento. Strindberg e Maeterlinck giungono a forme nuove, anche se Solo dopo un confronto con la tradizione, Hautpmann infine permette di individuare, con Prima dell’alba e I tessitori il problema che deriva al dramma dalla tematica sociale. Ibsen Il 2 ottobre 1797 Schiller scrive a Goethe: “l’Edipo è un’analisi tragica. Tutto è già presente e non fa che essere sviluppato. E di quanto se ne avvantaggia il Poeta! Ma tempo che l’Edipo formi un genere a sé, e che non esista una seconda specie”. Sei mesi prima Goethe aveva scritto: “direi che il miglior soggetto drammatico è quello in cui l’esposizione è già parte dello sviluppo”. Gli spettatori ateniesi conoscevano infatti già il mito, e non era quindi necessario rappresentarlo davanti ai loro occhi. L’unica persona che ancora deve venirne a conoscenza è Edipo stesso, ed egli può venirne a conoscenza solo alla fine, dopo che il mito è stato la sua vita. L’esposizione diventa quindi superflua e l’analisi diventa azione. Questa verità non appartiene però al passato, poiché non è il passato, ma il presente a essere rivelato. Edipo è l’uccisore del padre, lo sposo della madre, il fratello dei figli. La differenza tra la struttura drammatica ibseniana e quella di Sofocle ci guida al vero problema formale del teatro di Ibsen, che rivela la crisi storia del dramma. Ne Gian Gabriele Borkman i fatti non vengono raccontati per se stessi; essenziale è ciò che sta dietro e tra i fatti: i motivi e il tempo. Essi vengono portati alla luce della ribalta, in questa sera d’inverno, dalle anime sepolte dei tre personaggi. Ma ciò che è essenziale non è ancora stato detto. Quando Borkman, Gunhild, ed Ella parla del passato, non sono i singoli eventi, né la loro motivazione a venire in primo piano, ma è il tempo stesso, che è stato colorato da quelli. Diversamente da ciò che accade nell’Edipo di Sofocle il passato non è qui in funzione del presente, ma questo si limita ad essere un pretesto per l’evocazione del passato. Ma non si può dire che costituisca il tema dell’opera un qualche avvenimento isolato del passato; nulla di ciò che è accaduto nel passato, ma il passato stesso costituisce il tema. Ma ciò si rifiuta alla presenza drammatica, poiché rappresentato – nel senso dell’attualizzazione drammatica – può essere solo qualcosa di temporale, e non il tempo stesso. La sua rappresentazione diretta è possibile solo in una forma letteraria che lo accolga “nella serie dei suoi principi costitutivi”. Questa forma letteraria, ha dimostrato Lukacs, è il romanzo. Nell’analisi dell’Edipo Re ciò che è passato diviene presente, ci dice Lukacs: “qualcosa è sconosciuto, pragmaticamente, agli eroi del dramma, che ora entra nel loro campo visivo”. La verità dell’Edipo Re è di natura oggettiva. Essa fa parte del mondo: solo Edipo vive nell’ignoranza, e il suo itinerario alla verità costituisce l’azione tragica. In Ibsen, invece, la 16 verità è interiore. Essa nasce, è vero, interamente dal rapporto interpersonale, ma vive solo nell’intimo di esseri umani reciprocamente estranei e isolati, come un riflesso di quel rapporto. Ciò significa che la diretta presentazione drammatica di questa verità non è possibile. Essendo, sostanzialmente, materia di romanzo, non può trasferirsi sulla scena senza l’aiuto di quella tecnica, e avendo egli acquisito questa maestria, non si divide più, sotto i suoi drammi, la base epica. Nei “leitmotive” di Ibsen è il passato che continua a vivere, è il passato ad essere rievocato tramite la citazione di quelli. La funzionalizzazione drammatica, che ha generalmente il compito di elaborare la struttura casuale e finale di un’azione unitaria, deve colmare qui l’abisso esistente tra il presente e il passato che si sottrae all’attualizzazione. Raramente Ibsen è riuscito a ottenere che l’azione presente fosse tematicamente all’altezza di quella evocata e che si fondesse omogeneamente con essa. In Rosmersholm indubbiamente si rivela il distacco che separa il mondo borghese dalla catastrofe tragica. La tragicità immanente al mondo borghese non ha le sue radici nella morte, ma nella vita stessa. Le creature di Ibsen potevano vivere sepolte in se stesse, alimentandosi della “menzogna vitale”. Il fatto che egli non divenne il loro romanziere, non le lasciò nella loro vita, ma le costrinse a parlare, finì per ucciderle. È così che, in un’epoca ostile al dramma, l’autore drammatico può farsi assassino delle proprie creature. Cechov Nei drammi di Cechov gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la rinuncia al presente e alla possibilità d’incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro. Rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell’utopia; rinunciare a incontrarsi significa solitudine. Il dramma Tre Sorelle presenta esclusivamente individui soli, ebbri di ricordi, che sognano il futuro. Questo atteggiamento utopistico, ciò che isola gli uomini è il peso del passato e la loro insoddisfazione nel presente. Alla doppia rinuncia che caratterizza i personaggi di Cechov parrebbe dover corrispondere la rinuncia all’azione e al dialogo , le due categorie formali più importanti del dramma; e cioè alla forma drammatica stessa. Ma questa rinuncia è presente solo in germe, continuano infatti a vivere la loro vita in società senza trarre le estreme conseguenze della loro solitudine e della loro nostalgia, restando in una zona intermedia tra il mondo e l’io, tra il presente e il passato. Così, nelle Tre Sorelle, abbiamo dei rudimenti dell’azione tradizionale, anche se i momenti dell’azione sono accostati senza un nesso preciso e distribuiti in quattro atti senza vera attesa e tensione. Sono inseriti senza un vero significato e valore proprio per conferire al tema un minimo di movimento in grado di consentire il dialogo. Ma anche il dialogo è senza peso: non si tratta di monologhi nel senso tradizionale della parola pero, il monologo drammatico infatti non esprime nulla che si sottragga per principio alla comunicazione. Qui le parole sono pronunciate in presenza degli altri, non quando il personaggio è solo; ma sono proprio essere ad isolare chi le pronuncia. L’opera nel suo complesso abbandona il piano drammatico e si fa lirica. Il parlare, nel dramma, esprime anche sempre il fatto stesso che si parla. Quando non c’è più nulla da dire, quando qualcosa non può venir detto, il dramma tace. Nella lirica, invece, anche il silenzio diventa linguaggio. 17 Maurice Maeterlinck tenta la rappresentazione drammatica dell’uomo nella sua impotenza esistenziale. Se la tragedia greca aveva mostrato l’eroe nella sua tragica lotta col fato, e se il dramma classico aveva avuto ad oggetto i conflitti del rapporto intersoggettivo, ad essere colto e rappresentato qui è solo il momento in cui l’uomo indifeso è raggiunto dal destino. Per Maeterlinck il destino degli uomini è la morte come tale, ed è la morte, in queste opere, a dominare sola sulla scena. Dal punto di vista drammaturgico ciò significa sostituire, alla categoria dell’azione, quella della situazione, non si tratta più di drammi. Qui è il tema stesso a privare l’uomo della possibilità di passare all’azione. Egli rimane nella sua situazione, in uno stato di assoluta passività finché si avvede della morte. Nei ciechi la forma linguistica si scosta per più rispetti dal dialogo. Per lo più essa è corale. Le battute perdono allora anche quella minima individualità che differenzia i dodici ciechi. La sua distribuzione in battute non corrisponde a un dialogo, come nel dramma vero e proprio, ma riflette unicamente l’incertezza nervosa del non-sapere. Esso si può legare e ascoltare senza bisogno di sapere chi sta parlando; il suo carattere essenziale è l’intermittenza, e non il suo rapporto a un io attuale. Il proposito di Maeterlinck di rappresentare drammaturgicamente l’esistenza umana come appariva ai suoi occhi, lo spinse a introdurre l’uomo come oggetto passivo e silenzioso della morte, in una forma letteraria che lo esige invece soggetto parlante e operante. In Interno trasforma la scena in una vera e propria situazione narrativa, dove soggetto e oggetto sono nettamente contrapposti. Ma anche questa situazione è ancora tematica, e necessita quindi ancora di una motivazione nell’ambito della forma drammatica, divenuta ormai priva di senso. Hauptmann Uno dei maestri di Hauptmann fu certamente Toltoj col suo dramma La potenza delle tenebre. Ma per quanto abbia potuto essere forte questa influenza, l’analisi della problematicità intrinseca del dramma sociale deve muovere da Hauptmann stesso un’importazione sociologico-naturalistica ed ha quella tendenza lirica che, propria della natura russa, contribuisce al superamento della crisi formale. Il drammaturgo sociale cerca di rappresentare drammaticamente le condizioni economico- politiche sotto il cui impero è caduta la vita individuale. Trasformare la condizionalità estraniata in attualità interumana significa escogitare un’azione che attualizzi le condizioni esterne. Questa azione, non originale ma secondaria, destinata a mediare fra le tematica sociale e la forma drammatica prestabilita, si rivela problematica sia dal punto di vista tematico che da quello formale. Ciò non limita affatto il suo valore documentario, è proprio la sua assolutezza che permette al mondo del dramma di “stare per” il mondo intero il rapporto tra significante e realtà significata riposa quindi, caso mai, sul principio simbolico per cui microcosmo e macrocosmo coincidono e non sul principio della pars pro toto. Le dramatis personae “rappresentano” migliaia di uomini che vivono nelle loro stesse condizioni, la loro situazione “rappresenta” una certa uniformità condizionata dai fattori 20 economici. Non solo un’oggettività trascendente l’opera, ma anche un soggetto dimostrante al di sopra di essa: l’io dell’autore. Ma il situarsi dell’opera fra empiria e soggettività creatrice, il suo aperto riferirsi a qualcosa di esterno ad essa, costituisce il principio formale non della drammatica ma dell’epica. Il dramma sociale è quindi di natura epica, ed è una contraddizione in termini. L’unica azione possibile in queste condizioni di vita è quella che si rivolge contro di esse: la rivolta. Hauptmann intraprende la rappresentazione della rivolta dei tessitori nel 1844. Ad eccezione di una sola scena dell’ultimo atto, la rivolta dei tessitori manca di conflitti intersoggettivi, non si sviluppa attraverso il dialogo ma come esplosione di individui disperati, che è al di là del dialogo, può costituirne solo il tema, l’oggetto. Questa varietà di situazioni epiche, accuratamente fondata sulla scelta della scena, riprende sempre da capo dopo la fine di ogni atto, l’introduzione di personaggi nuovi ad ogni atto. Tutto ciò non fa che ribadire la struttura essenzialmente epica dell’opera. Esprime, cioè, il fatto che azione ed opera non s’identificato come nel dramma vero e proprio, e che la rivolta invece è l’oggetto dell’opera- L’unità dell’opera non si basa sulla continuità dell’azione, ma su quella dell’io epico invisibile, che ci presenta le situazioni e gli avvenimenti. Come bisogna interpretare tutto ciò? Non certo in senso metafisico. Pare invece che la responsabilità ricada anche qui sulla contraddizione tra la tematica epica e la forma drammatica cui non si è voluto rinunciare. Anziché finire con uno sguardo alla repressione della rivolta, anziché attenersi alla rappresentazione del destino collettivo e confermare così formalmente l’epica tematica, Hauptmann viole piegarsi alle esigenze della forma drammatica, benché la materia l’avesse resa problematica fin dall’inizio. 3. Transizione Così il dramma, alla fine del secolo diciannovesimo, nega nel contenuto ciò che per fedeltà alla tradizione vorrebbe ancora esprimere formalmente: l’attualità del rapporto intersoggettivo. Ciò che unisce le varie opere di quest’epoca, e risale al cambiamento della loro tematica, è la contrapposizione soggetto-oggetto che determina il loro nuovo schema. In queste relazioni soggetto-oggetto l’assolutezza dei tre concetti fondamentali della forma drammatica è annullata, e con essa l’assolutezza della forma drammatica stessa. Questi tre fattori della forma drammatica, entrando nel rapporto come soggetto o come oggetto, restano relativizzati. Il presente di Ibsen è relativizzato dal passato, che esso deve rivelare come il proprio oggetto. Il rapporto intersoggettivo di Strindberg è relativizzato dalla prospettiva soggettiva in cui appare. L’accadere di Hauptmann è relativizzato dalle condizioni oggettive che ha il compito di rappresentare. L’intima rappresentazione del dramma moderno consiste perciò nel fatto che alla fusione dinamica di soggetto e oggetto nella forma si oppone loro la separazione statica nel contenuto. Questa antitesi insieme formale e contenutistica di soggetto eo oggetto trova 21 espressione nelle situazioni epiche di base che appaiono travestite tematicamente come scene drammatiche. Il processo lascia intravedere una teoria della successione di due stili. Questo processo si può scorgere anche in altri cambi dell’arte. Come lo stream of consciousness si prepara nell’ambito dello stile epico tradizione, così la pittura di Cézanne, racchiude già in sé l’origine dell’aprospettivismo e del sintetismo degli stile sucessivi. E la musica tardoromantica di Wagner che, nell’ambito della tonalità fondata sull’accordo di terza, tende ad un cromatismo radicale e cioè all’equiparazione dei dodici toni, prepara al tonalismo di Schoenberg. Come la crisi del dramma ha prodotto il passaggio dal puro stile drammatico a uno stile contraddittorio, il cambiamento successivo va inteso come il processo in cui l’elemento tematico precipita in forma, spezzando così la forma antica. In un dramma dove, a un certo punto, si canta una canzone, il canto è tematico; nell’opera, invece è formale. Perciò le dramatis personae possono applaudire il personaggio che canta, mentre i personaggi dell’opera lirica non possono prendere coscienza del loro canto. La drammaturgia epica nasce quando il rapporto contenutistico soggetto-oggetto precipita in forma. Il dramma lirico sfugge a questa contraddizione, perché la lirica non affonda le sue radici, né nella fusione attuale, né nella separazione statica di soggetto e oggetto, ma nelle loro identità sostanziale ed originaria. La sua categoria fondamentalmente è lo stato d’animo. Nella lirica invece i temi si fondono, il passato è anche il presente e il linguaggio non è anche un fatto tematico che ha bisogno di motivazione e può essere interrotto dal silenzio. La lirica è in se stessa linguaggio, e perciò nel dramma lirico, linguaggio e azione non coincidono necessariamente. Essendo indipendente dall’azione, il linguaggio lirico può coprire gli abissi e le fratture nella vicenda, in cui si rivela, altrove, la crisi del dramma. 4. Tentativi di salvataggio Gli ultimi drammi tedeschi che sono ancora tali furono scritti da Hauptmann, si pensi a il vetturale Henschel (1898), a I Topi (1911) o a Rose Bernd (1903). Il dramma naturalista sceglieva i suoi protagonisti negli stati inferiori della società. Al divario sociale fra gli strati inferiori e quelli superiori della società corrispondeva quindi un divario drammaturgico: la capacità o meno di reggere un dramma. Il verbo naturalistico che in buona fede proclamava che il dramma non è proprietà esclusiva della borghesia, celava l’amara constatazione del fatto che la borghesia aveva perso da tempi il possesso del dramma. Si trattava di salvare il dramma. E così facendo l’adepto del naturalismo diventava un autore “moderno”. Il distacco sociale, che solo rende possibile il dramma del naturalismo, gli si rivela fatale come distacco drammatico. Poiché la compassione presuppone appunto una distanza; quella distanza che essa abolisce. Il vero autore drammatico è tutt’uno con le dramatis personae o rimane del tutto fuori dall’opera. In questo senso ogni vero dramma è lo specchio 22 inferno, ma inverte la predicazione e ci mostra l’inferno come un salotto dove il protagonista poco prima che cali il sipario pronuncia la battuta-chiava: “l’inferno sono gli altri”. Formalmente ciò tocca anche la crisi del dramma. Quando la socialità dell’uomo come categoria esistenziale diventa problematica, è messo in discussione anche il principio formale drammatico, il rapporto intersoggettivo. Ma il trasferimento di una situazione “trascendentale” non significa solo il distacco dall’esistenza umana come tale, esso permette anche uno sguardo retrospettivo alla propria esistenza nella sua particolarità. E lo sguardo retrospettivo non può definirsi epico: poiché il passato è, per i morti, un eterno presente. 5. Tentativi di soluzione La drammaturgia dell’espressionismo tedesco (1910-1925 circa), deve molto alla tecnica dello “Stationendrama” di Strindberg, poeta che aveva fatto-come nessun altro prima di lui- un uso per così dire privato della scena, disseminandola di frammenti tratti dalla storia della propria vita. Strindberg supera la limitazione al proprio io e il momento dell’anonimità formale è già implicito nel suo autoritratto. L’espressionismo assume la tecnica a stazioni di Strindberg come forma drammatica del singolo, di cui cerca di rappresentare il cammino attraverso un mondo che gli è divenuto estraneo. La tecnica a stazioni fissa in modo formalmente valido l’isolamento dell’uomo, ma ad espressione tematica non giunge l’io isolato, ma il mondo estraniato a cui l’io si contrappone. Solo nell’auto estraniazione il soggetto trova modo di esprimere se stesso. Nella drammaturgia espressionistica l’uomo si riduce al singolo. Rinunciando ai rapporti intersoggettivi l’espressionismo rifiuta la forma drammatica, che rifiuta il drammaturgo moderno, perché questi nessi sono spezzati. Erwin Piscator:“Il teatro politico”(1929) L’accenno a fatti della storia del palcoscenico è giustificato dall’influenza che le messe in scena di Piscator hanno esercitato sugli autori drammatici successivi, come anche dalla genesi negativa dei suoi sforzi dalla produzione drammatica del suo tempo. La sua prima messa in scena “L’albergo dei poveri di Gor’kij” che prende le mosse analoghe a quelli di “Prima dell’alba” e dei “Tessitori” di Hauptmann, presenta già importanti elementi della “rivista politica” in cui egli avrebbe risolto il dramma. Le modifiche di Piscator toccano la forma tematica nella sua essenza: sono rivolte contro la sua assolutezza. La scena attuale, che per il dramma costituisce un mondo a sé, diventa qui una “sezione”, la cui rappresentazione ha luogo secondo il principio della parte per il tutto. La scena drammatica è messa in rapporto con il mondo che la circonda e che essa rappresenta. La formula di Piscator distrugge l’assolutezza della forma drammatica che dà vita ad un teatro epico. L’epicizzazione più evidente e importante secondo Piscator è il cinema. Lo sviluppo del cinematografo dal principio del secolo fino agli anni ’20 è segnato da tre scoperte: 1. la mobilità della macchina da presa, cioè il variare dell’inquadratura; 2. Il primo piano 25 3. Il montaggio, la composizione delle immagini. Queste tre innovazioni permisero al cinema di acquisire possibilità espressive proprie e diventare un genere artistico in sé. Il cinema lascia nel passato gli avvenimenti passati che presenta documentariamente. Esso può anche anticipare il futuro nell’ambito della vicenda scenica, e sciogliere la tensione essenzialmente drammatica verso il futuro in un accostamento di carattere epico. Questo carattere epico del cinematografo, che si fonda sulla contrapposizione di macchina da presa e oggetto, sulla rappresentazione oggettiva dell’oggettività come oggettività, consentì a Piscator di comprendere nella vicenda scenica ciò che si sottrae essenzialmente all’attualizzazione drammatica: la realtà estraniata e oggettiva delle strutture sociali, politica economiche. In “Rasputin”, un dramma di Tolstoj, il film mostrando prima la fucilazione della famiglia dello zar, metteva a confronto i personaggi con il loro futuro destino. Anche i cori si rivolgono direttamente al pubblico. Ma dietro c’è l’ingigantito io epico che li tiene insieme e li presenta al pubblico col gesto dell’oratore politico: Erwin Piscator in persona. Alla pari di Piscator: Bertolt Brecht Anche Brecht è un erede del naturalismo. Anche i suoi tentativi si innestano dove la contraddizione tra tematica sociale e forma drammatica risulta evidente, cioè nel “dramma sociale” dei naturalisti. Ma mentre il regista Piscator fa emergere, dalla struttura antitetica del “dramma sociale” il momento della “rivista”, facendone un nuovo principio formale, il drammaturgo Brecht va più a fondo: ciò che più gli preme è il trionfo del principio scientifico, che appartiene essenzialmente al naturalismo. Il teatro deve rappresentare i rapporti intersoggettivi nell’epoca del dominio della natura, e riconosce che questo implica alla rinuncia della forma drammatica. Il fatto che i rapporti intersoggettivi diventino problematici, rende problematico il dramma stesso, perché la forma drammatica concepisce come non drammatici quei rapporti. Di qui il tentativo di Brecht di opporre alla drammaturgia “aristotelica” (sia dal punto di vista teorico che pratico), una drammaturgia epica. Nel suo saggio sull’opera “Ascesa e rovina della città di Mehagonny” (1931) Brecht enumera i seguenti spostamenti: Forma drammatica del teatro Forma epica del teatro Attiva narrativa Involge lo spettatore in un’azione scenica fa dello spettatore un osservatore e ne esaurisce l’attività però ne stimola l’attività gli consente dei sentimenti gli strappa delle decisioni gli procura emozioni gli procura nozioni lo spettatore viene immesso in un’azione viene posto di fronte a un’azione viene sottoposto a suggestioni viene sottoposto ad argomenti le sensazioni vengono conservate vengono spinte fino alla consapevolezza l’uomo si presuppone noto l’uomo è oggetto d’indagine 26 l’uomo immutabile l’uomo mutabile e modificatore tensione riguardo all’esito tensione riguardo all’andamento una scena serve l’altra ogni scena sta per sé corso lineare degli accadimenti a curve natura non facit saltus facit saltus il mondo com’è il mondo come diviene ciò che l’uomo deve fare ciò che l’uomo non può non fare i suoi impulsi i suoi motivi il pensiero determina l’esistenza l’esistenza sociale determina il pensiero Questi cambiamenti hanno in comune la sostituzione drammatica di soggetto e oggetto, con la loro contrapposizione, che è essenzialmente epica. L’oggettività scientifica diventa così oggettività epica, e pervade tutti gli elementi dell’opera teatrale: struttura e linguaggio come messa in scena. Lo spettatore non è escluso, ma neppure è suggestionato a tal punto di non essere più spettatore. Poiché l’uomo protagonista dell’azione non è più che l’oggetto del teatro, si può andare al di là della sua persona e indagare sui motivi che lo spingono ad agire. Secondo Hegel, il dramma mostra solo ciò che, nell’azione del suo eroe, si oggettivizza della sua soggettività, ciò che si soggettivizza dell’oggettività. Nel teatro epico invece si riflesse sulla base sociale delle azioni e Brecht come autore e regista ha realizzato praticamente questa teoria del teatro epico. Le dramatis personae possono straniarsi o parlare di sé in terza persona. Come accade all’inizio de La madre di Brecht, in cui Pelagia Vlassova parla in terza persona. Lo straniamento del personaggio è rinforzato dall’attore, che nel teatro epico non deve immedesimarsi con il personaggio. Ciò non significa che egli deve restare impassibile. Il rapporto intersoggettivo nel suo insieme diventa tematico. Mediante questi straniamenti la contrapposizione soggetto-oggetto che è all’origine del teatro epico precipita formalmente in tutti i piani dell’opera, e diventa così il suo principio formale. Nel teatro di Brecht, nella modalità scientifico-pedagogica, “interpretare la vicenda e comunicarla al pubblico attraverso appropriati straniamenti è il compito precipuo del teatro”. Bruckner Per rendere evidente anche scenicamente il rapporto l’uno-accanto-all’altro degli uomini del suo tempo Strindberg aveva presentato sul palcoscenico la facciata della casa. Nell’insieme formale della “ Sonata degli spettri,” il processo epico, il fatto stesso di narrare, appariva come un’azione drammatica. Due autori degli anni ‘20 tentarono di rappresentare l’epicità di questo vivere l’uno-accanto-all’altro dandole forma adeguata al di là del dramma: G. Kaiser in “Vicinanza” e F.Bruckner ne “I criminali”. In Bruckner il sipario non si alza, l’opposizione dell’io epico è invisibile allo spettatore. È anche un’opera sulla problematicità della giustizia. La singola scena non regna sola come nel dramma, l’io epico dirige la luce del suo riflettore sull’uno o sull’altro vano della casa d’affitto. Fra le due scene che si succedono non c’è un nesso logico, qui subentra il montaggio. Il montaggio è quella forma d’arte epica che rinnega in narratore, è il prodotto industriale dell’epica. Al posto della facciata della casa usata da Strindberg, la quale comunque garantiva l’unità di luogo, Bruckner pone tre piani diversi in cui avviene lo 27 oggettivarsi all’uomo che l’ha vissuta. L'opera, la piccola città, è divisa in tre atti. Nei primi due viene descritta la semplice vita degli abitanti di una cittadina immaginaria degli Stati Uniti d'America: Grover's Corners. In essi viene data importanza ai semplici gesti e momenti che caratterizzano la vita di tutti i giorni. In particolare è mostrata l'evoluzione della storia d'amore di due giovani. Nel terzo atto, dopo un salto temporale di vari anni (il periodo in cui la vicenda si svolge va dal 1901 al 1913), si descrivono i cambiamenti intercorsi nella città e la morte di vari personaggi. Tutte le vicende sono presentate e commentate dal personaggio del direttore di scena che è per lo più estraneo ai fatti ma a momenti vi prende parte. Il teatro del tempo, Wilder Nei drammi analitici di Ibsen, si rappresenta il tempo: nominandolo e calcolandolo. Ma al drammaturgo Ibsen era negato di esprimere l’essenza del tempo, poiché ciò era possibile solo ad una forma letteraria. Ma la struttura temporale del dramma è una successione assoluta di attualità, così Ibsen drammatizza la vita dei suoi personaggi solo nel suo ultimo capitolo, dipanando poi, analiticamente, nei dialoghi, a partire da questo finale rappresentato scenicamente. Il tempo come tale è divenuto un problema solo per l’epoca postclassica, che chiamiamo borghese, e il cui drammaturgo più significativo fu proprio Ibsen. Non bisogna confondere “drammaturgo” e “scenico”, negando che il tempo possa costituire il tema, non solo del dramma, ma anche del teatro in generale. Basta infatti una sola opera in cui sia stata realizzata la rappresentazione dialogico-scenica del tempo, perché questa possibilità sia teoricamente confermata. E questa rappresentazione è riuscita nell’atto unico di Wilder “il lungo pranzo di Natale” (1921). Il trascorrere del tempo è evocato in una purezza priva d’oggetto e recato a esperienza immediata con mezzi drammaturgici presi in parte dal cinema, ma tali da svolgere pienamente la loro funzione solo sul teatro. Wilder adopera il montaggio e accosta tra loro, come narratore, numerosi squarci, ma come drammaturgo va al di là di ciò che può fare il film, fondendo questi frammenti dispersi nel tempo in un’unità drammatica che dà l’immagine di un unico pranzo di Natale. Questo trasforma il montaggio epico in un fatto drammatico assoluto e fonda la sua continuità, rendendo possibile quell’esperienza immediata del tempo. La trasformazione del montaggio che abbraccia novant’anni in un fatto drammatico, determina, in quest’ultimo, una dissociazione del decorso temporale in un decorso temporale formale, che corrisponde al tempo della rappresentazione, e in decorso temporale contenutistico, che è dato invece dal montaggio originario. Questa dualità che per l’epica è ovvia e trova espressione nel binomio “tempo della narrazione e tempo narrato” di Muller, ha effetto speciale nell’ambito drammatico. Si forma così un costante dualismo di ciò che muta e ciò che permane, e questo dualismo si pone anche alla base dello stile scenico: alla scenografia realistica della sala da pranzo si accosta una scenografia simbolica che, in quanto evocatrice del tempo, si contrappone in funzione epica all’illusionismo drammatico che opera la prima. Il lungo pranzo di natale narra novant’anni (dal 1860 al 1950) di storia della famiglia Bayard, scandita nel tempo dai pranzi del giorno di Natale, simboli per eccellenza di aggregazione familiare. La storia, vede in scena nove personaggi, rappresentanti di tre generazioni, che si avvicendano sul palco seguendo il ritmo inesorabile della vita e della morte, e che di volta in volta rappresentano vizi, virtù e caratteristiche tipiche della propria era, scandendo un rituale quasi meccanico. 30 Dentro ci sta di tutto, dalla residenza familiare vista come elemento accentratore, alle posizioni autoritarie dei matriarcati e patriarcati di una volta, che però pian piano si disgregano a favore di costumi più aperti, alla solitudine di un nubilato forse scelto o forse larvatamente imposto, agli orrori della prima guerra mondiale ed i lutti che ne derivano, fino ad arrivare, in un crescendo, alla contestazione di tutto ciò che sembrava ovvio e giusto in favore di una assoluta libertà di pensiero e di azione ed alla conseguente rottura degli schemi, che porterà le nuove generazioni, e non solo, a fuggire lontano alla ricerca della propria identità. Ecco dunque che quella casa bella e piena di vita si trasformerà in un tetro mausoleo di ricordi, dove la solitudine regna sovrana, solo illuminata da un barlume di speranza verso un nostalgico ritorno al passato. Il ricordo, Miller La produzione di Arthur Miller manifesta l’evoluzione della tematica epica che dalla forma drammatica raggiunge una forma adeguata. In “Erano tutti miei figli”, 1947, Miller ha cercato di salvare il dramma sociale analitico di Ibsen trasferendolo immutato nell’America odierna. Tutti i momenti secondari dell’azione hanno il compito di trasformare il racconto del passato in un fatto drammatico, come il ritorno della fidanzata di Larry e di suo fratello; non manca neppure l’oggetto, mediante il quale, in Ibsen, il passato che continua a vivere nell’intimo dei personaggi affiora visibilmente nel presente: in questo caso è l’albero che era stato piantato un tempo per Larry. In “Morte di un commesso viaggiatore”, 1949, invece, si abbandona la forma drammatica evitando l’impiego di tutti questi espedienti perché all’azione intersoggettiva che obbligherebbe a parlare del passato (il passato non è, qui, recato a forza alla luce e al linguaggio nel confronto drammatico dei personaggi) si sostituisce la condizione psichica di un uomo che cade in preda ai ricordi. Come tale è descritto il commesso viaggiatore Loman, ormai alle soglie della vecchiaia: da qualche tempo i suoi familiari osservano che egli parla spesso tra sé; in realtà egli rivolge loro la parola, ma non nel presente reale, bensì nel passato, che egli ricorda e che non lo lascia più. Alla fine, per essere utile alla famiglia, che potrà riscuotere il premio di assicurazione, Loman si toglie la vita. In quest’opera la scena si trasforma continuamente attraverso il ricordo involontario del protagonista, che affiora continuamente e si accosta al suo presente sostituendolo; pertanto cadono le unità drammatiche di tempo, luogo e azione, perché il ricordo non conosce barriere o limiti di spazio e tempo. Particolare evidenza assume questo concetto nelle scene di passaggio, che affiancano la realtà esterna a quella interiore: il ricordo entra quindi nel principio formale scenico nel momento in cui il commesso viaggiatore ricorda suo fratello, questi è già in scena. Talvolta questo crea situazioni in cui i personaggi parlano senza ricevere risposta, sul genere del sordo di Cechov: è il caso del momento in cui accanto al dialogo si pone il monologo interiore, cioè il colloquio con la persona ricordata. In questo caso al posto dell’artificio tematico che consiste nell’introduzione del sordo (in Cechov), per creare questo malinteso continuo si utilizza l’accostamento dei due mondi, il ricordo e la realtà, la cui rappresentazione simultanea è resa possibile dal nuovo artificio formale. E’ infine, proprio il passato che ritorna presente ad aprire gli occhi al commesso viaggiatore, il quale cerca disperatamente la causa delle proprie disgrazie e in particolare degli insuccessi professionali del figlio maggiore. Infatti da una scena del suo passato apprende che il figlio lo aveva scoperto in una camera d’albergo di Boston con l’amante: capisce dunque che suo figlio è passato da un impiego all’altro e ha danneggiato la propria carriera, commettendo un furto, 31 per punirlo. In Morte di un commesso viaggiatore, Miller, non volle più svelare i segreti del passato attraverso il dialogo che vuole i personaggi seduti a giudici della propria vita, per amore della forma, ma al contrario, accostando il ricordo al dialogo presente, egli ha realizzato il paradosso di rendere scenicamente attuale il passato di più persone, ma di farlo per la coscienza di una sola, poiché la rappresentazione del passato basata sul principio formale non ha alcuna ripercussione sugli altri personaggi (la moglie rimane ignara del tradimento. In “Erano tutti miei figli”, Joe Keller è un ricco imprenditore, ex proprietario, insieme al suo socio Steve, di un'azienda che fabbrica componenti per aerei militari durante la seconda guerra mondiale. La sua fabbrica ha venduto all'aeronautica militare pezzi di ricambio difettosi causando la morte di ventuno giovani piloti. Keller fa ricadere la colpa sul suo socio,che finisce in carcere. Sulla famiglia Keller si abbatte però un'altra disgrazia: il figlio di Joe e sua moglie Kate (Larry) non è mai tornato dalla guerra ed è ormai disperso da tre anni. Kate non riesce ad accettare la cosa e lo aspetta tutte le notti. Giunge a casa Keller (in cui è ambientato l'intero dramma) Ann, la storica fidanzata di Larry. Ann è stata invitata da Chris, l'altro figlio di Joe e Kate sopravvissuto alla guerra, poiché egli vuole sposarla. Ann inoltre è la figlia di Steve, il socio di Joe incriminato e attualmente in carcere. Il matrimonio di Ann e Chris è ostacolato dalla madre di lui che si ostina a credere che il figlio sia vivo, ma anche dall'arrivo di George, fratello di Ann Che intanto è diventato avvocato. George sta tornando dalla prima visita fatta al padre da quando è in carcere, e al suo arrivo si scaglia contro Chris, rivelando che suo padre Joe è il vero responsabile per aver consentito la spedizione anni prima di quei pezzi difettosi. Chris e Ann cercano di gestire la situazione evitando di coinvolgere i genitori di lui e alla fine George va via furioso. Il nodo però giunge al pettine quando Chris vuole convincere sua madre che Larry è morto, per cui egli può sposare Ann; a questo punto Kate rivela che non accetterà mai la morte del figlio perché vorrebbe dire accettare che Joe abbia ucciso suo figlio (Larry era pilota d'aerei). A questo punto Chris capisce che ciò di cui parlava George è reale e dopo una lite furiosa con il padre scappa via. In sua assenza Ann mostra a Kate una lettera che gli mandò Larry il 25 novembre, il giorno in cui morì. Nella lettera Larry racconta di aver appreso dai giornali lo scandalo provocato dall'azienda del padre e confida a Ann di non sopportare il peso di quella colpa, per cui lascia intuire che nella sua prossima missione si toglierà la vita. Al ritorno di Chris scoppia un'altra grossa lite nella famiglia, Ann mostra anche a Chris la lettera di Larry, il quale la mostrerà al padre. Quest'ultimo, preso dalla disperazione realizza di aver ucciso suo figlio, nonché altri ventun piloti che "erano tutti figli miei", e annuncia di volersi consegnare alla polizia, poi esce di scena e si sente un colpo di pistola. In “Morte di un commesso viaggiatore”, Willy Loman è un commesso viaggiatore di 63 anni, ossessionato dall'idea del successo e dal perseguimento ad ogni costo della felicità materiale indotti dalla società americana. Nel corso di uno dei suoi viaggi di lavoro, si accorge di non essere più in grado di guidare la sua vettura e rientra a casa disperato, accolto dalla moglie Linda. Biff e Happy, i loro due figli ormai adulti, si trovano a casa quella sera, per incontrarsi dopo anni di lontananza. Mentre Linda e Willy discutono dei loro figli e del fatto che nessuno dei due sia una persona di successo, i due ragazzi intanto parlano del padre e Happy racconta a Biff come negli ultimi tempi il loro genitore sia sempre più strano, tanto da parlare da solo di eventi passati. Si apprende anche come Happy abbia un lavoro di basso livello; inoltre, in molte occasioni ha avuto delle relazioni con le future mogli dei suoi datori di lavoro. Nel frattempo il padre esce di casa ed inizia a vagabondare per la città parlando da solo: riporta alla memoria eventi passati e felici della famiglia Loman. Biff, quando era giovane, stava per ottenere il diploma alla scuola superiore: numerose università gli avevano anche offerto borse di studio per le sue doti di giocatore di football. Nel presente intanto, la madre e i figli discutono delle condizioni del padre e li informa del fatto che Willy ha già tentato il suicidio. 32 Le forme linguistiche sviluppatesi dal tempo delle avanguardie storiche, nel teatro posdrammatico diventano un arsenale di gesti espressivi che servono a strutturare la risposta del teatro ai cambiamenti delle comunicazioni sociali sotto l’influssio della generalizzata tecnologia dell’informazione. Il pericolo dell’analisi di questo nuovo corso teatrale è però quello di credere che il nuovo sia sempre e solo una variante del già conosciuto, rischiando così di produrre cecità ed errori di valutazione. Si è ampiamente consolidato il concetto di teatro postmoderno. Al suo interno si possono distinguere diverse modalità, i cui segni distintivi sono venuti a galla dopo numerosi studi partiti nel 1970: ambiguità, esaltazione dell’arte come finzione, esaltazione del teatro come processo, discontinuità, eterogeneità, negazione della testualità, pluralismo, molteplicità dei codici, sovversione, molteplicità degli spazi, perversione, l’attore come tema e protagonista, deformazione, testo come mero spunto, decostruzione, considerazione del testo come autoritario e arcaico, performance come terzo polo tra dramma e teatro, negazione della mimesi, resistenza all’interpretazione. Il teatro postmoderno è privo di un discorso, piuttosto fondato su meditazione, gestualità, ritmo, tono. Non conosce solo lo spazio vuoto, ma anche quello strapieno. Richard Schechner parla in modo paradossale di “dramma postdrammatico”, nel quale la “matrice generativa” non è più la storio, ma quello che chiama “il gioco”. Molti aspetti della pratica teatrale definita postmoderna non manifestano una rinuncia alla modernità, se la composizione non è più percepita come qualità dell’organizzazione ma come manufatto forgiato artificiosamente allora il teatro è di fronte alla possibilità di esiste al di là del dramma; non necessariamente al di là della modernità. Ovvio constatare come tali evoluzioni non si mostrino nei grandi teatri, le quali sotto la pressione delle regole convenzionali dell’industria dello spettacolo non osano discostarsi da un supino consumo di storie. L’aggettivo postdrammatico connota un teatro che si spinge a operare oltre il dramma, in un’epoca che si colloca dopo la validità del paradigma drammatico. Il teatro postdrammatico integra quindi la presenza, la ripresa o la continuazione di estetiche più vecchie, anche di quelle che avevano già abbandonato in precedenza l’idea del dramma sul piano testuale o scenico. L’affermazione che il teatro postmoderno abbia bisogno di norme classiche, così da stabilire una sua identità può causare un errore di prospettiva. È vero che le pratiche del nuovo teatro spesso si definiscono nella coscienza pubblica attraverso una differenziazione polemica dalla tradizione. Ma la sola provocazione non crea una forma; anche l’arte più provocatoriamente oppositiva deve creare qualcosa di nuovo per la sua stessa forza, non potendo definirsi unicamente attraverso la negazione delle norme classiche. Attraverso forme che suggeriscono un futuro e il cui valore, quindi, è nella progettualità si forma una nuova prospettiva, la quale, per Adorno, è la cosa più importante in quanto i capolavori più significativi restano comunque allusioni a capolavori compiuti. In un contesto simile si parla anche di teatro di avanguardia. Ma il concetto di avanguardia deve essere preso con scetticismo, perché, a prescindere dalle connotazioni marziali dell’espressione, è 35 difficile accettare le sue implicazioni di linearità, che indicano una progressione con avanguardia, retroguardia e, all’apparenza, una direzione ancora da trovare. Il teatro postdrammatico è essenzialmente collegato con il settore dei teatri aperti alla sperimentazione. Anche nel mainstream nuotano pesci meravigliosi, così come nella cantine dell’avanguardia si producono stupidaggini. Il discorso sui piccoli teatri dunque non equivale sempre a sostenere un teatro d’arte significativa. Seppur sia spesso in questi che si muove la sperimentazione più al passo coi tempi, quando invece nei grandi teatri si continua a consumare e a preferire il teatro del diciannovesimo secolo. 2. Dramma Epicizzazione Il teatro moderno ha già messo in discussione in modo sostanziale il modello obsoleto del dramma. La domanda era: che cosa arriverà al suo posto? La classica risposta di Peter Szondi fu riconoscere nelle nuove forme testuali le varianti di un’epicizzazione. Da allora questo concetto antitetico ha notevolmente ristretto lo sguardo su molte dimensioni degli sviluppi teatrali. Straniamento dal teatro e dal dramma I processi di dissoluzione del dramma dal punto di vista formale corrispondono agli sviluppi verso un teatro che non si basa assolutamente più sul dramma. Il teatro postdrammatico si presenta come un punto d’incontro delle diverse arti, richiedendo e stimolando un potenziale percettivo sempre più distante dal paradigma drammatico. Andrej Wirth ha posto l’accento sul teatro che si trasforma lentamente in uno strumento, attraverso cui l’autore (autore) rivolge il suo discorso direttamente al pubblico. Il punto fondamentale, della descrizione di Wirth, è che il modello dell’allocuzione diventa la struttura base del dramma, sostituendosi al dialogo conversazionale. Per lui la dissoluzione dei dialoghi nei testi di Heiner Muller, il discorso polifonico del Kaspar o l’apostrofe diretta di Insulti al pubblico in Peter Handke costituiscono “un nuovo modello di teatro epico”. Il modello del discorso, con il suo dualismo tra punto di vista e punto di fuga, regista onnipotente da un lato e osservatore solipsistico dall’altro, tiene in vita il modello ordinativo classico della prospettiva, che era determinante per il dramma. Spesso però il polilogo del nuovo teatro prende le distanze da un ordinamento centrato su un logos. Si arriva a una disposizione di spazi sonori e di senso aperti a molti usi. Conta così la presenza dei singoli attori, che non appaiono solo come semplici veicoli di un’intenzione esterna, ma agiscono con una loro proprio logica corporea. Artaud criticava proprio l’idea di un teatro borghese per cui l’attore è semplice agente del regista, che a sua volta si limita a ripetere la parola dell’autore. Wirth ha poi scritto: “Brecht diceva di essere l’Einstein delle nuove forme drammatiche”. La teoria di Brecht allude implicitamente al fatto che il messaggio a teatro non è solo di natura letteraria, ma si produce attraverso una partecipazione equilibrata di elementi verbali e 36 cinetici (gestus). Il teatro epico contiene un’innovazione e un compimento della drammaturgia classica. Perché la tesi racchiusa in Brecht è estremamente tradizionale: la fabula resta per lui condicio sine qua non del teatro. Il teatro postdrammatico è infatti un teatro post-brechtiano. Nella consapevolezza generale, teatro e dramma sono vicini, anzi quasi identici. Ma questo è un vecchio presupposto, perché quando non è più solo questione della rottura di un’illusione drammatica, quando per produrre il teatro si può rinunciare all’azione, a dramatis persone sviluppate plasticamente, allora il concetto di dramma ha così poca rilevanza da perdere qualsiasi valore. Il bisogno di azione, intrattenimento, diversione e tensione si serve ancora, anche se in prevalenza inconsciamente, delle regole estetiche tramandate dal concetto di dramma, per misurare su questo standard un teatro che le rifiuta con forza. Nel criterio della tensione permane il concetto classico di dramma e precisamente una sua specifica componente. Per quanto suoni fuori moda, al cinema e a teatro ci si aspetta una storia di intrattenimento: esposizione, esordio, peripezia, catastrofe. L’idea di tensione all’epoca dell’intrattenimento di massa al di là di tutti gli illusionismi della tecnologia è profondamente naturalistico. Qui tutto è basato sul contenuto. In riferimento al nuovo teatro il complesso concettuale di dramma/tensione porta invece a giudizi che sono in realtà pregiudizi. Perciò testi e processi scenici vengono percepiti in base al modello di tensione dell’azione drammatica, cosicché le condizioni teatrali della percezione, cioè le qualità estetiche del teatro in quanto tale, scivolano inevitabilmente sullo sfondo. Anche la lingua parlata determina le aspettative, su cui si fonda la ricezione. Le espressioni dramma e drammatico vengono utilizzate in tanti modi di dire. Si dice di una cosa che è drammatica intendendo che è una situazione seria, quindi spesos un conflitto tra posizioni umane, anche se accade persino per fatti in cui non compaiono scontri, né antagonisti. Evidentemente il senso comune associa alle parole dramma e drammatico un’atmosfera. Teatro formalista e imitazione Ci sono stati svariati tentativi teorici per salvare il principio di imitazione dell’arte, falliti davanti ad opere di Pollock, Newman o Twombly. Così come a partire dalla modernità il quadro non ha più interesse per la riproduzione, si richiede un piacere visivo riflesso, l’esperienza consapevole di una percezione visiva in sé, pura, indipendente da qualsiasi riconoscimento di realtà rappresentate. In teatro il rapporto con il comportamento umano reale sembra essere troppo diretto. Perciò qui l’azione astratta viene considerata solo come estrema e di conseguenza, in fin dei conti, irrilevante per definire il teatro. Questo slittamente dei confini tra i media sposta il dramma incentrato sull’azione del concetto estetico del teatro. Mimesi dell’azione La Poetica di Aristotele associa imitazione e azione nella nota formula per cui la tragedia sarebbe imitazione dell’azione umana, mimesis proxeos. In realtà, fino all’apparizione del cinema, nessun’altra pratica artistica poteva monopolizzare in modo così plausibile questa dimensione imitativa. Essa, in quanto originale, precede 37 dramma in quanto forma, per poi rimuoverlo dall’ambito della conciliazione estetica, che si realizza attraverso la penetrazione della materia sensibile. Se c’è però qualcosa che manca all’ideale classico è la possibilità di accettare ciò che è impuro e deviante dal senso. Dal periodo postclassico al presente il teatro ha compiuto una serie di metamorfosi che hanno affermato il diritto al diverso, al parziale, all’assurdo, al brutto. Eppure sia dal punto di vista contenutistico che formale una certa ambiguità interna della tradizione classica era già presente nelle radicali questioni filosofiche del teatro classico. Per questo il teatro post drammatico non è solo un teatro al di là del dramma, quanto invece uno sviluppo di un potenziale di disintegrazione presente nel dramma stesso. Secondo Hegel il dramma richiedeva un’interpretazione da parte di uomini reali, capaci di incarnare i personaggi. Questo ci consegna una singolare “autoriflessione performativa del dramma”. Non essendo più la voce del narratore centrale, diviene necessaria una pluralità di voci che ottengono una tale autonoma legittimazione. Hegel vede gli attori come statue in movimento, capaci di sviluppare una coscienza ironica della performance. “invece di essere solo gli strumenti, che si annullano nel loro ruolo, gli attori sperimentano un’inversione nella gerarchia tra bellezza, etica e soggettività. L’esperienza fondamentale dell’attore è produrre una validazione morale attraverso gli individui”. Necessariamente il dramma per Hegel è al margine dell’arte, sul confine tra arte e ideale, “l’apparizione sensuale di un’idea” priva di forma. La fine dell’arte inoltre appare come una fine dell’idea dell’arte classica, una fine dell’arte interna all’arte stessa, e nata con lei. Dalla prospettiva dei più nuovi sviluppi dell’arte e delle forme teatrali la presentazione hegeliana dello sviluppo antico appare come un modello della dissoluzione del concetto di teatro drammatico. 3. Sulla preistoria del teatro postdrammatico Teatro e dramma sono stati e continuano a essere in un rapporto di tesa contraddizione. La conoscenza del teatro postdrammatico comincia con la presa di coscienza di quanto la sua esistenza sia connessa alla reciproca emancipazione e divisione tra dramma e teatro. Attraverso il concetto di postdrammatico comprendiamo la trasformazione del comportamento espressivo propriamente teatrale. Il processo storico di separazione delle due componenti, testo e teatro, può partire dalla considerazione che in principio teatro era scaturito dal rito, sviluppato in comportamento formalizzato prima ancora dell’avvento di qualsiasi forma di scrittura. Rappresentava processi emotivamente impattanti con l’ausilio di maschere, costumi e attrezzeria, in modo tale da combinare danza, musica e gioco del personaggi. Questa semiotica antecedente alla scrittura rappresenta a suo modo una sorta di testo, la differenza con la formulazione del teatro letterario moderno salta però comunque all’occhio. Nel teatro borghese questo concetto rituale, muto, scompare, il testo domina in quanto offerta di senso, mentre gli altri mezzi teatrali erano puramente funzionali. 40 Walter Benjamin scrive: “a livello drammatico il mistero è quel momento in cui si supera il dominio del proprio linguaggio. Per questo le parole non bastano a esprimerlo, ma solo la rappresentazione: essa è il drammatico nel vero senso del termine”. Ecco infatti che tale concetto è integrata dal postdrammatico, il quale integra rito e cerimonia fondendo dramma e teatro. Prima tappa: dramma puro e dramma impuro Il punto di partenza è il dramma puro. In questo il dramma non è solo il modello estetico, ma porta con sé essenziali implicazioni epistemologiche e sociali: l’obiettiva importanza dell’eroe, dell’individuo, la forma del dialogo scenico. Ci sono ovviamente state delle eccezioni in relazione al modello, come Shakespeare, che potremmo definire dramma impuro. Il carattere essenzialmente semantico del dramma si può ritrovare anche in queste forme: l’incarnazione dei personaggi o delle figure allegoriche attraverso attori; la restituzione di un conflitto in collisione drammatica. Seconda tappa: la crisi del dramma, strade alternative per il teatro Verso il 1880 si manifesta la crisi del dramma. Szondi distingue i famosi tentativi di soluzione o conservazione cui gli autori giungono sotto gli impulsi di un mondo in rapido cambiamento e di un’immagine umana trasformata; piano piano si fa strada però una prima forma di scetticismo verso l’idea di conciliabilità di teatro e dramma. Si sviluppano nuove forme testuali, che contengono elementi narrativi e reali solo in forma distorta e rudimentale: il landscape play di Gertrude Stein, i testi di Antonin Artaud per il suo teatro della crudeltà, il teatro della pura forma di Witkiewicz. Queste modalità testuali decostruite anticipano elementi letterari dell’estetica teatrale postdrammatica. Dalla fine del diciannovesimo secolo, tutte le grandi opere scritte per il teatro erano segnate da una totale indifferenza verso i problemi che la loro composizione avrebbero comportato nella trasposizione scenica. Tra teatro e testo si è creata una frattura. Gertrude Stein era ed è considerata irrappresentabile, cosa comprensibilissima se si mettono a confronto i suoi testi con le aspettative del teatro drammatico. La sollecitazione di Brecht per cui gli autori non avrebbero dovuto rifornire la macchina teatrale con i loro testi, ma piuttosto trasformarla, si è realizzato. A questo proposito Heiner Muller ha dichiarato addirittura che un testo teatrale è valido solo se per il teatro già esistente è impossibile da mettere in scena. Processo di autonomia, riteatralizzazione È solo dopo questa rottura che il teatro smette di orientare la scelta dei suoi mezzi a partire dalle esigenze di un dramma che necessita una messinscena. La conquista della nuova libertà comportava anche l’ingresso del teatro nell’epoca della sperimentazione. Questa evoluzione subisce un’accelerazione a partire della svolta storica prodottasi nei media con la nascita del cinema. Quel che fino ad allora era stato il dominio specifico del teatro, la rappresentazione di persone in azione e movimento, viene assunta e perfezionata dalla 41 nuova matrice di rappresentazione tecnica del cinema. Si comincia a riconoscere come differentia specifica del teatro il fatto che avvenga dal vivo. Proprio sotto gli impulsi dei nuovi media, quelli vecchi diventano autoriflessivi. È accaduto nella pittura con la nascita della fotografia, nel teatro con la nascita del cinema, in quest’ultimo con la nascita della televisione e delle nuove tecniche video. La dinamizzazione dello sviluppo delle arti pare così nascere dalla sua decadenza. Dalla decomposizione della totalità di un genere nei suoi singoli elementi spuntano nuove forme linguistiche. Se gli aspetti verbali e corporei che in precedenza in teatro erano ‘incollati’ si sperano. Si producono nuove occasioni di rappresentazione. La concentrazione sulla teatralità rispetto alla componente letteraria, definita reteatralizzazione, è sintomatica delle avanguardie storiche. Lo scopo non era soltanto quello di ricordare le possibilità puramente estetiche della teatralità. Non si trattava soltanto una riteatralizzazione immanente al teatro, ma al tempo stesso di un’apertura dal teatro ad altro, alla riunione, alla festa e al rito. Nel corso di questa evoluzione è nato ciò che viene chiamato teatro di regia o teatro dei registi. Esso è senza dubbio una premessa per il dispositivo postdramamtico, ma anche il teatro drammatico può essere ampiamente teatro di regia. Restituire al teatro complessità e verità era uno degli obiettivi centrali per Craig come anche per Cechov e Stanislavskij, Claudel e Copeau. Alcuni tra i sostenitori dell’autonomia e della riteatralizzazione del teatro espressero l’intento di bandire completamente il testo, seppure il teatro radicale dell’epoca non era semplicemente motivato dal disprezzo del testo, ma ne perseguiva anche il salvataggio. Il teatro di regia che andava emergendo spesso si proponeva specificatamente di liberare i testi dalla convenzione, preservandoli dall’essere utilizzati come gli ingredienti arbitrari, banali e distruttivi di effetti teatrali culinari. La tradizione del testo scritto è più minacciata dalla convezione museale che dal confronto con forme radicali. Terza tappa: la neoavanguardia Per la genealogia del teatro postdrammatico l’esplosione della neoavanguardia è importante. I tentativi sperimentali in Germania si fanno avanti timidamente, mentre negli Stati Uniti al Black mountain Collage si scoprono nuovi percorsi e sulla scena salgono John Cage, Merce Cunnigham, Allan Kaprow e altri. Con il rock poi per la prima volta nella storia viene prodotta una musica espressamente indirizzata ai giovani. È l’inizio dell’avanzata della cultura giovani. Nella Germania che nelle arti figurative e nella cultura quotidiana segue le tendenze americane, a teatro riscuoto grande successo le opere di Beckett, Ionesco, Sartre e Camus. Negli anni Sessanta è infatti al centro dell’attenzione il teatro dell’assurdo. Esso annuncia l’evidente mancanza di senso dell’azione drammatica. Per Ionesco le parole diventano “gusci sonori privi di senso”. Eppure anche nel gioco dell’assurdo il teatro rimaneva una riproduzione del mondo. L’atmosfera dell’assurdo è fondata su una Weltanschauung politica, filosofica e letteraria: l’esperienza delle barbarie del ventesimo secolo, la realizzazione della possibile fine della storia (Hiroshima), le burocrazie senza senso, la rassegnazione politica. La formula “per noi l’unica possibilità è la commedia” esprime la perdita di un’interpretazione tragica del mondo in quanto unità. Al cinema la traduzione congeniale di questa esperienza 42 è stato carico di conseguenze per l’estetica del teatro. Un teatro che integra le azioni e le esternazioni del pubblico nella sua propria costituzione, non può considerarsi completo in sé, né dal punto di vista pratico, né da quello teorico. L’evento teatrale esplicita la natura processuale che gli è congenita, compresa la sua imprevedibilità. È possibile riconoscere in questa svolta da messaggio ben confezionato ad atto performativo un aggiornamento delle prime speculazioni romantiche sull’arte, in cui si perseguiva la simpoesia tra lettore e autore. Questa idea è incompatibile con quella di una totalità estetica tra lettore e autore. Questa idea è incompatibile con quella di una totalità estetica dell’opera teatrale. Così il teatro manifesta solo una parte, mentre attende la presenza e il gesto di uno spettatore sconosciuto. Velocità, numeri Il teatro moderno è stato inflenzato in modo significativo da forme di intrattenimento popolari, tra cui salta all’occhio il sistema dei numeri. La passione per il ballo e il gusto per la perfezione delle riviste contagia le avanguardie. I suoi elementi diventano virali, vengono tematizzate nuove immagini del corpo. Cabaret e varietà vivono del principio della parabasi e si rivolge al pubblico in modo diretto. Il desiderio di un teatro che fosse evento condiviso nell’attualità del qui e ora di tutti coloro che ne erano partecipi. Il principio di smantellamento della coerenza dipende dalla trasformazione dell’esperienza quotidiana che sembra rendere impossibile un teatro calmo e tranquillizzante. Nel 1900 Otto Julius Bierbaum annota: “il cittadino di oggi ha i nervi del varietà; solo raramente ha la capacità di seguire vaste connessioni drammatiche, di sintonizzare la sua vita emozionale per tre ore su uno stesso tono: egli vuole cambi – varietà.” Il teatro postdrammatico porterà questa frammentazione del continuum anche nei drammi classici. Landscape Play La preistoria del teatro postdrammatico è fatta di progetti che concepiscono il teatro, palcoscenico e testo come paesaggio (Stein), o come una costruzione che deforma la realtà (Witkiewicz). Ambedue gli approcci ai tempi rimasero teoria, almeno per quel che riguarda il teatro. I testi della Stein sono stati a malapena allestiti, Witkiewicz formulò una teoria a cui si uoi testi rispondevano solo parzialmente. Il loro potenziale d’innovazione si è chiarito solo in termini retrospettivi. Quando Gertrude Stein parla della sua idea di landscape play, sembra reagire alla sua personale esperienza, per cui il teatro rende sempre orribilmente nervosi, per il fatto di riferirsi continuamente a un altro tempo (futuro o passato). Si sarebbe dovuto osservare quel che accadeva sulla scena come si osserva un parco o un paesaggio. L’elemento distintivo no è tanto la pastorale quanto una concezione di teatro come poema scenico totale. Gertrude Stein non fece altro che trasporre a teatro la logica artistica dei suoi testi, il principio di un esteso presente continuo (continuous present) di concatenazioni sintattiche e verbali. Nei suoi testi la riproduzione della realtà recede a favore del gioco di parole, non ci sarà dramma e neanche una storia, non si potranno distinguere protagonisti e mancheranno ruoli e figure identificabili. Per il teatro postdrammatico l’estetica della Stein è di enorme importanza. 45 Forma Pura Le idee di Gertrude Stein hanno punti di contatto con la teoria della “forma pura” di Stanislaw Ignacy Witkiewicz, detto anche Witkacy. Il suo pensiero è l’abbandono della mimesi a teatro. Il testo teatrale deve aderire soltanto alla logica interna della sua composizione. Da Cézanne in pittura, dalla moderna poesia francese in letteratura, si è potuta osservare un’autonomizzazione del significante, il cui gioco è assurto tra gli aspetti predominanti della prassi estetica. In ogni caso con teorie come quelle della Stein e di Witkiewicz il teatro non fa che recuperare le tendenze già manifestatesi nelle altre arti. La costruzione assoluta degli elementi formali e non rappresenti la riproduzione della realtà. Il pensiero di Witkiewicz è pessimista. Egli è convinto che il senso per l’unità metafisica andrà perduto, ma che fino a quel momento sono ancora possibili alcune singole manifestazioni individuali di questa coesione, anche a teatro. Il suo compito è quello di trasmettere un senso di unità cosmica. Poiché generalmente il teatro ha lo svantaggio di essere costituito da elementi eterogenei, Witkiewicz lo considera tra le forme d’arte complesse, per cui la pura forma è raggiungibile solo fino a un certo punto. Ci si allontana dalla vita. Questi pensieri sono presi soprattutto dalla pittura, dalla quale Witkiewicz desume continuamente i suoi modelli. Questo orientamento a partire dalla pittura attribuisce i suoi modelli. Nella sua teoria della pura forma c’è solo un unico esempio di realizzazione scenica immaginata da lui. Ciò che vi descrive potrebbe essere davvero un allestimento di Robert Wilson: tre persone, tutte vestite interamente di rosso, attraversano la scena, si inchinano davanti a chissà chi, uno di essi recita una poesia. “Uscendo dal teatro si deve avere l’impressione di essersi risvegliati da qualche sogno strano” Espressionismo Esprimere l’inconscio, i cui incubi e desideri non rispondono ad alcuna logica. Mentre i drammi della trilogia di Lulu in Wedekind mostrano il desiderio in un processo drammatico, il posteriore Assassioni, speranza delle donne di Kokoschka risulta dal montaggio di singoli quadri senza una chiara logica narrativa. Il tema dell’uomo come creatura desiderante venne rafforzato attraverso contorsioni fisiche esasperate e superfici corporee dipinte, maschere e smorfie. Questo costituisce il punto di partenza per l’emergere della danza espressiva. Nell’espressionismo resta interessante che due tendenze divergenti confluiscano: la forte volontà di formalizzazione che conduce alla costruzione da una lato, e il tentativo di favorire l’espressione degli impulsi soggettivi dall’altro. Surrealismo Il cinema e l’espressionismo concorrono con il surrealismo a privilegiare un’articolazione basata su una tecnica di costruzione, collage e montaggio, che richiede e alimenta velocità, intelligenza e flessibilità della capacità associative nel destinario. Nonostante il surrealismo abbia avuto manifestazioni più letterarie, poetiche e filmiche che non teatrali, la ricerca di un 46 evento teatrale pubblico, quasi politico, rientrava nella logica della sua tendenza rivoluzionaria sociale e cultura. La transizione all’evento teatrale si realizza nella forma della msotra; la Exposition Intenrationale du Surrealisme di Parigi nel 1938 fu battezzata da André Breton: “un’opera evento d’arte o un evento opera d’arte”. I loro testi hanno esercitato indirettamente un enorme influsso sul nuovo teatro. L’idea surrealista di una reciproca ispirazione, che si realizzava quando fantasie nutrite dall’inconscio raggiungevano l’inconscio degli spettatori, sottolinea un tratto rilevante anche per il nuovo teatro della situazione (ispirazione tra scene e pubblico) e l’envirnomental theatre. Alcuni attori erano piazzati nel pubblico, apparendo sia come persone reali, che come personaggi rappresentati, senza che i confini tra finzione e realtà fossero evidenti. Come aveva già spiegato Lautremont, che la poesia è prodotta da tutti e non dai singoli individui, così la tesi surrealista sosteneva che l’inconscio di ognuno offre possibilità alla creazione poetica. Questa posizione è presente molto spesso tra gli artisti contemporanei e Wilson ne è l’esempio più convincente. Le sue scene non vanno capite e interpretate razionalmente, ma devono invece scatenare associazioni, una produttività nel campo magnetico tra scena e spettatori. 5. Panorama Oltre l’azione: cerimonia, voci nello spazio, paesaggio In occasione della messinscena di Sommerfaste (i villeggianti) della Berliner Schaubuhne, Botho Straub, che ne curava l’adattamento, annotava riguardo alla decisione della regia di riorganizzare il materiale dialogico di Gor’kij del I e II atto lasciando comparire tutti i personaggi in scena contemporaneamente. Il teatro qui presentava un coinvolgimento di stati interiori ed esteriori. In effetti la categoria più appropriata per il nuovo teatro non è quella dell’azione, ma quella degli stati. Il teatro nega la possibilità di sviluppare una storia, quantomeno la relega sullo sfondo. Lo stato è la rappresentazione estetica del teatro, che mostra più una formazione che una storia, nonostante al suo interno si muovano attori viventi. Il teatro postdrammatico è un teatro degli stati e delle formazioni dinamiche sceniche. Al contrario non è possibile pensare ad alcuna forma di teatro drammatico che, in un modo o nell’altro, non presenti un’azione. Quando Aristotele dichiara che il mito, nella Poetica coincide con la trama, è l’anima della tragedia chiarisce che il dramma è una serie di azioni composte e costruite per mezzo di un artificio. Brecht, suo critico, in questo lo segue nel suo Kleines Organon: “la storia secondo Aristotele è l’anima del dramma, e la pensiamo allo stesso modo”. Questa però nel teatro postdrammatico viene soffocata. Al contrario della diegesi (la modalità epico-narrativa del racconto), fin dall’antichità la mimesi ha incarnato la rappresentazione della realtà imitativa. Una qualità dell’arte che è differente dall’imitazione è però la “funzione estetica”, essendo infatti la “capacità dell’isolamento dell’oggetto toccato dalla funzione estetica”. Il momento esteticamente “isolante” corrisponde a ciò che accade alle festività, e ciò lega tale funzione alla forma di cerimonia. Ora è evidente che la dimensione della cerimonia è 47 In un’epoca in cui la narrazione organizzata normalmente non riesce più a raggiungere la densità del mito, il teatro di Wilson cerca di avvicinarsi alla logica pre-razionale dei mondi delle immagini mitiche. Soddisfa il piacere postmoderno della citazione di mondi immaginari dei tempi che furono. Questo teatro è privo di sentimenti o pietas sebbene parli dell’esperienza del tempo e sia testimone del lutto. Gli esseri umani diventano sculture gestuali. L’associazione a una pittura tridimensionale fa apparire le cose come nature morte e gli attori come ritratti a figura intera. Come nel mito, la vita appare come momento del cosmo. L’uomo non è distinto dal paesaggio, l’animale, la pietra. È una metamorfosi continua, lo spaio dell’azione appare come un paesaggio in interrotto cambiamento a causa dei diversi stati luminosi. C’è qui un’affinità tra il teatro di Wilson e i testi di Gertrude Stein, i suoi landscape play. È un teatro post-antropocentrico sarebbe un nome adatto per un’importante forma che il teatro postdrammatico può assumere. Se i corpi umani si inseriscono in un’unica realtà con gli stessi diritti degli oggetti, degli animali e delle linee energetiche, il teatro consente di immaginare una realtà altra rispetto a quella in cui l’uomo ha il predominio sulla natura. 6. Segni teatrali postdrammatici Privazione della sintesi Il concetto di segni teatrali deve comprendere in questo contesto tutte le dimensioni del significato, non soltanto i segni che portano informazioni determinabili, cioè significanti che denotato un significato identificabile o lo connotano come evidente, ma virtualmente tutti gli elementi del teatro. Vengono percepiti come segni nel senso di manifestazioni o gesticolazioni che richiamano l’attenzione e hanno senso grazie all’effetto di aumento creato dal contesto della performance. Basti dire che è necessario fare spazio alla possibilità dei segni teatrali proprio per mezzo di una privazioni dei significati. È essenziale però al contempo sviluppare forme analitiche ed espositive per ciò che, detto in modo diretto, resta non senso all’interno del significante. SI potrebbe dimostrare che in questo cambiamento si nasconde un’inclinazione al solipsismo. Per questa ragione, se il nuovo teatro vuole arrivare a superare contestualizzazioni private e prive di impatto, deve cercare altre strade che facilitino punti di contatto impersonali. Essi si trovano nella realizzazione di libertà: libertà da assoggettamenti gerarchici, libertà dalla coazione alla forma finita, libertà dalla richiesta di coerenza. La realtà consiste in sistemi instabili invece che in circuiti chiusi. La sintesi viene sacrificata in favore del raggiungimento di una densità di momenti intensi. Immagini oniriche 50 Si viene a formare una comunità che non è costituita di simili, cioè di spettatori che vengono resi simili attraverso la condivisione degli stessi elementi. In questa sospensione delle regole del conferimento di senso si annuncia una sfera di condivisione e comunicazione che è figlia delle utopie della modernità. Nel sogno è fondamentale la non-gerarchia tra immagini, movimenti e parole. I pensieri onirici formano una texture, che rimanda al collage, al montaggio e al frammento. Il sogno diventa il modello per eccellenza, ed è un’eredità del surrealismo. Sinestesia Non è possibile evitare di notare che il nuovo teatro presenta tratti stilistici attribuiti alla tradizione manieristica. A questo si aggiunge il principio manieristico dell’equivalenza: al posto della contiguità prevista dalla narrazione drammatica si trova un’eterogeneità disparata, in cui ogni dettaglio sembra poter essere interscambiabile con l’altro. Il sistema percettivo umano sopporta con molta difficoltà la mancanza di correlazioni. Qualora le connessioni gli vengono sottratte, tende a formarsene di proprie, diviene attivo, la sua immaginazione diventa selvaggia. La sinestesia immanente all’accadimento scenico non è più l’implicito elemento costitutivo del teatro presentato alla contemplazione come lavoro di messinscena, ma l’esplicita offerta di attività teatrale in quanto processo comunicativo. Perché i sensi rispondono a proposte o sollecitazioni dell’ambiente, una disposizione a costruire un’unità a partire dalla molteplicità di texture di percezioni, allora le pratiche estetiche offrono l’opportunità di intensificare questa attività di sintesi per mezzo di un impedimento mirato. Performance text Non si deve però dimenticare che una texture non è fatta di pietre come un muro, ma come un intreccio di fili, cosicché il significato di tutti i singoli elementi in definitiva dipende dal modo con cui essi sono tessuti. Per il teatro postdrammatico è quindi vero che il testo scritto e o orale trasposto a teatro, vengono messi in un’altra luce da una concezione modificata del performance text. Si rimescola da cima a fondo questi due livelli teatrali attraverso una qualità strutturalmente modificata dle performance text: con più presenza che rappresentazione, più condivisione che comunicazione, più processo che risultato, più manifestazione che significato, più energia che informazione. 1. Paratassi/Non gerarchia: è la degerarchizzazione dei mezzi teatrali. Gli elementi non vengono connessi in modo univoco. Questo significa che una luce può essere talmente forte che improvvisamente si guarda solo quella, o che un costume parla una sua propria lingua, o che c’è una distanza tra chi parla e il suo testo e una 51 tensione tra musica e testo. Ad esempio interessa che uno spazio formuli un movimento, che abbia un suo tempo. Un paragone con la pittura si può fare con i quadri di Bruegel, le figure rappresentate appaiono stranamente congelate e immobili. Il carattere narrativo delle immagini, sono vistosamente de-drammatizzate: ogni singolo elemento pare avere lo stesso peso. La conseguenza è un cambio di atteggiamento da parte dello spettatore. Nell’ermeneutica psicoanalitica si parla di attenzione liberamente fluttuante. Freud scelse questo concetto per segnalare il modo in cui l’analista ascolta il paziente. Qui si tratta di non comprendere tutto immediatamente. Così il significato viene sostanzialmente rimandato. 2. Simultaneità: Heiner Muller spiega di voler caricare il lettore e lo spettatore con tante cose in contemporanea, affinché gli sia impossibile elaborarle tutte. Interrogandosi sull’interpretazione e l’effetto della simultaneità si deve affermare che la parcellizzazione percettiva diventa un’esperienza inevitabile. Inoltre nel caso in cui ci siano più proposte parallele spesso non è evidente se tra esse esista una correlazione o se semplicemente esteriormente contemporanee. In questo senso al posto di una totalità organica c’è l’inevitabile carattere frammentario. Lo spettatore mantiene una propria sfera di scelta e decisione riguardo a quel che desidera seguire, accompagnato dalla frustrazione connessa alla realizzazione del carattere esclusivo e limitante di questa libertà. 3. Il gioco con la densità dei segni: Violare la regola convenzionale e la norma della densità dei segni, più o meno stabilita nel teatro postdrammatico, è diventata la regola. C’è il troppo o il troppo poco. In relazione al tempo e allo spazio o all’importanza della cosa, chi segue percepisce una sovrabbondanza o, all’opposto, una notevole riduzione dei segni. Il mondo di McLuhan doveva diventare una cultura della sovrabbondanza. Esso ha accresciuto a tal punto la densità e la quantità degli stimoli, che questa abbondanza di immagini ha portato sempre più alla scomparsa del mondo osservato attraverso mezzi fisici. Non sappiamo ancora se il permanente bombardamento di immagini e segni con il tempo non finisca per allenare gli organi a registrare in modo sempre più superficiale. Il sovrabbondante mondo di immagini finirebbe per condurre alla morta delle immagini stesse, dal momento che tutte le impressioni prettamente visive verrebbero registrare più o meno come mere informazioni e le qualità specificatamente iconiche delle immagini verrebbero percepite sempre meno. Una considerazione analoga potrebbe essere applicata alla percezione sensoriale-estetica. L’ipotesi è che l’esperienza visiva della televisione, già a paragone con l’esperienza visiva del cinema possa condurre a una riduzione dell’affettività a una piano puramente mentale, di informazione più o meno astratta La relativa profondità e la ridotta dimensione dello schermo televisivo non permettono una percezione visiva intensa. Il teatro postdrammatico lavora invece con una strategia di rifiuto: mutismo, lentezza, ripetizione e durata in cui nulla accade non si trovano solo nei primi lavori minimalisti di Wilson, ma anche ad esempio in Jan Fabre. Palcoscenici giganteschi vengono lasciati provocatoriamente vuoti, le azioni e i gesti ridotti al minimo. Su questa vi ellittica, il vuoto e l’assenza vengono accentuati, similmente alle tendenze nella letteratura del modernismo al fine di privilegiare deprivazione e vuoto. 52 Solo con il teatro postdrammatico il piano di realtà viene esplicitamente oggettivato a livello fattivo, non concettualmente come elemento che entra in gioco non solo come nel romanticismo teoricamente, ma anche nella stessa configurazione teatrale. In De Macht der Theaterlijke Dwaasheden di Fabre, dopo un’azione estenuante le luci si accendono nel bel mezzo della rappresentazione e gli attori, stanchi e affannati, fanno una pausa per fumare una sigaretta, guardando il pubblico. Resta incerto se questa attività insalubre sia effettivamente reale oppure messa in scena. L’esperienza del reale, l’esclusione di finzioni illusorie, spesso provoca delusione a causa della riduzione, della povertà messa in evidenza. Trova invece ancora difficoltà l’approccio per cui l’aspettativa che il teatro debba offrire una rappresentazione sublimata degli umani è limitante, e per cui il teatro è anche una rappresentazione sublimata degli umani è limitante, e per cui il teatro è anche un’arte del corpo, dello spazio, del tempo come lo sono la scultura o l’architettura. Schenchner pone la automutilazioni degli artisti performativi sullo stesso livello dei famigerati snuff film e delle lotte dei gladiatori, poiché in tutti questi casi “creature viventi vengono reificate come agenti simbolici. Questa reificazione è mostruosa, e io la condanno senza eccezione”. L’insicurezza attraverso l’indecibilità, se si tratti di realtà o di finzione. È da questa ambiguità che scaturisce l’effetto teatrale e con esso l’effetto sulla cosicenza. Mukarovsky sostiene che l’opera d’arte: “si presenta in definitiva come una vera e propria accumulazione di valori extra-estetici e come nient’altro che questa stessa accumulazione”. Allora non è banale affermare che il processo estetico del teatro non si può svincolare dalla sua reale materialità extra-estetica, analogamente all’oggetto d’ideazione estetica di un testo letterario, che non può essere distinto da carta e inchiostro. Il teatro ha luogo al tempo steso come prassi simbolica e come prassi completamente reale. Tutti i segnali teatrali sono contemporaneamente anche oggetti fisici reali. Infatti “dal momento che il teatro usa i prodotti materiali della cultura come suoi propri segni, come segni estetici, esso crea consapevolezza riguardo al carattere semiotico di questi prodotti materiali, mostrando la relativa cultura, come una prassi generativa di significati in tutti i suoi sistemi eterogenei”. La natura simbolica potenziata del teatro corrisponde alla sua natura concreta, priva di significato, non meno confusiva. Essa è il primo fattore che consente l’irruzione del reale. È inscritto nella costituzione del teatro che il teatro, che nell’apparenza teatrale è letteralmente mascherato, può riaffiorare in qualsiasi momento. A questo punto ha luogo uno slittamento che induce tutte le questioni morali e a regolamentazioni comportamentali, esperite attraverso quelle estetiche teatrali in cui c’è un confine netto tra realtà ed evento a cui si assiste. Quindi se è vero che è soltanto il tipo di situazione a decidere del significato delle azioni e che l’elemento essenziale dell’esperienza teatrale diventa il fatto che lo spettatore stesso decide la sua situazione, esse deve anche assumere la responsabilità di definire il modo della sua partecipazione strutturale al teatro. Quando nella rivista messa in scena da Peter Brook sul Vietnam, Us, in scena veniva bruciata una farfalla, la cosa faceva ancora scalpore. Nel frattempo il gioco con il reale è diventato prassi nel teatro postdrammatico e con esso del ruolo dell’etica. 10. Accadimento/Situazione: La domanda relativa alle metamorfosi che hanno luogo quando i segni in generale non possono più venire separati dalla loro collocazione 55 pragmatica nell’evento e nella situazione del teatro. In questo teatro postdramamtico degli eventi si tratta della realizzazione di atti nell’hic et nunc, che trovano compiutezza nel momento stesso in cui accadono e non devono lasciare tracce di senso. Al giorno d’oggi l’arte in azione non è più incentrata sull’esigenza di cambiare il mondo, che trova espressione nella provocazione sociale, ma nella produzione die venti, eccezioni, attimi di deviazione. Anche l’happening, soprattutto nella sua variante americana, inizialmente non era un atto di protesta politica, ma come dice il nome stesso, semplicemente un’interruzione della quotidianità percepita come routine, per il fatto che qualcosa accade. Nel momento in cui il teatro mette in gioco il suo reale carattere di evento a favore e contro il pubblico, esso scopre la sua capacità di essere non solo evento d’eccezione, ma situazione che provoca tutti i partecipanti. L’uso del concetto di situazione accanto a quello più usuale di evento ha il senso di mettere in gioco la tematizzazione della situazione per la filosofia (Jaspers, Sartre, Merleau-Ponty) come una sfera instabile di scelte simultaneamente possibili e imposte e di virtuale trasformabilità della situazione. Gadamer a proposito della situazione, di starci dentro in modo tale “da non poterne avere nessuna conoscenza oggettiva”. Un teatro che, a questo modo, non è più soltanto situazione politica, ma sociale, si sottrae a una descrizione oggettiva, perché ogni singolo partecipante rappresenta un’esperienza, che non può essere identica a quella di un altro. Il teatro diventa una situazione sociale, nella quale lo spettatore comprende che la sua esperienza non dipende solo da lui, ma anche dagli altre. Ogni spettatore logicamente riceve soltanto il teatro che si è meritato attraverso la sua propria attività e disponibilità comunicativa, non dobbiamo in tal senso esistare a seguire il consiglio dato da Brecht: se non si vuole continuare a chiamare le nuove forme teatro, le si deve semplicemente chiamare teatro. Oltre l’illusione Appare utile tematizzare una concettualizzazione che in generale ricopre un importante ruolo nel dibattito sul teatro della modernità: illusione e disillusione. È dimostrato che essa è inutilizzabile per la comprensione del teatro postdramamatico. Il superamento dei limiti tra arte e realtà, teatro e altre arti, l’azione dal vivo e la riproduzione tecnologica, il recitare e il non recitare nel senso di Michael Kirby sono diventati l’elisir di lunga vita del teatro. Il teatro si poneva l’obiettivo di essere una forma di verità, compreso come verità artistica nel senso che questa, in quanto realtà mentale, non veniva assolutamente toccata dal carattere illusorio del teatro. Distanza estetica, memoria involontaria Nella pratica lo spettatore è consegnato all’accadimento teatrale in modo molto meno protetto che il lettore alle impressioni della letteratura. La percezione del teatro si differenzia anche in questo dalla lettura: il testo può provocare shock, eccitazione, confusione, ma dal punto di vista della ricezione estetica, ciò si trasforma in una forma di riflessione, mentre la corporeità spaziale del processo teatrale include lo schema intellegibile di ciò che è percepito in un tempo vitale degli affetti. Mentre un lettore percepisce le lettere dell’alfabeto, 56 chi va a teatro condivide e concilia continuamente la sua partecipazione immaginativa con quella reale e corporea, con la testimonianza sensoriale dell’esistenza delle cose. Il coinvolgimento fisico, che nel teatro drammatico resta soltanto latente, diviene manifesto dal momento che l’attenzione dello spettatore, invece che appuntarsi sul prodotto dell’illusione, viene diretta sulla posizione in quella sala, in quell’ora. Livelli di illusione Un’illusione completa non è mai esistita. In quel che si definisce illusione, a ben guardare, possiamo riconoscere almeno tre aspetti. Essa risulta dallo stupore per i possibile effetti della realtà (aspetto della magia); dell’identificazione estetica e sensoriale con l’intensità sensuale degli attori e delle scene, delle forme di movimento danzante e delle suggestioni verbali (aspetto dell’eros-chiaro o scuro) dalla proiezione dei contenuti della propria esperienza del mondo su modelli teatrali proposti, associati agli atti mentali del riempimento dei vuoti e dell’empatia con i personaggi rappresentati, come essa viene analizzata dall’estetica della ricezione (aspetto della concretizzazione). Da questo si desume che la finzione può essere ridotta o addirittura eliminata, senza far perdere quell’esperienza dello scivolare dentro o del venire rapiti nel mondo dell’apparizione, che spesso viene superficialmente chiamato illusione. 7. Esempi Una serata da Jan e i suoi amici L’artista bela Jan Lauwers, i cui primi spettacoli furono Night-Ilness nel 1981, Already hurt and not yet war e Simonne la puritaine nel 1982, seguirono Ca Va e poi il Julius Caesar il cui testo era predominante. Il suo teatro si basava sostanzialmente su immagini. In questo teatro di narrazione post-epica, l’azione, peraltro già frammentata e intessuta con altri materiali, appare soltanto come riferimento: narrata, riferita, comunicata accidentalmente. Tra i momenti più forti del suo teatro ci sono quelli in cui attori che sono appena morti nella finzione, un attimo dopo vengono tranquillamente accompagnati fuori scena da uno dei compagni: una vita sulla scena ha fine, l’attore resta legato agli altri in amicizia. Quando il teatro si presenta come uno schizzo e non come un quadro compiuto , esso lascia la possibilità di sentire la sua presenza, di riflettere, addirittura di contribuire al compimento di ciò che non è finito. Tutto ciò va a discapito della tensione, conseguentemente ridotta. Tanto più lo spettatore si concentra sulle azioni fisiche e sulla presenza degli attori. Come quasi sempre nei lavori di Lauwrs, lo spettacolo descritto parla della morte, della paura, della perdita. Lo guardiamo come conoscenti superficiali, senza prendervi parte realmente. Si potrebbe dire che lo spettatore passa una serata da Jan e i suoi amici. 57 In White Water del 1986 si tratta di un ragazzo convinto di aver avuto un’apparizione mistica. Con il teatro di Jesurun si presentano situazioni drammatiche nei dialoghi, ma restano frammenti che è lo spettatore stesso a dover sviluppare. Attraverso la procedura cinematografica questo teatro senza dramma diviene così paradossalmente più teatro, Ipernaturalismo La forma economica e ideologica dell’industria delle immagini filmiche ed elettroniche ha fatto sì che si affermasse la più insipida concezione di che cosa l’arte potesse o dovesse essere, e cioè perfetta rappresentazione o simulazione, e che la fissazione sullo stimolo volgare, prodotto da realtà illusorie, guadagnasse dignità teorica. Come Adorno ha sottolineato, l’arte cerca di difendersi contro questa atrofia con deliberate manovre di esoterismo, provocazione, rifiuto e negatività. Forme d’arte e generi vengono a malapena considerati come realtà a sé stanti, ma piuttosto come differenti modi di consumo (il libro che esce con il film), come veicoli per l’unica cosa degna di interesse: la storia. Goeth osservava che la gente vuole vedere i romanzi che ha letto il più possibile a teatro, rappresentazioni letterarie trasformate subito in immagini fissare su rame. “perché gli artisti, che in realtà dovrebbero creare le loro opre d’arte in base alle loro pure condizioni personali, cedono alle esigenze di spettatori e ascoltatori, che vogliono trovare tutto completamente vero”. E che “così alla loro immaginazione non resta niente, tutto deve essere vero sul piano sensoriale, totalmente presente e drammatico, e lo stesso elemento drammatico deve corrispondere incondizionatamente a ciò che è relamente vero”. Il teatro non riproduce, descrive. L’immagine teatrale ha per così dire una minore densità, presenta dei vuoti, mentre l’immagine fotografica non ha vuoti, è una duplicazione della realtà e in qualche modo così si fa menzogna. In altre parole: “il naturalismo radicale, implicito nella tecnica cinematografica, dissolverebbe ogni rapporto logico di senso nella superficie”. Con minuziosa raffigurazione caricaturale del quotidiano, Werner Schwab scriveva teti in cui una violenza insensata, formalizzata in orrori ritualistici, scaturisce dall’ambiente ottuso e pervertito della piccola borghesia. Il teatro, compreso quello realistico e naturalistico, si definiva non soltanto nella rappresentazione di quello che era stato rimosso dalla buona società, ma anche elevando formalmente a dramma la vita reale. Il nuovo naturalismo degli anni Ottanta e Novanta presenta situazioni che mostrano decadenza e assurdità grottesche. C’è un’esagerazione della realtà, ma questa volta l’esagerazione è verso il basso: dove sono i cessi, la feccia, nei luoghi interdetti al buon gusto, là ritroviamo nascosto l’agnello sacrificare, il pharmakos. Sceglieremo piuttosto il termine ipernaturalismo, appoggiandoci al concetto di iperrealismo che usa Baudrillard, e che veicola l’idea di una somiglianza non- referenziale e amplificata delle cose con se stesse, prodotta dalle tecniche mediatiche e non un adeguamento delle immagini al reale. Il salto dalla quotidianità all’assurdo, si presenta frequentemente in queste forme di teatro più che naturalistiche. Da scene di tutti i giorni nascono eventi bizzarri (Schwab). In realtà il naturalismo come si espresse la critica di Brecht, era il dramma della compassione. Per quanto il culto della compassione sia diventato problematico per il suo valore di emozione compensativa. Ora però al posto di questo compare una drammaturgia tragica o grottesca e tragicomica. Il gusto a giocare con la freddezza è un tratto significante del teatro postdramamtico. 60 Il nuovo teatro deve essere compreso nel contesto della massiccia virtualizzazione della realtà e della vasta penetrazione di tutte le percezioni attraverso lo schema dei media. Cool Fun Il teatro qui fa il verso ai media onnipresenti con la loro suggestione di immediatezza, cercando al tempo stesso una forma pubblica alternativa. Questo particolare approccio al teatro postdramamtico spesso trova ispirazione nei modelli dell’intrattenimento televisivo e cinematografico, facendo riferimento in modo indiscriminato a splatter movies, show televisivi, pubblicità, disco music. Queste forme teatrali, che spesso non sono quasi più neppure teatro, sembrano essere la risposta a una sensazione di fondo di mancanza di prospettive. Qui è difficilissimo trovare azione drammatica, ma al suo posto c’è piuttosto l’imitazione ludica di scene e configurazioni prese dai romanzi polizieschi, serie televisive o film. È un tendenza alla parodia. Il pubblico qui è teatralizzato dal momento che si fa appello alla sua conoscenza di altri testi e l’adesione alla parodia è confermata dalla risata. Lo spettatore segue un percorso di allusioni, di citazioni e controcitaizoni. La freddura più trita è preferita all’intollerabile e fasulla serietà della retorica pubblica e ufficiale. René Pollesch, Stefan pucher o il gruppo Gob Squad sono esempi tedeschi e inglesi del tentativo di ricercare le connessioni contemporanee tra tecnologia dei media e attori dal vivo, che operano senza un contesto drammatico, in modo associativo e con un lirismo pop. A questo teatro appartiene una nuova fioritura della cultura da bar, ritrovi che sono installazioni temporanee, luoghi di fuga dal mainstream, idilli marginali. Kitsch ostentato, solidarietà con il gusto delle masse, ribellione e voglia di divertimento sono un tutt’uno. L’implacabile divertimento tende a un’esibizione sarcastica di oscenità, violenza quotidiana, solitudine e voglie sessuali, connesse a citazioni ironiche e usi della cultura popolare. Come accade nel teatro del collettivo She She Pop, in cui spettatori e attori negoziano ciò che deve essere recitato, o in Hautnah (da vicino) di Felix Ruckert, nel quale il pubblico si riunisce dapprincipio in uno spazio dall’atmosfera simile a quella di un bar e ognuno sceglie un danzatore, per poi entrare con lui in una stanza separata dove lo vede ballare da vicino e viene coinvolto in un’interazione. In particolare in Olanda e Belgio si è sviluppata una vivace cultura di gruppo che vengono ospitati anche da teatri e centri culturali di grandi dimensioni, ricevendo un trattamento equiparato a quello degli ensemble più istituzionalizzati. Un altro esempio sono le messinscene di Castorf, mettono in relazione il teatro, il pettegolezzo e la banalità e articolano così una piccola ribellione a volte ridicola. Teatro dello spazio suddiviso Nel gruppo Angelus Novus venivano messi in atto con il pubblico discorsi elaborati in improvvisazione e letture, l’intensa presenza fisica degli attori in una situazione in cui non c’è differenza tra scena e platea. 61 Gli spettatori possono entrare e uscire come meglio credono. Quel che importa è la condivisione dello spazio: esso viene esperito e usato da attori e pubblico nello stesso modo, e in questo senso è diviso tra tutti. Nel lavoro Hamlet/Hamletmaschine a Tokyo nel 1992, che era allestito in uno studio cinematografico, il portone di accesso sulla strada rimaneva aperto per tutto il tempo. La sensazione di fuori e dentro diventava più intensa, l’ingresso e l’uscita della sala diventava percettibile in quanto atto, persino decisione dello spettatore. Un teatro postdrammatico della parola, ma anche della letteratura testuale, delle voci, del minimalismo teatrale. Gli elementi minimali che sono voce, corpo, spazio, durata temporale respingono la magia dell’illusione e, a partire da questo punto zero, fanno apparire una teatralità di tipo diverso. Non c’è un mondo scenico che cerca di commentare quel che dice il testo, tanto meno di illustrarlo. Per sospendere la separazione tra spazio scenico e pubblico, il teatro mette da parte l’uno dopo l’altro quei giocattoli, che normalmente sono stati visti come necessari se non costitutivi del teatro. Ogni individuo diventa l’unico spettatore: gli attori e il resto del pubblico sono il suo teatro. In secondo luogo si crea un’acuta consapevolezza per la propria presenza: quali rumori si emettono, in quale posizione ci si trova rispetto alle altre persone presenti e così via. La vulnerabilità del processo diviene una delle sue ragion d’essere e pone interrogativi sulle norme di condotta di ogni giorno. Con Fabre la responsabilità costitutiva di tutti i partecipanti, compresi gli spettatori, resta nella dimensione virtuale. Qui invece il teatro concede praticamente a ogni spettatore la possibilità di disturbare o persino impedire l’azione con atti indelicati o aggressivi. Con questa situazione teatrale, l’idea dello spazio tradizionale è stata abbandonata. Il corpo dello spettatore è diventato parte integrante della messainscena. Il tema viene affrontato in modo mitico o poetico, solo raramente in maniera esplicitamente politica. Soliloqui, monologie Diversi registi, come Klaus Michael Gruber (monologo del Fuast del 1982) o Robert Wilson (Hamlet – a monologue nel 1994), testimoniano la voglia di utilizzare testi letterari per ottenere forme teatrali monologiche. Marisa Fabbri nelle Baccanti di Euripide per la regia di Luca Ronconi ne è invece un altro esempio. Come uno degli ultimi lavori di Robert Wilson, Hamlet, dove lo spettacolo si situa in una lunga interpretazione monodrammatica dell’Ampleto. Il monologo di Wilson si rivela essere una riflessione e una memoria sull’orlo della mrote, organizzato come una sorta di flash back. Una ricordanza lirico-epica di un processo di riflessione e indagine in forma di narrazione manologcante. Ma che cos’è il formalismo, se se ne parla come fa Wilson? “formalismo significa guardare le cose a distanza; come un uccello che guarda nelle vastità dell’universo da un ramo del suo albero – davanti a lui si estende l’infinito, la cui struttura temporale e spaziale può comunque riconoscere” Jan Kott paragona il gran monologo dei drammi shakespeeariani con i primi piani nel cinema, in modo al tempo stesso illuminante e fuorviante. Quel che però accade nella percezione filmica del volto ingrandito dalla macchina è lo smontaggio dell’esperienza 62 Il compito dello spettatore non è più la ricostruzione mentale, la ri-creazione e la paziente riproduzione dell’immagine fissata, ma la mobilitazione delle proprie capacità di reazione ed esperienza per realizzare la partecipazione al processo che gli è offerta. In questo senso che Michael Kirby ha messo in uso i concetti di recitazione e non recitazione insieme a un’interessante differenziazione del passaggio da una recitazione con matrice completa a una recitazione senza matrice. La non recitazione, uno dei due estremi, si riferisce a una presenza, per cui l’attore non fa niente per rafforzare l’informazione che è data dalla sua esistenza presente. Se il contesto dei segni provenienti dall’esterno cresce, senza che l’attore li produca, si può parlare di recitazione ricevuta. Solo quando si addiziona l’elemento fittizio si può parlare di recitazione complessa, di recitazione nel senso pieno della parola per come è comunemente usata. Quest’ultimo grado si applica all’attore, mentre invece il performer si muove tra la recitazione semplice e la non recitazione. Posizionamento della performance In senso lato la performance è stata correttamente definita come “estetica integrativa del vivente”. Wolgang Matzat intravede già il pericolo che una estrema accentuazione della rappresentazione teatrale faccia apparire il teatro tipicamente vuoto: “i processi rappresentati divengono significanti senza significati”. Se non è data un’opera oggettiva da valutare, ma il valore è piuttosto rappresentato dal processo condiviso con il pubblico, esso dipende dall’esperienza degli stessi partecipanti, cioè da un dato altamente effimero e soggettivo in confronto all’opera inerte e fissata in modo durevole. L’ultima informazione non può essere altro che la coscienza che l’artista ha di sé: la performance è quello che annunciano coloro che la realizzano. Il teatro è tenuto a diventare atto e momento di una comunicazione, di uno scambio, non soltanto ammettendo il carattere momentaneo della situazione teatro, ma anche la sua precarietà. Autotrasformazione A essere in discussione è il seguente slittamento: teatro significa che gli artisti attraverso materiali o gesti offrivano una realtà trasformandola artisticamente. Nell’arte performativa l’azione dell’artista non serve tanto a trasformare una realtà, l’obiettivo è invece un’autostrasformazione. Se così il proprio corpo viene utilizzato non come soggetto dell’azione, ma al tempo stesso come oggetto, come materiale significante, allora un simile procedimento elimina la distanza estetica per l’artista stesso oltre che per il pubblico. Eric Burden, che si fece sparare, Iole de Freitas, Gina Pane che in A hot afternoon (1977) si provocò una ferita alla lingua con una lametta da barba. Il teatro ha conseguenze diverse rispetto all’arte performativa. Anche nel teatro possono verificarsi momenti di autotrasformazione, ma sulla soglia della loro assolutizzazione c’è un’interruzione. Effettivamente il concetto di autotrasformazione porta a considerare come estrema prospettiva della performance il suicidio in pubblico, un’esperienza radicalmente reale, presente e non ripetibile. La distanza estetica, si pure radicalmente ridotta, resta o no il principio del gesto estetico? Si cela la questione sull’opzione estetica. 65 Di principio il performer a teatro non vuole trasformare se stesso, ma una situazione e magari il pubblico. In altre parole: persino in un lavoro teatrale molto orientato alla performance, trasformazione ed effetto catartico restano: 1. Virtuali, 2. Volontari, 3. Futuri. L’ideale dell’arte performativa è di contro un processo e un momento: 1. Del reale, 2. Emotivamente coattivo, 3. Che accade qui ed ora. La performance in quanto rituale, come nel lavoro degli Azionisti di Vienna (Nitzsch, Muhl) si propone di operare un cambiamento in chi guarda. L’etica della catarsi richiede partecipazione. Il rito nella prassi teatrale e performativa contemporanea s’interroga sulle possibilità umane al margine dell’addomesticamento della civilizzazione. La tesi dell’antropologia teatrale sostiene che la vera polarità di base non sia tra rito e teatro (arte performativa), ma tra i parametri efficacia (che è quel che è in gioco nel rito) e intrattenimento (che è in gioco nell’arte). Aggressività, responsabilità Il corpo femminile, in quanto superficie proiettiva socialmente codificata di ideali, desideri, voglie e umiliazioni, è stato affrontato tematicamente in modo massiccio da quando la critica femminista ha reso manifesta la standardizzazione maschile dell’immagine femminile e il costrutto dell’identità di genere, favorendo la coscientizzazione dell’aspetto proiettivo dello sguardo maschile. In Kitchen Show la pittrice Bobby Baker invitava regolarmente un paio di dozzine di spettatori nella sua cucina e presentava un monologo surrealista pieno di eccessi sulla schiavitù della donna in cucina. Quando Marina Abramovic si offriva ai visitatori stabilendo la regola che avrebbero potuto fare di lei tutto quello che volevano, la percezione finiva per trasformarsi in un’esperienza di responsabilità. Nella suddetta performance alcuni visitatori erano caduti nella provocazione causata dalla mancanza di un limite, affiorò così un’aggressione manifesta, così che la performance dovette essere interrotta quando qualcuno mise una pistola carica nella mano dell’artista, puntandogliela alla tempio. Qui pericolo e dolore sono il risultato di una passività intenzionale, niente è previsto, perché la norma di comportamento è a discrezione del visitatore. Orlan pone un altro livello di inquietudine, le sue operazioni di chirurgia estetica furono messe in scena per il pubblico, mentre correggevano, abbellivano, sfiguravano, deformano il suo corpo – e qui in particolare il suo viso – in base agli ideali di bellezza della cultura occidentale (la fronte di Monna Lisa, il naso di Nefertiti e altri riferimenti) Orlan prova la sua libertà tendenzialmente assoluta di scegliersi, e questo sarebbe un’anticipazione di una futura società multiopzionale, nella quale non esisterà praticamente più nulla di determinato dalla natura e il singolo dovrà però farsi carica di tutto il peso della sua scelta e responsabilità. Gumbrecht ha dimostrato in che misura il gesto elementare di una “produzione di presenza, che sembra aver sottratto uno spazio importante alle forme, ai generi e ai riti della rappresentazione” è responsabile per la fascinazione verso lo sport. Pertanto è necessario disporre le cose a portata di mano così che possano essere afferrate, questa sarebbe la tesi 66 formulata da Benjamin, secondo cui l’irrefrenabile desiderio delle masse di rendere le cose palpabili sia alla base della perdita di aura delle arti. “la crescente importanza degli eventi sportivi sia parte di un più ampio slittamento nell’ambito della cultura contemporanea” nella quale il fenomeno culturale della produzione di presenza non più intesa come mimesi o rappresentazione sta guadagnando importanza. Tutte le esperienze estetiche conoscono questa bipolarità: il confronto con una presenza, improvvisa, e l’elaborazione di questa esperienza in un atto retroattivo riflessivo, di pensiero e reminiscenza. L’estetica del terrore di Karl Heinz Bohrer aiuta a circoscrivere con maggior precisione la presenza, “il tempo estetico non è il tempo storico di una trasposizione metaforica. L’evento compreso all’interno del tempo estetico non fa riferimento a eventi del tempo reale”, riepiloga. Quel che consideriamo la specifica temporalità della performance è un aspetto dello shock e del terrore. Ciò provoca una identificazione immaginaria. In quanto realtà estetica l’apparizione presente non invita alla spiegazione, all’investigazione o all’interpretazione di ciò che genera spavento, ma all’esperienza mimetica dello spavento. Deduce da questo modello le qualità dell’intensità e dell’enigma, che considera, a ragione, elementi costituitivi della esperienza estetica. 9. Elementi Testo Il nuovo teatro non fa che approfondire la non così nuova convinzione che tra testo e scena non ci sia mai stato un rapporto armonico, ma piuttosto un conflitto costante. Prima del logos nel teatro postdrammatico si presentano il respiro, il ritmo e l’ora della presenza carnale del corpo. Si giunge a una tale apertura e dispersione del logos. Artaud è stato il primo a teorizzarlo. Anche per lui però non si trattava della semplice alternativa a favore o contro il testo, ma di uno slittamento nella gerarchia. Julia Kristeva sottolinea che Platone nel Timeo sviluppa la concezione di uno spazio che restituisca un paradosso logico irrisolvibile: facendo intravedere l’essere che è al tempo stesso un divenire. Secondo questo pensiero, all’origine esisteva uno spazio che sfuggiva all’intendimento logico, nel quale grembo si differenziarono il logos e le sue opposizioni di significanti e significato, ascolto e visione, spazio e tempo. Questo spazio si chiama Chora. Essa si mantiene in conflitto con il logos. Kristeva definisce questa dimensione della Chora in tutti i processi significanti. Quel che va delineando nel nuovo teatro è un tentativo di restituzione della Chora: di uno spazio e di un discorso privo di telos, gerarchia, causalità, senso e unità prescrivibili. In questo senso è possibile dire che il teatro diviene Chora-grafia. Non si persegue il dialogo, ma la pluralità di voci, il polilogo. Dunque a sua volta il decadimento del senso non è insensato. Poetica del disturbo Una storia del nuovo teatro e già del teatro moderno potrebbe essere scritta come storia del reciproco disturbo tra testo e scena. Durante le prove di Hamletmaschine, Wilson sosteneva 67 supera o sovradetermina tutti gli altri elementi, si sottrae a una visione d’insieme, di cui è esempio il famoso Orlando Furioso di Luca Ronconi. Diventò uno dei grandi eventi di fama mondiale del cosiddetto teatro totale, presto diffusosi ovunque. Ciò che accomuna tutte le forme spaziali aperte al di là del dramma è che esse consentono allo spettatore di essere più o meno attivo, di essere più o meno partecipe in quanto co- attore. Se il confine tra vissuto reale e fittizio si confonde, questo ha grandi conseguenze per la comprensione dello spazio teatrale: esso, da spazio metaforico-simbolico diventa spazio metonimico. La figura retorica della metonimia produce la relazione e l’equivalenza tra due grandezze date, non come la metafora che sottolinea le analogie. Di contro nel teatro psotdrammatico lo spazio torna a esser euna parte dle mondo, anche se messo in rilievo, ma concepito come qualcosa che continua ad appartenere al continuum del reale: un segmento spazio-temporale delimitato, ma al tempo stesso parte in continuità e quindi frammento della realtà della vita. Il teatro di Wilson è esemplare in quanto teatro a effetto tableau. Non a caso a questo proposito è stata spesso citata la tradizione del tableau vivant. Un quadro ha una cornice e il teatro di Wilson è un esemplare teatro della cornice: ogni cosa inizia e finisce qui, un po’ come nell’arte del barocco, con un incorniciamento. Troviamo un’altra forma di spazio scenico nei lavori di Jan Lauwers. Qui i corpi, i gesti, le posizioni, le voci e i movimenti vengono sottratti al loro continuum spazio-temporale. La scena non è organizzata come un campo omogeneo, ma costituita da campi agiti in modo alternato e sincrono, segnati dall’uso di luci e oggetti. Diversamente da quel che accade nel teatro con fondamenti epici, gli accadimenti che hanno luogo nelle diverse zone del palco non sono collegati da una cornice di continuità narrativa. Il procedimento del montaggio scenico porta a una percezione che ricorda quella del montaggio cinematografico. Molte altre forme dello spazio multiplo sono rese possibili attraverso i media: i fatti possono accadere in un altro spazio, che è in relazione con la scena. In casi estremi gli spettatori non vedono nessun attore in modo diretto, ma ricevono immagini in forma di video trasmessi da altri spazi. In questo senso sarebbero da indagare alcuni spazi di John Jeserun, ma anche allestimenti sperimentali con barriere visive e trasmissione di suoni e immagini. Al contrario, lo spazio teatrale postdramamtico stimola connessioni percettivi imprevedibili. Esso spinge alla lettura e all’immaginazione, invece che alla registrazione e all’immagazzinamento di dati d’informazione, insegna una nuova arte dello sguardo, il guardare come un atto della costruzione libera e attiva, della connessione rizomatica. In Pina Bausch lo spazio è esso stesso un attore autonomo, al lavoro con il danzatore: in Café Muller sono le sedie, rovesciate via via dai movimenti violenti e passionali, a diventare ambiente. L’intero spazio sembra diventare un corpo, quando i rumori prodotti dai corpi umani, o la vita interiore organica riempiono lo spazio. Così il battito del cuore dei danzatori viene amplificato con un amplificatore del battito cardiaco oppure le loro forti inspirazioni ed espirazioni potenziate per mezzo di un microfono, risuonano nello spazio. Al di là dei consueti spazi teatrali ci sono possibilità definite con un’espressione che proviene originariamente dalle arti figurative: site specific theatre. Il teatro si mette alla ricerca di un’architettura o di una qualche località, ma perché esso stesso può essere reso espressivo 70 dal teatro. Lo spazio si presenta, esso diventa uno degli attori. Esso non è travestito, ma rivelato. Tempo Il teatro conosce la dimensione temporale propria della messinscea. A questo tempo sono soggetti sia gli spettatori che gli attori, ma del tempo comune di molti soggetti che condividono lo stesso tempo. L’azione fittizia e la messinscena conoscono anche un’altra dimensione di tempo che attraversa i vari livelli temporali: il tempo storico. Questa differenziazione resta in ogni teorica per la ricezione teatrale, poiché in esse si sviluppa un’amalgama, che combina diversi livelli temporali nel solo e unico tempo dell’esperienza teatrale. Persino strutture raffinate come il teatro nel teatro sono molto meno importanti per il teatro che per il testo. Il processo dello spettacolo dal vivo mette in gioco il suo tempo al tal punto che questo sovradetermina tutti i livelli temporali teoricamente distinguibili. La crisi del dramma ai primi del Novecento è fondamentalmente una crisi del tempo. I cambiamenti della visione scientifica del mondo (relatività, teoria quantistica, spazio-tempo). A partire dall’irriducibile alterità tra tempo della dialettica sociale e dell’esperienza temporale soggettiva, Louis Althusser ha elaborato il modello di tutto il teatro materialista e critico, il cui obiettivo dovrebbe essere quello di scuotere l’ideologia nel senso di una percezione centrata sul soggetto e di un disconoscimento della realtà. Questo teatro non favorisce un sapere, ma invece una teoria del non sapere e dell’errore, una presa di coscienza dell’accecamento e della disabilità della percezione soggettiva. Ormai, almeno dopo Nietzsche e dopo la formulazione del discorso sull’inconscio, il concetto di identità come continuità e familiarità primordiale del soggetto con se stesso è sospettata di essere una semplice chimera. Estetica postdrammatica del tempo Verso la fine degli anni Cinquanta si iniziarono a osservare nella pittura informale, nella musica seriale e in drammaturgia tendenze analoghe, basate sul rifiuto delle totalità costruite in modo tradizionale. Quel che si poteva constatare era la perdita di contesti temporali. Se negli anni Sessante Stockhausen prevedeva concerti in cui si potesse entrare in ritardo e uscire in anticipo, Wilson faceva furore istituendo pause a discrezione: due esempi che mettono a fuoco l’essenziale tendenza delle nuove drammaturgie temporali. Il nuovo concetto di tempi condiviso considera sia il tempo formalizzato esteticamente che quello reale vissuto come un’unica torta che viene spartita tra attori e spettatori. L’essenza del teatro drammatico considerava nell’esigenza che lo spettatore, staccandosi dal quotidiano, si trovasse in un ambito separato, un tempo onirico, abbandonando la sua sfera temporale per entrare in un’altra. Brecht voleva che gli spettatori pensassero e, come è noto, possibilmente fumassero. Il fumo era segno di un pacato distacco, non di una condivisione temporale: lo spettatore brechtiano infatti non si immerge emozionalmente nel qui e ora del processo scenico ma fuma tranquillamente, a distanza, nel suo tempo. L’estensione del tempo è uno dei principali tratti del teatro postdrammatico. Robert Wilson ha creato un teatro della lentezza ed è proprio da questa sua invenzione che è dato parlare 71 di una vera e propria estetica della durata. Accanto all’estetica della durata si è sviluppata in autonomia un’estetica della ripetizione. In Jan Fabre ed Einar Schleef la ripetizione funge innanzitutto come elemento di disturbo e di un’aggressività, a volte disperata, che può direzionarsi verso il pubblico. Nella ripetizione e nella durata ha luogo una cristallizzazione del tempo, una compressione o una negazione più o meno sottile dello stesso corso del tempo. Tuttavia, anche a teatro una vera ripetizione non esiste. Già il punto temporale della ripetizione è altro rispetto a quello dell’originale. E si guarda sempre quel che si è già guardato in modo differente. La stessa cosa, ripetuta, è inevitabilmente modificata. Seguendo il pensiero di Gottfried Boehm, ipotizziamo che l’immagine, in quanto forma relazionale presenti un tempo dell’immagine che è sua specificità. Esso fa appello al senso temporale dell’osservatore, perché individui, senta, sviluppi, il movimento. L’immagine dapprincipio rappresenta una situazione atemporale, ma l’osservatore con la sua empatia arriva a comprendere gli sviluppi del movimento, scoprendo il movimento temporale nell’immagine. Così il teatro postdrammatico realizza uno spostamento della percezione teatrale, provocatoria e noiosa, dall’abbandono di sé a un flusso narrativo verso un’esperienza costruttiva che porta a compimento la concezione complessiva, audiovisiva, del teatro. All’opposto del rallentamento, dell’immobilizzazione e della ripetizione, altre forme teatrali postdrammatiche tentano di adottare e persino di superare la velocità di ritmo dei media. Ci riferiamo qui all’avvicinamento all’estetica dei videoclip o a modulazioni del tempo teatrale tratte dal modello delle serie televisive. Ad esempio i lavori di Giorgio Barberio Corstetti, di Wooster Group, John Jesurum. Attraverso la mescolanza di azioni fisiche e materiale pre-registrato, si giunge alla dissoluzione dell’omogeneità del tempo. Le registrazioni degli attori sono portate sul palco in video partecipando alla rappresentazione in absentia, gli spazi temporali eterogenei possono essere connessi senza sforzo per mezzo delle strumentazioni elettroniche. La simultaneità che qui si fa dominante anche nelle azioni sceniche è una delle caratteristiche più rilevanti nelle costruzioni del tempo postdrammatica. Essa produce velocità. La simultaneità di differenti atti verbali e inserti video produce l’interferenza di diversi ritmi di tempo, mette in concorrenza tempo fisico e tecnologico. L’unità di tempo Il concetto di “drammaturgia non aristotelica”, che Brecht mise a punto negli anni Trenta, non differenziò tanto il teatro epico dalle regole classiche del teatro drammatico, quanto dall’obiettivo della catarsi dello spettatore attraverso l’empatia. “le relazioni tra gli uomini del nostro tempo sono poco chiare. Il teatro deve pertanto trovare un modo per rappresentare questa mancanza di chiarezza in una forma il più possibile classica, cioè in una serenità epica”. 72 L’idea di spiritualizzazione del corpo, Herbert Blau parla di questa dimensione spirituale del teatro e la paragona a Philippe Petit che cammina in equilibrio su un filo tra le due torri. Attraverso la disciplina il suo corpo diventa quasi spirito, attraverso il training fisico promettono un contatto con un livello di spiritualità più elevato. Grotowsky in Italia, a Pondera, lavorava con i suoi adepti a un teatro affine a certe pratiche religiose. Vassiliev dichiarava: “il cammino del materialismo è quasi alla fine”, sembra si vada alla ricerca di una sfera della lamentazione, che Vassiliev ha tenuto come dominante persino nel suo Amphitryon (1997), il teatro diventa luogo di preghiera. È abbastanza sorprendente: nell’epoca della tecnologia, il teatro resta il luogo elettivo della metafisica. Media Il teatro non simula, ma resta con evidenza realtà concreta di un luogo, di un tempo, di persone. Quel che però dovrebbe veramente preoccupare il teatro è la tendenza è la transizione verso un’interazione tra partner lontani attraverso una mediazione tecnologica. Nel teatro si tratta però di una struttura di comunicazione che non è incentrata sul processo di scambio di informazioni, ma su un altro modo di intendere. Il teatro invece poiché l’emittente e il ricevente invecchiano insieme, è una sorta di intimazione di mortalità, si tratta del “morituro potenziale” di cui parla Heiner Muller. Media nel teatro postdrammatico In alcuni casi i media vengono impiegati in modo occasionale, in altri essi servono al teatro, alla sua estetica o alla sua forma, in quanto fonte di ispirazione, in certe forme teatrali, essi sono costitutivi. La dimensione politica risulta evidente nella messinscena dell’Arturo Ui brechtiano di Sinai Peter, in cui gli orrori del terrorismo come vengono diffusi dagli schermi televisivi erano messi a confronto con le infauste promesse di sicurezza di Arturo Ui. Un altro esempio è l’epos teatrale di Robert Lepage in The Seven Streams of the river Ota, una sorta di viaggio teatrale storico e politico, che incrocia Hiroshima e New York, l’epoca del nazismo e quella contemporanea, affrontando tempi politici e memoria storia tra Stati Uniti, Giappone e Germania. Scenari italiani Dagli anni Settanta la scena italiana del nuovo teatro ha mostrato probabilmente il più grande interesse alle modalità del teatro high tech. I primi lavori della Societas Raffaello Sanzio (Romolo e Remo), Falso Movimento (diretto da Mario Martone), il quale, ispirato da Pasolini, mostrava il suo interesse inter-mediatico, soprattutto rivolto al cinema, che emerge anche in titoli come Theatre Function Critical (che alludeva a 2001 Odissea nello spazio) e nel lavoro teatrale tratto da Taxi Driver di Martin Scorsese. 75 Lo Studio Azzurro fece invece furore negli anni Ottanta specializzandosi nell’utilizzo di mezzi audiovisivi dalla fotografia, al video. Negli spettacoli di Corsetti ci sono figure umane che paiono camminare a testa in giù, trascinando i corpi segmentati grazi e amile di schermi che mostrano solo singole parti. Presenze virtuali Con i suoi mezzi specifici il teatro può anche creare spazi virtuali, come ad esempio nei lavori di Helena Waldmann. Nella performance Vodka konkav il pubblico prende posto di fronte a una parete, sopra a questa sono posizionati vari specchi grandi concavi. Quando la rappresentazione comincia, nella parte alta degli specchi appaiono corpi danzanti, moltiplicati, in parte deformati. Nei molteplici riflessi essi sembrano somigliarsi tanto che gli spettatori restano in dubbio se si tratti di un unico corpo raddoppiato. Durante questo spettacolo, che sottrae il corpo vivente allo sguardo, mentre al tempo stesso tematizza lo sguardo sul corpo, si sente dagli altoparlanti un testo dell’autore russo Venedikt Jefejev. La questione della rappresentazione si fa labirintica: che cosa si presenta al pubblico se non una presenza che cancella se stessa? È evidente che questo tipo di teatro rigetta la riproduzione cinematografica o televisiva, poiché finirebbe per livellare proprio le stratificazioni e le divisioni tra presenza fisica, immaginaria e mentale che costituiscono l’essenza. Video installazioni Risiedono in una posizione liminale tra teatro e arti plastiche. Le installazioni video o performative di Gary Hill o Bill Viola si avvicinano a procedimenti teatrali. Molte di queste installazioni sono interattive e di struggente comicità. Gli adulti possono divertirsi come bambini nell’attivare sculture cinetiche per mezzo dei propri rumori fisici, delle voci o dei passi. In una nuova installazione interattiva di Studio Azzurro dal titolo Coro, al suolo vengono proiettate alcune persone dormienti che prendono a muoversi se il visitatore le calpesta. La video installazione si avvicina al procedimento teatrale anche perché in essa è inscritta la temporalità. L’arco di durata dell’installazione Pneuma, ad esempio, è di mezz’ra. In The spleepers di Viola (1992) sul fondo di ognuno di sette barili pieni d’acqua è posto un monitor, è proprio il raddoppiamento della barriera tra coloro che guardano e coloro che sono guardati (l’immagine, l’acqua) a creare il desiderio di richiamare le immagini alla vita. I lavori di Viola confermano i temi della situazione e del rito che si impongono nel teatro postdrammatico. Si può inscrivere Hill, così come Viola, in un’estetica dell’inquietudine: “sono solo guastafeste, che se ne sta immerso in se stesso, una specie di spirito, che si muove come un pipistrello tra la foresta e il portone di una locanda immensa”. Una sorta di casa degli spiriti, questo spazio rappresenta un mondo di ombre. Subito il pensiero corre ai revenants, che tornano dal mondo dei morti e cercano il contatto con i vivi. Hans Belting sostiene che l’oscura cella spaziale della video installazione si differenzia sia dalla sala cinematografica che dallo schermo televisivo, “ci muoviamo fisicamente in questo spazio, così come ci muoviamo nel mondo, in quanto spazio: In questo è la superiorità di un’installazione rispetto a un monitor, nel quale tutte le immagini finiscono in una cornice”. 76 Immagine elettronica come sollievo Il teatro multimediale pone allo spettatore una domanda: perché l’immagine ha più fascino? Da cosa è data la magica attrazione che seduce e guida lo sguardo, posto di fronte alla scelta tra divorare qualcosa di reale e qualcosa di immaginario? L’immagine libera il desiderio da altre circostanze fastidiose prodotte dai corpi reali e le colloca in una visione onirica. “Televisione, videocassette, apparecchi video e computer si connettono attraverso le loro interfacce in un sistema che costituisce un altro mondo concluso in se stesso, che incorpora lo spettatore. Ciononostante i media elettronici non vengono vissuti come una proiezione chiusa e con una precisione configurazione ma come una trasmissione dispersa. Chi vive in questo ultramondo costituisce una forma di presente assoluto modificando anche la natura dello spazio” Il teatro è innanzitutto in senso antropologico, il nome di un comportamento in seconda battuta è una situazione, quindi e solo da ultimo è rappresentazione. Le immagini mediatiche sono nient’altro che rappresentazioni. L’immagine elettronica è un idolo. Il corpo, il volto nell’immagine del video basta a se stessa e a noi. Al contrario la presenza del corpo reale è sempre avvolta da un velo (generativo) di delusione. L’immagine elettronica manca di mancanze, di conseguenza non può fare altro che condurre alla prossima immagine, nella quale non ci sarà alcun disturbo, niente altro che ci impedisce di godere della sua pienezza. 10. . Epilogo Sui manifesti Se si considera il teatro come una pratica pubblica, con una pubblica ricaduta, è impossibile negare che pressoché tutte le funzioni designate come politiche gli sono sfuggite. Esso non è più il centro di una polis; il teatro, pratica di nicchia, non può essere un teatro nazionale, contribuendo al rafforzamento di una identità culturale e storica. Il teatro a scopo di propaganda, come negli anni Venti, è superato. Nella maggior parte dei casi un testo teatrale, scritto con ponderazione, divulgato e allestito, approda alle scena quando l’attualità ha già cambiato tema. Nel1966 Peter Brook e la Royal Shakespeare Company, con la loro composizione di teatro documentario, rito e happening in Us, potevano ancora aspettarsi un risultato politico, come negli anni Settanta il lavoro testuale e scenico collettivo di David Hare o di Howard Brenton. Nel teatro tedesco c’è una sorta di tradizione nella pubblicistica teatrale politica che continua a essere apprezzata. Le serate danzanti di Johann Kresnik su note figure politiche da Rosa Luxemburg a Frida Kahlo. Sono manifesti politici danzati, teatro danza fortemente visivo e a tesi. Poiché questi manifesti a volte tendono a un moralismo semplicistico, è certo possibile contestarne il valore politico. Ciononostante anche questo teatro di tendenza politica affronta lo stesso problema che Adorno aveva individuato nei testi di Rolf Hochhuth: l’individuazione di personalità note, dotate di nome e cognome, non riesce a centrare la realtà politica, che si dispiega nelle strutture, nei complessi di potere, nelle norme comportamentali e non nelle star della politica. 77 sua analisi, applicandosi a una realtà definita in modo oggettivamente politico, non può accontentarsi di una de-politicizzazione. L’immagine trasmessa in un lampo e apparentemente fedele alla realtà suggerisce il reale, che in verità stempera, ammansisce e indebolisce. Seppure i media rendono continuamente drammatici i conflitti politici, la sovrabbondanza di informazioni produce nelle onnipresenti immagini elettroniche uno scollamento tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione, tra immagine e ricezione dell’immagine. Quanto più illimitato è l’orrore dell’immagine, tanto più irreale è la sua costituzione. Orrore fa rima con comodità. Il perturbante, che Freud individuava nella fusione di significante e significato, ci viene invece evitato. Il teatro può reagire a questo stato di fatto, grazie a una politica della percezione che è al tempo stesso un’estetica della responsabilità. Appunti lezione I tre livelli di analisi Livello delle Fonti Il testo drammatico presuppone dei materiali che anticipano il testo ma che poi appaiono in questo. Il livello delle fonti comprende tutto ciò che il drammaturgo conosce e poi immette nel testo. Difficilmente le drammaturgie presuppongono un contesto esistente (pubblico ecc). In questo contesto il dramma è una forma di materiali testuali che sono antecedenti. Problema delle fonti: la tragedia greca. Essa nasce in contesti rituali, dionisiaci e agonistici. Queste tre realtà sono strettamente unite nella cultura greca. Durante le Olimpiadi si sospendevano le guerre in Grecia, anche se non durante le grandi Dionisie (erano solo ateniesi queste). Gareggiavano in quest’ultime tre tragediografi, presentavano un dramma satiresco e tre tragedie. C’era l’obbligo di rifarsi ai grandi miti: Guerra di Troia, Agamennone, le grandi opere orali della tradizione greca costituivano la fonte alla quale si riferivano gli autori tragici. La tragedia escludeva l’invenzione dell’argomento. Esso veniva assunto da fonti precedenti. Le prime tragedie sono del V sec. a.C e fanno riferimento a opere precedenti che erano opere trasmesse solo oralmente. La composizione è così figlia di altro; le fonti di una cultura. Il drammaturgo a secondo della fonte che sceglie può allontanarsi o avvicinarsi al pubblico. Può scegliere se porre il pubblico in uno stato di riconoscimento o di straniamento. Quando si vincola l’autore alle fonti si permette la libertà della variazione. Poiché ogni anno 3 tragediografi presentavano 3 tragedie l’uno era necessario puntare sulla variazione, affinché il pubblico, nonostante ascoltasse sempre la stessa storia, potesse viverla in maniera differente. Es. Antigone ricorre spesso nelle tragedie, ma è con Sofocle che viene messa in contrapposizione con Creonte. È il risultante di una scelta drammaturgica. È la storia stessa che 80 ci racconta che Creonte impedisce il seppellimento di Polinice, ma è Sofocle ha creare la realtà dialogica tra Antigone e Creonte. Es. Nell’Odissea Telemaco raggiunge Menelao a Sparta per avere informazioni sul padre disperso. Proteo a Menelao raccontò la storia di Agamennone e la riferisce a Telemaco. Nella tragedia la responsabilità dell’omicidio di Agamennone viene spostata, rispetto ad Odissea, dal nipote alla moglie, Clitemnestra. Che viene associata ad Egisto, in quanto amante. Qual è la ragione di queste variazioni? Bisogna guardare il rapporto tra le tre tragedie presentate. Esse potevano presentare temi differenti (es. Ulisse e Menelao). Non c’era l’obbligo di connessione. Es. Sofocle: Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone. Sembrano far parte di uno stesso organismo narrativo. Ognuna di queste però fa parte di un’altra trilogia. Unica differenza è L’Orestea (459 a.C) di Eschilo, unica trilogia pensata per essere presentata così: Agamennone (morte di Agamennone per mano di Clitemnestra, conclude con due cadaveri, Agamennone e Cassandra, e due assassini, Egisto e Clitemnestra), Coefore (Oreste, figlio di Agamennone, torna per assassinare la madre), Eumenidi (a causa di questa uccisione viene inseguito dalle furie, scappa a Tebe). Il finale della seconda tragedia è costruita affinché possa esisterne una terza. Prima tragedia finisce con Clitemnestra e Egisto e sotto i corpi defunti di Agamennone e Cassandra. La seconda finisce con la figura di Oreste e sotto i corpi defunti di Clitemnestra e Egisto. -> speculari La tragedia è il contrario rispetto al rito, inteso come i riti orfici. Si espande, riplasma memorie comuni. Mentre i riti si chiudono in loro stessi, si consumano. L’utilizzo delle fonti varia con il tempo, ad esempio in Shakespeare le fonti si moltiplicano: Storiche, Narrative, desunte dalla cronaca quotidiana. Contaminazione delle fonti, es. Romeo e Giulietta prende da fonti italiane, Boldello. Romeo e Giulietta parlano però in forma di sonetto, sono fonti liriche. Intreccio) Le fonti sono da sempre un problema: • Strindberg elimina la possibilità per il drammaturgo di riferirsi alle fonti. “l’unica fonte che conosce il drammaturgo è se stesso”. • C’è poi l’idea dei naturalisti (a causa dell’Influenza di Zolà), secondo cui le fonti devono coincidere con la fonte della realtà. Quasi un’analisi scientifica che elimina l’individualità dell’autore. Le fonti definiscono anche l’immaginario comune su cui lavorano gli attori. Definiscono il processo rappresentativo. A seconda delle fonti scelte si definisce la rappresentazione (siano esse di tipo Shakespeariano, Palermitano ecc.ecc. Livello performance: Tre modelli performativi, l’accostamento di questi modelli configura la struttura/forma tragica. 81 • Modalità corale • Elementi dialogico; personaggi dialogano tra loro, nell’Antigone sono centrali perché permettono di porre al centro il confronto tra Antigone e Creonte. • Kommòs: momento di canto solista dell’attore in scena. I coristi spesso si uniscono nel canto (ciò riprende il canto funebre). È un elemento performatico, Es Cassandra. Quando entra il coro prende forma un’altra dimensione della competizione; la competizione tra i cori della città. In seguito la Tragedia tende a diventare una τέχνη. Es. Agamennone di Eschilo. Nello stesso episodio abbiamo il Kommòs di Cassandra, che anticipa la morte di Agamennone, e alcune varianti Da un lato strutture performative preesistenti (capacità degli attori), dall’altro viene originato dalla scrittura drammatica . Nell’Orestea appare una struttura performante giudiziaria, la quale tra l’altro fa riferimento ad una riforma dell’Aeropago attuata da Pericle qualche anno prima della scrittura del testo (riferimento alla contemporaneità dell’autore). Livello dei contesti Drammaturgia nasce in una precisa pratica rituale. Ma qual è il contesto del drammaturgo? Bisogna capire i referenti contestuali della sua scrittura drammatica. 1. Assemble teatrale 2. Sociali: i tragici destinati a scrivere durante le grandi Dionisiache venivano scelti dall’arconte. Preciso inquadramento. Durante Shakespeare c’era il Lord degli intrattenimenti. 3. Rapporto con il potere: il teatro era luogo di incontro sociale, uno dei rari. Diventa oggetto di osservazione nel momento in cui il potere politico si rende conto che attraverso il teatro si incontrano le masse, un concentramento sociale da tenere d’occhio (divieto di costruire teatri in epoca Romana?). Situazione risolta nel tempo da una serie di riforme e istituzionalizzazioni. Il teatro diventa infatti poi strumento di potere, avere “dalla propria” i migliori drammaturghi significava avere potere. Shakespeare e la sua compagnia vengono definiti uomini del re King’s men. Il Macbeth è infatti per Giacomo I (Mecenatismo rinascimento?) Il Livello della Performance e Livello del contesto (circa) nel grande periodo tragico: Cosa c’era prima di Eschilo? Qualcosa che si chiamava Tragedia già c’era, e la parola stessa lascia già dubbi (canto del capro? canto dell’eroe). Dal punto di vista performativo sappiamo che era un qualcosa dove il tragediografo faceva tutto. Recitava, scriveva ecc. 82 Epitaffio Eschilo «Αἰσχύλον Εὐφορίωνος Ἀθηναῖον τόδε κεύθει μνῆμα καταφθίμενον πυροφόροιο Γέλας· ἀλκὴν δ' εὐδόκιμον Μαραθώνιον ἄλσος ἂν εἴποι καὶ βαθυχαιτήεις Μῆδος ἐπιστάμενος» «Codesta tomba Eschilo ricopre, d'Atene figlio, padre fu Euforione (apparteneva ad una casta elevata): il suo valor potrebber ben ridirlo di Maratona (è a Maratona che vengono fermati i Persiani, si presenta come un guerriero, non un tragico) il piano e il Medo chiomato.» (Anthologiae Graecae Appendix, vol. 3, Epigramma sepulchrale, p. 17 (trad. A. D'Andria)) Eschilo non ci parla del suo teatro, ma ci denuncia ciò che è centrale per lui: la realtà sociale in cui si trova. Lui aveva partecipato a due grandi battaglie, tra cui quella di Salamina. Dove il fratello perse entrambe le mani. 472 a.C presenta la prima tragedia che ci rimane; I Persiani. Si parla delle guerre persiane a cui lui aveva preso parte. Come presenta i Persiani è fondamentale. 480 c’era stata la battaglia di Salamina, quindi la guerra con i Persiani era ancora vivida. Le Fonti: o personali o extra greche. La fonte a cui Eschilo fa riferimento è lui stesso, poi con fonti esterne e non greche. Si parla della vittoria dei Greci sui Persiani dal punto di vista dei Persiani in modo tale da muovere compassione per il nemico. La reggia di Persepoli è l’ambientazione, la moglie di Dario, madre di Serse, è protagonista iniziale. è agitata per la scomparsa del figlio di cui non si ha più notizia. L’elemento epico della sconfitta del nemico viene eliminato, è un atto di pedagogia sociale. Sottolinea il dolore altrui. Come l’Aiace di Sofocle in cui si dice che bisogna trattare i nemici di oggi come fossero gli amici di domani. Questa pedagogia sociale insegna come non si possa riconoscere nell’altro un nemico, nemmeno quando lo è, come i persiani. Eschilo fa questa scelta perché impedisce che i Greci si commuovano troppo. La commozione esagerata era bandita. Se il pubblico viene spaventato a tal punto da allontanarlo è un errore che non cresce una cittadinanza pronta. In questa maniera Eschilo mostra i Persiani esprime una precisa pedagogia sociale, senza spaventare. Ci sono riferimenti al mondo persiano. I riti funebri della regina sono però uguali a quelli greci. Delle opere di Eschilo ne sono rimaste 7, su 90. Perché? Perché in periodo alessandrino venivano utilizzate per la formazione dei giovani, i quali dovevano memorizzare le tragedie. Ci resta dei tragici il compus didattico che ne è rimasto, utile per formare i giovani e mantenere un riferimento per la composizione. 85 Livello Performativo: Delle opere di Eschilo ne sono rimaste 7, su 90. Perché? Perché in periodo alessandrino venivano utilizzate per la formazione dei giovani, i quali dovevano memorizzare le tragedie. Ci resta dei tragici il compus didattico che ne è rimasto, utile per formare i giovani e mantenere un riferimento per la composizione. Aristotele riconosce nella tragedia delle parti quantitative, ovvero strutture che ritornano nella storia. Sono i cori, gli episodi, all’interno di cui ci sono i Kommos, in cui cantavano/si lamentavano gli attori. Il Kommos doveva sempre essere giustificato, da timori, da attese, da dolori. Portava quello che Aristotele definì “prima musica”, ovvero il parlato, a entrare in una realtà musicale. La tragedia è allora il mito calato in una successione di cori, di episodi, culminanti in parti cantate. Il drammaturgo teneva conto dell’entrata nella skené, delle uscite, e le skematai, ovvero le figure di danza del coro. La variazione tra episodi, far corrispondere parti cantate alla conclusione e molto altro sono alcune delle problematiche che l’autore tragico doveva affrontare. Nel coro dei Sette Contro Tebe ci sono 15 persone. Solitamente il coro è composto da anziani, qui no. Il coro è composto da fanciulle, da ragazze. Tebe è circondata da eroi nemici, disposti davanti alle sette porte. Le fanciulle sono terrorizzate, temono lo stupro e l’assassinio. Pregano allora gli Dei. Nello spazio del teatro potevano includere riferimenti divini senza cadere nella blasfemia, era concesso riempire lo spazio con statue di dei e il pavimento di tessuti purpurei. Il drammaturgo si pone il quesito riguardo le modalità della rappresentazione. Nel coro dei “Sette contro Tebe” venivano indicate le statue, si faceva riferimento a suoni che probabilmente si sentivano nello spazio teatrale. La tragedia non è rappresentare il mito come remoto, ma come remoto. Dal nostro punto di vista la libagione è antica, il richiamo agli dei è antico, ma per loro era contemporaneo. La tragedia è presente. Non a caso la prima opera tragica che possediamo sono I Persiani, il cui soggetto è assolutamente contemporaneo. è a partire dalle guerre persiani che la tragedia si avvicina ad una sorta di realismo, viene riformulata la visione di Atene; nasce la lega degli stati greci, la quale è intimamente connessa all’attivazione dello spazio rituale. Accanto allo spazio del teatro di Dioniso Pericle fa costruire una grande sala di ricevimento, in questa sala venivano accolte le città alleate che portavano l’obolo. Questo serviva per avere liquidità immediata in caso di attacco dei Persiani. Si trovava al Partenone. Il teatro di Dioniso ad Atene è una costruzione Romana, ma è nello stesso luogo di quello di età ellenica. Non c’era distinzione di spazio tra il luogo del coro e il luogo degli attori. I due luoghi erano condiviso e accerchiato da tre lati su quattro dalla presenza del pubblico. Già nei teatri di età romana si può riconoscere la differenza di spazi tra il luogo del coro e il luogo degli attori. Nel teatro greco no, è tutto in un’unica spazialità che gli attori e il coro agiscono, con l’aggiunta dei vari oggetti di scena, come le statue degli dei, i tessuti, i cocchi e così via. La Grecia dopo la morte dei tragici In Grecia, dopo la morte dei tre grandi tragici, cambia totalmente l’ambiente teatrale. Quando Aristotele scrive la poetica c’è un teatro di Repertorio, all’origine invece non c’è il repertorio. In questo periodo nascono i professionisti, i tecnici di Dioniso. Prima i soli professionisti erano i musicisti, gli altri no. 86 I professionisti si formano con la memorizzazione dei testi di repertorio, ovvero le tragedie del secolo precedente. Nel secolo precedente, nel periodo del grande teatro tragico, il teatro non esiste ancora come luogo fisico. C’erano panche, una tenda (la skené dietro cui gli attori si cambiavano) e poco altro. L’unica costruzione in pietra era situato alla destra dello spettatore che era il tempio di Dioniso. Ma il tempio era una cosa preesistente e permanente, il resto mutava e veniva smontato. La Poetica di Aristotele astrazione concettuale L’approccio di Aristotele estrae dalla pratica teatrale dei concetti. Questi sono alla base della cultura occidentale, mentre invece la Grecia li dimenticò. La Poetica non ebbe influenza rilevante in Grecia, era un’opera acroamatica, ovvero era uno strumento pedagogico, non un libro e nemmeno un trattato. Nasce come estensione di una pratica pedagogica sull’arte di comporre drammi. Con Aristotele l’arte di comporre drammi viene assimilata dalla pedagogia, diventa oggetto di pensiero. La Poetica nasce per formare persone. La Poetica prende una pratica, di cui si lamentava la decadenza, che non era certo quella dei grandi del passato, bensì era convertita in un coro fatto di intermezzi corali in cui l’azione era centrale rispetto ai caratteri, in cui il Kommos non era più il sacro del lamento funebre portato nella realtà drammatica ma semplice momento agonistico. Aristotele prende questo e codifica una realtà culturale ed estrae principi compositivi. Questi, una volta enuncleati, hanno sostanza pratica. Ma quand’è che l’influenza di Aristotele viene ad essere fondante? A seguito della tradizione rinascimentale in latino e in volgare. È la cultura del ‘400 che la rilancia, a partire dall’umanesimo che riprende i classici e li pone come pietra miliare. La tradizione occidentale si fonda su testi che sono in grandissima parte presi dalle tradizioni greche e latine. In quest’ambito la poetica di Platone e Aristotele inizia a diventare la base. La riscoperta della Poetica viene pari passo con la profonda stima dell’occidente per Aristotele, era già un’autorità assimilata. Dunque è un’opera la cui tradizione viene capovolta, nascendo come semplice strumento pedagogico a testo autoritario. Aristotele estrae concetti, ma da che cosa? La tipologia del teatro delle origini non esisteva più quando lui scrive. Lui non fa riferimento sulle pratiche teatrali, sulle quali però era preparatissimo. Lui non considera l’aspetto musicale o l’aspetto visivo. Aristotele al contempo è però una delle fonti principali riguardo la produzione tragica, ma non è dalla poetica che ricaviamo questo. Compie una scelta di campo che avrà influenze grandissime sulla teoria del teatro occidentale in rapporto con la prassi. Questo perché tale scelta distingue il testo dal teatro. Se si guarda Sofocle sembra impossibile immaginare testo e teatro separati, ma l’analisi iniziata da Aristotele permette questa riflessione. Aristotele inizia assolvendo il dramma dall’accusa Platonica. Questo escludeva il dramma dalla città in quanto imitazione dell’imitazione, e a causa delle sue negative influenze: crea una distanza tra le idee reali e la realtà. Lo distrae. MA: Non bisogna dimenticare che Platone è un artista. I suoi dialoghi sono tra i migliori. Lui stesso aveva detto, nella Repubblica, che basterebbe togliere il commento del narratore ai poemi omerici per avere una tragedia. I dialoghi di Platone sono però di contesto, ovvero momenti in cui personaggi si incontrano con un fine in un preciso luogo. Quando 87 Henrik Ibsen 1828-1906 Nasce, si forma e lavora in zona periferica rispetto all’Europa, in Norvegia. Uno stato economicamente povero e il cui primo teatro fu aperto nel 1870. Si rappresentavano spettacoli leggeri e comici, fatti in bar e privi di testi. Dal punto di vista politico raggiunge l’indipendenza dalla Danimarca nel 1905, e infatti Ibsen scrisse in danese. Ibsen costruì una via teatrale norvegese usando pochi modelli di altri luoghi d’Europa. Il primo testo fu del 1850, Catilinae, dopo le rivolte del 1848 che sconvolsero l’Europa. I suoi testi hanno sempre scopo storico/politico ma nonostante queste tematiche si possono vedere temi più esistenziali. Una contraddizione tra capacità e aspirazioni, volontà e possibilità. Tra il 1855 e il 1877 scrive testi politici/storici in versi poetici, la matrice epica è forte e permarrà nei suoi lavori. Dopo un grande scandalo viene attaccato dalla critica e nel 1874 è costretto a fuggire dalla Norvegia. Arriva in Italia e poi si stabilisce in Germania. Il primo testo frutto di questo percorso europeo è Peer Gynt, anticipatore delle avanguardie. Nel 1877 torna alla forma tradizionale, ma usa un approccio da fotografo con attenzione sulle azioni umane e le motivazioni più profonde. Ibsen sta particolarmente attento agli aspetti commerciali, scrive un testo ogni due anni. Lavori sempre più realistici in prosa su tematiche contemporanee. Sembra tradizionale ma nasconde un’avanguardia, sono i contenuti ad essere rivoluzionaria. Il secondo testo di questo periodo è Casa di bambole, un dramma in 3 atti scritto nel 1879, ispirato ad una storia vera Tratta vari temi di sfondo sociale in parallelo a varie battaglie che si facevano strada anche in Norvegia. Ad esempio le prime proteste femministe, che appoggia, e che integra nei suoi testi. Nora in Casa di bambole afferma: “non sono tua moglie o una madre, sono prima di tutto un essere come te”, e lo dice al marito. C’è poi il tema della proprietà privata, la donna come proprietà privata e bene di consumo. Il tema della borghesia come società dell’apparenza, attraverso la moda o i comportamenti, che è differente dalla realtà interiore. Anche l’emancipazione di Nora è però apparente, il finale è aperto. Shakespeare Nel XIV c’è una ricostituzione del codice compositivo drammaturgico. Figlio della realtà attenta ai testi tragici greci e alle loro analisi Aristoteliche. Questo codice compositivo viene ignorato da Shakespeare e da Ben Johnson, quest’ultimo contemporaneo. Shakespeare è distante dalla cultura accademica, o ancora meglio è distante dalla sua applicazione. La sua formazione è in gran parte oscura. Non si conosce la prima compagnia con cui lavorò, non si sa se il suo obiettivo fosse diventare attore o autore. Non si sa. Sappiamo di più sulla formazione scolastica, questo perché la formazione inglese dell’epoca era uniformata. La formazione scolastica di Shakespeare si ferma alle grammar school, ovvero si ferma all’equivalente delle nostre scuole superiori. Non frequentò dunque università. Probabilmente conosceva il latino, facente parte delle Grammar School, e per la stessa ragione anche i salmi, la musica, i principi della retorica. Questo è un primo livello di fonti a cui il giovane drammaturgo attinse: la memorizzazione dei salmi ad esempio la ritroviamo un’enorme quantità di riferimenti dal carattere biblico. Sentenze ed espressioni ricavate dalla realtà biblica. Tendenza di Shakespeare era attingere da qualunque fonte possibile i suoi temi. Es. Tragedie di Seneca, Metamorfosi di Ovideo. 90 Shakespeare saccheggia le fonti, ma non imita le forme. Prende la Tragedia senecana e ne imita l’inventiva letteraria, le immagini, la forma plastica dei fatti narrati. Saccheggia i contenuti, non imita le fonti. Shakespeare ha una grande attenzione al parlato, ascolta. Questo si evince dall’utilizzo continuo di proverbi. Questa fonte è dunque orale. Le fonti non sono esclusivamente ricavate da un corpus letterario. Ci sono poi l’insieme delle esperienze personali di Shakespeare. Ad esempio suo padre era guantaio, il che significa che aveva una forte competenza sul riconoscimento delle pelli. L’insieme di elementi ricavati dal vissuto non diventano mai in Shakespeare narrazione autobiografica. La narrazione autobiografica latita, la vita è percepita come insieme di competenze che si prestano ad un utilizzo drammaturgico. Tutte le fonti precipitano dalle loro dimensioni (biblica, autobiografica ecc.) all’interno della realizzazione drammaturgica. Questo è possibile grazie ad una profonda conoscenza della struttura teatrale, del funzionamento del teatro. Es. Amleto è figlio di Amleto, il padre appare al figlio sotto forma di fantasma e racconta di essere stato ucciso dal fratello Claudio. Il figlio è così chiamato alla vendetta. Shakespeare innova la soluzione, non piegandosi alla vendetta tipica del filone Vittoriano. Amleto esita prima dell’uccisione, non gli basta il racconto del fantasma, vuole conferme. È così la storia di una vendetta procrastinata, così mette al centro chi la procrastina. Normalmente al centro di queste storie era invece l’azione vendicativa. L’azione è qui rubata da chi arresta l’atto vendicativo. Amleto non è vendicatore, non è questa la sua immagine. È lontano dall’Oreste. Se fosse stato Oreste nel momento di uccidere la madre avrebbe esitato, avrebbe richiesto conferma a Pilate. Amleto chiede ai comici di rappresentare una pantomima per avere conferma (è più Odisseo, non Oreste, Odisseo che chiede conferma a Demodoco): vediamo un uomo versare nell’orecchio di un re del veleno. Esattamente come il fantasma del padre aveva detto di essere stato ucciso. In questa scena vediamo Amleto spiegare ai comici come si fa una messa in scena, è uno di quei momenti in cui l’esperienza teatrale di Shakespeare viene fuori. Lui può scrivere questo solo in vista di quelle competenze. Shakespeare da quando entra nella professione di drammaturgo scrive per uno stesso assamble attoriale. Scrive per un gruppo di autori che conosce e di cui quindi prevede la corporalità. Ad esempio il protagonista era quasi sempre Barbage. Conosce la voce, il modo di interpretare, può scrivere pensando a loro. La sua drammaturgia è in funzione di ensamble teatrale. Cosa vuol dire questo? 1. Lui è nell’ensamble, sotto il regno di Elisabetta lui è l’unico socio di compagna. Gli altri drammaturghi a lui contemporanei scrivevano per commissione. La differenza è quindi che lui scriveva per la sua compagna e dunque divide gli introiti sugli incassi della compagnia. L’opera Shakesperiana continua ad essere fonte di reddito anche dopo la scrittura. Nel caso degli altri drammaturghi, il cui più celere è Marlon, la questione era totalmente diversa. Venivano pagati per scrivere e alla fine della scrittura non si poteva vantare alcuna proprietà intellettuale sull’esito dell’ingegno. Con Shakespeare il testo rimane sotto controllo dell’autore, sia come oggetto economico, sia come oggetto culturale. Circolazione editoriale delle sue opere: essendo lui socio la vita teatrale delle sue opere gli era ben presente. Le compagnia hanno l’interesse a tenere le opere in loro possesso al proprio interno. Per Shakespeare l’edizione è un fattore controindicativo, economicamente negativo. Non c’è diritto d’autore, non prende soldi dai testi. Lui in quanto socio guadagna solo trattenendo l’esclusivo delle opere nella sua compagnia. Che interesse ha lui a pubblicare? Nessuno, infatti non pubblica. La pubblicazione è infatti principalmente postuma. Dopo la sua morte due autori curano l’edizione delle opere di Shakespeare, che non erano rimasti agli eredi di Shakespeare, bensì agli attori, alla compagnia non a caso. Le opere non vengono pubblicate dagli eredi, ma dalla compagnia. Vengono pubblicate sotto il titolo di “Works”, 1623. Molte opere sono note sotto l’infolio, ad esempio “la tempesta”, “Giulio Cesare”. Altre erano state pubblicate prima, magare in piccoli libricini che aiutavano ad alimentare una editoriale di basso consumo. La collaborazione di Shakespeare alle edizioni non è documentata. 91 Infatti tra i testi dell’infolio e dell’inquarto ci sono delle modifiche. Soprattutto nel Giulietta e Romeo, nel Macbeth. Ogni edizione configura una particolare configurazione di quel particolare dramma. è evidente che un copione in mano ad una particolare compagnia cambia, magari perché la compagnia cambia. Il testo, restando all’interno di una compagnia muta, viene adattato dalla configurazione della compagnia. Si rapporta al pubblico attraverso lo spettacolo, non è il testo il tramite dalla sua inventiva. L’organismo di mediazione è l’evento, la rappresentazione, il lavoro dell’autore. La presenza di quei corpi in azione. Sono quelli i mediatori della sua drammaturgia. Lo spettacolo non era però un organismo labile, lo spettacolo è presenza viva di attori. La drammaturgia di Shakespeare non appartiene ad una scrittura che si realizza ma ad un dinamismo teatrale che rivendica il suo carattere forte di contemporaneità. L’intento è di chiamare attraverso il dramma l’esperienza del contemporaneo. Questo perché l’evocazione del contemporaneo contriubuiva ad avvicinare il pubblico, il quale non osserva la realizzazione formale della forma scritta. è un pubblico che lo muove, che lo agita, che riporta alla mente fattori della contemporaneità. Quando il conte di Essex tentò un rovesciamento del potere regale, Shakespeare mise in scena il Riccardo II perché al suo centro ha un rituale di detonazione del potere. La rivolta non si portò a termine e gli uomini del lord ciambellano la passarono liscia, anche se sappiamo che Elisabetta prima, parlando con un suo cortigiano degli avvenimenti teatrali, disse “sono io Riccardo II, non lo sapete?”. Lei stessa si era riconosciuta in quanto modello di quello che la scena rappresentava, si era sentita coinvolta. Il dialogo tra il teatro e il suo pubblico è un dialogo che include le dinamiche del potere politico e regale in Inghilterra. Brecht Non è solo uno dei maggiori casi per quanto riguarda i tentativi di salvataggio del dramma moderno, ma è anche la basa teorica del teatro post-drammatico: il teatro epico sta a metà, è la giuntura tra queste due fasi e modalità d'approccio alla scrittura drammatica. Il teatro epico è un punto di arrivo e sembra quasi un paradosso: la dimensione drammatica è sempre stata slegata dalla dimensione epica, legata molto più al racconto che non alla rappresentazione; lo sforamento epico è il principale sintomo della crisi, ma è proprio da qui che parte Brecht: l'idea parte dalla volontà precisa di inventare una forma teatrale totalmente nuova, in aperta opposizione con la forma drammatica tradizionale e aristotelica. Esso si definisce a partire da una negazione dei principi di base del dramma moderno di matrice aristotelica. Perché Brecht arriva a proporre questo nuovo teatro? L'idea di Brecht influenzerà una grandissima parte del teatro del Novecento, e ovviamente alla base della sua proposta c'è la questione della crisi del dramma. Prima di affermarsi come autore drammatico era critico, e si scagliò contro il modello teatrale che andava per la maggiore. Ovvero quello delle parti. Si lega molto alla visione marxista, secondo cui la forma dramma non sia qualcosa di assoluto e immutabile, ma profondamente connesso e determinato dalla propria epoca. Ecco allora che il teatro proprio del periodo di Brecht: la presenza sociale di classi subalterne alla borghesia, che utilizzava la forma dramma come autocelebrazione e autorappresentazione. Entrano in gioco nuove classi sociali e mettono in crisi la forma dramma tradizionale. Lo stesso Brecth lo sottolineò nelle sue opere, la crisi è dovuta al fatto che l'ingresso di queste nuove classi nel teatro provoca degli importanti sformamenti epici, riferimenti esterni al dramma, all'attualità, ad esempio, o l'inserimento di personaggi esterni al dramma, il narratore, quello studioso da cui viene narrata tutta la vicenda. Anche quelli di Brecht sono drammi sociali, ma con una grossa novità: il passaggio importante che si attua è che il dramma sociale passa dai contenuti alla forma, anzi, la forma è concepita apposta per poterlo rappresentare. L'idea del dramma epico basato su classi sociali subalterne risiede anche nell'obiettivo di voler informare il pubblico. 92 La delocalizzazione dell'azione è dovuta dall'idea di voler mostrare come quella deriva non fosse obbligatoriamente una par�colarità tedesca, bensì potenzialmente universale. L'a�ore non deve immedesimarsi nel personaggio, deve mostrarlo ogge�vamente (quasi giudicandolo). Brecht dal 1948 al 1953 va a dormire nella Germania Est, so�o influenza sovie�ca. In questa fase fonda la sua compagnia di Berlino, una fase in cui non scrive più né drammi né prece� teorici. Ul�ma fase è quella del Brecht regista, non scrive più. Periodo in cui la prospe�va cambia, determinata dalla pra�ca quo�diana sulla scena. I cambiamen� più grandi si realizzano nel campo della concezione dell'a�ore. Da un lato il suo lavoro in scena si dis�ngueva dagli altri regis� per la dilatazione della preparazione, le prove potevano durare due anni. Questo perché la pra�ca viene u�lizzata per la sperimentazione. Alcuni parlano anche di crisi, perché non si arrivava mai al punto. Apertura di Brecht al contenuto dei suoi collaboratori: scenografo, Gaspar Neé, credeva che la pi�ura fosse an�-teatrale poiché an�-illusoria. Ma lui non è solo uno scenografo. Il fa�o che l'orchestra sia a vista (che è uno degli indizi del teatro epico) è in realtà una sua invenzione. Gaspar Nee è infa� un co-inventore dell'epica brech�ana. Nascita del teatro post-drammatico Brecht pone l'accento sul concetto di contesto. Porre l'attenzione sul momento condiziona la messa in scena; il testo, i suoni, ogni cosa diventa figlia di ciò che gli sta attorno; non esistono più elementi isolati propri solo della forma teatrale. La forma teatrale inizia a crepare sotto i colpi di Brecht. L'eruzione della società si riversa nella forma teatrale, la drammaturgia spette di essere un qualcosa che riguarda solo il testo, bensì un qualcosa che costruisce un orizzonte scenico globale. Sono gli elementi fondamentali del teatro post-drammatico. Brecht mette in evidenzia la possibilità di rendere il teatro un qualcosa di operativo che diventa poi teoria. Cosa si intende per teoria? Non è un qualcosa privo di consistenza, bensì la testimonianza di un qualcosa della realtà. In greco la theoria era la testimonianza di coloro che avevano assistito ad uno spettacolo, un oracolo o a qualcosa. Brecht riesce a portare in forma da un punto di vista scenico i propri lavori: il teatro stesso diventa un modo per fare teoria. Da Brecht in avanti la messa in scena implica un livello teorico importantissimo: da quel momento non è più necessario avere una lettura di analisi esterna applicata alle opere, sono le opere stesse a contenere una serie di punti cardine che costituiscono un livello teorico. Per la prima volta, arriva la consapevolezza profonda che bisogna unire saperi che fino a quel momento erano rimasti separati: la visione di Brecht riguardava una forma che potesse contenere tutti i saperi, una forma teatrale. Il teatro diventa un dispositivo: non si rappresenta più il mondo, lo si costruisce. Il teatro diventa questo. Costruire vite alternative, comportamenti alternativi, forme di vite nuove. Brecht in questo forma assolutamente un impianto antico, la polis greca comprendeva questo: fondare una comunità sulla base della condivisione. Si passa da una dimensione di linearità a una di simultaneità, in cui eventi storici possono essere contemporanei. Gli artisti e gli uomini di teatro iniziano a cambiare, dagli anni '60 cominciano a non venire più dal mondo teatrale: Romeo Castellucci ad esempio, viene dal mondo visivo, ma non teatrale (esce dall'accademia di belle arti bolognese che inaugura una visione teatrale attraverso le arti visive). Cominciano a cambiare le parole; "rappresentazione" diventa un problema tecnico, ovvero l'impalcatura dell'immagine. L'ordine del linguaggio salta. I contesti diversi costruiscono nuovi orizzonti, la formazione degli artisti incide sulla messa in scena. 95 Il ruolo di Lehmann, allievo di Szondi, in questo contesto assume la riflessione attorno al dramma e la mette in confronto con una pratica teatrale emergente che va dagli anni '60 al '99, anno in cui Lehmann pubblica il libro sul teatro post drammatico. L'idea del post drammatico di Lehmann non è dogmatica, non propone un modo per leggere la scena. L'ordine analitico, l'ordine filosofico applicato di scena in scena è diverso, cambia anche la teatrologia. Non c'è più un impianto teorico a priori che si applica. Ogni opera chiama dei propri modi per essere letta. Gli stessi strumenti non possono essere usati per diverse opere. Queste stesse parole di Lehmann non sono più applicabili a 19 anni di distanza. Anche la teoria metodologica è in movimento. Non ci sono strumenti applicati senza pratica. Allargare il concetto di drammaturgia vuol dire rompere la dimensione gerarchica che era presente nella messa in scena. Ci sono vari elementi da isolare: 1. Il concetto di drammaturgia. Allargare l'idea di drammaturgia significa rompere la dimensione gerarchica presente nella messa in scena: di solito si ha un autore di un testo drammatico, che determina le regole della messa in scena. Questa modalità tende a dissolversi completamente, non c'è più un'autorità gerarchicamente superiore agli altri elementi della scena: il testo non è più l'unico oggetto del teatro 2. il corpo: per la prima volta si comincia a parlare del corpo degli attori, 3. l'orizzonte visivo, che prima era subordinato alla messa in scena del testo, ora diventa un elemento autonomo. Lehmann inizia a dire che non è possibile escludere la luce, i colori, i suoni dalla storia del teatro, come invece si era sempre fatto. Perché non si considera l'olfatto nel parlare della storia del teatro? Brecht bruciava fuochi in scena, l'odore risultante condizionava l'esperienza dello spettatore, non è possibile non parlare di questo Lehmann tratta la musicalizzazione della scena, la dilatazione dell'idea di drammaturgia si sostanzia anche in una presa in considerazione di uno sviluppo del suono in scena. Il corpo, i suoni, gli odori e così via sono sullo stesso piano, solo il testo inizia a perdere la sua importanza. Si passa da una scrittura canonica, ad una scrittura che è della scena. Il termina "scrittura scenica" nasce negli anni '60, veicolato in Italia nel '68 da un gruppo di critici come Giuseppe Bartolucci, Franco Quadri e così via. Non stiamo parlando di un'assenza completa del testo drammatico, ma di un suo ripensamento. Il ruolo dell'attore non è più quello di incarnare qualcun altro, dagli anni '60 in avanti tutto questo scompare e il corpo dell'attore vale in quanto tale: non è più lì a rappresentare qualcos'altro. Anche con i testi classici. Un attore che interpreta l'Amleto non è più un qualcuno che interpreta ma un corpo, con la sua storia e il suo passato, che si presenta come tale. È l'incontro dell'attore con la body art. La rottura/distanziamento delle unità aristoteliche. La scena teatrale dagli anni '60 ad oggi prende le distanze in modo definitivo: ciò vuol dire che se devo rappresentare un corpo che si affatica non faccio come nella convenzione accenna all'azione e lo spettatore capisce che questa vuol dire la fatica, no, da quel momento in avanti una corsa diventa una corsa e se devo mettere in scena l'affaticamento l'attore corre e si affatica davvero. Se devo mettere in scena la fatica. Jan Fabre 96 Dimensione di artista visivo. Una dimensione che ridefinisce il linguaggio verbale. Siamo nell'ottica di una messa in scena i cui presupposti nascono in scena. La messa in scena in quanto tale determina le sue coordinate. L'analisi letteraria che poteva funzionare quando si ha sotto gli occhi un testo che proviene da una tradizione letterale, dall'altra parte non essendoci più un testo letterario di partenza è l'analisi della messa in scena che diventa centrale. Jan Fabre viene dalla performance, negli anni '80 realizza opere con Marina Abramovic. Il corpo smette di essere subordinato alle logiche del testo, ora diventa determinante. La visione del corpo viene osservato in una visione medioevale. Cosa significa? Significa che è un corpo che non rinuncia ai suoi elementi più "Bassi": sangue, lacrime, urina. Questi diventano centrali, in opere come "solo sangue". Questa dimensione per Jan Fabre è medioevale nel senso che non vive ancora la gerarchizzazione rinascimentale tra parti nobili e non. Una visione fondamentale come quella fiamminga, come Bosch, alla quale Fabre si ispira. Da qui un profondo legame con la sua terra, è difatti un artista Belga. Questo recupero degli elementi che la cultura moderna aveva categorizzato tra gli scarti entra nella costruzione materiale della scena. È un fatto pratico che costruisce. Ciò ha aperto una serie di polemiche. Quelli con cui Fabre lavora sono sì attori, ma soprattutto performers. La competenza dev'essere molto ampia, si passa dal sistema recitativo al canto, alla coreografia e così via. Gli attori devono e possono essere impegnati in linee di ricerca diverse. È in questo che cambia l'idea di drammaturgia. Si parla per la prima volta di una drammaturgia dello spazio, di una drammaturgia delle azioni fisiche (come già optato da Stanislavskij). La drammaturgia abbandona il territorio esclusivamente letterario per espandersi, dilatandosi negli elementi della messa in scena. Si giunge ad una drammaturgia sonora. I corpi in scena sono deformati, amputati, deformità. Non è una questione spettacolare, è lavorarare in una dimensione in cui il corpo stesso è senso della scena. Fa esplodere il concetto di Norma. Il teatro comincia a portare sulla scena corpi che fanno deragliare l'idea di normalità. L'uomo e l'animale si riuniscono, la sperazione Hegeliana tra l'uomo nobile e l'animale, privo di linguaggio, escluso da questa nobiltà. C'è un avvicinamento all'animale, capace di riportare l'uomo ad una fonte di animalezza. Questo vale per Grotowski. I cui riferimenti sono i felini. Non si tratta di fare il verso all'animale, si chiama richiamarlo. "essere in agguato", cosa significa essere in agguato? Significa attivare i versi in funzione della sopravvivenza. Significa avvertire il pericolo, è un movimento animale. Nel linguaggio tecnico della scena è "divenire animale". La centralità del corpo come animalità significa rivendicare un immaginario preciso, per Fabre sono gli insetti (Svankmejer "insects"?). Crollano le unità di tempo di Aristotele. Cosa erano per lui? Luoghi convenzionali, creavano una cornice metaforica per cui tempo e spazio facevano riferimento ad altro, uno spazio "fingeva di" essere una foresta o altro. Fabre e fa esplodere questo. Nel suo ultimo opera "monte olimpo" che coinvolge 50 performer, e dura 24 ore. In ogni momento si può lasciare il teatro, rompe così anche la convenzione del teatro da vedere in un inizio e fine convenzionale. Ad un certo punto si dorme con gli attori, è un'esperienza di sonno collettivo. È un momento di ritrovo mistico, l'incubazione era la maniera per incontrare il dio, così come accadeva con Asclepio. Viene riattualizzato una ritualità, confermando ciò che Ezra Pound disse: "tutte le epoche sono contemporanee". Passare 24 ore con gli attori spezza le unità aristoteliche; nel momento in cui devo pensare un attore che si affatica in scena viene fatto veramente affaticare. Non si assiste ad un'azione che è surrogato dell'idea di un qualcosa, ma quel qualcosa così com'è. Tra platea e scena c'è la stessa relazione spaziale e temporale. Il secondo lavoro di Fabre, "This is the Theatre" , in cui costruisce spettacoli di 8 ore. 97
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved