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Driassunti Diritto Commerciale 2 - Campobasso, Dispense di Diritto Commerciale

Riassunti di diritto commerciale 2 ( Campobasso )

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 22/01/2023

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Scarica Driassunti Diritto Commerciale 2 - Campobasso e più Dispense in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! DIRITTO COMMERCIALE 2 LIBRO 1 (pagg. 79-86; 163-299) CAPITOLO 2: LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI ATTIVITÀ COMMERCIALE DELLE ASSOCIAZIONI E DELLE FONDAZIONI  Le associazioni (riconosciute e non), le fondazioni e, in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività di impresa. Affinché si abbia impresa, l’attività produttiva deve essere condotta con metodo economico e tale metodo può ricorrere anche quando lo scopo perseguito sia ideale. L’esercizio di attività commerciale da parte di tali enti, pur essendo sempre strumentale rispetto allo scopo istituzionale perseguito, può costituirne anche l’oggetto esclusivo e principale.  In tal caso l’ente acquista la qualità di imprenditore commerciale e resta esposto a tutte le relative conseguenze, compresa l’esposizione al fallimento in caso di insolvenza, fatta eccezione per le associazioni qualificabili come imprese sociali (cap. successivo). È più frequente, però, che l’attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all’attività ideale costituente l’oggetto principale dell’ente.  Ma il carattere accessorio dell’attività commerciale non impedisce l’acquisto della qualità di imprenditore, non potendosi eccepire che manchi il requisito della professionalità: la professionalità non implica che l’attività di impresa sia esclusiva o principale. Per tali enti non è dettata alcuna norma specifica per quanto concerne l’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, perciò essi acquistano la qualità di imprenditori commerciali con pienezza di effetti anche se l’attività commerciale ha carattere accessorio o secondario. Quindi saranno esposti anche al fallimento. Una parte minoritaria della dottrina e la giurisprudenza ritengono che la disciplina delle imprese commerciali non sia applicabile agli enti di diritto privato diversi dalle società, quando l’attività di impresa abbia carattere accessorio. Ritengono che si debba applicare lo stesso regime dettato per gli enti pubblici titolari di imprese – organo. Si ritiene che l’art. 2201 (: esonero degli enti pubblici non economici dalla registrazione) sia un principio generale valido per tutte le imprese collettive non societarie. Quindi, le associazioni e le fondazioni, che esercitano attività commerciale in via accessoria sarebbero esonerate dall’intero statuto dell’imprenditore commerciale. Cioè sarebbero imprenditori, ma non imprenditori commerciali. Ma questa tesi non può essere condivisa per due motivi: 1) l’art. 2201 è una norma eccezionale che trova fondamento nella struttura pubblicistica dell’ente, il che è sufficiente per respingere l’applicazione ad enti di diritto privato quali l’associazione o la fondazione; 2) l’art. 2201 si limita a prevedere l’esonero dalla registrazione e non può essere inteso come esonero degli enti pubblici titolari di imprese – organo dall’intero statuto degli imprenditori commerciali. Problema diverso è invece se il fallimento di un’associazione non riconosciuta comporti anche il fallimento degli associati illimitatamente responsabili. Ma dalla formulazione dell’art. 147, legge fallimentare è desumibile che il fallimento di un’impresa collettiva senza scopo di lucro non comporta il fallimento di chi risponde illimitatamente per le relative obbligazioni. IMPRESA SOCIALE  Per quanto riguarda l’oggetto il d.lgs. 155/2006 prevede che possono acquistare la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale. Inoltre, l’impresa sociale non ha scopo di lucro (assenza di scopo di lucro). L’impresa sociale è impresa in base all’art. 2082, perché è espressamente tenuta ad operare con metodo economico. Nulla vieta, inoltre, che l’esercizio dell’attività imprenditoriale produca un avanzo dei ricavi sui costi, detto avanzo di gestione. 1 È vietata solo l’auto-destinazione degli utili, che devono essere destinati allo svolgimento dell’attività o all’incremento del patrimonio dell’ente. Inoltre, sul patrimonio grava un vincolo di indisponibilità, in quanto, né durante l’esercizio dell’impresa, né allo scioglimento, è possibile distribuire fondi o riserve a vantaggio di coloro che fanno parte dell’organizzazione: amministratori, partecipanti, lavoratori, collaboratori. In caso di cessazione dell’impresa, il patrimonio residuo è devoluto ad organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni, comitati, fondazioni ed enti ecclesiastici. L’assenza di lucro è preservata in caso di operazioni di trasformazione, fusione e scissione cui partecipi l’impresa sociale, o di cessione dell’azienda. Le finalità di interesse generale dell’impresa sociale sono favorite dal legislatore con alcuni privilegi: 1) Il primo privilegio è quello di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione privata; in particolare, può essere impiegata qualsiasi forma societaria anche se l’impresa non ha uno scopo lucrativo. Inoltre, più imprese sociali possono formare fra loro un gruppo di imprese. Invece, non possono avere la forma di imprese sociali le amministrazioni pubbliche, le organizzazioni che erogano beni e servizi esclusivamente a favore dei propri soci, associati o partecipi. L’impresa sociale non è un nuovo tipo di ente diverso da quelli già previsti e regolati dall’ordinamento, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato possono assumere a certe condizioni e che comporta l’applicazione di una disciplina speciale. Ne consegue che, ove non espressamente derogata, continuerà a trovare applicazione la disciplina propria dell’ente che esercita l’impresa sociale. 2) Il secondo privilegio è quello di poter limitare a certe condizioni la responsabilità patrimoniale dei partecipanti, anche quando è impiegata una forma giuridica che prevedrebbe la responsabilità personale illimitata di costoro. Più precisamente: se l’impresa sociale è dotata di un patrimonio netto di almeno ventimila euro, dal momento dell’iscrizione nel registro delle imprese risponde delle obbligazioni assunte soltanto l’organizzazione con il suo patrimonio. Qualora, però, il patrimonio diminuisca per perdite di oltre un terzo (a meno di 13.333 euro), delle obbligazioni assunte ne rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa, ma non gli altri soci. Di fatto, la limitazione di responsabilità opera solo a vantaggio delle imprese sociali in bonis, ma cessa quando il patrimonio diventa insufficiente. Le imprese sociali sono soggette anche a delle regole speciali per quanto riguarda l’applicazione degli istituti tipici dell’imprenditore commerciale. Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell’attività esercitata, esse: devono iscriversi in un’apposita sezione del registro delle imprese, devono redigere le scritture contabili, in caso di insolvenza, sono assoggettate alla liquidazione coatta amministrativa, invece che a fallimento. Le organizzazioni che intendono assumere la qualifica di impresa sociale devono costituirsi per atto pubblico, osservando le disposizioni in merito all’atto costitutivo. L’atto costitutivo deve: 1) determinare l’oggetto sociale, individuandolo fra le attività di utilità sociale riconosciute dalla legge; 2) enunciare l’assenza dello scopo di lucro; 3) indicare la denominazione dell’ente, integrata dalla locuzione “impresa sociale”; 4) fissare i requisiti e regole per la nomina dei componenti delle cariche sociali ; 5) disciplinare le modalità di ammissione ed esclusione dei soci, nel rispetto del principio della non discriminazione; 6) prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività di impresa nell’assunzione delle decisioni che possono incidere direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità delle prestazioni erogate (devono essere coinvolti anche i lavoratori volontari). Controllo interno: l’atto costitutivo deve, inoltre, prevedere una forma di controllo contabile affidato ad uno o più revisori contabili, iscritti presso il registro del Ministero della Giustizia, ed una forma di controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione, che è riservato ad uno o più sindaci. Ai sindaci, che devono vigilare anche sull’osservanza delle finalità sociali dell’impresa, è riconosciuto, in qualsiasi momento, il potere di ispezione e controllo e di chiedere notizie agli amministratori. Controllo esterno: le imprese sociali sono sottoposte anche a dei controlli esterni da parte del Ministero del Lavoro, che può procedere ad ispezioni. Il Ministero del Lavoro può anche disporre la perdita della qualifica di impresa sociale se rileva l’assenza delle condizioni per il riconoscimento o se riscontra violazione della disciplina e, diffidati gli organi direttivi a porre fine ai comportamenti illegittimi, l’impresa non ottempera entro un congruo termine. Ne consegue la 2 - Il principio della novità  art. 2564, sancisce che la ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e tale da creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata.  Per risolvere il conflitto fra ditte confondibili si applica il criterio della priorità dell’uso: chi ha adottato per primo una ditta ha diritto all’uso esclusivo della stessa e tale diritto è acquistato per il solo fatto dell’uso della ditta; chi successivamente adotti una ditta uguale o simile, può perciò essere costretto ad integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla e ciò anche quando la ditta usata per seconda corrisponda al nome civile dell’imprenditore (ditta patronimica). In passato, vista la mancanza dell’attuazione del registro delle imprese, il criterio della priorità dell’uso trovava applicazione anche per le imprese commerciali individuali; la recente attuazione del registro delle imprese rende oggi applicabile il secondo comma dell’art. 2564, in base al quale per le imprese commerciali l'obbligo dell'integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.  quindi, per le imprese commerciali trova applicazione il criterio della priorità dell’ISCRIZIONE nel registro delle imprese e non il criterio della priorità dell’USO. Il diritto all’uso esclusivo della ditta, però, è un diritto RELATIVO. Infatti, tale diritto ed il corrispondente obbligo di differenziazione sussistono però solo se i due imprenditori si trovino in rapporto di concorrenza fra loro e quindi possa determinarsi confusione per l’oggetto dell’impresa e/o per il luogo in cui questa è esercitata. Si ritiene infatti che la confondibilità per l’oggetto debba essere valutata tenendo conto anche dell’attitudine dell’impresa a espandersi in attività complementari, similari o affini; parimenti, il luogo di esercizio dell’impresa deve essere valutato tenendo conto delle oggettive e prevedibili possibilità di espansione territoriale. La confondibilità fra ditte deve essere valutata sulla base delle ditte effettivamente utilizzate, anche se diverse da quelle ufficialmente prescelte (ditta ufficiosa). Inoltre, nel giudizio di confondibilità si deve dare rilievo al nucleo caratterizzante e predominate (cuore della ditta) e non a indicazioni marginali o a denominazioni generiche inserite nella ditta stessa (es. bar, taxi, alta moda ecc.). Il principio della novità opera anche nei rapporti fra la ditta e gli altri segni distintivi, in particolare con il marchio. Infatti, è fatto divieto di adottare come propria ditta il marchio altrui, se sussiste pericolo di confusione fra i segni (: c.d. principio di unitarietà dei segni distintivi  in base a questo, il diritto di esclusiva che spetta al titolare di un marchio ha effetto nei confronti di tutti i segni distintivi usati da altri imprenditori). IL TRASFERIMENTO DELLA DITTA  Secondo l’art. 2565, la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda. Nel trasferimento dell'azienda per atto tra vivi la ditta non passa all'acquirente senza il consenso dell'alienante. Nella successione dell'azienda per causa di morte la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria. Il collegamento fra circolazione della ditta e circolazione dell’azienda consente al titolare della ditta di monetizzare il valore dell’avviamento dell’azienda e di tutelare quanti hanno avuto rapporti con l’originario imprenditore; tutela meno quanti fondano i loro rapporti sulla persona dell’imprenditore: fornitori, finanziatori e quanti a lui concedono credito. PERICOLI PER I TERZI: la circostanza che la ditta derivata non deve essere integrata con indicazioni idonee ad individuare l’attuale titolare dell’impresa (cognome o sigla) e il ritardo nell’attuazione del registro delle imprese esponevano i terzi a vistose possibilità di inganno circa la reale identità dell’attuale titolare dell’impresa. Pericoli aumentati dal fatto che, nel silenzio della legge, si ammette che la ditta possa essere trasferita anche quando non è trasferita l’intera azienda, ma un ramo della stessa, purché dotato di organica unità. Tale pericolo è stato mitigato dalla giurisprudenza: infatti, si ritiene che chi ha trasferito l’azienda sia responsabile in solido con l’acquirente per i debiti da questi contratti spendendo la ditta derivata, qualora il terzo contraente abbia potuto ragionevolmente ritenere di trattare col cedente . Conseguenza di questo orientamento è che l’alienante ha l’onere di portare a conoscenza dei terzi, con mezzi idonei, l’avvenuto trasferimento dell’azienda e della ditta se si tratta di impresa non commerciale, o comunque di imporre all’acquirente di integrare la ditta con indicazioni non equivoche. 5 DITTA E NOME CIVILE. DITTA E NOME DELLE SOCIETÀ  L’imprenditore individuale ha un nome civile ed ha (o può avere) una ditta  essi assolvono a una funzione diversa e sono disciplinati diversamente. Inoltre, essi sono diversamente tutelati e formano oggetto di diritti diversi. 1) il nome civile lo individua come soggetto di diritto come ogni altra persona fisica  esso è attribuito per legge, è a struttura fissa (cognome + prenome), è unico e non è liberamente modificabile; il nome civile è un attributo della personalità e come tale è tutelato nei limiti fissati dagli artt. 7-9 del codice civile. Inoltre, il nome civile, a differenza della ditta, è indisponibile e intrasmissibile. 2) la ditta (o nome commerciale) lo individua come imprenditore  l’imprenditore se da una parte ha un solo nome civile, dall’altra può avere più ditte (es. una ditta originaria ed una o più ditte derivate di cui è divenuto titolare in sede di trasferimento delle relative aziende); la ditta, a differenza del nome civile, è tutelata come mezzo di attrazione della clientela e come valore patrimoniale, ragion per cui mentre l’omonimia fra nomi civili è ammessa, non è consentita omonimia fra ditte di imprenditori in concorrenza, anche se corrispondenti ai nomi civili. La distinzione fra nome civile e nome commerciale (ditta) dell’imprenditore è valida anche per le società. In base all’art. 2567, la ragione sociale delle società di persone e la denominazione sociale delle società di capitali e delle cooperative sono regolate dalle norme dettate in sede di disciplina dei singoli tipi di società . Tuttavia, si applicano anche ad esse le disposizioni dell’art. 2564, cioè il divieto di utilizzare ditta uguale o simile a quella di altro imprenditore concorrente. Non sono richiamati, invece, né l’art. 2563 (scelta della ditta), né l’art. 2565 (trasferimento della ditta). A primo impatto sembrerebbe esserci una vistosa disparità di trattamento rispetto agli imprenditori individuali; però, a tal proposito, si è chiarito che ragione sociale e denominazione sociale non vanno identificate con la ditta: esse costituiscono il nome necessario delle società e vanno poste sullo stesso piano del nome civile della persona fisica in quanto servono per individuarle come soggetti di diritto e non come esercenti di impresa . Quindi, la disciplina dell’art. 2567 regola solo il nome delle società e non impedisce la formazione e l’uso di una ditta distinta dalla ragione o denominazione sociale.  DUNQUE, le società devono avere una ragione sociale o una denominazione sociale (nome della società), formata rispettando sia le norme specificamente dettate a riguardo, sia l’art.2564: il nome di una società non può essere uguale o simile a quello di un’altra società concorrente e non è trasferibile, mentre esse possono avere una ditta originaria, formata rispettando le norme sulla ditta, nonché una o più ditte derivate, distinte dal nome e che possono essere trasferite con l’azienda (: in tal modo è ristabilita la parità di trattamento fra imprenditori individuali e società). B) IL MARCHIO (artt.2569-2574 c.c. + codice della proprietà industriale) NOZIONE E FUNZIONI DEL MARCHIO  Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa. Esso è disciplinato sia dall’ordinamento nazionale sia da quello comunitario ed internazionale. Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 del codice civile e dal codice della proprietà industriale. Il marchio comunitario è stato istituito con un regolamento CE nel 1993; la relativa disciplina permette di ottenere un marchio unico, regolato e tutelato in tutti i paesi dell’Unione Europea. Il marchio internazionale è disciplinato da due convenzioni internazionali: la Convenzione di Parigi del 1883 e l’Accordo di Madrid del 1891, integrato dal Protocollo di Madrid del 1989.  Tali normative, basate sull’istituto della registrazione del marchio (nazionale, comunitaria, internazionale), riconoscono al titolare del marchio il diritto all’uso esclusivo dello stesso, così permettendo che il marchio assolva la sua funzione di identificazione e differenziazione dei prodotti similari esistenti sul mercato. DUNQUE, il marchio è il principale collegamento tra produttori e consumatori ed ha un ruolo centrale nella formazione e nel mantenimento della clientela; però, esso non esaurisce la sua funzione nel differenziare i prodotti similari esistenti sul mercato: infatti, il marchio ha anche un’altra funzione: è anche indicatore della provenienza del prodotto da una fonte unitaria di produzione. IN OGNI CASO, tale ultima funzione giuridica del marchio è stata ridimensionata dopo la riforma del 1992: infatti, è caduto il divieto di circolazione del marchio separatamente dall’azienda e soprattutto si è riconosciuta la legittimità del couso 6 di uno stesso marchio da parte di più imprenditori concorrenti, sulla base di una licenza di marchio non esclusiva concessa dal titolare dello stesso: perciò, oggi è consentito che prodotti uguali contraddistinti dallo stesso marchio siano immessi in commercio da produttori diversi però i co-utenti di uno stesso marchio sono tenuti ad assicurare l’omogeneità dei caratteri essenziali e della qualità dei prodotti dello stesso tipo (e standard qualitativo) contraddistinti dal marchio comune in modo da evitare che il pubblico sia tratto in inganno. Fra le funzioni del marchio non può comprendersi quella di garanzia della qualità dei prodotti: non vi è alcuna norma che assolva una funzione di garanzia della qualità dei prodotti o che vieti al produttore variazioni qualitative della propria produzione. Infine, è da menzionare la funzione attrattiva: infatti, è dato comune che certi marchi (detti celebri) finiscono con l’assumere un’autonoma forza attrattiva dei consumatori; dunque, è comprensibile l’interesse dei titolari dei marchi celebri a contrastare l’uso degli stessi da parte di altri produttori. In particolare, l’attuale disciplina ha recepito la distinzione fra marchi ordinari e marchi celebri, estendendo per quest’ultimi la tutela oltre i limiti segnati dalla necessità di evitare confusione fra prodotti affini, dando così riconoscimento giuridico alla funzione attrattiva degli stessi. I TIPI DI MARCHIO  I marchi possono essere classificati e raggruppati secondo diversi criteri. - In base alla natura dell’attività svolta dal titolare del marchio, distinguiamo: il marchio di fabbrica è il marchio apposto dal fabbricante del prodotto; i beni che subiscono successive fasi di lavorazione o di assemblaggio possono presentare anche più marchi di fabbrica. Poi, abbiamo il marchio di commercio è il marchio apposto dal commerciante del prodotto, sia esso un distributore intermedio (grossista) o rivenditore finale. Su uno stesso prodotto possono perciò coesistere più marchi ed in tal caso l’art. 2572 e il codice della proprietà industriale, prevedono che il rivenditore può apporre il proprio marchio ai prodotti che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore. Poi, abbiamo il marchio di servizio che è utilizzato da chi produce servizi (es. imprese di trasporto, banche, ecc.): la forma tipica di questi marchi è quella pubblicitaria, essendo essi posti su materiali pubblicitari o divise. - Altra classificazione dei marchi è fra marchio generale e marchi speciali: si ha marchio generale quando l’imprenditore utilizza un solo marchio per identificare tutti i suoi prodotti. Si hanno marchi speciali quando utilizza più marchi per differenziare i suoi singoli prodotti (per sottolineare ai consumatori le relative diversità qualitative). Inoltre, è possibile l’uso contemporaneo di un marchio generale e più marchi speciali, quando si vuole evidenziare contemporaneamente l’unità della fonte di produzione e la diversità dei prodotti: ciò è molto diffuso fra i produttori di automobili (es. Fiat-Panda; Fiat-Punto ecc.) e di cosmetici. - L’imprenditore nella scelta del marchio potrà utilizzare come marchio t utti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, purché rispetti i requisiti di validità del marchio. Qui, emergono ulteriori distinzioni: marchio denominativo, in cui il marchio è costituito solo da parole e può coincidere con il nome della ditta o il nome civile dell’imprenditore ; marchio figurativo, che è costituito solo da figure, lettere, cifre, disegni, colori, suoni; marchio misto, che è costituito sia da parole che da simboli. - INOLTRE, il marchio è, di regola, qualcosa di esterno al prodotto, che si aggiunge al prodotto stesso per indicarne la provenienza. Però, il marchio può essere costituito dalla forma del prodotto o dalla sua confezione, ed è detto marchio di forma o tridimensionale (es. la particolare forma di una bottiglia di liquore). In ogni caso, non possono essere registrati come marchio le forme imposte dalla natura del prodotto, quelle necessarie per ottenere un risultato tecnico e quelle che danno un valore sostanziale al prodotto. - Infine, l’art. 2570 c.c. e il c.p.i., prevedono un ulteriore tipo particolare di marchio: il marchio collettivo. Esso si distingue dai marchi di impresa in quanto titolare del marchio collettivo è un soggetto (es. consorzio fra imprenditori, un’associazione) che svolge la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi. Tale marchio non è utilizzato dall’ente che ne ha ottenuto la registrazione, ma è concesso in uso a produttori o commercianti consociati; quest’ultimi si impegnano a rispettare nella loro attività le norme dello statuto fissate dall’ente e a consentire i relativi controlli . 7 dell’attività o dell’inattività del titolare del marchio. Il titolare del marchio non perderà il diritto di esclusiva qualora ne difenda la capacità distintiva, diffidando o agendo giudizialmente contro i concorrenti che utilizzano il proprio marchio come denominazione generica (es. aspirina). Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente. In particolare, il titolare del marchio, il cui diritto di esclusiva sia stato leso da un concorrente, può promuovere contro questi l’azione di contraffazione, la quale è volta ad ottenere l’inibitoria alla continuazione degli atti lesivi del proprio diritto e la rimozione degli effetti degli stessi, attraverso la distruzione delle cose materiali per mezzo dei quali è stata attuata la contraffazione. Inoltre, il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna in uno o più giornali. Resta fermo il diritto del titolare del marchio al risarcimento del danno in caso di dolo o colpa del contraffattore. L’attuale disciplina consente al titolare stesso di ottenere, mediante azione di rivendica, la cancellazione o il trasferimento di un nome a dominio lesivo del proprio diritto, o comunque registrato da altri in mala fede. Infine, il titolare di un marchio registrato può crearsi una rete di difesa del proprio marchio contro le altrui contraffazioni registrando uno o più marchi protettivi, che sono marchi simili a quello effettivamente usato e che sono registrati al solo fine di precostituire la prova della confondibilità. MARCHIO DI FATTO (PREUSO DEL MARCHIO)  Sappiamo che la tutela marchio ha efficacia a partire dal momento in cui il richiedente presenta la domanda di registrazione del marchio; tuttavia, l’ordinamento tutela anche chi usa un marchio senza registrazione. L’art. 2571 dispone che chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso. DUNQUE, la tutela del diritto di esclusiva sul marchio non registrato si fonda sul l’uso di fatto dello stesso e sull’effettivo grado di notorietà raggiunto. Notorietà nazionale: il titolare di un marchio non registrato, diventato noto su tutto il territorio nazionale, potrà impedire che altri usi in fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti , ma non per prodotti affini; potrà altresì ottenere che sia dichiarato nullo, per difetto del requisito di novità, un marchio confondibile successivamente registrato. Però, la relativa azione dovrà essere esercitata entro 5 anni , per evitare la convalida del marchio successivamente registrato. Notorietà locale: il titolare di un marchio non registrato, noto solo su territorio locale, riceverà una tutela più modesta. Infatti, non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra zona del territorio nazionale, nè che un concorrente registri validamente il marchio ed in tale ultimo caso potrà solo continuare ad usare il proprio marchio solo a livello locale. Il titolare del marchio registrato avrà esclusiva d’uso in ogni altra zona del paese. TRASFERIMENTO DEL MARCHIO  Il marchio è trasferibile e può essere trasferito sia a titolo definitivo, sia a titolo temporaneo (c.d. licenza di marchio); così il titolare di un marchio potrà monetizzare il valore commerciale del marchio, determinato dalla forza attrattiva della clientela. La disciplina del trasferimento del marchio/ della circolazione del marchio è stata modificata dalla riforma del 1992. Infatti, è stato abolito il collegamento di circolazione dell’azienda (o un suo ramo) e circolazione del marchio, per evitare inganni e confusione per il pubblico. L’attuale disciplina, prevista dall’art. 2573 permette una più libera circolazione del marchio. Oggi, infatti, il marchio può essere trasferito o concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il contemporaneo trasferimento dell’azienda o del corrispondente ramo produttivo. Resta però ferma la regola che il trasferimento del marchio non costituito dalla ditta originaria si presume quando è trasferita l’azienda. È quindi possibile il trasferimento a titolo definitivo del marchio solo per una parte dei prodotti coperti dal diritto di esclusiva dell’alienante con conseguente contitolarità del marchio, anche se è controverso che ciò sia possibile anche per prodotti identici o affini a quelli che l’alienante continua a produrre. La novità principale della nuova disciplina è costituita dal riconoscimento espresso dell’ ammissibilità della licenza di marchio non esclusiva : cioè è espressamente consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari, sia per tutti che per una parte dei prodotti per i quali il marchio è stato registrato; è quindi consentito che vengano immessi sul mercato prodotti dello stesso genere, con lo stesso marchio, ma provenienti da fonti diverse. 10 Però, nel contempo, il legislatore ha fissato il principio che dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno nei caratteri dei prodotti o dei servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico. La licenza non esclusiva è subordinata alla ulteriore condizione che il licenziatario si obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelli dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente o dagli altri licenziatari. Il titolare del marchio potrà avvalersi delle azioni (inibitoria, rimozione, ecc.) di tutela previsti dalla legge marchi nei confronti del licenziatario che violi le disposizioni contenute nel contratto di licenza che prevede clausole di controllo sull’attività del licenziatario. La violazione di tali regole espone alla decadenza del marchio per sopravvenuto uso ingannevole dello stesso, sanzione che potrà colpire anche il concedente qualora abbia mostrato consenso. C) L’INSEGNA (art.2568) NOZIONE E DISCIPLINA  L’insegna contraddistingue i locali dell’impresa o l’intero complesso aziendale. L’art. 2568 dispone che le disposizioni del primo comma dell'art. 2564 si applicano anche all'insegna: l’insegna non potrà, perciò, essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione qualora possa ingenerare confusione nel pubblico. INOLTRE, il c.p.i. estende all’insegna il principio di unitarietà dei segni distintivi: pertanto, l’insegna non potrà essere uguale o simile all’altrui marchio, quando vi sia pericolo di confusione per il pubblico. IN SOSTANZA, l’insegna dovrà avere i requisiti novità, veridicità e originalità. Non è quindi tutelato contro l’altrui imitazione chi adotti come insegna indicazioni generiche (es. bar, panificio ecc.) salvo che l’originalità non derivi dalla composizione grafica e/o dai colori utilizzati. Non è disposto nulla circa il trasferimento dell’insegna, tuttavia si ritiene che il diritto sull’insegna possa essere trasferito, applicandosi la disciplina del trasferimento del marchio, dato che l’insegna identifica elementi materiali e non la persona dell’imprenditore; ne consegue che deve ritenersi lecita anche la licenza non esclusiva ed il conseguente co- uso della stessa insegna da parte di più imprenditori collegati, come nel caso del franchising di distribuzione. 11 CAPITOLO 7: OPERE DELL’INGEGNO. INVENZIONI INDUSTRIALI LE CREAZIONI INTELLETTUALI  Le opere dell’ingegno (idee creative nel campo culturale – es. poesie, romanzi, canzoni, film) e le invenzioni industriali (idee creative nel campo della tecnica) costituiscono le 2 grandi categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento. IN PARTICOLARE, le opere dell’ingegno formano oggetto del diritto d’autore, regolato dagli artt.2575-2583 e dalla L.633/1941, più volte modificata. Le invenzioni industriali a loro volta possono formare oggetto, a seconda dello specifico contenuto: a) del brevetto per invenzioni industriali; b) del brevetto per modelli di utilità oppure della registrazione per disegni e modelli. Opere dell’ingegno e invenzioni industriali non fanno parte del diritto delle imprese poiché chiunque può essere autore di un’opera dell’ingegno o di un’invenzione industriale. PRINCIPI ISPIRATORI  La disciplina legislativa delle creazioni intellettuali, pur diversamente articolata per le opere dell’ingegno e per le invenzioni industriali, si fonda su identici principi ispiratori, che tendono a realizzare un punto di equilibrio fra 2 esigenze: 1) promuovere ed incentivare l’attività creativa dei privati  obiettivo perseguito riconoscendo all’autore o all’inventore il diritto esclusivo di sfruttamento economico dell’opera o dell’invenzione, sia direttamente, sia mediante cessione a terzi (diritto di privativa), equiparato al diritto di proprietà (su beni immateriali). 2) consentire che tutti possano fruire del progresso raggiunto evitando che si creino stabili posizioni di monopolio culturale e tecnologico  obiettivo perseguito escludendo che una posizione di esclusiva possa essere riconosciuta rispetto a talune creazioni intellettuali particolarmente significative per la collettività.  L’art. 45 c.p.i. elenca una serie di invenzioni che non possono essere considerate giuridicamente tali o che non possono costituire oggetto di brevetto. Mentre il diritto d’autore si acquista per il solo fatto della creazione dell’opera, per le invenzioni industriali invece il diritto di esclusiva sorge solo in seguito alla loro brevettazione, che permette la piena tutela dell’invenzione e serve a rendere di pubblico dominio il contenuto dell’invenzione stessa. È resa così possibile la conoscenza e la circolazione delle idee inventive, presupposto e stimolo per la realizzazione di nuovi progressi. È sintomatico che la grande industria preferisca talvolta sfruttare in segreto le proprie invenzioni rinunciando all’energica tutela brevettuale. Il diritto di esclusiva è inoltre limitato nel tempo: dura fino a 70 anni dopo la morte dell’autore per le opere dell’ingegno; 20, 10 e 5 anni dalla domanda di brevetto, rispettivamente per le invenzioni industriali, per i modelli di utilità e per i disegni e modelli; decorsi questi periodi, l’opera dell’ingegno è liberamente riproducibile, l’invenzione liberamente sfruttabile. Infine, per le invenzioni industriali il legislatore predispone strumenti tesi a tutelare l’interesse generale alla loro adeguata realizzazione: infatti, l’invenzione deve essere attuata nel territorio dello Stato “in misura tale da non risultare in grave sproporzione con i bisogni del Paese”; inoltre, trascorsi 3 anni dal rilascio del brevetto, senza che l’invenzione sia stata attuata può essere concessa licenza obbligatoria per l’uso dell’invenzione a favore di ogni interessato che ne faccia richiesta, dietro corrispettivo di equo compenso. In definitiva, il diritto patrimoniale su una creazione intellettuale è un diritto funzionale e limitato. A) IL DIRITTO D’AUTORE (artt.2575-2583 c.c. + l.633/1941) Formano oggetto del diritto d’autore le opere dell’ingegno scientifiche, letterarie, musicali, figurative, architettoniche, teatrali e cinematografiche, qualunque ne sia il modo e la forma di espressione (es. romanzi, poesie, trattati scientifici, canzoni ecc.). Tali opere sono protette indipendentemente dal loro pregio, dall’utilità pratica ed anche se illegali o immorali (es. film pornografici). Unica condizione richiesta è che l’opera abbia “carattere creativo”: presenti cioè un minimo di originalità oggettiva rispetto a preesistenti opere dello stesso genere (si esclude che sia protetto dal diritto d’autore chi inconsapevolmente realizzi un’opera dell’ingegno priva di originalità - plagio inconscio). ACQUISTO DEL DIRITTO: fatto costitutivo del diritto d’autore è la creazione dell’opera; non è necessario che l’opera sia stata divulgata tra il pubblico, basta che essa sia stata comunque estrinsecata (es. il romanziere è tutelato 12 “per una persona esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica” (: è invenzione anche un piccolo progresso tecnico); 3) Anche il requisito dell’industrialità è oggi da intendere in senso ampio: l’invenzione è considerata atta ad avere applicazione industriale se il trovato “può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola”. IL DIRITTO AL BREVETTO  La tutela giuridica dell’invenzione ha contenuto sia morale che patrimoniale. L’inventore ha diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione e tale diritto morale acquista per il solo fatto dell’invenzione; inoltre, ha il diritto, trasferibile, di conseguire il brevetto (diritto al brevetto), che ha funzione costitutiva ai fini dell’acquisto del diritto all’utilizzazione economica in esclusiva del trovato (diritto sul brevetto). Non sempre però l’autore dell’invenzione coincide col soggetto legittimato a richiedere il brevetto e a sfruttarlo economicamente; in particolare, la dissociazione fra le due posizioni può verificarsi quando si tratta di invenzioni realizzate dai dipendenti di un imprenditore.  Il lavoratore ha sempre diritto ad essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro (art.2590 c.c.) MA l’attribuzione dei diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione è regolata secondo una triplice tipologia: 1. INVENZIONE DI SERVIZIO  L’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto di lavoro, che prevede altresì una specifica retribuzione per tale attività: è questa la tipica posizione in cui si trovano gli addetti agli uffici ricerca e progettazione della grande industria . Le invenzioni da loro realizzate appartengono al datore di lavoro, che acquista a titolo originario il diritto di chiedere e di sfruttare il brevetto, mentre al lavoratore nulla è dovuto per i risultati raggiunti. La soluzione è probabilmente ispirata dalla considerazione che il datore di lavoro si è accollato i costi ed i rischi dell’attività di ricerca, ma ciò non toglie che essa finisce col premiare eccessivamente lo stesso datore di lavoro. 2. INVENZIONE AZIENDALE L’invenzione è fatta nell’esecuzione di un contratto o di un rapporto di lavoro, ma non è prevista una specifica retribuzione per l’attività inventiva: i diritti patrimoniali sorgono direttamente in capo al datore di lavoro. Se il datore di lavoro consegue il brevetto oppure sfrutta l’invenzione in regime di segretezza industriale, il lavoratore ha però diritto ad un “equo premio” tenuto conto dell’importanza dell’invenzione, delle mansioni e retribuzione dell’inventore e dell’eventuale contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione aziendale. 3. INVENZIONE OCCASIONALE  L’invenzione rientra nel “campo di attività” dell’impresa cui è addetto l’inventore, ma è indipendente dal contratto o dal rapporto di lavoro: i diritti patrimoniali spettano al lavoratore e solo il lavoratore potrà chiedere il brevetto. Però, al datore di lavoro è riconosciuta una posizione privilegiata rispetto ai terzi nello sfruttamento dell’invenzione: infatti, il datore di lavoro ha diritto di prelazione per l’uso dell’invenzione, per l’acquisto del brevetto e per la presentazione all’estero della stessa invenzione; tuttavia, ciò è possibile a fronte del pagamento di un corrispettivo, concordato con il lavoratore o fissato da un collegio di arbitratori, se non si raggiunge l’accordo. La delineata disciplina trova applicazione anche alle invenzioni delle quali sia stato chiesto il brevetto entro un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro. Queste distinzioni sono venute meno quando il rapporto di lavoro intercorre con un’università o altra istituzione pubblica di ricerca: in tal caso titolare esclusivo dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile è sempre il ricercatore autore dell’invenzione e solo lui potrà chiedere il brevetto; all’università o alla pubblica amministrazione interessata spetta solo una partecipazione ai proventi dello sfruttamento dell’invenzione, nella misura determinata dall’ente stesso. L’inventore ha però diritto a non meno del 50% di tali proventi. INVENZIONE BREVETTATA  Il brevetto per invenzione industriale è concesso dall’Ufficio Italiano brevetti e marchi, sulla base di una domanda corredata, a pena di nullità, dalla descrizione dell’invenzione “in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla”, nonché dai disegni necessari alla sua intelligenza. Ogni domanda può avere per oggetto una sola invenzione e deve specificare ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto (rivendicazione). L’ufficio brevetti è tenuto ad accertare la regolarità formale della domanda, la liceità e che l’invenzione abbia un oggetto per cui è consentita la brevettazione; inoltre, l’ufficio è tenuto a svolgere un’indagine 15 preventiva volta ad accertare gli altri requisiti di validità della domanda (novità, originalità e industrialità del trovato). Non accerta se il richiedente sia titolare del diritto al brevetto. DURATA: Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni dalla data di deposito della domanda ed è esclusa ogni possibilità di rinnovo. Il relativo diritto di esclusiva si può perdere prima della scadenza qualora sia dichiarata la nullità del brevetto o sopravvenga una causa di decadenza dello stesso. DIRITTO DI ESCLUSIVA: il brevetto conferisce al suo titolare la facoltà esclusiva di attuare l’invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato. L’esclusiva comprende non solo la fabbricazione, ma anche il commercio e l’importazione dei prodotti cui l’invenzione si riferisce. L’esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in circolazione del prodotto brevettato in uno Stato membro dell’Unione Europea; questa limitazione (principio di esaurimento del brevetto) è ispirata dalla finalità di ridimensionare la posizione monopolistica connessa allo sfruttamento del brevetto in quanto impedisce che il titolare della privativa controlli e condizioni anche il mercato della distribuzione. L’esclusiva sussiste nei limiti dell’invenzione brevettata. Tuttavia, se l’invenzione riguarda un nuovo metodo o un nuovo processo di produzione (invenzione di procedimento), l’esclusiva copre solo la messa in commercio del prodotto identico a quello direttamente ottenuto con il nuovo metodo o processo ; il titolare di tale brevetto potrà quindi impedire che altri metta in commercio prodotti identici ottenuti con lo stesso metodo, ma non potrà impedire il commercio degli stessi prodotti ottenuti con metodo diverso. TRASFERIMENTO DEL BREVETTO: Il brevetto è liberamente trasferibile secondo le norme di diritto privato. Il titolare del brevetto può altresì concedere licenza di uso dello stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione a favore del licenziatario. È proprio la licenza di brevetto senza esclusiva il tipico contratto di cui si avvale la grande industria. TUTELA: L’invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali. Il titolare del brevetto (e anche il licenziatario) possono esercitare azione di contraffazione nei confronti di chi abusivamente sfrutti l’invenzione. La sentenza che accerta la contraffazione ordina l’inibitoria per il futuro della fabbricazione o dell’uso di quanto forma oggetto del brevetto. Sono altresì previste sanzioni graduali volte ad eliminare dal mercato gli oggetti realizzati in violazione del brevetto. Il titolare del brevetto ha in ogni caso diritto al risarcimento dei danni subiti, comprendenti sia il danno patrimoniale, sia il danno morale. Può inoltre chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (e il giudice può disporre, come sanzione accessoria, anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente. La competenza per le cause di contraffazione è attribuita in primo grado al Tribunale delle imprese competente per territorio. BREVETTAZIONE INTERNAZIONALE. BREVETTO EUROPEO. BREVETTO EUROPEO CON EFFETTO UNITARIO  Il rilascio del brevetto per invenzione attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio nazionale. L’esclusiva però può essere conseguita anche in altri Stati ed alcuni trattati internazionali agevolano il conseguimento di tale risultato. Brevettazione internazionale: la convenzione di Parigi del 1883 per la protezione della proprietà industriale riconosce a chi ha richiesto il brevetto per invenzione in uno degli stati dell’unione diritto di priorità per ciascuno degli altri Paesi. L’inventore deve presentare distinte domande per ciascun Paese, ma la novità dell’invenzione è valutata con riferimento alla data del primo deposito nazionale, purché le successive domande siano presentate entro 12 mesi. L’inventore può inoltre conseguire il brevetto europeo regolato dalla convenzione di Monaco di Baviera del 1973 rilasciato con un'unica domanda ed un’unica procedura da apposito ufficio (Ufficio europeo dei brevetti di Monaco). Il contenuto del diritto di esclusiva resta regolato in via di principio dalle legislazioni nazionali dei Paesi in cui il brevetto ha efficacia. Perciò il brevetto europeo è un titolo equivalente, sul piano degli effetti, ad un fascio di brevetti nazionali. Brevetto europeo con effetto unitario (o brevetto unitario europeo): nel 2011 gli organi comunitari hanno autorizzato una cooperazione rafforzata fra gli stati membri per la creazione di un brevetto europeo con effetti unitari. Così 25 stati hanno dato vita al nuovo sistema brevettuale (l’Italia non ha aderito). Il brevetto europeo con effetto unitario è rilasciato dallo stesso Ufficio europeo di Monaco, secondo le regole ed il procedimento previsti per il brevetto europeo. Esso ha carattere sovranazionale, unitario ed autonomo. Esso fornisce una protezione uniforme in tutti gli stati. Le controversie che lo hanno ad oggetto sono devolute alla giurisdizione di una corte unica europea sui brevetti, istituita da un accordo in fase di ratifica. 16 INVENZIONE NON BREVETTATA (PREUSO NEL BREVETTO) L’inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto. Corre però il rischio che altri pervenga al medesimo risultato inventivo, lo brevetti ed acquisti il diritto di esclusiva, dato che è indubbio che fra due inventori prevale chi per primo ha presentato la domanda di brevetto, se non ricorre un diritto di priorità. La nuova disciplina delle invenzioni, introdotta nel 1979, riconosce tuttavia una sia pur limitata tutela anche a chi abbia utilizzato un’invenzione senza brevettarla (TUTELA DEL PREUSO): “Chiunque, inventore o terzo avente causa, abbia fatto uso dell’invenzione nella propria azienda, nei 12 mesi anteriori al deposito dell’altrui domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l’invenzione stessa nei limiti del pre-uso”. Inoltre, il preutente può trasferire tale facoltà ma solo insieme all’azienda in cui l’invenzione è utilizzata, restando a suo carico la prova del preuso e dell’ampiezza dello stesso. Tale tutela minima opererà peraltro nel caso di preuso segreto, la cui abusiva violazione configura anche atto di concorrenza sleale. Se invece il preutente o l’inventore hanno divulgato l’invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito della novità e potrà essere esperita azione di nullità dello stesso. C) I MODELLI INDUSTRIALI MODELLI DI UTILITÀ  I modelli industriali sono creazioni intellettuali applicate all’industria di minor rilievo rispetto alle invenzioni industriali. I modelli industriali sono distinti in: 1) modelli di utilità, che sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità a macchine, strumenti, utensili o oggetti d’uso (es. una nuova forma di poltrona da dentista che ne aumenti la comodità); 2) disegni e modelli che sono invece nuove idee destinate a migliorare l’aspetto (forma, linea, colore, contorni) dei prodotti industriali. È questo il vasto campo dell’industrial design. I modelli industriali riguardano la foggia funzionale (modelli di utilità) o estetica (disegni e modelli) dei prodotti. Distinguere tra i due tipi di modelli industriali non è tuttavia sempre facile in pratica dato che, ad esempio, una nuova forma di paraurti per automobile può essere al tempo stesso particolarmente funzionale ed esteticamente pregevole: il legislatore, in tal caso, consente di ottenere contemporaneamente il brevetto per modello di utilità e la registrazione per disegno o modello e di godere delle due tutele. DISCIPLINA: la tutela dei modelli di utilità continua a fondarsi sull’istituto della brevettazione e in materia trova applicazione larga parte della disciplina delle invenzioni industriali. Il punto più significativo di differenziazione normativa rispetto alle invenzioni industriali riguarda la durata del brevetto, ristretta a 10 anni, rispetto ai 20 anni delle invenzioni industriali. Distinguerlo all’atto pratico da quello per le invenzioni non è però sempre facile, dato che sia le invenzioni industriali sia i modelli di utilità tendono a risolvere un problema tecnico ed anche un’invenzione vera e propria può riguardare la forma funzionale di un preesistente prodotto ( invenzione di perfezionamento). Ed il problema resta, quand’anche si accetti l’idea che la diversità fra invenzione e modello di utilità non è solo quantitativa, ma è di tipo qualitativo: l’invenzione dà vita alla creazione di un nuovo prodotto o di un nuovo procedimento; il modello presuppone invece un prodotto già esistente al quale apporta solo particolare efficacia o comodità di impiego. Non sempre è agevole determinare se un perfezionamento di forma dia vita ad un nuovo oggetto (invenzione) o si limiti a migliorare la funzionalità di un preesistente prodotto (modello di utilità). Sussiste la possibilità di convertire il brevetto per invenzioni nullo in brevetto per modelli di utilità. DISEGNI E MODELLI  La tutela dei disegni e modelli avviene mediante registrazione presso l’Ufficio Italiano brevetti e marchi, e la nuova disciplina prevede che possono essere registrati i disegni e modelli “che siano nuovi ed abbiano carattere individuale”. Il disegno o modello non deve essere identico ad un disegno o modello già divulgato in precedenza e deve suscitare nell’utilizzatore informato un’impressione generale diversa da quella suscitata da qualsiasi altro disegno o modello precedentemente divulgato. Non si richiede più che il disegno o modello sia atto a dare uno “speciale ornamento” al prodotto . È consentita la tutela separata di componenti destinati ad essere assemblati in un prodotto complesso, purché le caratteristiche visibili del componente possiedano di per sé i requisiti della novità e del carattere individuale. Non possono essere registrati disegni o modelli contrari all’ordine pubblico o al buon costume, né stemmi o altri segni protetti da convenzioni internazionali o che rivestono particolare interesse pubblico. La registrazione dura 5 anni dalla domanda, ma può essere prorogata, per periodi di 5 anni, fino ad un massimo di 25 anni. La registrazione di un disegno o modello conferisce al titolare il 17 contempo la validità al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio della libertà di iniziativa economica attuale e futura - art. 2596; d. assicura l’ordinato e corretto svolgimento della concorrenza attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale, artt. 2598-2601. Per lungo tempo il sistema italiano della concorrenza si era contraddistinto per la mancanza di una normativa antimonopolistica. A partire dagli anni ‘50 la lacuna fu parzialmente colmata dalla diretta applicabilità nel nostro ordinamento della disciplina antitrust, dettata dai Trattati della CEE. Tale normativa però riguardava solo il regime concorrenziale del mercato comune europeo, e non consente di colpire le pratiche che incidono esclusivamente sul mercato italiano.  tale lacuna è stata colmata dalla L.287/1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato), che ha introdotto una disciplina antimonopolistica nazionale a carattere generale , che si affianca a quella comunitaria . LA DISCIPLINA ITALIANA E COMUNITARIA  La libertà di iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudichino in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato  Questo principio è il cardine della legislazione antimonopolistica dell’UE, dettata dal Trattato Ce e dai Regolamenti Ce. Questa disciplina, applicabile direttamente alle imprese italiane, è volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali che pregiudicano il commercio fra stati membri. La Commissione della CE vigila sul rispetto di tali normative, adotta i provvedimenti necessari per reprimere i comportamenti anticoncorrenziali vietati, irroga le sanzioni pecuniarie previste dalla legislazione comunitaria. Questo principio è stato recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana, L.287/1990, volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e reprimere i comportamenti anticoncorrenziali che incidono solo sul mercato nazionale. La legge ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, Autorità garante della concorrenza e del mercato, che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica in tutti i settori economici. Per il settore assicurativo, l’Autorità deve sentire l’Ivass; per il settore dell’editoria e radiotelevisivo vi è l’apposita Autorità. L’Autorità garante: ha ampi poteri di indagine ed ispettivi, adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari, irroga le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla legge. Contro i provvedimenti amministrativi dell’Autorità può essere proposto ricorso giudiziario, per il quale è competente il Tar del Lazio. Le azioni di nullità e di risarcimento dei danni, nonché i ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti di urgenza, vanno promossi alla Corte d’appello competente per territorio. Si omette, perciò, il primo grado di giudizio davanti al Tribunale. I fenomeni pericolosi per la struttura concorrenziale del mercato posti sotto controllo sia dalla disciplina comunitaria sia da quella nazionale sono identici: le intese, gli abusi di posizione dominante, le concentrazioni.  Da qui l’esigenza di coordinare le due normative: a tal proposito, il legislatore italiano ha riconosciuto posizione preminente e sovraordinata alla disciplina comunitaria . Infatti, la normativa nazionale ha carattere residuale, cioè è applicabile solo se la fattispecie non è prevista dalla normativa comunitaria e si applica alle pratiche anticoncorrenziali che hanno rilievo esclusivamente locale e che non incidono sulla concorrenza nel mercato comunitario; invece, per le fattispecie che incidono sul mercato comunitario è applicabile solo il diritto comunitario della concorrenza (principio della barriera unica), anche se la Commissione Ce sta decentrando l’applicazione della disciplina comunitaria da parte delle Autorità nazionali. I principi del diritto comunitario prevalgono anche nell’interpretazione dell’art. 8 della legge 287/1990 che definisce l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina antimonopolistica italiana: imprese private, imprese pubbliche e a prevalente partecipazione statale, escluse le imprese in monopolio legale e quelle che gestiscono servizi di interesse economico generale. Nella nozione comunitaria di impresa sono ricomprese anche gli esercenti professioni intellettuali, che per il nostro ordinamento non sono imprenditori. Quindi, anche ad essi si applica la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria. LE SINGOLE FATTISPECIE. LE LINEE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA  I FENOMENI RILEVANTI per la disciplina antimonopolistica italiana e comunitaria sono TRE: le intese restrittive della concorrenza, gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni. 20 Le INTESE sono comportamenti concordati fra imprese volti a limitare la propria libertà di azione sul mercato. In particolare, sono considerate intese: a) gli accordi fra imprese, anche se non vincolanti; b) le deliberazioni di consorzi, di associazioni di imprese o altri organismi similari; c) le pratiche concordate fra imprese, per evitare che sfuggano al divieto di intese restrittive della concorrenza i comportamenti concertati che non derivano da accordi espressi. Vi rientra ogni forma di coordinamento dell’attività delle imprese che si traduce in comportamenti paralleli , es. aumento simultaneo dei prezzi, consapevolmente adottati mediante contatti diretti o indiretti, es. scambio di informazioni riservate. Non tutte le intese anticoncorrenziali sono però vietate  Sono vietate solo le intese che abbiano per oggetto o per effetto l’impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o comunitario, o in una sua parte rilevante. QUINDI, sono lecite le intese minori cioè quelle che per la struttura del mercato interessato e le caratteristiche delle imprese operanti non incidono sull’assetto concorrenziale del mercato. Rientrano tra le intese vietate non solo quelle tra produttori (intese orizzontali) ma anche gli accordi commerciali tra produttori e distributori che prevedono clausole di esclusiva idonee a produrre un effetto di chiusura del mercato (intese verticali). Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto. Chiunque, indipendentemente dall’iniziativa dell’Autorità, può agire in giudizio per farne accertare la nullità, anche prima che gli effetti si realizzino. L’Autorità, dopo aver accertato le infrazioni commesse, con apposita istruttoria, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali ed irroga le sanzioni pecuniarie previste. Essa può però chiudere l’istruttoria senza accertare l’infrazione, quando l’impresa assuma impegni tali da far cessare profili anticoncorrenziali contestati. L’Autorità può concedere anche delle esenzioni temporanee, individuali o per categoria di accordi, purché ricorrano le condizioni specificate dalla legge. Cioè, si deve trattare di intese che migliorino le condizioni di offerta sul mercato e producano un sostanziale beneficio per i consumatori. È comunque necessario che non sia eliminata la concorrenza da una parte sostanziale del mercato. ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE E ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: oltre alle intese, questo è il secondo fenomeno preso in considerazione dall’ordinamento nazionale e comunitario. - L’ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE  L’art. 3 della L.287/1990 vieta l’abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese. Non è vietato il fatto in sé dell’acquisizione di una posizione dominante sul mercato o in una parte rilevante di esso; bensì è vietato solo lo sfruttamento abusivo di tale posizione dominante, con comportamenti lesivi dei concorrenti e dei consumatori, capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva (ad eccezione del settore dei mezzi di comunicazione di massa). Nella valutazione della posizione dominante un ruolo decisivo gioca l’individuazione, merceologica e geografica, del mercato rilevante. Questo comprende tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati e, abbraccia quella zona in cui le imprese fornitrici si pongono fra loro in rapporto di concorrenza. L’individuazione del mercato rilevante non è sempre agevole anche per la tendenza dell’Autorità a frammentare lo stesso. I comportamenti tipici che possono dar luogo ad abuso di posizione dominante sono identificati negli stessi comportamenti che possono formare oggetto di intese vietate. Perciò, ad un’impresa in posizione dominante è vietato: a) imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico a danno dei consumatori; c) applicare nei rapporti commerciali condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare ingiustificati svantaggi nella concorrenza; d) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi. Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l’infrazione l’Autorità competente: ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie; infligge sanzioni pecuniarie 21 identiche a quelle stabilite per le intese; in caso di reiterata inottemperanza, l’Autorità italiana può disporre la sospensione dell’attività dell’impresa fino a trenta giorni. - ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA  Nell’ordinamento nazionale è vietato anche l’abuso di dipendenza economica, cioè quella situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi . Il patto attraverso cui si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento dei danni nei confronti dell’impresa che ha subito l’abuso. Inoltre, l’Autorità garante applica le sanzioni previste per l’abuso di posizione dominante qualora ravvisi che l’abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato. LE CONCENTRAZIONI  oltre alle intese e all’abuso di posizione dominante, questo è il terzo ed ultimo fenomeno posto sotto controllo dalla legislazione antimonopolistica (nazionale e comunitaria). Si ha concentrazione quando: 1) due o più imprese si fondano dando luogo ad un’impresa unica  concentrazione giuridica; 2) due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un’unica entità economica, cioè sono sottoposte ad un controllo unitario che consente di esercitare un’influenza determinante sull’attività produttiva delle imprese controllate  concentrazione economica; 3) due o più imprese indipendenti costituiscono un’impresa societaria comune. Le imprese comuni sono però sottratte alla disciplina delle concentrazioni quando abbiano come scopo principale il coordinamento dei comportamenti concorrenziali delle imprese partecipanti. Gli strumenti giuridici che possono dar luogo ad un’operazione di concentrazione (es. fusione, scissione, acquisto di un’azienda) sono diversi ma hanno tutti lo scopo di ampliare la quota di mercato detenuta da un’impresa, realizzato attraverso operazioni che comportano la stabile riduzione del numero di imprese indipendenti operanti nel settore. Perciò, la disciplina delle concentrazioni è da escludersi quando le imprese partecipanti fanno parte di uno stesso gruppo. È espressamente escluso che si abbia concentrazione quando una banca o un istituto finanziario acquistano una partecipazione di controllo di un’impresa al fine di rivenderla sul mercato, purché non esercitino il diritto di voto per tutto il periodo di possesso delle azioni, che comunque non deve durare oltre i 24 mesi. Le concentrazioni sono un utile strumento di ristrutturazione e non sono di per sé vietate dato che rispondono all’esigenza di accrescere la competitività delle imprese. Sono illecite e vietate quando diano luogo a gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato. È previsto che le operazioni che superino determinate soglie di fatturato, a livello nazionale o comunitario, debbano essere preventivamente comunicate all’Autorità italiana o alla Commissione Ce, al fine di valutare se esse comportano la costruzione o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in modo sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato. Se l’Autorità ritiene di dover indagare sulla liceità della concentrazione, apre un’apposita istruttoria che deve essere conclusa entro 45 giorni. Nel frattempo, può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione della concentrazione. Terminata l’istruttoria, l’Autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporti la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabili e durevoli o, in alternativa, può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie per impedire tali conseguenze. Qualora la concentrazione sia già stata realizzata prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi. In presenza di rilevanti interessi generali dell’economia nazionale, l’Autorità può tuttavia eccezionalmente autorizzare anche concentrazioni altrimenti vietate, in conformità dei criteri generali preventivamente fissati dal Governo. Se la concentrazione vietata viene ugualmente eseguita o se le imprese non si adeguano a quanto prescritto, l’Autorità può infliggere pesanti sanzioni pecuniarie, che possono giungere fino al 10% del fatturato delle imprese. Diversamente dalle intese però, non è sancita la nullità delle operazioni che hanno dato luogo ad una concentrazione vietata. Perciò, ai terzi resta solo la possibilità di richiedere il risarcimento dei danni in via giudiziaria. 22 Il codice disciplina esplicitamente dei patti nominati: 1) la clausola di esclusiva, che può essere inserita in un contratto di somministrazione; 2) il patto di preferenza a favore del somministrante inserito nel contratto di somministrazione, che non può superare i 5 anni e con il quale il somministrato si obbliga a preferire lo stesso somministrante qualora intenda stipulare un successivo contratto di somministrazione per lo stesso oggetto; c) il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto, nullo se non risulta da atto scritto o se non è previsto un compenso per il lavoratore e, salvo che per i dirigenti (5 anni) il vincolo non può eccedere i 3 anni dalla fine del rapporto di lavoro; d) il patto con cui si limita la concorrenza dell’agente dopo lo scioglimento del contratto di agenzia, che deve farsi per iscritto, non può durare più di 2 anni e deve riguardare la stessa zona, clientela e genere di servizi o beni oggetto del contratto di agenzia e con il quale all’agente è riconosciuta un’indennità determinata d’accordo tra le parti o, in mancanza, dal giudice.  Quindi, in via di principio, l’art. 2596 si applica solo ai patti accessori innominati. Le limitazioni dell’art. 2596 si applicherebbero solo alle restrizioni orizzontali della concorrenza. Mentre le restrizioni verticali sarebbero regolate dall’art. 1379 che prevede che il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti, e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde a un apprezzabile interesse di una delle parti . Ma tale tesi non è condivisibile, poiché si fonda infatti sulla discutibile premessa che l’art. 2596 riguardi solo i patti che limitano la concorrenza fra le parti contraenti e sull’errata premessa che, invece, le restrizioni verticali limitano la concorrenza verso i terzi e non tra le parti. MA così non è in quanto ad es. un patto di esclusiva fra produttore e commerciante implica anche una diretta restrizione della concorrenza a carico del secondo precludendogli la possibilità di rifornirsi da altri produttori. Ricade perciò nell’ambito di applicazione dell’art. 2596. C) LA CONCORRENZA SLEALE La libertà di iniziativa economica implica la presenza sul mercato di più imprenditori che offrono beni, servizi identici o similari e che sono in concorrenza fra loro per conquistare i consumatori e conseguire il maggior successo economico. Nel perseguimento di questi obiettivi ciascun imprenditore gode di ampia libertà di azione e può attuare le strategie che ritiene più proficue. Il danno che un imprenditore subisce a causa della sottrazione della clientela da parte dei concorrenti non è danno ingiusto e risarcibile. Tuttavia, è interesse generale che la competizione fra imprenditori si svolga in modo corretto e leale  Da qui la necessità di predeterminare regole di comportamento, ossia la necessità di distinguere fra comportamenti concorrenziali leali (: leciti e consentiti dall’ordinamento) e comportamenti sleali (: illeciti e vietati).  Nell’ordinamento vigente questa esigenza è soddisfatta dalla disciplina della concorrenza sleale (artt. 2598-2601). PRINCIPI  Nello svolgimento della competizione fra imprenditori concorrenti è vietato servirsi di mezzi e tecniche non conformi ai principi della correttezza professionale, art. 2598. I fatti, gli atti e i comportamenti che violino tale regola sono atti di concorrenza sleale (c.d. illecito concorrenziale). Tali atti sono sanzionati anche se compiuti senza dolo o colpa , art. 2600 ed anche se non hanno arrecato danno ai concorrenti; infatti, basta il danno potenziale, cioè basta che l’atto sia idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Le sanzioni tipiche di questi atti sono l’inibitoria alla continuazione degli atti di concorrenza sleale e la rimozione degli effetti prodotti, art. 2599 salvo il diritto al risarcimento dei danni in presenza dell’elemento psicologico (di dolo o colpa) e di un danno patrimoniale attuale. Concorrenza sleale – illecito civile  sono istituti che, posti a raffronto, presentano allo stesso tempo affinità e divergenze. La disciplina della concorrenza sleale germina da quella dell’illecito civile e assolve la funzione di prevenire e reprimere atti suscettibili di arrecare un danno ingiusto, funzione sostanzialmente identica a quella dell’illecito civile, ma perseguita con adattamenti imposti dalla specificità del tipo di illecito che si vuole reprimere (illecito concorrenziale). Dunque, si possono delineare delle differenze con l’illecito civile, in quanto la repressione degli atti di concorrenza sleale: a) non ricorre all’elemento soggettivo del dolo o della colpa; b) è svincolata dalla presenza di un danno patrimoniale attuale come inteso dall’art. 2043; c) è attuata attraverso sanzioni tipiche (inibitoria e rimozione) che non si esauriscono nel mero risarcimento dei danni. 25  IN DEFINITIVA, si tratta di una disciplina speciale rispetto a quella generale dell’illecito civile e che offre agli imprenditori una tutela più energica (privilegiata) nelle relazioni con i concorrenti, al fine di evitare che pratiche scorrette alterino un “valore” di interesse generale: il corretto funzionamento del mercato. La disciplina della concorrenza sleale non tutela solo l’interesse dell’imprenditore a non veder alterato le proprie probabilità di guadagno, ma è tutelato il più generale interesse a che non vengano falsati gli elementi di valutazione e di giudizio del pubblico e non siano tratti in inganno i consumatori (gli interessi diffusi dei consumatori devono essere tenuti presenti nel valutare la lealtà delle pratiche concorrenziali ma non possono essere elevati ad interessi direttamente tutelati da tale disciplina). Perché un atto configuri concorrenza sleale è necessario che sia idoneo a danneggiare i concorrenti e tale atto resta anche se non arreca alcun pregiudizio ai consumatori, anche se ne traessero vantaggio (es: fenomeno del dumping, vendite sottocosto finalizzate all’annientamento dei concorrenti). Contro gli atti di concorrenza sleale sono legittimati a reagire solo gli imprenditori concorrenti o loro associazioni di categoria (art. 2601) e non i singoli consumatori o le loro associazioni (: il sistema della concorrenza sleale applica nei loro confronti una tutela solo in modo mediato e riflesso). Inoltre, all’originaria mancanza di norme sulla protezione dei consumatori contro gli inganni pubblicitari ha in un primo tempo supplito l’autonomia privata con la volontaria adozione da parte delle imprese di settore di un Codice di autodisciplina pubblicitaria, sul cui rispetto vigila un apposito organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina). Si è dopo affiancata una disciplina statale della pubblicità ingannevole e poi il d.lgs. 206/2005 attuativo di una direttiva CE che ha introdotto nel codice di consumo norme di tutela dei consumatori contro tutte le pratiche commerciali scorrette. AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE  La disciplina della concorrenza sleale regola i rapporti di coesistenza sul mercato fra imprenditori concorrenti e la sua applicazione postula 2 presupposti: 1) la qualità di imprenditore sia del soggetto che pone in essere l’atto di concorrenza vietato, sia del soggetto che ne subisce le conseguenze; 2) l’esigenza di un rapporto di concorrenza economica fra i due. Chi è leso nella propria attività di impresa da un soggetto che non è imprenditore o non è suo concorrente potrà reagire avvalendosi della disciplina dell’illecito civile se vi sono i presupposti (colpa o dolo del soggetto attivo e danno attuale). Soggetto passivo dell’atto di concorrenza sleale può essere solo un imprenditore in quanto solo nei confronti di un imprenditore si verifica la condizione dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui azienda . C’è qualche incertezza sulla necessità che la qualità di imprenditore debba essere rivestita anche dall’autore del comportamento sleale, affermandosi testualmente all’art. 2598 che “compie atti di concorrenza sleale chiunque…”. Dottrina e giurisprudenza propendono per una interpretazione restrittiva di tale formula dato che concorrente di un imprenditore non può che essere un altro imprenditore; tale soluzione contiene una fondamentale esigenza di parità di trattamento dato che “non si saprebbe ravvisare la giustificazione di una tutela privilegiata dell’imprenditore nei confronti di tutti i consociati mentre una tutela speciale dell’imprenditore nei confronti degli altri imprenditori perde il carattere di privilegio data la stessa reciprocità della tutela”. Si deduce che la disciplina della concorrenza sleale non è applicabile quando il soggetto attivo non è imprenditore. INOLTRE, l’imprenditore risponde a titolo di concorrenza sleale non solo per gli atti da lui direttamente compiuti ma anche per quelli posti in essere indirettamente (art. 2598) da altri (ausiliari autonomi o subordinati, ecc.) nel suo interesse e su sua istigazione o incarico. Fra soggetto passivo e soggetto attivo deve esistere un rapporto di concorrenza prossima o effettiva, cioè entrambi devono offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare lo stesso bisogno dei consumatori o bisogni similari o complementari. Nel valutare l’esistenza del rapporto di concorrenza bisogna tener conto della prevedibile espansione territoriale e merceologica dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza sleale, detta concorrenza potenziale. La disciplina della concorrenza sleale è stata estesa dalla giurisprudenza anche a imprenditori che agiscono a livelli economici diversi (: produttore-rivenditore; grossista-dettagliante), purché il risultato ultimo di entrambe le attività incida sulla stessa categoria di consumatori, detta concorrenza verticale (es: compie atto di concorrenza sleale verso un produttore di aperitivi l’esercente di un bar che serva un aperitivo diverso da quello specificamente richiesto dalla clientela). 26 GLI ATTI DI CONCORRENZA SLEALE. LE FATTISPECIE TIPICHE.  I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art. 2598 che individua 2 fattispecie tipiche: atti di confusione (n.1) e atti di denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui (n.2). - Atto di confusione è ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente (art. 2598 n. 1); è lecito attirare a sé l’altrui clientela ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che traggono in inganno i consumatori sulla provenienza dei prodotti o sull’identità dell’imprenditore: questi mezzi sleali sfruttano il successo sul mercato dei concorrenti, generando equivoci e possibile sviamento della clientela. Il legislatore ne individua 2 mezzi : a) l’ uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti (es: chi adotta un marchio privo di capacità distintiva o di novità e quindi non tutelato dalla disciplina dei marchi, non potrà poi pretendere che un concorrente si astenga dall’utilizzare lo stesso segno in base alla disciplina della concorrenza sleale. La confondibilità può riguardare segni distintivi tipici ed in tal caso la tutela della disciplina della concorrenza sleale integrerà quella offerta dalla disciplina dei segni distintivi, ma si può altresì trattare di segni non protetti da altre disposizioni, es. slogan pubblicitario, ed in tal caso potrà applicarsi solo la disciplina della concorrenza sleale); b) l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, cioè l’imitazione della forma esteriore dei prodotti altrui (es. involucro o confezione), attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti provengano dalla stessa impresa. L’imitazione deve riguardare elementi formali non necessari ma al tempo stesso caratterizzanti, cioè idonei a differenziare esteriormente quel dato prodotto dagli altri dello stesso. Non si ricade in questa ipotesi quando vengono imitate forme comuni ormai standardizzate rinvenibili in ogni prodotto. A questi due mezzi si aggiunge ogni altro mezzo idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente (es: imitazione dei mezzi pubblicitari, listini o cataloghi): si pensi alla pratica di allestire in modo identico i propri punti vendita. - Atti di denigrazione consistono nel diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito , oppure nell’appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa del concorrente (art. 2598 n. 2). Si tratta di due fattispecie la cui finalità comune è di falsare gli elementi di valutazione comparativa del pubblico , attraverso comunicazioni indirizzate a terzi e avvalendosi dell’arma della pubblicità. Diverse sono le modalità con cui tale finalità è perseguita.  Con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro reputazione commerciale. Con la vanteria si tende ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio attribuendo ai propri prodotti o alla propria attività pregi che in realtà appartengono ad uno o più concorrenti . I mezzi denigratori sono diversi, come: le denunzie al pubblico di pratiche concorrenziali illecite da parte di concorrenti specifici (es. violazione di un proprio brevetto industriale), quando la diffida sia priva di fondamento o il suo contenuto oltrepassi i limiti della necessaria tutela del proprio diritto; la divulgazione di notizie che possono screditare la reputazione commerciale del concorrente; la pubblicità iperbolica o superlativa, con cui si tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità o determinati pregi, che invece vengono implicitamente negati ai prodotti dei concorrenti (es. il caffè X è il solo che non fa mai male al cuore). Lecito è invece il “puffing”, consistente nella generica ed innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti (es: il panettone M non è un panettone ma il panettone), anche se non è sempre agevole marcare il confine con la pubblicità ingannevole. Altri mezzi denigratori sono: la pubblicità parassitaria o per sottrazione, consistente nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti che in realtà appartengono al concorrente; la pubblicità per riferimento o per agganciamento, consiste nel far credere che i propri prodotti siano simili a quelli del concorrente, attraverso l’uso di espressioni come tipo, modello, sistema (es: pezzo di ricambio tipo Fiat), al fine di avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui rinomanza commerciale. INVECE, non sempre costituisce atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa: essa consiste nel confronto (ad es. attraverso test merceologici) della propria attività e i propri prodotti con quelli di uno o più concorrenti, in modo da esprimere un giudizio negativo sui concorrenti. La comparazione è lecita quando non è ingannevole e confronta oggettivamente caratteristiche essenziali e verificabili di beni o 27 provvisoria della pratica commerciale. L’intervenuta regolamentazione pubblicistica non preclude la possibilità di azionare preventivamente eventuali sistemi di autodisciplina, eventualmente organizzati da associazioni imprenditoriali e professionali, come il Giurì di autodisciplina pubblicitaria. È infatti previsto che le parti interessate possono rivolgersi ad organismi volontari ed autonomi di autodisciplina per ottenere l’inibitoria degli atti di pubblicità ingannevole o comparativa, convenendo al contempo di astenersi dall’adire l’Autorità garante fino alla pronuncia definitiva del Giurì. Inoltre, ogni interessato può richiedere all’Autorità la sospensione del procedimento iniziato dinanzi alla stessa da altri soggetti legittimati, in attesa della pronuncia dell’organo di autodisciplina. La sospensione può essere disposta per un periodo non superiore a trenta giorni. In ogni caso la decisione dell’organo di autodisciplina non pregiudica il diritto del consumatore di adire l’Autorità garante o di promuovere un’azione giudiziaria. LA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE E COMPARATIVA  A partire dagli anni ‘60 i più importanti mezzi di pubblicità hanno dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che li impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato , il Codice di autodisciplina pubblicitaria. Sul rispetto di tale codice vigila un organismo di giustizia privato, il Giurì di autodisciplina, al quale può rivolgersi chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice. Le decisioni del Giurì sono insindacabili ma sono vincolanti solo per coloro che aderiscono all’autodisciplina. Al controllo privato del Giurì si affianca il controllo pubblico dell’Autorità garante. La normativa della materia è dettata attualmente dal D.lgs. 145/2007. Enunciato il principio che la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta, nonché chiaramente riconoscibile come tale, la legge vieta qualsiasi forma di pubblicità ingannevole, a cui dà una definizione ampia: è ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induce in errore o può indurre in errore” le persone alle quali è rivolta e che “possa pregiudicare il loro comportamento economico o ledere un concorrente”. Sono dettagliatamente specificati i criteri in base ai quali deve essere valutato se una determinata forma di pubblicità è ingannevole : caratteri dei beni, prezzo ecc. Ogni interessato (concorrenti, consumatori, loro associazioni ed organizzazioni) può denunciare l’uso di pubblicità ingannevole o comparativa illecita all’Autorità garante; quest’ultima può procedere anche d’ufficio, esercitando i poteri repressivi e sanzionatori già esaminati per le pratiche commerciali scorrette. Come visto, resta ferma inoltre la possibilità di ricorrere preventivamente al Giurì di autodisciplina. 30 CAPITOLO 9: I CONSORZI FRA IMPRENDITORI I consorzi sono accordi tra imprenditori ( sono CONTRATTI). Secondo l’art. 2602 con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese: questa nuova definizione dei consorzi è stata introdotta dalla L. 377/1976 e comporta che il consorzio è oggi uno schema associativo tra imprenditori idoneo a ricomprendere 2 diversi fenomeni: 1) consorzio con funzione anticoncorrenziale: costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare, limitandola , la reciproca concorrenza sul mercato fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari; in questo caso il contratto di consorzio si presenta come un patto limitativo della concorrenza previsto e regolato dall’art. 2596 e che si caratterizza per la reciprocità delle limitazioni (es. consorzio anticoncorrenziale: quello costituito per il contingentamento della produzione o degli scambi fra imprenditori concorrenti). 2) consorzio con funzione di coordinamento: costituito per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese; in tal caso, il consorzio rappresenta anche uno strumento di cooperazione interaziendale finalizzato a ridurre i costi di gestione delle singole imprese consorziate. (es. più imprenditori si consorziano per acquistare in comune determinate materie prime necessarie alle rispettive imprese o creano un ufficio vendite in comune dei propri prodotti)  Entrambi questi tipi di consorzi sollevano problemi legislativi quando si considera il profilo pubblicistico della loro incidenza sulla struttura concorrenziale del mercato: i consorzi anticoncorrenziali sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l’interesse generale (esigenza soddisfatta dalla disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria); i consorzi di cooperazione interaziendale, invece, favorendo la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, concorrendo a preservare la struttura concorrenziale del mercato, sono viste con favore dal legislatore, che ne agevola la costituzione e il funzionamento con una serie di provvidenze creditizie e tributarie a favore dei consorzi e delle società consortili. Sul piano della disciplina di diritto privato i consorzi anticoncorrenziali e i consorzi di cooperazione aziendale sono regolati in modo uniforme. Sul piano civilistico bisogna distinguere fra: a) consorzi con sola attività interna in cui l’organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci fra i consorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto (dunque il consorzio non entra in contatto con i terzi); b) consorzi destinati a svolgere anche attività esterna (struttura tipica dei consorzi di coordinamento), ove le parti prevedono l’istituzione di un ufficio comune, art. 2612, destinato a svolgere attività con i terzi nell’interesse delle imprese consorziate.  comunque, in entrambi i casi si dà luogo alla creazione di un’organizzazione comune. Tenendo presente questa differenza, il codice prevede innanzitutto una disciplina comune, volta a regolare la costituzione del consorzio ed i rapporti fra i consorziati. Poi, detta disposizioni relative ai soli consorzi con attività esterna, che regolano i rapporti fra i consorzi e i terzi. IL CONTRATTO DI CONSORZIO: Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori anche se svolgono attività differenti fra loro. - L’art. 2603 stabilisce che il contratto di consorzio è formale e che deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità. - Contenuto essenziale del contratto è dato dall’oggetto del consorzio, dagli obblighi assunti dai consorziati e dagli eventuali contributi in denaro da essi dovuti per il funzionamento del consorzio ; se si tratta di consorzio di contingentamento il contratto deve stabilire anche le quote dei singoli consorziati o i criteri per la loro determinazione. - Il contratto di consorzio è un contratto di durata e le parti sono liberi di determinarla; nel loro silenzio il contratto è valido per 10 anni e questa scelta legislativa della riforma è ispirata a favorire la rimozione di ostacoli alla formazione di stabili organismi consortili di cooperazione. Tale disciplina è applicabile anche ai consorzi anticoncorrenziali in deroga all’art. 2596 che fissa in 5 anni la durata massima dei patti limitativi della concorrenza. 31 - Il contratto di consorzio è tendenzialmente a struttura aperta e dunque è possibile la partecipazione di nuovi imprenditori senza il consenso di tutti gli attuali consorziati; però, devono essere predeterminate le condizioni di ammissione di nuovi consorziati (se il contratto nulla prevede è da ritenersi che il consorzio sia a struttura chiusa e nuovi membri potranno essere ammessi col consenso di tutti i consorziati); - secondo l’art. 2610 il trasferimento a qualsiasi titolo dell’azienda comporta l’automatico subingresso dell’acquirente nel contratto di consorzio; tuttavia, se sussiste una giusta causa e solo nel caso di trasferimento per atto tra vivi gli altri consorziati potranno deliberare l’esclusione dell’acquirente dal consorzio entro 1 mese dalla notizia del trasferimento. - L’art. 2611 elenca i casi in cui è previsto lo scioglimento dell’intero contratto di consorzio: 1) per il decorso del tempo stabilito per la sua durata; 2) per il conseguimento dell'oggetto o per l'impossibilità di conseguirlo; 3) per volontà unanime dei consorziati; 4) per deliberazione dei consorziati, presa a norma dell'art. 2606, se sussiste una giusta causa; 5) per provvedimento dell'autorità governativa, nei casi ammessi dalla legge; 6) per le altre cause previste nel contratto (gravi inadempienze). - Inoltre, il contratto di consorzio, al pari degli altri contratti associativi, può sciogliersi limitatamente ad un consorziato, per volontà di questo (recesso) o per decisione degli altri consorziati (esclusione); le cause di recesso e di esclusione devono essere indicate nel contratto e causa tipica di esclusione può essere l’inadempimento degli obblighi consortili. Al consorziato receduto o escluso competerà la liquidazione della sua quota di partecipazione al fondo patrimoniale consortile. Un’indicazione in senso contrario sembra provenire dall’art.2609 il quale dispone che nei casi di recesso e di esclusione la quota di partecipazione del consorziato receduto o escluso si accresce proporzionalmente a quella degli altri consorziati; è tuttavia opinione prevalente che questo articolo si riferisca solo ai diritti e agli obblighi assunti dalle parti nei consorzi di contingentamento. I CONSORZI CON ATTIVITÀ INTERNA. L’ORGANIZZAZIONE CONSORTILE  Carattere strutturale essenziale dei consorzi è la creazione di un’organizzazione comune, cui è demandato il compito di attuare il contratto assumendo e portando ad esecuzione le decisioni a tal fine necessarie. Nei consorzi è necessario determinare quali siano gli organi preposti all’attuazione del contratto, nonché le rispettive funzioni e le modalità di funzionamento. La disciplina legislativa è lacunosa avendo lasciato ampia libertà all’autonomia contrattuale dei consorziati, tuttavia la struttura organizzativa di ogni consorzio si fonda sulla presenza di un’assemblea, quale organo con funzioni deliberative composto da tutti i consorziati e di un organo direttivo, con funzioni gestorie ed esecutive. 1) ASSEMBLEA  l’art. 2606 prevede che le delibere relative all’attuazione dell’oggetto del consorzio sono prese col voto favorevole della maggioranza dei consorziati. Le delibere prese a maggioranza possono essere impugnate dai consorziati entro 30 giorni davanti all’autorità giudiziaria, se non prese in conformità della legge o del contratto. INVECE, l’art. 2607 richiede il consenso di tutti i consorziati per la modificazione del contratto.  Entrambe le regole hanno carattere dispositivo, in quanto le parti possono disporre diversamente nel contratto. Nulla è previsto circa le regole procedurali per l’adozione delle delibere. È ragionevole pensare che almeno le deliberazioni a maggioranza debbano essere effettuate rispettando le cadenze che regolano il funzionamento di ogni organo collegiale: convocazione, discussione, votazione, anche in assenza di previsioni contrattuali specifiche. 2) ORGANO DIRETTIVO  In base all’art. 2605, i consorziati devono consentire i controlli e le ispezioni da parte degli organi previsti dal contratto, al fine di accertare l'esatto adempimento delle obbligazioni assunte. L’articolazione dell’organo direttivo, attribuzioni ulteriori a quella di controllo, modalità di nomina, di revoca e di esercizio delle funzioni sono rimesse all’autonomia contrattuale. L’art. 2608 dispone che la responsabilità verso i consorziati di coloro che sono preposti al consorzio è regolata dalle norme sul mandato. 32 periodici in danaro (diversi dai conferimenti) per far fronte alle esigenze di funzionamento dell’impresa consortile, così come reso possibile dal secondo comma dell’art.2615 -ter. Si potrà escludere del tutto la ripartizione degli utili fra i soci. Si potranno inoltre stabilire particolari condizioni per l’ammissione di nuovi soci o specifiche cause di recesso o di esclusione. 35 CAPITOLO 10: IL GRUPPO EUROPEO DI INTERESSE ECONOMICO Il Gruppo europeo di interesse economico (Geie), è un nuovo istituto giuridico predisposto dall’Unione Europea per favorire la cooperazione fra imprese appartenenti a diversi stati membri, rimuovendo gli ostacoli derivanti dalle diverse legislazioni nazionali ( è un accordo tra imprenditori a livello sovranazionale). È uno strumento di cooperazione economica transnazionale. La disciplina del Geie è fissata dal regolamento comunitario n. 2137/1985, direttamente applicabile in tutti gli stati membri; ciascun legislatore ha poi provveduto ad emanare specifiche norme integrative per disciplinare i punti che il regolamento rinvia agli ordinamenti nazionali o per i quali consente la scelta fra diverse alternative . L’Italia ha provveduto con il d.lgs. 240/1991: dunque, i gruppi con sede legale in Italia sono disciplinati dalle norme del regolamento comunitario e dalle norme integrative della legge italiana. GEIE - CONSORZI  Struttura e funzione del Geie coincidono in larga parte con quelle dei consorzi con attività esterna. Parti del contratto costitutivo del gruppo possono essere solo persone fisiche o giuridiche che svolgono un’attività economica, ma, al contrario dei consorzi, non è necessario che siano imprenditori . È necessario che almeno due membri abbiano l’amministrazione e/o esercitino la loro attività economica in stati diversi della comunità. Al pari del consorzio con attività esterna, il Geie ha la capacità, a proprio nome, di essere titolare di diritti e di obbligazioni di qualsiasi natura, ed ha capacità processuale (: quindi, è un organismo associativo a rilievo esterno nonché centro autonomo di imputazione dei rapporti giuridici distinto dai suoi membri). FUNZIONE finalità del gruppo è quella di agevolare e di sviluppare l’attività economica dei suoi membri, e non di realizzare profitti per sé stesso; da questo punto di vista il Geie si differenzia dalle società ed assolve, in campo transnazionale, funzione identica a quella dei consorzi di coordinamento con attività esterna. LA DISCIPLINA COSTITUZIONE  Il contratto costitutivo del Geie deve essere redatto per iscritto, pena la nullità. Nel contratto devono essere indicati, almeno: 1. la denominazione del gruppo, preceduta o seguita dall’espressione “gruppo europeo di interesse economico” o dalla sigla “Geie”; 2. la sede, che deve essere situata nell’Unione Europea; 3. l’oggetto; 4. il nome dei membri; 5. la durata, che può essere anche a tempo indeterminato. Il contratto è soggetto a pubblicità legale, mediante iscrizione nel registro delle imprese (pubblicità costitutiva) e successiva pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (pubblicità dichiarativa), poi nella Gazzetta Ufficiale della comunità europea. Solo con l’iscrizione nel registro delle imprese il Geie acquista la capacità di essere titolare di diritti ed obbligazioni; per gli atti compiuti prima dell’iscrizione sono responsabili solidalmente ed illimitatamente coloro che li hanno compiuti, qualora il gruppo non assuma gli obblighi derivanti da tali atti. NULLITÀ  Le cause di nullità del contratto costitutivo del Geie sono quelle previste dai singoli ordinamenti nazionali. La nostra legge non dispone nulla, perciò si applicano le norme di diritto comune fissate dalla disciplina generale dei contratti associativi. Invece, la disciplina degli effetti della nullità è svincolata dai diritti nazionale ed uniforme: gli effetti della nullità sono fissati dal regolamento comunitario, coincidono con quelli previsti per le società di capitali e perciò si discostano dalla disciplina del diritto comune. Infatti, la dichiarazione di nullità del gruppo: non ha effetto retroattivo; non pregiudica la validità degli atti precedentemente compiuti; opera solo come causa di scioglimento ex lege del gruppo; la sentenza che dichiara la nullità provvede alla nomina dei liquidatori determinandone i poteri. La nullità del Geie è 36 sanabile ed il tribunale, se ritiene possibile la regolarizzazione della situazione del gruppo, deve concedere un termine che consenta di provvedervi. ORGANIZZAZIONE  L’organizzazione interna e le regole di funzionamento del Geie sono rimesse all’autonomia privata. Ma, sono espressamente previsti 2 organi: un organo collegiale composto da tutti i membri e un organo amministrativo. ASSEMBLEA: I membri del gruppo possono adottare collegialmente qualsiasi decisione per la realizzazione dell’oggetto del gruppo. Le decisioni più importanti, specificate dal regolamento Ue, devono essere prese all’unanimità. Ciascun membro dispone di un solo voto, ma il contratto può prevedere più voti per alcuni membri, a condizione che nessuno disponga da solo della maggioranza dei voti. Nulla è disposto in merito all’invalidità delle delibere assembleari, perciò si applica la disciplina dettata per i consorzi. AMMINISTRATORI: La gestione del Geie è affidata ad uno o più amministratori, nominati dal contratto costitutivo del gruppo o con decisione dei membri. Può essere nominato amministratore anche una persona giuridica, la quale svolge le sue funzioni tramite un rappresentante, persona fisica. I poteri degli amministratori sono fissati dal contratto. Solo ad essi spetta la rappresentanza del gruppo verso i terzi. Se sono più di uno, la rappresentanza spetta a ognuno di loro disgiuntamente, salvo che il contratto preveda l’amministrazione congiunta. Il Geie deve tenere le scritture contabili previste per gli imprenditori commerciali, indipendentemente dalla natura commerciale o meno dell’attività svolta. Gli amministratori redigono il bilancio, lo sottopongono all’approvazione dei membri e provvedono a depositarlo nel registro delle imprese entro 4 mesi dalla chiusura dell’esercizio. In applicazione del principio che il Geie non ha lo scopo di realizzare profitti per sé stesso, i profitti risultanti dall’attività del gruppo sono considerati direttamente profitti dei membri e ripartiti fra gli stessi secondo la proporzione prevista nel contratto o, nel silenzio, in parti uguali. Con lo stesso criterio i membri contribuiscono a coprire le perdite. RESPONSABILITÀ: Delle obbligazioni assunte dal Geie rispondono solidalmente ed illimitatamente tutti i membri del gruppo, anche con il proprio patrimonio e ciò ha costituito un ostacolo per la diffusione dell’istituto. Tuttavia, la responsabilità di membri è sussidiaria rispetto a quella del Geie, infatti, i creditori possono agire nei confronti dei membri soltanto dopo aver chiesto al gruppo di pagare e qualora il pagamento non sia stato effettuato entro un congruo termine : non è un beneficio di escussione ma un onere di preventiva richiesta . Ogni nuovo membro risponde anche delle obbligazioni precedenti al suo ingresso, salvo patto contrario opponibile ai terzi solo se pubblicato. I membri uscenti continuano a rispondere delle obbligazioni anteriori alla loro uscita e la responsabilità permane anche dopo lo scioglimento del Geie, per un periodo massimo di 5 anni. L’AMMISSIONE DI NUOVI MEMBRI deve essere decisa all’unanimità e l’unanimità è necessaria anche per l’efficacia della cessione della quota di partecipazione, sia ad un terzo sia ad altro membro. Le CAUSE DI RECESSO ED ESCLUSIONE devono essere fissate nel contratto; tuttavia, il recesso è sempre possibile per giusta causa o con l’accordo unanime degli altri membri. Inoltre, per gravi inadempienze, l’esclusione può essere pronunciata dal giudice su richiesta della maggioranza degli altri membri. Inoltre, sono esclusi di diritto: il componente che perda i requisiti soggettivi per la partecipazione al Geie; il membro insolvente che sia assoggettato a procedura concorsuale. Il componente uscente ha diritto alla liquidazione del valore della sua quota di partecipazione. Sono CAUSE OBBLIGATORIE DI SCIOGLIMENTO DEL GEIE: la scadenza del termine; il conseguimento o l’impossibilità di conseguire l’oggetto; il venir meno della pluralità dei membri o della diversa nazionalità; per sentenza del giudice per giusta causa. Il verificarsi di una causa di scioglimento apre la liquidazione del gruppo, che è regolato dalle disposizioni in tema di società di persone. Il Geie che esercita attività commerciale è esposto al fallimento in caso di insolvenza, ma il fallimento del gruppo non determina il fallimento dei singoli membri, benché responsabili illimitatamente. Tuttavia, i liquidatori potranno chiedere ai membri il versamento delle somme necessarie per estinguere i debiti secondo la proporzione prevista in contratto, o, se non previsto, in parti uguali. 37 CAPITOLO 12: LE RETI DI IMPRESE Le reti di imprese sono disciplinate dalla L. 33/ 2009. Esse rappresentano uno strumento giuridico di cooperazione fra imprese e si sostanziano nella sottoscrizione di un “contratto di rete”. Il contratto di rete è una nuova forma associativa tipica e rappresenta uno strumento privilegiato per le imprese poiché dà loro l’opportunità di realizzare obiettivi ambizioni attraverso la collaborazione in reti di imprese: dunque, con il contratto di rete più imprenditori si impegnano reciprocamente, in attuazione di un programma comune, detto programma di rete, a svolgere una o più attività tra : 1) collaborare in forme ed ambiti attinenti alle attività delle imprese; 2) scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica; 3) realizzare in comune determinate attività attinenti all’oggetto di ciascuna impresa.  Mentre per 1) e 2) si parla di reti “di coordinamento”, in cui l’incremento della competitività si realizza attraverso forme limitate di collaborazione tra i soggetti aderenti alla rete, nel 3) caso la rete può essere definita “associativa”, e costituisce lo schema organizzativo con maggiori potenzialità operative.  inoltre, tutto ciò avviene senza la rinuncia della propria autonomia giuridica da parte delle imprese. Si tratta di imprese medie piccole. Il contratto di rete presenta analogie con i consorzi (con funzione di coordinamento) quale strumento di cooperazione fra imprese, ragion per cui la disciplina del contratto di consorzio è in più punti richiamata da quella del contratto di rete. Lo scopo della rete, infatti, si identifica con la predisponine e l’attuazione di un programma di collaborazione fra gli imprenditori contraenti nell’obiettivo di accrescere, individualmente e collettivamente, la capacità innovativa e la competitività sul mercato delle imprese partecipanti, quale ragione d’essere della aggregazione, nelle forme e nelle modalità definite dalle imprese stesse all’interno del contratto. Le differenze si sostanziano sul fatto che nel consorzio la costituzione di una organizzazione comune è elemento necessario per la costituzione; inoltre, nel contratto di rete, data l’ampiezza legislativa, oggetto della collaborazione può essere in sostanza qualsiasi attività idonea al conseguimento degli obiettivi predeterminati nel programma. Poi, mentre lo scopo consortile è affine allo scopo mutualistico, il contratto di rete è inquadrabile come contratto con scopo lucrativo o di tipo mutualistico a seconda dell’attività perseguita con il programma, vale a dire a seconda che l’intento sia ripartirsi gli utili conseguiti dall’impresa di rete o conseguire tramite l’attuazione del programma di rete un vantaggio diretto per le proprie imprese in termini di minori costi o maggiori ricavi (ad es. il caso della costituzione di una nuova impresa in comune, joint venture, per operare congiuntamente su un mercato estero per dividere utili o il caso di imprese specializzate nel realizzare solo alcune fasi di un processo produttivo che si riuniscono per offrire un prodotto completo alla clientela, le c.d. reti verticali). Il contratto di rete si differenzia dalle altre forme di cooperazione in quanto è uno strumento giuridico utilizzabile per (quasi) tutte le forme di cooperazione fra imprese superando le rigidità dei precedenti contratti: è molto flessibile e richiede solo che avvenga sulla base di un programma enunciato e condiviso dai contraenti e monitorabile in fase di attuazione. Non richiede, come nel caso del contratto di consorzio, la creazione di una organizzazione e la realizzazione di una attività qualificabile come “disciplina o svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”, né richiede come nel GEIE che almeno 2 membri svolgano attività in stati diversi o che, come nelle associazioni temporanee, si configuri per una singola opera o affare complesso. IL CONTRATTO DI RETE  Può essere stipulato solo fra imprenditori (come per il consorzio). Deve essere redatto per atto pubblico, scrittura privata autenticata o atto munito di firma digitale, richiesti al fine della pubblicità e non della validità ; infatti, il contratto è soggetto ad iscrizione nella sezione del registro 40 delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante: si tratta di pubblicità con effetti costitutivi, perchè l’efficacia del contratto inizia a decorrere solo da quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni prescritte a carico dei contraenti originari. La legge determina il contenuto minimo del contratto che deve indicare gli obiettivi strategici di innovazione e di innalzamento della capacità competitiva perseguiti tramite la rete e le modalità per misurare l’avanzamento verso tali obiettivi. Inoltre, deve definire il programma di rete nel quale si stabiliscono le modalità di realizzazione dello scopo comune e si enunciano obiettivi ed obblighi dei partecipanti. Deve contenere la durata e se non prevista si intende a tempo indeterminato e in tal caso il recesso di ciascun contraente può avvenire dandone congruo preavviso, a differenza di quanto avviene in quello a tempo determinato nel quale il recesso anticipato è consentito solo per giusta causa o per altre condizioni stabilite nel contratto. Nulla si prevede sulla liquidazione della quota all’imprenditore che recede o viene escluso dalla rete, diritto che è da riconoscere in proporzione alla consistenza dell’eventuale fondo patrimoniale della rete. Può avere le caratteristiche di un contratto aperto: le modalità di adesione di nuovi imprenditori sono predeterminate dal contratto ed è lecito prevedere procedure di ammissione che non richiedono il preventivo consenso di altri contraenti. Se non si prevede nulla, però, l’ingresso di nuovi partecipanti deve avvenire con le medesime modalità previste per le altre modifiche: quindi di regola all’unanimità o a maggioranza. Le modifiche contrattuali sono soggette a pubblicità nel registro delle imprese. A differenza di quanto può avvenire nel consorzio, ove lo scioglimento, in presenza di giusta causa, ritiene sufficiente una decisione a maggioranza, nel contratto di rete lo scioglimento anticipato può avvenire con le medesime modalità richieste per le modifiche contrattuali. L’ORGANIZZAZIONE  Estremamente flessibile è la disciplina al riguardo. Per quanto riguarda le regole sull’assunzione delle decisioni dei partecipanti su ogni aspetto o materia di interesse comune esso rinvia al contratto di rete; questo non implica necessariamente la presenza di un’assemblea . La mancanza di previsioni implica soltanto che le decisioni dei partecipanti dovranno essere prese all’unanimità, sotto forma di accordi integrativi o modificativi del contratto di rete. Invece, qualora sia prevista la costituzione di una assemblea è ragionevole ritenere applicabili le regole della disciplina consortile corrispondenti, se non è stato pattuito diversamente. Anche la costituzione di un organo incaricato di gestire in nome e per conto dei partecipanti l’esecuzione del contratto o di singole fasi dello stesso è facoltativa. La legge rimette agli accordi contrattuali, anche sotto questo profilo, di decidere sulla presenza dell’organo e decidere anche sul contenuto dei suoi poteri di gestione e rappresentanza. Il soggetto incaricato di svolgere la funzione di organo comune per l’esecuzione del contratto viene nominato per la prima volta nel contratto di rete ed il contratto stesso deve disporre anche le regole relative alla sua eventuale sostituzione: in assenza di previsioni il soggetto viene incaricato a tempo indeterminato. Tuttavia, deve in ogni caso ammettersi la possibilità della sua revoca per giusta causa con decisione unanime degli altri contraenti. LE RETI CON ATTIVITÀ ESTERNA  Regole speciali sono previste per le reti destinate a svolgere attività con i terzi, che a tal fine sono provviste di un organo esecutivo e di un fondo patrimoniale comune. La rete deve avere una denominazione e una propria sede determinati dal contratto. La rete che svolge attività esterna può acquisire soggettività giuridica attraverso l’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese. Per ottenerla, la rete deve chiedere l’attuazione di tale formalità pubblicitaria, ulteriore rispetto a quella richiesta per la semplice efficacia del contratto (iscrizione nel registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante). La rete con autonoma soggettività giuridica opera tramite il proprio organo esecutivo che ne ha rappresentanza legale, assume in proprio nome diritti ed obblighi e può conseguire la qualifica di imprenditore. L’organo comune può assumere anche la rappresentanza degli imprenditori partecipanti alla rete vincolandoli quindi direttamente con i propri atti 41 come nelle associazioni temporanee. Quando la rete è priva di soggettività giuridica la legge presume che sussista tale potere di rappresentanza per alcune materie espressamente indicate se dal contratto non risulti diversamente. Il fondo patrimoniale è formato dai singoli contributi iniziali ed eventualmente successivi che ciascun partecipante si obbliga a versare. È un patrimonio distinto e autonomo dai patrimoni personali dei partecipanti; è aggredibile solo dai creditori della rete e non dai creditori personali degli imprenditori aderenti, né i partecipanti possono chiedere la divisione del fondo finché dura la rete. In merito alla responsabilità per le obbligazioni assunte dalla rete si applicano i principi analoghi a quelli dei consorzi con attività esterna. Per le obbligazioni assunte dall’organo in relazione al programma di rete i creditori possono avvalersi solo sul fondo comune della rete; se le obbligazioni sono assunte per conto di singoli imprenditori aderenti alla rete rispondono questi ultimi in solido con il fondo. In caso di insolvenza dell’imprenditore interessato il debito si ripartisce fra tutti gli altri imprenditori in proporzione alle loro quote. IN SOSTANZA, la rete di imprese con attività esterna costituisce una nuova forma associativa tipica, diversa sia dalle società sia dai consorzi e soggetta ad un’autonoma disciplina. Tuttavia. le reti possono essere costituite in forma di società (costituire una società con il fine di realizzare un programma di rete) e in tal caso seguiranno la disciplina del tipo societario prescelto e non potranno essere inserite clausole incompatibili con lo stesso, esattamente come avviene per le società consortili. LIBRO 2 (pag. 141-146; 249-273; 276-282; 438-446; 594-633) CAPITOLO 4: LE SOCIETÀ PER AZIONI L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA  La disciplina della s.p.a. ha subito numerosi interventi legislativi, sotto la spinta di una duplice esigenza: 1) dare risposta ai problemi che il codice del 1942 non aveva saputo risolvere; 2) dare attuazione alle direttive emanate dall’UE e finalizzate all’armonizzazione della disciplina nazionale delle società di capitali. Il movimento di riforma è formato da 3 tappe fondamentali: L. 216/1974, d.lgs. 58/1998 (organica disciplina delle società quotate), d.lgs. 6/2003. Tra tali interventi, consideriamo quelli più importanti:  IN PRIMO LUOGO, è stato posto un freno al proliferare di minisocietà per azioni con capitale del tutto irrisorio (capitale minimo per la costituzione delle s.p.a è stato fissato a 50.000 € nel 2014)  Si è dettata una specifica disciplina per le s.p.a. quotate in mercati regolamentati ispirata dalla diversa realtà di tali società.  Riforma del 1974: il legislatore prende atto che il dominio minoritario in tali in società è irreversibile e, per questo, introduce strumenti di eterotutela della massa inerte e disorganizzata degli azionisti risparmiatori; tra i tratti principali di tale intervento è importante ricordare: possibilità di emettere una particolare categoria di azioni prive del diritto di voto e privilegiate sotto il profilo patrimoniale, denominate azioni di risparmio; maggior trasparenza della proprietà azionaria e più ampia 42 CAPITOLO 6: LE PARTECIPAZIONI RILEVANTI PARTECIPAZIONI RILEVANTI: si intendono tutte quelle partecipazioni di azionisti in grado, in forza dell’effettiva consistenza del proprio pacchetto azionario di cui dispongono direttamente o indirettamente , di influenzare le scelte della società di cui fanno parte. Occorre individuare tali azionisti, in quanto la semplice iscrizione nel libro dei soci o la nominatività dei titoli non identificano il reale possessore delle azioni, ma il loro intestatario formale.  È per questo motivo, al fine di garantire una maggiore trasparenza, che a partire dalla L.216/1974 il nostro legislatore ha introdotto una disciplina volta a far chiarezza sui possessi azionari rilevanti in società quotate ed in società (anche non quotate) che operano in settori di particolare rilievo economico e sociale ( bancario, assicurativo ecc.). L’art.120 del Tuf, per le società con azioni quotate: impone obblighi in parte differenti a seconda che la società partecipata sia o meno una piccola o media impresa (PMI) in base ai criteri dimensionali fissati dalla legge e cioè: • Fatturato fino a euro 300 Milioni, come risultante dal bilancio approvato relativo all’ultimo esercizio. • Capitalizzazione media di mercato nell’ultimo anno solare inferiore a euro 500 Milioni.  La qualifica di PMI si perde quando si superano per 3 volte consecutive entrambi i limiti . Al riguardo, è previsto un sistema di soglie fisse di partecipazione: sono tenuti a dare comunicazione alla società partecipata ed alla Consob: a) tutti coloro (persone fisiche, società o enti) che partecipano, direttamente o indirettamente, in una società con azioni quotate in misura superiore al 5% se la partecipata è una PMI, al 2% in tutti gli altri casi; b) ulteriori comunicazioni sono dovute quando la partecipazione superi le percentuali fissate dalla Consob (5% e successivi multipli di 5 fino al 30% e poi 50 / 66,6 / 90 / 95%), nonché quando la partecipazione scende sotto tali percentuali. CALCOLO DELLE PERCENTUALI  Lo scopo delle comunicazioni è quello di rendere note le reali posizioni di potere in assemblea ed infatti si tiene conto, nel calcolo delle percentuali menzionate, solo del capitale rappresentato da quote o azioni che, direttamente o indirettamente, attribuiscono il diritto di voto : non si tiene conto, dunque, della azioni di risparmio; al contrario, si prendono in considerazione le azioni in riferimento alle quali il soggetto dichiarante, pur non essendone titolare, detiene il diritto di voto . Ulteriori obblighi di comunicazione sono previsti nelle società quotate: per le partecipazioni oggetto di un patto parasociale in grado di influire sul diritto di voto o sull’esercizio del controllo della società; per le partecipazioni potenziali, ossia quelle già emesse e che possono formare oggetto di acquisto, per esempio in base ad un patto d’opzione; per il possesso di strumenti finanziari partecipativi che attribuiscono il diritto di nominare un componente dell’organo di amministrazione o controllo. È la Consob a stabilire termini, modalità e contenuto per l’inoltro delle comunicazioni e per l’informazione del pubblico. SANZIONI PER VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI CONTENUTO: si va incontro a sanzioni pecuniarie; inoltre, vi è la sospensione del di voto inerente alle azioni o agli strumenti finanziari diversi dalle azioni per i quali sia stata omessa la comunicazione. La società può consentire ugualmente al socio di votare, ma qualora il suo voto risulti determinante per raggiungere la maggioranza, la deliberazione diventa impugnabile oltre che dai soggetti di cui all’art.2377, anche da parte della Consob, nel termine di 180 giorni dalla stessa (: dalla data della deliberazione) o dall’iscrizione nel registro delle imprese; ciò, in forza del fatto che in casi del genere entra in gioco l’interesse pubblico e generale alla trasparenza dei possessi azionari rilevanti. È esonerato dall’obbligo di comunicazione il Ministero dell’economia per le partecipazioni detenute tramite società controllate, in quanto i relativi obblighi gravano sulle stesse; allo stesso modo l’obbligo non sussiste per specifiche operazioni in cui acquisto e cessione di partecipazioni rilevanti hanno solo fini speculativi, finanziari o per il corretto funzionamento dei mercati regolamentati. Norme integrative sono state introdotte per garantire la trasparenza delle partecipazioni rilevanti in s.p.a. NON quotate che operano in settori di particolare interesse generale e la cui attività è sottoposta al controllo pubblico . Così, una disciplina simile a quella inerente all’obbligo di comunicazione dettata per le società quotate è prevista per le partecipazioni rilevanti nella misura determinata dalla relativa normativa speciale, da chiunque 45 possedute in: 1) società bancarie e intermediari finanziari, 2) quelle d’intermediazione mobiliare (SIM), le società di gestione del risparmio (SGR) e quelle di investimento a capitale variabile e fisso (SICAV), 3) nonché le società di assicurazione.  In questi casi la comunicazione, oltre che alla società partecipata, va inoltrata anche alla Banca d’Italia (nn.1 e 2), alla Consob (n.2) e all’Ivass (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni– n.3), tutti organi che possono impugnare le deliberazioni assembleari adottate col voto determinante di chi ha omesso di effettuare una comunicazione dovuta. INFINE, per TUTTE le altre s.p.a. NON quotate è previsto l’obbligo di rendere pubblico annualmente, entro 30 giorni dall’approvazione del bilancio e mediante iscrizione nel registro delle imprese, l’elenco di tutti i soci con il relativo numero di azioni possedute, e di soggetti diversi dai soci titolari di diritti o beneficiari di vincoli sulle azioni, e le annotazioni effettuate nel libro dei soci a partire dall’approvazione del bilancio precedente. L’ACQUISTO DI PARTECIPAZIONI RILEVANTI IN SOCIETÀ QUOTATE  Per l’acquisto di partecipazioni di controllo in società con azioni quotate vanno rispettate determinate regole fissate a partire dalla L.149/1992 ed oggi contenute negli articoli dal 101-bis al 112 del TUF. PRECEDENTE DISCIPLINA  Prima del 1992, c’era una minor trasparenza per operazioni di questo tipo:  Chi intendeva acquistare partecipazioni di controllo poteva accordarsi con l’attuale gruppo di comando: queste operazioni avvenivano senza transitare attraverso la borsa , ma semplicemente scambiando il pacchetto ad un prezzo maggiore di quello risultate dalle quotazioni, con il risultato che la massa degli azionisti investitori non beneficiava dei corrispondenti guadagni differenziali (Premio di maggioranza). Diverse erano invece le tecniche seguite quando il gruppo di comando non era disposto a cedere la sua partecipazione ma non disponeva della maggioranza delle azioni. Distinguiamo:  Scalata ostile: chi intendeva sostituirlo procedeva a massicci acquisti di azioni di borsa, diluiti nel tempo e coperti dall’anonimato fino a raggiungere la maggioranza cercata. Ne conseguivano anomale spinte al rialzo delle quotazioni con il possibile innescarsi di manovre speculative.  Offerta pubblica di acquisto delle azioni (OPA): chi intendeva conquistare una società quotata (società bersaglio), poteva uscire subito allo scoperto e lanciare un’OPA rivolta a tutti gli azionisti di tale società  tale tecnica permetteva a tutti gli azionisti investitori di ottenere un guadagno e garantiva la trasparenza delle operazioni. Tuttavia, essa che poteva dar luogo ad una vera e propria battaglia tra offerente ed attuale gruppo di comando: infatti, quest’ultimo spesso reagiva al tentativo di deposizione sviluppando delle strategie difensive (es. acquisto di azioni proprie sul mercato; lancio di un’opa concorrente ecc.); tale battaglia il più delle volte era condotta “senza esclusione di colpi”, mancando una disciplina a riguardo. ATTUALE DISCIPLINA  La situazione è cambiata del tutto con l’emanazione della L.149/1992, la quale da un lato ha voluto attuare una tutela della minoranza, garantendo la massima trasparenza nel passaggio di proprietà di partecipazioni di controllo in società quotate e permettendo a tutti gli azionisti di partecipare al premio di maggioranza che l’operazione può comportare. Per realizzare tali obiettivi la Legge 149 ha introdotto due principi cardine: 1) l’unica procedura che consente di tutelare gli azionisti di minoranza in caso di cambiamento del gruppo di comando è quella dell’offerta pubblica di acquisto ( OPA ), poiché consente loro di disinvestire beneficiando del premio di controllo ; inoltre, essa è resa obbligatoria, quando è trasferita la partecipazione di controllo di una società quotata; 2) l’opa, che sia obbligatoria o volontaria, deve comunque svolgersi nel rispetto di determinate regole di comportamento inderogabili fissate dalla legge, a tutela tanto del regolare funzionamento del mercato di borsa quanto dei destinatari dell’offerta . Tuttavia, la tutela degli azionisti di minoranza deve essere contemperata con l’esigenza di evitare che il maggior onere finanziario per l’acquirente, che l’opa comporta, ostacoli eccessivamente il ricambio del gruppo di controllo delle società quotata; infatti, per il buon funzionamento del mercato dei capitali è 46 necessario assicurare la “contendibilità del controllo”, ossia la possibilità di chi, sentendosi capace di incrementare il valore di una società in maggior misura rispetto all’attuale gruppo di comando, intenda prendere il controllo della società stessa, senza incontrare ostacoli insormontabili imposti dalla legge.  la ricerca dell’equilibrio tra tutela della minoranza e mantenimento della contendibilità del controllo societario ha fatto sì che la disciplina dell’OPA sia stata “instabile” e caratterizzata da numerose modifiche. DEFINIZIONE OPA (Offerta Pubblica di Acquisto)  L'OPA è un'offerta con la quale un soggetto (persona fisica o giuridica) dichiara formalmente agli azionisti (: i destinatari dell’OPA sono tutti coloro che posseggono gli strumenti finanziari oggetto dell'OPA stessa, senza alcuna differenziazione) di una società quotata la propria disponibilità ad acquistare i titoli della società medesima a un prezzo superiore a quello di borsa, con il fine di acquisire o rafforzare il proprio controllo sulla società in questione (definita società bersaglio). Si tratta, in altri termini, di un’esortazione, destinata agli azionisti di un’azienda, a disinvestire, a vendere, a farsi liquidare. OPA OBBLIGATORIA PER LEGGE: inizialmente erano 5 (tre preventivi e due successivi); dopo il 1998 diventarono solo 2 (opa successiva e opa residuale), per poi rimanerne 1 solo dopo l’attuazione della XIII direttiva CE, ossia quello dell’OPA successiva totalitaria di cui all’art.106 Tuf. L’opa successiva totalitaria consente agli azionisti di minoranza con titoli quotati di uscire dalla società a seguito del mutamento dell’azionista di controllo (per titoli si intendono solo quegli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto nell’assemblea ordinaria o straordinaria, anche limitatamente a specifici argomenti). È tenuto a proporre tale OPA chiunque venga a detenere (direttamente o indirettamente) una partecipazione superiore al 30% dei titoli che attribuiscono il diritto di voto nelle delibere assembleari riguardanti nomina o revoca di amministratori o consiglio di sorveglianza e che, quindi, consentono di avere un’influenza sulla gestione. Gli statuti delle PMI possono prevedere una soglia diversa, compresa fra il 25 ed il 40%. Per le società diverse dalle PMI la soglia del 30%, invece, è immodificabile. L’offerta va fatta entro 20 giorni dal superamento della soglia del 30% e deve avere ad oggetto l’acquisto della totalità dei titoli quotati ancora in circolazione, compresi quelli che attribuiscono il voto su materie diverse da quelle rilevanti per determinare l’obbligo di OPA e quelli appartenenti a categorie rispetto alle quali non è stato effettuato alcun acquisto; però non le azioni senza voto, come le azioni di risparmio, perchè tali azioni non sono “titoli”. La legge fissa il PREZZO MINIMO che deve essere offerto: è il prezzo più elevato pagato dall’offerente nei 12 mesi anteriori l’offerta pubblica, per l’acquisto di titoli della medesima categoria. Invece, per le categorie di titoli rispetto alle quali l’offerente non ha effettuato acquisti a titolo oneroso nel periodo di riferimento, o nel caso di superamento della soglia per effetto di una maggiorazione di voto, l’offerta è promossa ad un prezzo non inferiore a quello medio ponderato di mercato degli ultimi 12 mesi o del minor periodo disponibile. La Consob ha il potere di disporre che l’offerta sia promossa ad un prezzo inferiore o superiore qualora ricorrano particolari circostanze indicate per legge. OFFERTE PUBBLICHE DI SCAMBIO  Il corrispettivo dell’opa può essere costituito, in tutto o in parte, anche da titoli (offerte pubbliche di scambio o miste). Se l’acquisto di azioni non supera la soglia rilevante (30% dei titoli) non è obbligatoria alcuna offerta pubblica di acquisto per i titoli rimanenti e la partecipazione può essere acquistata liberamente tanto sul mercato quanto a trattativa privata. Tuttavia, l’obbligo sussiste anche nel caso in cui la soglia del 30% sia superata sommando gli acquisti e le maggiorazioni di voto di soggetti che agiscono in concerto tra loro, per tali intendendosi quelli che cooperano sulla base di un accordo al fine di ottenere o mantenere il controllo della società emittente. In ogni caso, sono persone che agiscono in concerto gli acquirenti legati da rapporti individuati dalla legge, come nel caso di un “patto parasociale” (sindacati di voto, di blocco), o di un soggetto, il suo controllante e 47 dell’offerente, e l’offerta può essere aumentata o modificata durante la pendenza dell’operazione, estendendosi l’aumento anche a coloro che hanno già aderito, sebbene non possa mai essere ridotto il quantitativo richiesto. La durata dell’offerta viene concordata con la società di gestione del mercato, tra un minimo di 15 giorni ed un massimo di 25 giorni di mercato aperto (dall’apertura del mercato), per l’opa obbligatoria; tra 15 e 40 giorni per le altre offerte. L’offerta si svolge sotto il controllo costante della Consob alla quale sono riconosciuti ampi poteri regolamentari in merito allo svolgimento della stessa; la Consob può, inoltre, dichiarare decadute o sospese le offerte in caso di violazione della legge o qualora non sia possibile, in presenza di fatti nuovi, pervenire ad un fondato giudizio sull’offerta da parte dei destinatari. PROCEDIMENTO DELL’OFFERTA PUBBLICA L’offerta pubblica si articola in 3 fasi: 1) FASE PREPARATORIA  I soggetti che intendono lanciare un’offerta pubblica devono dare comunicazione delle proprie intenzioni tanto alla Consob quanto al mercato e alla società bersaglio, rispettando modalità e contenuti fissati dalla Consob stessa (indicando, in sostanza, gli elementi essenziali dell’offerta). L’opa è promossa mediante la presentazione alla Consob del documento di offerta destinato alla pubblicazione. In caso di offerte pubbliche volontarie, il documento va presentato entro 20 giorni dalla comunicazione, altrimenti è dichiarato irricevibile e l’offerente non può più fare offerte volontarie aventi ad oggetto prodotti finanziari del medesimo emittente per i 12 mesi successivi. Tale documento deve contenere le informazioni necessarie a consentire ai destinatari di pervenire ad un fondato giudizio sull’offerta. La Consob p uò richiedere , entro 15 giorni, l’integrazione del documento o la prestazione di garanzie; decorso il termine il documento si ritiene tacitamente approvato e può essere reso pubblico secondo le modalità stabilite dalla Consob. Anche la società bersaglio è obbligata a diffondere un comunicato contenente ogni dato utile per l’apprezzamento dell’offerta ed una valutazione motivata da parte degli amministratori sull’offerta stessa; il comunicato va trasmesso anche alla Consob e può essere allegato al documento di offerta (come avviene in caso di “opa amichevole”). 2) ADESIONI ALL’OFFERTA  La seconda fase riguarda le adesioni all’offerta, le quali sono irrevocabili e vengono raccolte direttamente dall’offerente, o da intermediari indicato nel documento di offerta o dai depositari dei titoli, in ogni caso tramite la sottoscrizione di un’apposita scheda. Per quanto riguarda le regole di comportamento dell’offerente oggi è semplicemente previsto il principio della “correttezza e la trasparenza delle operazioni sui prodotti finanziari oggetto dell’offerta”, mentre è demandato alla Consob il compito di emanare le relative norme di attuazione.  In particolare, tra le poche regole fissate dalla Consob, è da menzionare l’obbligo dell’offerente di adeguare l’offerta al prezzo più elevato pagato, qualora acquisti, durante la pendenza dell’offerta o nei 6 mesi successivi, altri titoli a prezzo superiore rispetto a quello contemplato nel documento di offerta. Per quanto riguarda la società bersaglio ed il suo gruppo di comando, invece, è mutata nel tempo la disciplina inerente alle “tecniche di difesa” nei confronti di “ un’opa ostile ”: si tratta di aumenti del capitale sociale a pagamento o gratuiti, trasformazione della società, fusione, scissione, acquisto di azioni proprie, vendita di rami d’azienda o dell’intera azienda ecc., tutte azioni volte ad ostacolare l’iniziativa dell’offerente.  Consentire o meno tali tecniche di difesa dopo il lancio dell’opa è questione delicata, soggetta a molti ripensamenti nel tempo ( sino al 2010 le società potevano porre in essere tali azioni di contrasto, a meno che lo statuto non prevedesse diversamente contemplando la clausola di opt-in, di ingresso nella società). ATTUALMENTE, è prevista la c.d. PASSIVITY RULE: l’attuazione di misure difensive può avvenire solo previa autorizzazione dell’assemblea, a meno che lo statuto non preveda già la clausola opt-out, ossia di contrasto nei confronti di un’opa ostile. In base alla regola di passività, gli amministratori della società bersaglio con azioni quotate non possono attuare 50 misure difensive (: devono astenersi “dal compiere atti o operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta”) dal momento della comunicazione dell’offerta alla Consob; tale divieto può essere rimosso con delibera dell’assemblea, appositamente convocata in pendenza dell’opa, mediante un’autorizzazione concessa dall’assemblea ordinaria o straordinaria con le normali maggioranze. Resta ferma la responsabilità degli amministratori (nel sistema dualistico, dei componenti del consiglio di gestione e sorveglianza) e dei direttori generali per gli atti e le operazioni compiuti in violazione della passivity rule (ma l’operazione/gli atti non è/sono nulla/nulli). Una differenza rilevante è quella tra le tecniche difensive successive e quelle preventive rispetto all’offerta: 1) tra le tecniche difensive successive spicca l’OPA concorrente (possibile senza autorizzazione assembleare), lanciata da eventuali alleati della società bersaglio; essa può dar luogo legittimamente al rialzo da parte dell’offerente, creando così una vera e propria lotta di offerte, a cui non può essere posto alcun limite nel numero. 2) Per quanto concerne le tecniche di difesa preventive, sappiamo che gli azionisti che intendono aderire ad un’opa totalitaria (obbligatoria o volontaria) o parziale avente ad oggetto almeno il 60% delle azioni ordinarie oggi possono liberamente recedere, senza preavviso, da sindacati di voto e/o di blocco stipulati; cadono inoltre i limiti agli “incroci azionari fra società quotate”, essendo pertanto impossibile adoperare come tecnica di difesa preventiva l’acquisto di una partecipazione rilevante nella società offerente che intende dar luogo all’opa ostile . SOLO SE lo statuto lo prevede, opera la “REGOLA DI NEUTRALIZZAZIONE” delle misure di difesa preventive, di cui all’art.104-bis del TUF. Tale regola comporta che: o durante l’opa non hanno effetto nei confronti dell’offerente eventuali limitazioni statutarie al trasferimento dei titoli (es. clausole di prelazione o gradimento) e nelle assemblee chiamate a decidere sull’autorizzazione di atti di contrasto all’opa non operano limitazioni al diritto di voto contemplate nello statuto o da patti parasociali né le maggiorazioni statutarie del diritto di voto (inoltre, la regola di neutralizzazione non si applica mai alle cooperative); o dopo l’opa la regola di neutralizzazione paralizza l’efficacia di alcune clausole statutarie o patti parasociali volti ad impedire che l’offerente vittorioso consegua l’effettivo dominio sulla società bersaglio. PIÙ PRECISAMENTE  Nella prima assemblea successiva all’OPA convocata per modificare lo statuto o revocare o nominare gli amministratori non operano le limitazioni al diritto di voto previste nello statuto o da patti parasociali, e nemmeno le maggiorazioni statutarie del diritto di voto, né eventuali diritti speciali previsti dallo statuto in materia di nomina o revoca di amministratori (o dei componenti degli altri organi del sistema dualistico). Questi effetti di “neutralizzazione” successiva, però, operano solo se, a seguito dell’OPA, l’offerente detiene almeno il 75% del capitale con diritto di voto sulla nomina o revoca di amministratori o componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza ( in tal modo il nuovo gruppo può nominare amministratori di propria fiducia ed eliminare le clausole dello statuto che sono sgradite). Nessuna tutela per l’offerente vittorioso è prevista al di sotto della soglia del 75%. Inoltre, la neutralizzazione dei limiti al diritto di voto non opera per le azioni dotate di privilegi di natura patrimoniale, come le azioni di risparmio. La passivity rule e la regola di neutralizzazione, inoltre, sono soggette alla clausola di reciprocità, ossia non operano quando l’opa è promossa da chi non è a sua volta soggetto a tali disposizioni; in tale ipotesi, tuttavia, qualsiasi misura difensiva deve essere autorizzata dell’assemblea (in previsione di un’eventuale opa lanciata in condizioni di non reciprocità) nei 18 mesi anteriori alla comunicazione dell’offerta: perciò, la società che intende avvalersi della clausola di reciprocità deve rinnovare periodicamente la delibera assembleare che autorizza specifiche misure di difesa.. 3) CHIUSURA DELL’OFFERTA  La terza fase dell’offerta pubblica è quella di chiusura: l’offerente, all’interno del documento di offerta, deve precisare il quantitativo minimo di adesioni da raggiungere 51 affinché l’offerta divenga irrevocabile, salvo il caso dell’opa totalitaria obbligatoria. Se si ha un numero di adesioni all’offerta superiore al quantitativo richiesto, è sempre il documento di offerta a dover prevedere i criteri di riparto. L’offerente, prima del pagamento, pubblica un documento inerente ai risultati dell’offerta e contenente anche le indicazioni necessarie sulla conclusione dell’offerta e sull’esercizio delle facoltà previste nel documento d’offerta. LIMITI ALL’ASSUNZIONE DI PARTECIPAZIONI RILEVANTI  L’acquisto di partecipazioni rilevanti in società per azioni o da parte di società per azioni è in via di principio del tutto libero. Tuttavia, incontriamo due tipi di limitazioni: quelle inerenti all’assunzione di partecipazioni di controllo o rilevanti, da chiunque detenute, “in società che operano in particolari settori” e quelle riguardanti l’assunzione di partecipazioni “da parte di società di capitali”, così come previsti dalla disciplina dell’art.2361. Per quanto riguarda le limitazioni del primo tipo, esse riguardano per lo più società bancarie e assicurative. L’acquisizione di titoli o quote di banche da chiunque effettuato deve essere autorizzata dalla Banca d’Italia nel caso di partecipazione superiore al 10% del capitale con diritto di voto o, comunque, nel caso di influenza notevole o controllo della banca stessa. Anche i successivi incrementi di partecipazione devono essere autorizzati. È venuto meno nel 2009, tuttavia, il c.d. principio di separatezza fra banca ed industrie che impediva a chi svolgeva attività d’impresa in settori diversi da quello bancario e finanziario di possedere partecipazioni di controllo in banche. La violazione delle disposizioni inerenti all’autorizzazione della Banca d’Italia comporta sanzioni penali, sospensione del diritto di voto relativamente alle azioni per cui manca l’autorizzazione, la possibilità di impugnare, anche da parte della Banca d’Italia entro il termine di 180 giorni, le decisioni assembleari in cui la partecipazione non autorizzata è risultata determinante per il raggiungimento della maggioranza e, infine, l’alienazione delle quote entro un certo termine, la cui mancata osservanza provoca la vendita tramite l’intervento del tribunale. Disciplina similare è prevista per le società di assicurazione con potere di autorizzazione dato all’IVASS. In tema di poteri speciali dello stato, secondo la il d.l. 21/2012, chiunque acquisisce una partecipazione in imprese che svolgono attività di rilevanza strategica per la difesa e la sicurezza nazionale deve notificarlo alla presidenza del consiglio che, entro 15 gg può opporsi all’acquisto. Analogo potere è attribuito al governo quando un soggetto extracomunitario acquisisca una partecipazione di controllo nel settore dell’energia, dei trasporti o delle comunicazioni. Se viene fatta opposizione, l’acquirente può esercitare solo i diritti patrimoniali. Fra i limiti all’assunzione di partecipazioni rilevanti rientrano anche le clausole statutarie, le quali fissano limiti massimi ai possessi azionari dei singoli soci, per evitare che si formi un numero ristretto di azionisti di controllo. Mentre, in genere, è la prassi societaria a contemplarla, tale possibilità è espressamente prevista dal legislatore per le società controllate dallo Stato, operanti nei settori dei servizi di pubblica utilità, bancario e assicurativo, destinate alla privatizzazione mediante diffusione dell’intero pacchetto azionario fra il pubblico degli investitori (public company). Il superamento del limite massimo statutario, fissato nel 5% del capitale per le società operanti nei settori dei pubblici servizi, difesa e sicurezza nazionale, comporta il divieto di esercitare il diritto di voto e i diritti non patrimoniali per la partecipazione eccedente il limite. La clausola statutaria è immodificabile per un periodo di tre anni, ma viene meno in caso di opa (offerta di pubblico acquisto) totalitaria o avente ad oggetto almeno il 75% delle azioni ordinarie. LE PARTECIPAZIONI MODIFICATIVE DELL’OGGETTO SOCIALE. LE PARTECIPAZIONI A RESPONSABILITÀ LIMITATA  La seconda tipologia di limitazioni riguarda, invece, l’assunzione di partecipazioni da parte di società di capitali: l’art.2361 prevede che l’assunzione di queste partecipazioni in altre società, benché possa essere consentita dallo statuto, è comunque vietata se per la misura e per l'oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l'oggetto sociale determinato dallo statuto. Ciò significa che se dalle partecipazioni acquisite scaturisce una modifica dell’oggetto sociale da parte degli amministratori, l’assunzione risulta invalida, in quanto la modifica non segue ad una deliberazione 52 CAPITOLO 12: I CONTROLLI ESTERNI LA CONSOB STRUTTURA  La Consob (Commissione nazionale per le società e la borsa) è un organo pubblico di vigilanza, un’autorità amministrativa indipendente istituita con la L.216/1974 che si configura come una persona giuridica di diritto pubblico, con potere di controllo e regolamentare-normativo esercitabile nei limiti e nelle materie stabiliti dalla legge. Ha sede a Roma e Milano. FUNZIONAMENTO  Le deliberazioni sono prese collegialmente, salvo casi eccezionali e l’organo ha un proprio presidente, che sovrintende all’attività istruttoria e cura l’esecuzione delle delibere . La Commissione è chiamata a collaborare con le altre autorità di vigilanza interne (Banca d’Italia, Isvap ecc.), tra cui non è opponibile il segreto d’ufficio, e con quelle esterne dell’UE e dei singoli Stati. Nata come organo di vigilanza della borsa e delle società quotate, la Consob ha visto i propri poteri ampliarsi col passare del tempo, sino ad estendere il proprio controllo sugli intermediari immobiliari (Sim, Sicav ecc.) e sui mercati regolamentati di strumenti finanziari, vigilando sugli emittenti di strumenti diffusi tra il pubblico, al fine di garantire la tutela degli investitori e la trasparenza del mercato e delle società. AMMISSIONE DELLE AZIONI ALLE QUOTAZIONI DI BORSA La disciplina in materia di ammissione, sospensione e revoca delle azioni alle quotazioni di borsa è mutata a partire dal 1997, anno in cui la borsa valore è stata privatizzata, con il conseguente passaggio di competenza dalla Consob alle società di gestione del mercato regolamentato (il principale di essi si chiama MTA, gestito da Borsa Italiana S.p.A.), sempre sotto la vigilanza della Commissione. È alla società di gestione del mercato regolamentato che compete, dunque, stabilire le condizioni e le modalità di ammissione, sospensione e revoca delle azioni e degli strumenti finanziari dalle negoziazioni, stabilite all’interno di un apposito regolamento. La Consob, tuttavia, deve verificare che il regolamento in questione sia idoneo ad assicurare la “trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori”, provvedendo ad autorizzare l’esercizio dei mercati regolamentati. L’ammissione di azioni e strumenti finanziari alla negoziazione, diversamente dal passato, avviene oggi solo su richiesta della società, previa deliberazione dell’assemblea, mentre non è più prevista l’ammissione d’ufficio ad opera della Consob o l’ammissione di diritto (come avveniva per le azioni di risparmio). Entro due mesi dalla richiesta, la società di gestione del mercato delibera a favore dell’ammissione o meno, pubblicando la propria decisione e comunicandola, oltre che all’emittente, alla Consob, la quale ha il potere di vietarne l’esecuzione, entro 5 giorni dalla comunicazione. L’inizio delle negoziazioni, però, non è immediato, in quanto deve essere preceduto, salvo esenzione prevista dalla Consob, dalla pubblicazione di un prospetto di quotazione, nel quale vengono esposti i rischi dell’investimento e i diritti a esso connessi, tutte informazioni necessarie per gli investitori. Con la prima ammissione delle azioni alla quotazione la società viene assoggettata al controllo della Consob e a tutte le norme dettate per le società quotate. È la stessa società di gestione del mercato a disporre la sospensione delle azioni dalla quotazione (nel caso in cui non sia temporaneamente garantita la regolarità del mercato o se lo richiede la tutela degli investitori) o l’esclusione dalla quotazione (nell’ipotesi di prolungata carenza delle negoziazioni o quando non sia possibile mantenere un mercato normale e regolare). Anche in questi casi la Consob, entro 5 giorni dal provvedimento, può vietarne l’esecuzione. La sospensione può durare al massimo 18 mesi, al termine dei quali la società di gestione del mercato decidere se farla venire meno o deliberare l’esclusione, qualora i motivi della sospensione non siano venuti meno. L’esclusione, che determina la fine del controllo della Consob e dell’assoggettamento alle norme inerenti le società quotate, può anche essere richiesta dalla società stessa, previa delibera dell’assemblea straordinaria, se si ottiene l’ammissione in un diverso mercato regolamentato italiano o straniero in cui sia garantita una tutela equivalente degli investitori oppure semplicemente perché la quotazione in borsa non rientra più nei piani della società, ma in tal caso i soci che non hanno concorso alla deliberazione hanno diritto di recesso. 55 CONSOB E INFORMAZIONE SOCIETARIA  La Consob svolge un ruolo importantissimo di controllo al fine di assicurare un’adeguata e veritiera informazione del mercato mobiliare sugli eventi che riguardano le società che fanno appello al pubblico risparmio, in moda da consentire delle scelte più consapevoli agli stessi investitori. Negli anni, non solo sono stati accresciuti i poteri della Consob, ma sono aumentati anche gli obblighi di informazione nei confronti del pubblico da parte dei soggetti emittenti. Gli artt.114-188 TUF prevedono che siano assoggettati agli obblighi informativi tutti gli emittenti di strumenti finanziari quotati (quindi anche diversi dalle azioni), gli emittenti strumenti finanziari non quotati ma diffusi tra il pubblico in misura rilevante (stabilita dalla Consob) e gli emittenti strumenti finanziari “negoziati” in un sistema multilaterale di negoziazione avente caratteristiche fissate dalla Consob: quindi trasparenza e controllo della Consob circa gli obblighi informativi riguardano tutte le società in questione. PRINCIPI CARDINE: 1) i soggetti menzionati sono tenuti a comunicare al pubblico, senza indugio, le informazioni privilegiate , ossia informazioni precise e non ancora rese la cui conoscenza può influenzare il prezzo degli strumenti finanziari; la comunicazione può essere ritardata nei soli casi previsti dalla Consob (quando ad esempio la diffusione di un’informazione può far saltare una trattativa) e sempre che ciò non induca il pubblico in errore. 2) Anche la Consob stessa ha il potere di richiedere che siano resi pubblici notizie e documenti necessari per un’informazione più completa, tanto agli emittenti quanto agli organi di amministrazione e controllo, così come ai titolari di partecipazioni rilevanti: in caso di inottemperanza alla richiesta della Commissione vi sono sanzioni amministrative pecuniarie e la Consob provvede direttamente a informare il pubblico, a spese degli interessati. Inoltre, la Consob ha prescritto obblighi di informazione preventiva nei confronti del pubblico nel caso in cui l’emittente intenda porre in essere operazioni straordinarie (es. acquisizione e cessione di pacchetti azionari, acquisto di azioni proprie, fusioni e scissioni, emissione di obbligazioni ecc.), con la contemporanea trasmissione dei documenti inerenti tali operazioni alla stessa Commissione, al fine di verificarne la veridicità (informazione straordinaria). INOLTRE, i documenti contabili degli emittenti sono soggetti, in forza delle previsioni della Commissione, ad informazione periodica, accompagnati da una dichiarazione scritta del dirigente preposto alla redazione di tali documenti in cui si attesti la corrispondenza alle scritture contabili. Le società quotate, inoltre, per ogni esercizio devono redigere la relazione sul governo societario e gli aspetti proprietari, nella quale vengono indicate informazioni rilevanti per comprendere e valutare quanto sia contendibile il controllo della società in caso di una scalata ostile (ossia quanto sia facile o difficile prendere il controllo della società), oltre ad essere contemplate tutte le caratteristiche organizzative della società, tra cui spicca l’attestazione di adesione a un codice di comportamento in materia di governo societario promosso da società di gestione del mercato o da associazioni di categoria, oppure le ragioni della mancata adesione. Tutte le informazioni per cui è prevista la pubblicazione vengono definite informazioni regolamentate e devono essere depositate presso la Consob e presso la società di gestione del mercato, oltre ad essere pubblicate su quotidiani nazionali. L’inottemperanza di tali obblighi comporta la possibilità per la Consob di rendere nota la violazione, oltre all’eventuale sospensione dalla quotazione per un periodo massimo di 10 giorni, disposta in via cautelare in caso di sospetto di violazione, e alla proibizione di negoziazione con revoca definitiva dalla quotazione se la violazione viene accertata. La Consob, infine, ha anche ampi poteri di indagine e intervento al fine di verificare la veridicità delle informazioni fornite (controllo dell’informazione), chiedendo a emittenti quotati, a soggetti che li controllano e a società controllate notizie e documenti a riguardo. Può provvedere anche ad audizioni personali e ad ispezioni. La Consob può anche richiedere notizie, documenti e dati e procedere all’audizione personale di chiunque possa avere informazioni inerenti all’abuso di informazioni privilegiate (insider trading) e la manipolazione del mercato. 56 CAPITOLO 19: LE SOCIETÀ COOPERATIVE A) LE SOCIETÀ COOPERATIVE (ARTT.2511 – 2545) Le società cooperative sono particolari società a capitale variabile, che perseguono uno scopo mutualistico, anziché lucrativo, il cui perseguimento è favorito addirittura dall’art.45 Cost, il quale prevede che “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, carattere e finalità”. La disciplina generale delle società cooperative dettata dal c.c. era integrata anche dalla legge Basevi del 1947, più volte modificata, dalla l.59/1992, e da numerose leggi speciali, volte ad agevolare la nascita di particolari fenomeni cooperativi. Tutto ciò ha reso il sistema normativo non solo complesso, ma anche disordinato, fino a che non è intervenuta la riforma del 2003, che ha lasciato inalterata la complessa legislazione speciale, incidendo però positivamente sulla disciplina generale e delineando una bipartizione delle società cooperative: società cooperative a mutualità prevalente da un lato e le altre società cooperative dall’altro. LE SOCIETÀ CON SCOPO MUTUALISTICO  L’art.2511 precisa che “Le cooperative sono società…con scopo mutualistico” e l’art.2515 comma 2 dispone che “l’indicazione di cooperativa non può essere usata da società che non hanno scopo mutualistico”. Possiamo capire con facilità che il tratto distintivo delle cooperative è sicuramente lo SCOPO MUTUALISTICO e non tanto la diversa struttura organizzativa. È lo scopo economico perseguito a fare la differenza. N.B.: non lo scopo-mezzo, che appare identico alle società lucrative, consistendo nell’esercizio in comune di un’attività economica (d’impresa), bensì lo scopo- fine, che consiste appunto non nella produzione di utili (lucro oggettivo) da distribuire fra i soci (lucro soggettivo), bensì nello scopo mutualistico . MA IN COSA CONSISTE LO SCOPO MUTUALISTICO? Manca una definizione legislativa dello scopo mutualistico, però un punto di partenza potrebbe essere la Relazione numero 1025 al codice civile secondo cui tale scopo consiste nel “fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato”.  QUINDI, lo scopo mutualistico indica un particolare modo di svolgimento e di organizzazione dell’attività d’impresa che si caratterizza per la gestione di servizio a favore dei soci, i quali sono destinatari elettivi, anche se non esclusivi, dei beni o servizi prodotti dalla cooperativa, oppure delle possibilità di lavoro e della domanda di materia prime dalla stessa cooperativa create; ciò consente ai soci della cooperativa di ottenere condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di mercato. Nella cooperativa “i soci sono imprenditori di loro stessi”, ossia eliminano l’intermediazione ed il relativo profitto di altri imprenditori nei processi di produzione e/o distribuzione. Quindi, anche nelle cooperative i soci perseguono un proprio vantaggio patrimoniale, un risultato economico attraverso lo svolgimento di attività di impresa, però esso non consiste nella più elevata remunerazione possibile del capitale investito (lucro oggettivo) bensì consiste nel risparmio di spesa per i beni o servizi acquistati dalla società (cooperative di consumo) o nella maggiore retribuzione per i beni o servizi ceduti alla cooperativa (cooperative di produzione e lavoro). Il vantaggio mutualistico, tra l’altro, non deriva direttamente dal rapporto di società, ma da diversi e distinti rapporti economici instaurati con la cooperativa, definiti come rapporti mutualistici (es. acquisto di merci; vendita di materie prime). Inoltre, si tratta di un vantaggio proporzionato alla quantità di tali rapporti e svincolato dall’ammontare del conferimento in società. L’interesse dei soci delle cooperative, dunque, consiste nel soddisfare le proprie richieste di prestazioni (prestazioni mutualistiche) attraverso l’attività di impresa. Ciò nonostante, tale interesse non è configurabile come un diritto soggettivo a ricevere tali prestazioni da parte della cooperativa, in quanto in capo alla società non sorge alcun obbligo di instaurare rapporti di scambio con i soci, i quali possono solo azionare i mezzi di tutela, previsti dal diritto societario, qualora la gestione dell’impresa non sia oggettivamente improntata al rispetto dello scopo mutualistico e della parità di trattamento tra i soci ( punto controverso). Comunque, la legge consente la presenza, accanto ai soci 57 mutualità prevalente. L’atto costitutivo è soggetto al controllo di legalità del notaio rogante, il quale provvede, se tutto va bene, alla richiesta di iscrizione nel registro delle imprese; con l’iscrizione si acquista la personalità giuridica. Dopodiché, la cooperativa può essere iscritta d’ufficio nell’albo delle società cooperative. All’interno dell’atto costitutivo possono rientrare anche i regolamenti, ossia documenti volti a disciplinare l’attività mutualistica tra società e soci (se non fanno parte dell’atto costitutivo vanno predisposti dagli amministratori ed approvati dall’assemblea straordinaria). Per quanto riguarda la nullità delle società cooperative, si applica la disciplina dei contratti, come avviene per le società di persone, per quanto concerne le CAUSE DI NULLITÀ E INVALIDITÀ, mentre per ciò che riguarda gli EFFETTI DELLA NULLITÀ si applicano le norme in materia di società per azioni (ex art.2332). I CONFERIMENTI. LA RESPONSABILITÀ DEI SOCI  La disciplina dei conferimenti e delle prestazioni accessorie delle società cooperative è identica a quella prevista per le società per azioni o a quelle dettata per le società a responsabilità limitata, a seconda della scelta statutaria. Però, non è richiesto, nelle cooperative, il versamento iniziale del 25% del conferimento in denaro presso un istituto di credito; inoltre, il socio non può essere obbligato a fare nuovi conferimenti, una volta effettuato quello iniziale . Responsabilità per le obbligazioni sociali: la riforma del 2003 ha soppresso la distinzione tra cooperative con soci a responsabilità limitata e quelle con soci a responsabilità illimitata: oggi in tutte le cooperative per le obbligazioni sociali risponde solo la società con il proprio patrimonio (art.2518). È causa di esclusione dalla società il mancato versamento, in tutto o in parte , dei conferimenti (ipotesi del socio moroso – art.2531). Qualunque sia il motivo per cui il socio non fa più parte della società (recesso, esclusione o cessione della quota), egli risponde verso la società per il periodo di un anno dal momento in cui si è verificata la causa per cui ne è uscito; se in quell’anno la società diventa insolvente , il socio uscente è tenuto a restituire alla società quanto ricevuto per la liquidazione della quota o il rimborso delle azioni (art.2536). Il creditore particolare del socio cooperatore non può agire esecutivamente sulla quota o sulle azioni dello stesso (art.2537), né fare opposizione in caso di proroga della società. LE QUOTE. LE AZIONI  A seconda che la cooperativa sia regolata dalla disciplina delle S.p.a. o da quella delle s.r.l., la partecipazione sociale nelle cooperative può essere rappresentata da azioni o da quote. Abbiamo già detto che le cooperative hanno una struttura aperta ed è proprio per stimolare l’allargamento della compagine sociale che sono previsti dei limiti massimi che la quota o il valore delle azioni non possono superare. Nessun socio persona fisica, infatti, può avere una quota o tante azioni aventi un valore superiore a 100.000 euro (art.2425). Vi sono, però, alcune eccezioni. A) Nelle cooperative con più di 500 soci è possibile, nell’atto costitutivo, aumentare il limite sino al 2% del capitale sociale . B) L’art.2425.4 prevede una serie di casi in cui il limite non opera: - soci che conferiscono beni in natura o crediti; - ipotesi di aumento gratuito del capitale con l’impiego di riserve divisibili e ristorni; - soci diversi da persone fisiche; - sottoscrittori di strumenti finanziari dotati di diritti di amministrazione. C) Sono previsti limiti massimi diversi per alcune categorie di cooperative (es. nelle cooperative di produzione e lavoro, il limite per le persone fisiche è di 70.000 euro). Alle azioni di cooperativa si applica la disciplina prevista per le società per azioni, salvo per il fatto che sul titolo non va indicato l’ammontare del capitale sociale, né quello dei versamenti parziali per le azioni non interamente liberate. L’acquisto (o il rimborso) di azioni o quote proprie da parte della cooperativa è assoggettato ad una disciplina specifica: esso è possibile solo se espressamente previsto nell’atto costitutivo, ma nel caso in cui sia contemplato non è necessaria l’autorizzazione dell’assemblea ordinaria agli amministratori, né la fissazione delle modalità di acquisto. Però, l’acquisto o il rimborso sono soggetti a due limiti di carattere patrimoniale: 1) il rapporto tra patrimonio netto e complessivo indebitamento della società deve essere superiore ad un quarto; 2) l’acquisto o il rimborso vanno fatti nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili, risultanti dall’ultimo bilancio approvato. Le altre condizioni dell’art.2357 non vanno osservate ed allo stesso tempo non opera il divieto, di cui all’art.2358, di concedere 60 prestiti e garanzie per la sottoscrizione o l’acquisto di azioni proprie, né quello di accettare azioni proprie in garanzia. Unitaria per le quote e le azioni è la disciplina del loro trasferimento. Per la cessione di quote o azioni di società cooperative, il socio deve ottenere l’autorizzazione degli amministratori, che provvedono a comunicare la stessa entro 60 gg dalla richiesta (il silenzio vale assenso); l’autorizzazione non è valida se l’acquirente difetta dei requisiti soggettivi previsti dalla legge o dall’atto costitutivo. Il provvedimento che nega l’autorizzazione deve essere motivato e contro lo stesso il socio può proporre opposizione nel termine di 60 gg dal ricevimento. Inoltre, l’atto costitutivo può anche vietare la cessione di azioni o quote, riconoscendo però al socio il diritto di recesso con preavviso di almeno 90 gg purchè siano trascorsi almeno 2 anni dall’ingresso in società. LE NUOVE FORME DI FINANZIAMENTO  Dati i limiti massimi imposti alle società cooperative (pensiamo alla distribuzione degli utili o ai limiti massimi alla partecipazione di ogni socio), in passato era molto difficile per le stesse raccogliere capitale di rischio tra il pubblico. Il nostro legislatore, al fine di agevolare tale raccolta, ha introdotto, con la L.59/1992, le figure dei soci sovventori e delle azioni di partecipazione cooperativa. I sovventori sono dei soci particolari, in passato presenti nelle sole mutue assicuratrici, sprovvisti dei requisiti soggettivi richiesti per partecipare all’attività mutualistica, oggi ammessi in tutte le società cooperative (fatta eccezione per le cooperative di credito ed assicurative e per quelle del settore dell’edilizia abitativa) purché lo statuto preveda la “ costituzione di fondi per lo sviluppo tecnologico o per la ristrutturazione o il potenziamento aziendale ” . I conferimenti dei soci sovventori sono rappresentati da azioni, o quote, nominative liberamente trasferibili, sempre che l’atto costitutivo non preveda limiti alla circolazione. Lo stesso atto costitutivo, poi, può agevolare l’ingresso nella cooperativa dei sovventori, garantendo particolari condizioni per la ripartizione degli utili e per la liquidazione di quote/azioni (potendo però maggiorare il tasso di remunerazione nella misura massima del 2% rispetto a quello previsto per i soci cooperatori). I sovventori possono essere anche amministratori della cooperativa e ad essi possono spettare più voti, ma per evitare che ne prendano il controllo è previsto che i voti non possano essere più di 5 per ogni sovventore e che i voti di tutti i sovventori non possano mai superare 1/3 dei voti spettanti ai cooperatori. IN OGNI CASO, la maggioranza degli amministratori deve essere rappresentata da cooperatori. INOLTRE, le società cooperative che adottano “procedure di programmazione pluriennale finalizzate allo sviluppo o all’ammodernamento aziendale” possono anche emettere azioni di partecipazione cooperativa, una particolare categoria di azioni, affine a quelle di risparmio, prive del diritto di voto e privilegiate nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale. L’ammontare di tali azioni non può superare il valore delle riserve indivisibili o del patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio approvato. Le azioni di partecipazione cooperativa vanno offerte, inoltre, per almeno la metà ai soci ed ai lavoratori dipendenti della cooperativa, essendo possibile per essi anche la sottoscrizione oltre i limiti massimi di partecipazione al capitale. Se interamente liberate, possono essere emesse al portatore, oltre ad essere liberamente trasferibili. Assicurano, poi, dei diritti patrimoniali di notevole rilevanza: a) partecipazione agli utili maggiorata del 2% rispetto a quella di quote/azioni dei soci cooperatori ; b) diritto di prelazione nel rimborso del capitale per l’intero valore nominale, in sede di scioglimento; c) le perdite incidono su tali azioni solo per la parte che eccede il valore nominale complessivo delle altre azioni o quote . Al fine di tutelare gli interessi comuni, è prevista un’organizzazione di gruppo dei possessori di azioni di partecipazione cooperativa, che si estrinseca nella presenza di un’assemblea di categoria e di un rappresentante comune. Le cooperative che soggiacciono alla disciplina delle società per azioni, inoltre, hanno la possibilità di emettere obbligazioni per la raccolta di capitale di prestito : limiti e criteri di emissione sono fissati dal Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, oltre ad applicarsi la disciplina propria delle S.p.a. 61 Poi, le società cooperative per azioni, a partire dalla riforma del 2003, possono emettere anche strumenti finanziari diversi dalle azioni e dalle obbligazioni, secondo la disciplina dettata per le S.p.a.: ai possessori di tali strumenti non può essere attribuito più di 1/3 dei voti spettanti agli altri soci presenti o rappresentati in assemblea. I possessori di strumenti finanziari senza voto, invece, vengono tutelati dall’assemblea speciale e dal rappresentante comune. È l’atto costitutivo, ad ogni modo, a prevedere limiti alla circolazione di tali strumenti, diritti amministrativi e diritti patrimoniali attribuiti ai possessori. Anche le società cooperative cui si applica la disciplina delle s.r.l. possono emettere strumenti finanziari, ma privi di diritti di amministrazione, i quali possono essere sottoscritti solo da investitori qualificati professionali e soggetti a vigilanza prudenziale; gli investitori rispondono della solvenza della società qualora trasferiscano lo strumento a terzi. GLI ORGANI SOCIALI. L’ASSEMBLEA  Alle società cooperative per azioni si applicano le medesime norme valevoli, in merito agli organi sociali , per le S.p.a., sebbene con alcune differenze inerenti all’assemblea. - Anzitutto, i soci cooperatori persone fisiche hanno diritto ad un solo voto data l’osservanza del principio “una testa un voto”, indipendentemente dalla quota o dal numero di azioni possedute. - Ai soci persone giuridiche , invece, possono essere attribuiti più voti, al massimo 5, in proporzione all’ammontare della quota o delle azioni. - Anche ai soci sovventori possono spettare più voti, 5 al massimo ed in ogni caso i voti totali dei sovventori non devono superare 1/3 dei voti spettanti a tutti i soci. L’atto costitutivo, poi, può attribuire anche ai possessori di strumenti finanziari il diritto di voto, ma essi non possono esprimere più di 1/3 dei voti spettanti all’insieme dei soci presenti o rappresentanti in ciascuna assemblea; qualora tali strumenti siano stati sottoscritti dagli stessi soci cooperatori, è l’atto costitutivo a contemplare il cumulo dei voti o il mantenimento del voto capitario (una testa un voto). Nelle cooperative consortili, ossia quelle in cui i soci realizzano lo scopo mutualistico attraverso l’integrazione delle proprie imprese o di talune fasi di esse, il diritto di voto può essere proporzionale alla partecipazione allo scambio mutualistico, ma sempre con il limite che ogni socio non può esprimere più di 1/10 del totale dei voti, o più di 1/3 dei voti spettanti ai soci presenti/rappresentati in ciascuna assemblea. Valgono, poi, una serie di regole generali per tutte le società cooperative: a) hanno diritto di voto solo gli iscritti nel libro dei soci da almeno 90 gg; b) il socio può farsi rappresentare in assemblea solo da altro socio, ma ogni socio può rappresentare al massimo 10 soci e non si applica la disciplina sulla sollecitazione e sulla raccolta di deleghe; c) è ammesso il voto per corrispondenza o mediante altri mezzi di telecomunicazione, sempre se l’atto costitutivo li contempla: l’avviso di convocazione, in tale ipotesi, deve contenere per esteso la deliberazione proposta. Anche il procedimento assembleare presenta qualche differenza rispetto alla disciplina delle S.p.a. Innanzitutto, possono essere contemplate forme di convocazione diverse da quelle delle società per azioni ed i quorum costitutivi e deliberativi, fissati dall’atto costitutivo, vanno calcolati proporzionalmente ai voti spettanti per testa e non in base all’ammontare della partecipazione al capitale. L’atto costitutivo può prevedere che il procedimento assembleare si articoli in due fasi, quella delle assemblee separate e quella dell’assemblea generale , al fine di agevolare la partecipazione dei soci nelle cooperative con un’ampia compagine sociale e territoriale. Addirittura, le assemblee separate diventano OBBLIGATORIE se la cooperativa ha più di 3000 soci e svolge la propria attività in più province, oppure se ha più di 500 soci e si realizzano più gestioni mutualistiche. Le assemblee separate deliberano sulle medesime materie dell’assemblea generale, eleggendo i soci-delegati che prendono parte a quella generale ; quest’ultima risulta, dunque, costituita dai delegati delle varie assemblee separate e approva la delibera definitiva.  Praticamente le assemblee separate hanno una funzione preparatoria di quella generale. La volontà sociale si forma solo con la deliberazione dell’assemblea generale: le delibere delle assemblee separate non possono essere impugnate, mentre ad impugnazione è soggetta la delibera dell’assemblea generale, anche 62 RISTORNI: una distinzione importante è quella tra gli utili, remunerazione del capitale, ed i ristorni, ossia strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico (risparmio di spesa o maggiore remunerazione) in modo differito. In sostanza, essi costituiscono rimborso ai soci di parte del prezzo pagato per i beni o i servizi acquistati dalla cooperativa (cooperativa di consumo) a prezzo di mercato o integrazione della retribuzione corrisposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (cooperative di produzione e di lavoro). Alle somme distribuite ai soci a titolo di ristorno non sono applicabili le limitazioni che la legge pone alla distribuzione degli utili, essendo questi ultimi una remunerazione del capitale, distribuiti in proporzione al capitale conferito da ciascun socio e quindi ≠ dai ristorni che vengono assegnati ai soci in proporzione alle prestazioni mutualistiche (: acquisti, qualità e quantità del lavoro prestato nella cooperativa ecc.) Il solo dato che li accomuna è che anche i ristorni, così come gli utili, sono aleatori, essendo impossibile per la società distribuirli se la gestione si è chiusa con un’eccedenza dei costi rispetto ai ricavi. Le eccedenze derivanti da scambi con terzi non sono ovviamente distribuibili a titolo di ristorno tra i soci, perché non legate in alcun modo a prestazioni mutualistiche intercorse tra gli stessi e la società. Per evitare confusioni fra utili e ristorni, si prevede che siano riportati separatamente nel bilancio i dati relativi all’attività svolta con i soci, distinguendo eventualmente le diverse gestioni mutualistiche. È l’atto costitutivo, infine, ad indicare come i ristorni debbano essere ripartiti, potendo prevedere anche l’assegnazione di strumenti finanziari o l’aumento gratuito delle quote. VARIAZIONI DEI SOCI E DEL CAPITALE SOCIALE  Le modificazioni dell’atto costitutivo delle cooperative soggiacciono alle norme per le S.p.a. o per le s.r.l., a seconda della disciplina alla quale sono soggette: è sempre necessaria, dunque, la deliberazione assembleare, il controllo notarile e l’iscrizione nel registro delle imprese. Le società cooperative sono società a capitale variabile, ossia non determinato in un ammontare prestabilito; per tale motivo le variazioni del capitale sociale per aumento o riduzione dei soci non comportano ogni volta variazioni dell’atto costitutivo , salvo che non si voglia ammettere nuovi soci tramite un aumento del capitale sociale a pagamento. IN SOSTANZA, l’ammissione di nuovi soci cooperatori segue un procedimento semplicissimo all’interno delle cooperative, detto a “PORTA APERTA”: infatti, l’ammissione è deliberata dagli amministratori, su domanda dell’interessato, e la delibera è annotata nel libro dei soci. Il nuovo socio deve versare l’intero importo delle quote/azioni sottoscritte, oltre al sovrapprezzo eventualmente determinato dall’assemblea in sede di approvazione del bilancio su proposta degli amministratori. La domanda dell’aspirante socio, tuttavia, è una proposta contrattuale che la società, tramite gli amministratori, può accettare o meno: il soggetto non ha alcun diritto soggettivo o interesse legittimo e non può agire in giudizio in caso di rifiuto. Però, la legge prevede delle garanzie procedurali a favore dell’aspirante socio: in particolare, è previsto che il consiglio di amministrazione debba motivare entro 60 giorni la deliberazione di rigetto della domanda di ammissione e comunicarla agli interessati, potendo addurre motivazioni di ogni genere, ma non infondate o irragionevoli. Inoltre, l’interessato, entro altri 60 giorni, può chiedere la pronuncia assembleare sulla domanda di ammissione , la cui decisione può vincolare gli amministratori. Sulle procedure di ammissione vigila, comunque, l’autorità governativa, che si accerta della regolarità delle stesse. INOLTRE, nelle cooperative di produzione e lavoro, l’attuale disciplina consente che l’atto costitutivo preveda, determinandone diritti e obblighi, una categoria speciale di cosi cooperatori: i c.d. soci in formazione che devono seguire un periodo di formazione non superiore ai 5 anni, al termine del quale possono godere dei diritti spettanti agli altri soci cooperatori. In forza degli articoli 2532, 2533 e 2534, sono cause di riduzione del numero dei soci e del capitale: il recesso, l’esclusione e la morte del socio. - Il recesso è garantito al socio quando: l’atto costitutivo vieta la cessione di quote/azioni; in tutti i casi previsti dalla disciplina delle società per azioni o di quelle a responsabilità limitata , a seconda di quale delle due vada applicata; è possibile che vi siano altre cause statutarie. Non è ammesso recesso 65 parziale. La dichiarazione di recesso va comunicata tramite raccomandata alla società, esaminata tempestivamente dagli amministratori (entro 60 gg) con eventuale comunicazione immediata al socio dell’inesistenza dei presupposti per il recesso. È consentita al socio l’opposizione dinanzi al tribunale entro 60 gg dalla comunicazione. La dichiarazione di recesso produce i suoi effetti per quanto riguarda il rapporto sociale a partire dal provvedimento di accoglimento della domanda, mentre per i rapporti mutualistici, essa produce i propri effetti dalla chiusura dell’esercizio sociale, se comunicata almeno tre mesi prima, oppure dalla chiusura dell’esercizio successivo. - L’esclusione è disposta dalla società: a) In caso di mancato pagamento delle quote o azioni; b) Nei casi previsti per le società di persone ( fallimento del socio, ottenimento della liquidazione della quota o delle azioni da parte del creditore personale del socio, interdizione/inabilitazione del socio, condanna ad una pena comportante l’interdizione temporanea dai pubblici uffici); c) Per gravi inadempienze degli obblighi derivanti dal rapporto sociale o da quello mutualistico; d) Per perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla cooperativa; e) Per cause contemplate nello statuto. L’esclusione deve essere deliberata dagli amministratori o (se previsto dall’atto costitutivo) dall’assemblea. Inoltre, deve essere motivata e contro la stessa è possibile fare opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria entro 60 gg dalla comunicazione. L’esclusione è immediatamente efficace anche sui rapporti mutualistici pendenti, che vengono sciolti. - Se il socio muore si ha lo scioglimento del rapporto sociale, a meno che l’atto costitutivo non contempli la continuazione in capo agli eredi, sempre che essi posseggano i requisiti richiesti. Occorre, comunque, una delibera del consiglio di amministrazione a riguardo e se gli eredi sono più di uno, è necessaria la nomina di un rappresentante comune. La liquidazione della quota, in ogni caso di scioglimento del rapporto sociale, deve avvenire entro 180 gg dall’approvazione del bilancio di esercizio in cui il rapporto si è sciolto. Al socio uscente spetta, oltre al valore nominale delle azioni/quote, anche il sovrapprezzo eventualmente pagato al momento dell’ingresso in società. Se si tratta di quote/azioni non interamente liberate, il socio uscente (o i suoi eredi) risponde verso la società per quanto ancora dovuto, per un anno dal giorno in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto. Se entro questo periodo di tempo la società diviene insolvente, il socio uscente (o i suoi eredi) deve restituire quanto ricevuto. LO SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETÀ  Alle società cooperative si applicano, in merito allo scioglimento, le medesime regole dettate per le società di capitali, ma la variabilità del capitale fa sì che solo la perdita totale del capitale possa essere realmente causa di scioglimento. Accanto ad essa, poi, figurano altre cause specifiche di scioglimento: a) Riduzione dei soci al di sotto di 9 (al di sotto delle 3 persone fisiche se si tratta di società soggetta alla disciplina delle s.r.l.), se non reintegrano entro un anno; b) Liquidazione coatta amministrativa disposta dall’autorità governativa se la società verte in uno stato di insolvenza. L’autorità di vigilanza, se all’interno del procedimento di liquidazione riscontra qualsivoglia irregolarità o un eccessivo ritardo, può sostituire i liquidatori o chiederne la sostituzione al tribunale, qualora fosse stato quest’ultimo a nominarli. La stessa autorità dispone la cancellazione d’ufficio dal registro delle imprese delle cooperative in liquidazione ordinaria, se le stesse non hanno depositato i bilanci relativi agli ultimi cinque anni e non vi è stata nomina di un liquidatore da parte dell’autorità giudiziaria. I CONSORZI DI COOPERATIVE  I consorzi di cooperative sono forme di organizzazione collettiva cui le stesse società cooperative ricorrono per raggiungere una maggiore efficienza e competitività sul mercato. Vi sono tre tipi di consorzi: consorzi per l’esercizio in comune di attività economica, consorzi di cooperative ammissibili ai pubblici appalti e consorzi di società cooperative per il coordinamento della produzione e degli scambi. I primi due tipi soggiacciono all’intera disciplina delle cooperative, in quanto si configurano come cooperative di secondo grado (anche dette “cooperative di cooperative”). Il terzo tipo, invece, si configura come un consorzio fra imprenditori, regolato dagli artt.2602 ss: se svolgono attività esterna sono soggetti alla vigilanza governativa prevista per le cooperative. 66 IL GRUPPO COOPERATIVO PARITETICO  Anche le società cooperative possono dar vita ad organizzazioni di gruppo. Pur essendo possibile, però, risulta molto difficile dar luogo ad un “gruppo verticale”, in cui una cooperativa controlla un’altra, che risulta per tanto subordinata; la difficoltà (quasi impossibilità) è data dalla regola “una testa - un voto”, che evita la formazione di gruppi consolidati in grado di guidare più società. Per tal motivo è più diffuso, nella prassi, il gruppo cooperativo paritetico, il quale viene costituito sulla base di un accordo contrattuale (inquadrabile nello schema del consorzio tra imprenditori) con cui più società cooperative si “impegnano a conformarsi ad una direzione unitaria che ciascuna concorre a determinare su un piano di parità rispetto alle altre”. Il fenomeno è particolarmente diffuso nel settore bancario e assicurativo e risulta disciplinato dall’art.2545-septies. Anzitutto il gruppo è soggetto alle norme in tema di attività di direzione e coordinamento, per cui le direttive di gruppo devono sempre ispirarsi ai principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale e non possono ledere l’interesse di una partecipante al gruppo. Infatti, gli amministratori della cooperativa che attuano direttive pregiudizievoli per la propria società, senza che il danno sia compensato da vantaggi provenienti dalla partecipazione al gruppo, si espongono a responsabilità personale e responsabile è anche la cooperativa cui è attribuita la direzione concordata del gruppo, in quanto si è resa colpevole di aver impartito direttive abusive . Responsabile è anche chi trae beneficio dal fatto lesivo. Ovviamente le decisioni influenzate dall’attività di direzione e coordinamento devono essere motivate all’interno di ogni cooperativa. L’articolo 2545-septies fissa il contenuto minimo del contratto istitutivo del gruppo paritetico (durata, cooperativa/e a cui è affidata la direzione e relativi poteri, criteri di compensazione nella distribuzione di vantaggi derivanti dall’attività comune ecc.). É ammesso il recesso dal gruppo senza oneri di alcun genere qualora vi sia un pregiudizio per i soci della recedente, derivante dalle condizioni di scambio decise. Pubblicità: il contratto deve essere depositato in forma scritta press l’albo delle società cooperative. B) LE MUTUE ASSICURATRICI (ARTT.2546-2548) CARATTERI DISTINTIVI. DISCIPLINA  Le mutue assicuratrici o società di mutua assicurazione sono particolari società cooperative, il cui elemento distintivo è lo stretto legame di interdipendenza tra la qualità di socio e quella di assicurato: “non si può acquistare la qualità di socio se non assicurandosi presso la società” e tale qualità si perde se si estingue l’assicurazione. Delle obbligazioni sociali, ed in particolare per il pagamento delle indennità assicurative, risponde solo la società con il proprio patrimonio ( autonomia patrimoniale perfetta). I soci assicurati sono obbligati verso la società al pagamento di contributi (che costituiscono sia un conferimento che un premio di assicurazione). Il patrimonio sociale, formato con i contributi dei soci assicurati, può essere tuttavia insufficiente per l’esercizio dell’attività assicurativa e, per superare questo ostacolo, l’atto costitutivo può prevedere la costituzione di fondi di garanzia per il pagamento delle indennità, mediante speciali conferimenti da parte di soci assicurati o terzi, attribuendo anche a questi ultimi la qualità di socio. Ecco come vengono ad esistere i soci sovventori, accanto a quelli assicurati: si tratta di soggetti che si limitano a conferire il capitale necessario per l’attività sociale, senza essere assicurati; hanno diritto a più voti, ma non oltre 5, in relazione all’ammontare del conferimento, ed in ogni caso inferiori, globalmente, al numero dei voti spettanti agli assicurati (questo per evitare che il loro ruolo divenga preponderante nella gestione della mutua assicuratrice, dato che non sono animati da scopo mutualistico). I soci sovventori possono divenire anche amministratori, ma sono sempre in numero inferiore rispetto agli amministratori scelti tra i soci assicurati (: la maggioranza degli amministratori deve essere costituita da SOCI ASSICURATI). Per i sovventori non operano i limiti ai conferimenti, né all’assegnazione di utili. Per tutto il resto si applica la disciplina delle imprese di assicurazione e delle società cooperative. N.B. mutue assicuratrici ≠ le cooperative di assicurazione  in quanto in queste ultime si può essere assicurati senza diventare soci ed il socio ha diritto a prestazioni assicurative solo se sottoscrive un apposito contratto di assicurazione con la società, distinto ed autonomo rispetto a quello sociale; inoltre, le vicende del rapporto assicurativo non incidono in alcun modo sul rapporto sociale: questo permane anche se viene 67 bancarie uniformi, sono nulle e si considerano non apposte. Sono nulle anche le clausole che prevedono per i clienti condizioni economiche più sfavorevoli di quelle pubblicizzate. La nullità di tali clausole e l'inosservanza delle regole in tema di contenuto minimo del contratto comportano l'applicazione del tasso di interesse e delle altre condizioni economiche fissate per legge (art. 117.6). 5) Nei contratti bancari di durata può essere convenuta la facoltà per la banca di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali (ius variandi). L'evoluzione legislativa ha condotto tuttavia a circoscrivere il potere della banca sia sotto il profilo sostanziale che formale. Sotto il profilo sostanziale, la modifica deve essere sorretta da un giustificato motivo (art. 118.1). Una regola più restrittiva è prevista per le clausole che prevedono la possibilità di modificare unilateralmente i tassi di interessi praticati in un contratto a tempo determinato: queste pattuizioni devono predeterminare «specifici eventi e condizioni» per l'esercizio dello ius variandi e sono del tutto vietate quando la controparte è un consumatore o una micro-impresa (comma 2-bis, introdotto dal nel 2011). In ogni caso le variazioni dei tassi di interesse adottate dalla banca «in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria» (es. la modifica del tasso ufficiale di riferimento della Banca centrale europea) devono riguardare contestualmente sia i tassi di interesse debitori che quelli creditori e devono essere applicate con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente. Sotto il profilo formale, la clausola che accorda alla banca lo ius variandi deve essere approvata dal cliente specificamente, come clausola vessatoria . La banca deve comunicare le variazioni con un preavviso di 2 mesi e con le modalità stabilite dalla legge; il cliente ha diritto di recedere dal contratto senza spese entro la data prevista per l'applicazione della modifica e di ottenere, in sede di liquidazione del rapporto, l'applicazione delle condizioni precedentemente praticate, altrimenti la variazione si intende tacitamente approvata. Le variazioni contrattuali non comunicate sono inefficaci, se sfavorevoli al cliente. 6) Nei contratti a tempo indeterminato il cliente ha facoltà di recedere in ogni momento e al fine di favorire la concorrenza fra banche, la legge precisa oggi che per l'esercizio di questo diritto non possono essere previste penalità o spese di chiusura (art. 120-bis TUB). 7) Infine, nei contratti di durata è fatto obbligo alla banca di fornire per iscritto, almeno una volta l’anno, una comunicazione completa e chiara in merito allo svolgimento del rapporto, mediante la consegna del rendiconto e del documento di sintesi sulle principali condizioni. Il cliente ha diritto di ottenere, a proprie spese, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni (art. 119). La Banca d'Italia vigila sul rispetto della disciplina in tema di trasparenza e può anche prescrivere, a pena di nullità, che determinati contratti o titoli abbiano un contenuto tipico predeterminato (art. 117.8); eroga sanzioni per le irregolarità riscontrate con provvedimenti che possono arrivare fino all'inibizione dell'attività della banca inadempiente, anche limitatamente a singole aree o sedi secondarie (art. 128-ter). 8) Un ulteriore contributo al miglioramento del grado di tutela dei clienti delle banche è dato dalla disciplina antimonopolistica nazionale e oggi se ne occupa l'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato. Nel 1994 la Banca d'Italia ha stabilito che le norme bancarie uniformi costituiscono «intese» restrittive della concorrenza ed ha imposto all'Abi (Associazione Bancaria Italiana) di specificare che le stesse non hanno carattere vincolante per le banche associate. Infine, la disciplina del credito al consumo introdotta nel 1992 e su un piano più generale, quella delle clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori (introdotta nel 1996 e ora confluita nel cod. cons.) hanno contribuito, imponendo ulteriori modifiche delle nbu, ad accentuare il grado di tutela dei clienti delle banche quando questi siano persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla loro attività imprenditoriale o professionale. Per agevolare la composizione delle liti di valore non elevato (fino ad euro 100.000) riguardanti la prestazione di servizi bancari e finanziari, è poi attivo dal 2009 un sistema stragiudiziale di risoluzione delle controversie, al quale le banche e gli intermediari finanziari sono tenuti ad aderire (art. 128-bis): l’Arbitro bancario finanziario (ABF). L'ABF è un organismo indipendente e imparziale a 70 cui i clienti possono rivolgersi dopo aver invano fatto reclamo presso la banca stessa. Le sue decisioni non sono vincolanti per le parti e non precludono il ricorso all'autorità giudiziaria. Però, le banche (finora molto poche) che non adempiono spontaneamente alle decisioni dell'ABF sono esposte ad una sanzione "reputazionale", che consiste nella pubblicazione sul sito internet dell'Arbitro e sulla stampa di tale inadempimento. DEPOSITO BANCARIO  Il deposito di danaro è la principale operazione passiva delle banche. Esso costituisce un tipo particolare di deposito irregolare (art.1782), che si caratterizza per il necessario intervento di una banca in veste di depositario. Con questo contratto la banca acquista infatti la proprietà della somma ricevuta in deposito e si obbliga a restituirla nella stessa specie monetaria alla scadenza del termine convenuto (deposito vincolato), o a richiesta del depositante (deposito libero), con o senza preavviso. Benché il codice nulla stabilisca al riguardo, è certo che la banca deve corrispondere gli interessi sulle somme depositate  anto si desume dalla disciplina del mutuo, cui la disciplina del deposito irregolare fa rinvio. In base alla disciplina generale dei contratti bancari, il tasso di interesse e le altre condizioni economiche devono risultare dal contratto che attesta la costituzione del deposito o, in caso di libretto al portatore, dal libretto stesso. Il tasso di interesse non può essere inferiore a quello predeterminato in via generale dalla banca per quella determinata categoria di depositi. Nei depositi liberi la banca si riserva la facoltà di modificare il tasso di interesse, dandone comunicazione mediante lettera se si tratta di libretti nominativi. In caso di ribasso del tasso di interesse, il cliente può recedere dal contratto, entro 60 giorni dall'avviso o dal ricevimento della comunicazione, ed ha diritto a che gli sia applicato in sede di liquidazione il tasso precedente, a lui più favorevole. I depositi bancari possono essere semplici (o ordinari) e a risparmio. I depositi semplici non possono essere alimentati da successivi versamenti e non prevedono la possibilità di prelevamenti parziali prima della scadenza. Fra i depositi di questo tipo, a scadenza fissa, rientrano quelli rappresentati da buoni fruttiferi e da certificati di deposito. I depositi a risparmio invece danno al depositante la facoltà di effettuare successivi versamenti e prelevamenti parziali, che possono essere però effettuati solo in contanti e, salvo patto contrario, solo presso la sede della banca ove è stato costituito il rapporto. I depositi a risparmio sono comprovati da un apposito documento: il libretto di deposito a risparmio, nel quale devono essere annotate tutte le operazioni. Il libretto di deposito ha per legge un particolare e penetrante valore probatorio; infatti, le annotazioni sul libretto, firmate dall'impiegato della banca che appare addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti fra banca e depositante (art. 1835.2) La banca ed il depositante non possono perciò avvalersi di altri mezzi di prova per contestare il contenuto delle annotazioni sul libretto ed in particolare la banca non potrà eccepire la difformità delle stesse rispetto alle proprie scritture contabili. È nullo ogni patto contrario. I libretti di deposito a risparmio possono essere: a) libretti nominativi  i prelevamenti possono essere effettuati solo dall’intestatario del libretto o da un suo rappresentante debitamente legittimato. b) libretti nominativi pagabili al portatore i prelevamenti possono essere effettuati anche da soggetto diverso dall'intestatario, con effetto liberatorio per la banca che non versi in dolo o colpa grave. c) libretti al portatore  il possesso del libretto abilita di per sé alla riscossione delle somme depositate. la banca è infatti liberata se paga senza dolo o colpa grave all'esibitore, anche se questi non è il depositante (art. 1836.1). Né, a rigore, è tenuta ad identificare il presentatore del libretto. I libretti di deposito al portatore non possono avere saldo pari o superiore ad euro 1000 al fine di contrastare il riciclaggio di denaro proveniente da reati e l’evasione fiscale. È pacifico che i libretti nominativi e quelli nominativi pagabili al portatore non sono titoli di credito. Essi non sono destinati alla circolazione e la loro funzione è solo quella di identificare l'avente diritto alla prestazione. È invece questione ancora aperta se siano titoli di credito i libretti al portatore e, quindi, se il terzo possessore del libretto vanti un diritto letterale ed autonomo nei confronti della banca. 71 L’APERTURA DI / DEL CREDITO  L’apertura di credito è il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro, per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato (art. 1842). È una tipica operazione bancaria attiva. Differenze con il mutuo  Si differenzia dal mutuo, perché questa operazione non è un contratto reale, bensì si perfeziona indipendentemente dalla consegna del denaro. Si differenzia dalla promessa di mutuo, perché in questa operazione la banca è obbligata già con la stipulazione del contratto di apertura di credito e non è necessaria un’ulteriore manifestazione di volontà della stessa. Si differenzia dal mutuo consensuale, perché all’obbligo della banca di tenere a disposizione una determinata somma di denaro, corrisponde un diritto potestativo del cliente ; infatti, il cliente è libero di utilizzare o meno, in tutto o in parte, il credito che gli è stato concesso, se e quando lo riterrà opportuno. Infatti, gli interessi che il cliente deve alla banca sono calcolati non sulla somma di denaro che gli è stata concessa, ma sulla somma che ha effettivamente utilizzato ( questo è un vantaggio dell’apertura di credito rispetto al mutuo). Oltre agli interessi, il cliente deve alla banca una commissione onnicomprensiva di affidamento, in genere calcolata sull’importo massimo del credito utilizzato nel periodo, oppure dovuta in misura fissa. Il cliente può utilizzare la somma che la banca gli ha messo a disposizione in una o più volte; può inoltre ripristinare la disponibilità con successivi versamenti. ( In altri termini, può alternare versamenti e prelevamenti nei limiti della linea di credito che gli è stata concessa). Il cliente può utilizzare il credito concessogli anche per emettere assegni bancari o per impartire alla banca ordini di pagamento a terzi. Nella pratica l'apertura di credito è uno dei modi per creare una disponibilità nel conto corrente; una clausola del relativo contratto con cui la banca autorizza il titolare del conto ad operare «allo scoperto» entro un limite determinato. L'apertura di credito può essere assistita da garanzie, reali o personali, a favore della banca. Le garanzie che assistono l'apertura di credito si intendono date per tutta la durata della stessa e quindi non si estinguono fino alla fine del rapporto per il solo fatto che l'accreditato cessa di essere debitore della banca (art. 1844). Inoltre, se le garanzie diventano insufficienti rispetto al credito concesso (non a quello utilizzato), la banca può chiedere un supplemento di garanzia o la sostituzione del garante. In mancanza, la banca può, a sua scelta, ridurre proporzionalmente il credito concesso o recedere dal contratto. Il recesso della banca dall'apertura di credito è l'aspetto più delicato della relativa disciplina per il grave pregiudizio che può arrecare all'accreditato. Il codice, all’art. 1845, distingue fra apertura di credito a tempo determinato ed a tempo indeterminato. 1) Nell'apertura di credito a tempo determinato, salvo patto contrario, la banca può recedere anticipatamente dal contratto solo se sussiste una giusta causa. Il recesso sospende immediatamente l'ulteriore utilizzo del credito, ma la banca deve concedere un termine di almeno 15 giorni per la restituzione delle somme utilizzate . 2) Nell'apertura di credito a tempo indeterminato, la banca (ed anche il cliente) può invece recedere liberamente dal contratto. Deve però dare un preavviso, fissato per legge in 15 giorni, ove non risulti diversamente dal contratto o dagli usi.  Questo è il diritto scritto nelle pagine del codice. Altro è il diritto vivente fissato dalle norme bancarie uniformi. Nelle norme bancarie uniformi scompare ogni distinzione fra apertura di credito a tempo indeterminato e a tempo determinato e in entrambi i casi: la banca può recedere liberamente, anche con comunicazione verbale; il recesso sospende immediatamente l'utilizzo del credito; il termine per restituire le somme utilizzate è drasticamente ridotto ad un solo giorno secondo il testo originario delle norme bancarie uniformi, mentre a partire dal 1995 la clausola, ritenuta in contrasto con la normativa antimonopolistica dalla Banca d'Italia, è stata modificata nel senso che il termine di preavviso deve essere concordato fra banca e cliente. Il risultato? Secondo Campobasso, bene che vada per il cliente il termine è di regola allungato a due giorni. Con la tutela introdotta nel 1996 dalla disciplina sulle clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, nulla è cambiato per l’apertura dei crediti a tempo indeterminato, salvo che il preavviso deve essere dato per lettera raccomandata. Solo se l’apertura di credito è a tempo determinato le n.b.u. prevedono, con un parziale ritorno alla disciplina del codice, che la banca può recedere solo se sussiste una giusta causa. In caso di insolvenza del cliente la banca può certamente invocare la decadenza del beneficio del termine per ottenere l’immediata restituzione. 72 Funzione e caratteri essenziali del deposito o dell’apertura di credito in conto corrente si ritrovano in un altro contratto bancario sviluppatosi nella prassi bancaria e specificamente regolato dalle norme bancarie uniformi: il conto corrente bancario o di corrispondenza. Questo presenta 2 differenze rispetto alle singole operazioni regolate in conto corrente. Il rapporto iniziale costitutivo della disponibilità può essere costituito indifferentemente da un deposito bancario, da un’apertura di credito o da entrambi. Inoltre, è alimentato da ogni altro credito o sovvenzione comunque e sotto qualsiasi forma concessi dall’azienda di credito al correntista. Il servizio di cassa che la banca si obbliga a svolgere per conto del cliente assume un contenuto più ampio ed articolato. La banca è tenuta ad eseguire, nei limiti della disponibilità di conto, non solo gli ordini di pagamento a terzi ad essa impartiti mediante l'emissione di assegni bancari, ma anche ogni altro ordine di pagamento (rimesse, bonifici, giroconti). I relativi importi sono addebitati in conto e riducono il credito disponibile. La banca è tenuta a ricevere per conto del correntista tutti i versamenti disposti da terzi a favore dello stesso e ad eseguire gli specifici incarichi di riscossione di crediti verso terzi (incasso di assegni bancari, circolari) che le siano di volta in volta conferiti. Le possibilità operative sono così notevolmente ampliate. Ad esempio, è possibile trasferire dei fondi da un correntista (ordinante) ad altro correntista (beneficiario) senza movimento fisico di danaro, mediante giroconto bancario. Nel tempo poi l'utilità del contratto è stata potenziata da specifici servizi offerti dalla banca solo a chi è titolare di un conto corrente di corrispondenza. Ad esempio, con apposita convenzione collegata al conto corrente il cliente può fruire del servizio «cassa continua versamenti» e del servizio Bancomat. In definitiva, il conto corrente bancario costituisce un'evoluzione delle operazioni bancarie in conto corrente, operata dalla prassi attraverso l’arricchimento della componente gestoria già presente nelle prime e che meglio risponde alle complesse esigenze della clientela commerciale. La banca può così disporre di un contratto omnibus in cui ricomprendere tutte le ragioni di dare e di avere verso il cliente. Il conto corrente bancario costituisce da tempo il solo tipo di rapporto in conto corrente che le banche intrattengono con la clientela. Tale rapporto ricomprende e riassorbe in sé tutte le possibili operazioni in conto corrente cui fa riferimento l’art.1852. Identici restano comunque sotto il profilo giuridico gli elementi costitutivi: a) un rapporto iniziale di credito costitutivo della disponibilità; b) una componente gestoria, avente ad oggetto lo svolgimento del servizio di cassa; a) la regolamentazione nella forma tecnica del conto corrente. Al conto corrente bancario è direttamente applicabile: la disciplina legale delle operazioni bancarie in conto corrente (artt.1852-1857); quella dei singoli rapporti bancari tipici costituitivi della disponibilità (deposito, apertura di credito, anticipazione, sconto); quella del mandato, del resto esplicitamente richiamato dall’art.1856. LA DISCIPLINA DEL CONTO CORRENTE BANCARIO  L'apertura del conto, il cui contratto deve essere redatto per iscritto a pena di nullità (art. 117 Tub), è accompagnata dal rilascio del carnet di assegni, che il cliente deve custodire con diligenza rendendosi responsabile per lo smarrimento dello stesso (sez. I, art. 1.2 n.b.u.). Il titolare del conto deve depositare la propria firma (specimen), per consentire alla banca di controllare l'autenticità della firma. Nello svolgimento del servizio di cassa la banca deve osservare la diligenza del mandatario e conformarsi agli obblighi di quest'ultimo. La banca risponde secondo le regole proprie del mandato per l'esecuzione degli incarichi ricevuti dal correntista. È inoltre previsto che, se l'incarico deve eseguirsi su una piazza dove non esistono filiali della banca, questa può incaricare dell'esecuzione altra banca o un corrispondente (art. 1856, 2° comma). Tutti i movimenti derivanti dalle operazioni fra banca e cliente sono regolati mediante scritturazioni contabili, che di regola modificano il saldo disponibile indipendentemente dalla loro comunicazione al correntista. Gli addebiti, dovuti alle varie causali (prelevamenti in contanti, pagamento di assegni bancari, ordini di giro, ecc.) riducono il credito disponibile. Gli accrediti, anch'essi dovuti a varie causali (versamenti in contanti, rimesse di terzi, anticipazioni bancarie) determinano un corrispondente incremento del credito disponibile. Le somme versate in contanti o accreditate sul conto sono immediatamente disponibili per il cliente dal momento della ricezione del relativo importo da parte della banca (al più tardi nella successiva giornata operativa, per 75 i versamenti effettuati da clienti non consumatori) e fino al momento del successivo prelievo (d.lgs. 11/2010). La regola dell'immediata disponibilità degli accreditamenti subisce tuttavia eccezione per quelli derivanti da operazioni che comportano una successiva attività di incasso da parte della banca (versamenti di assegni bancari o circolari; titoli cambiari rimessi all'incasso). Infatti, il relativo importo è accreditato "con riserva di verifica e salvo buon fine" ed il correntista non ne può disporre prima di un certo numero di giorni fissato dal contratto, normalmente sufficiente perché la banca ne abbia conseguito l'incasso (n.b.u., sez. I, art. 4). Si distingue perciò fra saldo contabile determinato dalle annotazioni in conto delle diverse operazioni; saldo disponibile, che indica l'ammontare giornaliero del credito di cui il cliente può disporre; saldo per valute, che rileva solo per il conteggio degli interessi. Infatti, al solo fine della decorrenza degli interessi, ai singoli addebitamenti ed accreditamenti è attribuita una data convenzionale (cd. valuta) diversa da quella dell'operazione. Per porre un freno agli abusi delle banche nel “gioco delle valute”, con il TUB e la disciplina generale dei servizi di pagamento (d.lgs. 11/2010) si è stabilito che per gli addebiti sul conto la data di valuta non può più precedere la giornata dell’operazione. Per gli accrediti non può essere successiva alla giornata in cui la banca riceve l’importo; così pure per i versamenti in contanti, ma si può convenire di postdatare la valuta di un giorno quando il cliente non è un consumatore. Sia il tasso degli interessi a favore del cliente sia quello degli interessi a favore della banca, ovviamente più elevato, devono essere indicati nel contratto (art.117 comma 4). La modifica unilaterale di tali condizioni da parte della banca è soggetta alle regole già viste fissata dall’art.118 tub (Jus variandi). L’espressa dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali che rinviano agli usi per la determinazione del tasso di interessi (art.117.6) ha portato alla soppressione della clausola, prima presente nelle n.b.u., che consentiva alla banca di modificare automaticamente il tasso degli interessi attivi in base alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza (cosiddetti interessi uso piazza) e che aveva sollevato non pochi dubbi di validità. Le n.b.u. prevedevano inoltre anche il fenomeno dell’anatocismo a favore esclusivo delle banche. Infatti, mentre gli interessi sui conti con saldo attivo per il cliente venivano accreditati e capitalizzati annualmente, i conti che risultavano anche saltuariamente debitori venivano invece chiusi di regola trimestralmente e sempre trimestralmente la banca addebitava gli interessi attivi dovuti dal correntista, che a loro volta producevano interessi nella stessa misura. Questa vistosa disparità di trattamento è però di recente venuta meno. Inizialmente la giurisprudenza aveva infatti sancito la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, dopodiché è intervenuto il legislatore, che ha attribuito al Cicr il potere di stabilire modalità e criteri per la produzione degli interessi sugli interessi nelle operazioni bancarie, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata la stessa periodicità nel conteggio degli interessi debitori e creditori. Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con la periodicità indicate nel contratto. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità. Per effetto di questa disciplina, oggi la capitalizzazione degli interessi attivi e passivi avviene di regola trimestralmente e con la stessa cadenza la banca addebita al cliente le spese di tenuta del conto. Il conto corrente bancario è di regola contratto a tempo indeterminato. Il cliente ha diritto di essere informato con periodicità almeno annuale sullo svolgimento del rapporto, mediante invio da parte della banca di un estratto conto. Il cliente può tuttavia scegliere che l’estratto conto gli venga inviato con periodicità semestrale, trimestrale o mensile. Valgono per l’approvazione dell’estratto conto (periodici o di chiusura) le regole dettate per il conto corrente ordinario. Il termine entro cui il cliente può proporre opposizione scritta è però oggi fissato per legge in 60 gg dal ricevimento dell’estratto conto, decorso il quale lo stesso deve intendersi approvato. Il conto corrente può essere intestato a più persone, con facoltà di operare congiuntamente o disgiuntamente. Nel conto a firma disgiunta, che è il più diffuso, gli intestatari sono considerati, nei confronti della banca, creditori in solido del salvo attivo e debitori in solido del saldo passivo. La banca può perciò liberarsi pagando il saldo ad uno qualsiasi dei cointestatari. Questi restano obbligati in solido verso la 76 banca per eventuali scoperti, anche se imputabili ad uno solo dei cointestatari. In caso di morte o sopravvenuta incapacità di uno dei cointestati, gli eredi di questo (congiuntamente) e ciascuno degli altri cointestatari conservano il diritto di disporre separatamente sul conto. La banca deve tuttavia richiedere il consenso di tutti qualora le sia stata notifica opposizione da uno dei cointestatari. Nei rapporti interni fra i cointestatari invece si ritiene che trovi applicazione la presunzione relativa di divisione posta in tema di solidarietà. Nel conto ad intestazione congiunta, gli atti di disposizione devono provenire da tutti i cointestatari. I versamenti possono essere invece fatti anche separatamente in quanto accrescono il credito disponibile. Un soggetto può avere con la stessa banca più rapporti o più conti. Questi restano fra loro distinti ed autonomi, sicché la banca dovrà operare solo sul conto di volta in volta indicato dal cliente. Tuttavia, se un rapporto o conto presenta un saldo attivo per il cliente ed altro un salvo passivo, i relativi saldi si compensano reciprocamente. Quando il conto corrente bancario è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dando un preavviso, che in passato le n.b.u. fissavano in un giorno e che ora viene determinato dalle condizioni generali della banca, di regola in termini non troppo dissimili. Il recesso della banca rende immediatamente esigibile il saldo passivo anche se il conto corrente era assistito da un’apertura di credito. Il conto corrente bancario si scioglie anche per fallimento del correntista ed in tal caso non solo il conto è normalmente in rosso, ma spesso accade che lo stesso presentava un saldo passivo già prima della dichiarazione di fallimento. Da qui nasce un problema estremamente delicato, cioè se la revocatoria fallimentare va a riguardare anche le rimesse effettuate sul conto corrente bancario. LA REVOCATORIA FALLIMENTARE DELLE RIMESSE  L’art.67.2 L. Fall. sottopone a revocatoria fallimentare i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti dal fallito nei 6 mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento: il creditore che ha ricevuto il pagamento dovrà restituire quanto riscosso al fallimento ed insinuarsi nella massa passiva per essere soddisfatto in moneta fallimentare. Ci si domanda tuttavia se questa regola è applicabile anche alle rimesse effettuate sul conto corrente bancario passivo nei 6 mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento. Il problema aveva trovato una soluzione articolata. Se il conto corrente passivo era assistito da una regolare apertura di credito non revocata, l’art.67 delle fallimentare non era considerato applicabile. In tal caso le rimesse effettuate sul conto scoperto erano semplici atti di ripristino della disponibilità e non atti solutori di un credito liquido ed esigibile della banca. Se invece l’apertura di credito era stata revocata o gli sconfinamenti erano dovuti a semplice tolleranza della banca, allora le rimesse sul conto scoperto non erano più considerate atti di ripristino della disponibilità. Il relativo credito della banca era infatti liquido ed esigibile; le rimesse effettuate nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento erano perciò considerate veri e propri atti solutori del cliente e come tali si facevano cadere sotto la scure della revocatoria fallimentare. La banca doveva perciò restituire al fallimento gli importi corrispondenti. Le conseguenze del compromesso per le banche erano notevolmente onerose. Pertanto, in tempi recenti il legislatore è intervenuto per ben 2 volte a disciplinare la materia, anche per il timore che l’eccessivo ricorso alle revocatorie potesse indurre le banche a far mancare il necessario sostegno finanziario alle imprese in difficoltà. Nel 2005 è stata così introdotta una parziale esenzione delle rimesse bancarie dall’azione revocatoria. È stato stabilito che le rimesse effettuate su un conto corrente bancario non sono soggette a revocatoria fallimentare, a condizione però che non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca. Dunque, solo le rimesse che hanno avuto effetti consistenti e durevoli possono essere oggetto di revocatoria. Tuttavia, sorgevano vari problemi intorno al quando gli effetti della rimessa possono essere considerati consistenti e durevoli sul saldo negativo del conto corrente. Il legislatore è intervenuto nuovamente nel 2007 ed ha stabilito che alla revoca di atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario si applica l’art.70.3 l.fall (d.lgs. n.169/2007). Questa norma limita l’importo da restituire al fallimento qualora la revoca abbia ad oggetto pagamenti e rimesse effettuati nell’ambito di 77 quanto riguarda gli obblighi di amministrazione della banca è necessario distinguere: a) gli atti di riscossione e quelli di normale tutela dei diritti sui titoli in deposito, che non comportano scelte discrezionali o erogazione di somme, sono posti in essere dalla banca senza chiedere istruzioni al cliente (le somme riscosse vengono accreditate in conto corrente al depositante); b) per tutti gli altri atti di amministrazione, la banca deve chiedere istruzioni in tempo utile al depositante. È inoltre tenuta ad eseguire gli ordini dello stesso solo se ha ricevuto i fondi occorrenti. In mancanza di istruzioni tempestive, la banca cura la vendita dei diritti di opzione per conto del cliente. II depositante deve pagare i diritti di custodia e le commissioni stabilite dalla banca. È nullo il patto con il quale si esonera la banca dall'osservare l'ordinaria diligenza nell'amministrazione dei titoli. LE CASSETTE DI SICUREZZA  Col servizio delle cassette di sicurezza la banca mette a disposizione del cliente uno scomparto metallico (la cassetta) posto in locali corazzati custoditi dalla banca. Nella cassetta il cliente può riporre oggetti, titoli o valori. La cassetta ha uno sportello metallico munito di doppia chiave: una è consegnata al cliente; l'altra è custodita dalla banca. La cassetta può essere perciò aperta solo con il concorso della banca e del cliente, previa esibizione da parte di quest'ultimo di un apposito tesserino di riconoscimento (art. 8 n.b.u.). La banca non può assistere alle operazioni di immissione e prelievo. Il contenuto della cassetta resta perciò ignoto alla banca, che può solo chiederne la verifica per ragioni di sicurezza (art. 4 n.b.u.). La cassetta può essere intestata a più persone. In tal caso ognuno dei cointestatari ha diritto di aprirla, salvo che dal contratto non risulti diversamente. In caso di morte dell'intestatario o di uno dei cointestatari, la banca che ne ha ricevuto comunicazione, può consentire l'apertura della cassetta solo col consenso di tutti gli aventi diritto o secondo le modalità stabilite dall'autorità giudiziaria. È poi prevista una particolare procedura per l'apertura forzata della cassetta (autorizzazione del pretore ed intervento di un notaio) al fine di consentire alla banca di riacquistarne la disponibilità qualora, alla scadenza del contratto, l'utente non provveda spontaneamente a vuotarla e a restituire le chiavi in suo possesso. Nel servizio delle cassette di sicurezza concorrono: a) una prestazione locatizia della banca (godimento della cassetta); b) una prestazione di custodia della stessa, che ha però per oggetto i locali in cui la cassetta si trova e non il suo contenuto. Il coordinamento unitario delle due prestazioni consente di realizzare la massima sicurezza e segretezza nella conservazione dei valori, pur mancando la consegna alla banca delle cose da custodire. È infatti stabilito che la banca risponde verso l'utente per l'idoneità e la custodia dei locali e per l'integrità della cassetta, salvo il caso fortuito (art. 1839). La banca risponde perciò solo indirettamente del contenuto della cassetta. Vi è d'altro canto una presunzione di responsabilità a carico della banca, che può essere vinta dalla stessa solo fornendo la prova positiva che l'evento dannoso (alluvione, furto, incendio) era imprevedibile ed inevitabile con la diligenza professionale. Sull'utente incombe invece l'onere di provare il valore del contenuto della cassetta ai fini della determinazione del danno risarcibile. Una limitazione del danno risarcibile era enunciata a chiare lettere dal testo originario delle n.b.u., ma la relativa clausola fu dichiarata nulla, in quanto limitava preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave. La clausola fu perciò modificata nel 1976. Si stabilisce, infatti, che l'utente è obbligato a non conservare nella cassetta cose aventi valore superiore ad un determinato importo (art. 2 n.b.u.), di regola fissato in un milione. Si puntualizza inoltre che entro tale importo è contenuto il risarcimento dei danni dovuto all'utente. Anche questa clausola è stata però di recente dichiarata nulla. Né maggiore fortuna ha incontrato l’ultimo stratagemma elaborato dalle n.b.u. che imponeva al cliente di dichiarare il valore massimo dei beni che intende custodire in cassetta (art. 2 n.b.u., modificato nel 1995) onde consentire alla banca di dotarsi di adeguata copertura assicurativa. Di modo che, se la banca è chiamata a risarcire un danno maggiore del massimale assicurativo, si può profilare una concomitante responsabilità del cliente verso la banca per la mendace dichiarazione resa. La giurisprudenza non solo ha ribadito che la pattuizione è nulla per elusione dell’art. 1229 quando la banca è chiamata a rispondere per dolo o colpa grave, ma ha anche soggiunto che fuori da queste ipotesi la clausola è 80 comunque vessatoria ed inefficace nei contratti stipulati con i consumatori per lo squilibrio che determina a carico del cliente. MUTUO  Il mutuo è un contratto a titolo oneroso, definito dall’art. 1813 c.c., che dispone: "il mutuo è il contratto col quale una parte (mutuante) consegna all'altra (mutuatario) una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità". Un mutuo è il termine giuridico usato per indicare qualsiasi forma di "prestito", sia esso di piccola entità stipulato con un amico sia nel caso in cui si vada in banca a chiedere del denaro per acquistare un immobile. Tale descrizione, quindi, include qualsiasi tipo di debito, ma solitamente l'oggetto del contratto è il denaro.  A norma dell’art. 1813 c.c. il mutuo è un contratto reale, un contratto cioè la cui peculiarità è quella di perfezionarsi con la datio rei, e non per l’effetto del mero consenso espresso dalle parti nei modi di legge. CAPITOLO 14: L’INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA. I SERVIZI DI PAGAMENTO Il leasing, il factoring, la cartolarizzazione dei crediti, carte di credito, emissione di moneta elettronica, credito al consumo sono operazioni di natura finanziaria. Si tratta di attività ed operazioni prevalentemente svolte da imprese bancarie, ma non riservate per legge alle stesse. Si tratta di attività che le banche di regola svolgono indirettamente attraverso la creazione di società controllate che operano in ciascuno di tali settori. Tali società concorrono a formare con la società bancaria che le controlla un gruppo creditizio e sono conseguentemente soggette alla vigilanza informativa e regolamentare della Banca d’Italia e nei loro confronti trova applicazione la speciale disciplina prevista per la crisi del gruppo bancario. Si distingue fra: a) attività (non bancaria) di intermediazione finanziaria; b) prestazione di servizi di pagamento; c) attività di intermediazione mobiliare. Quanto all’attività di intermediazione finanziaria non bancaria, la relativa disciplina pubblicistica, ispirata anche dalla finalità di prevenire l’utilizzo del sistema 81 finanziario per operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da reati, è oggi confluita negli artt.106-114 del TUB. Tale disciplina (modificata da ultimo dal d.lgs. 141/2010) ha carattere residuale. Riguarda le imprese, come quelle non facenti parte di un gruppo bancario, che non siano già soggette a forme di vigilanza equivalente sull’attività finanziaria svolta (art.114.2). L’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma è riservato, salvo alcune eccezioni, agli intermediari autorizzati dalla Banca d’Italia ed iscritti in un apposto albo tenuto stessa. Per ottenere l’iscrizione nell’albo gli intermediari devono rispettare determinate condizioni, fra cui: - essere costituiti in forma di società di capitali o cooperativa; - avere oggetto sociale limitato allo svolgimento di attività finanziaria ed eventualmente (se in possesso delle relative autorizzazioni) alla prestazione di servizi di pagamento e di investimento; - il capitale sociale versato non può essere inferiore all’importo minimo determinato dalla banca d’Italia. I soci titolari di partecipazioni rilevanti devono essere in possesso dei medesimi requisiti di onorabilità e professionalità degli esponenti aziendali. Gli intermediari finanziari devono aderire al sistema di composizione stragiudiziale delle controversie gestito dall’Arbitro bancario finanziario. Gli intermediari finanziari devono inoltre attenersi alle disposizioni emanate dalla Banca d’Italia aventi ad oggetto l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, l’organizzazione amministrativa e contabile, i controlli interni e i sistemi di remunerazione e incentivazione nonché l’informativa da rendere al pubblico sulle predette materie. Le società iscritte nell’albo sono sottoposte a penetrante vigilanza da parte della Banca d’Italia, che può adottare sanzioni fino alla sospensione degli organi sociali ed alla revoca dell’autorizzazione. Con la riforma del 2010 è invece venuta meno la distinzione fra intermediari finanziari iscritti in un elenco generale e intermediari finanziari, di maggior rilievo e sottoposti a più estesi controlli, iscritti in un elenco speciale. Tuttavia, l’attuale disciplina stabilisce che nell’esercizio dei poteri di vigilanza la Banca d’Italia osservi criteri di proporzionalità rispetto alle dimensioni e alla complessità dell’attività dell’intermediario. È inoltre caduto l’obbligo di iscrizione in una sezione speciale per i soggetti che esercitano attività finanziaria non nei confronti del pubblico. Le attività di mediazione creditizia al fine di prevenire il fenomeno dell’usura sono state riservate ai soggetti in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità ed organizzativi previsti per legge ed iscritti in appositi elenchi, distinti per gli agenti e i mediatori, tenuti da un Organismo posto sotto la vigilanza della Banca d’Italia. A) IL LEASING Il leasing (o locazione finanziaria) è una nuova tecnica contrattuale nata per soddisfare una specifica esigenza delle imprese: quella di disporre dei beni strumentali necessari per l’attività produttiva (macchinari, impianti, attrezzature sofisticate) senza essere costrette ad immobilizzare ingenti capitali per l’acquisto. L’imprenditore dispone di altre vie per soddisfare tale esigenza: può prendere in locazione o in affitto il bene, acquistarlo a rate, ottenere un finanziamento bancario per l’acquisto in contanti. Tuttavia, chi fabbrica macchinari di regola li vende e non li affitta perché deve rapidamente recuperare i capitali investiti. L’acquisto a rate non sempre è conveniente, dato che una volta finito il pagamento ci si può ritrovare proprietari di un macchinario privo di valore in seguito a logorio od obsolescenza. Il leasing è un contratto che intercorre fra un’impresa finanziaria specializzata (società di leasing) e chi ha bisogno di beni strumentali per la propria impresa. Il leasing è ancora oggi un contratto privo di specifica disciplina legale. Accanto al leasing avente ad oggetto beni strumentali di impresa (leasing d’impresa) si è largamente sviluppato il leasing di beni di consumo durevoli quali automobili ed elettrodomestici (leasing di consumo) ed il leasing di beni immobili (stabilimenti industriali o studi professionali). Al leasing ricorrono inoltre non solo gli imprenditori ma anche i professionisti, per le agevolazioni tributarie di cui anche questi ultimi possono godere. Inoltre, il leasing si è articolato in tre tecniche operative notevolmente diverse fra loro: - leasing finanziario; - leasing operativo; - lease-back (o leasing di ritorno) tra le quali il leasing finanziario (di beni strumentali, di consumo e immobiliare) è la forma più diffusa e caratteristica. 82 civile di una disciplina specifica per l’iscrizione nel bilancio del concedente dei proventi derivanti dal lease- back. B) IL FACTORING IL CONTRATTO  Il factoring è una nuova tecnica contrattuale di origine statunitense sviluppatasi per rispondere alle specifiche esigenze delle imprese che effettuano continue e consistenti vendite a credito nei confronti di una clientela numerosa e diversificata. Tali imprese devono gestire una notevole massa di crediti, sopportando una serie di costi per la riscossione e l’eventuale contenzioso. Per risolvere in modo stabile ed unitario tutte queste diverse esigenze sono nate e si sono sviluppate le imprese di factoring: imprese specializzate nella gestione dei crediti di impresa e che offrono con un unico contratto di durata (il contratto di factoring) tutti i relativi servizi, che sono essenzialmente quattro: tenuta della contabilità debitori; gestione dell’incasso dei crediti e dell’eventuale contenzioso; eventuale concessione di anticipazioni sull’importo dei crediti; eventuale assunzione a proprio carico del rischio di insolvenza. Il cliente che stipula un contratto di factoring può fruire nel tempo di tutte o solo di alcune di tali prestazioni, pagando per ciascuna un compenso predeterminato. Il tutto però sulla base di un unico contratto, che può assumere configurazioni diverse e variamente articolate nel tempo, ma che comunque si caratterizza per una propria ed unitaria funzione che impedisce di ricondurlo ad altri tipi contrattuali (mandato, mutuo, apertura di credito, sconto, assicurazione crediti). Nella prassi operativa italiana, il contratto di factoring è stato strutturato utilizzando l’istituto della cessione del credito e proprio il profilo della cessione dei crediti di impresa, società od enti che esercitano l’attività di factoring, è stato disciplinato dalla legge 52/1991. LA DISCIPLINA  Il nucleo essenziale del contratto di factoring è costituito dall’istituto della cessione dei crediti (art.1260 ss.), più esattamente cessione globale di crediti pecuniari futuri , verso corrispettivo . Tale cessione è assoggettata alla speciale disciplina dettata dalla L. 52/1991 quando ricorrono le seguenti condizioni: - il cedente è un imprenditore; - i crediti ceduti sorgono da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio dell’attività di impresa; - il cessionario è una banca o un intermediario finanziario il cui oggetto sociale prevede l’esercizio dell’attività di acquisto di crediti di impresa . Pertanto, con il contratto di factoring l’imprenditore cedente (fornitore) cede in massa al factor tutti i propri crediti presenti e futuri derivanti da contratti stipulati nell’esercizio dell’impresa o anche solo quelli derivanti da determinate operazioni . Il factor a sua volta si obbliga a gestire e riscuotere i crediti cedutigli. La L. 52/1991 riconosce espressamente la validità della cessione in massa di crediti futuri. Precisa però che nell’accodo di factoring deve essere specificato il (futuro) debitore ceduto e che la cessione può avere per oggetto solo crediti che sorgeranno da contratti da stipulare in un periodo non superiore a 24 mesi. Il cedente si obbliga a comunicare al factor l’elenco completo della propria clientela attuale e le successive acquisizioni di nuovi clienti. Inoltre, dalla cessione sono escluse alcune categorie di crediti, come quelli derivanti da fatture provvisorie o aventi per oggetto merci in deposito. L’accordo di cessione globale determina l’automatico trasferimento dei crediti futuri al factor man mano che gli stessi vengono ad esistere senza che siano necessari ulteriori specifici atti traslativi dei singoli crediti. Il fornitore dovrà consegnare al factor tutti i documenti probatori dei crediti cedutigli e notificare al debitore l’intervenuta cessione nelle forme di diritto comune. La cessione avviene di regola pro solvendo: il cedente garantisce nei limiti del corrispettivo pattuito la solvenza del debitore ceduto. Inoltre, il relativo importo, dedotta la commissione a favore del factor, è di regola messo a disposizione del cedente solo dopo l’incasso. Il cessionario può tuttavia rinunciare, in tutto o in parte, alla garanzia della solvenza (cessione pro-soluto). In tal caso il factor assicura al fornitore il pagamento del credito anche in caso di inadempimento del debitore ed in tale evenienza il relativo importo è messo a disposizione alcuni mesi dopo la scadenza. Il factor può anche concedere anticipazioni sull’ammontare dei crediti ceduti (pro solvendo e pro soluto), conteggiando gli interessi per il tempo dell’anticipazione. Le anticipazioni di regola non superano una determinata percentuale del valore nominale del credito ceduto . Inoltre, se la cessione è pro solvendo, le stesse devono essere restituite qualora il debitore non paghi. Una specifica disciplina tutela il factor contro possibili abusi del fornitore che in violazione degli accordi ceda a terzi i medesimi 85 crediti, nonché nei confronti dei creditori del cedente, anche in caso di fallimento dello stesso. L’opponibilità ai terzi (aventi causa, creditori e fallimento del cedente) della cessione è infatti svincolata dalla necessità della notifica giudiziale quando ricorrono le seguenti condizioni: il factor ha pagato, in tutto o in parte, il corrispettivo della cessione ed il pagamento ha data certa anteriore rispettivamente al titolo di acquisto degli aventi causa del cedente, al pignoramento dei suoi creditori o al fallimento dello stesso . Specificamente regolata è infine anche la revocatoria fallimentare dei pagamenti del debitore ceduto all’impresa di factoring. Non può essere revocato il pagamento ricevuto da un’impresa di factoring quando la cessione dei crediti risponde ai requisiti fissati dalla stessa legge. Il curatore può tuttavia esercitare l’azione revocatoria nei confronti dell’imprenditore cedente provando che questi conosceva lo stato di insolvenza del debitore ceduto alla data del pagamento di questi al cessionario. Se la cessione è avvenuta pro soluto il cedente può a sua volta rivalersi contro il cessionario. C) LA CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI L’OPERAZIONE  La cessione globale di crediti è l’istituto su cui si fonda anche la cartolarizzazione dei crediti, disciplinata con L. 130/1999. L’operazione risponde allo scopo di facilitare lo smobilizzo di masse notevoli di crediti mediante l’incorporazione in titoli di credito di massa destinati ad essere per lo più sottoscritti da investitori professionali. L’emittente i titoli risponde del pagamento degli stessi non con tutto il suo patrimonio, ma esclusivamente con il flusso finanziario (interessi e rimborsi) derivante dai crediti che sono a base dell’operazione di cartolarizzazione. Sugli investitori viene perciò a gravare il rischio dell’eventuale insolvenza dei debitori originari. Le operazioni di cartolarizzazione sono realizzabili secondo due modalità; a) Cessione dei crediti ad una società veicolo che li acquista finanziandosi con i titoli dei crediti ceduti (L. 130/1999); b) Cessione dei crediti ad un fondo comune di investimento chiuso avente per oggetto crediti. LA DISCIPLINA I caratteri essenziali dell’operazione di cartolarizzazione dei crediti ex L. 130/1999 possono essere così fissati: a) La cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari esistenti o futuri, eventualmente individuati in blocco, ad una società di capitali che ha per oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione; b) L’emissione da parte di tale società di titoli di credito destinati a finanziare l’acquisto del portafoglio crediti ceduto; c) La destinazione esclusiva da parte della società cessionaria delle somme corrisposte dai debitori ceduti al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei relativi crediti, nonché al pagamento dei costi per l’operazione. I titoli emessi sono espressamente qualificati come strumenti finanziari. Se destinati ad essere collocati fra il pubblico, troverà perciò applicazione la disciplina dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari, con conseguente obbligo della società cessionaria o della società emittente di redigere il prospetto informativo dell’operazione di cartolarizzazione contenente le indicazioni stabilite dalla Consob. La redazione del prospetto informativo, secondo uno schema fissato per legge, è tuttavia prescritta anche quando i titoli sono destinati ad essere offerti ad investitori professionali. Solo quando i titoli sono offerti a investitori non professionali l’operazione di cartolarizzazione deve essere sottoposta a valutazione del merito di credito da parte di operatori terzi (cosiddette agenzie di rating), i cui requisiti di onorabilità e di professionalità sono stabiliti dalla Consob. I titoli emessi dalla società di cartolarizzazione sono di regola titoli di massa che incorporano un diritto di credito e sono pertanto inquadrabili fra i titoli obbligazionari. Essi sono però integralmente sottratti alla disciplina delle obbligazioni di società. I crediti relativi a ciascuna operazione infatti costituiscono patrimonio sperato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alle altre operazioni. Su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi. Nel contempo, la posizione dei portatori dei titoli è rafforzata dalla speciale disciplina dettata per l’efficacia delle cessioni dei crediti nelle operazioni di cartolarizzazione. Trova infatti applicazione la disciplina di favore dettata dal TUB per la cessione a banche di rapporti giuridici individuabili in blocco. La cessione diventa perciò efficace nei confronti del debitore ceduto con la semplice 86 pubblicazione in GU della notizia dell’avvenuta cessione, che determina anche il trasferimento dei privilegi e delle garanzie che assistono il credito ceduto senza bisogno di ulteriori formalità. Inoltre, da tale data, sulle somme corrisposte dai debitori ceduti sono ammesse solo azioni a tutela dei diritti dei portatori dei titoli e la cessione dei crediti è opponibile agli altri aventi causa e ai creditori del cedente. I portatori dei titoli sono pienamente tutelati in caso di fallimento dei debitori ceduti in quanto i pagamenti da questi effettuati alla società cessionaria non sono sottoposti a revocatoria fallimentare e sono parzialmente tutelati anche in caso di fallimento del cedente poiché sono drasticamente abbreviati i termini per l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare nei confronti dell’atto di cessione: rispettivamente, da un anno a sei mesi e da sei a tre mesi. D) IL CREDITO AL CONSUMO NOZIONE Il ricorso al credito per l’acquisto di beni o servizi destinati al consumo (es. mobili, elettrodomestici, viaggi turistici) e non all’impiego in un’attività di impresa o professionale è fenomeno largamente diffuso che può assumere forme diverse. L’esigenza di una disciplina specifica per tali forme di credito volta a tutelare i consumatori, contraenti deboli, ha portato alla disciplina del credito al consumo oggi contenuta negli artt.121-126 TUB (come modificato dal d.lgs. 141/2010). Costituisce credito al consumo la concessione, nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altra facilitazione finanziaria a favore di un consumatore. L’esercizio del credito al consumo è riservato alle banche, agli intermediari finanziari e, nella sola forma della dilazione del pagamento del prezzo senza interessi o altri oneri, ai soggetti autorizzati alla vendita di beni o servizi. Dall’applicazione della relativa disciplina sono tuttavia esonerati alcuni rapporti, quali: i finanziamenti di importo inferiore a 200 euro o superiore a 75.000; quelli destinati ad operazioni su immobili o strumenti finanziari; i contratti di somministrazione, di appalto o di locazione, ma non quelli di leasing. LA DISCIPLINA Per consentire al consumatore la piena conoscenza dell’onere economico del finanziamento, la pubblicità deve in ogni caso indicare, fra l’altro, il tasso annuale effettivo globale (Taeg) ed il relativo periodo di validità. Il Taeg è il costo totale del credito per il consumatore espresso in percentuale annua dell’importo totale del credito e comprende gli interessi e tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito. Le relative modalità di calcolo sono stabilite dalla Banca d’Italia in conformità alle delibere del Cicr. Obblighi precontrattuali di informazione e di consulenza gravano inoltre sul finanziatore o l’intermediario del credito affinché il consumatore, prima di vincolarsi, riceva le informazioni necessarie per confrontare le diverse offerte di credito sul mercato e valutare se il contratto di credito proposto sia adatto alle sue esigenze ed alle sue condizioni finanziarie. Il contratto di credito al consumo deve essere redatto per iscritto a pena di nullità, operante soltanto a vantaggio del cliente. Una copia deve essere consegnata contestualmente al consumatore. Il contratto deve contenere a pena di nullità l’indicazione del tipo, delle parti e dell’importo totale del finanziamento con le condizioni di prelievo e di rimborso. Deve inoltre stabilire la durata, gli oneri e il Taeg a carico del consumatore: qualora le relative clausole contrattuali manchino o siano nulle, esse sono sostituite di diritto secondo i criteri fissati dalla legge. In caso di nullità del contrato, il cliente è tenuto a restituire solo le somme utilizzate senza pagare interessi o altri oneri, e può farlo anche a rate con la stessa periodicità prevista nel contratto, o in mancanza in 36 mesi. Il consumatore può liberamente recedere dal contratto di credito entro 14 gg dalla sua conclusione o, se successivo, dal momento in cui ha ricevuto il documento contenente tutte le condizioni contrattuali e le informazioni di legge. In tal caso deve restituire entro 30 gg il capitale e pagare gli interessi maturati. Il finanziatore non può imporre oneri ulteriori per il recesso, salvo il rimborso delle somme non ripetibili eventualmente corrisposte alla PA. Nei contratti a tempo indeterminato, inoltre, il consumatore può recedere in ogni momento senza penalità e senza spese. Il contratto può stabilire un termine di preavviso non superiore ad un mese. Invece, per il recesso del finanziatore, non può essere pattuito un preavviso inferiore a due mesi. Si prevede fra l’altro che: a) In caso di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali 87 costituiscono uno strumento convenzionale di pagamento, alternativo rispetto alla moneta ed all’uso di assegni bancari, che consente al titolare di godere anche di una breve dilazione. Le carte di credito possono essere distinte in due grandi categorie: carte bilaterali e carte trilaterali. Le carte di credito bilaterali sono rilasciate dalle stesse imprese fornitrici di beni o servizi (es. grandi magazzini) e consentono di effettuare acquisti in tutti i punti di vendita dell’emittente, con differimento del pagamento del prezzo. Le somme dovute sono infatti pagate periodicamente dall’acquirente, previo invio da parte del fornitore di un estratto conto con l’indicazione dell’importo dei singoli acquisti. Le carte di credito bilaterali, per la loro limitata utilizzabilità, sono escluse dall’applicazione della disciplina generale dei servizi di pagamento del d.lgs. 11/2010). Più note e di gran lunga più diffuse sono le carte di credito trilaterali (es. Visa, Mastercard). Esse sono emesse da imprese (in prevalenza società di emanazione bancaria) specializzate nella gestione di tale servizio di pagamento. L’emittente la carta di credito paga ai fornitori quanto loro dovuto dai titolari della carta per merci o servizi acquistati; a scadenze periodiche si fa poi rimborsare da questi ultimi quanto pagato ai primi per loro conto. Per il servizio reso percepisce un compenso sia dai fornitori (esercizi convenzionali) sia dagli acquirenti (titolari della carta). LE CARTE DI CREDITO TRILATERALI  Il meccanismo della carte di credito trilaterali è reso possibile da una serie di convenzioni tipo che l’emittente stipula preventivamente con fornitori (convenzione di abbonamento) e con gli utilizzatori della carta (convenzione di rilascio). Con la convenzione di abbonamento l’esercizio convenzionato si obbliga verso l’emittente a fornire ai titolari della carta i beni e servizi richiestigli, senza pretendere il pagamento immediato. L’emittente a sua volta si obbliga a pagare al fornitore il relativo importo, decurtato di una percentuale (disaggio) a titolo di compenso per il servizio. Il pagamento è effettuato dietro presentazione di un documento (nota di spesa o ordine di pagamento), di regola firmato dal titolare della carta, nel quale sono riportati gli estremi dell’operazione conclusa e della carta di credito (intestazione, numero, scadenza). Con la convenzione di rilascio il titolare della carta è legittimato, dietro pagamento di un canone annuo piuttosto modesto, ad utilizzare la stessa per effettuare acquisti presso gli esercizi convenzionati senza pagamento del prezzo. L’emittente si obbliga infatti a pagare per conto del titolare gli importi corrispondenti, risultanti dalle note di spesa inviategli dagli esercizi convenzionati. Il titolare a sua volta si obbliga a rimborsare mensilmente all’emittente quanto pagato per suo conto, dietro invio dell’estratto conto del periodo. Con una specifica convenzione può essere inoltre pattuito un rimborso rateale (cosiddette carte di credito revolving) ed in tal caso si instaura fra emittente e titolare della carta anche un rapporto di finanziamento, per il quale trova applicazione la disciplina del credito al consumo se il titolare è un consumatore. Il titolare rinuncia inoltre preventivamente a far valere nei confronti dell’emittente qualsiasi eccezione fondata sul rapporto con i fornitori (vizi della merce, ritardo della consegna ecc.) Le convenzioni di base (emittente-fornitore ed emittente-titolare) diventano operanti nel rapporto fornitore-acquirente con l’accettazione da parte del primo del regolamento del prezzo mediante carte di credito. L’ordine di pagamento impartito dal titolare all’emittente, con la sottoscrizione della nota di spesa, attiva infatti il complesso degli effetti programmati nelle convenzioni di base e che possono essere così costruiti: a) l’emittente si sostituisce al titolare della carta nel pagamento del debito di questi verso il fornitore; b) il fornitore può richiedere il pagamento esclusivamente all’emittente poiché, accettando il regolamento mediante carta, rinunzia al pagamento da parte dell’acquirente; c) col pagamento l’emittente estingue il debito dell’acquirente verso il fornitore ed acquista il diritto di conteggiare al titolare della carta il pagamento eseguito per suo conto; d) il credito dell’emittente verso il titolare della carta diventa tuttavia esigibile solo a scadenze periodiche (mensilmente), per effetto del differimento pattuito con la convenzione di rilascio. Il rischio dell’emittente di non recuperare le somme anticipate è in parte coperto dai compensi percepiti per il servizio. LA MONETA ELETTRONICA  La moneta elettronica è un valore monetario rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente, memorizzato elettronicamente ed accettato come mezzo di pagamento da soggetti diversi dall’emittente stesso (art.1 comma 2 TUB). La sua emissione avviene dietro versamento da 90 parte del richiedente dell’importo corrispondente, più una commissione (fissa o in percentuale, a seconda degli accordi) per remunerare il servizio). L’emittente carica quindi l’importo disponibile su una tessera di plastica dotata di banda magnetica o microprocessore (cosiddetto borsellino elettronico), mediante la quale è possibile effettuare pagamenti presso gli esercizi commerciale convenzionati. Presso questi ultimi è presente un apposito apparecchio, denominato POS (point of sale), in grado di leggere la carta e scalare dalla disponibilità della stessa l’importo dovuto. L’esercente comunica quindi all’emittente la quantità di moneta elettronica accumulata dal POS, per ottenerne il pagamento (al netto di una commissione trattenuta dall’emittente). Il borsellino elettronico si differenzia dunque nettamente dalle carte di credito in quanto si tratta di una carta prepagata. In alternativa, la moneta elettronica può essere emessa senza il supporto materiale di una carta, e la relativa disponibilità viene memorizzata in un computer o nel telefono cellulare del richiedente, sotto forma di speciali documenti informatici recanti la firma digitale dell’emittente, che possono essere trasferiti al destinatario del pagamento come se fossero banconote elettroniche. Tale modalità di emissione viene impiegata per effettuare pagamenti via internet. Il detentore della moneta elettronica può chiederne il rimborso in ogni momento al valore nominale, entro l’ordinario termine decennale di prescrizione. Modalità e condizioni dell’esercizio del diritto sono indicate nel contratto. Non è però consentito prevedere il pagamento di commissioni, salvo che il rimborso sia chiesto anticipatamente oppure dopo che si trascorso più di un anno dalla scadenza del contratto (art.126novies TUB). Né è consentito all’emittente di pagare interessi sui fondi ricevuti a fronte dell’emissione della moneta elettronica affinché l’istituto non venga impropriamente usato come strumento di deposito del risparmio invece che come mezzo di pagamento. L’emissione di moneta elettronica è riservata agli istituti di moneta elettronica (IMEL), nonché alle banche, poste italiane e alcune pubbliche autorità (banca centrale europea, Stato italiano, ecc). Gli IMEL sono società di capitali o cooperative iscritte in un apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia e soggette alla vigilanza della stessa. Per essi valgono regole organizzative e di funzionamento sostanzialmente coincidenti con quelle degli istituti di pagamento. Fra l’altro anche per gli istituti di moneta elettronica opera la cosiddetta regola di segregazione dei fondi dei clienti: le somme ricevute dalla clientela a fronte dell’emissione di moneta elettronica sono investite in attività che costituiscono un patrimonio distinto da quello dell’IMEL. Non sono pertanto esposte alle azioni esecutive dei creditori dell’istituto, ma solo a quelle dei creditori dei clienti nei limiti dell’importo spettante a ciascun cliente. 91 CAPITOLO 15: L’INTERMEDIAZIONE MOBILIARE A) I SERVIZI DI INVESTIMENTO LE SOCIETÀ DI INTERMEDIAZIONE MOBILIARE  I servizi di investimento comprendono una serie di attività che hanno per oggetto valori mobiliari ed altri strumenti finanziari: compravendita degli stessi; collocamento sul mercato di nuove emissioni; gestione di patrimoni mobiliari; raccolta di ordini di acquisto o di vendita. Queste operazioni, particolarmente delicate per il carattere fiduciario del rapporto che si instaura con i clienti, erano in passato svolte, oltre che dalle banche, da agenti di cambio, commissionari di borsa, società fiduciarie, consulenti finanziari e così via. Nel 1991 vi è l’introduzione di una specifica disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare (L. 1/1991) per migliorare l’efficienza dei mercati mobiliari e di tutelare gli investitori contro negligenze, abusi e possibili frodi di quanti operano come intermediari in tali mercati. A tal fine viene introdotta una nuova categoria di soggetti ai quali è riservato, con alcune eccezioni, l’esercizio nei confronti del pubblico della relativa attività: le società di intermediazione mobiliare (Sim). Sono inoltre introdotte specifiche regole di comportamento per tali intermediari, volte ad assicurare la correttezza e la trasparenza dei rapporti con i clienti. L’intera materia è stata ripetutamente riformata anche sotto la spinta delle direttive comunitarie di armonizzazione del settore. La relativa disciplina è oggi collocata nel d.lgs. 58/1998 (TUF). L’attuale normativa disciplina i servizi di investimento aventi ad oggetto strumenti finanziari (azioni, obbligazioni e titoli del debito pubblico, cambiali finanziarie). Non sono considerati tali i mezzi di pagamento come gli assegni. Costituiscono servizi di investimento le seguenti attività quando hanno per oggetto strumenti finanziari: a) negoziazione per conto proprio, vale a dire l’attività di acquisto e vendita in proprio di strumenti finanziari svolta nei confronti del pubblico con lo scopo di realizzare una differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita (l’intermediario viene definito internalizzatore sistematico). b) l’esecuzione di ordini per conto dei clienti, vale a dire l’acquisto e la vendita per conto dei clienti attuata attraverso contratti di commissione con o senza rappresentanza; c) collocamento sul mercato di strumenti finanziari di nuova emissione o già emessi; d) gestione di portafogli; e) ricezione e trasmissione di ordini nonché mediazione; f) consulenza personalizzata in materia di investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione, vale a dire la gestione di mercati di strumenti finanziari alternativi rispetto ai mercati regolamentati. L’esercizio nei confronti del pubblico dei servizi di investimento è riservato alla Sim, alle banche ed alle imprese di investimento estere. Deroghe parziali sono tuttavia previste per gli intermediari finanziari non bancari, per le società di gestione del risparmio, per le società di gestione di mercati regolamentati, per le società di consulenza finanziaria e per i consulenti finanziari persone fisiche, nonché in via transitoria per le società fiduciarie e per gli agenti di cambio. Le Sim devono essere costituite esclusivamente in forma di società per azioni e la denominazione sociale deve comprendere le parole società di intermediazione mobiliare. Devono avere un capitale versato non inferiore a quello determinato in via generale dalla Banca d’Italia. I soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo devono possedere specifici requisiti di onorabilità e professionalità nonché di idoneità ad assicurare una gestione sana e prudente della Sim sono inoltre previsti per i soci che superano determinate percentuali del capitale sociale. Tutti questi requisiti costituiscono condizioni per ottenere dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, l’autorizzazione all’esercizio di uno o più servizi di investimento. Le società autorizzate sono iscritte in un apposito albo tenuto dalla stessa Consob. Le Sim sono soggette a revisione legale di conti secondo il regime degli enti di interesse pubblico. Sono inoltre sottoposte alla vigilanza della Consob e della Banca d’Italia per assicurarne la trasparenza e la correttezza dei comportamenti nonché la sana e prudente gestione. Entrambe sono investite, nelle materie di rispettiva competenza, di ampi poteri regolamentari di informazione e di ispezione, nonché sanzionatori. Le Sim in crisi sono soggette ad amministrazione straordinaria e liquidazione coatta amministrativa, con esclusione del fallimento, secondo una disciplina che ricalca quella prevista per le banche. Per tutelare i clienti delle Sim e degli altri soggetti abilitati a 92 ad essere svolta anche dalle società fiduciarie e può essere svolta anche dalle società di gestione del risparmio. Con tale operazione il cliente affida all’intermediario una determinata somma di denaro affinché la investa in strumenti finanziari secondo modelli standardizzati. Gli strumenti finanziari sono acquistati in nome e per conto del cliente (mandato con rappresentanza) e detenuti in deposito regolare dall’intermediario, o, previo consenso scritto del cliente, in nome proprio e per conto del cliente (mandato senza rappresentanza). Essi sono poi gestiti attraverso successive operazioni di investimento e disinvestimento, tese ad incrementare il valore del patrimonio mobiliare. I criteri di gestione fissati nel mandato inizialmente conferito dall’intermediario possono prevedere una discrezionalità più o meno ampia dello stesso per quanto riguarda le singole operazioni da compiere. Il contratto stipulato con un cliente al dettaglio deve essere redatto in forma scritta a pena di nullità e deve specificare una serie di dati stabiliti dalla Consob con proprio regolamento e, in particolare, le categorie di strumenti finanziari nelle quali può essere investito il patrimonio gestito e la tipologia di operazioni che l’intermediario può effettuare. Devono essere individuati gli obiettivi della gestione ed il livello di rischio entro il quale il gestore può operare la propria discrezione. Al riguardo, il contratto deve anche indicare se l’intermediario può utilizzare la cosiddetta leva finanziaria: se può cioè assumere obbligazioni per conto dell’investitore che lo impegnano per importo eccedente il patrimonio affidato in gestione e ciò al fine di evitare che lo stesso resti esposto a perdite non prevedibili. Deve infine indicarsi se l’intermediario può delegare l’esecuzione dell’incarico ricevuto ad altri soggetti autorizzati alla prestazione dello stesso servizio. Il cliente può sempre impartire istruzioni vincolanti sulle operazioni da effettuare e deve poter recedere dal contratto in ogni momento. Se il contratto è concluso fuori sede o con tecniche di comunicazione a distanza, al cliente è riconosciuto il diritto di ripensamento. È nullo ogni patto che deroghi a tale disciplina e la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. Il patrimonio conferito in gestione dal singolo cliente costituisce a tutti gli effetti patrimonio separato da quello dell’impresa di investimento e degli altri clienti. B) GLI ORGANISMI DI INVESTIMENTO COLLETTIVO CARATTERI GENERALI  Gli organismi di investimento collettivo sono organismi con diversa forma giuridica che investono in strumenti finanziari o in altre attività il denaro raccolto fra il pubblico dei risparmiatori operando secondo criteri di gestione fondati sul principio della ripartizione dei rischi . Con la gestione in monte, essi offrono ai risparmiatori uno strumento alternativo di investimento più sicuro e conveniente rispetto all’investimento diretto, spesso scoraggiato dalla mancanza di conoscenze tecniche e dal rischio elevato. Consentono: 1) una gestione di massa del risparmio raccolto ; 2) di attenuare i rischi dell’investimento azionario attraverso un’opportuna composizione e diversificazione del portafoglio titoli; 3) un pronto disinvestimento se l’organismo collettivo è di tipo aperto: permettono cioè di ottenere in ogni momento il rimborso del capitale. Gli organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr) possono assumere nel nostro ordinamento due diverse forme giuridiche: fondi comuni di investimento e società di investimento a capitale variabile (Sicav)  In entrambe le configurazioni è presente una società per azioni che ha per oggetto l’investimento collettivo del risparmio raccolto secondo il principio della ripartizione dei rischi. Nettamente diverso è però il rapporto che si instaura fra tale società e la massa degli investitori . Nei fondi comuni gli investitori (partecipanti al fondo) non diventano soci della società (società di gestione) che provvede all’investimento collettivo. Infatti, le somme versate dagli investitori e le attività in cui le stesse sono investite costituiscono un patrimonio autonomo da quello della società di gestione che lo amministra. Gli investimenti ricevono come corrispettivo delle somme versate quote di partecipazione al fondo e non azioni della società di gestione. I fondi comuni di investimento possono essere di tipo aperto o di tipo chiuso. Nei primi i partecipanti possono ottenere in ogni momento il rimborso delle quote di partecipazione. Nei secondi invece il diritto di rimborso è riconosciuto solo a scadenze predeterminate. Le società di investimento a capitale variabile (Sicav) sono invece organismi di investimento collettivo in forma di società per azioni nei quali l’investimento da parte dei risparmiatori avviene attraverso la sottoscrizione delle azioni emesse da tale società. Non si costituisce quindi un patrimonio separato ed è lo stesso 95 patrimonio della società, di cui gli investitori sono soci, ad essere investito in strumenti finanziari o altri beni. In Italia la disciplina degli organismi di investimento collettivo, eccezion fatta per i fondi pensione, è confluita nel TUF del 1998. L’attuale disciplina riserva alla società di gestione del risparmio (Sgr) ed alle Sicav la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio. Tale è il servizio che si realizza attraverso lo svolgimento anche di una sola delle seguenti attività: 1) La promozione, istituzione ed organizzazione di fondi comuni di investimento e l’amministrazione dei rapporti con i partecipanti; 2) La gestione del patrimonio di fondi comuni di investimento o di Sicav, di propria o di altrui istituzione, mediante l’investimento avente ad oggetto strumenti finanziari, crediti o altri beni mobili o immobili. Il TUF si limita a fissare i punti fondamentali della disciplina base comune a tutti i fondi. Rinvia invece alla normativa regolamentare del MEF la definizione di una serie di ulteriori profili normativi. I FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO. STRUTTURA. TIPOLOGIA  La legge delinea per i fondi comuni di investimento una complessa struttura organizzativa, ispirata dalla finalità di tutelare i risparmiatori che optano per tale forma di investimento collettivo. Profili fondamentali: a) Il fondo comune di investimento è un fondo istituito e gestito nell’interesse dei partecipanti da società specializzate in tale attività e dotate di specifici requisiti (società di gestione del risparmio - SGR); b) Il fondo comune è un patrimonio autonomo di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte; c) Le somme versate dai partecipanti sono investite dalla società di gestione in strumenti finanziari, crediti o altri beni mobili o immobili, secondo quanto specificato da un apposito regolamento del fondo; d) Gli strumenti finanziari e le disponibilità liquide sono custoditi presso una banca (banca depositaria), che provvede anche ad eseguire le operazioni decise dalla società di gestione; e) Le quote di partecipazione al fondo sono tutte di uguale valore e attribuiscono uguali diritti; f) La gestione del fondo è sottoposta ad una serie articolata di controlli affidati a soggetti diversi: banca depositaria, revisore legale dei conti, Banca d’Italia e Consob. L’attuale disciplina rimette integralmente alla normativa regolamentare del MEF e della Banca d’Italia (regolamento 2012) l’individuazione dei tipi di fondi consentiti. Al riguardo la distinzione di base è quella fra fondi aperti e fondi chiusi: - Nei fondi aperti, che sono i più diffusi, gli investitori possono sottoscrivere in ogni momento quote del fondo, il cui ammontare non è perciò predeterminato al momento della sua istituzione. Nel contempo, i partecipanti hanno diritto di chiedere, in ogni momento, il rimborso delle quote secondo le modalità previste dalle regole di funzionamento del fondo. Per far fronte alle continue richieste di rimborso, il patrimonio dei fondi aperti può essere investito esclusivamente in strumenti finanziari quotati e non quotati e in depositi bancari di denaro (fondi mobiliari), col rispetto dei limiti e dei criteri fissati della Banca d’Italia. I fondi aperti sono poi distinti in fondi armonizzati e fondi non armonizzati . o Il patrimonio dei fondi aperti armonizzati è investito esclusivamente in strumenti finanziari previsti dalle direttive comunitarie in materia e con l’osservanza dei criteri e dei limiti stabiliti in attuazione delle stesse. Le loro quote possono essere perciò commercializzate nel territorio dell’Unione europea in regime di mutuo riconoscimento. o I fondi aperti non armonizzati sono quelli che non si conformano alle direttive comunitarie in materia, restando assoggettati solo alla più permissiva normativa regolamentare nazionale. Non possono perciò godere del mutuo riconoscimento.  Ad esempio, a differenza dei fondi armonizzati i fondi non armonizzati possono investire, sia pure entro determinati limiti, in fondi speculativi.  Per le esigenze di liquidità che li caratterizzano, i fondi aperti non consentono di convogliare il risparmio verso l’investimento in imprese societarie non quotate i cui titoli (azioni e obbligazioni) non sono di pronto e facile realizzo, né verso l’investimento in immobili perché si tratta di investimenti che per essere redditizi richiedono un immobilizzo delle somme impiegate per un periodo di tempo più o meno lungo. 96 - Da qui l’origine dei fondi di investimento chiusi, che si caratterizzano per il fatto che i partecipanti non hanno la libertà di entrata e di uscita propria dei fondi aperti. L’ammontare del fondo è infatti predeterminato al momento della sua istituzione e deve essere raccolto mediante una o più emissioni di quote di partecipazione che devono essere sottoscritte entro il termine massimo di 24 mesi. Nel contempo, il diritto di rimborso delle quote viene riconosciuto ai partecipanti solo a scadenze predeterminate. I fondi chiusi non possono comunque avere durata superiore a 50 anni, prorogabile per non più di altri 3 per consentire lo smobilizzo degli investimenti. È obbligatorio adottare la forma del fondo chiuso quando il patrimonio è investito in: a) Beni immobili, diritti reali immobiliari, partecipazioni in società e fondi immobiliari; b) Crediti e titoli rappresentativi di crediti; c) Altri beni, diversi dai precedenti e dagli strumenti finanziari, per i quali tuttavia esiste un mercato ed avviano un valore determinabile con certezza, con periodicità almeno semestrale. La forma del fondo chiuso è inoltre obbligatoria quando il patrimonio è investito in misura superiore al 10% in strumenti finanziari non quotati diversi da quote di altri organismi di investimento collettivo. A differenza dei fondi aperti, l’organizzazione dei fondi chiusi prevede la costituzione di un’assemblea dei partecipanti, per deliberare con valore vincolante sulle eventuali modifiche delle politiche di gestione proposte dalla società di gestione. L’assemblea delibera a maggioranza assoluta e con il voto favorevole di tanti partecipanti che rappresentino almeno il 30 % del valore delle quote in circolazione.  IN DEFINITIVA, si tratta di uno strumento di investimento che, per i lunghi tempi di realizzo e per gli elevati rischi, appare poco adatto ai piccoli risparmiatori, sicché dovrebbero essere soprattutto gli investitori istituzionali a partecipare a questo tipo di fondi. Ma l’istituto ha avuto fin qui limitato successo. La normativa regolamentare prevede tre particolari categorie di fondi aperti o chiusi: i fondi riservati, i fondi speculativi e i fondi garantiti. o I fondi riservati sono fondi ai quali possono partecipare solo investitori qualificati, individuati dalla stessa normativa regolamentare. La particolare esperienza che caratterizza gli investitori consente di prevedere per tali fondi criteri di gestione che si discostano dalle regole prudenziali fissate in via generale dalla Banca d’Italia, fermo restando però che i beni oggetto dell’investimento possono essere solo quelli previsti per la generalità dei fondi. o Anche quest’ultima limitazione cade invece nei fondi speculativi. Risulta, così, ulteriormente accentuata la rischiosità del relativo investimento. Perciò, tali fondi, a differenza di quelli riservati, non possono essere oggetto di offerta pubblica (ma non sono riservati a investitori qualificati); inoltre, per scoraggiare l’investimento da parte dei piccoli risparmiatori, l’ammontare minimo della sottoscrizione iniziale è particolarmente elevato (500 mila euro). o All’opposto, i fondi garantiti sono fondi che si attengono alle regole prudenziali di gestione fissate dalla Banca d’Italia e garantiscono la restituzione del capitale investito e/o riconoscono un rendimento minimo, mediante la stipula di apposite convenzioni con una banca, un’assicurazione, imprese di investimento o intermediari finanziari soggetti a vigilanza prudenziale. Si tratta pertanto di fondi destinati ad investitori con bassa propensione al rischio, disposti a sopportare il costo della garanzia con un minore redditività dei propri investimenti. ISTITUZIONE DEL FONDO. PARTECIPANTI  L’iniziativa per l’istituzione dei fondi comuni di investimento è riservata alla SOCIETÀ DI GESTIONE DEL RISPARMIO (SGR). Tali società devono essere costituite in forma di società per azioni e sono assoggettate ad una disciplina speciale che sostanzialmente coincide con quella prevista per le Società di intermediazione mobiliare (Sim). Le società di gestione del risparmio rispondenti ai requisiti fissati per legge devono essere preventivamente autorizzate allo svolgimento dell’attività dalla Banca d’Italia, sentita la Consob. Le società autorizzate sono iscritte in apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia e sottoposte alla vigilanza della stessa e della Consob. In base all’attuale disciplina le società di gestione del risparmio, oltre a promuovere e gestire fondi propri, possono anche: a) Prestare il servizio di gestione di portafogli di investimento; b) Prestare attività di consulenza in materia di investimenti; c) Istituire e gestire fondi pensione; d) Commercializzare fondi di terzi o azioni di società di investimento di 97
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