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E. Gilson, La filosofia nel Medioevo, Appunti di Filosofia

Dettaglio molto dettagliato ed accurato, diviso per capitoli ed epoche storiche del manuale più bello e utile sulla filosofia medievale. Utilissimo!

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 11/06/2020

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____matilde 🇮🇹

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Scarica E. Gilson, La filosofia nel Medioevo e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! Etienne Gilson La filosofia nel Medioevo Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo CAPITOLO I: I padri greci e la filosofia Contrapposizione philosophi e sancti La filosofia viene considerata con il signigicato di "sapienza pagana". Atteggiamento diverso dei cristiani nei confronti della filosofia: -alcuni la considerano come una sorta di preparazione, come un lungo percorso di ricerca che culmina soltanto nel cristianesimo (non c'è netta condanna); -altri assumevano un atteggiamento assolutamente negativo di fronte a dottrine che non destavano in loro alcun interesse. 1.I Padri apologisti Fin dal II secolo dell'era cristiana compaiono i Padri apologisti o Apologeti, così chiamati perché le loro principali opere erano delle apologie: apologia è propriamente un'arringa giuridica e in realtà queste opere sono delle arringhe per ottenere dagli imperatori romani il riconoscimento del diritto legale dei Cristiani a vivere in un impero ufficialmente pagano. Le due apologie più antiche sono quelle datate al 125 d.C. Quella di Quadrato non ci è pervenuta, ma pare che essa abbia fatto riferimento ai miracoli di Cristo senza alcuna allusione filosofica. Quella di Aristide, invece, ha una tesi filosofica manifesta. Partendo dalla considerazione dell'insieme delle cose e dall'ordine che vi si osserva, Aristide nota che ogni movimento regolato che regna nell'universo obbedisce ad una certa necessità. Tradizione "giudaico-cristiana", fonte di riferimento Antico Testamento: Dio unico e che crea dal nulla. Tratto comune anche con il pastore di Erma, 140-145, anonimo--> creazione ex nihilo. L'opera di San Giustino martire è contemporanea al pastore di Erma. Nato a Flavia Neapolis (Nabulus) da genitori pagani, Giustino si convertì al cristianesimo prima dell'anno 123 e fu martirizzato a Roma al tempo del prefetto di Giunio Rustico. • Apologia I--> indirizzata all'imperatore Adriano • Apologia II --> " " " Marco Aurelio • Dialogus cum Tryphone Nella discussione greca erano tante le influenze della ragione Nel Dialogus, San Giustino riassume quello che fu il suo percorso: dapprima egli si avvicino agli stoici, successivamente ai peripatetici ed, infine, ai platonici. Così, credette di poter vedere Dio. Istituzioni di storia della filosofia medievale, manuale di Étienne Gilson; I. I Padri greci e la filosofia 1. 1 Padri apologisti La filosofia compare nella storia del cristianesimo soltanto nel momento in cui alcuni Cristiani prendono posizione nei suoi riguardi, sia per condannarla, sia per assorbirla nella nuova religione. Fondamentale contrapposizione tra philosophi e sancti. Alcuni uomini istruiti condannarono senza alcun interesse le dottrine pagane, altri invece videro i pensatori pagani dei secoli passati come già impegnati sulla via di cui il cristianesimo aveva rivelato il termine. Padri apologisti: manca nonostante le testimonianze l’apologia di Quadrato, si conserva invece quella di Aristide (125), il cui rimando filosofico è piuttosto evidente (necessità ordinatrice di Dio immobile, incomprensibile e innominabile; gli astri e gli elementi non sono divinità). La visione cristiana dell’universo è dunque fissata nelle sue grandi linee fin dal II secolo; concetto di un Dio unico creatore dell’universo che ne è il tratto dominante. • San Giustino Martire, Apologia I, Apologia II, Dialogus cum Tryphone; la filosofia era ciò che ci conduce verso Dio e a lui ci riunisce. Trovò interesse filosofico presso i discepoli di Platone. Incontro con un vegliardo che fece innamorare Giustino dei testi sacri della cristianità. Il cristianesimo offriva una soluzione nuova dei problemi che i filosofi stessi avevano posto. I cristiani iniziarono a potersi definire filosofi in quanto cristiani. Problema della rivelazione prima della venuta di Cristo: c’è una rivelazione universale del Verbo divino, anteriore al momento in cui il Verbo si è fatto carne. (Riprendendo la terminologia stoica scrive che il Verbo era presente in forma di ragione seminale). Dunque ci sono stati dei cristiani e degli anti-cristiani anche prima di Cristo. In questo modo il cristianesimo può assumere la responsabilità di tutta la storia, ma ne pretende anche il vantaggio. “Tutto ciò che è stato detto di vero ci appartiene.” Questo divenne l’uso della filosofia greca: in quanto hanno pensato il verbo, hanno posseduto i germi di questa verità. Separazione tra Dio padre e Verbo, che Giustino tenta di spiegare tramite similitudini quali quella di un fuoco che ne accende un altro senza diminuirsi e del pensiero che si esprime in parola. Il Verbo appare così subordinato al padre. È poco definita l’entità dello spirito santo. L’anima è l’elemento fondamentale che Giustino prende in considerazione nell’uomo, anima che non è vita ma la riceve da Dio. Sostiene la punizione o premiazione dell’anima a seconda dei meriti. Questo perché la sua volontà è libera. Giustino si presenta come il primo di coloro per i quali la rivelazione cristiana è il punto culminante di una rivelazione più ampia, dal momento che ogni rivelazione viene dal Verbo. • Taziano, Oratio a Graecos, 166-171: antenato di quei pensatori il cui cristianesimo, ripiegato su se stesso, è più pronto a escludere che curioso di assimilare. Fu discepolo di Giustino, ma ne mutò sensibilmente i contenuti; Taziano si avvicinò sempre di più ad una sorta di gnosticismo, fino ad aderire nel 172 alla gnosi di Valentino. Restaurò la setta degli Encratiti, dal rigorismo morale molto forte. L’orazione di Taziano sostiene i diritti dei barbari, ovvero dei cristiani, di fronte alla cultura ellenica; i Greci hanno attinto dalla Bibbia parecchie delle loro idee filosofiche; (nonostante la minima pregnanza che conserva questa argomentazione è importante notare come vi fosse da parte dei primi pensatori cristiani una chiara coscienza di una comune sfera di problemi tra filosofi ellenici e cristiani). Insiste molto anche sulle contraddizioni dei filosofi. Il Dio di Taziano è unico e invisibile agli occhi degli uomini, puro spirito. Egli è principio di tutto ciò che esiste; Dio non ha causa ma tutto il resto ne ha una e questa causa è Dio; non causa la materia come immanente ad essa, ma la domina; lo spirito immanente al mondo non può essere che un elemento subordinato a Dio; poiché tutto deve a Dio il proprio essere, noi possiamo conoscere il creatore partendo dalla creatura. Il Verbo divino non si disperse nel vuoto come le parole che noi pronunciamo, ma una volta proferito, egli rimase e sussistette come essere reale. Dio ha operato a titolo di demiurgo. Le prime creature sono gli angeli che non possiedono il bene per essenza ma lo realizzano con la loro volontà. Forte opposizione alla nozione di necessità propria dello stoicismo. Divisione dell’anima in psyche e pneuma; nella seconda risiede la somiglianza con Dio. È difficile comprendere la nozione di immortalità dell’anima; non si capisce come Taziano inquadri questa problematica: sicuramente non si configura in maniera analoga all’immortalità dell’anima platonica; ciò significa che l’integrazione della dottrina platonica dell’immortalità dell’anima, integrata successivamente con la dottrina cristiana, non si è imposta come necessaria al pensiero dei primi cristiani. Ciò che è importante per i Cristiani è che la possibile immortalità dell’anima non sia in alcun caso indipendente dalla volontà divina; l’anima in sé Innanzitutto Dio è il vero creatore del mondo, per quanto gli gnostici tentino di moltiplicarne gli intermediari, dipenderanno sempre da Lui. La ragione inoltre si riconosceva molto meno nel sapere degli gnostici, che in una rivelazione che non si offriva che come oggetto di fede; dunque l’intelligenza era dalla parte della fede. Vengono posti così alcuni dei temi fondamentali della filosofia del medioevo: Dio ha creato ex nihilo l’universo attraverso il Verbo; lo ha creato per Bontà e dunque l’universo è nato dal bene (ottimismo cristiano, contro le teorie gnostiche). L’uomo è direttamente e totalmente creato da Dio e di conseguenza è buono; in quanto creato non è perfetto ed è anche esposto a decadere. In compenso può avvicinarsi progressivamente al grado di perfezione che gli è accessibile. Uomo naturalmente inteso come unione di anima e corpo. Ogni anima sopravvive alla morte del corpo. Facoltà fondamentali dell’anima sono l’Intelletto e il libero arbitrio. Uomo fatto a immagine e somiglianza del creatore. Riguardo alla fine del mondo egli vide la venuta dell’Anticristo, il cui numero è 666; esso devasterà il mondo intero, regnerà nel Tempio tre anni e tre mesi, finché non vi sarà il giudizio ultimo e la fine del mondo, quando il mondo avrà raggiunto i 6000 anni. 3. La scuola di Alessandria Alessandria nel III secolo dopo Cristo era il centro culturale più importante dell’impero; i romani non avevano soppresso i culti egiziani, ma si erano semplicemente affiancati ad essi. Forte era l’influenza ebraica, soprattutto a seguito della figura di Filone. Sebbene in circostanze non chiare, esisteva ad Alessandria una comunità cristiana e addirittura una scuola, il cui maestro fu prima Panteno. • Clemente di Alessandria (150-215), Esortazione ai Greci, Paedagogus, Stromata; allievo di Panteno; l’Esortazione riprende numerosi temi già affrontati da Giustino, Taziano e Antenagora, soffermandosi con maggior attenzione sull’assurdità del culto pagano, messo in discussione da molti prima dei cristiani, che appunto auspicavano la necessità di un culto più spirituale dell’idolatria. Una volta che il pagano si è convertito sarà necessario che questo sia educato nel nome del Verbo; questo è il compito del Paedagogus, in cui si insegna la retta vita a tutti gli uomini, senza distinzione, quindi in forte polemica con la tesi gnostica di un’aristocrazia della salvezza. Secondo Clemente infatti non occorre niente di più che la fede, in quanto la fede è in sé piena e perfetta. Nel nome della divinità unica che è Dio, bontà e giustizia vengono a coincidere in quell’unico fine che deve essere la vita dell’uomo. Il vero ricco è colui che si riscopre simile a Dio, in quanto possiede tesori dell’anima che non possono essergli tolti. Il cristianesimo insegna ai suoi poveri che essi sono ricchi come i più ricchi; la ricchezza è interiore, quindi comprende un distacco dal mondo che ha come motivo l’amore di Dio. Molti membri della comunità alessandrina accusarono Clemente del pericolo in cui si incorreva nella speculazione filosofica nei confronti della vera e nuda fede; apparve dunque necessario a Clemente opporre un tentativo di conciliazione della fede e della filosofia, come si può leggere negli Stromata. Così come Dio ha concesso ai musicisti l’udito più fine e agli artigiani il tatto più sensibile, ha fornito i filosofi dell’intelligenza per comprendere le cose del mondo e il loro senso. Così come il Nuovo Testamento viene ad integrare il vecchio piuttosto che a porsi in antitesi ad esso, la filosofia dei greci appare a Clemente come un mezzo indiretto, dunque non rivelato, per prepararsi a ricevere il cristianesimo. Tutta la storia della conoscenza umana assomiglia al corso di due fiumi, la Legge ebraica e la filosofia greca, alla cui confluenza fiorirebbe il cristianesimo, come una fonte nuova che trascina nel suo corso le acque che vengono a ingrossarla da più lontano. La sapienza è dunque la padrona della filosofia come la filosofia lo è delle discipline che la precedono. [Metafora di Abramo (il giusto), Sara (la Sapienza) e Agar (filosofia)]. Il termine filosofia non designa nessuna dottrina particolare, le quali anzi hanno solamente spezzato la verità, ma piuttosto l’insegnamento della giustizia e della pietà. La filosofia sarebbe dunque una specie di eclettismo orientato dalla fede, padrona della filosofia. La dottrina di Gesù Cristo è sufficiente per salvarci, ma la filosofia può aiutare a condurre ad essa gli uomini e ad approfondirne il senso una volta che l’abbiano accettata. • Origene (184-221): nato probabilmente ad Alessandria, si istruì presso Clemente di Alessandria e anche presso Ammonio Sacca, maestro di Plotino. Una delle opere fondamentali che ci sono rimaste, sebbene in traduzione, è il trattato De principiis (Dio, mondo, uomo, rivelazione). Si rivolge principalmente ai fedeli, in quanto è necessario convenire sul giusto significato della parola di Cristo che i cristiani riconoscono, ma che non sempre interpretano in maniera corretta. Fondamentale è la distinzione all’interno dei fedeli tra coloro che hanno ricevuto solamente la fede, comune a tutti i cristiani, e coloro i quali hanno avuto in dono dallo Spirito Santo la Scienza e la Sapienza. Dio è uno, semplice, ineffabile e perfetto. La sua natura è immateriale, poiché ciò che è perfetto è immutabile e l’immutabile è immateriale per definizione. Sostiene l’unità della trinità sebbene non sia chiaro il rapporto tra i vari elementi; infatti, per quanto il Verbo appaia subordinato al Padre nella creazione, Origene sostiene la co-eternità assoluta col Padre di un Verbo increato che di conseguenza è Dio come il Padre. Forte è l’influenza di Plotino e Ammonio Sacca (soprattutto nella tesi di generazione di altri Verbi). Dio ha creato il mondo dal nulla attraverso il Verbo; la sua bontà ha voluto produrre il mondo secondo la sua sapienza, e la sua potenza l’ha prodotto fin nella materia stessa. Il mondo dunque è stato creato dall’eternità, cioè è stato eternamente suscitato all’essere dall’onnipotenza di Dio; tuttavia il nostro mondo non è né il primo né l’ultimo. Questo mondo creato dal Padre è una manifestazione del Verbo, compreso nel Padre, Verbo che conosce tutto ciò che il Padre è. Gli spiriti furono creati simili tra di loro, ma dotati di libero arbitrio e a seconda del loro diverso grado di fedeltà verso Dio sono posti in una gerarchia degli spiriti. Le anime umane sono imprigionate nei loro corpi in conseguenza della loro diserzione iniziale, ma come in Platone e Plotino, esse possono compiere uno sforzo per liberarsi dalla loro prigione e recuperare la loro prima condizione. Infatti esse non sono originariamente anime, ma puri spiriti. La loro immaterialità è evidente dal fatto che sono capaci di una conoscenza intellettuale, il cui oggetto stesso è immateriale. Come fu causa inziale della sua caduta, il libero arbitrio è l’agente principale del suo risollevamento: la possibilità di non scegliere Dio è correlativa a quella di sceglierlo. Nell’anima rimane sempre il ricordo della sua esistenza precedente, che appunto conserva la sua somiglianza a Dio. Ogni uomo è aiutato in questa impresa di purificazione dalla grazia di Cristo. Se la dottrina di Origene sembra assomigliare nel suo andamento ad una cosmogonia gnostica, ne differisce fondamentalmente per l’ottimismo cristiano che la ispira; infatti il mondo non è l’opera di un demiurgo inferiore che lavora su una materia cattiva, ma Dio ha creato il mondo ex nihilo. Quando il male avrà raggiunto il limite, il mondo sarà distrutto da un diluvio di acqua o di fuoco; questa continua nuova formazione segna un progresso che si compie di mondo in mondo verso un’inesorabile eliminazione del male. 4. I grandi di Cappadocia e Teodoreto Concilio di Nicea (325), riunito per risolvere la controversia trinitaria scatenata da Ario (La chiesa sostiene che il Verbo sia generato dalla stessa sostanza del Padre e quindi consustanziale); successivamente i teologi sembrano più diffidenti alle speculazioni filosofiche di quelli che li avevano preceduti. Tuttavia rimane di fondamentale importanza la cultura filosofica greca. (Tra i nomi più importanti di questo periodo si trova Eusebio di Cesarea il quale tenta di ritrovare una continuità tra la cultura classica, soprattutto un Platone influenzato dalla lettura di Plotino, e la religione cristiana). • Eunomio (pensatore ariano, morto verso il 395): Dio è unico, concepito come essenza, sostanza e realtà; assolutamente semplice, è caratterizzato dalla necessità di essere e dunque non generato né divenuto, innascibile. Da qui deriva naturalmente che il Verbo, il Figlio, essendo generato, è completamente dissimile e assolutamente non consustanziale al Padre. Molto attento al rigore logico. • Gregorio di Nazianzo (329-389): studiò presso la scuola Cesarea di Cappadocia, fondata da Origene. In un tempo in cui la filosofia invade tutto, egli si è accontentato di attingere alle fonti della fede. Il vero rimedio è ritornare ai costumi e alla fede dei cristiani, alla semplicità della fede.ma ciò non significa che lo stesso Gregorio rinunci a filosofare, ma è necessario farlo con moderazione, dopo essersi istruiti sulla Scrittura. Infatti se Dio è incomprensibile, la nostra sola possibilità di conoscerlo è di informarci dapprima su ciò che Dio stesso ci dice di sé; l’esistenza di Dio può essere conosciuta a partire dall’ordine del mondo la cui esistenza e disposizione presuppongono necessariamente un logos. Benché si possa conoscere l’esistenza di Dio, non si può sapere cosa Egli sia; questo segreto che ci avvolge ci insegna l’umiltà e al tempo stesso ci incita alla ricerca. Il corpo dell’uomo si interpone tra la sua anima e Dio. Immagini sensibili si mescolano inevitabilmente ai concetti che di lui noi ci formiamo, e ci rendono impossibile il concepirlo quale è. Dio non è corpo né etere in quanto è assolutamente semplice; non è nemmeno luce, sapienza, giustizia e ragione per come noi li possiamo intendere. Dio è “un oceano di realtà infinita e senza limiti, completamente affrancato dalla natura e dal tempo.” Tutte queste nozioni che appaiono piuttosto note per l’importanza e lo sviluppo che ebbero nel corso della filosofia medievale erano formulate per la prima volta in maniera completa e comprensibile da Gregorio. Il tentativo di Eunomio di ricondurre le spiegazioni riguardo alla natura di Dio e alla generazione del figlio sembrano a Gregorio un triste tentativo di ridurre il mistero divino alla mera logica. • San Basilio (330-379) condiscepolo di Gregorio di Nazianzo. Problematizzava l’educazione dei giovani cristiani, che non dovevano prescindere dai testi classici, ricchi di esempi, che quindi avrebbero aiutato il cristiano a coltivare la propria anima e a liberarci del corpo. Si oppone ad Eunomio nell’Adversus Eunomium: si ammette che Di è una sostanza ingenerata, ma non che “l’ingenerato” o “l’innascibile” sia la sostanza stessa di Dio. Questo nome puramente privativo non può designare convenientemente la pienezza positiva dell’essenza divina. Inoltre benché nessun nome designi Dio sufficientemente, ciascuno di essi significa sia che Dio non è una certa cosa, sia che egli ne è positivamente un’altra. Il nome che meglio conviene a Dio è quello di ousia, che non si può in nessun modo annoverare tra le negazioni. Non si può dunque partire dall’innascibile come attributo primario di Dio; dunque l’argomentazione ariana sulla generazione del Verbo non è cogente. Nelle nove Omelie sull’Hexameron compie essenzialmente un commento dei capitoli della Genesi che raccontano la creazione del testo sacro per sviluppare le sue vedute filosofiche. La natura per Basilio è l’opera di Dio; l’ha creata nel tempo, creando allo stesso tempo il tempo. Non bisogna inoltre immaginare una specie di materia primitiva comune, da cui Dio avrebbe plasmato tutti gli esseri. Non dobbiamo cercare qualcosa che preso in se stesso sarebbe senza natura e senza proprietà. Pensiamo invece che tutto ciò che si può osservare in una cosa contribuisce a costituire la sua essenza e a conferirle la sua perfezione. Se da noi eliminiamo tutte le proprietà nella speranza di raggiungere la materia arriviamo infine al nulla. Quindi vi è una critica al concetto di materia prima. In principio i quattro elementi erano mescolati, ma ciascuno di essi ha raggiunto il suo luogo naturale; essi non ci si presentano mai nella loro purezza originale. La concordia e armonia degli elementi rende possibili le loro combinazioni che costituiscono la struttura stessa dell’ordine universale. • San Gregorio di Nissa (335-395); allievo di San Basilio. De hominis opificio: l’universo si divide in due zone, quella del mondo visibile e quella del mondo invisibile. L’uomo appartiene col corpo al mondo visibile, con l’anima al mondo invisibile; contiene in sé tutti i gradi della vita. È fondamentale per Gregorio spiegare l’unione tra anima e corpo: anima come principio animatore del corpo; l’anima dell’uomo è dunque una sostanza creata, vivente e dotata di ragione, che per se stessa conferisce vita e sensibilità ad un corpo organizzato. Gregorio respinge la preesistenza dell’anima al corpo, tesi oreginiana, il cui inevitabile corollario è quello della trasmigrazione delle anime. Bisogna comunque che il corpo e l’anima siano creati da Dio simultaneamente. Inoltre giacché il corpo vivente in tutte le sue parti, l’anima gli è contemporaneamente presente dappertutto. Se si vuole conoscere la natura di Dio, bisogna partire dalla creazione e dalla creatura, quindi dall’uomo. Noi possediamo un verbo (logos), • Sant’Ambrogio (333-397): aveva studiato Filone e Origene, senza che si sia fatto trascinare in alcun tipo di approfondimento metafisico; quanto si può ricavare di nozioni filosofiche resta come incrostato nella formula del dogma. Carattere neoplatoniche di alcune delle nozioni che egli prende a prestito. (Essere identificato con l’essere sempre). Molto importante è il simbolismo morale degli animali, assente invece nell’esegesi di San Basilio. 2. Il platonismo latino del IV secolo Il IV secolo ha visto nascere due scritti dei quali si deve tener conto per capire il linguaggio dei platonici di Chartres nel XII secolo. • Macrobio, Commento al Somnium Scipionis; si richiama a Platone e Plotino; pone il Bene come causa prima e come sommità della scala degli esseri; vi è poi l’Intelligenza, che contiene in sé gli esemplari di tutte le cose, le idee. L’intelligenza, volgendosi verso se stessa produce l’Anima. Sia l’Intelligenza che l’Anima mantengono la propria unità, per quanto l’una contenga in sé la molteplicità delle idee, l’altra si diffonda nell’universo. La mantengono in quanto principio e quindi non come numero possibile della molteplicità, ma come fonte e origine di tutti i numeri. Così come le idee e i numeri sono contenute nell’unità dell’Intelligenza, così le anime sono mantenute nell’Anima; alcune di esse non se ne distaccano mai, ma ce ne sono altre che il desiderio dei corpi della vita terrestre distolgono dalla contemplazione delle realtà superiori, lasciandosi imprigionare nei corpi, che reca alla dimenticanza della propria origine. Al fine di ritrovare questo principio unitario è necessario un atto di reminiscenza, che Macrobio riprende chiaramente da Platone. Per quanto sia ormai lontana dalla sua fonte, l’anima umana non ne è tuttavia separata; conserva una conoscenza innata del divino e il mezzo per riunirsi ad esso è l’esercizio delle virtù. (Virtù politiche, Virtù purificatrici, Virtù di pensiero, Virtù esemplari). Macrobio riprende la definizione platonica di anima, anche perché se si ammette che l’anima è un’essenza semovente, non si vede alcuna ragione per cui debba mai cessare di agire, né di esistere. • Calcidio, Commento al Timeo; si distinguono tre principi primi: Dio, la materia e l’idea; (importante è l’adozione del termine silva per materia). Quindi al di sopra di tutto e di ogni comprensione vi è Dio, come bene sovrano; poi vi è la provvidenza (Intelletto o Nous), la cui perfezione ricava direttamente da Dio. Dalla provvidenza dipende poi il Destino (fatum), legge divina dalla quale sono retti tutti gli esseri. Altre potenze subordinate alla provvidenza sono la Natura, la Fortuna, il Caso, gli Angeli. Il mondo è l’opera di Dio; dunque Dio ne è principio causale ma no principio temporale. Soltanto Dio con il mondo intellegibile che porta in sé, è eterno. Esistono dunque due tipi di esseri: i modelli (exempla, intellegibili) e le copie (simulacra, mondo sensibile). Il modello può essere anche chiamato Idea: è una sostanza incorporea, senza colore, senza forma, impalpabile, comprensibile col solo intelletto e la sola ragione, causa degli esseri che partecipano della somiglianza con lei. Il mondo sensibile si può definire eterno solo in virtù del fatto che Dio pensa eternamente le idee, di cui il mondo sensibile riproduce perpetuamente l’immagine nel corso del tempo. Dunque all’origine della materia si trova il caos (per Calcidio silva). I sensibili sono mutevoli, temporali, percettibili con i sensi e si prestano soltanto a delle opinioni; gli intellegibili sono immutabili e quindi oggetto della scienza propriamente detta. Il metodo analitico, che risale dal sensibile alle sue condizioni, è quindi del tutto adatto per stabilire l’esistenza della materia. La materia presa in se stessa è senza qualità, semplice e per questo è un principio; la materia è sempre esistita. Essa è passiva, pura potenzialità. Tra la materia e le idee, o forme, si trova il mondo delle cose generato nella materia dalle idee. Queste cose vengono chiamate species nativae, formae nativae (la scuola di Chartres adotterà il termine forma). L’idea dunque esiste sotto due aspetti: in sé, come forma prima e nelle cose come forma nata dall’idea eterna. Ai gradi dell’essere corrispondono gradi della conoscenza: intellegibili – scienza; forma nativa – opinione (sensibile); materia – non conoscibile. Secondo Calcidio la vera natura dell’anima non è di essere una forma nativa, cosa che la farebbe essere un intermediario tra idea e materia e quindi un semplice accidente del corpo, ma è una sostanza spirituale dotata di ragione. • Mario Vittorino (300-363): (autore della traduzione latina delle Enneadi probabilmente letta da Agostino); suo obiettivo polemico è un’opera dell’ariano Candido, il quale poneva in evidenza le contraddizioni insormontabili che derivano nel rapporto di generazione di un Dio, da un altro Dio, Dio però ingenerato e immutabile. Infatti porre Dio come assoluta semplicità dell’essere è escludere da lui ogni possibilità di composizione, di divenire e generazione. Dunque il Verbo è la prima e principale opera di Dio, ma non è una generazione. Vittorino risponde nel trattato Sulla generazione del Verbo divino. La sua obiezione ha come presupposto l’identificazione di Dio con l’essere, ma anche con l’Uno. Dio in quanto causa di ogni essere è anteriore anche all’essere (pre-essere). Per quanto riguarda l’essere Vittorino distingue ciò che è veramente (intellectibilia), ciò che è (intellectualia), ciò che non è veramente non essere, ciò che non è. Le ultime due classi non sono concepibili che in rapporto alle prime due. (Gli intellettibili sono le realtà sopracelesti, l’intelletto, l’anima, le virtù, il logos). Dio si trova al di là di queste quattro classi. Dio è non-essere, ma è quel non-essere che, per la sua sola potenza si è manifestato nell’essere. Dunque l’essere era nascosto in lui. E la manifestazione di ciò che è nascosto è ciò che si chiama generazione. L’essere che si nascondeva nel pre-essere. Ciò che Vittorino oppone a Candido è dunque il concetto un Verbo eternamente generato dal Padre, cioè di un essere che scaturisce eternamente dal pre-essere che è il Padre. Il pre-essere di Vittorino non è altro che il principio primo delle Enneadi. Si vede così delineata una fondamentale frattura tra arianesimo e cristianesimo: da una parte si rifiuta il mistero, dall’altra la speculazione che si rinchiude nella fede. • Sant’Agostino (354-430): per la conversione dal manicheismo (pretese di una spiegazione razionale del mondo) al cristianesimo furono fondamentali le prediche di Ambrogio riguardo al senso spirituale nascosto sotto il senso letterale. Per la sua formazione filosofica sono imprescindibili le opere neoplatoniche, in particolare Enneadi nella traduzione di Vittorino. Uno degli elementi fondamentali del pensiero agostiniano è la celebre sentenza: intellige ut credas, crede ut intelligas. Bisogna accettare per fede le verità che Dio rivela, se si vuole in seguito acquisirne qualche intelligenza che sarà l’intelligenza del contenuto della fede accessibile all’uomo. Agostino riprende la definizione di anima da Platone: l’uomo è un’anima che si serve di un corpo. Questo comporta la trascendenza gerarchica dell’anima sul corpo. È quindi difficile stabilire il rapporto tra le sensazioni esterne che sembrano colpire il nostro corpo e la coscienza che se ne ha; per Agostino senza subire niente da parte del corpo, ma invece con la sua attività, l’anima trae dalla sua sostanza un’immagine simile all’oggetto. Le sensazioni sono dunque azioni che l’anima compie, non passioni che essa subisce. Vi è anche il problema della conoscenza: conoscere significa apprendere col pensiero un oggetto che non cambia e che per la sua stessa stabilità può esser tenuto sotto lo sguardo dello spirito. Una verità è tutt’altra cosa dalla constatazione empirica di un fatto. Ma in un certo senso tutte le nostre conoscenze derivano dalle sensazioni. I soli oggetti che noi possiamo concepire sono quelli che abbiamo visto o che possiamo immaginare conformemente ad una percezione precedente. Ma secondo Agostino non sono gli oggetti sensibili ad insegnare quelle stesse verità che li concernono. Per la ragione infatti la necessità del vero non è che il segno della sua trascendenza su di lei. La verità è al di sopra della ragione. C’è dunque nell’uomo qualcosa che supera l’uomo. E poiché è verità, questo qualcosa è una realtà puramente intellegibile, necessaria, immutabile, eterna. È esattamente ciò che chiamiamo Dio. Egli è il sole intelligente alla cui luce la ragione vede l verità; il Maestro interiore che dall’interno risponde alla ragione che lo consulta. La verità è contemporaneamente intima al pensiero e trascendente il pensiero. Dio rimane sempre ineffabile. Egli è l’essere stesso, la realtà piena e totale (essentia). Ciò che cambia infatti non esiste veramente poiché ogni cambiamento comporta una mescolanza di essere e non-essere. Essere veramente significa essere sempre nello stesso modo; Dio è dunque l’essere perché è immutabilità. (vicinanza tra il “Colui che è” dell’Esodo e l’Essere di Platone). Di fondamentale importanza è il fatto che Agostino concepisca la Trinità prima di tutto secondo la natura divina e prosegue fino alle persone; comprende una sola natura divina sussistente in tre persone, al contrario dei greci che vedevano la differenza delle tre persone Padre, Figlio e Spirito Santo come aventi una stessa natura. Deus per lui non significa più direttamente il Padre, ma più generalmente la divinità concepita non come la tale persona in particolare; è Dio- Trinità. Concepisce inoltre la natura di Dio per analogia con l’immagine che di sé stesso il creatore ha lasciato nelle sue opere, in particolare ed eminentemente nell’anima. Paralleli tra uomo e Dio: l’anima è come il padre, e dal suo essere genera l’intelligenza di sé stessa, come il Verbo; il rapporto di questo essere con la sua intelligenza è la vita, come lo Spirito Santo. Altra analogia è quella secondo cui l’anima è dapprima un pensiero da cui sorge una conoscenza con cui essa si esprime e dal suo rapporto con questa conoscenza sorge l’amore che essa ha per sé. È secondo queste immagini che si può affermare che l’uomo sia fatto a immagine e somiglianza di Dio. Conoscere sé stessi significa dunque conoscersi come immagine di Dio. C’è dunque nell’uomo qualcosa di più profondo dell’uomo; ciò che del suo pensiero rimane riposto non è che il segreto inesauribile di Dio stesso. Dio è l’essentia di cui gli altri esseri attestano l’esistenza, l’immutabilità che il cambiamento richiede come causa. La creazione del mondo non consiste nel dispiegare nel tempo la sua opera creatrice; Dio si esprime nel Verbo e contiene eternamente in sé i modelli archetipi di tutti gli esseri possibili, le loro forme intellegibili, le loro leggi ecc. questi modelli eterni sono le idee, increate e consustanziali a Dio, della stessa consustanzialità del Verbo. Ma la creazione di Dio non è progressiva; tutti gli esseri futuri sono stati prodotti fin dall’origine, con la stessa materia, ma sotto forma di germi, che devono svilupparsi nella successione dei tempi, secondo l’ordine e le leggi che Dio stesso ha previsto. Le più nobili creature di Dio sono gli angeli, benché Agostino non sappia se questi abbiano un corpo o meno. L’uomo viene dopo gli angeli in questa gerarchia; è composto di un’anima che si serve del corpo. La materia non è cattiva, ma i rapporti attuali dell’anima col corpo non sono più quelli che erano un tempo e che dovrebbero ancora essere. Il corpo dell’uomo non è la prigione della sua anima, ma lo è diventato per effetto del peccato originale, e lo scopo primo della vita morale è di liberarcene. Il bene è proporzionale all’essere; infatti il male è privazione, è privo di esistenza; ogni cosa è buona per quello che è. Il male si incontra soltanto negli atti delle creature razionali. Questi atti, poiché dipendono da un giudizio della ragione, sono liberi: le colpe morali derivano dunque dal cattivo uso che l’uomo fa del suo libero arbitrio, il quale è la condizione del più grande dei beni: la beatitudine. Tuttavia il peccato originale ha avuto come conseguenza la ribellione del corpo contro l’anima: l’anima fu creata da Dio per reggere il corpo, ma al contrario essa è retta da lui. Nello stato di decadenza in cui si trova, l’anima non si può salvare con le sue sole forze; il libero arbitrio non è sufficiente. Infatti al libero arbitrio è necessaria la grazia per lottare contro gli assalti del peccato. La grazi precede) in noi ogni sforzo efficace per risollevarci. Essa nasce dalla fede, ma la fede stessa è una grazia. La grazia dunque non elimina il libero arbitrio, ma coopera con lui restituendogli l’efficacia per il bene; senza la grazia il libero arbitrio non vorrebbe il bene, o se lo volesse, non potrebbe compierlo. Questo potere di usare bene del libero arbitrio è la reale libertà. Tuttavia la libertà piena non è raggiungibile in questa vita, ma avvicinarcisi è il mezzo per ottenerla dopo la morte. È necessario un movimento verso Dio, un atto conoscitivo dal sensibile verso l’intellegibile, dalla scienza alla sapienza (ratio superior). Nel De civitate Dei Agostino divide i popoli temporali, volti alla ricerca dei beni terreni, e gli uomini che tentano di rivolgersi verso Dio nella ricerca della beatitudine. In questo mondo è impossibile eliminare del tutto la componente temporale, ma gli uomini di tutte le epoche si reclutano in vista del giudizio universale che segnerà la definitiva divisione tra popoli temporali e Città di Dio. Segue poi un’esposizione della storia del mondo, attraversata da un grande mistero, la divina carità incessantemente all’opera per restaurare una creazione guastata dal peccato. • Boezio (470-525): fondamentale contributo allo sviluppo della logica medievale e anche punto di mediazione tra la cultura classica e la cultura medievale; di grande importanza sono stati: il commento all’Isagoge di Porfirio; traduzione e commento delle Categorie di Aristotele; traduzione e commento al De interpretatione; traduzioni di Primi analitici, Secondi analitici, Argomenti sofistici, Topici; altri trattati di logica. supremi, e nel distinguer in seno alla loro unità i generi via via meno universali che vi si trovano contenuti, finché si arriva agli individui, termine inferiore della divisione. L’analisi segue la via inversa; partendo dagli individui e risalendo i gradini discesi con la divisione, essa li raccoglie e li riunisce nell’unità dei generi supremi. Ma la divisione e l’analisi non sono semplicemente dei metodi astratti di decomposizione e composizione delle idee, ma la legge stessa degli esseri. L’universo è una vasta dialettica, retta da un metodo interno che la costringe alle regole che abbiamo appena definito. Il movimento dialettico si impone come vero alla ragione, in quanto è inscritta nelle cose. Si tratta dunque di una divisione della natura e non soltanto della nostra idea della natura. Con la nozione di natura si comprende tutto ciò che è e al tempo stesso tutto ciò che non è. La natura si divide fondamentalmente in queste quattro categorie: 1° la natura che non crea e non è creata; 2° la natura che è creata e crea; 3° la natura che è creata e non crea; 4° la natura che non è creata e non crea; questa divisione è riducibile a due gruppi: Creatore e creatura. La natura che crea e non è creata è Dio, principio delle cose; la natura che non è creata e non crea è sempre Dio nella sua fase di riposo, in quanto ha cessato di creare; la natura creata che crea sono le idee archetipiche, mentre la natura creata che non crea sono le cose create dalle idee. Dio dunque è posto come creatore nella prima divisione e come fine nella quarta. Per quanto riguarda il non essere si può definire tale tutto ciò che non può essere percepito coi sensi o compreso con l’intelletto (rilevanza del Sofista); Eriugena ne distingue cinque tipi: 1° ciò che non è comprensibile e percepibile per l’eccellenza della sua natura, quindi in primo luogo Dio e poi le essenze inafferrabili delle cose; 2° l’affermazione dell’inferiore in quanto negazione e mancanza del superiore, in quanto implica il non essere di ciò che non è; 3° tutto ciò che è ancora in potenza nella forma di ragione seminale; 4° gli esseri soggetti a generazione e corruzione; 5° l’uomo nella misura in cui lo si considera non tanto nella sua somiglianza a Dio, ma nella perdita di questa somiglianza. Rimane comunque di gran lunga più importante la divisione dell’essere, in quanto non si tratta di una semplice divisione logica, ma di una reale divisione della natura. Eriugena tiene a precisare che la natura non è un genere comune alle diverse divisioni dell’essere, né un tutto che si divide in parti. Non si tratta di un genere informe o di un tutto in parti, perché Dio non è il genere della creatura né la creatura la specie del genere Dio. Dio rimane comunque ineffabile e trascendente alle categorie aristoteliche. Si deve prima procedere secondo la teologia affermativa di Dionigi, per cui si devono applicare le categorie a Dio come se avessero valenza su di Lui. In seguito si devono correggere queste formule ricorrendo alla teologia negativa. Affermazione e negazione sono egualmente giustificate, perché è falso che Dio sia qualcosa di ciò che è, perché tutto il resto è molteplice e Dio è l’Uno. Che Dio lo sia o non lo sia, si esprime dicendo che egli è superlativamente tutto ciò che è; Dio è iper-essenziale. Ma anche in questo caso si enuncia una proposizione di forma affermativa, ma di contenuto negativo; perché se si dice che Dio è al di là dell’essenza, senza dire ciò che è, si esprime molto meno ciò che egli è di ciò che egli non è. La seconda divisione riguarda gli esseri creati e creatori, dunque le più nobili delle creature. Questi esseri sono gli archetipi delle cose. Dio ha creato le idee, nell’ambito di un rapporto che rimane quello tra l’Uno e il molteplice. Le idee sono create da Dio nel Verbo e sono coeterne a lui. Tuttavia se esse non hanno mai avuto un inizio quanto alla loro durata, esse hanno sempre avuto un principio del loro essere. Dunque le idee sussistono eternamente nel Verbo, e poiché il Verbo è Dio, cioè unità perfetta, bisogna che le idee siano in lui senza introdurvi altra molteplicità. Gli archetipi ammettono distinzioni e si distribuiscono secondo un ordine soltanto nei loro effetti, non in se stesse. Dio è dunque prima di tutto Bene, poi Essenza, Vita in sé, Ragione, Intelligenza, Virtù, Beatitudine, Verità, Eternità, Amore, Pace etc. Ma quindi gli archetipi in quanto creature gli archetipi sono finiti? Come possono dunque identificarsi col Verbo se finiti? Tuttavia sembra che Eriugena non ponga le idee come creature; inoltre paragona la produzione delle idee nel Verbo alla generazione del Verbo da parte del Padre. Nonostante ciò non si può dire che le idee siano coeterne al Padre, a differenza del Verbo che lo è. Il Verbo è Dio come il Padre, le idee non sono che la partecipazione di Dio. Eriugena pensa il rapporto tre Dio e le idee non tanto nell’ordine di causa ed effetto, ma nell’ordine della conoscenza secondo il rapporto di segno e significato. Il Dio di Eriugena è come un principio che, sapendosi incomprensibile, dispiegherebbe tutta in un colpo la totalità delle sue conseguenze per rivelarsi in esse. Un simile Dio non agisce mai fuori di sé che per manifestarsi; teofania: apparizioni di Dio comprensibili per gli esseri intelligenti; per Dio creare è rivelarsi. Le idee divine, considerate sotto questo aspetto, sono la prima auto-creazione di Dio; Eriugena si rappresenta quindi la natura divina come inconoscibile, non soltanto per noi, ma per se stessa, senza una rivelazione che sia una creazione. Dio è infinito, al di là dell’essere, della natura e dell’essenza; per conoscersi gli è quindi necessario incominciare ad essere. La creazione ne deriva direttamente in sé compiuta; esiste eternamente benché non del tutto coeternamente, finita e compiuta, perché tutti gli esseri sono già prodotti nell’unità delle idee, dove la loro molteplicità è contenuta implicitamente. Tutta la natura riceva una doppia illuminazione: l’illuminazione della grazia (donum) e della natura (datum). Fatta di questa moltitudine di piccoli lampi che sono le cose, la creazione non è che una illuminazione a far vedere Dio. Ogni cosa è quindi essenzialmente un segno, un simbolo in cui Dio si fa conoscere. Questa è la natura del simbolismo medievale. L’insieme delle teofanie che costituisce l’universo si divide in tre mondi: sostanze puramente immateriali (angeli); sostanze visibili e corporee e come punto mediano tra queste due l’uomo, che partecipa all’uno e all’altro. Dio è presente mediante la sua partecipazione. Dire che Dio è la realtà stessa delle cose significa che ogni cosa non è che il dono divino dell’essere stesso che essa è. L’illuminazione segue un ordine gerarchico, che dà via via meno luce e meno essere, dagli angeli all’uomo, dall’uomo ai corpi. La gerarchia è dunque una realtà consacrata, come dice il suo nome; essa è la partecipazione ordinata di tutti gli esseri a Dio. Gli angeli sono le intelligenze che possiedono la massima perfezione possibile alle creature; a differenza dell’uomo hanno una conoscenza immediata. Ogni angelo è il grado teofanico definito da quanto egli riceve di luce e da quanto ne trasmette. Ancor meno dell’angelo, l’uomo è capace di illuminarsi con i propri mezzi. Separandosi da Dio mediante il peccato originale, l’uomo trascinava nella sua caduta l’intero mondo dei corpi. Inoltre poiché tutto è teofania e l’illuminazione si trasmette dall’alto in basso, c’è un momento in cui tutto ciò ce viene dopo l’uomo è già contenuto in lui, nello stato meno perfetto che nell’angelo, ma più perfetto di quanto non sarà in sé. Infatti tutti gli esseri esistono nel pensiero dell’uomo, come tipi intellegibili, più perfettamente che nella materia in cui in seguito si sparpagliano. Ciò che dapprima si trova in un corpo è la sostanza, che non è altro che la sua causa intellegibile, che sussiste eternamente in Dio; considerata in Dio stesso questa ha il titolo di essenza; presa in quanto realizzata in un corpo, essa riceve il nome di forma e genera una natura. L’essenza di un essere dunque ci è inconoscibile per definizione, mentre le nature ci sono comprensibili, perché sono delle essenze incorporate a delle materie sottoposte alle categorie. Gli intellegibili dunque sono conoscibili all’uomo; ciò che non è intellegibile è la mescolanza di questi accidenti, la materia stessa. La materia è concepita come fatta di intellegibili coagulati. L’intero mondo è dunque un’immensa destinazione di essenze, di cui il pensiero creatore fissa una volta per tutte la costituzione ontologica. L’essenza si predica di ciò che in ogni creatura visibile o invisibile non può né aumentare né diminuire, né cambiare. Questa stessa essenza è ciò che prende il nome di natura in quanto essa stessa è generata, localmente e temporalmente, in una materia suscettibile di accidenti, di crescita, di diminuzione e di corruzione. L’essenza è dunque un puro intellegibile che contiene in sé questi due altri intellegibili, quantità e qualità, la cui congiunzione produce la materia oggetto dei nostri sensi. L’uomo non ha voluto conservare la sua posizione intellegibile e Dio, nella sua misericordia, ha dispiegato intorno a noi la fantasmagoria del mondo dei corpi, perché possiamo trovare anche nel sensibile il modo per ritornare a lui; il mondo è organizzato per facilitarne un ritorno. L’anima è una, senza parti, perché essa è interamente intelligenza, interamente ragione, ma caratterizzata da tre diversi processi: il processo più alto è quello che compie come pensiero puro. È un processo di ordine mistico che necessita della grazia; si rivolge dunque interamente verso Dio, al di là delle sensazioni, delle immagini e delle operazioni discorsive del ragionamento. Il secondo processo è quello che compie come ragione: non si eleva al di sopra di sé, ma si volge verso se stessa per formare e legare insieme le nozioni intellegibili delle cose. Come il Dio invisibile in sé si rivela nella sua teofania, il pensiero puro dell’anima, che rimane inconoscibile in sé, si rivela all’anima stessa nelle operazioni della ragione. Il terzo processo presuppone dapprima un’impressione puramente corporea prodotta da un oggetto materiale su uno dei nostri organi sensoriali, in modo che l’anima raccolga questa impressione e formi in sé l’immagine che si chiama sensazione. L’anima resta unica in ciascuna di queste vie; ogni conoscenza è opera dell’intelletto uno e trino. Ciascun movimento esce, sussiste e ritorna in Dio; perché si compia questo ritorno bisogna che si ricomponga questo movimento che ha dispiegato per amore la gerarchia degli esseri. Dapprima questo richiamo si manifesta con una specie di mancanza o di bisogno, l’informitas: un movimento del non essere verso l’essere. Questo ritorno incomincia nel momento di massima dispersione che l’essere umano può raggiungere, la morte. La seconda tappa è la resurrezione dei corpi, effetto della natura e della grazia. L’uomo sarà tale quale sarebbe stato se Dio non avesse previsto la sua caduta. Nella terza tappa il corpo di ciascun individuo si reintegrerà nell’anima da cui è uscito per via di divisione. Una quarta tappa reintegrerà l’anima umana nella sua Causa prima o Idea. Buoni o cattivi, tutti gli uomini ritroveranno inevitabilmente i beni naturali di cui erano stati dotati dal Creatore. Ridiventato pensiero puro l’uomo conseguirà dapprima la scienza plenaria di tutti gli esseri intellegibili nei quali Dio si manifesta; poi s’innalzerà dalla scienza alla sapienza, cioè alla contemplazione della più intima verità che sia accessibile alla creatura; il terzo ed ultimo gradino sarà il perdersi del pensiero puro nella tenebra di questa luce inaccessibile dove sono nascoste le cause di tutto ciò che è. L’intera natura riacquisterà la realtà plenaria, che è la sua realtà intellegibile in Dio. E i dannati? Un inferno materiale non potrà trovare spazio in un universo in cui la materia si è dissolta in intellegibili. Inoltre ammettere che questi castighi possano essere eterni significa ammettere la vittoria definitiva del peccato e del male, in una natura che pure Gesù Cristo ha riscattato col suo sacrificio. Ogni traccia di male dovrà dunque sparire un giorno dalla natura e col riassorbirsi della materia nell’intellegibile, questo risultato sarà ottenuto. La differenza soprannaturale degli eletti e dei riprovati resterà completa in quei pensieri puri che gli uomini saranno diventati. Ciascuno sarà beatificato o dannato nella sua coscienza. La vera beatitudine è la vita eterna, che consiste nel conoscere la verità, il Cristo. IV. La filosofia nel secolo XI 2. Roscellino e il nominalismo • Roscellino (1050-1120); Rappresentante di un gruppo di filosofi per cui l’idea generale non è che un nome, la vera realtà si trova negli individui che costituiscono la specie. Se per un realista l’umanità è una realtà, per il nominalista di reale non ci sono che gli individui umani. Dunque da un lato c’è la realtà fisica del termine stesso, cioè della parola “uomo” presa come flatus vocis; dall’altro ci sono gli individui umani che questa parola ha il compito di significare. Fondamentale è la sua interpretazione treista del dogma della Trinità: come non poteva ammettere che l’umanità fosse una cosa diversa dagli individui umani, così non poteva ammettere che la realtà costituita dalla Trinità non fosse le tre persone distinte che la compongono. La Trinità si compone dunque di tre sostanze distinte, benché esse non abbiano che una sola potenza ed una sola volontà. Questa tesi provocò delle critiche a Roscellino che sembrava mettere in discussione uno dei dogmi fondamentali della Chiesa: Dio uno e trino. • Anselmo d’Aosta o di Canterbury (1033-1109); Vescovo di Canterbury, la sua attività filosofica più intensa coincide con gli anni felici durante i quali insegnò all’abbazia di Bec. Forte è l’influenza del pensiero di Agostino. Opere fondamentali: Monologion, Proslogion, De veritate. Si può dire che con lui il pensiero dell’XI secolo trae la normale conclusione che la controversia tra dialettici e antidialettici doveva ricevere. Secondo Anselmo l’uomo ha a disposizione due fonti di conoscenza: ragione e fede. Contro i dialettici sostiene che bisogna in primo luogo fondarsi saldamente nella fede; non si intende per credere, ma si crede per intendere. L’intelligenza presuppone la fede. Infatti per colui che in primo luogo è saldamente fondato nella fede, non c’è nessun inconveniente a sforzarsi di comprendere razionalmente ciò che egli crede. Bisogna dunque evitare entrambi i difetti che accompagnano gli atteggiamenti filosofici principali dell’XI secolo, dialettici e antidialettici. Comunque, la fiducia di Anselmo nel potere di interpretazione della ragione sembra illimitato: tutto avviene come se si potesse arrivare a capire, se non ciò che si crede, almeno la necessità di crederlo. Anselmo si inserisce in un contesto filosofico e Fondamentali sono i commenti alle opere di Boezio, in particolare al De Trinitate: dapprima si deve distinguere con Gilberto la sostanza dalla sussistenza: un sostante è un individuo esistente attualmente, e di cui si dice che è una sostanza perché sostiene un certo numero di accidenti. Come sostanze, gli individui sono cause e principi degli accidenti che partecipano del loro essere. La sussistenza è semplicemente la proprietà di ciò che, per essere ciò che è, non ha bisogno di accidenti. Così i generi e le specie sono delle sussistenze perché presi in sé stessi non hanno accidenti, ma proprio perché essi non sono il supporto reale di null’altro, non sono sostanze. Poiché per sussistere non hanno nemmeno bisogno dei loro accidenti, tutte le sostanze sono delle sussistenze, ma poiché alcune tra loro non sopportano di fatto alcun accidente, non tutte le sussistenze sono sostanze. Dunque i generi e le specie sono sussistenze ma non sostanze. All’origine delle sostanze sensibili vi sono le idee; queste non sono semplicemente delle sussistenze, ma sono delle sostanze, sostanze pure, che sussistono al di fuori della materia e senza mai mescolarvisi. Le sostanze pure fondamentali sono: fuoco, aria, acqua, terra. Questi sono i modelli ideali degli elementi, semplici in se stessi. Le forme propriamente dette, che sono unite alla materia dei corpi sensibili, sono le copie che vengono dal loro modello per una specie di deduzione che consiste nel conformarvisi. Le forme che sono nei corpi non sono idee, ma immagini di queste sostanze pure ed eterne che sono le idee. Distinzione tra idee divine e forme generate. Per formare gli universali, dobbiamo partire necessariamente da queste forme. In quanto unite alle loro materie, costituiscono delle sostanze individuali, contemporaneamente dei sostanti e dei sussistenti. Prese in se stesse le forme non sono delle sostanze, ma sussistenze in virtù delle quali ci sono delle sostanze (forme sostanziali delle sostanze). Ogni individuo è determinato da una sussistenza generica, da una sussistenza specifica, e dalle sue proprietà sostanziali, che benché siano racchiudibili in una realtà unica, sono separabili dalla ragione umana. Essa considera una forma generata, l’astrae mentalmente dal corpo in cui essa è impegnata, la paragona ad altre forme generate alle quali assomiglia e con le quali costituisce un gruppo, e così consegue la prima sussistenza specifica. Compiendo lo stesso lavoro su di un gruppo di specie simili, si ottiene la sussistenza del genere. Così la ragione trascende tutte le forme generate per raggiungere i loro modelli, le idee prime che sussistono eternamente. Si ravvisa l’influenza della dottrina di Gilberto soprattutto nella persistenza, fino al XIII secolo e oltre, d’una certa tendenza a ridurre gli esseri reali alle loro essenze intellegibili, che sono le loro forme, e a pensarli in questo modo astratto. La distinzione della cosa che è dal principio per il quale essa è ciò che è, risale addirittura a Boezio (id quod est e quo est). Il quo est è l’essere stesso di ciò che è. In un essere assolutamente semplici, come Dio, l’id quod est e il quo est coincidono; per questo Dio è veramente ciò che egli è. Gilberto dunque non fece altro che accentuare la base di platonismo che si poteva in qualche modo trovare nella concezione aristotelica dell’essere. Ogni essere creato è dunque composto. L’essere di una cosa è ciò che la fa essere ciò che essa è; la corporalità è l’essere del corpo, il corpo stesso che sussiste per la corporalità e di cui questa è il principio di sussistenza è ciò che è (stessa cosa per umanità-uomo). L’opera creatrice consiste dunque per Dio nel produrre questa forma (ousia), ad immagine d’una idea divina (umanità, corporalità). L’essere divino sembra quindi trasmettersi alle altre creature conferendo loro l’essere con la loro essenza generica. L’essenza stessa non è, perché essa non è ciò che è, ma ciò per cui la sostanza è. L’essenza non può partecipare di niente, ma è esse nel senso che fa essere. Il quo est di Dio è la sua divinitas, coincidente con la sua essentia. Attribuendo una specie di realtà a ciascuna delle essenze intellegibili concepite dall’intelletto, Gilberto si raffigurava ogni cosa come composta di un soggetto e delle determinazioni astratte, che qualificandola, la fanno essere ciò che è. Si vede così il polimorfismo del platonismo: quello di Dionigi Areopagita, che passa attraverso Giovanni Scoto fino a Bernardo di Chartres; quello di sant’Agostino che domina il pensiero di sant’Anselmo; quello di Boezio che dirige quello di Gilberto. • Teodorico di Chartres, successore di Gilberto; Heptateuchon, manuale rivolto all’insegnamento delle sette arti liberali. Teodorico difese con eguale coraggio e ostinazione l’ideale della cultura classica proprio della scuola di Chartres. La sua opera si basa fondamentalmente sui problemi cosmogonici, seguendo dei tentativi per accordare la Genesi con la fisica e la metafisica. “In principio Dio creò il cielo e la terra”; sono poste due questioni: le cause dell’universo e l’ordine dei giorni della creazione. La causa efficiente è Dio; la causa formale è la Sapienza di Dio; la causa finale è la benevolenza di Dio; la causa materiale consiste nei quattro elementi, creati dal nulla da Dio, per pura bontà e carità. Dio ha creato la materia nel primo istante, prendendo ciascun elemento il posto che conviene alla propria natura. Teodorico s’è accorto delle difficoltà che emergono quando si vuole mettere d’accordo in questo modo la Bibbia con la fisica, cioè il commento di Calcidio al Timeo. La sua è l’opera di uno che ignora la fisica di Aristotele. Teodorico non si presenta ciascun elemento come dotato di qualità fisse né situato in un primo luogo; le particelle di tutti gli elementi sono intercambiabili (da qui deriva il fatto che nella Bibbia Dio abbia creato il cielo e la terra e non i quattro elementi). Con la creazione del cielo e della terra bisogna intendere nel senso che egli ha creato delle particelle mobili il cui movimento causava il centro fermo di cui esse avevano bisogno per muoversi. (spiegazione cinetica degli elementi). Si può così notare il matematismo generale del suo pensiero che si fonda anche sul quadrivium; l’elemento comune delle arti liberali è infatti il numero, il cui principio è l’unità. Presa in sé, l’unità è stabile, immutabile ed eterna. Il dominio delle creature invece è quello del cambiamento; la creazione è dunque il dominio del numero come il divino è quello dell’unità. Dio è la forma di tutto ciò che è; la presenza della divinità a tutte le creature è il loro essere totale unico, tanto che la materia stessa deve la sua esistenza alla presenza della divinità. Inoltre come l’unità è costitutiva dell’essere, lo è della verità. • Giovanni di Salisbury (1110 – 1180) formidabile letterato; sul terreno filosofico si richiama agli accademici; il pensatore di cui ammira stile e pensiero non è tanto Platone ma Cicerone. Il suo scetticismo lo porta ad isolare un certo numero di verità acquisite ed abbandona tutto il resto al gioco sterile delle controversie interminabili. Bisogna dubitare di tutti gli argomenti di cui né i sensi, né la ragione, né la fede ci danno una sicurezza incontestabile. D’altronde ciò non significa che si deve trascurare d’informarsi intorno a questi argomenti col pretesto che la soluzione certa debba in ultimo sfuggire alla nostra presa. 2. Pietro Abelardo e i suoi avversari • Pietro Abelardo (1079-1142); studiò a Parigi con Guglielmo di Champeaux, a cui si oppose in maniera radicale, divenendone così il principale avversario filosofico. Successivamente si scagliò anche con il teologo Anselmo di Laon. Infatti l’opera di Abelardo è duplice: filosofica e teologica; di particolare rilievo è il Sic et non, che raccoglie le testimonianze in apparenza contraddittorie della Scrittura e dei Padri. Lo scopo di Abelardo non è assolutamente quello di opporsi al principio di autorità, o di sostituire la ragione alla fede; è lo stesso autore infatti che dichiara che egli ha raccolto queste contraddizioni apparenti per sollevare problemi ed eccitare negli spiriti il desiderio di risolverli. Comunque Abelardo è sempre stato fermo sul principio per cui l’autorità viene prima della ragione, che la dialettica ha come fondamentale utilità la chiarificazione della verità della fede e la confutazione degli infedeli. Altre opere fondamentali sono De unitate et trinitate divina, Theologia christiana. Ma spiccano per importanza le opere di logica di Abelardo (Dialectica, Glosse a Porfirio, Glosse alle Categorie, Glosse al De Interpretatione) I trattati di Boezio che egli commenta sono costantemente sotto i suoi occhi, ma non si lascia deviare dalle loro tendenze platoniche, che al contrario egli spesso corregge. Fondamentale è dunque il problema degli universali; i problemi che erano stati posti da Porfirio nell’Isagoge erano i seguenti: sapere se gli universali esistono nella realtà o soltanto nel pensiero; nel caso in cui esistano se sono corporei o incorporei; se sono vincolati alle cose sensibili o ne sono separati. Abelardo ne aggiunge un ultimo: i generi e le specie avrebbero ancora un significato per il pensiero, se gli individui corrispondenti cessassero di esistere? Per quanto riguarda i primi punti Abelardo argomenta: si ammetta che l’universale sia una cosa; questa cosa si può intendere in due modi diversi: l’universale uomo (specie) sarebbe una essenza comune agli individui, ma anche il genere (animale) può essere un universale e dunque una res. La difficoltà consiste nel fatto che lo stesso universale (animale, uomo) deve essere contemporaneamente tutto intero in se stesso e tutto intero in ciascuno degli individui di cui è il genere o la specie. Boezio supera l’insidia dicendo che, presi in sé stessi, gli universali sono degli oggetti di pensiero, ma che essi sussistono realmente negli individui, resi corporei dai loro accidenti. Abelardo non accetta questa soluzione e la critica con una obiezione di carattere fisico: le specie sono realmente distinte le une dalle altre; se lo stesso universale “animale” esiste realmente, tutto intero, nella specie “uomo” e nella specie “cavallo”, lo stesso animale che è razionale nella specie uomo è non razionale nella specie cavallo. Così una sola e medesima cosa è contemporaneamente se stessa e il suo contrario. Si deve trovare una soluzione diversa; la soluzione trovata da Guglielmo di Champeaux è la seguente: gli individui non si distinguono gli uni dagli altri soltanto per le loro forme accidentali, ma per le loro stesse essenze, di modo che niente di ciò che si trova nell’uno si trova realmente nell’altro. Tuttavia vogliono conservare l’universalità dell’essenza, sostenendo che le cose distinte sono le stesse, se non essenzialmente, almeno indifferentemente. L’indifferenza (assenza di differenza) tra forme individualmente distinte in seno ad una medesima specie è sufficiente a rendere conto dell’universalità della forma specifica presso gli individui. Se si interpreta l’indifferenza in senso assolutamente negativo si può sostenere che Socrate e Platone non differiscano in nulla come uomini, ma anche come pietre. Se si prende in senso positivo si ricade in tutte le difficoltà precedenti a questa argomentazione. Secondo Abelardo le difficoltà di queste situazioni è dovuta al tentativo di sostenere la realtà dell’universale del genere nelle sue specie, o dell’universale della specie negli individui. L’universale p ciò che si può predicare di parecchie cose; ma non ci sono cose che si possano predicare di molte altre, in quanto ciascuna non è che se stessa. Di conseguenza poiché questo tipo di universalità non può essere attribuito alle cose, non resta che attribuirlo alle parole (distinzione tra termini universali, particolari e singolari). Così facendo però Abelardo non si sovrappone alla posizione di Roscellino; per lui l’universalità è la funzione logica di certe parole, ma la parola non si riduce ad un flatus vocis. Per la tesi di Roscellino infatti ogni costruzione grammaticale sarebbe corretta. Il nuovo interrogativo è dunque: qual è la ragione per cui certi predicati sono validi logicamente, mentre altri non lo sono? La risposta di Abelardo è che le cose si presentano per sé alla predicazione degli universali. Un’idea non può essere tratta dal nulla e dal momento che gli universali non esisto al di fuori delle cose, bisogna trovare nella cosa stessa il motivo per cui si giustifica la validità logica di una predicazione. Questo elemento che permette la distinzione è chiamato “stato”; non si deve così confondere “uomo”, che non è niente, con “essere uomo”, che è qualcosa. È da questa realtà concreta che bisogna partire per spiegare la validità logica. Il fatto che degli individui siano accomunati dall’essere uomo, deriva dal fatto che certi individui si trovano ad essere ciascuno nello stesso stato di altri individui. Per determinare il contenuto di questi universali nel pensiero, bisogna distinguere l’oggetto di pensiero, che è un termine particolare dal termine generale o universale. C’è infatti differenza tra il rappresentarsi la “torre di Cluny” o “una torre”. La mia rappresentazione di un individuo è un’immagine viva, precisa e determinata nei suoi dettagli, a differenza della rappresentazione confusa del generale. Un universale non è dunque che un nome che designa l’immagine confusa estratta dal pensiero da una pluralità di individui simili, nello stesso stato. La conoscenza che Dio ha delle cose permette di parlare delle idee di Dio, ma questo non è il caso dell’uomo. L’uomo può avere l’idea solamente di ciò che lui realizza, quindi di oggetti artificiali, ma non può avere l’idea della specie. Le sole conoscenze precise attinenti ad oggetti reali sono per l’uomo quelle degli esseri particolari. In questi casi si ha un’intellezione, nel caso del generale si ha un’opinione. Gli universali sono dunque per Abelardo il significato dei nomi; il procedimento con cui li formiamo è l’astrazione. Dunque gli universali per sé stessi non esistono che nell’intelletto, ma essi significano degli esseri reali, e cioè le cose stesse particolari che i termini particolari designano. La sola realtà significata dai termini generali è quella che significano i termini particolari. Inoltre la loro attitudine a significare una pluralità di individui simili è incorporea; gli universali sussistono nei sensibili, ma al tempo stesso, in quanto designano le forme come separate dai sensibili per astrazione, essi sono al di là del sensibile. L’influenza di Abelardo fu enorme, soprattutto riguardo all’ambito degli universali. Non si può trascurare l’interesse teologico di Abelardo: distingue tra vizio e peccato; il vizio è un’inclinazione ad acconsentire a ciò che è sconveniente; è un’inclinazione a peccare, non un peccato, contro la quale possiamo combattere. Il peccato invece consiste nel non astenersi da ciò che non bisogna fare. essenza non può non esistere. Queste distinzioni astratte equivalgono ad una divisione degli esseri. Ciascuno di essi è dunque semplicemente possibile, così come le loro cause; la serie totale degli esseri è dunque un semplice possibile, e poiché il possibile è ciò che richiede una causa per esistere, se non ci fossero che dei possibili non esisterebbe nulla. Se dunque i possibili esistono, è perché esiste un necessario, causa della loro esistenza, Dio, che in Avicenna è appunto il necesse est. In lui essenza ed esistenza sono una cosa sola; egli è, ma in lui non c’è nessun quid, cui possa rivolgersi la domanda quid sit. Tutto ciò che non è che possibile ha invece un’essenza, che però non ha in sé la ragione della sua esistenza quindi bisogna dire che l’esistenza di ogni possibile è un accompagnamento accidentale della sua essenza. La grande differenza col pensiero cristiano risiede nel fatto che in Avicenna il rapporto tra essere necessario e possibile rimane un rapporto necessario. Infatti impregnato profondamente del pensiero greco, per il quale solo il necessario è intellegibile, Avicenna ha concepito la produzione del mondo da parte di Dio come l’attualizzazione successiva di una serie di esseri, ciascuno dei quali, possibile in sé, diventa necessario in virtù della sua causa. Ma Avicenna, a differenza delle interpretazioni che ne fecero i cristiani, nega una contingenza del possibile; la produzione del mondo è eterna, la sola priorità del Primo sul resto è quella del necessario sul possibile. L’atto creatore è l’atto stesso per cui Dio conosce. Il primo conosce se stesso e grazie a questa conoscenza produce il Primo causato, sostanza intellegibile o intelligenza; questa è possibile, in quanto causato, ma al tempo stesso causato, in virtù della sua stessa causa. Questa intelligenza pensa in primo luogo Dio, generando così la seconda intelligenza separata. In seguito pensa se stessa come necessaria per sua causa, generando l’anima della sera celeste che contiene il mondo; infine si pensa come possibile, generando il corpo di questa sfera. La seconda intelligenza procede allo stesso modo: produce la terza intelligenza, pensando la prima; produce l’anima della seconda sfera conoscendosi come necessaria e il corpo di questa sfera conoscendosi come possibile. Si procede così fino alla sfera della luna, che chiude la serie delle emanazioni, che irradia le forme intellegibili che ne sono come gli spiccioli, e impadronendosi delle materie terrestri disposte a riceverle, vi generano gli esseri che noi percepiamo con i sensi. Ciò che si chiama astrazione è dunque la ricezione di una delle forme intellegibili continuamente irradiate dall’ultima delle intelligenze, in un intelletto umano disposto a riceverla. Non tutti gli uomini hanno il medesimo grado di capacità di unirsi all’intelletto agente; al vertice di queste possibilità vi si trova lo spirito di profezia. • Averroè (1126-1198); problema fondamentale è risolvere il rischio di eterodossia e di conflitti tra diverse sette che rivendicano la legittimità della loro speculazione filosofica. Problema fondamentale è per Averroè il fatto che si autorizzavano ad accedere alla filosofia degli spiriti incapaci di capirla. Tre gradi del Corano che corrispondono a tre tipi di intelligenza: 1) uomini portati alla dimostrazione (filosofia), che conseguono la scienza, dal necessario al necessario, quindi secondo il senso più alto della rivelazione; 2) uomini dialettici, soddisfatti di elementi probabili (teologia); 3) uomini che si accontentano dell’esortazione per immaginazione e passioni (religione e fede). Ma che cosa si deve fare nel caso in cui vi sia un conflitto tra ciò cui giunge la ragione e ciò che è detto dalla fede? Alcuni suoi avversari attribuirono ad Averroè la dottrina della doppia verità, ma sembra che non abbia nessun fondamento. Il problema rimane piuttosto irrisolto, con la coscienza che alla fine nel Profeta scienza e fede giungano a coincidere. Il pensiero di Averroè si presenta come uno sforzo cosciente di restituire alla sua purezza la dottrina di Aristotele, corrotta dal platonismo che i suoi predecessori vi avevano introdotto. Egli sapeva comunque che restaurare l’aristotelismo significava escludere dalla filosofia ciò che in essa meglio si accordava con la religione. Averroè stesso era partito dalla convinzione che la filosofia di Aristotele era vera. Comunque sia nell’opera di Averroè rimane qualche strascico platonico e il Commentatore ha fatto opera più originale di quanto egli stesso abbia detto. Per quanto riguarda la logica Averroè fu un interprete fedele all’aristotelismo autentico. Invece la scelta in antropologia e metafisica è ben precisa, in opposizione anche ad Avicenna; la metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere, e delle proprietà che come tale gli appartengono. Con il termine essere bisogna intendere la sostanza stessa che è. Non c’è dunque alcun motivo di porsi il problema dell’esistenza come di un elemento a parte rispetto all’essere, o addirittura, come in Avicenna, di un accidente dell’essere. L’essere è inoltre la quiddità, o essenza reale, che determina ogni sostanza ad essere ciò che essa è. L’essere è proprio a ciascuna cosa; non si può però predicare univocamente di tutto ciò che è. Tuttavia ciò che è, è un certo genere di essere: ciascuna delle categorie dell’essere designa qualcosa che è; quindi l’essere non è nemmeno equivoco (con dei sensi totalmente differenti). L’essere è analogo. Tutte le categorie infatti hanno un rapporto con l’essere. Lo studio della metafisica è dunque lo studio di ciò che è in quanto è. Perché la logica si applichi al reale bisogna che le cose sensibili siano al tempo stesso intellegibili e questo dimostra che la loro causa prima è il pensiero dell’intelletto. La loro intellegibilità è essenziale e ciò che è essenziale non esiste che per una causa efficiente necessaria, dunque derivano dalla concezione di un intelletto. Se noi possiamo capire questi oggetti, è perché essi vengono da un pensiero, cioè da una forma intellegibile presente all’intelletto di colui che li ha fatti. I platonici sbagliano a credere all’esistenza di idee separate, ma non a pensare che il sensibile riceva da qualche causa la sua intellegibilità. Sarebbe un errore credere che gli universali esistono in sé, al di fuori degli individui (problema dell’universale unico che si distribuisce in una molteplicità oppure del fatto che ogni individuo possieda una parte diversa dell’universale). Bisogna dunque ammettere che l’universale non è una sostanza, ma l’opera dell’intelletto. La scienza non ha per oggetto una realtà universale, ma consiste nel conoscere le cose particolari in un modo universale, astraendo dalle cose la natura comune che le loro materie individuano. L’universale è dunque ciò che può essere predicato di parecchi individui. La forma dunque è l’atto o essenza di ciò che è; la materia è la potenza, che viene attualizzata dalla forma; la sostanza individuale è il composto delle due. Ciò che il pensiero concepisce nell’universale è la forma. La sostanza per l’atto è, per la potenza può divenire. Il cambiamento, il movimento è dunque un passaggio dalla potenza all’atto. Inoltre tutto ciò che si muove è mosso da un motore. Gli esseri in movimenti si dividono in: quelli che sono mossi e non si muovono; quelli che muovono e sono mossi; quelli che muovono senza essere mossi. Gli intermedi non possono essere infiniti perché se lo fossero non ci sarebbe causa prima e non ci sarebbe movimento. Muovere senza essere mosso significa essere un atto scevro di ogni potenzialità: un Atto puro. Perché l’azione motrice di questi atti puri sia continua, bisogna che anche il movimento e le cose mosse lo siano. Il mondo è dunque sempre esistito e sempre esisterà. La durata del mondo nel tempo è eterna. Inoltre in quanto sono privi di potenzialità sono anche privi di materia; dunque sono sostanze immateriali. Il movimento di ogni sfera nasce in lei dal desiderio particolare che essa prova per l’atto puro da cui dipende. Bisogna dunque che ciascun corpo celeste possieda un intelletto e che questo intelletto provi un desiderio intellettuale del uso motore immobile. il corpo celeste vuole porsi nello stato più perfetto di cui sia capace e poiché il movimento vale per lui più dell’immutabilità, perché il movimento è la vita dei corpi, esso si muove perpetuamente. I motori sono le cause eternamente agenti dei corpi celesti, poiché le loro forme non sono nient’altro che le idee che questi corpi celesti si fanno dei loro motori. Questi motori, in quanto oggetto del loro desiderio, sono anche le loro cause finali. Le sfere che essi muovono si pongono in gerarchia, dalla luna al firmamento, secondo la loro grandezza e rapidità. Tutti questi principi separati devono inoltre arrivare ad un principio primo, che è il primo motore separato. In ogni genere infatti, anche nel genere dei principi, gli esseri si pongono in gerarchia secondo il loro modo più o meno perfetto di realizzare il tipo del genere. Dunque deve esserci un termine primo in rapporto al quale si misura il grado in cui ciascuno d’essi è principio. C’è un principio assolutamente primo, fine ultimo desiderato da tutto il resto, causa agente delle forme di tuto il resto e del movimento di tutto il resto. È il primo motore immobile, la prima intelligenza separata, la cui unità garantisce quella dell’universo e il suo stesso essere. Inoltre per sapere come queste intelligenze siano le une in rapporto alle altre, si può esaminare il rapporto dell’intelletto con l’intellegibile nell’intendimento umano. Si vedrà che il nostro intelletto è capace di riflettere il suo atto su se stesso, nel qual cosa l’intelletto e l’intellegibile fanno una cosa sola. Allo stesso modo le intelligenze separate è identicamente conoscenza e ciò che conosce, di conseguenza conosce anche la sua causa. Questo avviene per tutte le intelligenze fuorché l’Intelligenza prima, che non avendo causa, conosce solamente se stessa. In quanto assolutamente perfetta, la conoscenza che ha di sé forma un pensiero ugualmente perfetto, senza che possa conoscere alcuna cosa né al di sopra né al di sotto. Ma questa non è una mancata conoscenza, in quanto Dio conoscendo se stesso, conosce tutta la realtà, in maniera ancora più perfetta. Questa intelligenza è il motore di tutto l’universo e ad essa si subordinano i successi motori, in un ordine gerarchico che vede nel suo centro i quattro elementi, causati dal movimento più rapido ce è quello della sfera delle stelle fisse. Le forme di questi esseri vengono conferite loro dall’intelligenza agente, ordinatrice della materia prima, che è lei stessa priva di ogni forma. Questa è quindi un’esistenza separata, che produce la conoscenza intellegibile nelle anime individuali come il sole produce la vista negli occhi con la sua luce. Inoltre se Avicenna da una parte attribuisce all’individuo possibile come nucleo della personalità, Averroè non concede all’individuo che un intelletto passivo, semplice disposizione a ricevere gli intellegibili, ma che da solo non sarebbe sufficiente a riceverli. Questa disposizione, del tutto corporea, perisce col corpo. Per questo gli scolastici capirono che per Averroè non c’era che un intelletto possibile per tutti gli uomini. Questa formula potrebbe far credere erroneamente che l’intelletto possibile sia una seconda sostanza separata, distinta dall’intelletto agente. Averroè invece ritiene che il contatto dell’intelletto agente separato con l’intelletto passivo dell’individuo determini una ricettività riguardo all’intellegibile, che è l’intelletto agente stesso che si particolarizza in un’anima come la luce in un corpo. VII. L’influenza greco-araba nel XIII secolo e la fondazione delle Università 1. L’influenza greco-araba Il progresso filosofico e teologico del XIII secolo ha fatto seguito all’invasione dell’Occidente latino da parte delle filosofie arabe ed ebraiche e quasi contemporaneamente delle opere scientifiche, metafisiche e morali di Aristotele. Di particolare importanza fu anche il Liber de causis, che tratta dell’ordine gerarchico delle cause, partendo dalla prima. La causa prima è la causalità stessa, anteriore all’eternità, in quanto anteriore all’essere stesso, l’Uno. Il primo essere, dunque causato dall’uno, è intelligenza pura, esso non è semplice, perché contiene nella sua semplicità la totalità delle forme intellegibili. Questa dottrina era un potente appoggio per i fautori della tesi delle idee create, concepite non coeterne a Dio. Fondamentale fu quindi anche la diffusione delle opere orientali, che comunque contenevano una dottrina aristotelica fortemente neoplatonizzata. La loro diffusione di queste opere trova motivo nel fatto che tutto il platonismo, sparso nel XII secolo, trovava qui finalmente il sistema del mondo che precisava le sue opinioni e gli dava una consistenza scientifica. Si vedono comparire nell’ultimo terzo del secolo opere in cui la dottrina di Avicenna si combina con tutti i platonismi già noti. L’inevitabile conflitto tra la filosofia araba e la teologia cristiana avviene verso l’inizio del XIII secolo, all’Università di Parigi. Fin dal 1210 il concilio provinciale di Parigi proibisce sotto pena di scomunica che si insegnino a Parigi, sia in pubblico che in privato, le opere di Aristotele sulla filosofia naturale. Al contrario l’insegnamento di Aristotele era permesso a Tolosa. La fisica di Aristotele era la sola fisica sistematica che esistesse e i concetti fondamentali che erano alla base di questa spiegazione, si ritrovavano in numerosi trattati scientifici, di cui era impossibile frenare la diffusione. Nel 1231 il papa Gregorio IX nomina una commissione perché svolgesse una revisione della filosofia naturale di Aristotele, per renderla utilizzabile all’insegnamento. I più illustri maestri la commentavano e la assimilavano sempre di più e nel 1366 fu addirittura incoraggiata la sua traduzione. 2. La fondazione delle Università Il termine universitas indica l’insieme delle persone, maestri e scolari che partecipano dell’insegnamento in questa stessa città. La prima università nasce a Bologna, incentrata sullo studio del diritto; è proprio l’Università di Parigi che da un punto di vista filosofico e teologico si è costituita per prima. Questo fatto è dovuto anche all’enorme fioritura intellettuale che accompagnava Parigi sin dal XII secolo (vedi Abelardo). I re di Francia incoraggiarono il suo sviluppo, in quanto vedevano il lustro che conferiva questa circolazione intellettuale che abbracciava anche gli altri paesi. Il vero fondatore dell’Università di Parigi fu Innocenzo III e dopo di lui Gregorio IX. A Parigi si divisero in due tendenze di studio separati: da una parte l’ambito scientifico generali non è altro che l’oggetto individuale percepito dai sensi, e l’operazione che trae l’universale dal particolare è l’astrazione. Il punto di partenza è la sensazione, che lascia nell’immaginazione soltanto un’immagine già astratta. Questa prima astrazione immaginativa è per l’anima razionale come un’occasione di ricevere le forme intellegibili che le vengono da un’altra causa. Oltre al mondo sensibile vi è il mondo del creatore, modello e specchio ove si riflettono universalmente gli intellegibili primi. Questo significava ritornare ad Agostino, ma un Agostino che si opponeva fortemente ad Aristotele; l’anima che concepisce Guglielmo è un’anima in cui tutto viene dall’interno, in occasione degli stimoli che il corpo subisce dall’esterno, e sotto l’azione interna della luce divina. Se nel mondo sensibile non esistessero la terrestrità e l’igneità, non ci sarebbe né terra né fuoco. Per Guglielmo tutto si riduce ad una specie di intuizionismo dell’intellegibile che duplica quello del sensibile e che si spiega con l’illuminazione del mondo archetipo. • Enrico di Gand morto nel 1293; unico grande intellettuale che non faceva parte di ordini mendicanti e nonostante ciò insegnò all’Università di Parigi, ricoprendo un ruolo di grande importanza nell’ultima parte del secolo XIII. Per comprendere il pensiero di Enrico di Gand è necessario aver presente la dottrina dell’essere di Avicenna, per cui appunto l’essere è ciò che per primo si offre all’intendimento umano, accompagnato dalla cosa (quindi ciò che è, essenza) e dalla necessità (ciò che necessariamente è). Da questo deriva la divisione in essere possibile ed essere necessario. Tuttavia Enrico per evitare il necessarismo greco da cui si ispirava Avicenna, piega sin dall’inizio l’ontologia del filosofo arabo in senso cristiano. Al posto della divisione in possibile e necessario, egli distingue analogicamente in qualcosa che è l’essere stesso (essere increato) e ciò che è qualcosa cui l’essere conviene o può naturalmente convenire (ogni cosa creata). L’essere che è qualcosa cui conviene l’essere è qualcosa è compreso all’interno delle categorie, a differenza dell’essere in quanto tale per cui l’essere è identico all’esistenza, che non è che l’essere ed egli è ciò la cui essenza è tale che egli è di pieno diritto. Enrico di Gand è attento a non ammettere la teoria di Avicenna dell’univocità dell’essere, in quanto il termine esse può applicarsi indifferentemente all’uno e all’altro ma non ad entrambi contemporaneamente. Dunque Enrico si trova indotto, per non partire con un termine equivoco, a porre come prima la nozione di essere per sé, e a farne di conseguenza contemporaneamente il primum cognitum e la ratio cognoscendi di tutto il resto della conoscenza umana. In questa differenza tra essere per sé ed essere possibile vi si trova l’atto creatore, che nella filosofia cristiana a sua volta trova la mediazione delle idee divine: queste non possono avere una propria sussistenza e quindi non hanno altro essere reale che l’essere di Dio. L’Idea dunque è una esistenza possibile che come tale si distingue da Dio. Dunque Dio conosce dapprima la propria essenza in se stesso, che poi, nell’atto per il quale la conosce, conosce ogni creatura creabile, secondo l’essere che ha in Dio; infine egli conosce l’essere che la creatura creabile ha in se stessa in quanto quest’essere è diverso dall’essere di Dio. L’essenza ideale, presa come imitazione possibile dell’essenza divina, ha un proprio essere che non si aggiunge a quello di Dio, ma se ne distingue come oggetto di conoscenza; è l’essere dell’essenza in quanto essenza, l’esse essentiae. Dal momento che Enrico (come farà poi Duns Scoto) identifica l’essere e l’essenza, non può evitare di raddoppiare ogni distinzione nell’ordine dell’essere; così attribuisce all’Idea un essere essentiae. Inoltre Enrico non può accettare il modo in cui Avicenna spiega il passaggio all’esistenza dei possibili così contenuti nell’intelletto divino. Per lui infatti la volontà di Dio acconsente liberamente a concedere l’esistenza ad alcuni possibili, e questo assenso è ciò che si chiama creazione. Si deve tenere a mente che l’atto creatore si distingue dallo stesso essere divino soltanto nel nostro pensiero; la creazione comporta una realtà distinta soltanto nella creatura. Ciò che distingue la creatura dal creatore è il fatto che Dio è inseparabile dalla sua esistenza, mentre l’esistenza attuale della creatura dipende dalla libera volontà di Dio. Ogni forma creata ha un soggetto; attualizzandolo, la creazione pone ogni essere come identico a se stesso e differente dagli altri. È questa identità positiva che Enrico chiarisce come una oppia negazione: nega ogni differenza di questo essere nei riguardi di se stesso e nega ogni identità di questo essere con uno diverso da lui. Uomo che si definisce come unione di un corpo e di un’anima razionale. Il corpo come tale è costituito dalla sua propria forma; l’anima razionale non informa direttamente il corpo; non è la forma del corpo; ci sono quindi nell’uomo due forme sostanziali: quella del corpo come corpo e quella del composto umano. Elevata così al di sopra del corpo, l’anima rimane aperta alle influenze intellegibili. L’astrazione però non ci fa giungere all’essenza intellegibile della cosa; per pervenirvi non basta l’astrazione, ma bisogna anche definirne l’essenza con un giudizio sicuro, che parta dalla nozione prima di essere, e prosegua sotto l’azione regolatrice della luce divina. Si identifica così il Dio illuminatore di Agostino con l’Intelletto agente di Avicenna. Da vivo la sua autorità fu notevole. Inoltre dato il carattere generale della sua dottrina, si capisce che non solo l’averroismo, ma anche il tomismo l’abbiano preoccupato. Venuto da tutt’altra direzione dottrinale, non ha potuto comprendere il significato profondo della riforma tomista. • Alessandro di Hales (1170-1245) primo maestro francescano all’Università di Parigi. Gli venne attribuita, probabilmente in maniera erronea, una Summa theologica, che appunto, proprio per il presunto carattere composito dell’opera, sarà meglio comprensibile alla luce della dottrina di san Bonaventura. Si può vedere comunque come Alessandro si ispirasse al pensiero di Agostino, ma rielaborato anche alla luce di diversi problemi che avevano sollevato le nuove opere di Aristotele. Si può comunque dire che egli ha dato il primo impulso al gruppo di teologi francescani la cui opera doveva essere quella di assimilare il nuovo sapere filosofico con l’aiuto dei principi posti da Agostino. • San Bonaventura (1221-1274) seguì le lezioni di Alessandro di Hales, al posto del quale insegnò poi all’Università. Furono anche periodi di grande opposizioni alle cattedre universitarie date agli ordini mendicanti, ma insegnò parallelamente a Tommaso. L’opera di Bonaventura non si può leggere come un abbozzo incompleto dell’opera che contemporaneamente andava stendendo Tommaso; al contrario essa ha dei fini ben precisi: l’amore di Dio; le vie che ci conducono ad esso sono le vie della teologia. L’anima umana è fatta per cogliere un giorno il bene infinito che è Dio, per riposarsi in lui e goderne. Di questo oggetto supremo l’uomo ha una conoscenza parziale, la fede, che è però una conoscenza più salda di quella della ragione. Non è dunque per un atto di ragione che amiamo Dio, ma per un atto di fede; colui che crede per amore vuole aver ragioni per la sua fede; niente è più dolce per l’uomo che capire ciò che ama. Così la filosofia nasce da un bisogno del cuore che vuole gioire più pienamente dell’oggetto della sua fede. Filosofia e teologia si completano l’una con l’altra. Se siamo sulla buona strada, la via che seguiamo è quella illuminativa. Abbracciamo già il nostro fine con un amore che però non è completo e saldo, cosa che ci sarà possibile solamente alla fine di questo peregrinaggio verso Dio. Colui che segue questa via ritrova in ciascuno dei suoi atti di conoscenza Dio stesso. La fede aiutata dalla ragione decifrerà sotto caratteri sempre differenti un unico appello: Dio. A seguito del peccato originale, ci occorre uno sforzo costante della volontà e l’aiuto della grazia per risollevare verso Dio un viso che abbiamo volto verso la terra. La grazia è il fondamento di una volontà retta e di una ragione chiaroveggente. Se la nostra mente è ottenebrata dal peccato, un semplice sforzo della ragione naturale non potrà renderci intellegibili l’universo e le cose. Dobbiamo prima combattere le conseguenze del peccato e rimettere i nostri mezzi conoscitivi in una situazione più simile a quella in cui li abbiamo ricevuti. Dio creatore dell’universo è la verità essenziale e trascendente; tutte le cose saranno vere in rapporto a lui; ma ora Dio non è in rapporto ad altro, poiché egli è l’essere totale e supremo. La verità delle cose consiste nel rappresentare per somiglianza la prima e suprema verità, senza che vi sia una somiglianza che implichi la partecipazione delle cose all’essenza di Dio. Questa somiglianza si esprime piuttosto per espressione. Le cose stanno a Dio come i segni al significato che essi esprimono. Il mondo non ha altra ragione d’essere che quella di esprimere Dio, libro scritto esclusivamente dall’uomo. Tre tappe segneranno questa ascesa verso Dio: la prima è ritrovare le vestigia di Dio nel mondo sensibile; la seconda nel ricercare la sua immagine nella nostra anima; la terza supera le cose create e ci introduce nella gioia mistica dell’adorazione di Dio. Bonaventura nella prima tappa ci invita a cogliere Dio direttamente presente sotto il movimento, la misura, la bellezza, la disposizione delle cose. Intende così moltiplicare i punti di vista dai quali noi cogliamo Dio che ad obbligarci a giungere a lui attraverso un piccolo numero di passaggi. Considerando il mondo sensibile noi possiamo ritrovarvi l’ombra di Dio perché tutte le proprietà delle cose richiedono una causa; in ogni caso comunque si volgono le spalle alla luce divina di cui nelle cose cerchiamo solo dei riflessi. Cercando Dio nella nostra anima invece noi ci volgiamo verso Dio stesso. Quindi non si trova un’ombra o un vestigio di Dio, ma la sua stessa immagine. Il nostro intelletto giunge a cogliere pienamente i suoi oggetti solo grazie all’idea di essere puro, totale ed assoluto ce ci permette di conoscere particolare come imperfetto e relativo. Non solo senza l’aiuto di Dio non si potrebbero comprendere le verità immutabili e necessarie, ma inoltre noi troviamo Dio direttamente ogni volta che scendiamo abbastanza profondamente in noi stessi. Il nostro intelletto è congiunto alla stessa verità eterna; abbiamo in noi naturalmente infusa l’immagine di Dio. San Bonaventura accetta quindi facilmente la prova ontologica di Anselmo. Il fatto è che qui noi non affermiamo più la presenza di Dio perché ne acquistiamo la conoscenza; al contrario noi conosciamo Dio perché egli ci è già presente. Ciò che è inseparabile dal nostro pensiero ed impresso profondamente in esso, è l’affermazione dell’esistenza di Dio, non la comprensione della sua essenza. A tal fine è necessario superare anche il secondo grado dell’itinerario superando anche il campo dell’esprimibile, che però proprio per questo trascende anche il campo della filosofia. L’anima che è unica, si diversifica nelle sue funzioni. Da una parte è una sostanza intellegibile che sopravvive alla morte del corpo, dall’altra è la forma animatrice dello stesso, esercitandone le funzioni sensitive. Unendo la teoria aristotelica della sensazione concepita come passione e l’agostinismo per cui la sensazione agisce sull’anima, Bonaventura sostiene che l’anima stessa subisce spiritualmente quest’azione in quanto proprio essa è animatrice de corpo, ma reagisce subito, dando un giudizio sull’azione che ha appena subito; questo giudizio è la conoscenza sensibile. Le immagini sensibili sono i dati da cui l’intelletto astrae la conoscenza intellegibile; l’astrazione è opera dell’intelletto possibile che esercita operazioni capaci di ritenere di questi dati particolari soltanto il loro elemento comune ed universale. L’intelletto possibile non è per sé pura potenza, perché significherebbe confonderlo con la materia, esso è una facoltà attiva dell’intelletto che prepara le nozioni intellegibili e le accoglie in sé. Lo si chiama possibile perché da solo non sarebbe sufficiente. Al tempo stesso vi è un intelletto agente, che illumina l’intelletto possibile rendendo possibile l’astrazione. L’intelletto agente non è puro atto e non è esente da ogni potenzialità; ammettere il caso contrario significherebbe farne un elemento separato come nella dottrina di Avicenna. Intelletto agente e intelletto possibile sono due funzioni distinte di una sola e medesima anima nel suo sforzo per assimilare ciò che il sensibile contiene di intellegibile. L’astrazione inoltre si impone soltanto quando il nostro pensiero volge la sua faccia inferiore verso i corpi per acquisirne la scienza, non quando esso volge la sua faccia superiore verso l’intellegibile per acquisire la sapienza. Quindi è necessario per conoscere tutto ciò che è estraneo (mondo della fisica, dominato dalla scienza aristotelica), tutto ciò che non è esso stesso e Dio. Infatti l’anima stessa, i principi della filosofia che essa contiene e la luce divina che ce li fa conoscere dipendono da un ordine di conoscenza superiore di cui la sensibilità non fa più parte (mondo intellegibile della filosofia di Platone). Agostino, illuminato dallo Spirito Santo, ha saputo parlare entrambi i linguaggi; fondamentale è la dottrina dell’illuminazione dell’intelletto da parte delle idee di Dio. Ad esempio una conoscenza certa è immutabile quanto all’oggetto conosciuto e infallibile quanto al soggetto conosciuto, senza che gli oggetti siano immutabili, né che l’intelletto sia infallibile. Se quindi ci sono conoscenze certe è perché le idee divine stesse illuminano l’intelletto umano nella sua conoscenza degli oggetti corrispondenti. Le idee non possono essere oggetto di conoscenza perché come Dio sono inaccessibili, ma fungono da regolatrici. Ogni conoscenza è possibile grazie all’azione e alla presenza di un raggio affievolito della luce divina. Noi inoltre abbiamo quaggiù delle conoscenze certe e chiare perché i principi creati che Dio ha posto in noi e per i quali conosciamo le cose, ci appaiono chiaramente e senza veli. Ma questa conoscenza non è completa in quanto manca sempre del fondamento ultimo. L’uomo infatti si trova in una posizione intermedia; l’anima i volge per la sua parte superiore verso Dio e per la sua parte inferiore verso le cose. Di ciò che è al di sotto di lei essa riceve una relativa certezza; da ciò che sta al di sopra riceve una certezza assoluta. Sacrificare Platone o Aristotele significa dimenticare uno dei due aspetti della natura umana. San Bonaventura inoltre negherà l’eternità del mondo, per sostenere una creazione nel tempo, che quindi non comprenda una infinità di anime e un tempo infinito cui il tempo si aggiunge inesorabilmente. In tutte le cose create l’essenza è realmente distinta per conoscere i corpi. È sotto l’azione di questa luce che le forme possono muovere i corpi. Le facoltà conoscitive naturali dell’uomo non possono funzionare senza una serie gerarchica di doni gratuiti, che le aiutano, le rendono atto alle loro operazioni e le elevano ad altre che naturalmente le superano. L’uomo per conoscere ha bisogno di una luce più abbondante della propria. Il nostro intelletto ha bisogno ogni volta di un dono gratuito dello Spirito santo (tesi che approssima all’intelletto agente di Avicenna). Alberto non accetta la prova di Anselmo; le sue sono prove attraverso la causalità partendo dal mondo sensibile. La più importante è quella che risale di motore in motore e di causa in causa sino al primo motore e alla causa prima, nella serie ascendente degli intelletti. Aveva capito meglio di Tommaso ciò che di fecondo vi è per la scienza pura nella pratica dell’empirismo aristotelico. Invece di accontentarsi di rendergli omaggio e porlo alla base di un edificio metafisico e teologico, aveva rimesso in opera lo strumento stesso creato da Aristotele • Tommaso d’Aquino: (1224-1274) il problema religioso doveva concentrare a suo vantaggio il meglio dell’energia intellettuale disponibile nel medioevo, ed esso dominerà tutta la dottrina di Tommaso. Studia all’università di Napoli e poi dal 1245 a Parigi presso Alberto, che accompagnerà poi a Colonia. Prende la licenza per insegnare teologia nel 1256. Insegnerà prima in Italia per poi tornare a Parigi. Tra le sue opere si può distinguere a sommi capi: Commenti ad Aristotele, Summae, Quaestiones disputatae. I commenti sono al tempo stesso opere di interpretazione e di critica. San Tommaso, che condanna così seccamente come teologo le dottrine che giudica false, è invece appassionatamente curioso di estrarre dalle più diverse filosofie il nocciolo di verità che esse possono contenere. Ma le opere che realmente possono introdurci nel suo pensiero sono le due summae; l’esposizione completa ma semplificata al massimo della filosofia tomista si trova nella prima e seconda parte della Summa theologiae. Nella Summa contra Gentes si approfondisce la discussione dei problemi introdotti nella prima opera: in questa seconda summa i problemi della prima vi sono ripresi e rigirati in tutti i sensi, sottoposti alla proba di innumerevoli obiezioni, e soltanto dopo aver trionfato di queste molteplici prove di resistenza, le soluzioni vengono considerate definitivamente vere. Per un definitivo approfondimento si trovano invece le Quaestioties disputatae e i Quodlibeta. Fondamentale in Tommsdo è la distinzione tra ragione e fede e la necessità del loro accordo. L’intero campo della filosofia dipende esclusivamente dalla ragione: significa che la filosofia non deve ammettere che ciò che è accessibile alla luce natura e dimostrabile con le sue sole risorse. La teologia invece si fonda sulla rivelazione, sull’autorità di Dio; quindi su formule il cui significato non ci è interamente penetrabile, ma che dobbiamo accettare come tali. Un filosofo argomenta sempre cercando nella ragione i principi della sua argomentazione; un teologo argomenta cercando i suoi principi primi nella rivelazione. Né la ragione, quando la usiamo correttamente, né la rivelazione, poiché ha Dio come origine, potrebbero ingannarci. In caso di discrepanza toccherà alla ragione, debitamente avvertita, di criticare poi se stessa e di trovare il punto in cui si è verificato il suo errore. Ne deriva che l’impossibilità in cui ci troviamo di trattare filosofia e teologia con lo stesso metodo non ci impedisce di considerarle come idealmente costituenti una sola verità totale. Di conseguenza nel caso in cui ci sia disaccordo, dimostreremo che queste filosofie si sbagliano, oppure mostreremo che esse hanno creduto di fornire delle prove in una materia in cui la prova razionale è impossibile, e dove di conseguenza la decisione deve restare alla fede. Nonostante ciò nell’insegnamento delle scritture c’è una parte di mistero di cose indimostrabili, ma ci sono anche delle cose intellegibili e dimostrabili. Ci sono dunque due teologie specificamente distinte che, se a rigore non sono continue per le nostre menti finite, possono almeno accordarsi e completarsi: la teologia rivelata che parte dal dogma, e la teologia rivelata che parte dalla ragione. La teologia naturale non è tutta la filosofia, essa non ne è che una parte, o meglio il coronamento; ma è la parte che la filosofia di Tommaso ha elaborato più profondamente. Egli sa per fede verso quale fine si dirige la sua filosofia, ma tuttavia progredisce grazie alle risorse della ragione. In queste summe filosofiche la riconosciuta influenza della teologia è dunque sicura, ed è ancora la teologia che ne fornirà il piano. Quindi conviene partire da Dio, e dimostrarne l’esistenza. Essa è necessaria perché l’esistenza di Dio non è una cosa evidente, in quanto bisognerebbe avere una adeguata nozione dell’essenza divina, ma Dio è un essere infinito e dato che non ne ha il concetto, la nostra mente finita non può vedere la necessità di esistere che la sua stessa infinità implica; si deve quindi dedurre attraversa il ragionamento questa esistenza che non possiamo constatare. Cercheremo quindi nelle cose sensibili, la cui natura è conforme alla nostra, un punto d’appoggio per elevarsi a Dio. La via più evidente, non tanto la più solida, è quella che parte dal movimento; ogni movimento ha una causa e questa causa deve essere esterna all’essere stesso che è in movimento. Ma il motore stesso deve essere mosso da altro, e questo da altro ancora. Bisognerà quindi ammettere che o la serie delle cause è infinita e non ha un primo termine, ma allora nulla spiegherebbe l’esistenza di un movimento, o la serie è finita e c’è un primo termine e questo primo termine non è altro che Dio. Inoltre ciò che abbiamo detto delle cause del movimento possiamo dirlo delle cause in generale. La prima causa efficiente dunque è Dio. Considerando invece l’essere stesso, si vede che nel reale c’è ciò che può esistere come non esistere e dunque non ha una esistenza necessaria. Il possibile non ha in sé la ragione sufficiente della sua esistenza, e se nelle cose non ci fosse assolutamente altro che il possibile, non ci sarebbe niente. Perché ciò che poteva essere, sia, occorre in primo luogo, qualcosa che sia e lo faccia essere. Se c’è qualcosa è perché da qualche parte c’è il necessario. Questo necessario non può essere altro che Dio. Una quarta via guarda ai gradi gerarchici di perfezione che si osservano nelle cose. Ci sono dei gradi della bontà, nella verità, nella nobiltà e nelle altre perfezioni di questo tipo. Il più e il meno suppongono sempre un paragone che è l’assoluto. Esiste dunque un vero e un bene per sé, cioè, in fin dei conti, un essere in sé che è la causa di tutti gli altri esseri e che noi chiamiamo Dio. La quinta via si fonda sull’ordine delle cose; la regolarità con la quale essi conseguono il loro fine dimostra che essi non vi giungono per caso e questa regolarità non può essere che intenzionale e voluta. Poiché essi sono privi di conoscenza, bisogna bene che qualcuno conosca per loro, ed è questa intelligenza prima ordinatrice della finalità delle cose, che noi chiamiamo Dio. Ciascuna di queste vie parte dalla constatazione che, sotto almeno uno dei suoi aspetti, un certo essere dato nella realtà non contiene uno dei suoi aspetti, un certo essere dato nella realtà non contiene in sé la ragione sufficiente della sua esistenza. Infatti si può dire che l’essenza di ogni essere reale è distinta dalla sua esistenza, a meno che non si supponga che ciò che non è per sé possa dare a se stesso l’esistenza, il che è assurdo. Bisogna dunque che ci sia, come causa prima di tutte le esistenze di questo tipo, un essere in cui l’essenza e l’esistenza facciano una sola cosa; questo essere noi lo chiamiamo Dio. Dio è l’atto puro di esistere, cioè non un’essenza qualunque come l’Uno o il Bene e nemmeno un certo modo eminente di esistere come l’Eternità o l’Immutabilità che si attribuirebbero al suo essere come caratteristiche della realtà divina; ma l’essere stesso posto in sé, senza nessuna aggiunta, perché tutto quello che gli si potrebbe aggiungere lo limiterebbe o lo determinerebbe. Ciò che negli altri esseri si dice essenza, in Dio è l’atto di esistere. Se è il puro esistere, Dio è per ciò stesso la pienezza assoluta dell’essere, egli è quindi infinito; nulla può mancargli che debba acquisire, nessun cambiamento è in lui concepibile. Di qui le molteplici deficienze del linguaggio. Egli è infinito e le nostre menti sono finite. Una prima maniera di procedere consiste nel negare dell’essenza divina tutto ciò che non può appartenerle. Scartando successivamente dall’idea di Dio il movimento, il cambiamento, la passività, la composizione, finiamo col porlo come essere immobile, immutabile, perfettamente in atto e semplice. Ma si può anche procedere per via affermativa, secondo delle analogie che sussistono tra lui e le cose. Infatti ciò che esiste negli effetti deve anche preesistere nelle loro cause; noi attribuiremo a Dio, ma portandole all’infinito, tutte le perfezioni di cui avremo trovato qualche ombra nella creatura. Tutti i suoi attributi non saranno che un aspetto della perfezione infinita e perfettamente unica dell’Atto puro di esistere che è Dio. Dio è inoltre il creatore del mondo; il modo in cui l’essere emana dalla causa universale divina si chiama creazione. La creazione è dunque il dono stessa dell’esistenza. Posti questi presupposti la creazione deve essere libera; infatti l’Atto puro di esistere non manca di nulla se il mondo non esiste e di nulla aumenta se il mondo esiste. Il rapporto tra creatura e creatore si chiama partecipazione. Questa espressione mira proprio ad eliminare un significato panteistico; partecipazione esprime contemporaneamente il legame che unisce la creatura al creatore, il che rende intellegibile la creazione e la separazione che impedisce loro di confondersi. Si tratta di riprodurre una perfezione preesistente in Dio ma in maniera limitata e finita. Partecipare non significa essere una parte di ciò di cui si partecipa, significa possedere il proprio essere e riceverlo da un altro essere, e il fatto di riceverlo da lui è proprio la prova che non ci si identifica con lui. Tutti i suoi effetti preesistono in lui secondo un modo di essere intellegibile. Dio conosce quindi tutti i suoi effetti prima di produrli; egli li produce perché li conosce e dunque perché li ha voluti. Rimane il problema della molteplicità; alcuni filosofi arabi credono che da un’unica causa non possa scaturire che un unico effetto. Ma poiché è intelligenza pura, deve possedere in sé tutti gli intellegibili, cioè le forme che saranno più tardi quelle delle cose, ma che non esistono ancora che nel suo pensiero. Conoscendosi non più come è in se stesso, ma come partecipabile dalle creature, Dio conosce le idee. L’idea di creatura è quindi la conoscenza che Dio ha di una certa partecipazione possibile della sua perfezione da parte di questa creatura. Ed è così che la molteplicità può essere generata, senza compromettere l’unità divina. Se da una parte i filosofi arabi con Aristotele tentano di dimostrare l’eternità della creazione divina, e dall’altra i cristiani tentano di dimostrare razionalmente che il mondo non è sempre esistito. Tommaso, come già Alberto, ritiene che gli uni e gli altri possono invocare degli argomenti verosimili in favore della loro tesi, ma né l’una né l’altra ipotesi è suscettibile di dimostrazione. Se noi partiamo dall’essenza delle cose contenute nell’universo creato, vedremo che, poiché essa è per se stessa distinta dalla sua esistenza, ogni essenza presa in se stessa è indifferente ad ogni considerazione temporale; ogni definizione è atemporale, e in queste non troveremo nessun aiuto nella considerazione del mondo. Una deduzione per questo problema è impossibile trovarla nemmeno nell’ineffabilità di Dio. L’unica possibilità di comprendere il problema della creazione rimane la rivelazione delle Scritture. L’imperfezione dell’universo non è imputabile al suo autore. Dio ha creato il mondo in quanto il mondo comporta una certa perfezione ed un certo grado di essere; ma il male propriamente parlando non è nulla; esso è molto più una mancanza di essere che un essere; il male deriva dalla inevitabile limitazione che goni creatura comporta. L’assimilazione del mondo a Dio è inevitabilmente deficiente e nessuna creatura riceve la pienezza totale della perfezione divina perché le perfezioni passano da Dio alla creazione solo effettuando una specie di discesa. L’ordine secondo cui si effettua questa discesa è la legge stessa che regola l’intima costituzione dell’universo: tutte le creature si dispongono secondo un ordine gerarchico di perfezione, dagli angeli ai corpi. Al vertice della creazione si trovano gli angeli; sono delle creature incorporee e anche immateriali (quindi non si accetta la materialità insita nella creazione che aveva sostenuto Bonaventura); Tommaso concede agli angeli la più alta perfezione che sia compatibile con lo stato di creatura; bisogna concepire gli angeli tanto semplici quanto una creatura può esserlo. Essi non hanno materia e quindi non possiedono principio di individuazione; ciascuno di loro è più specie che individuo, formando per se stesso un grado irriducibile nella scala discendente che conduce ai corpi. Ciascuno di loro riceve dall’angelo immediatamente superiore la specie intellegibile, prima frammentazione della luce divina. Con la sua anima l’uomo appartiene ancora alla serie degli esseri immateriali; ma la sua anima non è un’intelligenza pura come lo sono gli angeli, essa non è che un principio di intellezione e può conoscere un certo intellegibile; ma non Intelligenza perché è essenzialmente unibile ad un corpo. L’anima è in effetti una sostanza intellettuale, alla quale è essenziale essere la forma del corpo e costituire con esso un composto di materia e di forma. L’anima umana per questo è all’ultimo gradino delle creature intelligenti. L’umana perde il diritto all’apprendimento diretto dell’intellegibile. Resta in noi qualche bagliore affievolito del raggio divino, quindi partecipiamo ancora in qualche punto dell’irradiazione di cui Dio è la fonte. Tuttavia il nostro intelletto non ci fornisce più delle specie intellegibili già elaborate; la sua più alta funzione è la conoscenza dei principi primi; essi preesistono in noi allo stato virtuale e sono le prime concezioni dell’intelletto. questo atto ne costituisce anche l debolezza in quanto permette di formare solamente partendo dalle specie astratte delle cose sensibili. L’origine della nostra conoscenza è dunque nei sensi. Nella natura l’elemento che particolarizza e individualizza queste nature è la materia di ciascuna di esse; l’elemento universale che esse contengono è invece la loro forma. Conoscere consisterà dunque nel liberare dalla cosa l’universale che vi si trova contenuto; questa operazione si dice astrazione. L’anima razionale stessa è in potenza in
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