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E. Pommier, Il ritratto. Storie e teorie dal Rinascimento all’età dei Lumi, Schemi e mappe concettuali di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto completo del libro di E. Pommier, Il ritratto. Storie e teorie dal Rinascimento all’età dei Lumi

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 27/07/2023

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Scarica E. Pommier, Il ritratto. Storie e teorie dal Rinascimento all’età dei Lumi e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! 1 Il ritratto: storia e teorie dal Rinascimento all’Età dei Lumi Edouard Pomm ier PARTE PRIMA: TEORIE ITALIANE 1. I PRIMI ABBOZZI 1.1 Petrarca e l’idea Nella Storia Naturale Plinio il Vecchio parla di Apelle¸ allo stesso modo Petrarca parlò di Simone Martini, pittore del celebre ritratto di Laura. Paragonò la gloria di Mantova, patria di Virgilio, a quella di Siena, patria di Martini. La figura di Simone Martini può essere paragonata a quella di Apelle, considerando Virgilio come esempio massimo di poesia latina. Petrarca diede grande impulso alla cultura umanistica, attraverso la sua esaltazione del passato romano e degli uomini illustri. Pose le basi per le riflessioni sul ritratto fino al XVII sec. Per Petrarca il ritratto somigliante è un ritratto vero. Da questa massima si può intuire la ripresa del passo dell’Eneide sulle statue che respirano di Virgilio. Basandosi sull’aneddoto che vede Petrarca inviare a Carlo IV delle monete con l’effige di Cesare, subentra una sua domanda circa il ritratto: “forse le statue esprimono meglio le fattezze del corpo, ma la gloria delle imprese e le qualità dell’animo sono espresse meglio dalle parole”. Indipendentemente da ciò, Petrarca spiegò cos’è il ritratto nella seconda strofa del primo sonetto del Canzoniere (1336): Simone Martini ha avuto il privilegio di contemplare l’immagine divina di Laura, quell’immagine originaria che risiede nel pensiero di Dio creatore e che è infinitamente più bella della sua incarnazione terrena. Ciò si scontra con il pensiero precedente di Cicerone: l’artista non è né imitatore né interprete del divino, ma possiede in sé un modello di bellezza a cui attinge per le proprie opere. L’idea di ritratto di Petrarca è ambigua: non è fondato sulla somiglianza con una persona viva, ma sull’identità di questa persona con il pensiero del suo creatore. Questo testo scarta la ripresa di un modello, andando a fondare il così detto ritratto ideale. Giovanni Battista Gelli (1549) riguardo al sonetto petrarchesco disse: la Laura terreste non è altro che un ritratto, una replica indebolita della Laura pensata da Dio, della quale il ritratto di Simone Martini è solo un secondo ritratto. Va specificato che, per Petrarca, l’artista greco dell’antichità non sarebbe mai stato capace di realizzare una cosa simile, perché egli e l’artista cristiano provengono da due sistemi che li rendono inconfondibili. Alcuni anni dopo il ritratto di Laura divenne sempre più un feticcio per il Petrarca. Nonostante in Petrarca il ritratto non portò a nessuna teoria di un genere, scatenò i dibattiti su di esso, andando ad individuare alcune tipologie: • il ritratto vivo, • il ritratto esemplare, • il ritratto ideale, • il ritratto immorale, • il ritratto fondamento della superiorità dei moderni sugli antichi. Vasari, tempo avanti, andrà a discutere sul tema della superiorità dello scritto sull’immagine, riprendendo i sonetti di Petrarca su Simone Martini: il ritratto è scomparso, ma la poesia è imperitura. 1.2 Cennino Cennini e il realism o. Cennino Cennini con il suo Libro dell’arte (1400) ha realizzato il primo trattato in italiano sulle tecniche artistiche, per ampliare la conoscenza della pratica attraverso ricette precise. Ben conscio del ruolo ricoperto da Giotto, si inserì nella sua discendenza, persuaso che il disegno sia fondamento dell’arte e che la pittura sia un’arte liberale. Il testo di Cennini dà importanza al disegno come mezzo espressivo, individuandone due tipi: 1. il disegno mentale 2. quello su carta. Tuttavia, non dedicò nessun passo ai generi della pittura. Il ritratto non aveva in quegli anni ancora acquistato autonomia. Nonostante ciò, è intrinseca una costruzione gerarchica dei soggetti in pittura nell’opera di Cennini, di chiara impronta accademica: natura morta, paesaggio e poi uomo (non si sa se venne effettuata in base alla difficoltà o alla dignità del genere). Nello stesso trattato affrontò il tema del calco in gesso del viso su persona in vita, preoccupandosi di permettere la respirazione. Il calco del viso probabilmente veniva realizzato in occasione di un ritratto realista. Tuttavia, nell’introduzione Cennino affermò che la pittura è un’arte di immaginazione (“Quello che non è, sia), aprendo alla discussione a riguardo. 1.3 Leon Battista Alberti: somiglianza e bellezza. Alberti dedicò a Brunelleschi (1436) la versione italiana del suo Trattato sulla pittura (uscito già in latino). Alberti era già conscio che la sua opera era senza precedenti. A Firenze scoprì le opere di Masaccio, Ghiberti, Donatello e Brunelleschi, il cui talento non era paragonabile con quello degli antichi poiché non possedevano veri esempi di essi. La finalità del suo trattato era quello di far conoscere i principi dell’arte 2 agli artisti, per fargli padroneggiare la tecnica e far diventare loro i continuatori dei geni del Rinascimento fiorentino. Inoltre, Alberti volle legittimare la pittura come attività nobile, al pari della poesia (arte liberale), dimostrando la dimensione scientifica di una creazione del genere. Nel trattato non si parla di ritratto. Alberti non era interessato alle categorie. Allusioni al ritratto sono inserite nella parte che tratta della rappresentazione del reale, con riferimento all’antichità. Fece combaciare la forza divina della pittura con quella del ritratto, immagine dell’uomo: la forza divina sarebbe quella di far sì che, attraverso il ritratto, anche i morti sembrino ancora in vita (valore memoriale). L’osservatore nel ritratto è in primis attirato dal volto, che implica il riconoscimento. Alberti, infatti, desiderava che chi lo appressasse lo dipingesse in un ritratto, prima o poi. Il ritratto vivo non è solo presenza di un essere umano, ma anche presenza della dignità e della funzione che incarna (nel caso di Alberti, quello dell’intellettuale umanista). Leon Battista Alberti individua la funzione del ritratto con la propria fedeltà al reale. La perfezione morale per lui corrispondeva alla perfezione delle forme: la bellezza. L’antichità gli riserva un esempio, quello di Zeusi a Crotone. Subentra qui la contraddizione tra artista e modello: il duplice procedimento di modello e imitazione. Tale dicotomia si tradurrà nella ripresa di una soluzione a due livelli tratta dall’antichità: - da una parte la correzione dei difetti, pur mantenendo la somiglianza à il difetto era fattore discriminante nella gerarchia sociale. - dall’altra la riflessione sul modello di Zeusi, ossia la ripresa di determinate categorie in vista della creazione di un modello nuovo devoto alla bellezza. Alberti insistette molto sull’equilibrio da trovare tra il talento, ossia l’immaginazione che permette di concepire l’idea della bellezza, e il rispetto del modello da imitare. Si ritorna al medesimo quesito: somiglianza o bellezza? Nonostante l’impegno, Alberti produsse una serie di principi inapplicabili ma seducenti. 1.4 Il ritratto e la morte. La stampa dei suoi testi portò ad Alberti grande fama (1540/1547). Solo nel 1548 un titolo si può avvicinare a quello di Alberti: il Dialogo di Pittura di Paolo Pino. Questo testo ebbe veloce diffusione negli ambienti umanistici. Il tema più discusso era quello della pittura che fa sopravvivere l’uomo e il legame con l’amicizia. Un esempio è il duplice ritratto di Justus Pannonius e Galeotto Marzio da Narni realizzato da Mantegna. Il significato del doppio ritratto, segno della sopravvivenza dell’amicizia nell’oltretomba, è confermato da Erasmo da Rotterdam in una lettera a Tommaso Moro, che annunciò l’invio a quest’ ultimo di un dipinto in cui figura accanto al loro amico in comune Pierre Gilles. Questa idea si accantona all’espressione ‘’Leale ricordo”, che figura sul Timoteo di Van Eyck, e alle misteriose iniziali V.V. collocate sui ritratti di Giorgione, Tiziano e Dürer: forse si possono tradurre con “Vivus Vivo” o “Vivens Vivo”, riassumendo la vita delle opere al di là della morte del modello e dell’artista. Il ritratto conserva l’aspetto degli uomini anche dopo la loro morte. Baldassarre Castiglione nel Libro del Cortigiano (1527) inserì personaggi già morti in un ambiente esemplare, investendo l’opera di sottile nostalgia. Il ritratto letterario di Castiglione rafforza alcune domande sui ritratti del rinascimento: vennero realizzati dal vivo, su modello vivo, oppure dopo la morte di questo? Il ritratto, inoltre, può raggiungere la perfezione durante la vita del modello? Questa domanda può essere esemplata dall’opera di Erasmo da Rotterdam, Dialogus Ciceronianus, del 1528: pone il problema dell’imitazione perfetta di un modello vivo attraverso la storia di un pittore che voleva fare un ritratto del suo amico Murius. Questo cambiò il ritratto ogni anno, aggiungendo particolari, fino alla vecchiaia del soggetto. È la ricerca di un realismo impossibile, perché la realtà è in costante mutamento. Solo nel XVII secolo si pensò al rapporto tra il tempo e il ritratto (differenza tra la minuziosità e l’istantanea fotografica). Un altro esempio di ritratto in morte è la rappresentazione di un corpo morto come vivo. Vasari raccontò un aneddoto su Luca Signorelli: egli dipinse il corpo nudo del figlio come vivo, secondo ciò che disse anche Alberti. In questo caso, come negli altri, l’immagine di vita è destinata a trascendere il tempo (guarda ritratto di Luigi Grotto di Tintoretto, uomo non vedente). Un caso particolare è quello raccontato da Lucio Faberio nell’elogio funebre di Agostino Carracci, chiamato da Melchiorre Zoppo a dipingere la moglie morta, Olimpia. Egli non avendo un ritratto precedente, si limitò a descrivere minuziosamente la moglie al pittore. Il risultato finale sembrava essere la donna tornata in vita e parlante. 1.5 Zeusi a Crotone. L’aneddoto di Zeusi a Crotone fece nascere il dilemma tra bellezza e somiglianza. • Nel De Inventione Cicerone trattò l’arte dell’oratoria: un bravo oratore per essere tale doveva prendere il meglio da ogni grande oratore, e farne una sintesi. Non vi è un modello unico, poiché non esiste perfezione esclusiva. Zeusi non si accontentò di fare la sintesi tra le cinque ragazze, oltremodo usò la descrizione di Elena fatta da Omero, che di per sé era già la trasfigurazione di un personaggio. Ciò servì a fargli immagare nella sua mente una donna di bellezza mirabile, nella misura in cui arte si mescola con ingegno. 5 2.3 Celebrazioni storiche. Una letteratura teorica e storica sulla pittura nacque solo dopo il 1540 circa. Iniziò la trattazione partendo da Giotto fino ad arrivare alla perfezione intesa come applicazione della prospettiva e dell’anatomia. La centralità dell’uomo anche in pittura fece progredire il ritratto (Raffaello, Tiziano come massimi). Le Vite di Vasari (prima edizione 1550): Giorgio Vasari trovò i primi esempi nella letteratura fiorentina di Boccaccio, Landini, nei trattati di Alberti, nei Commentari di Ghiberti e nella biografia di Brunelleschi. La resurrezione della pittura per Vasari avvenne da Cimabue e Giotto, passando per gli eredi Piero della Francesca, Masaccio, trovando massima esemplarità in Leonardo, Raffaello e Michelangelo, i quali hanno eguagliato gli antichi (se non superato). Tema cardine del testo vasariano è la resa del reale, iniziata con Cimabue e perfezionata dagli artisti della seconda e terza epoca. Il primo fu Leonardo, poi il giovane Raffaello, ma Vasari riconobbe come uno storico vero l’importanza dei pionieri, in primis Giotto. Nella biografia di Giotto venne espressa un’idea importante: la pittura ricomincia con il ritratto dal vero, perché illusione del reale, e introduce il “non visto”, ossia i sentimenti propri della vita interiore. L’elevazione del ritratto in Vasari riunì tutte le idee del Quattrocento. Vasari, inoltre, fece di Giotto il ritrattista di Dante: si tratta dell’incontro di due massimi maestri, uno di poesia e l’altro di pittura, uniti dal ritratto del primo e i versi del secondo nel X canto del Purgatorio (medesimo scambio tra Piero della Francesca e Federico da Montefeltro). La grandezza del pittore di ritratti risiede anche nella grandezza del suo modello. Vasari notò e annotò i “ritratti di naturale”, ossia quelli più vicini alla realtà, sempre più ricchi di dettagli materiali e accessori: • personaggi di Uccello (palazzo Medici, Firenze), • Benozzo Gozzoli (chiesa dell’Aracoeli di Roma) • Masaccio (Cappella Brancacci); • ritratto di Francesco Pugliese di Filippo Lippi; • ritratto di Maometto II di Gentile Bellini; • ritratto di donna per Pietro Bembo di Giovanni Bellini • ritratto del doge Leonardo Loredan di Giorgione; • la Monnalisa di Leonardo (questo ritratto implica l’utilizzo successivo di due termini, vita e verità, tanto essere vicino alla natura); • ritratti di Sebastiano del Piombo per Marco Aurelio Colonna e Anton Francesco degli Albizzi; • Raffaello con i famosi ritratti di Giulio II, Bindo Altoviti, Leone X con cardinali. Soprattutto con la descrizione di quest’ultimo ritratto, Vasari sembra concentrarsi solo ed esclusivamente degli oggetti, manifestando un sempre più marcato materialismo (che lo ha spinto ad apprezzare anche artisti minori). Fu così che la celebrazione del ritratto scivolò nell’esaltazione della natura morta, degli oggetti di arricchimento, tralasciando l’essenza e l’essenziale (preferendo le attrattive ingannevoli). Vasari venne implicato da Benedetto Varchi nel celebre paragone tra pittura e scultura, chiedendo quale di queste fosse per lui l’arte superiore. Vasari indicò la superiorità della pittura, come lo stesso Varchi fece (1547). Come tesi argomentativa parlò del ritratto di Papa Paolo III di Tiziano che, apparendo vero a chi lo osservava, sembrava quasi reale (riprendendo il famoso aneddoto dell’uva di Zeusi). Dalla resurrezione alla perfezione, la pittura italiana ha compiuto il suo ciclo, da Giotto a Tiziano. Tuttavia, Varchi si spinse più in là con un secondo problema: chi fosse più abile, tra poeta e pittore, a rendere la vita dell’anima. Benedetto Varchi affermò che il poeta si occupasse meglio dell’anima, mentre il pittore del corpo. Le idee del Vasari purtroppo non risposero alle domande sorte successivamente: i ritratti hanno qualcosa da dire? Che rapporto c’è tra pittore e modello? Il ritratto dal vero potrebbe essere compreso solo dai conoscitori? Nel suo Dialogo, Ludovico Dolce parlò di Tiziano in modo innovativo: egli non considerava vivi i suoi ritratti, inoltre questi utilizzava il ritratto come mezzo per fare carriera e ricevere remunerazione, oltre che diventare famigliare ai principi. Tiziano ritrova presso Carlo V gli stessi favori che Apelle aveva ricevuto da Alessandro Magno. Carlo V lo definì: “Apelle dei nostri secoli”. La definizione non è solo la pittura che resuscita nei ritratti con Giotto, ma è il pittore migliore dell’antichità che si è rincarato nel migliore del XVI secolo. 2.4 Ritratti emblematici. Giorgio Vasari nel 1534 produsse due ritratti e ne scrisse dei commenti: • il ritratto di Alessandro de Medici • il ritratto di Lorenzo il Magnifico, morto nel 1492. Per quest’ultimo si parla di ritratto somigliante, poiché in assenza di modello si trae ispirazione da ritratti precedenti o dalle informazioni di testimonianze fidate che hanno visto il modello. Vasari espose il suo concetto di ritratto: somigliante e riconoscibile. La nozione di realismo non è legata la presenza del reale: infatti, un dipinto accanto ad un modello, somiglia sempre ad un dipinto poiché si ha la certezza, osservandolo, che si tratti di una simulazione. Nonostante ciò, un ritratto è anche un’invenzione. L’invenzione è la capacità del pittore di trovare i mezzi per rappresentare una storia in pittura. Vasari mise in ballo il cosiddetto “piacere del riconoscimento”, ossia l’azione di decifrazione alla quale prende lui stesso piacere per il ritratto di Alessandro. Allo stesso tempo, Vasari non fornì alcun esempio di lettura dei ritratti che evocò nelle Vite. Per quanto riguarda il ritratto di Lorenzo, esplicitò la qualità del modello, il messaggio politico, morale e culturale e il patrimonio di virtù che volle condividere con la posterità. Nel caso di Alessandro, il pittore si compiacque 6 della sua invenzione, di aver dipinto l’uomo secondo il suo capriccio, e di avergli dato un significato. I simboli dipinti dal Vasari sono diversi: • le armi sono simboli di difesa; • la posizione seduta il possesso del potere; • la sciarpa rossa il sangue; le rovine indicano la guerra del 1530; • il cielo sereno la tranquillità dopo l’assalto; • i corpi senza arti nella decorazione del trono sono i vinti, ecc. La descrizione del Vasari portò alla nascita di un nuovo genere di ritratto, quello emblematico: esso esplicita attraverso figurazioni estrinseche il carattere del modello, le sue azioni, cioè sia fenomeni visibili che invisibili. In ritratto iniziò a trasformarsi in un oggetto complesso a più livelli. La compressione di taluni simboli non era per tutti. Di pari passo iniziò a dilagare una moda a Firenze, quella di scrivere lettere in modo criptato, geroglifico (lettera sul ritratto di Alessandro de Medici di Vasari). Ritratto criptato: l’interesse per l’interpretazione misterica dell’universo in Vasari subentrò dopo aver fatto la conoscenza di Pietro Valeriano, erudita che stava creando l’edizione critica del testo Hieroglyphica di Orapollo. Per comprendere il modello va considerato l’incontro del Vasari con Paolo Giovio a Roma nel 1532 (appassionato e collezionista d’arte). Da qui venne l’idea delle Vite. Nelle lettere in cui parlò dei due ritratti, Vasari specificò la teoria di una nuova forma di ritratto: un ritratto colto ma ricco di segni e simboli capaci di raccontare una storia. Questo tipo di ritratto aveva un esempio già recentemente: il Ritratto di Massimiliano I in trono, detto “mistero delle lettere egizie” (essendoci incisioni). Il sistema iconografico venne creato dall’astronomo Johannes Stabius, assieme gli artisti Dürer e Pirkheimer (quest’ultimo aveva tradotto in latino il testo greco dell’Hieroglyphica che dedicò poi a Massimiliano I nel 1514). Il ritratto dal vero si è sdoppiato in un ritratto criptato, specialmente in Vasari che si interessò di simbologie abilmente celate. 2.5 Ritratti iperrealisti. Vasari trattò anche del ritratto iperrealista: iniziato con Giotto, inventore del ritratto dal vero, la celebrazione di questa tipologia avvenne con Andrea del Verrocchio. In questo senso, l’antichità svolse un ruolo importante. L’incipit è la tradizione corrente nella borghesia fiorentina di donare alla chiesa della Santissima Annunziata statuine di cera per omaggiare la Provvidenza. Cennino Cennini nel suo libro trattò del calco in cera, utile per i ritratti. Con Verrocchio Vasari trattò del progresso nel controllo del reale, verso la perfezione. È importante ricordare le statue che Lorenzo il magnifico fece realizzare dopo la Congiura dei Pazzi. Nella maggior parte dei casi, erano calchi in cera per la realizzazione di maschere funerarie che le grandi famiglie fiorentine facevano create per porle nella galleria degli antenati. Vasari ne fu affascinato: la tecnica creò ritratti di un verismo quasi totale, quasi vivi. Il calco per Vasari rappresentò la conquista del reale nel Quattrocento, utile a consegnare alla posterità dei veri e propri documenti storici. La fedeltà letterale al reale appartiene all’arte? L’aneddoto di Vasari chiamato a realizzare una copia del ritratto di Leone X (Raffaello) da Ottaviano de Medici risponde. Il ritratto realizzato da un grande artista si impone come un mediatore tra un modello originale e lo spettatore: assume già una certa autonomia, ha già la sua vita, quella dell’opera d’arte. 2.6 Celebrazioni poetiche II. Nella celebrazione del ritratto Vasari tira in ballo l’aneddoto di Apelle e Campaspe (che usò assieme altri cinque per illustrare il salone della sua casa ad Arezzo) tratto dalla Storia Naturale di Plinio il Vecchio: Alessandro Magno dopo aver incaricato Apelle di fare il ritratto della sua cortigiana preferita, si innamorò della propria copia donando al pittore la donna in carne e ossa (innamorandosi del modello). Si tratta della glorificazione della pittura. Il pittore è colui che vede e fa vedere: attraverso l’aneddoto si scopre l’esistenza di un ritratto globale, quello della bellezza interiore e quello della bellezza esteriore. È un ritratto che si offre al dialogo, come esemplifica Petrarca con il ritratto di Laura. Il fervente petrarchismo nel XVII secolo fornì spunti per la produzione di poesie: nelle biografie di Giovanni Bellini e Tiziano alcuni ritratti trovano equivalenti poetici di Pietro Bembo e Giovanni della Casa. Tale fenomeno rallegrò Vasari, per il prestigio che questa forma di celebrazione assicurava ai pittori. • Pietro Bembo ringraziò Bellini per il ritratto dell’amata (scomparso) in due sonetti, pubblicati nelle Rime del 1530 – senza descrizione dell’opera. Nel primo si stupisce della perfetta imitazione dell’immagine dell’amata. Nel secondo della bellezza e della grazia, tra la verità e l’illusione, la natura e l’arte. • Giovanni della Casa scrisse su il ritratto dell’amata di Tiziano nel 1543: illustra la difficoltà nel distinguere l’essere vivente dalla copia, per via del realismo dell’opera. Si domanda come un volto così bello possa essere racchiuso in uno spazio piccolo. I sonetti mostrano un ritratto che se non illude e inganna, stimola l'immaginazione del poeta e lo induce a inventare un equivalente letterario. I poeti sono affascinati dall'equivalenza che si stabilisce tra la natura e l'arte. Vasari maturò a contatto con il teorico veneziano Lodovico Dolce. Nel Trattato sulla pittura del teorico, Giorgio Vasari partecipò ad un dialogo. Come dice in esso, tutto ciò che il pittore rappresenta è al servizio dell'occhio dello spettatore. Il pittore si occupa di rappresentare in modo vivo i personaggi, dalle espressioni naturali e le passioni leggibili. Lo spettatore ha il compito di usare la sua immaginazione. Nel pensiero del Rinascimento, l'immaginazione era la capacità di creare immagini mentali quando i sensi vengono stimolati. La pittura è come un'immagine mentale che induce lo spettatore a illudersi di stare guardando la realtà. 7 Il ritratto avrebbe portato la connivenza tra il pittore (che prese l’iniziativa) e il poeta (che l’avrebbe volta), questa arricchita dalla risposta dello spettatore che da significato all’illusione che gli propone il pittore. Lettera di Vasari (1537) riguardo il ritratto di Francesco Maria della Rovere di Tiziano: un sonetto aggiunto precisò il pensiero sul pittore, capace di mostrare ogni invisibile concetto. Seguirono sonetti anche per altri ritratti. Riconosce egli la capacità di combinare la verità del naturale con la rappresentazione dello spirito e dell’anima. Ritorno così il tema della concorrenza tra natura e arte e quello albetiano del ritratto trionfante sulla morte. Il giudizio di Vasari sul ritratto non è fine a sé stesso, ma frutto di esperienze legate ai pittori e alle loro opere, essendo anche lui pittore in primis. Affermò con sicurezza che Tiziano non aveva bisogno di alcun modello. Non voleva perciò che il poeta fosse rimasto dietro al pittore: nel 1542 disse a Diego Hurtado de Mendoza di aver scritto un sonetto sul suo ritratto senza averlo visto (di Tiziano). Al di là della rappresentazione del modello, subentrò anche il problema dell’esemplarità, diversa tra uomo (potere, politica, virtù eroiche) e donna (bellezza, capacità domestiche). Nei Dialoghi di Sperone Speroni (1542) sì può leggere una forma abbozzata di sintesi: poesia e pittura sono associate in un riconoscimento di eguale dignità, come natura e arte, come la realtà e l’immaginario. Vasari portò avanti il lavoro di Petrarca con la sua visione del ritratto. III. FUNZIONE DEL RITRATTO 3.1 Significati del realismo. La difesa del realismo vide la sua base nella Poetica di Aristotele, riferimento letterario del XVI secolo. 1. Girolamo Fracastoro, commento alla Poetica di Aristotele: pone poeta e pittore su due piani diversi. Il primo si occupa dell’universale, il secondo del particolare (come nel ritratto la resa dei dettagli della pelle ex.). 2. Ludovico Castelvetro, commento alla Poetica (1567): il dominio della poesia è l’immaginario, mentre quello della pittura è quello della realtà della natura, il cui obiettivo è quello di rappresentare secondo il vero, la vita e il naturale. La pittura è cosa materiale, il suo soggetto è la materia. Tema della somiglianza: la materia può essere conosciuta; il ritratto per essere buono deve essere perfettamente somigliante e così piacere a tutti coloro che possono farne il confronto con l’originale. Il ruolo per così dire “segnaletico”, di riconoscimento, del ritratto venne utilizzato in una precisa maniera. Tra il XIV e il XVI in piazza della Signoria cominciarono ad essere dipinti i ritratti dei criminali sulla muraglia del palazzo della Podestà in segno di infamia pubblica. Ciò veniva commissionato ad un pittore di professione. Si ricordano i ritratti segnaletici di Andrea del Castagno (ritratto naturale di Rinaldo degli Albizzi; ritratto dei Pazzi, i congiuranti attribuiti dal Vasari allo stesso pittore ma non vi è certezza su ciò). Fu così che riconoscimento e ritratto d’infamia si unirono per un fine di giustizia pubblica. 1. Battista Armenini fece un ritratto di un soldato spagnolo che lo aveva insultato per sostenere la sua lamentela a riguardo. 2. Annibale Carracci (dalla biografia scritta dal Bellori): fece il ritratto a memoria di banditi che lo avevano depredato per incastrarli e riottenere il proprio bottino. 3. Gregorio Comanini: la funzione del riconoscimento del ritratto, in conformità con il modello, porta alla sua riuscita, perché permette di riconoscere la persona rappresentata (piacere del riconoscimento). Teorie sul ritratto iperrealista: 1. Federico Zuccari, trattato del 1607: volle dimostrare l’eccellenza della pittura, la cui finalità è l’imitazione perfetta della natura e, per provare che i moderni non erano inferiori agli antichi, raccontò due vicende legate a ritratti che seppero ingannare: a. ritratto Leone X di Raffaello al quale un cardinale si inginocchiò per far firmare una bolla; b. ritratto di Carlo V di Tiziano con il quale il principe Filippo iniziò una discussione. 2. Filippo Baldinucci, nella sua biografia su Bernini, parlò del ritratto/busto di Pedro de Foix Montoya: paragonato al suo modello, è tuttavia il ritratto a figurare più vivo e vero. Il potere dell’immagine realista non induce alla sospensione del giudizio dei sensi, ma stimola l’immaginazione e dirige la volontà dello spettatore. 3. Francesco Bocchi, commento al David di Donatello: lo scultore seppe bene rapprendere l’espressione dell’anima e dello stato d’animo (Pathos e Ethos) in una determinata situazione. Donatello seppe rendere tale espressione nel ritratto di un eroe ideale, dandogli la capacità di esercitare tutta la sua forza su coloro che lo guardano (ex. Busti degli antenati per i romani, che sostenevano il loro coraggio). 4. Trattato sulla nobiltà della pittura, Romano Alberti: la pittura, il ritratto, supera di gran lunga anche l’eloquenza. Il tutto può essere riassunto con la storia raccontata da Plutarco, in cui Cassandro si mise a tremare dinanzi la statua di Alessandro Magno, pensandolo lì in carne ed ossa. Questa volta il sottile equilibrio tra natura e arte stabilito da Vasari si è infranto. 10 somiglianza al modello dalla funzione memoriale: ex. Statue di Giuliano e Lorenzo de Medici nella sacrestia nuova di San Lorenzo; l’intento era quello di rappresentarli di una grandezza tale che a nessuno interessi com’erano in realtà, se somiglianti o no. Da questa antinomia tra verità e bellezza restava da fornire una spiegazione teorica. Si pensava che la riproduzione ormai controllata delle apparenze non accontentasse più verso la ricerca dell’essenza superiore della realtà. • 1550/1560: ripresa della nozione di disegno (da un aneddoto di Plinio il vecchio). L’espressione poi rimbalzò da un teorico all’altro, da Cennino a Ghiberti che nei Commentari (1450) fece del disegno il fondamento teorico della pittura e della scultura. • La consacrazione avvenne con Benedetto Varchi (XVI secolo) che nelle sue Lezioni del 1547 trattò la gerarchia delle arti: pittura e scultura avevano origine medesima nel disegno; la nozione di disegno aveva importanza anche nel discorso della nobiltà delle arti, ossia del posto che le arti grafiche avevano nella gerarchia del sapere. • Nel 1549 Pier Francesco Doni fece del disegno un principio metafisico, un’operazione intellettuale. • Nel 1607 Francesco Zuccari fece del disegno un riflesso, nello spirito umano, dell’idea divina, e del suo modo di operare un equivalente del potere creativo della natura. Si può ipotizzare che tali speculazioni fossero mirate a celebrare il ritratto come mezzo di imitazione del reale e illusione di realtà (neoplatonismo; aristotelismo), arrivando a consacrarlo al pari della poesia. Giulio Cesare Scaligero affermò che la natura può essere modificata dal pittore, che può stravolgerla e migliorarla a suo piacimento. La vocazione dell’arte è essere superiore alla natura, compiendola e non copiandola. Sarebbe vano trovare in essa un modello. Il pittore è invitato a correggere il reale. • Vincenzo Danti, scultore di Cosimo I, pubblicò a Firenze una serie di 15 trattati completi sulla pittura: distinse tra “ritrarre” (copiare fedelmente il reale così com’è davanti ai nostri occhi) e “imitare” (correggere il reale per portarlo alla perfezione del quale è capace). Dato che non esistono modelli perfetti, il pittore deve cercare di migliorare (imitare) il reale. L’imitazione è un principio universale, del quale il ritratto non è che un’applicazione particolare. La perfezione dello stato naturale si può trovare solo nelle cose semplici e inanimate; più ci si eleva nella gerarchia degli esseri, più la diversificazione delle finalità moltiplica i rischi di incompiutezza, di errori e mancanze; e più il processo di mimesis diventa complesso. In questo caso, ritrarre sarebbe mancare la sua finalità. In questa visione d’insieme porta l’arte a prendere le distanze dal reale. • Armenini nel suo trattato sollevò il problema tra il genio del pittore e le esigenze del ritratto. Il ritratto somigliante risponde alle necessità del modello, ma solo i pittori mediocri copiano la realtà pedissequamente. I pittori eccellenti dipingono ritratti meno somiglianti ma profondi nel disegno. “Perfetta somiglianza” diventa quindi un’attività meccanica, minacciando di classificare il ritratto come genere secondario. 1602: editto che limita la circolazione di pitture fuori il territorio di Firenze, tranne che per i paesaggi e i ritratti, facendo comprendere la poca importanza data a questi generi. • Giovanni Battista Agucchi, 1620: spiegò che la riproduzione del reale in modo letterale era una forma inferiore dell’arte, che piace agli ignoranti che si rallegrano di trovare ciò che conoscono. Ci si trova davanti all’idealizzazione della natura. L’aneddoto del cardinale che scambiava il ritratto di Raffaello per il vero Leone X sembra far entrare il dipinto in questa tipologia di arte per ignoranti. Il pittore di ritratti era invitato a un lavoro di mediazione tra la realtà e l’ideale, la verità e la bellezza. • Conferenza del Bellori (1664) nell’Accademia di San Luca a Roma: invita i pittori a non cadere nella trappola del realismo volgare. Cita Van Eyck e l’incisione in cui rappresenta una scimmia al guinzaglio, simbolo della capacità di rappresentare la natura, ma in modo meccanico. Per Bellori i “facitori di ritratti” erano colori incapaci di correggere le deformità. La scimmia passò ad essere esempio svalutato e svuotato del significato precedente (imitazione meccanica e servile). Data la superiorità della pittura di storia, presto si assistette alla promozione sociale e intellettuale, per mimetismo, del pittore e del genere di pittura che pratica. Nell’imitazione ragionata venne inserito il ritratto nella trama di una storia (con elementi narrativi). o Ritratto del Cardinale Bentivoglio, Anton Van Eyck. o Ritratto di Marc Antonio Pasqualini: musicista ripreso mentre viene incoronato da Apollo, dio della musica. È un ritratto in azione. o Ritratto di Clemente IX di Carlo Maratta. o Ritratto di Carlo Cesare Malvasia della duchessa di Mantova: la donna venne resa più bella. Aiutare la natura: Agucchi aveva inventato questa formula per giustificare l’esigenza di un ritratto intellettuale, in azione, destinato al piacere dei conoscitori. Il ritrattista non doveva essere un solo ‘facitore di ritratti”. 4.3 Superare la realtà. • La rigidità teorica sul ritratto fino al 1580 non impedì al pittore di esprimere la propria realtà in modo più libero. Nel Tempio della pittura Lomazzo parlò della collezione di Rodolfo II e degli enigmatici ritratti di Arcimboldo: si tratta di ritratti che mischiano elementi reali, della natura, con l'immaginazione propria del pittore. I ritratti di Arcimboldo per Lomazzo sono una forma di imitazione del reale attraverso l'invenzione e l'immaginazione. Lomazzo spiegò che la resa del reale è un problema per il pittore, ma può essere aggirato mediante una ricostruzione in accordo con la tesi che vede la natura imperfetta. • Gregorio Comanini, 1590: nel suo trattato sulla pittura trattò del problema dell'imitazione; ripesca le idee platoniche di imitazione eikastica (del reale) e fantastica. Citò Arcimboldo per i suoi ritratti composti da elementi 11 tratti dal reale che non hanno nessun rapporto né tra loro né col volto umano; può essere paragonato ad un inventario naturale e descrittivo del reale. La composizione è il risultato dell'immaginazione del pittore. Si può parlare di un nuovo rapporto tra modellato, idea e immaginazione. Mostrando le qualità del personaggio rappresentato, quelle che non ricadono sotto i sensi, attraverso oggetti realistici Arcimboldo unì nei suoi ritratti le osservazioni scientifiche al meraviglioso attraverso la combinazione tra il naturalismo e dell’immaginario. • Giovanni Antonio Massani, 1646: affermò che nell’imitazione del reale l’artista debba aiutare la natura. Nel suo testo pose il problema dell’imitazione degli “oggetti peggiori del vero o più vili o difettosi”. Citò Annibale Carracci che diceva che il gioco e lo scherzo non erano solo dell’uomo ma anche degli animali (grottesco). In questo caso non si tratta di alterare l’oggetto: lo scherzo intorno a quell’oggetto, la deformità o la sproporzione sono naturali, e comporta il ridere con essa per la sua “ricreazione”. In tal senso, il pittore poteva imitare i giochi della natura ma poteva allo stesso modo aiutarla, condurla alla perfezione. Al riso che provoca la deformità si aggiunge allora il piacere che dà l’imitazione sapiente e ragionevole. La teoria in questo senso giustifica l’invenzione della caricatura che Annibale Carracci avrebbe ideato fondandola sulla conoscenza delle intenzioni e delle imperfezioni della natura. Nella lettera scritta da Annibale Carracci a Massani il pittore ci spiegò che l’artista di caricatura raggiunge Raffaello perché come lui realizza l’intenzione della natura, ma in senso inverso, e che la caricatura è un modo di incarnare l’ideale. Dunque, il ritratto naturale di Arcimboldo e la caricatura del Carracci sono due forme di trasgressione alle costrizioni che i teorici fecero gravare su ritratto e sul problema dell’imitazione. • Altro problema sollevato dal Vasari riguarda il ritratto degli uomini incerti, ossia quelli di cui non si conosce bene l’identità (ritratti degli antenati dei Frangipani): quei personaggi di cui si conoscevano solo i nomi e le dignità. 4.4 Critica religiosa al ritratto. • Il trattato di Lomazzo ricorda che la costruzione che grava sull’esercizio del ritratto non è solo di ordine politico e sociale, ma anche religioso e morale. Un ritrattista abile conferiva alla sua opera la nobiltà, creando un’immagine esemplare. In questo caso, Cristo può essere paragonato egli stesso ad un pittore che ha creato la natura e l’uomo. I miti cristiani sull’origine del ritratto, che legittimavano lo sviluppo dell’immagine nella pietà e nella liturgia cristiane, erano come il parallelo dei miti greci. • Nel 1582 Gabriele Paleotti, arcivescovo di Bologna, scrisse il Discorso intorno alle immagini sacre e profane, un vasto trattato destinato a porre la pittura al servizio della dottrina cattolica. Le sue considerazioni sul ritratto si accostarono a quelle immagini sacre che il cristiano deve ricreare e venerare. Le immagini dell’antichità per lui non erano opere d’arte ma testimonianze di un’epoca pagana, che perseguitava il cristianesimo: non era lecito, dunque, conservarle in luoghi pubblici ma bisognava nasconderle in luoghi privati; tuttavia, affermò che si potesse trarre un insegnamento morale da quelli che sono i personaggi mitici, noti per le loro virtù. Il ritratto storico, ereditato dall’antichità, era sottoposto a pregiudizio sfavorevole. Tuttavia, Paleotti affermò che, per quanto riguarda il ritratto dei principi, vigeva un discorso diverso. I sovrani illuminati dal cristianesimo erano dei fedeli dal potere legittimo, luogotenenti di Dio. Il ritratto del Principe era legato alla categoria delle insegne del potere. Se il principe avesse voluto far creare una statua di sé stesso non sarebbe stata giudicabile per vanità. In ogni circostanza, la statua doveva essere rispettata, se non riverita. Dopo il ritratto antico, che partecipa del male, e il ritratto regale, che partecipa del sacro, Paleotti affrontò il ritratto dei privati. Questi ritratti portavano con loro il marchio della vanità, quindi del peccato e della morte (riprese il mito di Narciso; confronto tra le idee sul ritratto dei filosofi antichi e i santi). Si può desumere dall’idea di Paleotti che c’erano specifiche modalità di applicazione nel trattato: vi sono alcune tesi che consentono di regolamentare il ritratto. o Sentimenti: sono buoni i ritratti che consentono di acquietare la mancanza di un caro. o Tecnica: il ritratto può costituire un buon allenamento per il pittore. o Moralità: il ritratto può essere l’immagine esemplare di una persona di dignità politica, religiosa, sociale o culturale (ritratti incisi dei pittori nelle Vite del Vasari). In ogni caso, in funzione della sua esemplarità, il ritratto doveva essere fedele al modello e attenersi all’essenziale: infatti, erano proibiti accessori frivoli o/e animali. I ritratti dovevano essere riservati ad uso strettamente privato. Un ritratto imperioso era quello delle donne: il pittore doveva scegliere bene le commissioni e creare un ritratto su modello dal vivo, non di nascosto. Il ritratto per eccellenza era quello dei santi, immagini di verità: nel caso di santi morti da tanto, il pittore doveva cercare delle immagini antiche, preferibilmente del volto. Il ritratto del santo non doveva mai essere mescolato alle immagini profane. L’attuazione pratica delle idee di Paleotti è riscontrabile nella collezione di ritratti donata, tra il 1607 e il 1618, da Federico Borromeo, arcivescovo di Milano alla biblioteca Ambrosiana: si dispiega dall’origine del cristianesimo fino al XVII secolo. Si trattava di ritratti somiglianti ispirati e documentati da informazioni fornite dalle fonti scritte e dalla tradizione della chiesa. Il ritratto per Paleotti rivela problematiche: al codice moralizzante molto ferreo basato sulla religione si contrappone l’insistenza a favore del realismo, del rispetto della verità. • A partire dal 1540 ci fu una limitazione del diritto del ritratto: la corrispondenza fra la ritrattista Lavinia Fontana e Alonso Chacon mostrò il timore dell’uomo di apparire vanitoso se si venisse a sapere dell’esistenza di un suo ritratto. • È stupefacente come le posizioni restrittive di Paleotti, comprensibili in seguito al concilio di Trento, siano ancora difese nel 1653 da un pittore come Pietro da Cortona e dal gesuita Giovan Domenico Ottonelli. I coautori di un Trattato denunciarono l’evoluzione perversa del ritratto: il ricordo si trasforma in idolatria, soprattutto quando è commissionato da un modello ancora in vita. E da loro accettabile, al contrario, se il ritratto era su richiesta di un amico, così che esso assumesse la forma edificante di un Memento Mori. Il 12 principe, come il santo, costituisce una categoria fuori dalla norma: il ritratto del principe non era immagine di vanità ma immagine di una rappresentazione di Dio (assolutismo). Il principe, difensore di Dio, aveva due personalità, ossia quella pubblica e quella privata. La personalità pubblica era quella degna di ritratto. Per quanto riguarda il ritratto di una donna, ciò che contava era l’intenzione del committente. Indipendentemente dalla malizia, il pittore doveva essere consapevole dell’onestà della donna. Se il ritratto serviva ad alimentare il desiderio sessuale del committente, il pittore sarebbe caduto nel peccato mortale. Non era accettabile in nessun modo il ritratto di nascosto. Seguendo quelle che erano le costruzioni convergenti del magistero religioso, della gerarchia sociale e delle teorie filosofiche dominanti, l’arte del ritratto non era solo difficile, ma poteva essere anche pericolosa. 4.5 Proposte per una gerarchia dei generi. Passeri riportò un’osservazione interessante di Giovanni Lanfranco: il pittore di tratti è particolarmente esposto ai capricci della clientela; egli venne incaricato durante il suo soggiorno a Napoli di fare ritratto della sposa del viceré di Spagna: in quell’occasione constatò che il dipinto era criticato dalle dame di corte che non vi trovano la perfetta somiglianza. Questa potrebbe essere la sventura di ritratti quando restano soggetti alla censura della plebe è più ignorante. Coloro che erano parte della plebe non erano parte solo popolo di ignoranti, ma erano anche tutti coloro che si aspettano una somiglianza troppo fedele e non capivano i tormenti che lo stato di incompletezza della natura infliggeva i teorici dell’arte. Le riflessioni mosse da Lanfranco fanno riflettere sulla situazione ambigua del ritrattista, il cui prestigio non poteva che soffrire di tutte le restrizioni apportate, di carattere sociale, filosofico o religioso. Il giudizio mosse verso la proposta di gerarchizzare i generi: • Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura (1620): fu il primo attentare una classificazione gerarchica dei generi della pittura e, implicitamente, a raccogliere e irrigidire la tradizione italiana in materia di teoria artistica. È il tema del dipinto che determina il suo posto nella scala gerarchica, dall'oggetto inanimato, al primo livello, fino alle figure umane atteggiate per rappresentare una storia, passando attraverso i paesaggi con esseri animati e il ritratto. Mancini distinse il ritratto semplice dal ritratto in azione, nel quale si può decifrare un racconto: il solo criterio del ritratto semplice è la perfezione della somiglianza; al contrario, il ritratto in azione mette in scena dei sentimenti (tipologia che non era di facile comprensione per il rozzo, poiché mette in ballo l'intelletto). • Vincenzo Giustiniani: creò una classificazione delle maniere dei pittori in 12 livelli quasi contemporanea a quella di Giulio. Lo scopo era fornire all'amatore alcuni orientamenti per guidare le sue scelte il momento della produzione artistica. La classificazione si divide in tre gruppi in base a criteri diversi: 1. tecnica (il disegno o la copia); 2. criteri di genere (il ritratto, i fiori, l'architettura, il paesaggio, la grottesca); 3. criteri di stile, ossia coloro che inventano attraverso l'immaginazione, al contrario di coloro che copiano la scienza della natura con le proporzioni, con i colori e con la luce, fino ai più grandi, ossia coloro che conservano la loro maniera, la loro personalità, davanti alla natura e al modello. Il ritratto si trova in una posizione inferiore nella gerarchia dei generi di Giustiniani. Ciò non toglie che il teorico affermò che il ritratto veniva praticato anche da pittori grandissimi come Carracci, Caravaggio, Guido Reni. La classificazione finale dipende dal genio del ritrattista, che impone la sua maniera. Tale classificazione confronta il conformismo di una regola alla libertà mentale del Giustiniani: il grande ritrattista conserva la sua maniera, vorrà dire le sue personalità e libertà davanti al modello. Le idee del teorico mostrano quella teoria dell'imitazione che conduceva la riflessione sul ritratto. 15 • Ulteriore esempio sul quale meditare in relazione al ruolo del ritratto è la collezione degli autoritratti dei pittori dei Medici a Firenze, essi erano presenti nella galleria degli uomini illustri agli Uffizi installata nel 1591. Ma si trattava veramente di autoritratti per tutti i casi? La domanda non trova risposta nel testo di Lomazzo, sappiamo che l’iniziativa del 1664 è del cardinal Leopoldo de’ Medici, che iniziò a domandare ad artisti viventi di inviare il loro autoritratto. A questa domanda rispondono con 4 comportamenti: 1. pittore che protesta affermando di non essere specialista del ritratto e che il suo volto non rispetta i canoni di bellezza (Pietro da Cortone, Guercino ecc..). 2. pittore onorato di avere il suo stesso ritratto in quell’ illustre galleria (fratelli Gennari). 3. pittore che ringrazia, ma che si lamenta per il compenso ricevuto (Charles Le Brun). 4. pittore che esegue l’autoritratto accompagnandolo con un’esposizione dettagliata della sua grande carriera (Rigaud). • La volontà del cardinale è però quella di creare una storia della pittura, le quali opere devono diventare memoriali e memorizzazione della storia, oltre che testimonianza della qualità degli artisti stessi. • Il museo inizia a diventare così una storia visibile, con una concretizzazione della memoria, della storia e dell’arte attraverso il ritratto. • Franciscus Junius (uomo del nord) realizza il testo “De Pictura veterum”, pubblicato nel 1637 ad Amsterdam, essa è la sintesi più perfetta e completa della tradizione della letteratura artistica italiana. Si occupa del ritratto in quanto espressione di una bellezza ideale alla quale l’artista si eleva attraverso l’ osservazione assidua della natura. VI. SUA MAESTÀ L’ ACCADEMIA 6.1 Il ritratto del re • Brantome nel suo “Recueil des dames” racconta la visita di Caterina De Medici alla bottega del pittore Corneille (Lione 1565). L’ martista le mostra una camera piena di ritratti di reali ed ella si sofferma dinanzi al suo, ammirazione obbligata della modella e del dipinto. • Denis Le Conte invece nel 1614 loda in un suo testo le statue di Enrico IV sul Pont-Neuf, l’immagine del re qui è il ritratto esemplare del vincitore, del pacificatore e dominatore e ci dice come il cavallo rappresentato sembra così vero che i cavalli che passano di lì nitrirebbero vedendolo (topos letterario). • Martin de Charmois 1648, scrive al Consiglio de re per trovare protezione e riconoscimento per quegli artisti riuniti sotto il nome di “accademia dei pittori e scultori” e la questione del ritratto trova in questo testo un ruolo centrale. Charmois infatti insiste sul ruolo centrale del ritratto come propaganda e in quando tale non può essere realizzato da pittori delle antiche corporazioni. • André Félibien commenta un ritratto di Charles Le Brun su Luigi XIV, facendo un “ritratto del ritratto”, ma qui il ritratto è al di sopra della parafrasi letteraria. Il ritratto del re è fuori da ogni norma, perché è un quadro senza riferimento storico (il pittore non si può ispirare all’ antichità, né all’ iconografia tradizionale), perché in lui il concetto di ritratto ideale e ritratto realista sono superati e perché bisogna “intrappolarlo” in uno spazio mediocre. Nel re perfezione sacra e unica che né il pittore né il poeta possono rappresentare. Il ritratto del re sarebbe l’unico ritratto possibile dove l’imitare e il ritrarre vengono a confondersi. • Georges Guillet commenta il ritratto di Luigi XIV eseguito da Henri Testelin, definendo il re che Testelin rappresenta con gli aggettivi di maestosità, gravità e fermezza e la capacità di riunire intorno alla sua figura quegli elementi che lo definiscono re pacificatore, protettore delle arti e delle lettere. Realizza così “il maggior eroe di tutti i tempi”. • Rivendicazione da parte di alcune autorità al “diritto all’ immagine, documento di Tolosa del 1295 dove la città stabilisce l’obbligo per i suoi “capitouls” di far inserire il loro ritratto negli annali della città. Tale immagine deve essere presa dal vero, naturale e realista. Il caso di Tolosa, (che non è l’unico) ci illustra il montaggio politico- giuridico che si forma attorno al ritratto. 6.2 La regolamentazione dell’Accademia La celebrazione del ritratto di Felibien o di Guillet non corrisponde all’ esaltazione del ritratto di per sé, il ritratto reale viene considerato un genere separato. Il genere privilegiato era quello di storia e la gerarchia dei generi subisce e assume una forza di legge in Francia attraverso un testo regolamentare del 1663, il ritratto non è ancora considerato il criterio della scienza e della perfezione. Felibien stesso realizza una gerarchia che partendo da natura morta, paesaggi e animali arriva infine all’ uomo “l’opera di Dio sulla terra di maggior perfezione”. Felibien si rifà a modelli italiani, ma a differenza dei testi italiani non pone il problema del ritratto in quanto imitazione di un modello reale incompleto e imperfetto rispetto all’ idea del suo creatore, ma lo riferisce ad una messa in scena dell’immagine dell’uomo nell’ambito di una scena sempre portatrice di una morale e di un insegnamento. 16 Per Charles Perrault invece i generi coincidono con le 9 muse di Apollo (storia, grottesche, baccanali, ritratto, paesaggio, architettura, prospettiva, animali e fiori). 6.3 Dalla norma alla storia Nei testi di Félibien e di Perrault il ritratto è al primo posto tra i generi secondari. • In Perrault si racconta del mito dell’origine del ritratto confondendolo con quello dell’origine della pittura, e questo rianima il pensiero accademico. Incongruenza che si trova anche in Félibien che pubblica dal 1666 al 1688 gli Entretienes, trattati in francese per l’elogio della gloria della pittura che dice rappresentare meglio l’onnipotenza di Dio e che ha quindi qualcosa di divino. La meraviglia della pittura per lui consiste anche nel poterci mettere di fronte anche una vera immagine delle persone che amiamo e di rappresentare in modo così perfetto che sembra di essere in loro compagnia. Frasi che ricordano molto quello che diceva Leon Battista Alberti. Tuttavia non si lascia ingannare dal potere illusorio della pittura perché è fedele alla realtà e si percepisce quando racconta di un episodio in cui l’arrivo di una dama bellissima gli ha permesso di distogliere lo sguardo dalle opere di Tiziano, e quindi dalla bellezza delle sue donne = realtà migliore di immagine che non illude. In merito all’autoritratto sempre nelle Entretienes ci si riferisce quando in merito a Raffaello dice che si percepisce il suo autoritratto quando dipinge anche altri uomini, e più avanti afferma che gli italiani hanno questo accento di autoritratto nelle opere “altre” + marcato di altri e che li fa diventare + straordinari di altri ritrattisti. • Félibien nella biografia di Poussin afferma che ci possono essere 3 possibili suoi ritratti: 1. Quello nella sua traduzione del Pimandro 2. Quello dipinto da Poussin stesso (autoritratto) 3. Quello che Poussin ha fatto in ogni sua altra opera (“i pittori si dipingono nelle loro opere”) Félibien afferma che l’autoritratto del pittore è inutile perché comunque lui appare in ogni sua opera, sempre che l’osservatore sappia guardarle e capirle. Félibien fa moltissimi esempi di ritratti come in un suo museo immaginario, ordinato e scelto in base alla tradizione storica senza però porre molta attenzione al lavoro ritrattistico anche dei maggiori artisti: es. Raffaello cita solo “Il bel ritratto di Leone X” e la Foranarina non la commenta nemmeno = anche se considera Raffaello superiore a tanti altri artisti non lo giudica in merito ai ritratti ma in base al resto della sua produzione stilistica. I tre grandi del ritratto secondo Félibien sono (ne parla sempre nell’Entretienes): Holbein, Tiziano e Van Dyck 1. Hans Holbein il Giovane. Eccezione di artista che non deve nulla all’Italia perché non ha mai preso esempio dai pittori italiani, quindi è un prodotto puro di natura. Questo lo porta a incontrare Tommaso Moro al quale realizza un ritratto. Moro lo accoglie a Londra e gli fa conoscere Enrico VIII che rimane stupito dai ritratti di Holbein “che parevano come altre persone vive”, così Enrico VIII lo prende al suo servizio (Moro aveva offerto i ritratti di Holbein al re, che però li restituì preferendo prendersi il pittore). Holbein realizza nel 1528 Enrico VIII astronomo. 2. Tiziano Vecellio. Félibien si prolunga nei suoi ritratti citandone molti. Es. quello di Alfonso D’Avalois in Allegoria matrimoniale o Allegoria di Alfonso D’Avalois, 1532. Grazie al ritratto Tiziano ha il suo maggior successo, soprattutto come ritrattista di Carlo V. Tiziano è così importante come artista che si racconta l’aneddoto di quando l’Imperatore Carlo V gli raccoglie il pennello e poi sempre lui gli permette di rappresentarsi in un fregio tra i principi della casa d’Austria. Félibien, che di solito era portato ad apprezzare di più grandi soggetti di altri pittori (pittura di storia ++ apprezzata del ritratto), afferma di Tiziano che per questo pittore è più glorioso il suo colore che il fatto di non aver saputo inventare questi “grandi soggetti”. Per Félibien Tiziano non aveva le qualità per i grandi composizioni di storia. 3. Van Dyck. Félibien dice che lui era già predisposto a realizzare ritratti e quindi ha fatto bene a continuare su questa strada che lo ha portato a ++ successo. Vedi Ritratto dei principi palatini Carlo Ludovico e Rupert, 1637. Dato che era sempre pagato bene non c’era bisogno di fare altro. Félibien rispetta la sua ritrattistica, cosa che non fa nella maggior parte dei casi, perché rispetta in lui il suo aver seguito il talento, tanto che era il più ammirato tra principi, re, cardinali ecc. Era una grande personalità nella socialità. Difatti Van Dyck solo con l’attività di ritrattista vive nella grande ricchezza e Félibien rispetta questo della sua carriera: l’essere riuscito ad arrivare in alto con questa arte, affermando che Van Dyck possedeva, al contrario di Tiziano, la capacità del disegno. Félibien conclude l’Entretienes andando contro l’idea di Vasari e Armerini che un pittore mediocre sarebbe più bravo a fare ritratti di un pittore sapiente, per lui un ritratto è illusione, scienza, e serve intelligenza e nobiltà. L’analisi del ritratto di Félibien vacilla davanti a tre casi: a. Caravaggio. Considerato da lui il “distruttore della pittura” ma ne esalta il ritrattista. Lo condanna perché si lasciava trasportare dalla verità del naturale, mancando completamente di invenzione imitando maniacalmente quello che ha davanti agli occhi (++ affinità con idee di Agucchi e Bellori) 17 Ritratto del gran maestro di Malta, 1608, dice che non si può definire una brutta pittura perché è estremamente (in senso tecnico) fatto bene, ma allo stesso tempo manca totalmente di inventiva. Dipingere i corpi come li si vede non è necessariamente sintomo di un grande pittore. Quindi infine Félibien sottolinea la superiorità di Guido reni anche se sue forme non sono perfette come quelle di Caravaggio. b. Rembrandt. Criticato da Félibien soprattutto per la sua tecnica. Lo considera in primo luogo un ritrattista e ne riconosce l’originalità, l’inventiva e la capacità formale, però la sua tecnica a “grandi tocchi di pennello con colori senza essere mescolati” non permette allo spettatore di relazionarsi bene con il dipinto che da vicino pare “spaventoso”, mentre da lontano prendono più forma. Autoritratto a cavalletto, 1660 c. Diego Velazquez. Per Félibien i suoi ritratti mancano sia di somiglianza al naturale sia di “bell’aria” strano argomento che non ha mai usato per nessuna critica prima di ora. Nel complesso Félibien critica nel ritratto la pretesa pseudoscientifica e iperrealista, tipica degli spagnoli. Félibien si riferisce in alcune righe al trattato Metoposcopia di Girolamo Cardano uscito in traduzione francese a Parigi nel 1658, in cui si comprendevano circa 800 figure di ritratti nelle forme del destino umano (leggere nelle forme del volto le vicissitudini dell’esistenza, i successi, l’epoca, il tipo di morte ecc.) anche con connessioni astrologiche: teorie “sortilegio” nascoste da un carattere scientifico. Félibien nega al ritratto qualsiasi forma che consideri il volto uno strumento di predilezione, pur negando questo però afferma che con la pittura del ritratto si può permettere all’osservatore di far conoscere il temperamento delle persone, imitando solo quello che la natura stessa ha sottolineato in quel volto. Es. Tiziano, Ritratto di Carlo di Borbone, del dipinto abbiamo un’incisione di Lucas Vorsterman del 1620 circa, Carlo di Borbone doveva tradire Francese I a profitto di Carlo V e dalla fronte aggrottata non si percepisce l’evento, ma solo il temperamento “debole e malinconico che contiene in sé stesso la virtualità del tradimento”. Félibien spiega che ci sono corrispondenze tra tratti-colori del volto-temperamenti, corrispondenze anche di carattere economico, sociale, educativo… tutto questo condiziona il carattere dell’uomo e la sua personalità profonda che il ritrattista deve studiare e ricercare. Tutto questo quindi fa riferimento alla fisiognomica, il cui testo di base è la traduzione di Phisiognomica humana di Giambattista Della Porta. Fisiognomica = idea di rapporto tra interno ed esterno, occulto e visibile. Pur non sapendo se Félibien ha letto Della Porta, sappiamo che cita in modo diretto Martin Cureau de La Chambre che nei suoi scritti di sicuro era stato influenzato dalla Phisiognomica humana. Il compito del pittore è quindi quello di conoscere e far conoscere l’intimità dello spirito e del cuore attraverso tratti e forme che la rivelano perfino all’insaputa del modello. Félibien a tal proposito cita, in senso di non correttezza, anche come per gli antichi la somiglianza nei tratti di una persona con un animale le indicava la somiglianza di temperamento. Félibien si domanda quindi se le passioni e gli affetti e per colpa di un evento in particolare colpiscono l’uomo, devono essere di appannaggio del ritratto o, forse meglio, della pittura di storia. Questa conoscenza delle passioni è stata studiata prima da Le Brun in una conferenza all’accademia di pittura francese dove si è dimostrato che con pochi e semplici tratti si possono mostrare i più grandi moti dell’animo. Tuttavia Félibien vuole riferire la rappresentazione dei moti dell’animo come compito della pittura di storia. In modo indiretto quindi ha definito i limiti del ritratto: non deve essere visto come divinatorio ma non può nemmeno dare illusione totale della realtà. Il ritratto in cera viene descritto da Vasari come originato dal Verrocchio, ed era la cosa più realistica che si potesse realizzare essendo preso in modo diretto dal vero. Una pratica che a Firenze non era mai passata in disuso. In Francia il ritratto in cera era una pratica importante nei riti funebri reali (vedi Busto di Enrico IV del 1610) però dagli anni ’70 del Seicento inizia a diventare un divertimento mondano per merito di un protetto di Luigi XIV che ha sempre + successo nella corte fino a prendere i titoli nobiliari a inizio Settecento. Questo Antoine Benoist ha avuto un grande successo politico con anche apprezzamenti in merito ai suoi ritratti “in cera belli e sorprendenti ai quali ha dato l’aria della vita”. Bernini stesso afferma che quei ritratti erano “buoni”, eppure si reca due volte a conoscere il loro autore, affermando poi che erano fatti per piacere soprattutto a chi sia amava. Diventano ritratti di individui e non della monarchia (ben lontano dal ritratto della concezione di Félibien). La concezione di questo ritratto non è ben vista da molti, di sicuro dalla corte e dal re era molto apprezzata e si sono lasciati affascinare dall’iperrealismo. Félibien afferma che in questi volti di cera non si trova la grazia, prova fascinazione nella tecnica e nel realismo soprattutto dei colori e delle forme, questo però dice che “sorprende la vista ma non la mente” perché il calco fissa qualsiasi espressione di vita ma l’essere interiore no, è solo una “somiglianza morta e insensibile”. • Anche Boileau dirà che il carattere illusorio di un’imitazione perfetta non è nell’ordine dell’arte = non deve essere una delle ricerche dell’arte = l’arte del ritratto non può dare l’equivalente della natura. • Riflessioni che fanno capire come Fèlibien fosse lontano dalle mode del tempo, tanto da preferire la caricatura, es. Annibale Carracci, rispetto a questi ritratti in cera. 20 sull’aspetto psicologico per il quale è + importante illustrare il temperamento che la somiglianza fisica, citando anche la divinazione del ritratto (quello per cui Félibien era completamente contro). • Elogia poi in Abérgé de la vies des peinres Holbein, Tiziano e Van Dyck. Critica invece Philippe de Champaigne che imita la natura così come la incontra ma non ha alcuna elevazione. Riguardo a Rembrandt invece considera geniale nella sua imitazione di natura originale, che permettono di apparire come figure vive, difatti de Piles ha anche acquistato fanciulla alla finestra di Rembrandt. De Piles è molto interessato al suo procedimento di lavoro e considera una maestria il fatto che da vicino i tocchi sono distinti ma da lontano si uniscono, confrontandolo anche con Tiziano. Riguardo a Tiziano dice che la scelta di fare ritratti per lui è stata anche una scelta economica, citando poi altri pittori che guadagnavano con questo metodo facile e regolare. • Cours de peinture par pricipes del 1708 riassume tutte le conoscenze dalle esperienze sulla pittura fatte nei vari centri artistici dell’Europa criticando anche alcune posizioni dell’Accademia Royale francese. Passa da consigli pratici a riflessioni teoriche. Rimane legato alla “buona scelta” del modello, al quale, se non è un modello “buono” il pittore deve compensare con un “momento buono”. C’è da cogliere l’espressione che unisca la fisicità e la moralità del modello. Ha comunque ++ fiducia nella discrezione del pittore per il giusto compromesso tra somiglianza e correzione dicendo però come per le donne i difetti devono essere sia corretti e omessi, mentre negli eroi il volto deve essere ++ reale in modo da essere ++ riconoscibili ai posteri = distinzione tra ritratto mondano di fascino sociale e ritratto memoriale di fascino storico. Cita consigli per il rapporto tra i colori nella composizione, alla posa, abbigliamento, alle fasi della creazione del ritratto, e cosa fare per far sì che un ritratto abbia successo = non mostrarlo a nessuno e non chiedere opinioni prima che sia del tutto finito. In generale + lontananza dalle dottrine italiane riguardo alla nobiltà del ritratto che dovrebbe essere solo per i nobili, infatti de Piles cita come ottimo esempio di ritrattistica il ritratto de La serva di Rembrandt. VIII. DIVERSIFICAZIONE INTERNAZIONALE 8.1 La Spagna È solo all'inizio del XVII secolo che è la Spagna, per influsso dell'Italia, si apre alla riflessione teorica nell'ambito delle arti plastiche. È fondamentale la decisione di Filippo II di invitare Zuccari, nel 1585, a dirigere i lavori di decorazione dell'Escorial. È un momento in cui i pittori spagnoli cominciano a sentire le necessità di formazione che oltrepassino le possibilità che poteva fornire loro l'insegnamento tradizionale delle botteghe. • È solo nel 1633 che vengono scritti i Diàlogos di Vincente Carducho, nato a Firenze nel 1576, ma arrivato ancora bambino a Madrid, con suo fratello Bartolomeo, che faceva parte dell'equipe di Zuccari. Lui ha svolto il ruolo di mediatore delle teorie di Lomazzo e Paleotti presso il pubblico spagnolo. Carducho affermò che un pittore sapiente non può essere un buon ritrattista, perché dovrebbe sottomettersi all’imitazione del suo modello, buono o cattivo che sia, senza più ragionare né sapere. Lui si indignò per la proliferazione del ritratto e per il venir meno delle convenienze indotte dalla volgarizzazione: “È il caso di oggi, in cui si dipingono le persone più ordinarie con un'attitudine degli abiti e delle insegne del tutto impropria … Ho visto così tanti ritratti di uomini e di donne del tutto comuni, di persone che esercitano un mestiere manuale”. È chiaramente un ricalco di Lomazzo. • Anche Sebastian Covarrubias Orozco nel suo Tesoro identifica il ritratto come la rappresentazione di un personaggio socialmente importante. È il solo caso in cui un dizionario adotta una definizione così restrittiva, che sembra direttamente spiegata dalla lettura dei testi di Holanda e soprattutto di Lomazzo e di Paleotti. Sarebbe quindi tra il 1610 e il 1630, tra Covarrubias e Carducho, che si potrebbe collocare l'estrema avanzata dell'influenza italiana sulla teoria spagnola che comincia a svilupparsi; ma il senso fortissimo della realtà e del rispetto che gli è dovuto in quanto creazione di Dio e manifestazione visibile della sua potenza, dei quali gli spagnoli sono così fortemente pervasi, doveva preservarli un attaccamento dogmatico alle lezioni italiane. • L’opera di Francisco Pacheco (suocero di Velasquez), il cui trattato El arte de la pintura è pubblicato postumo nel 1648, testimonia l’autonomia intellettuale rispetto ai modelli di pensiero venuti dall’Italia. Lui abborda il tema del ritratto in un capitolo che comincia con i problemi della rappresentazione degli animali e della natura morta; non colloca il ritratto a un livello inferiore all’interno di una gerarchia di generi (che peraltro non evoca), ma lo vede come espressione del rispetto che sente nei confronti di ogni aspetto della realtà, assimilata alla creazione di Dio. Lui considera la grandezza dell’arte del dipingere non legata al ritratto, ma a cose più difficili ed elevate, sacre e profane. Il ritratto da solo non porta alla gloria, ma non la impedisce. Il ritratto per avere successo deve essere: o simile all’originale, affinché il committente sia contento (imitazione fedele) o deve avere valore di credito agli occhi delle persone dell’arte, perché anche se il committente non è conosciuto, se è una buona pittura sarà degno di stima. 21 Pacheco si esprime in modo libero dalla tradizione italiana alla quale il suo contemporaneo Carducho rimane ancorato. In questa epoca sarebbe stato impensabile scrivere in Italia che il ritratto di uno di quegli oscuri personaggi che non hanno diritto all’immagine potrebbe essere un’opera d’arte: a partire da Lomazzo è un’ipotesi esclusa. Il problema consiste nel mantenere l’equilibrio tra l’arte e la somiglianza. Una simile posizione è unica nel suo secolo. Per sviluppare l’abilità il pittore deve esercitarsi nel disegno, alla maniera di Durer, Leonardo e Velasquez. È fondamentale il rispetto della somiglianza: non bisogna togliere alle donne “piccole cose che nuocciono alla loro bellezza” perché ci si allontana dal dato naturale. Pacheco è in opposizione con il pensiero dominante degli italiani, da Lomazzo a Bellori ad Agucchi. • Jusepe Martinez, pittore formatosi a Roma a partire dal 1625, ha un pensiero diverso rispetto a quello di Pacheco, che illustra nel trattato che dedica nel 1675 al suo protettore e allievo, Juan Josè d’Austria, viceré d’Aragona. Lui mette in guardia il pittore che vuole diventare ritrattista, perché sarà costretto a sentire molte sciocchezze e banalità. • Aciscolo Antonio Palomino y Velasco si dedica a un vasto trattato teorico e storico in cui è evidente la forza della tradizione. L’opera esce successivamente in due parti (1715 e 1724). È sintomatico che in queste date si abbandoni a considerazioni erudite, ispirate direttamente da Paleotti e Cortona-Ottonelli, sulla liceità del ritratto femminile e sullo stato di peccato nel quale può cadere il pittore che accetti una committenza dubbia come quando qualcuno “domanda il ritratto della sua amica per eccitazione, nella solitudine, del suo piacere sensuale”. Il pittore deve sondare la conoscenza dei terzi. Non commette peccato se realizza il ritratto sotto minaccia di morte o aggressione da parte del committente. Palomino riconosce che tutte queste storie sono oramai fuori stagione, dappertutto in Europa, tranne che in Spagna. Palomino è fedele alle restrizioni morali della controriforma, ma anche al fascino del reale, del quale Pacheco aveva fatto un principio. Nella sua biografia di Velasquez dà tre esempi della potenza illusoria dei suoi ritratti: 1. Il suo servitore a Roma, durante la sua esposizione nel Pantheon, per S. Giuseppe, parla di una testa che era così somigliante e così viva da apparire identica all’originale, tanto che non sapevano a chi rivolgersi 2. Aneddoto del Ritratto di Innocenzo X: finito e collocato in una stanza, il cameriere del papa, vedendo il ritratto poco illuminato, lo scambiò per il pontefice e chiese ai cortigiani che erano in camera di parlare piano per non disturbarlo 3. Filippo IV, di fronte al suo dipinto, dice a Velasquez “voi mi ingannate” • Questi brani sono stati omessi nella traduzione francese pubblicata a Parigi nel 1749: li si giudicava superati? Si tratta di valorizzare i poteri della pittura attraverso dei miracula, che sono convenzioni che ruotano attorno alla confusione tra modello e opera d’arte; gli attori e le vittime inoltre non sono figure disprezzabili. Palomino attribuisce questa capacità illusoria ai dipinti di Velasquez, definendoli “una materia attraverso la quale è passata la figura originale”. Per questi teorici l’eccellenza del ritratto si misura sul suo realismo illusorio; questo va letto anche in relazione alla poesia del Secolo d’Oro spagnolo. La Spagna conosce, come un secolo prima l’Italia, uno sviluppo parallelo della celebrazione storica e teorica del ritratto. Si potrebbe dare priorità alla parola dei poeti. Ad esempio, in una poesia dedicata a un pittore fiammingo che aveva fatto il suo ritratto, Luis de Gòngora ritorna sul tema dell’effige reale, ricorrendo all’immagine del “volto rubato”, che sulla tela è promesso a una vita più duratura di quella del suo modello. Il ritratto diviene mediatore di disillusione, di disagio profondo davanti a una realtà che è vanità. 8.2 I Paesi Bassi La riflessione sulle arti plastiche nei Paesi Bassi si sviluppa nel XVI secolo per influenza diretta dell’Italia. • È il caso dell’opera dell’umanista Liegi Dominique Lampson, che è stato il principale informatore di Vasari sugli artisti fiamminghi citati nelle Vite. Egli era un profondo ammiratore dell’arte italiana e avrebbe forse ambito ad essere cronista della pittura fiamminga. Si è accontentato di pubblicare nel 1572 una raccolta di ritratti incisi di “pittori celebri nei Paesi Bassi”, accompagnati da epigrammi, che costituiscono i primi commenti sul ritratto nelle “scuole del Nord” (=scuola olandese, tedesca e fiamminga). I suoi versi non sono particolarmente originali, ma confermano la priorità della celebrazione poetica del ritratto e l’infatuazione del pubblico letterario per questo genere di pittura, la cui somiglianza con il modello illude lo spettatore. • Il ruolo di Vasari nei Paesi Bassi doveva spettare a Karel Van Mander, un artista e scrittore di levatura superiore a Lampson. Prima di soggiornare in Italia e incontrare Vasari a Firenze, Van Mander aveva avuto come maestro Lucas de Heere, che aveva pubblicato nel 1565 una raccolta di poesie, alcune delle quali evocano dipinti come il celebre Agnello mistico oppure un ritratto di dama, con il luogo comune del ritratto così somigliante che gli manca solo la parola. • Verso la fine della sua carriera di pittore, Van Mander decise di dedicarsi alla salvaguardia della memoria di una scuola che cominciava a prendere coscienza del suo valore e della sua originalità e che si vantava del glorioso ricordo dei fratelli Van Eyck. Riferendosi espressamente a Vasari, pubblica nel 1604 Het Schilderboek, che rappresenta per il ritratto la tappa della celebrazione storica. Van Mander fornisce una brillante dimostrazione del potere della storia con la biografia di Holbein, per la quale ha ottenuto informazioni scrivendo a Basilea: è l’esaltazione una carriera la cui riuscita è legata al ritratto: cita una serie di ritratti, come quello di Erasmo e del suo amico Tommaso Moro. Re Enrico VII prende Holbein al suo servizio, così stupefatto dalla sua bravura da non capire se i ritratti fossero opere o persone vive. Il re aveva grande ammirazione per lui. Van Mander mostra come il ritratto può portare il pittore alla fama, ma può anche essere una tentazione della facilità e del denaro per i giovani artisti, che hanno poche occasioni per cimentarsi in composizioni e non possono eccellere nelle rappresentazioni di figure o di nudo perché a loro si domandano soprattutto ritratti; questi, 22 a causa della necessità di denaro, possono dedicarsi alla pittura senza però perseguire la perfezione. Van Mander annuncia la fioritura di artisti della pittura fiamminga e della pittura olandese della prima metà del XVII secolo. • Il Secolo d’Oro olandese trova la sua vera conclusione nel grosso manuale pubblicato ad Amsterdam nel 1707 da Gerard de Lairesse. Impregnato di cultura francese, Lairesse si ispira ampiamente agli insegnamenti • dell’Académie royale, di Félibien e di Roger de Piles, fatto che può spiegare l’interesse che suscita in Francia alla fine del XVIII secolo. Lui dedica un’importante trattazione al ritratto, ispirato dal desiderio di superare le considerazioni filosofiche della tradizione italiana a profitto di un pragmatismo caratterizzato dalla volontà di fornire al pittore di ritratti i consigli che potrebbero aiutarlo a fare dei bei dipinti. La finalità è pratica. • Dalla sua formazione accademica conserva una diffidenza verso il ritratto, che gli sembra in contraddizione con la libertà dell’artista, che diventa schiavo e si allontana dalla perfezione che l’arte offre per sottomettersi a tutti i difetti della natura. Questa subordinazione al capriccio del cliente porta però soldi e onori, ma il pittore interessato solo al denaro corre il rischio di diventare un giocattolo nelle mani di una clientela di gusto mediocre. • La sua dottrina si vale di un realismo sfumato, sensibilissimo, in quanto accosta l’insolubile problema dei “difetti”: bisogna sforzarsi per andare oltre una rappresentazione troppo letterale. Tra i difetti “necessari, che bisogna far vedere perché contribuiscono alla somiglianza”, menziona la fronte bassa, la magrezza o la pinguedine, il naso troppo lungo o troppo corto, le rughe… il pittore può invece omettere le cicatrici, i segni del vaiolo e i “difetti accidentali”. Si devono poi correggere i difetti “che provengono dall’abitudine”, come la contrazione di bocca e occhi. Certi difetti devono essere mostrati perché appartengono alla storia del modello (fa l’esempio di un bravo ufficiale che può avere perso un arto combattendo, in questo caso l’infermità è un trofeo). Lairesse insiste sulla necessità di creare condizioni favorevoli al modello durante le sedute di posa. Denuncia i ritrattisti che si interessano solo al volto del modello, al punto di copiare le mani di un altro. Difende il principio dell’unità assoluta del soggetto rappresentato. Dà poi molta importanza agli accessori, che diventano un vero commento figurativo al ritratto, e fornisce una lista di quelli che possono accompagnare una figura: non si tratta solo di ammobiliare lo spazio del dipinto, ma di porvi delle rappresentazioni emblematiche che esplicitino la missione del magistrato, del consigliere di stato o del ministro. Alla convenienza degli accessori codificati poi deve corrispondere quella dei colori degli abiti e dei drappeggi, accuratamente studiata in funzione del colorito dell’incarnato e dei capelli del modello. • In tutte le sue considerazioni Lairesse manifesta una grandissima attenzione al problema cruciale dell’unità, che forma un vero sistema nel quale deve essere integrata una moltitudine di componenti e di fattori, interni ed esterni alla stretta rappresentazione del volto, e che prende anche in considerazione la disposizione relativa del dipinto nel luogo nel quale sarà presentato. • Con Lairesse il ritratto è entrato definitivamente nella storia dell’arte. I capolavori della storia del ritratto sono i testimoni e i garanti della sua legittimità. Lomazzo lo aveva già detto, ma forse pi timidamente. 25 9.5 L’evasione impossibile: Diderot Le fluttuazioni di Diderot sul ritratto sono una delle prove più fulgide dei tormenti che ogni riflessione su questo genere di pittura causa agli spiriti, persino ai più liberi, che dialogano con l’opera d’arte in ambiti mentali tracciati dall’insegnamento accademico e dalla tradizione delle teorie italiane sull’imperfezione della natura. Diderot non ha scritto un tratto in materia (a meno che gli Essai sur la peinture, redatti tra 1766 e 1773, non siano da considerare tali). Diderot ha considerato seriamente l’arte del ritratto. Reputa difficile il ritratto perché sul volto di una persona si trova la vita, il carattere e la fisionomia. Egli accetta solo ritratti di stati permanenti (un ritratto può avere l’aria triste, cupa, serena…); un ritratto che ride è senza nobiltà, senza carattere, una stupidaggine (il riso è passeggero). L’istante passeggero, arbitrario, ingannevole, sarebbe dalla parte della morte, la permanenza da quella della vita: questa è una distinzione tra buono e cattivo ritratto. Per Diderot il ritratto deve essere somigliante “per me” e ben dipinto per i posteri; questo perché “io” sono un testimone del modello, ma l’avvenire si interessa esclusivamente al dipinto, non al ritratto del quale è scomparso il riferimento. Prende forma una distinzione abbozzata già in alcuni passi da Vasari e da Armenini, ripresa e sviluppata nel Salon del 1767 toforma della divertente distinzione tra una “professore dell’Accademia” e un “imbrattatele del ponte di Nostre Dame”: • Il professore dipinge con tutta la cultura (=conoscenza degli antichi e dei grandi maestri) e tale visione informa la sua visione della realtà. Fonde in un insieme ciò che vede e ciò che sa, fa un dipinto che è certo di durare perché piace e interessa in quanto dipinto e non quale rappresentazione di una persona che non conosce più e della quale l’immagine è divenuta indifferente. È condizionato dai principi che gli sono stati insegnati (le regole del buon gusto e della bella natura) e dalla formazione che ha ricevuto (le copie dagli antichi e dai grandi maestri). Non è schiavo del modello. Il ritratto sopravvive al suo modello, perché l’immagine si imprime nella memoria. • L’imbrattatele (“i facilitori di ritratti” come diceva Bellori) fa un buon ritratto, perfettamente somigliante Negli Essais sur la peinture egli vuole identificare la fioritura del ritratto con la società repubblicana, perché allora il ritratto è chiamato a dare una pienezza di significati nella sua funzione memoriale. La società monarchica lascerebbe spazio solo al ritratto del re, che sarebbe ingrandito, esagerato e corretto nei difetti. 9.6 Le vie del rinnovamento • Un’aspirazione al rinnovamento dottrinale è riscontrabile in una lettera anonima pubblicata nel 1759 sul “Mercure de France”: il redattore adotta un’attitudine in rottura con il ragionamento tradizionale sul ritratto elaborato dagli italiani del Rinascimento. Rinuncia a un dibattito sul ritratto perfettamente somigliante e il ritratto idealizzato, in nome di una certa idea di bello. Partendo dall’idea che la somiglianza cessa presto di essere verificabile se ne deduce che essa non deve essere il criterio di giudizio principale. Solo il dipinto conta e rimane e la sua sopravvivenza non è legata alla morte del modello. Si giunge alla completa dissociazione tra modello e opera d’arte e quindi alla valorizzazione del soggetto, ossia alla negazione delle tesi sostenute per un secolo, da Lomazzo a Baldinucci, e raccolte dall’Académie royale de peinture et de sculpture. • A Vienna si trova il testo che esprime nel modo più pieno questo bisogno di rinnovamento delle basi teoriche: è un discorso pronunciato il 23 settembre 1768 davanti all’Académie de dessin et de gravure da Joseph von Sonnenfels, una delle personalità più influenti della Vienna dei Lumi. È rappresentativo di un’onesta posizione illuminata. Il titolo è “Sul merito del pittore di ritratti”: consapevole delle critiche che una certa tradizione, della quale l’ultimo rappresentante è stato Shaftesbury, che condanna, egli rivolge all’arte del ritratto, identificato con una “copia servile”. Sonnenfels dice che se il modello chiedesse al pittore di “cogliere” la sua somiglianza, farebbe meglio ad accontentarsi di uno specchio. Un dipinto di questo genere finirà presto da un robivecchi o nella sala da pranzo di un albergo. Secondo Sonnenfels bisognerebbe commissionare il proprio ritratto solo a grandi artisti (cita Tiziano o Van Dyck), così che quando la “somiglianza” smetterà di interessare resterà un capolavoro artistico del quale ammireremo le qualità pittoriche. Sonnenfels sostiene poi che il merito del pittore di ritratti è maggiore di quello di pittore di storia, che occupa il territorio dell’immaginazione, mentre il pittore di ritratti deve trovare la stretta via tra il realismo e l’ideale, tra la verità e la bellezza. Il suo problema è quello dell’”imitazione sapiente”. L’immagine somigliante del modello deve essere impregnata di gusto e di dignità, deve conciliare la verità (propria dell’arte) e la bellezza (propria della conoscenza); questo ideale può essere raggiunto solo se il pittore sceglie di rappresentare il suo modello in un’attitudine di “riposo”. Sonnenfels è ossessionato dal problema della durata del dipinto: dato che il ritratto deve sopravvivere al suo modello, l’artista deve dare alla somiglianza un’attrattiva maggiore attraverso la magia dell’arte. Il luogo che permette al ritratto di sopravvivere al meglio è il museo, in cui potrà sempre essere ammirato e apprezzato dai conoscitori. Sono gli anni in cui il museo si avvia ad essere istituzionalizzato nelle principali capitali tedesche (Dresda, Monaco e Berlino). • I Discorsi di Sir Joshua Reynolds, pronunciati davanti alla Royal Academy tra il 1769 e il 1791 sono forse l’ultimo monumento del pensiero classico e delle sue espressioni più altere. Il punto centrale dei Discorsi è la difficoltà del ritratto nell’avvicinare un individuo a una “idea generale”, la difficoltà di trovare un compromesso tra l’esigenza dell’ideale e la pesantezza delle abitudini, quella di conciliare l’effetto generale e l’esattezza del dettaglio. Per Reynolds la storia conserva tutta la sua preminenza: è il “grande stile”. La gerarchia non stabilisce delle chiusure stagne, sono possibili contaminazioni. Al pittore di ritratti può succedere di migliorare il suo status prendendo in prestito elementi da livelli superiori: occorre allora che si avvicini a un’idea generale, che rinunci ai dettagli minuziosi, alle 26 particolarità, che “arricchisca” il ritratto con figure allegoriche, che abbandoni negli abiti la moda passeggera a favore di una permanente. La somiglianza assoluta non è ciò che piace di più nelle arti di imitazione, ma può anche essere fonte di disagio (come accade nella scultura in cera à il materiale rende la morbidezza della pelle e questo può dare un effetto crudo e spiacevole). Siamo toccati al contrario quando le finalità dell’arte sono toccate con mezzi in apparenza inadeguati, come la dolcezza della pelle resa attraverso la durezza della pietra. Il pittore deve capire che la magia non arriverà dall’iperrealismo, ma è riservata al pittore capace di gettare uno sguardo poetico sul suo modello e di far passare l’effetto di insieme prima del rispetto superstizioso per il dettaglio, per ritrovare l’idea generale. L’arte non trascrive la realtà con i mezzi e i materiali stessi di tale realtà, ma trova la sua finalità nell’opera d’arte. L’articolo “Il ritratto” mette in circolazione i valori già riscontrati nello stesso articolo dell’Encyclopédie: il rispetto dell’individuale, del naturale, del vero; vi è diffidenza nei confronti degli accessori, degli attributi, delle pose contrarie al carattere del modello. La filiazione dell’articolo è chiarissima: o Alberti, per la finalità memoriale del ritratto o Félibien e Roger de Piles, per la preminenza esemplare accordata a Tiziano e Van Dyck o Félibien, per il rifiuto dell’iperrealismo dei calchi o Roger de Piles, per il problema della posa naturale o Reynolds per il rifiuto dei dettagli inutili • Il problema della distribuzione tra la pittura storica e la pittura di ritratti inquieta Levesque: egli comincia rimpiangendo la separazione che si è allargata tra il genere storico e quello del ritratto. Osserva che questa distinzione non esisteva al momento del “rinascimento delle arti presso i moderni”: il ritratto non era una classe particolare dell’arte e i più illustri ritrattisti erano quelli che si distinguevano particolarmente anche nella parte di storia, perché vedevano la natura in un modo così grande tanto nel ritratto quanto nella storia. Ora, secondo Levesque, il ritratto si è distaccato dalla storia quando i pittori di storia si sono allontanati dalla natura, hanno ceduto alle convenzioni e alla maniera e si sono ritrovati incapaci di rendere il carattere individuale di un qualunque modello. Allora sono apparsi specialisti che, allontanandosi dalla pittura di storia, si sono accontentati di fare una testa trivialmente somigliante e poi teste che non vivevano. Hanno cercato il merito in una sorta di perfezione nella natura morta o nella moltiplicazione dei dettagli, che porta al genere vizioso e bastardo del ritratto storico. Il ritratto non è la faccia stessa, come accadrebbe nel caso di un calco, ma è la sua idea, più viva e più toccante del calco. Per Levesque tutto è magico nell’arte, tutto è ideale à l’arte fa entrare la menzogna nelle sue espressioni più precise della verità. Per offrire la rappresentazione di un oggetto impiega ancor più prestigio dell’imitazione fedele. Il ritratto è una menzogna e sarà trattato bene dal pittore storico, che si è esercitato nelle menzogne dell’arte. La potenza illusoria del ritratto, celebrata dai testi del Rinascimento, è emancipata dal dominio dell’imitazione e riconosciuta per ciò che è: una menzogna, una realtà in sé. Non si tratta più di copiare la natura, né di aiutarla, di correggerla o di completarla, ma di creare un’altra natura che non produce illusione perché il ritratto è diventato un’opera d’arte, una testimonianza del potere magico che l’uomo esercita nella pittura. • Nel Dizionario del 1797 Francesco Milizia pubblica un articolo sul ritratto. Vi si ritrova la priorità accordata alla resa del carattere e dell’espressione, con una precisazione: il vantaggio deve essere dato all’espressione delle “passioni dolci che avvicinano alla calma” e non a quelle “passioni violente che alterano sensibilmente la fisionomia”. Milizia chiede al pittore di trovare un equilibrio tra la rappresentazione precisa e la “parte d’ideale”, basando il suo sforzo sulle parti principali a scapito di quelle subalterne. Contrappone i ritrattisti di mestiere, che per vivere “copiano freddamente le teste vive per farne di morte” ai pittori di storia, come Raffaello e Tiziano, che fanno i ritratti più belli perché hanno capito che tutto è ideale, tutto è magico nell’arte. La menzogna entra persino nelle espressioni più precise della verità. L’arte affascina lo sguardo degli spettatori e ricorre al prestigio dell’imitazione. Se il ritratto ha conquistato la sua autonomia d’opera d’arte, magica per definizione, nello stesso tempo è entrato al museo, che gli conferisce una nuova dignità, distinguendola da quella legata da Alberti in poi alla sua funzione memoriale. La Rivoluzione mostra l’ambiguità e la fragilità di tale separazione: la qualità stessa di oggetto memoriale applicata a certi ritratti implica la possibilità di un periodo di rottura politica, sociale o religiosa, di distruggere delle effigi identificate con un regime, con un sistema o con un’istituzione che sono oggetto di un rifiuto radicale e violento. La Rivoluzione offre una dimostrazione tipica di un iconoclasma fondato sull’idea che alcune immagini, e in primo luogo i ritratti dei reali, assimilati ai loro modelli, costituiscano un’offesa allo sguardo del cittadino e una presenza minacciosa per un regime che deve consolidarsi in mezzo a una lotta drammatica contro i nemici interni ed esterni. La distruzione delle statue reali è il segno del momento in cui si riuniscono il ritratto memoriale e il ritratto illusione. • La Société populaire di Fountainebleau, nell’ottobre 1793, dedica un ritratto memoriale al nuovo eroe, Marat, e lo consacra con un “sacrificio espiatorio”: la distruzione con il fuoco dei ritratti reali. Vi è una specie di cambio di memoria; la sorte del ritratto memoriale si gioca tra il rogo do Fountainebleau e la Grande Galerie, divenuta museo nazionale il 10 agosto 1793, tra lo sguardo pieno di paura e odio e quello di ammirazione. La coscienza del museo che conferisce un senso nuovo e protettivo spunta attraverso il fumo in cui si consuma l’immagine memoriale del re. • Napoleone avrebbe detto a David, che gli aveva chiesto di posare, che un ritratto veritiero, con tutti i difetti di una persona non è ciò che conta: da un ritratto deve emergere il genio della persona ritratta.
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