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E. Morini, Storia della moda XVIII-XXI secolo, Sbobinature di Sociologia Della Moda

Esame di STORIA DELLA MODA CONTEMPORANEA (Libera università di lingue e comunicazione (IULM) Anno accademico 2021-2022

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 03/07/2022

Atena1995
Atena1995 🇮🇹

4.5

(186)

577 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica E. Morini, Storia della moda XVIII-XXI secolo e più Sbobinature in PDF di Sociologia Della Moda solo su Docsity! lOM oAR c PSD| 2805715 SINTESI COMPLETA DI E. Morini, Storia della moda XVIII-XXI secolo Esame di STORIA DELLA MODA CONTEMPORANEA (Libera università di lingue e comunicazione (IULM) Anno accademico 2021-2022 lOM oAR c PSD| 2805715 La moda è un fenomeno culturale che ha un tempo limitato: muore in un tempo più o meno breve. Essa non appartiene a tutte le epoche e a tutte le civiltà. È un fenomeno culturale e sociale nato in Occidente fra il XIII e XIV sec., prima non esisteva. La moda implica la preferenza per ciò che è nuovo rispetto a ciò che è tradizionale o già entrato nell’uso da qualche tempo. Con Occidente, si intende soprattutto Italia (i centri come Firenze e Milano) e le Fiandre: − In Italia, il fenomeno della moda si collega alla nascita dei comuni (formazioni socio- culturali ed economiche). Nei comuni ad avere i soldi sono i borghesi e i mercanti, e che hanno in parte il potere. Una realtà sociale che prende forme diverse. − Anche nelle Fiandre ci sono i mercanti ed iniziano ad esserci i banchieri, tra loro avvengono degli scambi. Per entrambi i casi, accade che l’élite del potere non è più legata solo al fatto che un imperatore abbia dato ad una persona di una certa importanza un titolo nobiliare, che viene tramandato di padre in figlio per diritto di nascita. Ora, i poteri si formano attraverso le ricchezze (es. la famiglia Medici). Inizia a crescere una mobilità sociale molto forte: non è solo la corte che si trova nel castello ad essere al vertice della città, ma anche i comuni e le istituzioni determino il successo della città stessa. Si poteva entrar a far parte dell’élite non solo attraverso il diritto di nascita ma attraverso il fatto di essere bravi mercanti, imprenditori ecc. Ora, ad essere il fondamento della società è il futuro. Avviene una trasformazione totale del modo di vestire (dalla toga all’abito). Prima il vestito rappresentava una forma tradizionale, i segni che erano nei vestiti rappresentavano la tradizione. Successivamente inizia un tipo di meccanismo che determina la creazione di abiti che rappresentano ognuno di noi nella maniera migliore. Le mode sono cambiate con tempi diversi: − Mode di lungo periodo  cambiano la forgia del vestito, cambiano di modello estetico di chi li indossa; − Mode di breve o brevissimo periodo  cambiano gli elementi del vestire. Inizi ‘500: una sorta di Moda Italiana che è quella di Tiziano e Raffaelo, che si ritrova nella pittura veneziana  Fine seconda metà ‘500 inizi prima metà ‘600: Moda Spagnola  Moda Francese (Luigi XIV). 1 lOM oAR c PSD| 2805715 4 − LVMH (Luis Vuitton, Fendi, Givenchy, Cèline, Emilio Pucci, Bulgari, Kenzo, Loro Piana, ecc.) Christian Dior (che determinava il 42% delle azioni di LVMH è stata acquistata nel 2017); − Kering (ex PPR) (Gucci, Bottega Veneta, YSL, Balenciaga, Alexander McQueen, Stella McCartney, Pomellato, ecc.) Quindi il panorama che ci si presenta è diverso: non più case di moda di proprietà, di diretta gestione da parte del creativo, ma una galassia di marchi che sono proprietà di un polo finanziario. Secolo successivo 11 Settembre 2001  Attacco terroristico alle Torri Gemele 7 Ottobre 2011  Viene dichiarata guerra all’Afghanistan 20 Marzo 2003  Guerra del Golfo contro l’Iraq Improvvisamente tutto questo complicato sistema di gestione del lusso, ha dovuto fare i conti con un mondo che ha dovuto prendere atto di una serie di eventi assolutamente imprevisti. La prima reazione è stata una sorta di rigurgito etico contro il lusso: Giusy Ferrè (Giornalista di moda famosa) nel dicembre del 2001 scriveva “Di lusso e di immagine, robe che piacevano tanto, oggi la moda parla mal volentieri [...], perché ostentare il lusso, anche quello massificato, sembra inopportuno”. Ma non era proprio così. Non si determinò la fine del lusso. Le griffe di lusso hanno continuato a lavorare sul lusso, spostando l’attenzione dall’abito agli accessori ed in particolare a quelli di pelletteria. Le case di moda iniziano a lanciare novità ogni stagione, ma soprattutto propongono i loro modelli più classici che davano la sensazione di un acquisto non effimero e la certezza di entrare in possesso di uno status symbol universalmente riconosciuto. Ciò è possibile se attraverso la comunicazione si riesce a costruire un’identità di marca molto forte, che tutti riconoscono, che si trasmette attraverso una serie di canali; quindi si investe. Cosa significa lusso nel nuovo millennio? Nel 2001, esce uno studio fatto da Bernard Dubois, Gilles Laurent e Sandor Czllar, che identifica quelle che, nell’immaginario collettivo, sono le teorie fondamentali per definire un bene di lusso; quindi il nuovo lusso inizia ad essere studiato dai teorici del marketing. Le sei caratteristiche fondamentali del lusso: 1. Qualità eccellente; 2. Prezzo elevato; 3. Unicità/Rarità; 4. Rilevanza estetica e Contenuto artistico; 5. Tradizione; 6. Superfluo. lOM oAR c PSD| 2805715 5 Come veniva diviso il lusso? Vi sono diversi tipi di lusso prendendo in considerazione diverse categorie di persone: − Lusso inaccessibile o assoluto  beni e servizi disponibili in tiratura limitata, spesso pezzi unici prodotti artigianalmente, distribuiti in maniera selettiva e a prezzi molto alti. Gli acquirenti appartengono alla classe sociale più ricca che manifesta la propria superiorità attraverso il possesso di beni non solo molto costosi, ma anche esclusivi erarissimi: − Lusso intermedio o aspirazionale  i beni in questa categoria si avvicinano alla precedente per prezzo e reperibilità, ma non sono più costum made. Il consumatore è solitamente un individuo che ha raggiunto una vita agiata grazie al successo professionale e che cerca nei beni di lusso un’affermazione dello status raggiunto. − Lusso accessibile  brandizzato, alla moda e distribuito su larga scala. Comprende tuttii prodotti disponibili alla fascia più agiata della classe media. I nuovi mercati del lusso, come Russia e Cina, posero un limite alla sperimentazione nella moda. Erano affascinati dalla perfetta eleganza dell’haute couture parigina degli anni ’50 o della signorilità dei modelli più classici. Abiti e accessori dovevano trasmettere la memoria di un illustre e magico passato (HERITAGE). Il passato era fondamentale: gli archivi aziendali fornivano ispirazione; i fondatori furono trasformati in miti spesso fantasiosi; lavorazioni artigianali e materiali da sogno (spesso lontani dalla realtà dei nuovi prodotti messi in vendita) divennero oggetto storytelling. IL CETO MEDIO SI E’ ASSOTTIGLIATO E LE DISUGUAGIANZE SONO AUMENTATE. lOM oAR c PSD| 2805715 6 Il lusso, la moda, la borghesia Il lusso Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. La sua centralità non esclude che il modo di vestire sia stato sempre utilizzato per comunicare altri significati che sono cambiati a seconda delle culture, delle situazioni, e delle scelte individuali. Con moda s’intende qualcosa di diverso rispetto all’abbigliamento, che nella civiltà occidentale è diretta conseguenza del rifiuto della nudità e dell’obbligo sociale di ricoprire il corpo con indumenti. Se l’abbigliamento riguarda tutta la società, la moda è stata, a partire dal Medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abbigliamento per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità. Il collegamento fra foggia dell’abito e ruolo sociale è, nel mondo antico, fissato da regole che appartengono alla sfera della tradizione e sono soggette al principio della stabilità nel tempo. Questo modello di collegamento è stato messo in crisi nell’Europa Occidentale fra il XIII e il XIV secolo, quando alla fissità tradizionale è stata sostituita la regola della trasformazione e della modernità. L’abito ha cominciato a rappresentare la posizione o il ruolo sociale della persona secondo regole non rigide, ma soggette all’inventiva, al gusto, alle risorse di singoli individui o di gruppi ai quali è stata riconosciuta una preminenza estetica e culturale in questo campo. L’introduzione del principio di cambiamento e della moda è stato uno degli effetti di un più ampio processo storico, che ha visto la trasformazione strutturale dell’Europa e il suo passaggio dal mondo antico a una concezione moderna dello Stato, del potere, e dell’evoluzione sociale. “far vedere ed essere visti”. Per tutti i secoli dell’Ancien Régime questa regola rimase indiscussa. Il principio dell’ineguaglianza trovava una ragione nel divino. Ma il lusso della corte era anche immagine dello Stato e della sua concezione economica precapitalistica. Solo con Luigi XIV lo sperpero fastoso esplicitò la propria fondamentale funzione sociale ed economica, ma al prezzo del superamento del modello precedente. Le corti, fin dall’inizio della loro vicenda storica, non potevano in alcuno modo recedere dalla pratica del consumo vistoso. La rottura operata dalla Riforma protestante creò le premesse per una nuova cultura relativa al lusso, alla ricchezza, e al loro significato etico. La ricchezza, segno del favore divino, non poteva essere sperperata per il piacere o la vanità personale, ma doveva essere gestita in nome della comunità. In conclusione, l’espetto esteriore non ha relazione diretta con l’importanza sociale della persona, quindi modestia e moderazione diventarono le vere doti da comunicare attraverso l’abito (il tessuto era l’elemento fondamentale dell’esibizione del lusso). L’abito diventò segno di comunicazione, ma in questo caso “parlava” di una rarità diversa rispetto a quella dei tessuti sfarzosi e delle pietre preziose, una rarità morale ed ideologica, che si esprimeva attraverso i colori, materiali, particolari sartoriali specifici. lOM oAR c PSD| 2805715 9 responsabile dell’assemblaggio, ma di essere aiutato da un professionista, che gli metteva disposizione più di un servizio. Fu questo il momento delle marchandes de modes, che uscirono dalla logica corporativa della specializzazione unica. In precedenza anche quello della moda era un mondo maschile, che lasciava alle donne i lavori più nascosti e meno pagati, in questa fase esse intravidero spazi per la loro imprenditorialità. Nacque una possibilità per la creatività e la professionalità femminili. Le mode del settecento prevedevano numero di fogge estremamente limitato, variabili all’infinito attraverso i tessuti, ma soprattutto attraverso i sistemi di ornamenti che venivano sovrapposti all’abito, alle acconciature, agli oggetti da mano. La trasformazione delle professioni della moda avvenne su due fronti: quello culturale e quello economico. Da un lato, l’Enyclopedie colse l’importanza del sistema del tessile e dell’abbigliamento nello sviluppo di una società moderna e pose l’attenzione sulla sua struttura produttiva e sulle sue implicazioni, le sue abitudini, i sui codici e i suoi significati, sia provato che pubblici. Tentò di definire in un metro di giudizio estetico: il gusto. Abbigliamento e moda assunsero un valore emblematico: per essere visibili percorsi che la società settecentesca stava compiendo per trasformare la struttura del mondo occidentale. La necessità dell’apparire non era stata cancellata, ma doveva assumere nuove forme, questo nuovo apparire non doveva più essere demandata a una corte ma al gusto e all’etica del giusto lusso. La vera novità stava nell’attenzione che venne dedicata al lavoro. L’Encyclopedie disegna una mappa delle professioni della moda. Non è un semplice elenco, ma il disegno di un sistema artigianale complesso che si basava sulla profonda e raffinata sapienza di lavoro. Emergono le meraviglie di una capacità professionale sedimentaria. Da quel momento la qualità degli artigiani della moda era riconosciuta. La cultura occidentale sentiva in questo modo la loro esistenza professionale. L’Encyclopedie considerava gli artigiani della moda al pari dei rappresentanti delle altre scienze, partecipi del grande progetto illuminista del dominio dell’uomo sulla natura. Le corporazioni Il sistema delle Arti e dei Mestieri e i Corps mercantili francesi avevano cominciato a subire trasformazioni già alla fine del 600. I sarti avevano visto riconoscere l’esistenza giuridica della corporazione delle couturières, cui era stato riconosciuto il diritto di vestire le donne e bambini. Ancora prima, nel 1595, era nata la corporazione delle lingèries, con il diritto di fabbricare e vedere “ogni tipo di tela di lino e di canapa, il tutto sia all’ingrosso sia il dettaglio, e in generale tutti gli articoli che vengono confezionati con tali materiali”. Era una corporazione femminile che si collocava a mezzo tra la realizzazione e la vendita. Tutto questo era destinato ad avere un grande sviluppo in un secolo in cui il consumo di biancheria ebbe un enorme aumento. Ma i veri padroni della moda parigina erano stati i merciers. Nei loro magazzini si commerciava con tutti gli oggetti e i manufatti del lusso legati alle più diverse mode. Avevano in comune con i drappieri il monopolio della vendita delle stoffe più ricche. Svolgevano una funzione fondamentale ai fini della diffusione delle mode: quella di intermediari fra la corte e il resto della società. Soprattutto, però, la loro intermediazione aveva un ruolo lOM oAR c PSD| 2805715 10 fondamentale all’interno del sistema della moda, sia nei confronti dei fabbricanti, sia del mercato dell’importazione. Da questa potente corporazione prese forma, alla fine del Seicento, una specializzazione che divenne appannaggio delle donne: quella delle marchandes de modes. Le marchandes de modes Secondo l’Encyclopedie, la loro attività comprendeva tutto ciò che riguardava le acconciature e gli ornamenti degli uomini e delle donne. Il loro nome deriva dall’oggetto del loro commercio perché vendevano solo articoli di moda. Questa divenne un avere propria corporazione solo con la riforma del 1776. L’Encyclopedie aveva colto a pieno la novità del loro compito: esse inventavano. L’invenzione della novità cominciava a passare dalla corte ad un professionista. La moda e i modelli vestimentari Alla metà del settecento, il modello più diffuso in Francia era la cosiddetta robe à la française, che si indossava con il panier, ed era composta da una sopravveste, una sottana e una pettorina. la sopravveste, aperta davanti e allacciata in vita, aveva dietro due gruppi di piaghe, montate all’altezza delle spalle e del collo, che ricadevano per tutta la lunghezza dell’abito. L’apertura del davanti mostrava la sottana, spesso realizzata nello stesso tessuto, e la pettorina, un accessorio di forma triangolare che copriva il busto ed era solitamente ricco di decorazioni. La moda inglese si diffusa in Francia con un modello detto robe à l’anglaise, che prevedeva un corpetto attillato e una gonna, montata a piccole pieghe in modo da essere più abbondante nei fianchi e sul dietro, aperta sul davanti per lasciar vedere la sottana. La scopo era dare ampiezza all’indumento senza ricorrere al panier, che fu sostituito da imbottare e rigonfiamenti a touenure. Per ottenere un risultato ancora più vaporoso, la gonna potevo venire sollevata, utilizzando nastri, lacci o bottoni, fino a creare un effetto a festoni rigonfi: questa moda fu definita: à la polinaise. L’ultima esclusiva dell’élite dell’Ancien Régime fu l’abito di corte con lo strascico, il grand habit, irrigidirò da corsetti steccati e paniers monumentali, arricchito con sontuose decorazioni. Nel corso del settecento le stoffe con cui condizionarlo passarono dei pesanti tessuti operati a complessi motivi alle leggere sete in tinta unita su cui le marchandes de modes potevano aggiungere fantasiose decorazioni. All’estremo opposto si trovava il cosiddetto casaquin, una versione accorciata della robe à la française con pieghe sul dorso, da indossare come sotterro con una gonna, destinato ad un uso più privato e casalingo. La sua diffusione rispondeva soprattutto alla necessità di riutilizzare i preziosi tessuti con cui erano realizzati gli abiti. lOM oAR c PSD| 2805715 11 Il lavoro della sarta riguardava la perfetta costruzione degli elementi base del vestito, quello della modista era invece finalizzato a ottenere un’infinita quantità di variazioni partendo da questa struttura immutabile. Alla logica delle decorazioni sfrenate rispondeva quella della semplificazione e la ricerca della comodità, favorita in particolare della struttura aderente della robe à l’anglaise. La rielaborazione più diffusa di questa linea fu la redingote, derivato dal costume da equitazione normalmente indossato delle signore inglesi, che introduceva nell’abbigliamento femminile alcuni elementi maschili, come il doppiopetto, il colletto rivoltato, il gilet, i grandi bottoni. Le francesi utilizzarono la redingote come abito da passeggio da città, attratti soprattutto dalla possibilità di movimento che offriva. L’abbigliamento delle classi lavoratrici, proveniva una moda che ebbe una diffusione analoga se non superiore: il completo composto da un corpetto, il caraco, e una gonna, adottato nella vita quotidiana prima dalla borghesia e poi anche dalle classi elevate. La differenza fra il completo ispiratore e la moda che si diffuse nei ceti alti sta soprattutto nel tessuto: di lana e lino (prima), di cotone o seta (dopo). I modelli vestimentaria della seconda metà del secolo rispondevano alle ci sita e stili di vita non più legati ai rituali di corte, ma alla città e ai luoghi in cui “vedere ed essere visti”. La chemise à la Réine La vera rottura con il sistema vestimentario ereditato dal passato avvenne negli anni 80. Nel 1783 fu esposto al salone un ritratto di Maria Antonietta in cui la regina indossava un abito bianco di mussolina, dalla foggia semplicissimo: chemise à la Reine. La sua adozione si collocava nel generale gusto per l’esotismo di questo periodo. Il nuovo vestito della sovrana era una semplice camicia di Rita con le maniche lunghe e una fascia in vita. L’ampiezza era trattenuta alla scollatura da una coulisse, ricoperta da una specie di colletto a due balze, e lungo le maniche da arricciature: un indumento semplicissimo, la cui qualità stava soprattutto nei significati di tipo culturale che esprimeva. Il tessuto, la mussolina di cotone leggera, eterea, trasparente e preziosa, proveniente dall’India, rispondeva alle indicazioni di teorie illuministe: era igienica, comoda, giovane. E poi il colore, un’adesione ideale a quel gusto neoclassico che stava trovando nei reperti del mondo antico la chiave moderna della bellezza. Il bianco stava diventando il colore della fine del secolo e il corpo un fatto culturale e sociale. Rose Bertin Gran parte delle novità che fecero la moda di questo periodo furono pensate scelte negli appartamenti di Maria Antonietta e preso la forma nelle mani di Rose Bertin. La giovane regina non amava l’etichetta che regolava la vita di Versailles. Le sue scelte furono motivate dal fascino dello stile di vita inglese, ormai diventato una moda. Perché Maria Antonietta amava la moda e soprattutto adorava i capricci e le 1000 novità con cui parliamo è l’abbigliamento. Rose Bertin fu la risposta questo continuo desiderio di rinnovare il proprio aspetto e il modo di vestire delle dame di corte. La regina di Francia fu quasi il simbolo di una maniera di vestire ricca di decorazioni. lOM oAR c PSD| 2805715 14 L’ultima vera rappresentazione ufficiale dell’Ancien Régime è stata il corteo degli Stati generali, convocati da Luigi XVI, che ebbe luogo a Versailles il 5 maggio 1789. Il gran maestro delle cerimonie, marchese di Brézè , aveva imposto le regole vestimentiarie cui deputati dovevano attenersi e che avevano il compito di rendere visibili le differenze gerarchiche. Il clero doveva indossare gli abiti ecclesiastici appropriati al proprio stato all’interno della Chiesa. Il secondo Stato indossava abiti, idonei al proprio rango aristocratico, marsinae sottomarsina di seta nera o di panni decorati con gallo doro, e un mantello coordinato, calzini di seta nera, calze bianche, una cravatta di pizzo, una spada e un cappello con piume alla Henri IV. Il Terzo Stato aveva l’ordine di indossare un abito di panno nero, calze nere, un mantello corto di seta nera. Dovevano portare una cravatta di Musso in tinta unita e un cappello a tricorno nero e non avevano diritto alla spada. La discriminazione vestimentaria venne messa in discussione e uno dei portavoce del Terzo Stato chiese di poter indossare i propri abiti, i migliori per salvaguardare il carattere e la libertà individuali. Il principio contenuto in questa richiesta era lo stesso che sostanziava un problema politico: la questione del voto. Disatteso da subito dai rappresentanti della borghesia, che lo adottarono solo per le occasioni cerimoniali, il regolamento del Marche venne abolito il 15 ottobre 1789. L’affermazione del significato politico dell’abito, contro la tradizione del suo codice gerarchico, diede il via alla trasformazione e all’invenzione di una serie di disegni esplicitamente caratterizzanti in senso rivoluzionario o controrivoluzionario. Attore principale della rappresentazione era il popolo di Parigi, che elaborò impose le proprie regole di comportamento politico e i propri codici di comunicazione non verbale. I segni dovevano essere chiari, diretti e fatti per non essere fraintesi (razionalismo, uguaglianza e libertà). La borghesia e il popolo di Parigi scoprirono così il potere comunicativo dell’abito. La nuova Francia si era presentato con il tricolore bianco, rosso e blu che diventò coccarda da applicare sul vestito e tessuto, a righe o a piccole fantasie, con cui realizzare gonne, calzoni, marsine, gilet, caraco, nastri da acconciature, cuffie, calze eccetera. E ovviamente divenne la divisa dei soldati della guardia nazionale. La coccarda, fu l’unico oggetto vestimentario reso obbligatorio come segno distintivo dei cittadini francesi. Uguaglianza La rappresentazione del principio filosofico di uguaglianza fu contrapposto al lusso: se il privilegio gerarchico si mostrava tradizionalmente attraverso il privilegio del lusso, la cancellazione del secondo non poteva che significare l’eliminazione del primo. Vennero così sostituiti alcuni segni: alle fibbie preziose per le scarpe si preferirono i lacci, i gioielli si caricarono i preziosismi, I tessuti di cotone o lana prese il posto di quelli di seta. Le acconciature seguirono lo stesso processo di semplificazione e democratizzazione: scomparve il bianco della cipria e comparve la moda del taglio corto e scomposto à la Romaine o à la Titus. La moda cambiò punto di riferimento: l’abito borghese e quell’operaio fornirono il modello del nuovo apparire. La trasformazione fu più evidente nell’abbigliamento maschile: la moda borghese di gusto inglese e poi le divise dei lavoratori offrirono gli strumenti per inventare nuove uniformi civili. Dalla prima furono recepiti tessuti di lana in colori sobri, in tinta unita o a piccoli disegni, i capelli rotondi e l’eliminazione di decorazioni lussuose. Dalle seconde prese forma la divisa del sanculotto, dichiaratamente ideologica e legata alla politica giacobina e montagnarda, che lOM oAR c PSD| 2805715 15 comprendeva i pantaloni lunghi e uniformi, la carmagnola degli operai, gli zoccoli dei contadini e la pipa. Nell’abbigliamento femminile il principio dell’uguaglianza era più difficile da cogliere. La moda continuava a proporre la mise di derivazione popolare composta da gonna, caraco e fichu, cui venivano accoppiate fantasiose acconciatura. Il denominatore comune era la semplicità. Il cambiamento di vita e di centro di attenzione sociale attribuiva nuovi significati anche l’abbigliamento femminile: un vestito da città, fatto per camminare, per stare in mezzo alla folla, per essere comode nei movimenti, per ostentare una quotidianità operosa e impegnata. Ci furono anche alcune esasperazioni in questo senso, come l’uso di pantaloni da parte delle partecipanti ad alcuni club protofemminista. Una vera società di uguali avrebbe dovuto caratterizzarsi anche attraverso l’adozione di un abbigliamento indifferenziato e rispondente a criteri razionali o naturali. Da ciò scaturì incarico dato a Jacques- Louis David per la creazione di divisa da te è una società di uguali. David stesso non riuscì a trovare lo scenario sociale capace di fornelli ispirazione per qualcosa che fosse un vero abito e non un costume teatrale. La dichiarazione di uguaglianza non poteva che rimanere un principio generico, riferimento a un dogma filosofico che proclamava la sostanziale uguaglianza naturale di tutti gli uomini al momento della nascita. Libertà Il vero principio borghese che avrebbe regolato tutta la logica vestimentaria futura fu sancito dalla Convenzione con cui fu decretata la libertà totale di abbigliamento. La Convenzione sancì il diritto per ciascuno di vestirsi secondo il proprio giudizio. Con questa decisione si entrava nel regno della libertà. Però libertà poteva voler dire molte cose. Si comunicava attraverso simboli, il primo e il più semplice dei quali fu il berretto frigio di panno rosso: esso era considerato non solo il segno degli schiavi liberati nell’antica Roma, ma di tutte le occasioni in cui la tirannia era stata abbattuta. Libertà comincia voler dire anche mancanza di regole imposte. Le riviste di moda registravano novità di ogni genere, i visitatori stranieri riferivano stupefatti il disordine vestimentario di cui si trovavano essere testimoni. La stessa élite e rivoluzionaria aveva comportamenti contrastanti. Aldilà dell’obbligo all’esibizione della coccarda, la Rivoluzione non stabilì regole e in questo modo sancì il passaggio da una moda che esibiva le separazioni di casta a una che proclamava idee politiche. Suggeriva le differenze individuali, differenza che in breve si sarebbero trasformate in segni di distinzione anche sociale. La moda Tutti simboli della rivoluzione, aldilà del loro senso politico, ebbero anche la forma di mode. Le marchandes de modes si occuparono della nuova iconografia e trasformarono in acconciature, abiti e accessori. lOM oAR c PSD| 2805715 16 La moda neoclassica Le mode del Direttorio Con la caduta di Robespierre finì la fase eroica e ideologica della rivoluzione. Il Direttorio cominciò con feste e balli, i Bals de Victines. Fu uno strano modo per commemorare le vittime e un lasciarsi andare alla sensazione di essere dei sopravvissuti. Questi rituali produssero segni vestimentaria specifici che si trasformarono in mode femminili che avevano il sapore di una nuova ideologia. Capelli tagliati à la victime, scialli rossi, un nastro rosso al collo, un nastro dello stesso dolore incrociato intorno al busto. La reazione maschile si servì di segni meno precisi, ma più vistosi: la jeunesse dorée, composta di giovani borghesi, cominciò a indossare indumenti che erano ispirati alla moda inglese, esaltandone le forme e gli effetti sartoriali, a portare i capelli lungi e sforbiciati, ma incipriati. La divisa era costruita in modo da contravvenire alle regole dell’abbigliamento sanculotto, per dichiara la propria assoluta differenza di te rispetto al gruppo giacobino. Sia la jeunesse dorée, sia la compagine giacobina erano martirizzati dalla società che si stativa formando e il loro uso dei segni vestimentari era ormai legato al passato. L’abbigliamento maschile alle otto alla borghesia che aveva raggiunto il potere aveva solo due strade: quella della divisa militare e quella dell’ambito del lavoro, professionale o intellettuale. La grande rinuncia maschile alla moda era ormai avvenuta e da quel momento i mutamenti del modo di vestire degli uomini europei si sarebbero concentrati più sulla comunicazione di elementi di gusto e distinzione. La tunica femminile Il Direttorio segnò un fondamentale momento di passaggio nella moda femminile borghese. Ora l’abito fu affrancato dalla politica. Le mode à la victime furono forse le ultime a servirsi della metodica diretta e parlante. Dopo la caduta di Robespierre, le donne incominciarono ad indossare abiti diritti di mussolina bianca che da un lato ricordavano la chemise à la Reine e dall’altro le tuniche classiche di cui erano rivestite le fanciulle e le figure allegoriche nelle feste rivoluzionarie. C’era però anche una terza fonte di ispirazione: la pittura di tema storico, romano e greco, di cui David era stato il massimo rappresentante, e il neo classicismo. Si aggiunse la riproposta della cultura classica da parte del pensiero settecentesco: i testi greci vennero tradotti, quelli latini ebbero la loro circolazione. Anche architettura comincia ripensare il proprio sistema proporzionale ritornando all’insegnamento di Palladio e Vitruvio. L’apertura pubblica del Louvre mise a disposizione di artisti e pubblico una conoscenza diretta dell’arte antica che non era mai stata possibile prima. Ma ciò che influenzò l’immaginario collettivo della fine del settecento fu in teatro, che l’Illuminismo aveva indicato come educatore della nuova società. lOM oAR c PSD| 2805715 19 propria corte e favorendo in ogni modo la sostituzione, nell’abbigliamento delle dame, della mussola con i fotoni francesi, il tulle e la seta leggera. “Le Moniteur universel” annunciava la presentazione a corte dei dodici scialli che Napoleone aveva commissionato a Ternaux, in cui il boteh era stato sostituito da mazzolini e ghirlande imitate dai più bei fiori d’Europa. Era l’inizio di una produzione originale in cui la Francia avrebbe avuto un ruolo di eccellenza fino agli anni 60 dell’ottocento. Il disegno politico volto a favorire le più raffinate forme di artigianato interessò anche il ricamo e il merletto. Manti e abiti di corte, completi maschili da cerimonia, oggetti da parato furono decorati con i simboli della nuova iconografia imperiale ricamati in oro e argento, mentre gli indumenti femminili furono ricoperti di lievi lavorazioni a plumetis si arricchirono di bordi, di una banda centrale e di decorazioni a motivi di fiori, ghirlande, greche ecc. realizzati in bianco i con paillettes. Lo stile impero stabilì anche le regole della moda imperiale, che rimase sostanzialmente uguale a se stessa fino al 1815, il revival neoclassico continuava essere il modello di base. Anche negli accessori e nelle acconciature il percorso con lo stesso. Le nuove mode nascevano spesso intorno alle campagne militari dell’imperatore. L’Egitto porto il turbante e gli scialli; la Prussia, la Polonia e la Russia scatenarono l’amore per le pellicce. L’Italia si inserì nel generale gusto neoclassico e in particolare in quello di gioielli all’antica. Il grand habit di corte La reintroduzione dei rituali, dei cerimoniali e di protocolli di corte richiese l’elaborazione di un modello vestimentario e di apparato adatto agli eventi ufficiali. Se per gli uomini si tornò all’habit à la française, per le donne il problema era più complesso. La moda aveva completamente cancellato il modo di vestire dell’Ancien Régime. Napoleone optò per un’immagine moderna e per la vita alta. L’abito di corte non era più solo una questione di moda, la sua funzione doveva essere in anzitutto simbolica. Per questo fu dedicata tanta cura all’allestimento della cerimonia dell’incoronazione, che doveva fissare nell’immaginario collettivo l’aspetto e il significato della corte e del potere imperiale francese. All’incoronazione Napoleone indossò una tunica di raso bianco, ricamata in oro e bordata di una frangia, e un pesante mantello di corte di velluto porpora foderato di ermellino, la cui foggia ricordava il tradizionale manto regale, che era stato ricamato in oro da Picor con un motivo che comprendeva monogrammi “N”, ampie foglie di olivo, alloro e quercia. Ai piedi portava un paio di scarpe, anche esse ricamate in oro, con un disegno che fingeva i lacci dei sandali romani. Un diadema a foglie di alloro, lo scettro, la mano della giustizia e la spada che si riteneva fosse appartenuta a Carlo Magno completavano l’immagine imperiale. Il vestito a vita alta dell’imperatrice era di raso bianco broccato d’argento, ricamato in oro e completato con una frangia. Il vero elemento che trasformava il raffinato abito alla moda di Joséphine in un grand habit dincorte era però il manto di velluto porpora, foderati di ermellino e ricanti in oro, che si allacciava alle spella con due bretelle. L’incoronazione rappresentò la messa a punto dell’immagine della corte imperiale e la definizione del suo apparire e della nuova etichetta e fissò un modello simbolico e atemporale che non doveva più essere modificato. lOM oAR c PSD| 2805715 20 All’interno della stessa corte si creava una frattura fra la normalità della vita quotidiana e la sacralità del potere. Diffusione e professioni della moda Tutta la moda imperiale fu un affare di corte, legata al suo entourage e al suo apparire. Come tale venne inventata e diffusa soprattutto della famiglia imperiale. Quando poi le giovani donne della famiglia Bonaparte diventare una regine, si trasformarono in ambasciatrici della moda francese in tutto l’impero. Le loro corti si modellarono su quella di Parigi. Il vero mezzo di comunicazione dello stile Impero in Francia e all’esterno fu “Le Journal des dames et des modes”. Le tavole proponevano le mode del giorno riprese dalle toilettes delle dammi il Pin mista. L’intervento di professionisti però non si limitò alla diffusione delle nuove mode. Il più famoso fu Louis- Hippolyte Leroy, il couturier che seguì le sorti della moda francese del Direttorio alla Restaurazione, lavorando sempre però i livelli più alti sella società. Leroy divenne il solo fornitore dell’imperatrice il punto di riferimento di tutte le dame eleganti d’Europa. La sua attività, in Rue de Richelieu, era articolata in modo da rispondere a tutte le possibili richieste: un atelier in cui realizzare gli abiti, un altro per gli accessori, un negozio per la vendita dei tessuti. Fu un perfetto esecutore degli disegno che gli fornivano diversi artisti che si erano specializzati in queste forma di creatività. La sua fama dipese anche dalla straordinaria capacità di rispondere alle esigenze del nuovo mercato rappresentato dalle corti napoleoniche. Una sua specializzazione erano gli scialli cachemire. Egli divenne la guida l’assoluta del buon gusto femminile e in qualche misura fu il vero depositario dello stile Impero e della moda di corte. Leroy non era comunque l’unico fornitore la famiglia imperiale. La moda imperiale, però, era di fatto limitata alle corti. Al di fuori di esse cresceva quello spirito borghese che aveva provocato i grandi cambiamenti settecenteschi. Alla fine dell’impero la morale borghese prese il sopravvento: la crisi economica che si abbatté sulla Francia costrinse a un ripensamento, all’abbandono del lusso, alla ricerca di modi migliori per gestire i propri affari. Il sogno imperiale, era stato infranto della forza delle potenze straniere, ma soprattutto aveva prodotto una generalizzata coscienza borghese. L’affermazione della moda borghese La nuova cultura del lusso La restaurazione non significa un ritorno all’Ancien Régime, ma l’affermazione di nuove regole sociali ed economiche alla cui riuscita era necessario il pacificato apporto dell’aristocrazia. L’età economica iniziava da un livellamento: eliminate le gerarchie ereditarie, ridistribuita la ricchezza, l’identità sociale lasciava da una nuova legittimità politica e culturale, quella lOM oAR c PSD| 2805715 21 dell’uguaglianza dei cittadini sancita dalla legge. Questo principio non eliminava le differenze, ma sostituiva quelle antiche, basate sul diritto di nascita e di primogenitura, con altre più moderne e borghesi, legate al denaro. Esso diventò la misura del talento, dell’intelligenza, delle energie, del successo e, quindi, il vero metro della disuguaglianza. Era finita l’epoca del lusso grandioso delle corti e dei signori e iniziava un mondo borghese fondato sul risparmio, il controllo, la ragionevolezza, la sobrietà. Lavoro e casa erano i regni dell’uomo e della donna; la città offriva una serie di attività di piacere e divertimento destinate a tutti. C’erano giardini e parchi dove passeggiare o mostrarsi sul lussose carrozze, caffè dove sostare e, per la sera, teatri, balli, concerti, opere liriche. La stessa famiglia reale non si distingueva per un tenore di vita particolare. La borghesia che si andava affermando non si riconosceva nella cultura del lusso ostentato e dello sperpero, nei confronti dei quali aveva porti remore moralistiche. Il comfort Oggetti, dettagli, segni di una nuova cultura materiale finalizzata alla comunità, e l’igiene del corpo e della casa, al benessere: lussi privati spesso privi di qualsiasi aspetto esteticamente ricercato, fatti per una gestualità quotidiana normale. Erano lussi funzionali, resi possibili da una civiltà che tendeva alla tecnologia e che vedeva nello sviluppo delle scienze la chiave del progresso. La rivoluzione industriale, infatti, mise a disposizione di tutti una quantità innumerevole di beni che invasero i mercati nella loro qualità di merci. La tecnologia fornite nel corso del secolo i veri lussi della borghesia: l’acqua corrente, il gas, elettricità Che entrarono infine nelle case per renderle più comode, più confortevoli. Ma tutto questo non era considerato un vero e proprio lusso: quello che apparteneva alla sfera del comfort diventava utile, abitudine e quindi cultura del benessere quotidiano intesa come necessità in generale ed ugualitaria. Il mito dell’eleganza Una logica analoga accompagnava la teoria dell’eleganza, un qualcosa che riguardava il modo di vestire, ma anche il modo di essere. L’abito della borghesia L’abito era l’uomo sociale, nel senso che da un lato comunicava con uno specchio fedele la sua posizione e il suo ruolo, ma dall’altro ne determinava il comportamento alle one non all’occasione. La scelta dell’abito appropiato non era ancora eleganza ma era già una forma di buona educazione, di maniere adeguate. Uomo e donna si vestirono per comunicare il proprio ruolo e il proprio stato sociale. Nero e Bianco furono i soli colori ammessi alla vita pubblica tanto da indurre Baudelaire ad assimilare i suoi contemporanei e tanti becchini, ma il principio egualitario richiedeva una divisa che non ostentasse alcuna differenza gerarchica e nessuna forma di lusso apparente. La distinzione stava nei particolari: il nodo della cravatta, il candore e la stiratura della camicia, il tessuto della giacca, la lucentezza delle scarpe, la fattura del bastone eccetera. Anche l’abito femminile assumeva una caratteristica simbolica precisa: comunicare le virtù della donna che lo indossava. Alle donne non era stato riservato alcuno spazio pubblico e il loro campo di azione era limitato alla casa e alla famiglia. lOM oAR c PSD| 2805715 24 Nello stesso periodo subire una trasformazione fondamentale anche il rapporto con la clientela. Era un rapporto tra l’acquirente e la merce, che cominciava essere totalmente esposta, con un prezzo cercato e non più con trattabile, liberamente visibile anche da chi non era immediatamente intenzionata a comprarla e persino sostituibile. Con le nuove regole ciascuno era libero di aggirarsi fra i banchi di vendita per vedere quanto era esposto e dei giri acquisto anche in base a quello che gli si offriva. Non più un mercato di lusso con prezzi esagerati della rarità dei beni, ma l’esatto contrario. La produzione industriale, che cominciava a immettere sul mercato grandi quantità di prodotti realizzati in serie, aveva costi decisamente più bassi di quelli artigianali. La confezione La vera grande novità di questa fase della società borghese fu la confezione. Gli avieri uomini e delle donne delle classi sociali più alte continuarono essere confezionati da tailleur r couturière I cui modelli venivano pubblicati sulle riviste. Ma la borghesia era estremamente stratificata e i ceti medi e piccoli avevano altri problemi: da un lato erano impossibilitati, per motivi economici, a servirsi degli stessi fornitori dei ceti alti, dell’altro rifiutavano di ricorrere al mercato dell’usato che tradizionalmente forniva gli indumenti agli strati popolari. Il problema riguardava in anzitutto gli uomini, consci del fatto che l’esigenze di decoro e di proprietà mal si accordavano con il riciclaggio di abiti da grande occasione o di stracci di dubbio sanità che venivano venduti in interi quartieri di Parigi. Nel 1824 Pierre Parissot creò un’impresa in cui vendere indumenti maschili, confezionati in serie e nuovi, che all’inizio erano destinatari esclusivamente al lavoro. La serializzazione riguardava soltanto il taglio delle pezze. Ma fu degli anni 40 che la realizzazione di abiti pronti e Boomerang sviluppo. La condizione femminile riguardò solo indumenti e complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo e seguì una logica completamente diversa da quella maschile. Sperimentata negli anni 40 dai magasins de nouveautés, si rivolgeva ad un mercato di signore ricche ed eleganti cui proponeva capi e accessori costosi e all’ultima moda. Il successo della nuova iniziativa commerciale creò le condizioni affinché cominciassero a diffondersi due nuovi tipi di professione: le confezioniste e le sarteconfezioniste. Le prime fabbricavano, su cartamodello e non su misura, mantelline, mantelle, pellicce destinate ai magasins de nouveautés, mentre le seconde realizzavano, oltre ai normali indumenti su misura per singoli clienti, anche vestaglie, camice e abiti per bambini preconfezionati da vendere direttamente. Dagli anni 40, l’industria tessile comincia realizzare e commercializzare pezze operate ho stampate à disposition cosa pensate in funzione del modello finale. La robe de Paris, era un taglio di 15 o 18 m da mettere in vendita in una scatola accompagnato da una litografia che rappresentava una figura femminile vestita secondo una proposta di ripartizione della stoffa e uno schizzo che indicava la maniera di tagliarla specificando quello che corrispondeva al corpetto, ai pannelli e ai volant. Questa ebbe un successo strepitoso, l’articolo di punta dei magasins de nouveautés. I grandi magazzini Nel 1850 si verificò il cosiddetto boom economico. lOM oAR c PSD| 2805715 25 La marcia trionfale del capitalismo ebbe nelle esposizioni universali i suoi giganteschi riti di autoesaltazione. Ma se le esposizioni avevano il compito di mostrare al mondo intero la forza produttiva del capitalismo, la sua vita e il suo progresso erano legati al fatto che lo stesso mondo di ammirati visitatori si trasformasse in un gigantesco mercato per assorbire questa quantità iperbolica di merci. I grandi magazzini furono la forma stabile delle grandi esposizioni, il luogo in cui la merce potrebbe essere non solo ammirata, ma anche acquistata. Queste imprese cominciarono da subito a ingrandirsi, inglobando le case intorno approfittando della grande trasformazione urbanistica che Hussmann stavo operando a Parigi, fino ad arrivare ad occupare, sotto la terza Repubblica, interi quartieri. Il successo delle imprese attiro presto l’attenzione di finanziatori che investirono grandi somme in questa nuova forma di attività commerciale. La regola del grande magazzino era identica a quella elaborata nell’ultima fase dei magasins de nouveautés: ridurre il margine di profitto sui singoli articoli per favorire le vendite e quindi un rapido giro delle merci e del capitale. Questo richiedeva una produzione in serie efficace e capace di offrire costanti la vita. Fino agli anni 70 l’oggetto principale della vendita di tali imprese commerciali furono la moda. Ogni reparto era gestito in modo individuale, con un responsabile a cui dipendeva anche il rinnovo delle merci è uno stuolo di commessi e commesse, organizzati secondo una disciplina quasi militare. La buona signora borghese, educata al risparmio e alla morigeratezza, doveva essere indotta a entrare e a perdersi nella fantasmagoria delle meraviglie esposte, fino a dimenticare i propri principi estetici e lasciarsi m andare agli acquisti. Magari con la falsa coscienza di poterci ripensare e restituire il tutto. Il vero strumento di adescamento erano le vetrine. Affascinato dalle vetrine, le signore dovevano essere indotte a entrare: per questo all’ingresso venivano disposte le occasioni, merci a prezzo basso ho ribassato, che avevano lo scopo di attirare il maggior numero di curiosi e dare l’impressione di qualche vendita straordinaria. Se per la donna mescolarsi tra la folla non significava di per sé acquistare qualcosa, ma semplicemente vedere, curiosare, per il grande magazzino significava invece poter mostrare le proprie merci al proprio mercato creando una situazione di contratto indispensabile alla vendita. Difficilmente che entrava lo faceva per acquistare un solo oggetto, preciso e necessario. Era favorito in ogni modo della messa in scena spettacolare delle esposizioni interne: non più semplici banchi di bell’idea, ma allestimenti temporanei dedicate all’articolo della stagione. A volte l’allestimento riguarda un solo reparto, Altre volte coinvolgeva l’intero magazzino. Queste esposizioni, di cadenza mensile, ero lì vedi eventi commerciali del magazzino ed è una periodicità stabilita. Pubblicità riviste di moda A tutto questo si aggiungeva la pubblicità, che veniva fatta utilizzando i mezzi più diversi: dalle vetture per la consegna a domicilio, agli striscioni appesi alle immense facciate per annunciare occasioni particolari; dei manifesti grandi e piccoli con cui tappezzare muri e colonne, fino a mezzi più raffinati e moderni, con i cataloghi e le riviste che favorivano le vendite per corrispondenza. I cataloghi pubblicati dei grandi magazzini avevano di norma uscite stagionali. Negli anni 70 cominciarono a presentare le merci attraverso un disegno litografato. Le confezioni erano spesso oggetto di pubblicità specifica, che erano distribuite o spedite alle clienti e anche allegate e importanti riviste di moda. lOM oAR c PSD| 2805715 26 Lo sviluppo delle riviste di questo periodo è legato in maniera in scindibile alla vicenda della moda borghese. Limitata a due o tre titoli, la stampa di moda passò a una decina di testate negli anni ‘30 e a più di 20 negli anni ‘40. Lo sviluppo era stato reso possibile dalla diminuzione dei costi degli abbonamenti, che aveva allargato il pubblico delle riviste alla media borghesia. Le riviste di moda erano destinate o alle donne o ai professionisti dei diversi settori, come sarti da uomo, acconciatori eccetera. Si occupavano oltre che di moda, di problemi quotidiani, di educazione, di buone maniere e di tutti quei consigli di cui avevano bisogno le buone signore borghesi per essere adeguate al modello sociale imperante. Immagini e iconografia della moda L’elemento che differenziava questa stampa da tutte le altre erano però i figurini di moda che richiedevano professionisti specifici. In generale, illustratori provenivano dal mondo della formazione artistica tradizionale e non sempre si dedicavano sola questa produzione. In questo settore lavoravano anche molte donne, spesso provenienti da famiglie che già operavano nel campo della pittura e che quindi avevano garantito loro la preparazione necessaria. Un esempio sono le sorelle Colin. L’iconografia più comunemente eseguita nelle immagini di moda l’inizio del secolo prevedevo la figura umana caratterizzata secondo l’ideale di bellezza in voga: la modella (o il modello) era semplicemente utilizzata per trasmettere i codici di tale bellezza e per mostrare l’abito che indossava. Questo tipo di immagini aveva soprattutto uno scopo: la visibilità del vestito. La confezione del vestito poteva essere sartoriale oppure casalinga, ma in entrambi i casi il figurino serviva come guida per la scelta dei materiali e dei colori, per il taglio, per l’effetto finale. Il disegno doveva quindi essere il più possibile chiaro è la figura atteggiata in modo da mostrare tutto ciò che era necessario all’informazione completa. Degli anni 40 le riviste più attente cominciarono a pubblicare tavole in cui la figura era ambientata in un contesto adeguato, così da fornire alle lettrici indicazioni non solo sull’abito, ma anche sul modo il occasione per indossarlo. Realismo idealizzato. Era un realismo lieve, che presentava alle dame un mondo di signore per bene, che vivono lontan degli anni 40 le riviste più attente cominciarono a pubblicare tavole in cui la figura era ambientata in un contesto adeguato, così da fornire alle lettrici indicazioni non solo sull’abito, ma anche sul modo il occasione per indossarlo. Realismo idealizzato. Era un realismo lieve, che presentava alle dame un mondo di signore perbene, che vivevano lontane dalle contraddizioni e rispettavano i riti che una società ordinata aveva affidato loro. Dandy e cortigiane non avevano accesso in un mondo fatto di spose in bianco, di giovani donne in carrozza al Bois, di signore in visita, di passeggiata in giardino o davanti alle vetrine, di amorose mamme nei loro rigidi gusti e di tenere fanciulle in abito da sera. I colori delle stampe erano lievi. La capacità di scegliere I grandi magazzini e condividevano l’utopia dell’esposizione universali: quella di attirare tutto il mondo ad ammirare il grande spettacolo delle merci, indipendentemente dalle razze, delle classi e dei ceti sociali. Ma l’esigenze di gusto e di vita delle diverse componenti della società ebbero il sopravvento e i magazzini cominciarono a selezionare le proprie offerte in ragione di tipi omogenei di clientela. I lOM oAR c PSD| 2805715 29 Il 1864 fu l’anno dell’affermazione: Worth divenne fornitore ufficiale degli abiti da sera e di rappresentanza dell’imperatrice. Erano proposte davvero innovative. La prima venne creata appositamente per Eugenia, la cui passione per le passeggiate era messo in difficoltà della lunghezza e dell’ingombro delle gonne alla moda: Worth creò un abito il cui orlo si fermava la caviglia. Il modello era costituito da una sottoveste corta e una sopravveste drappeggiata. La seconda proposta ebbe un grande peso nello sviluppo della moda: Worth intervenne sulla forma della crinolina; la ridusse drasticamente sul davanti, spostando l’ampiezza sul dietro che assunse la forma di un breve strascico. La diminuzione di tessuto della gonna fu compensata con l’adozione di un elemento decorativo: una sopragonna lunga fino al ginocchio chiamata tunica. Nel 1869 la mezza crinolina si ridusse ulteriormente trasformandosi in un sellino di crine rigido, la tournure, che sosteneva solo la parte alta del dietro della gonna in modo da creare un effetto di ricaduta verso il basso. Il suo risultato fu quello di modificare la silhouettes femminile: il davanti cominciava ad aderire al corpo e dietro si avviava ad assumere e sostenere forme decorative sempre più complesse. Dal Secondo Impero alla Terza Repubblica La borghesia chiedeva di trovare nuove forme di lusso per esibire il denaro conquistato e altri revival per collegare in modo sempre più stretto ed evidente il potere raggiunto con le immagini grandiose dell’antica aristocrazia. Il passato diventa sempre più di moda. La posizione di Worth divenne ancora più centrale e assoluta: anche la guida della città era venuta a casere e il couturier assunse il compito di arbitro unico del gusto e della moda. La riduzione del diametro delle gonne in favore di proteggere orazioni rappresenta il passaggio fra il Secondo Impero e la Terza Repubblica. L’industria tessile francese non era stata tanto prospera quanto ora. L’abito dovevo mutare foggia per assecondare l’evoluzione sociale, ma doveva anche continuare richiedere metri e metri di tessuto. Il cuoturier ridusse il busto con l’effetto di vita alta, definito “Joséphine”, a favore della gonna e delle sue decorazioni. La tunica/sopragonna si avvolse intorno ai fianchi con vari effetti di drappeggio e fu decorata con applicazioni di fiori, base, frange, nastri, eccetera. Worth propose anche un tipo di abito totalmente nuovo: il modello chiamato princess, era realizzato in un solo pezzo. Eliminando la divisione fra gonna e corpetto, fu necessario strutturare l’intero indumento in modo da seguire le forme del corpo nella parte alta e allargare la gonna verso l’orlo. Il successo della Princeess si limitò all’ambito degli abiti da casa, quelli che le signore indossavano per ricevere le rituali visite pomeridiane e che si collocavano in uno spazio intermedio tra la costrizione artificiale a cui veniva sottoposta la figura femminile per apparizioni in pubblico e la relativa libertà che si usava in privato. Dalla struttura della Princeess derivò una nuova moda: quella della corazza, un busto/corpetto steccato e modellato che arrivava ai fianchi essere e si allungava sia davanti sia dietro. La sua scomparsa modificò anche la forma della sopragonna, che venne completamente aperta al centro in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico. Sul davanti fu sostituita o dalla completa visibilità della sottogonna o da una sorta di grembiule drappeggiato. La tournure diventò un ingombro inutile e fu eliminata in modo da favorire una Alinea sottile e aderente. Si passava a una struttura longilinea dell’aspetto corazzato. Era forse uno dei primi lOM oAR c PSD| 2805715 30 elementi di mascolinità introdotto da Worth. Attraverso questo artificio, la figura femminile perdeva il tratto fragile e bamboleggiante che le conferivano i fronzoli precedenti. La forma del corpo, pur se artefatta, veniva ostentata nella semplicità delle sue curve naturali, anche se questo non significava un’allusione alla nudità. Dall’immaginario dell’uomo borghese alla fine dell’ottocento stava emergendo la figura della femme fatale. La sensazione che la divisione dei ruoli sessuali, imposta dalla società borghese, cominciasse a mostrare le sue carenze ai suoi danni e la paura che le donne potessero minore l’ordine sociale assunsero una forma assillante. Worth entrava a sto mondo del dibattito culturale, costruendo l’immagine reale della donna corazzata. La donna di Worth poteva essere corazzata contro gli uomini, ma soprattutto era prigioniera del suo strumento in guerra e seduzione. E proprio per questo era rassicurante. I suoi abiti, infatti, erano ricchi: realizzati in stoffe lussuose, spesso tessute appositamente, venivano sfarzosamente decorati in modo sapiente con ricami applicazioni. Erano vistosi. Erano unici. In una società in cui tutto cominciava a diventare riprodotto o riproducibile, questo è un elemento di qualificazione e di distinzione che l’alta borghesia era disposta a pagare a carissimo prezzo. E Worth imponeva l’unica legge suntuaria accettabile in una democrazia: un costo che fosse di per sé garanzia di una clientela elitaria e di un prodotto di altissima qualità sartoriale ed estetica. Si trattava di un concetto di unicità che si legava a una logica di tipo artigianale o aristocratico: il capo era creato e realizzato dal maestro dell’eleganza, e questo me assicurava l’autenticità, sancita dell’etichetta cucita all’interno che aveva lo stesso valore di una firma su un’opera d’arte. Erano sapientemente artificiali, nel senso che ostentavano una forma illusoria del corpo femminile, ottenuta attraverso busti e tournure. Erano sempre più ispirati a modelli storici o artistici. Il trionfo del revival Fu negli anni ottanta che Worth concentrò la propria creatività sul gusto storicista. Le fonti di ispirazione erano facilmente riconoscibili. Si trattava di quadri celebri conservati nei musei, utilizzati sia come spunti creativi, sia per ricavarne dettagli. I tessuti, i particolari sartoriali e le decorazioni si arricchivano di richiami al passato che si susseguivano e sia cavalcavano proponendo secoli e corti diversi a seconda delle stagioni. Nel ‘500 e dal seicento furono ripresi i colletti al lattuga o le ampie maniche. Il ‘700 rappresentò per Worth una fonte di ispirazione inseribile. Antica aristocrazia e borghesia attuale si intrecciavano per assecondare i riti della nuova società. Gli anni novanta Gli inizi degli anni 90 segnarono una serie di cambiamenti nella Maison Worth e il suo gusto: Jean- Philippe, il figlio maggiore, Assunse la maggior parte dei compiti creativi e contemporaneamente si assistette a nuove trasformazioni di foggia e di decorazioni. Comparirono infatti le prime lOM oAR c PSD| 2805715 31 concessioni al giapponesismo che stava influenzando ormai da tempo tutta la cultura artistica d’Avanguardia. La figura femminile assunse quell’andamento verticale che la Maison aveva destinato per anni ai modelli da indossare all’interno delle mura domestiche. La gonna preso una forma a campana. Ma il pubblico femminile non era ancora pronto a tanto rigore, per cui la stampa specializzata si affrettò ad attribuire all’innovazione un significato di tipo storico. È più probabile che ispirazione fosse arrivata del movimento per la moda Reform, che stava coinvolgendo i medici ma anche gli artisti e le avanguardie intellettuali. La gonna più spesso comparve in abiti princess, che mettevano pienamente in risalto la semplicità della nuova linea. La semplicità di questa moda era ispirata allo stile degli anni ‘30 dell’ottocento, cosa che risulta ancora più evidente quando Worth inventò le maniche e à gigot. Nei capi di Worth, però, la forma à gigot venne sempre controllata senza raggiungere mai gli eccessi. Charles Fedrerick Worth morì nel 1895. Il ruolo del couturier Dal 1870-1871 Worth diresse da solo la sua Maison. Già nella seconda metà degli anni ‘60, però, era coinvolta nell’azienda i figli, in modo da garantire continuità e futuro. Worth riuscì a ricoprire il ruolo di couturier per eccellenza perché riuscì a costruirsi un personaggio “rispettabile”. Adesso operato con impegno, consapevolezza e sapienza, non solo realizzando abiti perfetti sia dal punto di vista del gusto e della confezione, ma anche costruendo dal nulla il personaggio del couturier. Un tale risultato non era stato raggiunto per caso. Worth conosceva da sempre il senso del suo lavoro nella moda. Scelse di comunicarlo utilizzando i segni che caratterizzavano altri professionisti dell’estetica e del gusto: i grandi e adulati artisti del passato le cui vite rossa demitizzare della storia dell’arte e della letteratura ottocentesca. Con l’affermarsi di una figura professionale incaricato di produrre non generiche tendenze, ma creazioni esclusive diventava autentico solo l’abito cucito all’interno della Maison e corredato dall’etichetta corrispondente che determinava autenticità. Il couturier non era più un semplice artigiano, ma rivendicava il ruolo di lavoratore intellettuale o artistico. Inoltre, la Maison non era aperta a tutti e si doveva essere presentati da una cliente per potervi accedere. La figura del couturier era agli esordi e risultava abbastanza difficile comprendere questo nuovo ruolo e soprattutto il fascino che esso esercitava sulle signore più facoltose ed altolocate. D’altra parte era proprio la novità della professione a costringere Worth alla ricerca di un modello di riferimento attraverso il quale le clienti potessero cogliere la sua funzione è la moda. Fin dal principio Worth si era reso conto che la semplice clientela borghese che lo aveva seguito nella nuova avventura non sarebbe stata in grado di garantirgli il successo che egli cercava. lOM oAR c PSD| 2805715 34 Questa educazione al gruppo avrebbe portato ad una trasformazione nella forma e nella funzione degli oggetti d’uso e, a una messa in discussione del modo di produrli. Friederch Deneken organizzo nel 1900, in Germania, una mostra dedicata all’abbigliamento d’artista: era la prima volta che degli indumenti venivano esposti in un museo e questo sanciva il loro diritto ad essere considerati opere d’arte. L’iniziativa ebbe grande successo e vi parteciparono numerosi artisti con proposte d’avanguardia. Krefeld rappresento l’inizio di un sodalizio fra artisti e cultura vestimentaria in aerea tedesca. Più rivoluzionari furono i risultati raggiunti a Vienna da Gustav Klimt, che disegnò per sé e per la sua compagna modelli ispirati alle tradizioni orientali. Tali vestiti sono vicinissimi al gusto dei sui quadri e suggeriscono l’idea di una versione occidentale della morbidezza degli indumenti etnici orientali. L’abito alla greca La ricerca di un abbigliamento estetico ebba una svolta anche in relazione alla moda greca. Negli anni settanta, Schliemann aveva riportato alla luce Troia, Micene e Tirinto, dimostrando che le favole degli antichi avevano un fondo di verità. Era inevitabile che tutto ciò avesse un’influenza sulla moda, anche quella colta ed alternativa che perseguivano gli artisti. L’idea di un ritorno all’arbito delle origini si andava diffonde in ambiti culturali morto lontani e diversi tra di loro. Pochi anni dopo, Isadora Duncan inizio la sua particolare rivoluzione della danza esibendosi vestita con una candita tunica che trasformava il suo corpo in una statua classica in movimento. Ma il vero interprete moderno dell’abbigliamento greco fu Mariano Fortuny. Egli reinvento il modello del chitone e lo tradusse in una tunica, il “Delphos”, e tributò con la sciarpa “Cnossos”, omaggio alla scoperta della civiltà minoica. La ricerca di Fortuny intorno al tema Reform non si limitò alla riedizione dell’abito greco, ma si estese ai sistemi di taglio degli indumenti orientali o etnici e alla creazione di tessuti adatti ad una l’ora traduzione in termini “estetici”. Si trattava di vestiti che furono indossati per decenni da donne appartenenti ai più diversi gruppi di élite sociale e culturale. Le sue realizzazioni rappresentano la vera essenza e il sogno segreto di tutti i progetto di riforma che si erano susseguiti fino a quel momento. Egli aveva creato qualcosa che costituiva una vera alternativa all’abito con il busto e le sottogonne. Questo significa che un oggetto così elitario e raffinato condiziono certamente le elaborazioni e le trasformazioni vestimentarie successive. I futuristi Il primo decennio del nuovo secolo vide nascere un’altra forma di ricerca artistica che affermo se stessa attraverso l’opposizione dura al modello culturale borghese: quella delle avanguardie, il gruppo futurista. lOM oAR c PSD| 2805715 35 I miti futuristi erano la metropoli, la macchina e la tecnologia e significavamo di fatto una rottura totale con le estetiche del revival. Tutti questi strumenti erano le forme d’arte del presente, la nuova bellezza. Tutto ciò toccò anche il modo di vestire di uomini e donne. In particolare fu quello maschile che venne messo in discussione: gli artisti futuristi cominciarono a d adattare il colore e l’asimentria, calzini colorati e spaiati, cravatte variopinte ed indumenti dall’aspetto inusuale. La soluzione astratta e geometrica era quella che meglio si armonizzava con lo spazio urbano moderno. Nel 1914 fu pubblicato il Manifesto del vestiario maschile futurista. L’abbigliamento doveva modificarsi secondo regole generali, ma ciascuno era libero di cambiare l’aspetto esteriore di un indumento attraverso i “modificanti”, elemento geometrici di tessuti e colori diversi, forniti insieme al capo, da applicare a piacere. Dopo l’attentato di Sarajevo, il testo venne ripubblicato con il titolo di Il vestito anti neutrale. Negli anni successivi i futuristi diedero forma concreta alle loro ideologie estetiche aprendo laboratori in cui realizzare oggetti d’arte applicata dalle forme eccentriche ed innovative. La collaborazione tra il futurismo italiano e la produzione di moda fu pressoché assente, anche perché la ricerca di questo movimento d’avanguardia si dedicò soprattuto all’abito maschile e in modo più teorico che concreto. Costruttivismo e rivoluzione russa La Russia postrivoluzionaria aveva un sogno: costruire un mondo e una società completamente nuovi. I vestiti venere presi in esame come componente simbolica e produttiva del nuovo progetto. L’obiettivo dopo il 1917 era creare un abbigliamento per tutti, che non comunicasse i segni della distinzione sociale. Uno scopo che richiedeva anche impunità ripensamento di tipo produttivo: non più i piccoli numeri destinati ad un’élite, ma i grandi numeri di una produzione industriale di massa. Il nuovo percorso so cominciò nel 1919 con la creazione di laboratori e scuole. L’obiettivo politico era dare una nuova forma estetica alla società. Fu la Nuova politica economica (NEP) a dare un vero impulso alla libera creazione di modelli vestimentari. I mastri-artisti e i dirigenti dell’industria contemporanea devono unire le proprie forze ed adoperarsi per l’eleganza esteriore dell’uomo. La nuova ricerca in ambito vestimentario tenne conto di due elementi di fondo: la possibilità di una produzione industriale e il legame con la tradizione popolare russa. Sul tessuto si concentrò in particolare l’attenzione del gruppo costruttivista: il disegno tessile venne innovato secondo secondo i principi geometrici del movimento d’avanguardia. Tessuto e stampa tessile furono i mezzi attraverso cui svilupparono la loro ricerca in campo artistico. Quando la loro ricerca si rivolse alla moda, coerentemente fu adottato come obiettivo l’abito produttivista da lavoro. Le divise della nuova società si differenziavano in base alla funzione, ma anche all’appartenenza. Segni e simboli tornavano ad avere una loro importanza in un universo che stava trovando nuovi sistemi di organizzazione e riconoscimento. lOM oAR c PSD| 2805715 36 La generosa ed entusiasta adesione di sarte ed artisti al progetto rivoluzionario, però si scontrò con la realtà dei fatti: l’arretratezza del sistema produttivo sovietico non consentiva una vera produzione di massa. I progetti rimasero in gran parte irrealizzati o limitati a prototipi da esperire nelle periodiche mostre nazionali o al pubblico internazionale. Nonostante ciò, molte delle idee elaborate durante la prima fase rivoluzionaria trovarono la strada della moda attraverso la produzione delle maison parigine. Gli artisti e la moda parigina degli anni venti La prima guerra mondiale portó una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gonne si accorciarono, la linea si fece sempre più diritta, il taglio si semplifico in modo deciso. L’invenzione di un nuovo modo di vestire, di moderne forme di eleganza che caratterizzò la ricerca della sartoria degli anni venti coinvolse spesso gli artisti che erano in grado di mettere a disposizione della moda una nuova concezione della decorazione dell’abito. Molte case di moda, dunque, ricercarono l’aiuto di artisti. Thayaht, la tuta e Madeleine Vionnet Particolare è il caso di Thayaht. (Ernesto Michehelles) nel 1920 propose la tuta. Era un indumento intero composto da camicia e pantaloni, abbottonato sul davanti è trattenuto da una cintura, progettato secondo uno schema geometrico semplice e molto rigoroso, che privilegiava la bidimensionalitá del tessuto piuttosto che le forme del corpo da rivestire. Non si trattava propriamente di un’invenzione, ma della sua sostituzione con l’intero guardaroba maschile. Insieme alla versione maschile, Thayath propose una tuta da donna: una sorta di camicia da uomo allungata, con la cintura stretta in vita. Se la versione maschile fu presto dimenticata, la tuta femminile era molto più coerente con il modo di vestire che le donne avevano adottato dopo la prima guerra mondiale. Nel 1919 Ernesto Michahelles inizió a collaborare con Madeleine Vionnet. La sarta parigina e l’artista fiorentino cominciarono a lavorare sulla forma della tuta femminile, il cui modello fu brevettato e depositato della Maison Vionnet. La grande sfida lanciata dalle donne alla couture francese in quel dopoguerra imponeva di rivoluzionare il sistema sartoriale tradizionale per creare un modo di vestire del tutto diverso da quello dei secoli precedenti. Le donne chiedevano abiti comodi per muoversi, lavorare, ballare, guidare l’automobile, fare sport. Compito dell’haute couture era ora creare un nuovo linguaggio dell’eleganza e dell’esclusività. Il modello della tuta fu presentato nella sfilata del marzo 1922 in forma di abiti interi, di completi con giacca e di tailleur confezionati con i raffinati e costosi tessuti estivi della couture parigina. La tuta entrò alla porta principale dell’ormai collaudato sistema parigini. lOM oAR c PSD| 2805715 39 La novità non era però solo di ordine stilistico. Anche le figure femminili rappresentate erano diverse: alte, sottili, senza forme evidenti o artefatte, con capelli corti semplicemente avvolti da un nastro, colorato in armonia coll’abito. L’immagine Poiret La coerenza formale che Poiret aveva cercato nel comunicare all’esterno la sua moda divenne anche il fondamento dell’immagine grafica della Maison: egli incaricó Iribe di progettare il marchio a forma di rosa. Il secondo elemento fondamentale della nuova immagine che Poiret stava costruendo intorno a sé fu la sede in cui trasferì la Maison nel 1909: un hôtel particulier del XVIII secolo con un grande parco intorno. L’interno venne ristrutturato ed arredato in maniera da diventare l’adeguata cornice dei modelli che il couturier presentava alle sue clienti. Poiret si servì per i suoi scopi professionali anche del parco, che divenne, di volta in volta, una specie di secondo parco della Maison con cui decorare i coperchi delle scatole, lo sfondo delle sfilate, il luogo delle sue feste mirabolanti. L’orientalismo Fra il 1909 e il 1910 inizió a Parigi la stagione dei Ballet Russes. Fino a quel momento la danza classica era vestita in tutù e calzamaglia e le sue scene erano estremamente semplificate. Adesso, invece, i danzatori indossavano costumi mirabolanti e si muovevano in scene elaboratissime e colorate. Tutti notarono una straordinaria somiglianza fra i costumi dei nuovi balletti e i vestiti di Poiret. Da questo momento, infatti, scomparvero dai modelli di Poiret i richiami al Direttorio e si fecero sempre più forti quelli delle culture etniche, orientali ed arabe. Il punto di passaggio fu rappresentato da jupe entravée, una gonna lunga e diritta che veniva serrata da una specie di cintura sotto le ginocchia, con il risultato di impedire il passo e di costringere chi la portava a procedere pattinando o a piccolissimi movimenti. La donna che Poiret aveva in mento non era una suffragetta o un’intellettuale indipendente: era una signora del “bel mondo” che non doveva aver alcun rapporto concreto con la vita reale. Egli la liberó nel corpo, ma non nel ruolo. Non più madre e moglie, ma femme fatale o fatata, circondata da un alone di erotismo misterioso, che la trasformava in oggetto di desiderio e di lusso. L’immagine di donna che Poiret sognava venne esplicitata quando egli presentó la prima jupe- culotte. La realizzazione di pantaloni per le donne non passò inosservata. Ma la proposta di Poiret non voleva essere rivoluzionaria, né spezzare una lancia a favore del movimento femminista; si trattava di un paio di pantaloni da harem da portare come abito da casa, sotto una tunica che arrivava al polpaccio (odalische e non femministe erano le donne che avrebbero indossato i pantaloni di seta, stetti alla caviglia). L’impressione venne confermata dal secondo album pubblicitario che raccoglieva le immagini degli ultimi modelli. lOM oAR c PSD| 2805715 40 L’immagine di lusso che ne derivava non era tanto legata alla quantità di materiale e di lavoro visibile, quanto allo stile di vita raffinato e colto cui alludeva, che non aveva più niente a che vedere con i vecchi modelli borghesi. Questo fu l’ultimo album prodotto direttamente da Poiret: il succo delle due iniziative stimoló finalmente Lucien Vogel, che convinse alcuni couturiers a finanziare una rivista di moda da vendere in edizioni limitate, con tavole disegnate da disegnatori affermati. La festa della Milleduesima Notte Poiret utilizzó tutti i modelli possibili per far parlare i giornali, ma l’idea che più colpí la fantasia del tempo fu una serata in costume dal titolo “La festa della Milleduesima Notte”, che si svolse nel giardino della Maison. Si trattava di mettere in scena la sua immaginazione, quella in cui trovavano una collocazione ed una spiegazione tutti i modelli ne stava proponendo al suo pubblico. Ancora vent’anni dopo, Poiret conservava un ricordo estetico dell’evento che aveva dato la miglior rappresentazione del suo mondo creativo. La secessione viennese e l’Atelier Martine L’incontro che doveva segnare Poiret maggiormente fu quello con viene dove conobbe Gustav Klimt ed Emilie Flöge. L’ipotesi che la creazione di abiti facesse parte di un più generale movimento di gusto che andava dalle arti maggiori fino agli eventi mondani e alla vita quotidiana era già sorta precedentemente e probabilmente aveva guidato il suo comportamento nei confronti degli artisti. Vienna gli riveló un modello estetico in cui gli abiti di Emilie Föge, i mobili di Koloman Moser, i vasi e le posate di Josef Hoffmann erano uniti indissolubilmente alle architetture di Joseph Olbrich e Otto Wagner e ai quadri di Klimt. La nuova cultura, il nuovo modello di vita dovevano sorgere nel confronto con questa cornice in cui si cancellava la vecchia divisone gerarchica di arti maggiori e minori. Poiret sposó le nuova teoria ed agí di conseguenza: nell’aprile del 1912 aprí in Rue du faubourg Saint Honoré l’Atelier Martine, uno spazio in cui u; gruppo di ragazzine guidate da Madame Serusier dava libero sfogo alla propria creatività in tutti i campi delle arti applicate. Da un lato c’era la ricerca del nuovo, che poteva venire da chi non era stato ancora plasmato dalla cultura figurativa dominante, dall’altro la cattiva impressione che egli si era fatto dei rigidi metodi d’insegnamento usati nelle scuole di arte austriache. L’Atelier Martine fu dotata di un punto vendita, ma la sua produzione ebbe sempre un tratto dilettantesco e quindi non raggiunse mai quel valore di rottura estetica che Poiret sognava. Un successo decisamente maggiore doveva avere un’altra idea di espansione della Maison: la produzione di profumi. Nel 1911 fu messo a punto il primo profumo e venne fondata la luna Rosine. Anche le bottiglie venivano curate direttamente da Poiret e spesso affidate, per la decorazione, al l’Atelier Martine. Alla produzione di profumi venne presto associata un’intera gamma di prodotti di bellezza che andavano dalle creme al mascara, dalle ciprie a tutto quello che le signore potevano cercare in una profumeria. lOM oAR c PSD| 2805715 41 Anche in questo caso, era la prima volta che il nome di un couturier veniva associato a quella di una linea di prodotti di bellezza. Ormai la fama di Poiret era costruita e i suoi modelli influenzavano la moda. Anche la sua posizione nel mondo degli artisti sembrava accettata ed assodata. Gli anni di guerra L’anno successivo scoppió la guerra. La Francia tentò di salvare la produzione di moda. Poiret fu inizialmente mobilitato in un reggimento di fanteria dove prestó servizio come sarto. Come couturier partecipó alla manifestazione insieme alle maison di moda ancora aperte. Poiret sfilò con abiti diversi da quelli di gusto orientale che il mondo conosceva: scelse di allinearsi con la tendenza che stava caratterizzando quegli anni con gonne accorciate e ampie, e con elementi di gusto maschile. Nel 1919 Poiret aveva lanciato anche un profumo “patriottico”, cotte segnato dal tricolore. Il dopoguerra Poi la guerra finí, ma, contrariamente a quanto sperato, nella fu più come prima. Poiret usciva dall’esperienza duramente provato dal punto di vista economico. Aveva dovuto vendere o ipotecare tutte le sue proprietà. L’azienda si divideva in tre aree: moda, profumeria ed arredamento di interni, tutte andate a rotoli durante l’assenza di Poiret. Egli era stato colpito dal punto di vita umano: la febbre spagnola gli aveva ucciso due figli, e la tragedia aveva minato il suo matrimonio che si concluse con un divorzio. Poiret si trovò nella condizione di dover rilanciare la griffe con un capitale assolutamente insufficiente e con gli effetti psicologici del conflitto ancora da superare. Partí per un viaggio in Marocco, dove ritrovò lo stimolo creativo per ricominciare il lavoro. Tornò alla moda con il desiderio di riprendere il discorso sul l’Oriente e con la voglia di festeggiare la fine della guerra. Ma, dal 1921 coinvolse nell’impresa, diventata ormai di tipo teatrale, tutte le vecchie glicerine della Belle Époque per creare un ponte tra il presente e la magia del passato. Le sue collezioni si facevano via via più sapienti e lussuose, i materiali diventarono sempre più ricercati, i ricami elaborati e le ispirazioni colte e esotiche. Un’aria di lusso antico serpeggiava nei suoi modelli. Non è quindi un caso che negli stessi anni gli venissero richiesti sempre più spesso costumi di scena e per feste mascherate o a tema. E non è neppure un caso che, al contrario, diminuisse il suo successo presso la clientela dell’haute couture. Probabilmente, però, l’enfasi data al lusso e alla teatralità allontanó il pubblico dalla Maison e quindi da questa produzione. Le difficoltà finanziare dovuta da un minore coinvolgimento della clientela, portó Poiret a trasferire la Maison in un altra sede (1924) con una trovata spettacolare: un falso incendio brució la vecchia sede durante la festa di addio e tutti gli invitati si incamminarono a piedi a cercare rifugio nel lOM oAR c PSD| 2805715 44 Cavalli, casino, barche a vele, case di moda, erano gli appuntamenti obbligati. I bagni a mare erano ancora una novità la coppia intuì che quello poteva essere il luogo dove iniziare un’attività di moda. Boy le finanzió l’apertura della sua prima vera boutique situata nella via più importante della città. Le signore erano le stesse di Parigi, ma le loro esigenze erano un po’ diverse: gli sport cominciavano a far parte dello stile di vita vacanziero ed anche il mare e la spiaggia esercitavano un’attrazione nuova. La moda “balneare” dell’epoca prevedeva abita di lino bianco ricamati e decorati di pizzi valenciennes, scarpe con quattro cinturini abbottonati, tre giri di perle, e monumentali cappelli ricoperti di piume, fiori, e altro. Eppure l’aria di vacanza faceva desiderare un abbigliamento un po’ più confortevole. Anche qui i cappelli di Chanel conquistarono il bel mondo. Ma modificare la foggi del copricapo lasciando inalterato l’abbigliamento non dovette sembrare insufficiente. Ancora una volta, Chanel si rivolse all’abbigliamento maschile. Nel guardaroba “inglese” di Boy esistevano indumenti pensati apposta per lo sport e per le occasioni non formali. Poi, osservando la gente del luogo, scoprí che indossava maglioni, cuffie di lana, pantaloni comodi. Provó, quindi, a realizzare, innanzitutto per sè, ci di maglia diritti e comodi. E così vestita si fece fotografare in giro per Deauville. Poi cominciò a produrre capi a vendere nella boutique: marinare in maglia, pullover sportivi, blazer di flanella copiati da quelli di Boy. Era la sua prima esperienza ufficiale di sarta, ed ebbe un successo immediato, un successo cui però la guerra contribuì in modo fondamentale. La guerra La città divenne la meta di una fuga precipitosa dalla capitale. Le ville furono riaperte e le signore questa volta sole, cominciarono una vita inusuale:per affrontare la nuova situazione iniziarono rifacendosi Il guardaroba nella boutique di Chanel, l’unica aperta, e comprano gonne diritte, giacché alla marinara, camicette, scarpe a tacco basso e cappelli di paglia: una divisa adatta per camminare a piedi e per svolgere le attività quotidiane, comoda. Quando gli alberghi cominciarono ad essere trasformati in ospedali, si rese necessario il loro impegno “patriottico” come infermiere e di conseguenza si rese necessario una divisa bianca. Le uniformi delle cameriere vendere affidate a Chanel che le adotto alla nuova necessità. Passata la paura della guerra, Gabrielle tornò a Parigi insieme al “bel mondo” che era fuggito a Deauville pochi mesi prima. La situazione non era facile: la città scontava una serie di carenze e di disfunzioni dovute all’assenza di uomini. Ma la vita si riorganizzo intorno alle donne che cominciarono ad impegnarsi in attività “necessarie”. Lavoro e volontariato “patriottico” furono le grandi scoperte delle signore borghese, insieme però ad una serie di libertà mia provate prima. Il Ritz divenne il luogo di ritrovo preferito dell’alta società parigina e Chanel seppe trarre vantaggio anche da questo: il suo negozio al, 21 di Rue Cambon, si trovava sulla strada delle signore che a piedi raggiungevano il Ritz e divenne un momento dell’appuntamento quotidiano. Ma c’era un altro luogo oltre Parigi e Deauville, che la società del l’uso aveva scoperto, ovvero il Biarritz, un cittadina basca. lOM oAR c PSD| 2805715 45 Boy e Coco decisero di ripetere l’esperimento di Deauville, ma questa volta con maggiori pretese: aprirono una vera e propria Maison de couture che fu collocata in una villa posta di fronte al casinò. L’attività fu affidata ad Antonietta (la sorella di Coco). La clientela comprendeva i nuovi ricchi, ma sopratutto l’élite spagnola che scoprí la nuova moda e ne decretó il successo. Chanel pensó di pensare modelli lavorati a maglia, ma la lana e le lavoranti necessarie mancavano. La soluzione si presentò in modo quasi fortuito: acquistó interi stock di jersey da Rodier, uno degli industriali tessili più importanti di Francia, specializzato nella produzione di stoffe di lusso per l’haute couture. Coco capí che quel materiale così sobrio si un banale color nocciola, poteva diventare un nuovo modello di eleganza, in favore di una assoluta semplicità elimino tutto ciò che era troppo. Le “sue” donne potevamo camminare dirette e agili in vestiti che non stringevano il corpo e si fermavano alla caviglia. L’abito le rendeva autonome. Chanel proponeva tutto questo partendo dalla propria esperienza e dalle sue scelte di vita. Quello che offriva alle donne era contemporaneamente un modo di vestire e un modo di vivere e pensare. L’idea che solo i ricami e le piume fossero eleganti era ormai superata: l’eleganza veniva dalla funzionalità e dalla adeguatezza alla situazione. Dal 1917 i suoi modelli cominciarono ad essere pubblicati con regolarità, al pari di quelle delle altre sartorie. La moda parigina dl dopoguerra non aveva perso di eccentricità: accanto a tailleur maschili e a riferimenti militari si susseguirono revival settecenteschi completati da crinoline, gonne a “barile”, particolari infantili e leziosi. Chanel si aggregò il meno possibile alle tendenze generali, preferendo seguire la propria linea di semplicità. La moda del dopoguerra La fine della guerra fu contrassegnata da un ricchimento della sua produzione: ai modelli in Jersey cominciarono ad aggiungersi abiti da sera più fantasiosi, realizzati in tessuti usuali come il raso, il velluto, il chiffon e il pizzo chantilly. Anche le decorazioni si adeguano al ritmo di vita più euforico e festoso del dopoguerra. Gli artisti e le avanguardie Cominciò a frequentare l’ambiente degli artisti avendo come guida i Sert: lui, un pittore spagnolo di grande fascino, lei uno straordinario personaggio al centro della Parigi delle avanguardie. Chanel si trovò al centro della società degli artisti internazionali che animavano Parigi e cominciò a capire le loro idee e quello che stavano facendo per innovare la cultura occidentale. A Venezia fu presentata a Diaghilev, il fondatore dei Ballet Russes che rappresentavano il punto di intersezione di tutti i linguaggi estetici più avanzato del momento. Per ogni particolare Diaghilev ricercava l’artista che meglio poteva contribuire alla realizzazione di un’opera d’arte totale. Ma, gli spettacoli che metteva in scena non gli garantivano guadagni adeguati. Chanel pensó che questo potesse essere un modo per dare un contributo all’arte. Così finanziò, in segreto, la ripresa della Sagra della primavera. lOM oAR c PSD| 2805715 46 Fu l’inizio del suo coinvolgimento nella vita teatrale. Nel 1922, Jean Cocteau le affidò la realizzazione dei costumi per la sua Antigone; la collaborazione tra i due continuo per ben 14 anni. Nel 1924 Diaghilev commissionò allo scrittore il soggetto per un’operetta danzata: Le train Bleu, che parlava della nuova moda delle vacanza in Costa Azzurra, del nuovissimo treno che portava i volteggianti da Parigi a Nizza. I personaggi principali erano due nuotatori, una tennista è un giocatore di golf, attorniati da una folle di ballerini, divisi tra i “gigolos” in costume da bagno e i “poules” in gonnellino e maglione. I costumi di Chanel erano dei indumenti sportivi ispirati a soggetti reali. Era un evidente omaggio a chi aveva competenza in materia e aveva studiato un tipo di eleganza adeguata alle necessità della pratica sportiva. Il profumo e l’influenza russa Fu in questo contesto che Chanel conobbe il granduca Dimitrij, nipote dello zar. Grazie a lui, Chanel entrò in un ambiente ignoto, con regole e modelli culturali affascinanti da cui trasse ispirazione. Innanzitutto scoprí il profumo: dovette essere lui, che proveniva da una corte che aveva tanto amato la profumeria a far,e a cambiare idea di quello che lei considerava semplicemente un imbroglio per nascondere il cattivo odore di una scarsa pulizia. Fu probabilmente lui ad indicarla Ernest Beaux, un chimico di Grasse. La collaborazione tra i due determinò la creazione del profumo più famoso del XX secolo. L’insieme degli ingredienti era dosato in modo da avere una fragranza specifica e nuova, gradevole ed artificiale. Anche il nome che scelse era diverso: Nº 5. La confezione era una semplice bottiglia di farmacia trasparente su cui venne applicata un’etichetta bianca con una scritta nera. Costituiva un’assoluta novità nel campo della profumeria. Tutto era stato pensato per non ricordare nient’altro che l’oggetto che si aveva do fronte: la stessa “onestá” che Chanel ricercava nella divisa si una donna emancipata. L’influenza russa esercitata dal granduca Dimitrij, ma anche dai balletti russi e dal gusto che stavano diffondendo a Parigi alcune artiste slave, si vide soprattuto negli abiti che Chanel propose in quegli anni. Fu un indumento ad attirare la sua attenzione, la roubachka, il tipico camiciotto con la cintura che faceva parte dell’abbigliamento tradizionale dei contadini russi. Allo stesso modo rimase affascinata dai ricami che scoprí sugli indumenti del suo amante: erano disegni a motivi geometrici o figure fantastiche che provenivano dalla tradizione popolare. La colazione che presento nel 1922 era concentrata su questi temi della tradizione contadina. Chanel aveva inventato la “povertà di lusso”. Nelle collezioni successive, l’influenza russa si fece sentire nella produzione di pellicceria. Ma la ricerca di Chanel non era finalizzata ad uno schema decorativo: il suo oggetto era un abito funzionale alla vita moderna. Nel 1926 presento un abitino nero che poteva essere indossato in qualsiasi situazione, disubbidendo alla regola tradizionale di creare vestiti per occasioni e destinazioni sociali differenti la sua funzione d’uso era indicata dagli accessori con cui veniva accoppiato. Vougue lo paragonò a d’un oggetto che poteva essere ritenuto il simbolo dell’età moderna: l’automobile. lOM oAR c PSD| 2805715 49 Moda anni trenta Il panorama della moda della metà degli anni trenta risultava molto più variegato. Chanel rappresentava solo uno degli stili vestimentari possibili, e non quello più all’avanguardia. Coco dovette specializzarsi in modelli più semplici da indossare rispetto a quelli delle sue rivali. Il mercato richiedeva più fantasia, più glamour e forse una più maggiore aderenza allo scenario cinematografico. Anche lei usó il tulle, il merletto, i ricami di paillettes per abiti più romantici. Era evidente che Chanel non rappresentava la moda di punta del momento, se non nella produzione di accessori. La rottura del 1936 Il 1936 portó alla vittoria alettrole del Fronte popolare e gli scioperi di tutti i rivoluzionari francesi. Anche le operaie della Maison Chanel entrarono in sciopero. Coco rifiutò di ricevere le delegate sindacali, non riconoscendone il ruolo. Come risposte, le scioperanti le impedirono l’accesso alla Maison. Quello che gli operai francesi rivendicavano erano contratti collettivi, la settimana lavorativa di quaranta ora, le ferie pagate. Chanel dovette cedere. Il mondo che aveva costruito era entrato in crisi. Il successo di Schiapparelli, inoltre, continuava a crescere, costringendo Chanel a confrontarsi con lei sul mercato della moda. Rispose creando capi che prevedevano colori brillanti e modelli in sintonia n la tendenza del travestimento giocoso: dal 1938 comparvero nelle sue collezioni tinte e forme ispirate ai vestiti da festa dei contadini e degli zingari. Era come se il suo senso dell’ordine e del rigore fosse stato messo in crisi. Le sue collezioni continuarono a presentare i capi che l’avevano portata al successo, ma non erano in grado di fare prosteso davvero alternative alla concorrenza rappresentata da Schiapparelli e Vionnet. La seconda guerra mondiale e la chiusura della Maison Nel 1939 Chanel chiuse la Maison, lasciando aperta solo la boutique che vendeva profumi. Si era resa conto che non aveva più niente da dire nella moda, che la società aveva assunto una forma che lei non riusciva più a far combaciare con il suo modo di pensare i vestiti e che per evitare una lenta uscita dal mercato era necessario tronare il suo rapporto con esso. Il ritorno alla moda Chanel era scomparsa, cancellata dal mondo della moda. Le uniche cose che resista no erano i tessuti, commercializzati con il marchio Chanel, e il suo profumo, che continua ad essere considerato un mito. Ma anche i miti possono impallidire ed essere dimenticati. Nel 1953, infatti, le vendite calarono in modo vistoso. lOM oAR c PSD| 2805715 50 Gabrielle, però, tornata Parigi decise di riapri l’Atelier sempre nello stesso anno. La solita dell a nuova collezione avviene al no successivo: compratori, fotografi, giornalisti, celebrità accorsero, convinti di assistere ad una nuova rivoluzione, ma non si aspettarono quello che videro. Non lo capirono ed interpretarono la collezione come una semplice riedizione della moda degli anni venti. A parte il fiasco della collezione decreto dai giornali, era ormai chiaro che la produzione di alta moda non era più una fonte di guadagno. Quello che rendeva erano gli accessori, i profumi e i prêt à porter, ma la griffe Chanel del passato era ormai dimenticata e la nuova non era ancoranata. La prima reazione positiva alla sua proposta, però, fu più rapida del previsto e venne dagli Stati Uniti: i modelli della prima collezione furono venduti meglio di quanto ci si aspettasse. Alla donne era piaciuta la nuova rivoluzione di Chanel. Stagione dopo stagione, il progetto di Chanel diventava sempre più chiaro: creare uno stile immediatamente riconoscibile e non soggetto ai repentini cambiamenti di moda che stavano caratterizzando Il decennio. Il tailleur Chanel L’oggetto intorno al quale si concentrò la sua ricerca fu il tailleur. Anche i materiali che Chanel utilizzò furono i più diversi, ma quello che passerà alla storia con il suo nome fil il tweed. Un tweed particolare, morbido, a trama larga il cui effetto era elastico e spugnoso. Il competo era composto di tre pezzi: una giacca, una gonna o un vestito senza maniche, una blusa. Coco Chanel ormai vecchia senti evidentemente che stava rinascendo un’epoca che aveva gli stessi gusti che lei aveva coltivato begli anni venti e si adoperò a completare la sua opera. Se allora era arrivata a costruire l divisa femminile attraverso un percorso tortuoso e sperimentale fatto di milli stimoli ed altrettante modifiche, ora parti dal risultato è si concentrò sulla realizzazione di un oggetto difficilissimo: il vestito perfetto. Chanel decise di compierà quest’impresa nei pochi anni che le restavamo da vivere. Continuò per tutti gli anni sessanta a raffinare il suo stile, e a realizzare capi sempre più perfetti, a cercare un’armonia sempre maggiore fra i pochi pezzi che componevano la sua opera d’arte. Il lavoro di Chanel era un perfezionamento continuo che non dipendeva da un progetto fatto a priori, ma del fatto adattamento dell’abito alla figura cui doveva appartenere. Il modello era semplice, sempre uguale. Anche il tessuto non prevedeva grandi variazioni. Era l’esatto contrario del prêt à porter. Era un perfetto oggetto di design che nasceva per una precisa funzione. Era espressione di una cultura e di uno stile di vita. Per ciò era necessario inserirlo in un contesto adatto, circondarlo di altri oggetti che esprimessero lo stesso significato e che completassero la sua funzionalità. Tali oggetti sono quelli che ogni donna indossa per sentirsi i realmente vestita. Dunque, Chanel riprese la produzione di bijoux, solo catene e perle. Invento alcuni complenti nuovi: la borsetta 2.55 di pelle impunturata è più tardi i sandali con la punta di colore contrastante. Lo stile di Chanel era diventato in poco tempo una valida alternativa al New Look. lOM oAR c PSD| 2805715 51 Anche il profumo ritornò immediatamente in auge con la riapertura della Maison. Chanel mori il 10 gennaio 1971 al Ritz (aveva 88 anni). lOM oAR c PSD| 2805715 54 si svolse in modo graduale. Nelle collezioni fra il 1921 e il 1922 Vionnet ricercó soprattutto gli effetti di “caduta “. 50, Avenue Montaigne La proposta di moda di Vionnet venne accolta positivamente sia sul mercato francese, sia su quello americano. Presto l’Atelier di Rue de Rivoli divenne insufficiente e nel 1922 Vionnet trovò il modo di espandersi: fu firmato un nuovo stato della Madeleine Vionnet et Cie che prevedeva l’ingresso di Bader come nuovo socio. Il primo atto del gruppo fu l’acquisto di un hotel particulier in Avenue Montaigne per dare alla Maison una sede più adatta. Nel realizzare la nuova sede si diede grande importanza, oltre all’aspetto estetico, alla sua funzionalità come luogo di lavoro in quanto la piccola impresa iniziale divenner adesso una grande azienda. Vionnet, inoltre, introdusse una serie di innovazioni che riguardavano sia i rapporti contrattuali, sia le condizioni di lavoro. Nonostante questo, nel 1936 nemmeno Vionnet passó indenne nell’ondata di scioperi che sconvolsero la Francia dopo il successo elettorale del fronte popolare. Il copyright Vionnet condusse anche un’altra battaglia riuscendo ad imporre una novità fondamentale per il mondo dell’haute couture parigina: il copyright dei modelli. Uno dei problemi dell’alta moda era la diffusione delle imitazioni, intorno alla quali stava nascendo una vera e propria industria della contraffazione organizzata secondo diverse specializzazioni. Il 30 dicembre del 1921 il Tribunal correctionnel de la Seine emise una sentenza che assicurava ai “modelli di abiti, costumi e mantelli, la protezione della legge allo stesso titolo di tutte le creazioni”. Prêt à porter Il successo di Vionnet fu immediato, tanto che nel 1925 fu aperta una succursale specializzata in abiti per le vacanze e per lo sport. Ma la vera sfida era il mercato americano. Nel febbraio del 1924 Vionnet presento la collezione primaverile a New York; fu formata una nuova società, Madeleine Vionnet, Inc., finalizzata alla vendita di abiti onde- size-fits-all, un’assoluta novità nel settore dell’alta moda. L’ipotesi era nata dall’esigenza di assecondare la clientela statunitense, abituata ad acquistare capi confezionati, e trovava un punto di forza nella realizzazione degli abiti di Vionnet. Nonostante il successo ottenuto, l’esperimento non prosegui oltre i sei mesi: probabilmente la clientela di élite preferiva acquistare i Vionnet di haute couture a Parigi. Nel 1926, Vionnet tentò un secondo esperimento nel settore del prêt à porter con un altro socio americano. Anche in questo caso, però, l’impresa non ebbe successo, dimostrando che i tempi non lOM oAR c PSD| 2805715 55 erano ancora maturi perché l’alta moda potesse fare il proprio ingresso nel mercato del ready-to- wear. Stile anni venti Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono: la linea si fece più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Scomparvero le sovrapposizioni, i petali e tutto quello che aumentava il volume dell’abito. Indubbiamente le sue realizzazioni non riproducevano le forme anatomiche; erano sempre più studiate in modo che l’architettura del vestito poggiasse sulla struttura portante del corpo per evidenziare la naturale armonia. Vionnet era “la moda”, visto il successo che le sue creazioni avevano presso un pubblico vastissimo. Ma la verità era che lei non era di moda nel senso che non faceva nulla per essere un personaggio alla moda. Gli anni trenta Ciò che stava accadendo negli anni 30 era gay, nella società occidentale e nella moda, l’adolescenza lasciare il posto a una giovinezza più matura, e il lusso nascosto sotto il pauperismo chic degli anni 20 stava per essere sostituito da quello visto solo delle dive del cinema hollywoodiano. Il metodo Vionnet diventó di moda: era il sistema più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo precostruite dal taglio. La gonna ampia Nel 1934 ci fu una svolta nella produzione: la gonna larga. Negli anni successivi gli abiti si fecero più lussuosi e sensibile al gusto Juliano. La vita segnata, spesso alta, dallo spazio al lardo e gonne che poi devono essere sostenute utilizzando diversi accorgimenti tessili. Studi nuovi o antichi divennero quasi simboli della maison. Sì sperimento anche il materiale alla moda: il merletto. Furono creati in editi effetti di contrasto applicando 1000 materiali diversi si tessuti e vestiti. Furono reinventati procedimenti di ventura usando bagni di differente intensità di colore per le diverse parti dell’abito. Nel campo dei modelli aderenti Vionnet sperimentó la piegatura in rilievo su un taglio circolare. Il risultato assimilava la figura femminile ad una collana scanalata. lOM oAR c PSD| 2805715 56 La moda italiana La moda italiana è nata nel secondo dopoguerra. Gli Stati uniti e la moda italiana Il processo di rinnovamento che il settore tessile e moda affrontò fu favorito dal rapporto che il paese intrecciò con gli Stati Uniti. Il 1947 fu un anno chiave. In agosto la rivista “Fortune“ dedicó un articolo all’Italia, “fra le più povere delle nazioni moderne“, con “troppi contadini in campagna“ è “un’industria sottosviluppata nelle città” In gennaio, Vogue era uscita con un articolo di Marya Mannes dal titolo Italian Fashion. In agosto, Vogue British dedicò due pagine alla Italian School of te fashion. Tanta attenzione si giustificava solo con una scelta politica, visto che ciò che l’Italia poteva offrire agli Stati Uniti era in quel momento ben poca cosa rispetto a ciò che l’America stessa produceva. Durante la guerra, l’industria della moda americana produceva un’alta moda di altissima qualità e uno sportwear adatto a tutte le occasioni. La sartoria di alta moda In quei pochi anni dopo la fine del conflitto le sartorie delle grandi città avevano riaperto i battenti. Si trattava di lanciarsi in un’avventura nuova che facesse recuperare il tempo perduto sulla strada della modernità. Invenzione del nuovo necessitava di punti di riferimento anche nel campo della moda. In questa prima fase la capacità progettuale di molte delle sartorie, anche quelle più famose, era estremamente limitata, tanto da giustificare la ripresa di una pratica di stampo ottocentesco. Il ricorso a fonti creative ed ero gene rendeva forse queste prime collezioni scarsamente caratterizzate, ma stimolava la nascita di una cultura di ricerca dell’originale sia della clientela sia nei professionisti. Ancora per buona parte degli anni 50, l’alta moda italiana fu fortemente ispirata alla cultura sartoriale francese e alla sua capacità di inventiva, ma non era un vero problema. Moda, boutique e accessori Se per “dai reali“ alla produzione di abiti da sera si trattava di favorire la creatività all’interno della tradizionale struttura produttiva delle sartorie il problema era dare una veste estetica alta, è accettabile per il gusto americano. Alcune aziende, come Ferragamo e Gucci, avevano già questa caratteristica poiché da tempo erano abituate a produrre per l’esportazione. La nascita della moneta liana fu un’operazione di carattere culturale che consistette nell’utilizzare competenze artigianali sia blasonate sia popolari, Per inventare un prodotto che non avesse caratteristiche etniche o di facile folklore, ma che contenesse un’idea di Italia distillata per un pubblico straniero. lOM oAR c PSD| 2805715 59 Elsa Schiapparelli (1890-1973) Una giovinezza inquieta Elsa Schiapparelli era nata a Roma in una famiglia di intellettuali piemontesi. La madre, dal canto suo, proveniva da una famiglia dell’aristocrazia napoletana discendente dei Medici. Ma essa non riusciva a trovare la sua strada. Un’amica della sorella, un intellettuale di avanguardia che aveva sposato un ricco inglese, cominciò a occuparsi di bambini orfani e che se informazioni a proposito di una ragazza che potesse aiutarla nell’impresa. Essa deciso di cogliere l’occasione. Parti accompagnata da amici di famiglia alla volta di Londra passando per Parigi: fu il suo primo contatto con la città delle avanguardie e della vita mondana più affascinante di Europa. Fu anche il primo approccio con la “sartoria“: un amico di famiglia la invito a un ballo per il quale realizzò il suo primo abito da sera tenuto insieme con gli spilli. Allo scoppio della guerra essa si trasferì a Nizza, ma nel 1919 riparti questa volta per gli Stati Uniti. Qui tutto era diverso. Schiaparelli si trovò sola New York e senza più il sostegno economico della famiglia di origine. L’inserimento nella vita di New York fu fondamentale e le permise di frequentare un gruppo di artisti dada e di fotografi d’avanguardia che si erano trasferiti o lavoravano nella città americana. La sua vita sembrava destinata svolgersi fra lavori saltuari e avventurosi, un continuo cambio di case e un giro di amicizie un po’ bohemienne e fuori dalle regole borghesi. Nel giugno del 1922 parti per Parigi. Elsa trovo lavoro presso un antiquario. Il clima culturale e mondana della capitale francese era viva agissimo. Ma tutto sembra ricominciare come New York, Tra lavori saltuari, amicizie anticonformiste, dimore pregare pregare è una grande disponibilità alle esperienze che potevano essere offerte alla donna indipendente tra lavori saltuari, amicizie anticonformiste, dimore precarie e una grande disponibilità alle esperienze che potevano essere offerte a una donna indipendente. Fu in quel periodo che comincio a inventare abiti e il colore e il ricamo furono sempre tra i segni distintivi delle sue creazioni. Scelse un settore che negli anni 20 stavo aprendosi per assecondare la crescente partecipazione femminile agli sport. Lo sport e la maglia Fu negli anni 20 che la cultura del corpo è l’attività sportiva divennero una moda diffusa, tanto da giustificare l’invenzione di un abbigliamento specifico. Elsa capì che questa poteva essere una strada di sicuro futuro e cominciò a realizzare dell’abbigliamento sportivo. La prima vera collezione fu presentata nel gennaio 1927. Si trattava di maglieria dai brillanti colori, che si ispirava sia il futurismo sia a Poiret ed era realizzata anche con materiali nuovi, come il kaska. Il gioco dell’accostamento dei colori e dei materiali prevedeva cardigan abbinati con gonne in crêpe de Chine, ma anche calze e sciarpe coordinate. lOM oAR c PSD| 2805715 60 Il golf “armeno” Il modello che poco tempo dopo la lancio definitivamente nella moda fu un golf particolare. L’ho visto addosso ad un’amica ed era stata colpita dal suo aspetto solido ed elastico. Allora scoperto che era stato eseguito da una donna armena, creato con un particolare punto a maglia che permetteva di realizzare un capo più consistente di quelli tradizionali europei e soprattutto di inventare effetti di disegno utilizzando i due fili di colore diverso. L’idea di golf tra trompe-l’oeil fu immediata. Quando finalmente venne raggiunto l’effetto desiderato, fu lei stessa ad indossare la maglia in pubblico e immediatamente attirò l’attenzione sulla novità. La nuova idea si impose a Parigi attraverso le attrici e i personaggi da rotocalco. A questo punto la fantasia di essa si scatenò e sui golf comparvero cravatte da uomo, Lodi, fazzoletti da collo, scialli, schemi per cruciverba. Dallo sporto all’haute couture L’1 gennaio 1928 essa trasferì abitazione attività in un vecchio e fatiscente appartamento al 4 di Rue de la Paix, Dove espose l’insegna “Schiaparelli pour le sport” e cominciò a presentare collezioni in cui risultò ancora più evidente il suo metodo. Erano abiti sportivi ben costruiti e progettati per i movimenti richiesti, ma colorati e decorati con immagini e scritte, anche sui costumi da bagno. Soprattutto dal punto di vista della struttura i due modelli presentavano novità. Nei primi anni 30 la collezione si allargò ale toilettes da città e da sera, trasformando quella che era stata fino ad allora una produzione specializzata in un avere propria maison del couture. I tailleur di tweed e le gonne-pantalone diventare una specialità della casa, insieme agli abiti da sera completati con la giacca. Il problema era però la realizzazione fra la cuoturiere il lbel mondo” da cui provenivano le sue clienti, alle quali dovevano essere presentati i nuovi modelli. Era necessario che la proposta di moda vive S venisse notata nei luoghi deputati ai riti dell’alta società. Per questo Elsa scelse di indossarli personalmente a party ed occasioni mondane. Il vestito era il primo strumento di comunicazione interpersonale e doveva innanzitutto nascere da un lato dello studio di chi doveva metterlo e del contesto in cui si inseriva, dall’altro dalle idee che attraverso il suo aspetto potevano essere veicolate. Questo lo indusse a cercare in ogni modo un rapporto diretto con i suoi committenti per influenzarli a condividerne le esigenze sociali. La moda secondo Schiaparelli Alice degli anni 30, esso Schiaparelli aveva messo a punto una sua silhouettes femminile che corrispondeva allo stile è all’ideale di donna che si stava facendo strada dopo la grande crisi del 1929. La ricchezza tornava ad essere un bel rarissimo che si poteva comunicare attraverso il lusso e l’estrosità di cui Schiaparelli si mostrò maestra. lOM oAR c PSD| 2805715 61 La sua ipotesi vestimentaria nasceva da un’idea fondamentalmente femminista. Non si trattava di lavorare sulla trasformazione artificiale del corpo femminile, ma di comunicare la donna del nuovo decennio. Difesa e sicurezza, quindi, dovevano essere i principi informatori della divisa dell’esercito di donne impegnate nel lavoro indossava di giorno per procedere lungo la strada dell’emancipazione. Ma di sera si apriva lo spazio di un’altra battaglia: quella dei sessi, e qui le donne potevano adottare una diversa strategia, condotta con le antiche armi della seduzione. Vestirsi diventava una filosofia da gestire con sapienza ed intelligenza adottando di volta in volta i segni adeguati. Per la battaglia quotidiana si trattava di costruire una divisa “guerriera“ utilizzando particolari presi dall’abbigliamento dell’uomo. Nacque così la silhouette grattacielo: linee diritte verticali e spalle larghe e squadrate, con il seno prodotto dai revers. Per ottenere dall’effetto i vestiti venivano muniti di imbottitura che si collocavano soprattutto sulle spalle. Su DS si concentrava il gioco delle decorazioni, che cominciò fin da subito ad avere un significato ambiguo: se da un lato la loro natura sembrava sottolineare la femminilità dell’indumento, dall’altro la loro collocazione enfatizzava l’effetto di armatura. Ma Schiaparelli andrò oltre: conquistato il comfort, cercava di connotare in modo più femminista l’abito, permettendo alla donna di trasmettere la ricchezza del proprio mondo interiore. Ad una struttura assolutamente semplificata e poi con tavole a fianco una fantasia sfrenata che si espresse attraverso decorazioni e accessori, con cui interpreto le 1000 facce di una cultura femminile lussuosa, eccentrica, ironica e seducente che si espresse soprattutto gli abiti da sera. Nel 1933 propose la linea “a scatola” con cappe che scendevano diritte dalle spalle formando angoli retti. L’anno dopo comparve la linea “cono“, ispirata a Poiret , con suntuosi pijama da sera, e poi la linea “uccello“. Inoltre, Schiaparelli sperimentò una grande quantità di materiali, naturali, artificiali, sintetici o rielaborati chimicamente. Nelle sue mani, le stoffe sintetiche diventarono uscite e forse si deve a lei di avere fatto diventare di moda il rayon. Le collezioni a tema Nel 1935 la maison, il pieno del suo successo, fu trasferita al 21 di Place Vendôme. La boutique Schiaparelli divento ingresso attraverso cui passava anche la clientela dell’atelier. La produzione di Schiaparelli non si limitò alla sartoria, ma spazio dei profumi agli accessori, dai bijoux agli indumenti sportivi e a quelli che non avevano bisogno di essere rizzati su misura. Per l’inaugurazione del nuovo atelier fu creato un tessuto stampato a pagine di giornale che parlava di Schiaparelli. La vera novità, però, riguardo le collezioni che dal 1935 ebbero una cadenza stagionale (divennero quattro Iello). Cominciarono a essere concepite ognuna intorno un tema ispirazione che faceva da Dio con lettore tra gli ambiti, accessori, la loro presentazione sfilata e la comunicazione sulla stampa. Schiaparelli scoprite seguendo questo medio riusciva a progettare non sono l’abito, ma un’intera immagine femminile armonizzata in tutte le sue parti. Inoltre scoprì che il sistema le permetteva di scatenare la creatività voli di fantasia ricchi di teatralità. La collezione estiva propose abiti da sera ispirati all’oriente più esotico. Non mancarono quegli elementi di eccentricità e dirigente se materiali che erano diventati un segno di riconoscimento lOM oAR c PSD| 2805715 64 Nell’aprile 1938 Schiaparelli presenta la collezione per l’estate intitolata “Païenne”, in cui esplorò il mito della natura. La natura “bassa”, quella del prato del boschetto, fece da traccia alla sua immaginazione. Poi visto al presentò la collezione “Cosmique” in cui emergeva tutto il suo immaginario sulla “natura alta”, quella di celeste. La prima sfilata del 1939 si articolo intorno a un tema più ambigua: la maschera. L’oggetto da cui mosse il flusso creativo fu la Commedia dell’Arte e l’immagine mitica della Venezia settecentesca. Anche in questo caso Schiaparelli ricreò un grande spettacolo popolare. Non è da escludere che il tema della commedia dell’arte fosse stato scelto come metafora della sensazione psicologica che la gente comune aveva di fronte alla situazione politica generale. La guerra La collezione dedicata alla commedia dell’arte fu l’ultima in cui si espresse il desiderio di Schiaparelli di studiare il profondo significato dell’abito femminile. A questo punto la percezione di un mondo stava per finire era diventata certezza. Schiaparelli realizzò ancora due sfilate, ma la sensazione che si percepiva era che tentasse una fuga dalla realtà richiudendosi all’interno del linguaggio della moda e accettando di cercare spunti nelle fogge del passato. La guerra scoppiò. Per scelta politica, Schiaparelli non chiuse l’atelier. La prima sfilata dopo inizio delle ostilità contava solo 30 modelli, tutti pensati per le nuove condizioni di vita: era la collezione Cash and Carry, con abiti piene di grandi tasche, così che una donna costretta a uscire di casa in fretta o andare al lavoro senza borsa potesse portarsi appresso tutto il necessario. Presto anche la moda dovette fare i conti con una doppia realtà: da un lato quella di un quotidiano sempre più povero e privo di materiali, dall’altro quella dei nuovi ricchi legati agli affari degli eserciti invasori che volevo un ostentare il loro lusso. Subito dopo il invasione, Elsa Schiaparelli parti per gli Stati Uniti. Torno in Francia nel 1944, appena dopo la liberazione di Parigi, e partecipò a tutte le iniziative per far rinascere l’haute couture francese. Ma la situazione era difficilissima: mancava tutto il necessario per fare gli amidi e quello che si riusciva a realizzare costava moltissimo. Schiaparelli si pose il problema di inventare una moda che mirasse tutte le brutture della guerra e potesse accordarsi con il nuovo standard di vita. Ma i tempi erano cambiati e la società che emergeva dalla tragedia della guerra era totalmente diversa. La risposta all’emergenza ricca borghesia internazionale la dieta Dior nel 1947. Negli anni successivi l’interesse di Schiaparelli nei confronti dell’alta moda sembra diminuire. L’unico spazio che conservò intatto alla sua creatività fu quello degli accessori cui Elsa si dedicò anche con l’aiuto e il contributo di artisti e artigiani di ogni specializzazione. Il 13 dicembre 1954, di fronte a un drammatico deficit finanziario, chiuse l’Atelier. lOM oAR c PSD| 2805715 65 Christian Dior (1905-1957) Tutte le storie di Dior iniziarono dal 12 febbraio 1947 quando, con una sola sfilata, cambiò la moda femminile dell’occidente. La passione per l’arte Erano nato nel 1905 in una solida famiglia borghese. Egli avrebbe voluto iscriversi all’Accademia di belle arti ma la reazione familiare fu durissima che non consideravano il ruolo dell’artista come un mestiere. Così fu iscritto alla Scuola di Scienze Politiche. Ma, grazie ad una serie di amicizie, Dior si avvicinò sempre di più al mondo dell’arte e tra il 1928 e il 1929 diventò socio di Jean Bonjean nell’apertura di una galleria d’arte. Disegnatore di moda A causa di una serie di tragedie familiari e il crollo della borsa del’29, Dior si trovò costretto a vendere i quadri della galleria, smise di condurre una vita bohémienne e iniziò a ce4care lavoro. La realtà economica della Francia alla metà del decennio, era però durissima e non offriva alcuna possibilità di trovare un’occupazione. L’unico settore che ancora resisteva era quello della moda e fu lì che Dior si indirizzò. Per caso fortuna riuscì a vendere uno dei quadri che gli erano rimasti dalla chiusura della galleria. Con il guadagno, Dior sistemò i problemi più gravi in famiglia e si concesse un periodo di studio: imparò a disegnare i figurini. Nel 1938 Piguet gli propose di entrare nel suo atelier come modellista e mise in collezione “Café Anglais”, un abito pied-de-poule disegnato da lui. Il mondo della moda lo aveva ormai accolto. Anche gli amici sostennero in ogni modo la sua ascesa: nel 1939 Marcel Herrad gli fece progettare i costumi per un’opera teatrale. Dior: la guerra, l’haute couture Ma tutto cambiò. Dal momento in cui la Francia fu occupata dai nazisti, gli Stati Uniti e tutti i paesi alleati cessarono i rapporti con Parigi e la sua moda. Era la fine di uno dei canali commerciali più importanti per l’haute couture. La moda rappresentava per la Francia anche un fattore di prestigio e fu questo che dovette attirare l’attenzione del governo di occupazione nazista. Le conseguenze del conflitto per quanto riguarda l’industria tessile furono: Maison chiuse, licenziamenti del personale. L’occupazione e la guerra colpì anche la clientela, che cambiò radicalmente. lOM oAR c PSD| 2805715 66 Il vero pubblico era rappresentato dai due vere categorie. La prima era composta dalle mogli, figlie e amanti dei collaborazionisti di ogni tipo. La seconda era costituita dai cosiddetti BOF, cioè quelli che con il mercato nero stavano costruendo tanto enormi quanto scandalose fortune. Grazie a loro e ai prezzi molto elevati, gli affari delle Maison prosperarono e i bilanci furono in crescita per tutto il periodo di guerra. Fu in questo contesto che, nell’ottobre del 1941, Lucien Lelong propose a Dior un ruolo di modellista nella sua Maison. La nascita di un nuovo mercato per le creazioni di moda esclusiva non cancellava però i problemi: da un lato c’era la necessità di confrontarsi con il gusto eccessivo e poco raffinato delle nuove clienti, dall’altro la costante lotta con la mancanza di materiali. L’immagine che doveva rimanere a Dior di questi anni di miseria era la donna descritta da Marie- France Pochna: “a cavallo della sua bicicletta, che scivola in silenzio sul grigio dell’asfalto e contro il grigio del cielo, questa silhouette che attraversa a testa alta questi anni di tormenta”. Nel suo aspetto si concentravano, infatti, “tutti i segni di un’epoca di dolori, di penuria, di sotterfugi”. Se questa era la situazione della moda alla vita reale, rimaneva uno spazio di sperimentazione nel cinema, in particolare nella creazione di vestiti di scena per i film in costume. Dior si specializzò nei modelli romantici e Belle Époque. Solo nell’agosto 1944, quando l’esercito francese entrò a Parigi, si poté pensare ad un ritorno alla normalità. Il “Thêàtre de la Mode” Nell’autunno 1944 Raoul Dautry, presidente dell’Entraide française, propose a Robert Ricci, responsabile della commissione che si occupava delle relazioni pubbliche della Chambre syndicale de la couture parisienne, di organizzare una manifestazione che mostrasse la vitalità che continuava ad esistere nelle industrie della moda e della couture. La proposta fu accolta e si affidò la realizzazione allo stesso Ricci e a Paul Caldaguès, che progettarono una mostra di bambole vestite dai sarti parigini. Mandare in giro per il mondo bambole-manichino per far conoscere le ultime tendenze era un’idea antica quanto la moda francese; in questo momento però si trattava di trovare una soluzione la problema della carenza di tessuti e creare modelli nuovi senza impiegare tutto il materiale necessario per vestire una persona. Il risultato furono dei manichini alti settanta centimetri, costruiti in filo di ferro, cui vennero applicati visi di bronzo. Non solo tutte le Maison, ma tutti gli artisti che in quel momento erano a Parigi parteciparono all’impresa realizzando i manichini, i vestiti e gli accessori, gli scenari in cui inserirli. Era il “Thêàtre de la Mode”. lOM oAR c PSD| 2805715 69 convenzionali dell’abito da principessa o da grande dama. Eliminò dei suoi modelli quell’idea di avanguardia che avevo contraddistinto lo stile degli anni 30. Da quel momento l’alta moda scelse di vivere in una sfera separata è autoreferenziale. Articolo il proprio percorso all’interno di uno schema logico e creativo che si offriva il mondo reale con la forza evocativa di un potere magico. Gonna a corolla, cintura stretta, cappello minuscolo, scarpe con il tacco, pennacchio e spilloni, questi erano gli elementi imprescindibili della nuova moda. Nelle stagioni successive il riferimento storico divenne ancora più esplicito e più sapiente: le linee delle collezioni presentate fra il 1948 e il 1949 erano definite contarmi in tipo grafico o dinamico, come “zig- zag”, “cyclone” ecc., Che evidenziavano da un lato l’ispirazione che Dior alla seguito nel disegnare i modelli e dall’altro l’effetto che il vestito sviluppata attraverso il movimento. Ormai fissata la silhouettes di base, gli abiti aveva una struttura simmetrica o effetti di sovrapposizione geometrici attraverso cui venivano restituite e suggerite le linee costruttive dei modelli fine ottocento. La collezione “Milieu de siècle”, per l’autunno-inverno 1949-1950, rappresentò l’apoteosi del modello Dior: non più una sola linea, ma un’infinita variazione su tuti i temi. La donna Dior Gli abiti di Dior, soprattutto quelli più scenografici, potevano servire solo a un certo tipo di vita: quella del bel mondo o della Caffè society, che aveva ripreso a pieno ritmo i riti anteguerra, con la conseguente richiesta di guardaroba estremamente vari per le diverse occasioni della giornata. Questo mondo era l’oggetto privilegiato dell’attenzione delle riviste di costume, attraverso cui tutti seguivano feste, vacanze, matrimoni, amori, dolori della giovane principessa, piuttosto che della diva, piuttosto che dell’imperatrice infelice. Dior vestì questo mondo del sogno e nessuno dei protagonisti si sottrasse al suo potere e la sua legittimazione. D’altra parte, le stesse caratteristiche costruttive dei suoi capi erano pensate per comunicare l’idea di uno stile di vita lussuoso ed elitario. C’era evidentemente un nuovo bisogno di lusso ostentato. Una favola o un film, che richiedeva costumi adeguati. Non è un caso che grandi party, quelli che fecero epoca, fossero a tema e in maschera. E che Dior abbia partecipato a tutti. E non è neppure un caso cambia vestito altre feste di questo tipo, quelle che tutti vediamo nel cinema: nel corso dei 10 anni della sua carriera realizzò i costumi per molti film, francesi e americani. Questo bel mondo lo considerava il perfetto interprete del rito dell’eleganza. L’America Ma questo non era il vero mercato della moda. Dior e lo scopre subito quando si recò negli Stati Uniti nel 1947. L’accoglienza che gli oro e trova il suo arrivo fa pensare che i media avessero preparato con cura l’evento, montando un caso di costume interno all’allungamento delle gol. Negli stati uniti si era formato un club di donne contrarie al New Look. Era difficile accettare che qualcuno potesse lOM oAR c PSD| 2805715 70 pensare di imporre alle donne americane delle gonne delle circonferenze di 20 m, dei capelli che passo la pena delle porte, di guanti lunghi e dei fili di perle… Era come tornare indietro di mezzo secolo. Dior era l’elemento di novità che avrebbe potuto provocare l’inversione di tendenza del mercato e il tour era stato pensato con questa finalità: promuovere il New Look attraverso il suo Creatore. Una quindi spense abile del progetto commerciale fosse sostenuto dal sistema della comunicazione, in modo che gli corre diventasse un caso prima ancora che i due abiti comparissero nelle vetrine. Il successo dell’operazione dimostrò senza possibilità di equivoci il potere dei media anche sulla moda. Il risultato fu che non solo i grandi magazzini lusso imboccarono la strada del new look, ma anche l’industria di convezione poté concentrarsi sulla nuova linea. Dior aveva capito che la scelta stilistica della scomodità aveva rischiato di mettere in crisi la diffusione dei new look e a partire dal 1948 nelle press release delle collezioni si cominciò a insistere su caratteristiche come la morbidezza, l’ampiezza che lasciava all’andatura tutta la sua spigliatezza senza mai ingombrarla o le correzioni apportate alle silhouettes per lasciare al corpo la sua agilità e all’andatura tutta la sua libertà. Il mercato della moda Evidente che l’America rappresentava per la moda un mercato straordinario, molto diverso e molto più ampio di quello europeo, e anche molto più ricco. Quello che Dior affrontò nel 1947 era però un mercato molto differente da quello con cui le mensole degli anni 30 avevano avuto stretti rapporti. Apparentemente il pubblico statunitense era meglio esigente di quello che le case parigine erano abituate a servire: l’abitudine ad indossare ready-to’-wear aveva sollecitato maggiormente il desiderio di cambiare piuttosto che quello di avere un mestiero perfetto un prodotto di lusso esclusivo, come quello che Dior offriva. Il boom economico di cui godette l’America dalla fine degli anni 40 avvicino all’acquisto di moda fasce di pubblico sempre maggiori, che presentavano precise esigenze. Si configurava uno strato sociale con esigenze nuove che non voleva rinunciare all’abito confezionato, ma chiedeva qualcosa di raffinato, benfatto ed esclusivo. Tutto questo offriva alla maison Dior la possibilità di sperimentare qualcosa di nuovo, che avesse il marchio del couturier, ma senza avere i costi e i rituali dell’alta moda. La risposta non poteva essere che il pret-à- porter di lusso. Nel frattempo era iniziato anche un serio lavoro sulle licenze. Prêt à porter di lusso e licenze dovevano soddisfare completamente di mercato internazionale, ma esistevano ancora possibilità di miglioramento interno del sistema. Nel 1952 si giunse alla conclusione che era preferibile concentrare a Parigi la creazione di tutte le collezioni, anche quelle americane, in modo da evitare i trasferimenti stagionali dello studio e Dior a New York. Due anni dopo di ore rappresentava da solo il 49% delle esportazioni di couture verso gli Stati Uniti. Immagine dell’haute couture Per sostenere tutto ciò, però, era necessario che l’hauteCouture continua stesso spettacolo e attirasse sempre più l’attenzione. Gli elementi dello spettacolo su cui si concentrò per un decennio L’attenzione della stampa erano due: la lunghezza delle gonne e la linea. Con lo stesso gusto per lo lOM oAR c PSD| 2805715 71 spettacolo facile da comunicare ricordare, Dior scelse di sviluppare in ogni collezione solo due temi, qui venivano attribuiti nomi che riassumevano le caratteristiche fondamentali della silhouettes. Anche i singoli modelli erano accompagnati da un nome, ma in questo caso l’evocazione faceva riferimento o ispirazione del couturier o all’immaginario del pubblico. La rappresentazione teatrale della sfilata era preparata con metodo e seguendo un rituale sempre uguale che vedeva di Dior al centro dell’intero progetto. Il nome veniva dato il modello al momento della prima prova generale, quando si decideva quali ambiti sarebbero entrati nella collezione: soltanto ai prescelti veniva attribuito l’onore di essere denominati. La composizione della sfilata dipendeva da diverse variabili, ma soprattutto teneva conto dello spettacolo finale e della sua regia. L’evento veniva organizzato nei più piccoli particolari è provato su un pubblico ristretto eamico fino alla sera prima della sua presentazione ufficiale. La produzione Dior rappresentava quasi la metà delle esportazioni della couture parigina e la collezione di alta moda era essenziale per conquistare l’attenzione della gente comune. Ma la sua comunicazione al momento giusto era essenziale per lo stesso motivo. La sapienza e composizione del suo pubblico garantiva anche dal giorno dopo i quotidiani cominciassero a raccontare, discutere, enfatizzare l’evento della nascita di una nuova linea e che dal mese successivo le riviste di moda pubblicassero fotografie e disegni accompagnati da professionali commenti. Lo stile Dior Il New Look durò sette anni. Ma il 27 ottobre Dior morì improvvisamente mentre era in vacanza a Montecatini. lOM oAR c PSD| 2805715 74 La stagione della grande industria della confezione stava volgendo al termine. Nei primi anni settanta attraversò un periodo di profonda crisi strutturale. Nel giro di poco tempo, infatti, erano cambiate tutte le condizioni che ne avevano favorito lo sviluppo. Anche dal punto di vista dei consumi il panorama stava cambiando: da un lato, infatti, il trasferimento della clientela della sartoria su misura al prodotto industriale era quasi ultimato e quindi non lasciava prevedere un incremento di mercato; dall’alto, i nuovi stili di vita avevano orientato la domanda giovanile verso l’abbigliamento informale o, comunque, verso capi semplici, poco costosi e molto diversificati. La haute couture stava progressivamente perdendo il proprio ruolo di guida del gusto e di laboratorio di tendenze a favore del prêt à porter più giovane e di avanguardia. Esso rispondeva meglio al diffuso desiderio di una moda priva di quelle note elitarie e lussuose. Nel 1975 le associazioni di categoria che riunivano gli imprenditori dell’intero comparto fondarono la Federazione nazionale delle industrie tessile e dell’abbigliamento per affrontare unitariamente la grave crisi congiunturale del settore attraverso una politica di programma. Gli industriali cominciarono ad investire su un nuovo modello produttivo o decentrato e su un sistema stellare di piccole imprese collegate a filiera, che da un lato consentì di risolvere molti aspetti delle rivendicazioni sindacali e dall’altro di affrontare con necessaria agilità le richieste del mercato della moda. La moda giovane degli anni sessanta Furono gli anni sessanta a creare le condizioni per una svolta decisiva nei costumi e nel modo di vestire. Attore principale di questo furono gli adolescenti, un gruppo sociale che la moda non aveva considerati come possibile mercato. I ragazzi del dopoguerra rappresentavano una grande fetta della popolazione e cominciavano a riconoscersi in un quadro internazionale fatto di gruppo, ideali culturali e politici, musica, luoghi di ritrovo, colori, abiti. Se l’industria di confezione non seppe capire il nuovo mercato, l’alta moda fu semplicemente ignorata dai giovani, che rapidamente adottarono quelli che furono chiamati stili. Cominciarono a vestirsi secondo logiche proprie e recuperare i propri indumenti in luoghi ed attraverso canali completamente diversi da quelli tradizionali, come le rivendite dell’usato. Esisteva però un intero popolo di giovani che adottò quella che genericamente venne definita moda pop, da cui uscirono le grandi novità vestimentarie del decennio: la minigonna femminile e il colore maschile. Queste mode non erano solo diverse da quelle adulte, ma nascevano in opposizione ad esse. Se l’aspetto femminile fu ricalcato su quello delle bambine, la tenuta maschile non fu meno innovatrice: i capelli cominciarono ad allungarsi rispetto al staglio vagamente militare diffuso e gli indumenti si colorarono, diventarono più fantasiosi e vari e si arricchirono di decori psichedelici. Inghilterra e Francia accolsero la sfida della cultura d’avanguardia ed adeguarono le proprio offerte alla nuova domanda attraverso un sistema distributivo fatto di boutique, ognuna della quale era identificata da una precise proposta. lOM oAR c PSD| 2805715 75 Mary Quant lanciò la moda più famosa degli anni sessanta: un abito con la gonna a metà coscia, di modello decisamente infantile ispirato alle divise scolastiche dalle linee degli anni venti da indossare con calze collant, colorante anche in maniera dissonante rispetto al vestito. La minigonna non aveva implicazioni erotiche; comunicava semmai, insieme ai pantaloni e ai collant, la voglia di non avvilire un corpo adolescente in indumento non pensati per esso e di esprimere attraverso i colori la propria voglia di vivere. Anche a Parigi si assistette allo stesso fenomeno. Un esempio furono i coniugi Jacobson che nel 1962 ampliarono il progetto con l’apertura di Dorothée Bis Il progetto era chiaro: partire dalla presenza di una nuova clientela di adolescenti, con esigenze alternativa rispetto alla corrente produzione di abbigliamento, e lanciare mode selezionando le proposte più innovative e stilisticamente più consone al proprio gusto di un tale pubblico. Le mode non potevano trarre ispirazione che dagli stili di vita dei teenager modificandoli secondo un progetto di gusto commercializzabile. All’estero del couturier si sostituiva quello dello stilista, che progettava collezioni da produrre con metodi industriali per un proprio marchio oppure per una o più aziende. Alcuni designer provenivano dall’alta moda, come Karla Lagerfeld, molti da esperienze professionali del settore, altri dagli studi artistici. Nei primi anni settanta, il prêt à porter aveva conquistato completamente il pubblico. Uno dopo l’altro i grandi magazzini di lusso americani chiusero il loro settore couture. La moda era ormai guidata da giovani stilisti che avevano raggiunto una notorietà pari a quella del couturier. Nel 1971 venne creata la società Créateurs & Industriels. On il compito di stabilire corretti rapporti tra gli stilisti, che avrebbero progettato e firmato le proprie collezioni, e gli industriali, che la avrebbero prodotte e ne avrebbero finanziato la comunicazione. Il prêt à porter italiano Anche l’Italia rispose alla nuova domanda di moda cercando nuove strade. La grande industria di confezione non era attrezzata per affrontare un così repentino mutamento di gusti e di consumi. L’unica azienda che seppe trarre vantaggio dal cambiamento fu Max Mara, creando prima una collezione e poi un linea pensata per i giovani. La sartoria cercò di seguire il modello francese creando linee di prêt à porter di lusso, che però continuavano ad essere semplici riduzioni della collezioni su misura. Per fari capi di avanguardia erano necessarie professionalità nuove: creativi con un preciso gusto, produttori di materiali innovativi ma po o costosi, confezionisti consapevoli del fatto che la lavorazione doveva adattarsi alle nuove idee e non viceversa. Si trattava di creare abiti di moda per un mercato affamato di moda, disposto a cambiare la propria immagine in tempi rapidissimi, insensibile ai richiami elitari delle raffinatezze haute couture, attratto dall’idea dell’abito come divertimento, travestimento, divisa. Era dunque indispensabile che la figura che inventava le novità avesse quel gusto internazionale che caratterizzava tutte le lOM oAR c PSD| 2805715 76 manifestazioni culturali giovanili. Non fu quindi un caso che i primi stilisti che operarono in Italia fossero francesi o avessero svolto l’apprendistato all’interno della couture parigina. La professione di stilista: Walter Albini Il primo a cogliere l’eccezionalità della situazione e la sua ambiguità fu Walter Albini. Egli intuì che era giunto il monumento di operare una censura con il vecchio e di tentare una strada diversa, che cominciasse immediatamente un’idea di modernità, di internazionalità, di futuro. Soprattuto comprese che era ormai necessario non dispendere in mille canali la proposta dello stilista, ma presentarsi sul mercato con un’unica idea, forte e riconoscibile, che qualificasse una grande varietà di prodotti. Si partì da Milano, una città industriale, poco affezionata al proprio passato, priva di legami con i riti dell’alta moda, ed estraente sensibile alla boutique più giovane. Scegliere il capoluogo lombardo significava puntare su un’altra Italia, quella che non viva nel mito dei fasti del passato, ma che cercava uno spazio attivo nella modernità. Altro punto fondamentale era il rapporto tra lo stilista e il compratore finale: quello che si offriva non poteva essere semplicemente un indumento confezionato, ma qualcosa di più complesso che doveva collocarsi in una zona intermedia far il gusto e lo stile di vita della nuova società emergente. Il modo di vestire pretendeva di significare una scelta di appartenenza, un’adesione ideologica. Su due versanti opposti, hippies e contestatori politici avevano radicalizzato i comportamenti che si erano presentati sulla scena all’inizio del decennio. Nel primo caso, gli indumenti orientali, sudamericani, africani, zingareschi folk, accompagnati da accessori etnici o auto prodotti, si mescolavano ad abiti di seconda mano, degli anni trenta e quaranta, dando vita, senza volerlo, alle prime realizzazioni di gusto postmoderno. Nel secondo, l’eskimo si accompagnava all’abbigliamento più neutro possibile, quello che non richiede cura, quello che non si fa notare: camicia e pullover, pantaloni di velluto a coste o jeans, scarpe comode per correre. Albini comprese che se il problema era culturale e di stile, il compito dello stilista non poteva essere quello di progettare singoli indumenti, ma un clima di gusto in cui il compratore potesse riconoscersi. I capi progettati da Albini erano realizzati da cinque aziende ognuna delle quali era specializzati in un particolare settore merceologico. La figura dello stato stilista come creatore e gara e te unico di un’immagine complessiva non era ancora giunta a maturazione e per il momento gli si riconosceva solo quella di coordinatore stilistico e di produzioni diverse. Molti nodi, però, erano ancora irrisolti, primo tra tutti quelli del rapporto fra stilista e azienda. Ancora una volta fu Albini da fare da battistrada: nel dicembre 1972 presentò a Londra una collezione di soli abiti che, per la prima volta, portava come marchio portava le iniziali del suo nome, WA. Il prezzo pagato per far nascere la griffe era stata la rottura con quattro delle aziende del team. lOM oAR c PSD| 2805715 79 Parallelamente alla ricerca dello stile procedeva la costruzione di un nuovo modello produttivo. Si trattava di stringere un’alleanza tra stilisti e industria, in modo da utilizzare il potenziale della seconda per creare una nuova moda. La svolta fu rappresentata ancora una volta da Armani, che riuscì ad imporre le proprie richieste ad un Gruppo Finanziario Tessile in seria crisi di sopravvivenza. L’industria assunse il semplice ruolo di produttore muto delle scuole firmate dallo stilista, che si occupava anche della loro comunicazione e delle loro distribuzioni. Il modello non fu generalizzato, ma su una filosofia di questo tipo che ebbero la possibilità di affermarsi le firme che nel decennio successivo diventarono le chiavi di volta del cosiddetto Made in Italy. In generale, comunque, la moda degli stilisti fu resa possibile dal decentramento produttivo, caratterizzato da innumerevoli piccole aziende, concentrate in distretti diversi, adatte a soddisfare una domanda in forte crescita dal punto di vista qualitativo. Restaurazione anni ottanta Dal punto di vista sociale e culturale la fine degli anni settanta rappresentò un momento di svolta. In Italia, il delitto Moro pose termine alle utopie progressiste: l’immaginario collettivo realizzò che il ‘68 aveva partorito il mostro. Contemporaneamente si cominciavano a cogliere nuovi comportamenti e nuovi rituali messi in scena da nuovi protagonisti. I giovani abbandonavano le piazze e si concentravano nelle discoteche trascinati dal modello John Travolta e del film culto La febbre del sabato sera. Anche gli adulti stavano preparando un ritorno allo stile di vita borghese e ritrovavano il gusto della mondanità. Il 1980 arrivò per porre definitivamente fine all’utopia degli anni settanta. Carriera, successo, denaro e potere diventarono le nuove parole d’ordine. Persino il popolo dei giovani si lasciò ingabbiare in questa nuova frenesia dei consumo del lusso e si riconobbe in uno dei trend di strada più conformisti del dopoguerra, quello dei cosiddetti paninari. Le seconde linee Si trattava di una moda difficile ed estremamente lussuosa, realizzata con tessuti ricercati e con lavorazioni innovative, che sconfinava nell’haute couture. Anche i costi erano adeguati: il prêt à porter italiano si avviava a diventare l’abbigliamento dei ricchi. Alla prima linea, destinata a un pubblico di élite, venne attribuito un compito di immagine e di sperimentazione: la sua presentazione si trasformò in un’occasione per comunicare le novità e le linee di tendenza, per dare spazio alle ricerche creative dello stilista, sia nel campo progettuale si a in quello dei materiali, per attirare e tenere viva l’attenzione del pubblico sul nome della griffe. lOM oAR c PSD| 2805715 80 Alla seconda linea, al contrario, venne assegnato l’obiettivo della vendita di massa, quindi fu caratterizzata da versioni più generalmente accettabili dalle idee della moda presentate nella prima, con tessuti me po’ innovativi e con una produzione decisamente industriale. Il look e gli stili Era iniziata una nuova corsa alla scalata sociale: i ricchi degli anni ottanta provenivano dal commercio del mondo terziario innovativo e non avevano alcuna tradizione alle spalle. Si cominciò a parlare di look, una struttura comunicativa capace di costruire l’immagine di ciò che non è. Ma anche la scelta dell’abito per creare un proprio personale look non si rivelò essere impresa facile: era necessario un mediatore professionale che garantisse la corrispondenza fra stile di vita adattato e abito adeguato a comunicarlo. Gli stilisti italiani erano pronti a questo compito. Tutti si concentrarono nella ricerca del nuovo e di un linguaggio personale. Versace si focalizzò sulla tradizione al femminile di capi di abbigliamento maschili e sulla loro struttura proporzionale, ma soprattutto presentò il primo abito in maglia metallica, materiale che sarebbe diventato simbolo della sua griffe. L’immagine collettiva del Made in Italy, già di per se garanzia di qualità ed eleganza, si articolò in tante proposte di gusto diverse e ben caratterizzate, ognuna delle quali corrispondeva a una firma, cui era possibile ricorrere per ottenere il look prescelto. La firma divenne la chiave estetica dei nuovi costumi. Tutti, senza eccezione, fecero però una concessione alle eroine della nuova epoca, le cosiddette donne in carriera. La battaglia che le donne dovevano combattere per imporsi nel mondo del lavoro sempre più duro e competitivo richiedeva cha anche l’abito fosse trasformato in un’arma. Il nemico fu affrontato esasperando la proporzione del torace, la spalle si imbottirono, e la parte superiore del corpo fu enfatizzata in maniera esasperata a scapito di quella inferiore. Se da una parte accentuava l’aspetto androgino, d’altro riproponeva una silhouette artificiale dopo decenni di dibattiti femministi e di movimenti di liberazione della donna e del suo corpo. L’abito tornava ad assumere il significato di rappresentazione di un ruolo. Era un’armatura, spesso seducente e lussuosa quelle che gli armorari milanesi fabbricavano per le parete cinquecentesche dei signori, fatta per combattere e difendersi dai colpi avversi. La giacca divenne la nuova divisa femminile, come parte di un tailleur. Ogni stilista la interpretò e la variò, stagione dopo stagione, a seconda del proprio modello di gusto e della donna acuì si riferiva. Il successo del Made in Italy Nel 1986 si assistette ad un avvicinamento all’alta moda da parte di alcuni stilisti e al contemporaneo proliferare di un casual firmato, fatto anche di magliette, accessori, scarpe ecc. la lOM oAR c PSD| 2805715 81 sera più sfarzosa e il tempo libero più normale richiedevano di essere ugualmente garantiti dalla logica del look totale. Un dubbio sul vero significato di tutto ciò che affiorò nelle collezioni di Moschino. Soprattutto, però, nacque una moda che metteva a disposizione di un ceto medio molto allargato la fascia più alta della produzione. Il cosiddetto Italian Look interpretò appieno il desiderio di essere e mostrarsi alla moda e rispose a ogni tipo di domanda articolandosi attraverso un’offerta di modelli, ma soprattutto di stili di abbigliamento, abbastanza diversificati fra di loro e facilmente riconoscibili. Mode di strada, ricerca di avanguardia, produzione industriale Il prêt à porter era diventato la moda. Questo significava che poteva cominciare a coesistere, molto più che in passata, stili differenti in cui pubblici diversi potevano riconoscersi è che i centri di creazione delle nuove mode potevano moltiplicarsi. Anche grazie ad alcune scuole specializzate fortemente innovative, questa vistosa rottura liberò all’interno della moda una serie di risorse creative che restituirono a Londra il ruolo di centro della ricerca più radicale ed eccentrica. La nuova moda si rivolgeva ad un aristocrazia del gusto che comunicava la propria distanza dalla società dei nuovi ricchi attraverso un modo di vestire che recuperava l’antica filosofia dei dendy ottocenteschi. La scelta di capi base funzionali e semplici creava di nuove forme di distinzione. Alla facile adozione di oggetti griffati si contrapponeva la raffinata e sapiente scelta di materiali preziosi e di un’intelligente sobrietà. Fra i grandi degli anni ottanta solo Armani e Dolce&Gabbana riuscirono a mantenere intatta la propria posizione internazionale adeguando con estremo acume le scelte ai cambiamenti culturali e di mercato. Vecchi marchi ed industria del lusso Un capitolo particolare della storia degli ultimi decenni fu affidato al rilancio di chicchi brand come Gucci, anche se c’era ben poco di italiano in queste operazioni condotte da proprietà straniere ed affidate a direttori artistici francesi o americani. Gucci, nel 1990, a causa delle sue difficoltà, fu affidato a Dawn Mello il compito di rinnovare immagine e prodotto. Per il ruolo rivestito dalla Mello, che era tornata negli Stati Uniti, scelse Tom Ford, nominato responsabile sia delle collezioni di abbigliamento ed accessori per uomo e donna sia della comunicazione. L’obiettivo era recuperare l’immagine di marchio di lusso che l’azienda aveva avuto fino agli anni settanta e che poi era stata distrutta da una commercializzazione troppo spinta. Per ricostruire il significato sociale e commerciale del prodotto Gucci si dovevano isolare i segni che lo avevano rappresentato e riproporli come elementi forti di una guardaroba attuale. Si cominciò a costruire un archivio acquistando sul mercato vintage ed antiquario tutti i modelli reperibili, raccogliendo immagini da riviste, pubblicità, fotografie, scene di film, e tutto ciò che poteva rappresentare la storia della produzione e della fama di Gucci. lOM oAR c PSD| 2805715 84 Dopo la morte di Coco, la Maison che al aveva continuato a proporre i tipo di modelli che ne avevano segnato il successo negli anni cinquanta e sessanta. Per tutti gli anni settanta la sopravvivenza della Maison Chanel fu affidata all’atelier, con i suoi specializzati professionisti che avevano lavorato al fianco di mademoiselle e che conoscevano i segreti dei suoi perfetti modelli. Il problema però è che mancava di quello slancio creativo che distingue un creatore di moda da un grandissimo sarto. Alla fine degli anni settanta le tendenza di moda non erano più dettate dalle Maison di haute couture che sfilavano a Parigi, ma dagli stilisti che presentavano nelle passerelle meno lussuose e tradizionali i prototipi degli abiti che sarebbero stai prodotti industrialmente e messi in vendita in boutique e negozi di mezzo mondo. Agli inizi del decennio successivo la scena fu occupata da migliori di “donne in carriera”, abbastanza sicure di sé da permettersi di ignorare gli assurdi fronzoli dell”haute couture, del tutto incoerenti con il loro stile di vita. Nel panorama che andò a delineandosi, la scelta di rimanere indissolubilmente legati alla tradizione mostrò alla lunga i propri limiti e già nella seconda metà degli anni settanta Chanel non era più una griffe di punta e aveva una clientela che andava diminuendo ed invecchiando. Il problema Chanel era complesso e fu affrontato si correggendo gli errori sia gli errori sia cercando d’interpretare quello che di nuovo si stava muovendo nella monda. Per adeguarsi davvero al cambiamento di costumi in atto e alla rivoluzione del mercato della moda sia seguì l’esempio della maggioranza dei couturier parigini, si decise di sperimentare il metodo delle licenze per proporre quella che fu chiamata Boutique Chanel: prese, scarpe, foulard, cravatte e prêt à porter. La pubblicità della Boutique Chanel segnalava la presenza in varie capitali della moda. Tutto ciò presenta a dei rischi. Le entrate finanziare che venivano delle licenze non controbilanciavamo l’impoverimento d’immagine che ne risultava. L’intera vicenda, nonostante i problemi, fu estremamente utile, perché costrinse a ripensare tutta la strategia Chanel. Era sempre più evidente che la moda che faceva notizia era quella degli stilisti, aggressiva, ma anche facile da portare, giovane ed adeguata ai tempi. Questi fu il momento in cui Alain Wertheimer, proprietario della Maison, che prese contati con Karl Lagerfeld e ad affidargli il compito di far rinascere a nuova vita il nome Chanel. L’haute couture di Karl Lagerfeld La collezione presenta da Lagerfeld al gennaio 1983 non suscitò grandi entusiasmi. Effettivamente Lagerfeld ava e proposto temi di sicura presa sulla clientela abituale: i tailleur di tweed con la blusa coordinata, il blu unito al bianco. In mezzo a tutto ciò c’erano però due modelli che facevano presagire un nuovo corso. lOM oAR c PSD| 2805715 85 Il primo era un tailleur nero con la giacca lunga e diritta portata su un paio di pantaloni caratterizzati da una vistosa abbottonatura alla marinara. A completare l’insieme, una camicia bianca maschile con il colletto chiuso da un papillon nero. Il secondo era un semplicissimo fourreau di crepe di seta nero, con scollatura sulla schiena e maniche lunghe, trasformato in un modello da gran sera. Il collo, il polso e la vita erano decorati, infatti, con l’applicazione a ricamo di catene, pietre simulate, perle finte, perline dorate, coralli, nappe e quant’altro fu ritenuto necessario per simulare una cascata di collane, una serie di bracciali e diverse cinture. Non si trattava semplicemente di un’ispirazione al passato, ma di un lavoro di decostruzione del mondo Chanel. L’obiettivo era separare i segni esteriori dai significati che li avevano motivati, in modo da riuscire a costruire con loro una sorta di codice senza tempo, fondamentale di codice senza tempo, fondamentale per creare una leggenda o forse un mito moderno. Questo primo esperimento combinava due di questi segni: il tubino nero e i bijoux. Il patrimonio spirituale di Chanel Il procedimento di Lagerfeld risultò chiaro tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta, quando lo stilista decise di rendere pubblico il proprio percorso e di utilizzarlo come chiave interpretativa di proposte di moda che andavano facendosi sempre più innovative. Lagerfeld sollevava il problema più grave, il punto debole che aveva caratterizzato le ultime collezioni di Coco e creato le basi della stagnazione del decennio successivo. Il punto focale proposto come chiave interpretativa del fenomeno Chanel era questa filosofia di cambiamento, del voler sapere interpretando i tempi e i desideri delle donne. Lagerfeld aveva fatto un’approfondita ricerca sulle fonti alla scoperta di quel patrimonio spirituale o, meglio, di quei segni che avrebbe trasformato in un codice simbolico. Il risultato di questo lavoro é esemplificato in un gruppo di disegni che furono allegati alle cartelle stampa delle sfilate e poi pubblicati. I modelli sono pochi, da tre a cinque, scelti con molta cura in modo da rappresentare la sintesi della decade. Analizzando le tavole si seguono le scoperte di Lagerfeld e ciò che a suo parare ha rappresentato in ogni momento lo spirito Chanel. Il lavoro di decostruzione e di selezione aveva messo in luce una serie disegni visivi che potevano essere disancorati dal momento storico in cui erano nati. In questo modo fu creato un codice fatto di emblemi potenzialmente eterni che potevano essere usati in qualsiasi modo e in ogni situazione. lOM oAR c PSD| 2805715 86 La nuova moda Chanel Fu dal prêt à porter che cominciò il ringiovanimento della moda Chanel. Era un mercato del tutto nuovo composto soprattutto di donne giovani con le quali era più facile osare. E in modo sempre più evidente furono loro il pubblico di riferimento dello stilista/direttore artistico. La collezione per la primavera-estate 1984, la prima ufficialmente firmata da Lagerfeld, aprí un nuovo corso sia dal punto di vista della moda sia da quello delle strategie aziendali. La collezione proponeva un esperimento: il denim, un materiale povero è molto popolare con cui molti stilisti stavano lavorando con successo. Lagerfeld lo utilizzò per confezionare un tailleur ed una sorta di chemistier senza maniche, entrambi allacciati con bottoni dorati dalla doppia C. L’idea era senza dubbio coerente con il carattere sportivo ed informale della collezione, ma dovette avere poco successo, tanto che negli anni successivi fu ripresa solo raramente. L’avvicinamento alla modernità proseguì nelle stagioni successive. L’imperativo era fare di nuovo moda, essere al passo con i tempi e magari anticiparli. Questo valeva anche per l’haute couture che doveva essere sottratta al suo sempre più evidente declino. Doveva essere però ripensata in funzione dalla nuova mondanità internazionale. Il codice Chanel Presto le mode di strada entrarono impetuosamente in passerella mettendo a dura prova le lezioni sull’eleganza che Mademoiselle amava impartire, ma aprendo definitivamente le porte alla clientela più giovane. La giacca di tweed nel più puro stile Chanel fu abbinata a minigonne jeans e a stivaletti da motociclista, ma soprattutto irruppero sulla scena della moda più lussuosa alcune ragazzacce vestite con giubbotti chiodo in pelle nera trapuntata e stivali da moto abbinati a strepitose gonne da ballo. Non era l’ennesima eccentricità di Karl, ma una scelta che teneva conto di un cambiamento di costumi che ancora una volta era nato negli Stati Uniti: jeans, maglietta e scarpe Nike stavano diventando una nuova divisa. Il mito Coco Tutto questo, però, poteva funzionare solo grazie alla sopravvivenza del mito di Coco Chanel. Il mito non doveva essere sfatato, al contrario lo spirito della grande Mademoiselle doveva continuare ad aleggiare. Kal Lagerfeld lo fece scegliendo modelle icona che nel corso del tempo dovevano essere identificate dal pubblico come l’incarnazione dello stile, ma soprattutto di quel mondo indipendente e unico di essere donna che aveva sempre caratterizzato Chanel. lOM oAR c PSD| 2805715 89 Gianfranco Ferré I cambiamenti erano però alle porte e il primo fu annunciato nel 1989 quando la direttrice della Maison presentò alla stampa lo stilista che da quel momento avrebbe progettato le collezioni haute couture, pret à porter ed alta pellicceria: Gianfranco Ferré. Fu messa in discussione la scelta di uno straniero alla guida di una delle più simboliche case parigine. La sostituzione della mente creativa rappresentava fisicamente la di un mondo, quello che era nato negli anni cinquanta e che Bohan aveva continuato a perpetuare nei decenni successivi e ‘inizio dell’era di Arnault che doveva traghettare il marchio Dior nel mondo contemporaneo. La scelta di Ferré non era stata casuale: la sua storia faceva di lui il candidato più adatto a fare un’haute couture di prestigio e soprattutto un pret à porter di successo. Fra il 1988 e il 1989, Ferré era al culmine del suo successo in Italia, me soprattutto negli Stati Uniti. Nell’89 fu proposta al pubblico la prima collezione haute couture dello stilista italiano: un omaggio a Christian Dior e al New Look. Gli applausi finali ne sancirono il successo. Ma il risultato più importante fu costituito dall’arrivo dei compratori americani e dalla ricomparsa dei modelli Dior nelle vetrine dei più importanti stores statunitensi. Certamente ci fu un lavoro negli archivi da cui venne l’ispirazione dei modelli. Certamente la giacca del tailleur “Bar” fu alla base di molte rielaborazioni, ma il designer italiano propose un proprio stile, una personale interpretazione del lusso e un ideale femminile che egli stesso identificò con le clienti di Dior. Egli inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante in cui portò alla perfezione i codici del proprio linguaggio: la costruzione architettonica, le asimmetrie, le soluzioni geometriche, i tagli e i dettagli impeccabili, le camicie bianche. Un lusso vistoso, barocco, dispendioso caratterizzò invece la progettazione degli abiti da sera. Ferré si innamorò dell’haute couture e la mise alla prova sperimentando abiti e decorazioni sempre più complessi ed elaborati. Ferré e la Maison Dior continuarono a rimanere legati alla tradizione elegante ed esclusiva del passato, forse condizionati dal timore di perdere la clientela più fedele, o forse perché a Ferré la tradizione piace molto. Ancora una volta fu il mercato americano a decidere, apprezzando gli svelti tailleur da giorno, ma rifiutando un abbigliamento da sera adatto solo a eccezionali occasioni mondane. La fine del rapporto si consumò nel 1996. John Galliano e l’haute couture Stava per aprirsi una nuova pagina. Il successo di Christian Dior era nato da un atto di rottura, quello che nel 1947 aveva radicalmente trasformato il modo di vestire delle donne. Il richiamo di Arnault allo stile innovatore del fondatore della Maison segnalava la volontà di un deciso cambiamento di rotta e la nomina di John Galliano. lOM oAR c PSD| 2805715 90 Il gusto per il travestimento e lo spettacolo era frutto delle sue esperienze nella Londra thatcheriana degli anni ottanta, quella in cui la ribellione o la diversità giovanile si organizzavano in gruppi di strada, nutriti di musica e caratterizzati da modi di vestire e di decorare il corpo anarchici e sovversivi. Già la sua prima collezione, quella per il diploma alla Saint Martins nel 1984, fu messa in scena come se fosse una performance. Il passaggio di Galliano alla Maison Dior fu annunciato durante la settimana delle collezioni dell’ottobre 1996 ed ufficializzato il 9 dicembre all’inaugurazione della mostra dedicata a Dior dal Costume Institute del Metropolitan Museum di New York. La principessa di Galles presenziò all’esclusiva festa di gala con il primo abito della casa parigina disegnato da lui. Era un modello semplicissimo, che marcava in modo evidente la rottura con il gusto opulento e barocco di Ferré. La prima sfilata haute couture si svolse il 20 gennaio 1997. La collezione era principalmente un omaggio a Dior; il patrimonio culturale della Maison era riproposto in tante soluzioni diverse. C’erano i tailleur “Bar” a alcuni abiti da ballo, con il bustino aderente e l’ampia gonna. C’erano i pied-de-poule, ma anche i mughetti e le gonne. C’era un diretto riferimento all’Africa colorata e altera dei guerrieri masai; i loro vistosi ornamenti di perline multicolore trasformarono radicalmente lo stile parigino dei modelli su cui furono indossati. Erano oggetti dal forte impatto visivo e raggiunsero lo scopo desiderato: la stampa ne rimase colpita e la loro immagine fu pubblicata ovunque. Quella con cui il giovane stilista si presentò al pubblico di Dior era una nuova lingua, fatta di commistioni fra oggetti provenienti da culture e costumi differenti: quasi una traduzione di ciò che stava accadendo nella realtà metropolitana. Tutto ciò faceva parte del bagaglio personale del designer, che era cresciuto da una famiglia per metà inglese e per metà spagnola e che, soprattutto, aveva passato gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in un quartiere di immigrati. Fu il primo passo verso la nuova immagine di Dior. L’identità Dior Christian Dior aveva lavorato solo per dieci anni: troppo poco per avere il tempo di fossilizzare la propria idea di eleganza che connotava la griffe. La sua moda aveva avuto dei temi ricorrenti, ma nel complesso era stata ricca d’innovazioni e di idee. Dior aveva avuto uno stile inconfondibile, ma questo era estremamente difficile da tradurre in un messaggio diretto e immediatamente incomprensibile per il grande pubblico cui pensava Bernard Arnault. La continuità che doveva essere comunicata al pubblico non era una continuità di segni, ma di atteggiamento verso la moda e la società. C’era però un altro retaggio del patrimonio storico che doveva essere assolutamente salvaguardato: il lusso e le sue declinazioni. Christian Dior aveva inventato un modello molto complesso che vedeva al centro il lusso assoluto ed esclusivo della couture, ma che si diramava poi per i mille lOM oAR c PSD| 2805715 91 rivoli delle licenze per arrivare ad un pubblico più ampio. Lo staff di Arnault creò una nuova mitologia del lusso che coinvolse l’intero sistema a tutti i suoi livelli. La nuova identità di Dior doveva quindi essere quella di una nuova marca che vendeva lusso tanto moderno da essere anche un po’ trasgressivo, pensato per donne che volevano lo status symbol della griffe. Marketing e creatività Tutto questo fu sostenuto e guidato da un sistema di marketing che utilizzò per la comunicazione i canali ormai assodati della pubblicità e delle boutique monomarca. Alla moda fu affidato un compito fondamentale, ristudiato su basi nuove. Il centro della comunicazione diventava la sfiata. In questo quadro l’haute couture trovava finalmente uno spazio adeguato ai ritmi e ai modelli di consumo più moderni. La sua stessa natura veniva rivoluzionata affinché potesse diventare il palcoscenico della creatività più libera, della ricerca e della sperimentazione di nuove idee di moda, di materiali, tagli o lavorazioni, ma soprattutto delle meravigliose e provocatorie favole di John Galliano. Era irrilevante il fatto che le mises di sfilata potessero essere ritenute importabili: non erano pensate per questo. Questo ruolo liberava l’haute couture da tutti i retaggi e le tradizioni del passato, ormai inattuali, e consentiva di salvarla come strumento di comunicazione di straordinaria forza e come laboratorio di ricerca. La Maison Dior aveva messo in discussione, però, anche la sfilata del pret à porter. Il nuovo progetto le attribuiva più il valore di grande evento comunicativo che di occasione commerciale. Lo stesso Galliano entrava a far parte dello spettacolo sfilata come attore principale, non come semplice creatore. Galliano cominciò ad offrirsi alla platea con i più bizzarri travestimenti, creando ben presto un clima di attesa quasi superiore a quella che precedeva la collezione stessa. Certamente il piacere del travestimento veniva dalla storia di Galliano, delle sue notti londinesi. Era del tutto prevedibile che i media non avrebbero perso l’occasione di trasformare l’ultimo travestimento di Galliano in una notizia, esattamente come negli anni cinquanta facevano con la lunghezza delle gonne di Dior. La nuova generazione Dior La nuova generazione Dior entrò in scena sul palcoscenico più importante e tradizionale che si potesse immaginare: la reggia di Versailles. Sulla passerella si susseguirono futuristiche guerriglie ispirate al film Matrix vestite di cuoi, metallo, tessuti plastificati mescolati a mussoline e pizzo; intriganti fanciulle orientali vestite di
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