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Economia del vino e dei territori L-Gastr mercatorum, Prove d'esame di Scienze Agrarie

Economia del vino e dei territori L-Gastr mercatorum

Tipologia: Prove d'esame

2022/2023

In vendita dal 01/06/2023

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Scarica Economia del vino e dei territori L-Gastr mercatorum e più Prove d'esame in PDF di Scienze Agrarie solo su Docsity! 1 INDICE ECOnOMIa DeL vInO e DeI TerrITOrI Indice 1 0. Alcuni concetti chiave 5 Introduzione 5 Spazi e relazioni 5 Luoghi 6 Territorio e regione, comunità 7 1. I MUTaMenTI In aTTO e IL rUOLO DeLLe POLITICHe PUBBLICHe 9 I mutamenti in atto: un’introduzione 9 I processi di transizione sociale ed economica 9 Un mondo città 11 Le questioni ambientali 15 Quale Mediterraneo? 16 L’alterità mediterranea 16 Il ruolo del limite (ovvero del confine) 17 Il primato urbano mediterraneo 19 Quali prospettive? 20 Politiche europee e territorio: la Politica Agricola Comune 21 Gli anni ’50 e l’avvio della PAC 21 Gli anni ’70 e ’80: alla ricerca di un nuovo paradigma 22 Il nuovo corso degli anni ’90 e la Riforma Mac Sharry 24 Da agenda 2000 a oggi 25 Politiche europee e territorio: lo sviluppo rurale 26 Lo sviluppo rurale 26 Quali territori? 28 La politica europea per lo sviluppo rurale 28 Politiche europee e territorio: linee evolutive dello sviluppo regionale dall’avvio agli anni ‘90 30 Politiche europee di coesione: le linee evolutive 30 1.5.2 La prima fase (1957-1989) 31 1.5.3 Gli anni ’90 32 Politiche europee e territorio: le politiche di coesione dagli anni 2000 a oggi 33 1.6.1 Il quadro 2000-2006 33 1.6.2 La stagione 2007-2013 34 1.6.3 Europa 2020 35 Politiche europee e territorio: l’approccio place-based 37 Perchè è un tema centrale? 37 Quali modelli di politiche economiche per i territori? 37 L’approccio place-based 38 Ambiente e diversità tra politiche europee e nazionali 39 L’evoluzione della tutela ambientale in Europa 39 Principi e strumenti chiave 40 Ambiente e natura in Italia 41 Il paesaggio tra tutela e pianificazione 41 Il paesaggio nella convenzione europea 41 Il paesaggio in Italia: il quadro normativo di riferimento 42 Paesaggi e territori: il caso della regione Puglia 46 Le politiche alimentari urbane: ragioni e prospettive 47 Il cibo e le trasformazioni in atto nella scena globale 47 Le politiche alimentari urbane nel mondo 50 Quali prospettive in Italia? 51 Una politica territoriale per l’Italia: il progetto 80 51 Le politiche territoriali del dopoguerra 51 Il progetto 80 come idea di paese 52 I caratteri del progetto 80 52 Le proiezioni territoriali del 1971 e gli esiti 53 Una politica territoriale: strategie nazionale per le aree interne 54 2 Cosa sono le aree interne? 54 5 Aree interne e sviluppo: un caso sull’Appennino Molisano 153 Case study: to share or not to share 155 Economia della condivisione: le questioni chiave 155 Nuove forme di mobilità: Scooterino 156 Scambiare cibo: Cookisto 156 Lavorare insieme: Talent Garden 156 Case study: arte, cultura e comunità 157 Arte e territori: le questioni chiave 157 Il caso di Arte Sella 157 Arte, Cultura e Turismo a Favara (AG) 159 Case study: quale idea di incoming? 159 Turismo Etico: Addiopizzo Travel 159 Luxury Travel: Delicato 160 Quale idea di turismo: il caso della Tenuta Vannulo 161 Case study: siamo quello che mangiamo. Cibo e Made in Italy 161 Il territorio e la coscienza dei luoghi 161 Innovazione e qualità: il grano Cappelli 162 Percorsi di innovazione sociale e cibo: Barikamà 163 Case study: chiudere il cerchio, il ruolo dell’economia circolare 164 L’Economia Circolare: quali prospettive 164 Spreco alimentare: il caso del last minute market 164 Innovazione e recupero: Mapei e Reconzero 165 Il ruolo della logistica: spedingo 166 Il sistema culturale italiano 166 La centralità della cultura 166 Un quadro d’insieme 166 Turismo e cultura 168 Case study: l’artigiano, cultura materiale e innovazione 168 Made in Italy, moda e innovazione 168 Scarti e nuove fibre tessili: Orange fiber 169 Artigianato, design e Made in Italy 169 Appunti 170 4. QUIZ DI RIPaSSO 171 6 0. ALCUNI CONCETTI CHIAVE Introduzione Scopo di questa lezione è tratteggiare i concetti cardine della riflessione geografica. Uno dei temi centrali cui ci riferiamo è quello di spazio, ovvero la comprensione del rapporto fra lo spazio e i fenomeni osservati. Ad esempio i fenomeni economici (geografia economica), i fenomeni culturali (geografia culturale) e quelli demografici (geografia della popolazione). Più in generale quello con cui ci confronteremo, nel quadro di un corso che ha un marcato carattere transdisciplinare, è il quadro della geografia umana e dell’economia territoriale e regionale, collocandoci tra le scienze sociali che si concentrano sullo studio dei processi che danno forma alle società umane, guarderemo alle componenti politiche, sociali, economiche, ambientali, e a una pluralità di brache di studio e di matrici teoriche di riferimento. La geografia umana studia il rapporto tra ambiente antropico e ambiente naturale e mira a comprendere le forme e gli esiti differenziati che tale rapporto ha in ciascuna regione. Spazi e relazioni La geografia economica studia il territorio e la localizzazione e distribuzione dei fenomeni e delle attività nello spazio geografico. L’analisi dello spazio ha avuto tradizionalmente un carattere sistematico che riguarda la localizzazione degli oggetti geografici in relazione a un sistema di coordinate (es. latitudine e longitudine) e la loro distanza reciproca. Nell’ottica della classificazione delle posizione degli oggetti terrestri nello spazio i principali strumenti conoscitivi sono rappresentati dalle carte geografiche. La concettualizzazione dello spazio come sistema di distanze, coordinate e localizzazioni è nota come spazio assoluto. Lo spazio assoluto è una concettualizzazione, non esiste. Per quanto intuitiva, infatti, tale concezione presenta una quantità di problematiche connesse. Per citare uno degli esempi più tradizionali si pensi alla rappresentazione su di un piano della superficie terrestre, essa implica un processo geometrico di adattamento noto come proiezione, il quale produce inevitabilmente distorsioni nella dimensione delle aree e delle distanze. Dal momento che esistono vari metodi di proiezione differenti, formalmente tutti corretti, è possibile produrre una quantità di mappe anche segnatamente diverse tra loro. Si osservino le differenze tra le figure 1 e 2. Esse rappresentano rispettivamente le proiezioni di Mercatore e quelle di Peters. La proiezione di Mercatore1 è cilindrica (la superficie terrestre viene proiettata su un cilindro immaginario che avvolge la terra) e centrografica, ovvero il punto di vista della proiezione è al centro della terra; essa provoca la dilatazione delle superfici verso i poli, a causa della quale Groenlandia e Antartide risultano enormemente ingigantite rispetto alla realtà, ancora, l’equatore è spostato molto in basso determinando un’alterazione del ruolo del Sud del Mondo rispetto al Nord che assume rilievo e dimensioni centrali. Arno Peters, intellettuale tedesco, in polemica con il planisfero eurocentrico di Mercatore, elaborò nel 1973 un nuovo planisfero, che distribuisce le inevitabili deformazioni equamente tra le superfici, 1 Il cartografo fiammingo Gerhard Kremmer, soprannominato Mercatore, visse nel XVI secolo. 7 rispettando le reali proporzioni ma assegna a tutti i paesi una forma allungata, in particolare al continente africano, non molto conforme alla realtà. Lo spazio è ancora meno assoluto se si introducono ulteriori elementi di complessità, ad esempio metodi alternativi per considerare la distanza. Pensiamo, ad esempio, a Cagliari e Tunisi, città più vicine, in termini di distanza geometrica (287 km), rispetto a Cagliari e Roma (411 km). Ma sono molto più “lontane” in termini di distanza “relativa” (ad esempio con riferimento a tempi e costi di percorrenza) e di distanza “relazionale”, ovvero culturale, linguistica, istituzionale, geopolitica. Di fronte ai processi in atto, anche connessi alla globalizzazione e ai progressi nei trasporti le distanze relative e relazionali sono cambiate sensibilmente e continuano a mutare anche in relazione alle strategie commerciali e territoriali degli attori dei trasporti (es. compagnie aeree che possono investire su una determinata tratta). Lo spazio è relativo, ovvero lo spazio geografico è fatto di relazioni. Lo spazio geografico dipende dai fenomeni osservati e dagli strumenti utilizzati per costruire una rappresentazione o un’analisi geografica. Luoghi Un luogo è inteso come una particolare porzione della superficie terrestre caratterizzata da specificità che la rendono diversa da altri luoghi. Quello di luogo è uno dei concetti tra i più intuitivi della geografia, strettamente connesso al concetto di spazio, un punto sulla superficie terrestre, ovvero una porzione di spazio caratterizzato da alcune specificità che lo rendono “unico”. Un luogo deve essere riconoscibile, esso può avere confini indefiniti o rappresentare una condizione mentale soggettiva connessa alla relazione tra lo spazio e l’individuo. Ciò che caratterizza un luogo è il legame che si instaura tra uno o più individui e quella determinata porzione di spazio. Ma perché ci interessa comprendere a fondo la differenza tra il concetto di spazio e quello di luogo? Secondo Tagliapietra (2005) “Lo spazio si pensa, i luoghi si abitano. Lo spazio si attraversa, nei luoghi si sosta. Lo spazio è l’astratto, il luogo il concreto. Tuttavia, il luogo non è solo uno spazio determinato, particolare, definito da coordinate precise. Il luogo è qualcosa che ha a che fare con la memoria, con le emozioni e con il desiderio. Come la città calviniana di Ersilia, i luoghi sono una trama intessuta di rapporti. I luoghi stanno alla storia vissuta, come lo spazio sta al tempo cronometrato. Perciò, mentre i luoghi si riconoscono – si odiano e si amano -, gli spazi semplicemente si misurano. Ne consegue che i luoghi siano, in prevalenza, figure della differenza e della qualità, gli spazi dell’uniformità e della quantità. Nel luogo domina il significato originario del raccogliere e del riunire, nello spazio quello dell’intervallo e, quindi, della separazione, del confine e del conflitto. Ma se anche, per legge, posso farti spazio o negartelo, è solo nel luogo che ti posso accogliere. E’ solo qui, dunque, che l’ospitalità può aver luogo” [1]. Secondo Yi-Fu Tuan (1977), uno dei massimi teorici della prospettiva umanistica, la geografia ha come scopo principale quello di studiare il sentimento e le idee spaziali dell’uomo nell’insieme dell’esperienza, attraverso sensazioni e percezioni nei confronti di spazi e luoghi. Egli evidenzia come il concetto di luogo sia uno dei punti chiave, con il termine place, infatti, Yi-Fu Tuan indica la propria posizione sociologica nella società e la localizzazione geografica spaziale. Spesso un oggetto geometricamente a noi vicino è 10 regionalizzazione. Le possibili regionalizzazioni e le regioni che si possono ottenere all’interno di una stessa area sono numerose o infinite. Rileviamo, ancora una volta che spazio e territorio non sono sinonimi. Lo spazio è in posizione antecedente rispetto al territorio. Quest’ultimo è prodotto a partire dallo spazio, ed è l’esito di un’azione condotta da un attore che realizza un programma a qualsiasi livello. Appropriandosi concretamente o astrattamente (anche in modo simbolico-rappresentativo) di uno spazio un attore lo territorializza. Per costruire un territorio gli attori proiettano nello spazio un lavoro (energia e informazione) adattando le condizioni date ai fabbisogni di una comunità o di una società. Gli attori sono i protagonisti dei fenomeni sociali e territoriali: si tratta di soggetti capaci di agire in modo interdipendente e di operare scelte, secondo quella che viene definità “agency”, ovvero capacità di azione. Il territorio è prodotto dagli attori che vivono e lavorano in quel luogo. Questo introduce anche il concetto di comunità, vocabolo polisemico che seguendo Montanari (2000) può avere riferirsi: - a un’area geografica; - alla presenza di un’organizzazione sociale; - a specifici elementi culturali e valoriali; - alla giurisdizione su un’area territoriale; - al sistema di comunicazione o trasporto che pone in connessione le persone e gli oggetti territorialmente localizzati. Nel corso ci riferiremo frequentemente a comunità – intesa nell’accezione anglosassone del termine – di organizzazione sociale stanziata in un territorio. Seguendo questa sintetica introduzione di concetti e strumenti alla base della geografia economica, emergono i caratteri della scienza regionale. Essa trova espressione a partire dai primi anni del secolo scorso, ma in poco tempo subisce una rapida evoluzione. Al variare del modo di osservare e classificare il territorio, mutano parallelamente i criteri per farlo. Partendo dai concetti di regione e territorio, si giunge ad entità sempre più articolate e complesse e, soprattutto, in costante movimento. L’attività economica si forma, cresce e, soprattutto, si sviluppa nello spazio, partendo dalla dotazione territoriale. Ogni scelta localizzativa deriva dalla modalità in cui le risorse, naturali, umane, finanziarie e, quindi, produttive sono distribuite sul territorio. 1. I MUTaMenTI In aTTO e IL rUOLO DeLLe POLITICHe PUBBLICHe I MUTAMENTI IN ATTO: UN’INTRODUZIONE I processi di transizione sociale ed economica Il ruolo delle instabilità geopolitiche, i rapporti tra la complessità delle interazioni tra codici culturali, le opportunità di accesso alle informazioni, le molteplici dimensioni dei localismi, la connessione globale dei sistemi produttivi e dei mercati e, dall’altro lato, i temi connessi alle condizioni di rischio legate ai fattori naturali come alle crescenti disuguaglianze e ai divari sociali e urbani, impongono una rinnovata riflessione sul quadro delle geografie e dei mutamenti in atto nel quadro globale. La resilienza, termine mutuato dalla fisica (Martin-Breen e Marty Anderies, 2011), generalmente definita come la capacità di un sistema di assorbire shock esterni, resistendo alle pressioni che tendono ad alterarne l’equilibrio (Folke et al. 1997, Georgescu Roegen, 2006) è alla base delle relazioni che legano comunità e territori e determina la capacità dei sistemi di affrontare e costruire scenari, in un quadro di riferimento condizionato da disturbi e da cambiamenti, conservando funzioni e identità del sistema stesso. Le città, e le aree metropolitane in misura particolare, costituiscono un ambito d’intervento strategico per riflettere, progettare e orientare l’agenda politica nazionale e quella delle aree metropolitane verso la resilienza. 11 FIGURA 1. COSTRUIRE SISTEMI SOCIOECOLOGICI RESILIENTI (FONTE: ADATTATO DA WB, 2012) FIGURA 2. LE TRASFORMAZIONI IN ATTO: CIVILTÀ, URBANIZZAZIONE, AGRICOLTURA, TECNOLOGIA E SVILUPPO INDUSTRIALE E TRASFORMAZIONI AMBIENTALI E NEI CAMBIAMENTI DI USO DEL SUOLO (FONTE: COSTANZA ET AL., 2007) 12 Un mondo città Qual rapporto lega le grandi dimensioni urbane – fisiche e sociali – ai sistemi agroambientali entro cui esse si collocano? Come sono andati evolvendo i rapporti tra la città e la campagna? Come tali relazioni modificano il ruolo delle attività agricole in prossimità o all’interno delle aree urbane e dei loro sistemi alimentari? Le determinanti dei mutamenti sono riconducibili a fattori molteplici di natura sociale, economica, ambientale, istituzionale, legati a un quadro sovranazionale e globale. Per quanto attiene alle relazioni con i sistemi agroalimentari, anche a scala locale, è sufficiente considerare l’instabilità dei mercati e dei prezzi delle materie prime, i suoi riflessi sulla formazione dei prezzi del cibo, le forme con le quali tali effetti si trasmettono sugli indici di sviluppo umano nei territori urbani e rurali; l’accesso alle risorse naturali (in primo luogo, acqua e terra), i livelli di urbanizzazione. Come evidenziano Morgan e Sonnino (2010), sono questi i fattori che concorrono a ridefinire una nuova equazione del cibo. In questo quadro, i territori rurali si confrontano con l’urgenza di reinterpretare funzioni, modelli e flussi, degli stessi ambiti pubblici e privati di produzione e distribuzione del valore, anche in relazione ai mutamenti in atto nelle aree urbane (Di Iacovo, 2011). Le grandi regioni urbane del Mediterraneo hanno storicamente costituito i nodi interni di un sistema di scambio che supera le dimensioni delle singole aree nazionali. Riprendendo Matvejevic (1996, 1998) potremmo dire che il Mediterraneo ha inventato le città. In questo quadro, le grandi città mediterranee sono state interpretate come elemento di discontinuità al continuum rurale, come interruzione alla coerenza e alla compattezza del paesaggio agrario e naturale e delle comunità che hanno abitato e trasformato i territori. Weber sosteneva come non si possa parlare di città senza riferirsi agli ambiti territoriali controllati dalla città stessa, oltre che di autorità cittadina esercitata in funzione di una forza di natura economica, ma anche sociale e politica (Petrillo, 2001). Il rapporto fra città e territori contermini, in particolare nel contesto mediterraneo, è segnato da rapporti di dominanza che si esplicano spesso nell’attitudine dell’urbano a estrarre rendite e accumulare capitali e a proiettarsi nel territorio circostante attraverso un’impronta economica, sociale ed ambientale che va oltre le sue dimensioni fisiche e funzionali. Se i processi di inurbamento hanno seguito le trasformazioni sociali ed economiche determinati prima dalla rivoluzione industriale, con il progressivo abbandono delle attività agricole e dei territori rurali, poi della terziarizzazione. Il passaggio al terziario avanzato ha posto le condizioni per il definitivo sviluppo dei sistemi urbani. In questo quadro, tuttavia, emergono i caratteri di una differenziazione tra i percorsi di crescita seguiti dagli ambiti urbani dell’Europa mediterranea rispetto ai contesti continentali. Come evidenziato da Salvati (2013) l’analisi delle città mediterranee coglie la dicotomia fra un modello di urbanizzazione più matura, proprio della sponda settentrionale, pur se non completamente bilanciata e morfologicamente ancora compatta, e un modello più arcaico, spontaneo e diffusamente disorganizzato legato alla sponda meridionale, la cui armatura non emerge se non nelle regioni più organizzate sul piano storico e insediativo. In queste aree, infatti, a partire dai primi del novecento, la crescita urbana si è concentrata nelle città grandi e medie secondo forme tendenzialmente più compatte. Secondo un processo dinamico che ha visto inizialmente l’incremento della popolazione sostenuto dal sovraffollamento delle aree centrali, dalla colonizzazione a fini residenziali delle aree di prima periferia in seguito e, infine, dai processi di densificazione delle aree di seconda periferia poste a breve distanza dal centro, in un processo tipicamente additivo, le aree urbane di Lisbona, Oporto, Barcellona, Siviglia, Marsiglia, Roma, Napoli, Atene, Salonicco, Istanbul, e in misura minore, di molte altre città che si affacciano sulla sponda settentrionale. Ecco che occuparsi dei processi di scambio di prodotti agricoli e alimentari, ovvero di evoluzione delle relazioni tra una domanda urbana e una offerta rurale o agricola, implica la verifica di tali categorie interpretative. Le città come oggetti territoriali sintetici (Governa e Memoli, 1965), coinvolgendo fattori naturali e culturali, individui e gruppi rappresentano la cosa umana per eccellenza. Il quadro della distribuzione della popolazione all’estensione fisica, sul loro ruolo in relazione all’uso delle risorse naturali, su quello dei processi migratori, sul ruolo dell’innovazione, sul governo di tali fenomeni. L’insieme di questi fattori è sinteticamente rappresentato nello schema in figura 3. Essa tenta di rappresentare la dimensione sfumata che sembra caratterizzare le relazioni urbano rurale: con il passaggio da una domanda - e una dominanza - urbana di cibo, di flussi di persone, di lavoro, e di capitali assicurati da una offerta rurale o agraria, in direzione di rapporti assai più indeterminati sia con riferimento alle direzioni di tali flussi che alle porzioni, urbane, periurbane o rurali, in cui essi hanno luogo. 15 trasporto su gomma o lungo le coste. Si tratta di insediamenti a carattere discontinuo, irregolare, che lasciano ampie enclaves agricole al proprio interno (EEA 2006) e che risultano caratterizzati, oltre che da una bassa densità residenziale, da una rigida separazione tra residenze, attività commerciali, luoghi di lavoro. FIGURA 6. DISTRIBUZIONE DELLE MEGACITTÀ NEL PIANETA (CON OLTRE 10 MILIONI DI ABITANTI). Il recente rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (EAA, 2010) evidenzia come i fenomeni di consumo di suolo risultano largamente diffusi in Europa, soprattutto nelle aree centrali, meridionali e nei paesi dell’Est a svantaggio delle aree agricole e seminaturali. Tali processi, nella maggior parte dei casi, sono caratterizzati dalla sostituzioni dai densi e compatti quartieri residenziali che hanno storicamente caratterizzato le città europee, si sono sostituiti quartieri a bassa densità, caratterizzati dalla prevalenza di abitazioni isolate e che, a fronte di un ridottissimo incremento della popolazione, talvolta addirittura di un decremento, le aree destinate a usi urbani risultano in costante crescita. FIGURA 7. PERDITA DI AREE AGRICOLE CAUSATA DALL’URBANIZZAZIONE IN EUROPA, VALORI ASSOLUTI (FONTE: EAA, 2010). Tali fenomeni come evidenzia la stessa Agenzia Europea dell’Ambiente non sono direttamente riconducibili o connessi alla dinamica demografica, che ha per secoli guidato lo sviluppo insediativo, ma sono stati alimentati da numerosi altri fattori tra cui, prioritariamente, la diffusione di massa, a partire dagli anni Sessanta, del trasporto individuale su gomma che ha determinato la diffusa sub-urbanizzazione delle città europee. 16 I trend attuali dimostrano che nel 2050 9.2 miliardi di persone vivranno in città, di conseguenza più del 60% della superficie terrestre sarà urbanizzata, la crescita delle aree urbane avverrà a discapito del capitale naturale, in modo particolare saranno le risorse idriche e l'agricoltura a pagare il prezzo più alto. In questo quadro le città rappresentano una delle principali sfide ambientali del nostro tempo, in misura particolare sono le aree metropolitane a costituire un ambito d’intervento strategico per orientare l’agenda politica verso modelli urbani resilienti. Questo impone una visione nuova dei modelli di sviluppo urbani, visione che può venire solo da una lettura multidisciplinare e integrata del territorio, capace di interpolare la sostenibilità ambientale con quella sociale ed economica. Si dovrà intervenire sullo stile di vita delle città, in modo da innescare processi che possano avere ricadute positive sull’ambiente nella sua dimensione tipicamente fisica e naturale, ma anche sulla qualità della vita degli abitanti e delle comunità urbane. Le questioni ambientali I cambiamenti climatici presentano effetti rilevantissimi nella scena globale: le temperature aumentano, i regimi delle precipitazioni si modificano, i ghiacciai e la neve si sciolgono e il livello medio globale del mare è in aumento. Si prevede che tali cambiamenti continueranno e che gli eventi climatici estremi all’origine di pericoli quali alluvioni e siccità diventeranno sempre più frequenti e intensi. L'impatto e i fattori di vulnerabilità per la natura, per l'economia e per la nostra salute variano a seconda delle regioni, dei territori e dei settori economici in Europa. È altamente probabile che la maggior parte del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo sia dovuto all'osservato aumento delle concentrazioni di gas a effetto serra a causa delle emissioni provenienti dalle attività umane. La temperatura globale è aumentata di circa 0,8 oC negli ultimi 150 anni e si prevede un ulteriore incremento. Un aumento superiore ai 2 °C rispetto alle temperature preindustriali accresce il rischio di cambiamenti pericolosi per i sistemi umani e naturali globali. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) ha stabilito l'obiettivo di limitare l'aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale al di sotto dei 2 °C. Come possiamo raggiungere tale obiettivo? Le emissioni globali di gas a effetto serra devono stabilizzarsi nel decennio attuale e ridursi del 50 %, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2050. Prendendo in considerazione gli sforzi necessari da parte dei paesi in via di sviluppo, l'UE sostiene l'obiettivo di ridurre le sue emissioni di gas a effetto serra dell'80-90 % entro il 2050 (rispetto a quelli del 1990). I maggiori aumenti della temperatura a livello europeo si registrano nell'Europa meridionale e nella regione artica; le maggiori diminuzioni delle precipitazioni si registrano nell'Europa meridionale con aumenti nel nord e nel nord-ovest. Gli aumenti previsti in termini di intensità e frequenza delle ondate di calore, delle inondazioni e dei cambiamenti della diffusione di alcune malattie infettive e pollini incidono negativamente sulla salute umana. I cambiamenti climatici costituiscono un'ulteriore pressione sugli ecosistemi, portando a spostamenti verso nord di molteplici specie vegetali e animali. Si registra un impatto negativo sull'agricoltura, sul settore forestale, sulla produzione energetica, sul turismo e sulle infrastrutture in generale. Tra le regioni europee particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici si ricordano: - l’Europa Meridionale e il bacino mediterraneo (a causa di aumenti delle ondate di calore e della siccità); - le aree montuose (a causa dell’aumento dello scioglimento della neve e del ghiaccio); - le zone costiere, i delta e le pianure alluvionali (a causa degli aumenti del livello del mare e delle crescenti piogge intense, delle alluvioni e delle tempeste); - l’estremo Nord Europa e l’Artico (a causa delle temperature in aumento e dei ghiacciai in scioglimento). I gas a effetto serra sono emessi sia attraverso processi naturali sia attraverso attività umane; il più importante gas a effetto serra naturale presente nell'atmosfera è il vapore acqueo. Le attività umane rilasciano una grande quantità di altri gas a effetto serra nell'atmosfera, aumentando le concentrazioni atmosferiche di tali gas, potenziando così l'effetto serra e surriscaldando il clima. Le principali fonti di gas a effetto serra generati dall'uomo sono: - la combustione di carburanti fossili (carbone, petrolio e gas) nella produzione di energia, nel trasporto e nell’industria e nell’uso domestico (CO2); - l’agricoltura e le modifiche della destinazione dei suoli come la deforestazione; - la messa a discarica dei rifiuti; - l’uso di alcuni gas di origine industriale. 17 QUALE MEDITERRANEO? L’alterità2 mediterranea I paesaggi mediterranei si costruiscono intorno alle corrispondenze che - all’interno dei caratteri naturali - legano insediamento, strutture fondiarie, modelli produttivi e colture agrarie trasmettendosi in dimensione scalare ad architetture rurali, tipologie d’impresa, rapporti interni alle filiere, strutture socioeconomiche e organizzazioni territoriali. Se è vero che il quadro dei processi in atto - sul piano produttivo, come su quello delle geografie sociali, della dimensione socioculturale, dei rapporti geopolitici ed economici, delle dinamiche ambientali concorre a trasformare i paesaggi mediterranei fratturandone le corrispondenze interne, allora vale la pena ragionare intorno ai caratteri di resistenza. Quando Ancel Keys studia le abitudini alimentari del Mediterraneo rurale nel secondo dopoguerra - a Napoli, come in Calabria e in Cilento, o a Creta - incontra una realtà che non conosce l’abbondanza (Keys e Keys, 1975): i paesaggi mediterranei sono costruiti sul limite, sulla scarsità, quindi sulla misura. In questo senso, le loro strutture poggiano sulla dimensione verticale. La seconda direttrice interpretativa riguarda i rapporti tra dieta mediterranea e paesaggi e guarda allo scambio tra la costa e la montagna ponendo al centro i flussi tra mare, strutture rurali interne e geografie umane e produttive che ne sono l’esito. Successivamente, si riflette sul fenomeno urbano mediterraneo e sui modi attraverso cui il cibo informa le città. Nell’ultima parte, il contributo esamina le dinamiche evolutive connesse alle tre categorie d’indagine identificate, alla ricerca di una sintesi per interrogare le future geografie alimentari mediterranee. In un denso saggio di alcuni anni fa Vázquez Montalbán (2002), chiamato a interrogarsi sul Mediterraneo tra realtà e metafora, dopo un’articolata riflessione sui rapporti tra Nord e Sud e sul carattere attuale del mare come barriera tra poveri e ricchi del mondo, scrive che il Mediterraneo è il luogo in cui donne e uomini mangiano olio, olive e melanzane, elementi e alimenti fondamentali di ogni cucina mediterranea, e parte integrante della possibilità di una visione reale e umanista di questo mare e del suo popolo3. La riflessione si costruisce, pertanto, a partire dal mare: cosa è il Mediterraneo? Il Mediterraneo è una nozione geografica, prima che ecologica e climatica. Di tutte le metafore inventate per raccontarlo – un collezionista appassionato, un’immensa spugna imbevuta di ogni conoscenza (Matvejević, 1991), il sesto continente (Balikçisi, 1971), una fossa circondata da gradini su cui sporgono le nazioni (Braudel, 1987) – la sintesi migliore si trova forse negli scritti di Braudel, che lo definisce come “non unità bensì incontro” (Braudel, 1987). Anche Purcell e Horden (2000), autori di alcuni tra i contributi più ricchi sul Mediterraneo, parlano di unità pluriverso. Non un mare, quindi, ma molti mari (Cassano e Zolo, 2007), che hanno fatto dell’incontro con la terra sempre prossimo il tratto ricorrente e peculiare. Non a caso l’eroe mediterraneo parte sempre per tornare, e per questo è scisso. Il Mediterraneo segna viaggi finiti, perché in esso, diversamente dalle culture oceaniche, alla partenza si sovrappone il rientro, dunque l'idea di ritorno e di equilibrio tra terra e mare (Cassano 1996). Il bacino del Mediterraneo è un insieme di civiltà plurali che nel corso della storia si sono succedute, intrecciate e contrapposte, assecondando l’attitudine alla convivenza, nella diversità. I popoli che lo abitano hanno scambiato tra loro attraverso i commerci, si sono costruiti nelle influenze culturali, in quelle linguistiche, nelle confessioni religiose. Poche aree al mondo hanno pari densità storica ed eterogeneità di interazioni sociali (Molho, 2002), ed é questo tratto a farne un luogo di osservazione ideale per comprendere le forme delle interazione e contrapposizioni tra i popoli - Paul Valery (1931) ha parlato del Mediterraneo come di un dispositivo per produrre civiltà. Esiste, dunque, un paesaggio mediterraneo? Quali sono i suoi confini? La regione mediterranea è delimitata a Nord dalle imponenti catene montuose dell’Europa Centrale, che la separano sotto il profilo climatico dal resto del continente, e a Sud dalla fascia desertica che si spinge dall’Atlantico all’Asia Centrale, verso cui si compenetra. 2 Alterità s. f. [dal lat. tardo alterĭtas -atis, der. di alter «altro»]. – Nel linguaggio filos., il carattere di ciò che è o si presenta come «altro», cioè come diverso, come non identico; anche in espressioni della sociologia: a. culturale, diversità di tradizioni rispetto a quelle dominanti o autoctone. 3 Vázquez Montalbán (2002), op. cit. pag. 39. 20 mediterranee, dell’olivo prima, della vite poi e ancora degli agrumi, alle strutture orizzontali mediterranee è legata la cerealicoltura e le grandi porzioni di pascolo. Tra i caratteri più rilevanti dei paesaggi costieri mediterranei vi è proprio la singolare coesistenza tra le linee longitudinali dei paesaggi umani articolati lungo i profili costieri e una topografia verticale di strutture sociali e insediative frammentate dalla presenza delle isole che ne punteggiano la costa (Purcell e Horden, 2000). L’aggettivo mediterraneus, – maritimus indica il mare ed è riferito allo spazio oceanico - nel latino volgare si riferisce allo spazio fisico, nucleo abitabile, limite di ciò che è posto tra due terre. Un mare che esiste in continuità con la terra. In alcune porzioni dei tre grandi sistemi peninsulari mediterranei, sulla costa dalmata, sulla riviera ligure, sulle coste della Provenza, la montagna chiude sulla costa avvolgendola, i versanti coltivati e terrazzati degradano verso il mare, secondo il modello paesistico della riviera mediterranea (Quaini, 1977, Desplanques, 1977). Il Mediterraneo è segnato sia dalla salita dell'olivo, oltre i seicento metri, che segna il rapporto con la fascia pedemontana – la montagna olivata ligure o del Peloponneso – sia dalla discesa verso la fascia litoranea delle piante di montagna come il castagno, proprio di molte pratiche agricole tradizionali, e che raggiunge molti promontori costieri. Il modello mediterraneo pre- capistalistico coincide con i flussi tra mare e porzioni interne basati sullo scambio di olio e vino con legname e prodotti dell’allevamento. É il caso della montagna appenninica la cui organizzazione territoriale poggia su insediamenti accentrati, modesta economia legata al bosco e al pascolo e reddito connesso ai processi migratori. Il rapporto che unisce le città costiere alla montagna, sul versante tirrenico e ionico, come su Gargano, Peloponneso o Epiro, sulla costa valenciana e in Murcia, la cui economia s’inseriva nel mercato e nell’economia urbana, poggia sulla relazione terra-lavoro. Se la crescita insediativa della costa mediterranea della seconda metà del Novecento determina la progressiva affermazione di forme urbane costiere lineari, dall’altra parte la montagna mediterranea è interessata da processi di naturalizzazione (Pazzagli, 2013) di cui i fenomeni di spopolamento, la congestione costiera e i riflessi sulle strutture sociali ed economiche sono l’esito. Il risultato è un’organizzazione territoriale che ha contribuito a degradare le risorse litoranee – naturali, come sociali ed economiche –, attraverso contraddizioni fra usi di suolo agricolo e insediativo, come quelle interne, in un quadro in cui l’abbandono delle attività agricole, la fragilità dei sistemi idrogeologici hanno costruito le basi per un progressivo quadro di marginalità. Il primato urbano mediterraneo Il Mediterraneo è un mare di città. Aymard (1987) scrive che il paesaggio mediterraneo è costruito intorno al primato urbano. “Contadino per necessità, ma contro la propria natura, l’uomo mediterraneo si fa cittadino”. L’orticoltura e l’arboricoltura tradizionalmente connesse alla dieta del mare interno hanno luogo intorno alle città. Ed è ancora Aymard (1987) a rilevare come non siano i caratteri morfologici e climatici a restituire l’unitarietà del bacino quanto la rete di città che conformano lo spazio mediterraneo, in cui non sono le città a nascere dalla campagna bensì è quest’ultima a nascere dall’urbano, che è appena sufficiente ad alimentare. Le huertas, i perimetri irrigati intorno alle città orientali e sud orientali della penisola iberica, legate all’agricoltura irrigua (Furiò, 2015), costituivano il primo e più immediato bacino di approvvigionamento alimentare della città. Un paesaggio agrario in cui si coltivavano ortaggi e frutta, in primo luogo, agrumi e gelsi, ma anche cereali e vigneti, tutti ugualmente irrigati attraverso forme e tecniche largamente ereditate dalla cultura araba. Le grandi e piccole huertas della Spagna mediterranea, in primo luogo quella di Valencia, raccontano a un tempo della costruzione sul limite e delle relazioni città campagna proprie del Mediterraneo: l’agricoltura nasce dal fenomeno urbano, leggendo Cattaneo (1957) l’agricoltura esce dalla città. In quale misura il cibo informa i rapporti urbani della città mediterranea? L’agorà greca e il foro romano rappresentavano il centro della vita pubblica ma è il suq, che introduce il ruolo sociale dello scambio e dei commerci. Se la piazza, che nei secoli andrà circondandosi di portici e arcate, come riparo dal sole e dalla pioggia, ospiterà i primari monumenti civili e religiosi e accoglierà occasionalmente il mercato, è la strada che disegna lo spazio mediterraneo e scandisce il tempo urbano. É il luogo della passeggiata, del paeseo, dei circoli, e del gioco, dei cafè e dell’ozio, in cui il lavoro e il piacere si mescolano nel commercio, nessuno ha interesse a concludere un affare. I grandi mercati alimentari – Santa Canterina o El Raval a Barcellona, la Vuccirìa o Ballarò di Palermo, Porta Palazzo a Torino, Barbakeios ad Atene - sono i nodi intorno a cui si disegnano flussi gravitazionali tra le città e il loro intorno rurale, come tra i quartieri e alle loro geografie urbane, sociali e produttive. 21 Le regioni urbane del Mediterraneo sono storicamente i nodi interni di un sistema di scambio che supera le dimensioni delle singole aree nazionali, riprendendo Matvejevic (1996, 1998) potremmo dire che è il Mediterraneo stesso ad aver inventato la città. Il rapporto fra città e territori contermini, in particolare nel contesto mediterraneo, è segnato da rapporti di dominanza che si esplicano spesso nell’attitudine dell’urbano a ricavare rendite, accumulare capitali e proiettarsi sul territorio circostante, estendendo dinamiche e logiche economiche, sociali e ambientali, oltre le sue dimensioni fisiche e funzionali. Medici (1951), riferendosi al quadro dei mutamenti che hanno investito il primario nel Novecento, diceva che Virgilio duemila anni fa ha delineato un’agricoltura pressoché identica a quella da noi conosciuta fino al secondo conflitto mondiale, periodo a partire dal quale l'autore individua l’avvio di una rivoluzione, compiutasi nello spazio di un solo cinquantennio5 (Bevilacqua, 1998). Il processo più rilevante ha riguardato la progressiva scomparsa della coltura promiscua, ma il Novecento per il primario mediterraneo è stato il secolo delle fratture: tra agricoltura contadina e specializzata 6, tra coltivazioni e allevamenti, tra vite e olivo, tra i seminativi e le colture arboree, tra montagna e pianura costiera (Pazzagli, 2013, Barbera et al., 2014). Quali prospettive? Se la seconda metà del Novecento segna l’avvio di una progressiva accelerazione delle trasformazioni del primario mediterraneo, è con gli ultimi due decenni che tali processi si articolano ulteriormente. La connessione globale dei sistemi produttivi e dei mercati, le condizioni di rischio legate ai fattori naturali, le crescenti disuguaglianze sociali, i processi di concentrazione economica che, insieme alla globalizzazione, determinano nuovi rapporti di forza all’interno delle filiere, i rapporti tra la complessità delle interazioni tra codici culturali e le forme dei localismi, ridisegnano la geografia della produzione e dei consumi, chiamandoci a una rinnovata riflessione sul significato del cibo come elemento di ricomposizione dei rapporti territoriali, di cui i paesaggi rappresentano la proiezione fisica. Il modello alimentare mediterraneo ha concorso a costruire strutture sociali economiche e territoriali nella misura in cui determina usi sostenibili delle risorse naturali – acqua, suolo e biodiversità in primo luogo, - costruendo le basi per la loro conservazione. Ma i fragili equilibri mediterranei concorrono alla riscrittura dei rapporti tra cibo e paesaggio: l’instabilità dei mercati e dei prezzi dei prodotti agricoli, gli effetti dei cambiamenti climatici e l’accesso alle risorse naturali in particolare a quelle idriche, la fame di terra e gli effetti dell’urbanizzazione, i processi di degradazione dei suoli, l’innalzamento del livello delle acque e i processi erosivi. Ricompaiono gli elementi di limite e il ruolo della scarsità attorno ai quali storicamente si sono costruiti la dimensione alimentare e i paesaggi mediterranei. Si affacciano, altresì, possibili strade di ricomposizione. La prima connessa alle relazioni tra sistemi urbani costieri e aree interne, lì dove alla progressiva de-territorializzazione del ruolo del primario come ordinatore degli equilibri locali è andato accompagnandosi negli ultimi anni un processo di ri- territorializzazione, nel quale all’agricoltura è assegnato un ruolo chiave per risignificare la ruralità, accompagnando la ricomposizione di strutture sociali e produttive (Barberis, 2009; Van der Ploeg, 2009). Dall’altra, il fenomeno urbano contemporaneo - che tende a negare l’idea tradizionale di città dove la campagna trova spazio fuori le “mura” assumendo forme e funzioni quasi antinomiche rispetto a quelle urbane - attraverso un processo disordinato, sta riscrivendo il suo rapporto con il paesaggio (Leontidou, 5 I processi di trasformazione si costruiscono intorno al ruolo di alcune determinanti, che in misura differente hanno investito le strutture agrarie mediterranee: la crescita economica determinata dallo sviluppo industriale, e dal conseguente trasferimento di lavoro dall’agricoltura al manifatturiero; l’esodo rurale, conseguenza diretta degli sviluppi economici, ha concorso all’abbandono delle aree marginali e il progressivo processo di trasformazione del tessuto agricolo, connessa sul piano tecnico produttivo alla frattura tra agricoltura contadina e agricoltura industrializzata; su quello sociale all’affermarsi della crisi della agricoltura familiare e il progressivo processo di invecchiamento degli agricoltori, a sua volta determinato dall’interruzione del ricambio generazionale causato dai processi di urbanizzazione. Sul piano tecnico produttivo l’industrializzazione e la riorganizzazione del tessuto produttivo agricolo e il ruolo delle politiche agrarie hanno concorso a determinare modifiche profonde degli ordinamenti colturali e dei modelli produttivi, agli assetti fondiari e ai rapporti fra proprietà, impresa e manodopera. In questo quadro, il progresso tecnico, legato in primo luogo alla meccanizzazione e all’irrigazione, ha contribuito a determinare modifiche profonde negli ordinamenti produttivi con la dismissione di quelli a maggiore intensità di manodopera - in primo luogo della zootecnia - contribuendo altresì a sancire il divario tra aree collinari e montane e territori di pianura, nettamente favoriti dalla meccanizzazione agricola e dall’irrigazione. 6 La specializzazione produttiva- che ha investito in misura rilevante gli ordinamenti mediterranei - la viticoltura, l’olivicoltura, l’ortofrutticoltura - ha visto il passaggio da sistemi policolturali verso quelli monoculturali, basati sulla semplificazione genetica, agronomica ed ecosistemica (Barbera et al., 2014). 22 1990; Indovina 1990; Pace, 2002; Salvati et al., 2012). Le molteplici forme che il primario assume nelle porzioni di territorio prossime all’urbano, dando luogo a funzioni spaziali e relazionali sul piano socio economico e ambientale, possono ricoprire un ruolo nella riscrittura dei rapporti mediterranei tra cibo e paesaggio tanto nella sponda Nord che in quella meridionale del Mediterraneo. Infine, all’interno della stessa condizione urbana si vanno riscrivendo i rapporti tra il cibo e le comunità (Morgan e Sonnino, 2010; Cinà e Dansero, 2015), dando luogo a pratiche e comportamenti che - anche attraverso una traduzione nelle politiche pubbliche e nella pianificazione - possono concorrere alla ricomposizione dei flussi e dei processi strutturali legati ai paesaggi mediterranei e alle loro geografie umane. POLITICHE EUROPEE E TERRITORIO: LA POLITICA AGRICOLA COMUNE Gli anni ’50 e l’avvio della PAC Le motivazioni che portarono i sei Paesi fondatori della Comunità Economica Europea alla creazione di un mercato agricolo comune furono molteplici. Va, innanzitutto, considerata l'arretratezza dell'agricoltura europea alla fine degli anni cinquanta7, la scarsa autosufficienza alimentare e una profonda incertezza degli approvvigionamenti, che limitavano fortemente i livelli di consumo e benessere delle popolazioni, accompagnate da una forte variabilità dei mercati agricoli mondiali. Vanno altresì considerate, da un lato, la necessità di uniformare il forte intervento pubblico di sostegno all’agricoltura attuato, seppure in modo diverso nei sei paesi membri; dall'altro, la necessità di equilibrare, attraverso la soppressione dei dazi doganali e la creazione di un mercato unico, i possibili vantaggi ottenuti in campo industriale da alcuni paesi. Gli obiettivi della Politica Agricola Comune, individuati dall'art. 39 del Trattato di Roma, sono i seguenti: 1. incrementare la produttività attraverso il progresso tecnico, lo sviluppo razionale della produzione, il migliore impiego dei fattori di produzione, con particolare riferimento alla manodopera; 2. migliorare il tenore di vita della popolazione agricola, in particolare migliorando il reddito individuale; 3. stabilizzare i mercati; 4. garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; 5. assicurare ai consumatori prezzi ragionevoli. Le finalità contenute nell’art. 39 sono da considerarsi un insieme di obiettivi generali presenti nelle politiche agricole dei paesi sviluppati. Nella sostanza, tuttavia, come rilevato da Fennel (1985), tali obiettivi presentavano alcune contraddizioni. E’ il caso dell’obiettivo della parità dei redditi agricoli con quelli degli altri settori, che trovava una formulazione generica lì dove mira ad “assicurare un equo tenore di vita alla popolazione agricola” attraverso l’incremento della produttività e l’uso razionale delle risorse, senza specificare, se tale incremento di produttività fosse da perseguirsi attraverso l’aumento della produzione o con la riduzione dei fattori impiegati, in particolare del lavoro. Nel trattato di Roma si ritrovavano delle indicazioni importanti per la definizione delle linee di sviluppo delle politiche agricole, mancava però un riferimento a strumenti e mezzi di intervento. Le linee d'azione e gli interventi concreti furono delineati nel 1958 alla Conferenza di Stresa e precisate nel 1960 nel documento della Commissione europea, noto come Primo Piano Mansholt. Le linee fondamentali per una politica agricola comune erano individuate in due punti chiave (Fanfani, 1998): 1. Il miglioramento delle strutture per la modernizzazione delle imprese agricole, in particolare, familiari. 2. La regolamentazione dei prezzi e dei mercati agricoli tenendo conto tanto dei differenti livelli di prezzo esistenti nei paesi membri, quanto delle disparità di reddito. Secondo tale documento le politiche di sviluppo dovevano basarsi sull'aumento della produzione attraverso cui incrementare produttività e redditi agricoli. Gli strumenti adottati si fondavano essenzialmente, su prezzi comuni garantiti e sull’istituzione delle organizzazioni comuni di mercato (OCM). La creazione delle organizzazioni comuni di mercato doveva consentire il progressivo riavvicinamento dei prezzi, l’eliminazione delle pratiche concorrenziali al commercio intracomunitario dei prodotti agricoli. Questo al fine di giungere ad un mercato unico dei prodotti con una tariffa doganale 7 In tale settore operava una quota rilevante della popolazione occupata, pari a oltre il 20% nei singoli contesti nazionali, mentre il contributo alla produzione totale era pari, mediamente, a poco più del 10% del Prodotto Nazionale Lordo dei sei Stati fondatori (Lizzi, 2000) 25 introdotti nel corso degli anni ’80, che miravano a porre un limite effettivo alle garanzie di prezzo delle produzioni agricole comunitarie. Le misure più rilevanti riguardarono l’introduzione delle misure di corresponsabilità per il latte e i cereali, l’adozione delle quote fisiche di produzione per il latte (1984) e la riduzione automatica dei prezzi se la produzione comunitaria avesse superato le quantità massime garantite, stabilite, per le principali commodities con i cosiddetti stabilizzatori (1988). Si trattava di meccanismi di riduzione automatica e progressiva del prezzo di intervento, nel momento in cui la produzione superava la quantità massima garantita fissata a livello comunitario. Questo meccanismo applicato in modo differente ai diversi prodotti agricoli, rappresentava il primo passo verso l'abolizione della garanzia illimitata di prezzo. Il primo documento ufficiale del progressivo riorientamento dell’approccio della PAC fu presentato dalla Commissione nel 1985, noto come Libro Verde (CE, 1985). Tale documento divenne la base di discussione per il cambiamento della politica agricola comune. Mentre nuove indicazioni in relazione alle politiche per lo sviluppo rurale ed al sostegno ai redditi agricoli erano contenute nel rapporto sul “Futuro del mondo rurale” del 1988 (CE, 1988). Nel complesso erano sempre più evidenti gli effetti distorsivi determinati dal modello di politica agraria del “vecchio paradigma”, effetti che negli anni contribuirono a determinarne la crisi e il parziale, faticoso superamento. Tali effetti, come noto, potevano essere identificati, in primo luogo, nell’iniqua redistribuzione del sostegno tra aziende e tra territori, e tra ordinamenti produttivi. Ed è in questa direzione che vanno ricercate alcune delle ragioni che concretamente determinarono il superamento di tale modello. L’aumento costante della produzione generato dal sostegno accoppiato contribuì a causare l’accumulo di eccedenze produttive, con i connessi costi di intervento e smaltimento. La spinta probabilmente più forte al riorientamento del modello di sostegno, fu determinata dall’insostenibilità finanziaria della PAC. La ricerca di sbocchi per le produzioni eccedentarie ed il ricorso massiccio ai sussidi alle esportazioni, oltre agli effetti sulla questione finanziaria, furono causa di numerosi conflitti commerciali nelle sedi multilaterali. In ultimo, il sostegno accoppiato nella misura in cui incentivava l’intensificazione produttiva poteva considerarsi responsabile di pesanti effetti ambientali. Il nuovo corso degli anni ’90 e la Riforma Mac Sharry Gli anni novanta hanno rappresentato per la PAC una lunga fase di transizione, che ha avuto come risultato una maggiore esposizione dell’agricoltura europea alla competizione sui mercati mondiali. In secondo luogo, un progressivo processo di riorientamento del sostegno da forme incondizionate verso strumenti selettivi, legati a comportamenti virtuosi dei produttori, diretti alla conservazione dell’ambiente e dello spazio rurale. La questione finanziaria, le spinte proveniente dall’avvio del negoziato dell’Uruguay round del GATT, furono probabilmente tra i fattori che più degli altri contribuirono a determinare il riorientamento delle politiche agricole degli anni ’90 (Cioffi, 2001). La prima formulazione di una nuova fase di riforma fu indicata al principio del 1991 nel documento “Evoluzione e futuro della PAC” (CE, 1991). Dopo il processo di negoziazione, la riforma fu adottata nel maggio 1992, nota come riforma Mac Sharry, la quale perseguiva esplicitamente tre obiettivi: il riequilibrio dei mercati, una maggiore equità nell’intervento della politica agricola comune e la compatibilità ambientale dell’attività agricola. Tali obiettivi si sostanziavano in primo luogo, nel riallineamento dei prezzi comunitari, e secondariamente, nella formulazione di un sostegno al reddito attuato attraverso pagamenti diretti agli agricoltori di tipo disaccoppiato. In concreto, si accettava il principio di sostenere i redditi aziendali con aiuti privi di effetti sulla produzione e sulla domanda e, dunque, non distorsivi dei flussi commerciali internazionali (De Benedictis, De Filippis, 1998, Henke, 2004). L’obiettivo dell’equità tentava di correggere le distorsioni legate alle politiche dei prezzi, le quali generavano una consistente redistribuzione di reddito dai consumatori e dai contribuenti in favore delle aziende e dei territori più produttivi. Rispetto alla questione ambientale l’obiettivo era di ridurre le esternalità negative prodotte dall’attività agricola. Allo stesso tempo, in questa fase, all’agricoltura veniva attribuito il ruolo di salvaguardia del paesaggio rurale e del presidio del territorio. Tale funzione offriva la giustificazione per trasferimenti di reddito a vantaggio dei produttori agricoli, finalizzati alla continuazione dell’attività anche qualora la convenienza economica fosse venuta meno. In questa direzione, la riforma Mac Sharry ha rappresentato un forte riorientamento delle politiche agricole, attraverso il disegno di un nuovo paradigma di intervento che ha segnato l’evoluzione della PAC nell’ultimo decennio. Nella sostanza, il disaccoppiamento introdotto segnava il passaggio dal sostegno via 26 prezzi agli aiuti diretti al reddito; traducendosi in un trasferimento dei costi dai consumatori al bilancio comunitario. Tale riorientamento era in parte determinato dal negoziato dell’Uruguay round del GATT il quale, avviatosi nel settembre del 1986, era rimasto in una lunga fase di stallo. Con due posizioni fortemente contrastanti: da una parte la posizione liberista (di “opzione zero”) sostenuta dagli Stati Uniti e dal gruppo di Cairns che puntava all’eliminazione di tutte le misure di politica agraria con effetti distorsivi sui flussi commerciali e dei sussidi all’esportazioni. Dall’altra parte la posizione conservatrice della Comunità Europea, dei paesi EFTA e del Giappone (Anania, De Filippis, 1996). In questa direzione, lo sblocco del negoziato avvenne anche grazie alla proposta di riforma della PAC, formulata dal commissario Mac Sharry. Nello specifico la proposta era circoscritta alla commodities più importanti proprio in virtù dell’obiettivo di compatibilità internazionale che essa perseguiva. In particolare, riguardava il comparto dei cerali, semi oleosi, carni bovine e ovine, tabacco. In questo senso, alcuni autori, rilevano che nella direzione dell’accordo in sede GATT, soprattutto con gli Stati Uniti, erano rimaste fuori dall’intervento le due OCM, rispetto alle quali l’interesse statunitense era scarso: il settore lattiero caseario e lo zucchero (Tarditi et al., 1994). La proposta Mac Sharry fu approvata nel maggio del 1992, successivamente, furono emanate le misure di accompagnamento. L’accordo definitivo dell’Uruguay Round fu raggiunto nel dicembre del 1993. Nel documento “Agricultural Strategy Paper” presentato nel 1995 al Consiglio Europeo di Madrid (CE, 1995), la Commissione pose all’evidenza del tavolo negoziale, l’urgenza di nuovi interventi al corpus della PAC. Essi erano determinati da tre importanti questioni. In primo luogo, l’allargamento ai Paesi dell’Europa Centro Orientale, quindi, gli obblighi assunti in sede GATT ed il nuovo round negoziale la cui apertura era prevista a partire dal 1999. Infine, la terza questione era rappresentata dalle questioni finanziarie e dalla riduzione delle risorse di bilancio assorbite dalla PAC. L’opzione strategica proposta dalla Commissione era quella di provvedere ad un ampliamento ad altri settori della riforma Mac Sharry attraverso la riduzione del sostegno via mercato, al riallineamento dei prezzi interni a quelli internazionali, ad una parziale compensazione con pagamenti diretti, disaccoppiati e degressivi, unitamente al rafforzamento delle misure per lo sviluppo rurale. Da agenda 2000 a oggi Nel luglio del 1997 la Commissione presentò il documento “Agenda 2000, per un’Unione più ampia e più forte” (CE, 1997) un documento che delineava la visione della Commissione sulle sfide e sulle prospettive per l'UE nel periodo 2000-2006, all’interno del quale erano state sviluppate alcune considerazioni sulla PAC. Agenda 2000 partiva dalla considerazione relativa al valore crescente che la società andava attribuendo all’ambiente naturale, ed al ruolo peculiare ricoperto dalle aree rurali per la conservazione di spazi con un elevato valore ambientale e ricreativo. Il documento affermava che il sostegno al settore agricolo doveva trovare una giustificazione, considerato il vincolo di bilancio sempre più stringente ed il fatto che la PAC assorbiva risorse pari ad oltre il 50% del bilancio comunitario. In questa direzione, peraltro, il passaggio dal sostegno via prezzi ai pagamenti diretti aveva conferito trasparenza alla PAC generando l’urgenza di una maggiore accettabilità economica e sociale. Nella prima parte di Agenda 2000 il terzo capitolo era dedicato all'agricoltura ed allo sviluppo rurale. In tale ambito venivano individuati gli obiettivi della riforma della PAC, accanto ad una valutazione del processo attivato con la riforma Mac Sharry. I nuovi obiettivi ai quali le norme attuative della PAC dovevano adeguarsi, erano i seguenti: 1. aumentare la competitività dell'agricoltura europea attraverso un riavvicinamento dei prezzi interni a quelli mondiali; 2. tutelare i consumatori attraverso una maggiore sicurezza e qualità dei prodotti; 3. assicurare un adeguato livello di vita alla popolazione agricola e rurale e una stabilità dei redditi agricoli; 4. creare fonti di occupazione alternative per gli agricoltori; 5. si affermava, infine, il principio della sostenibilità ambientale della produzione agricola e la necessità di procedere ad una semplificazione della PAC e della sua gestione. Le principali novità di Agenda 2000, rispetto agli obiettivi delineati all’art. 39 del Trattato di Roma del 1957 e a quelli contenuti nel documento Mac Sharry del 1991, riguardavano il miglioramento della competitività sui mercati e il loro contributo alla coesione economica dell’Unione. Ma soprattutto si sanciva la necessità di ricercare una ridefinizione degli obiettivi della PAC, attribuendo un ruolo forte 27 all’agricoltura nella produzione di alimenti sani e di qualità e nella conservazione dell’ambiente. Nel marzo 1998 la Commissione europea presentò al Consiglio le proposte operative di riforma in un pacchetto contenente le bozze dei nuovi regolamenti. Le proposte di regolamento relative ai settori produttivi riguardavano solo tre OCM: i seminativi, le carni bovine e i prodotti lattiero- caseari. Ad essi si aggiungevano i regolamenti per lo sviluppo rurale, le misure orizzontali ed il funzionamento del FEOGA. All’avvio del negoziato Regno Unito, Svezia, Danimarca e Italia avevano costituito un fronte unico favorevole alla riforma, la cosiddetta “banda dei quattro”, in netta opposizione, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda e solo per certi aspetti della riforma, la Germania, che mostravano un orientamento conservatore (Zaghi Panella, 1999). Nel marzo del 1999, il Consiglio dei Ministri agricoli concordò un pacchetto di riforma che rappresentava un concreto tentativo di riorientamento della politica agricola europea. Tuttavia, tale pacchetto di riforma fu poi “annacquato” durante il summit dei capi di governo di Berlino del luglio successivo. La Francia in modo particolare tentò fino all’ultima ora di bloccare il processo decisionale. L’accordo finale copriva il periodo di programmazione 2000/2006 e vedeva l’introduzione di tagli sostanziali ad alcune OCM, in particolare seminativi, carni bovine e per il settore lattiero caseario e l’introduzione di un regolamento, cosiddetto “orizzontale”, che stabiliva le condizioni cui era sottoposta l’erogazione degli aiuti al redito. Sul piano dell’impegno ambientale, Agenda 2000 vide l’introduzione della condizionalità. Per la prima volta si parlava di “condizionare” i pagamenti al rispetto di alcuni standard ambientali, di fatto la misura fu lasciata all’applicazione su base volontaria agli SM. Ma forse la novità più sostanziale del pacchetto di riforma fu rappresentata dall’introduzione di un riferimento normativo ad hoc sullo sviluppo rurale, il Reg. 1257/1999, che in qualche modo sanciva la costituzione del cosiddetto II Pilastro della PAC, per il quale fu, peraltro, previsto un finanziamento aggiuntivo proveniente dalle risorse drenate al I Pilastro attraverso il meccanismo noto come modulazione. Il Regno Unito e solo inizialmente la Francia hanno fatto un uso significativo di questa opzione. La successiva Riforma del 2003 cosiddetta Riforma Fischler, ha introdotto principi di condizionalità nell’attribuzione dei sussidi finanziari agli agricoltori sulla base del rispetto di normative ambientali e di difesa della biodiversità. Nel giugno 2013 dopo un lungo percorso negoziale è stata firmata l’ultima riforma della PAC 2014-2020. Gli obiettivi sono legati a un ulteriore rafforzamento dell’impegno ambientale e della sicurezza alimentare. In questa direzione, il 30% dei pagamenti diretti sarà condizionato a un uso più ecocompatibile delle risorse naturali, al sostegno assegnato solo ai “veri” agricoltori con lo scopo di distribuire sussidi solo a colori che sono legati alla produzione agricola, all’incentivazione dell’accesso ai giovani. POLITICHE EUROPEE E TERRITORIO: LO SVILUPPO RURALE Lo sviluppo rurale Lo sviluppo rurale è qualcosa di più e di diverso dal semplice sviluppo agricolo, in quanto ingloba uno spazio, quello rurale appunto, dove l’agricoltura è spesso, ma non sempre, al centro del sistema socio economico, ma sul quale insistono attività differenti, con funzioni e obiettivi diversificati, tutti da integrare e coordinare in un’ottica di sviluppo coerente e sostenibile. Una delle principali difficoltà che si incontrano nell’identificazione del rurale è legata alla variabilità spazio-temporale del concetto stesso di ruralità. Infatti, con la crescita della complessità del contesto macro- economico in cui si colloca, il territorio rurale, da spazio quasi esclusivamente agricolo, diviene luogo di interazione di un tessuto economico e sociale via via più diversificato. - Varie percezioni di cosa sia e non sia rurale e degli elementi che caratterizzano la ruralità (naturali, economici, culturali, ecc.). - Necessità di avere una definizione coerente con gli obiettivi di analisi e di policy. - Difficoltà di censire dati rilevanti rispetto alle unità geografiche di base (comuni, province e sub-aree). Non esiste un’unica definizione delle aree rurali condivisa a livello internazionale: - Unione Europea: Multifunzionalità - USA: Riscoperta dello sviluppo rurale - World Bank: attenzione alla povertà - OECD: Approccio olistico con attenzione sulla creazione di occupazione rurale - PVS: Attenzione all’agricoltura nell’ambito di una struttura multisettoriale. 30 All’inizio degli anni Ottanta l’avvio del processo di revisione della Pac è reso necessario anche dall’insostenibilità finanziaria e dall’indifendibilità politica di una policy basata sul sostegno accoppiato alla produzione e causa di pesanti effetti distorsivi (internazionali, ambientali, finanziari, distributivi). Prende l’avvio a livello comunitario il tentativo di disegnare una politica organica che perseguisse l’obiettivo esplicito di riduzione delle diseguaglianze territoriali. In quegli anni si prendeva atto dell’esistenza nell’Unione Europea di un forte livello di diseguaglianza nel livello di sviluppo economico interregionale interrogandosi sul potenziale impatto in termini di diseguaglianze nello sviluppo (Perrons, 1992) dell’accresciuto grado di integrazione economica. Si avviava così una riflessione sull’opportunità di un’azione congiunta dei Fondi che costituivano allora gli strumenti dell’intera politica comunitaria per le strutture che, anche in presenza delle difficoltà di bilancio di quegli anni (cfr. De Filippis, Storti, 2001), consentisse il conseguimento di un effetto moltiplicativo dei loro intervento. Nel 1985 tale soluzione viene sperimentata con i Programmi Integrati mediterranei, programmi pluriennali e intersettoriali destinati a consentire alle regioni mediterranee di Italia, Francia e Grecia, ossia alle agricolture strutturalmente più deboli in ambito comunitario, di fronteggiare le conseguenze dell’allargamento a Spagna e Portogallo. I Pim rappresentarono un punto di svolta verso la definizione di una nuova politica comunitaria per le aree rurali. Nel 1988 la successiva riforma dei Fondi strutturali sancì il passaggio dall’approccio settoriale a quello integrato tra fondi nella programmazione degli interventi. L’individuazione sulla base di criteri comuni a livello comunitario di obiettivi prioritari regionali, riguardanti specifiche zone - comprese quelle rurali in declino - o regioni geografiche, doveva consentire la concentrazione territoriale degli interventi e la definizione di strategie di sviluppo differenziate per tipologia di area. In questo quadro vengono individuate tra le aree rurali (definite come aree a bassa densità di popolazione e elevata occupazione agricola) quelle più marginali facendo riferimento ai bassi livelli di reddito, allo spopolamento, all’invecchiamento demografico e al livello di disoccupazione. Alla fine degli anni Novanta l’obiettivo della coesione e del riequilibrio territoriale inizia a perdere forza nell’ambito dello Sviluppo rurale e si avvia una progressiva revisione del progetto disegnato a fine anni Ottanta, che risponde anche allo scopo di conservare lo status quo nell’ambito dei servizi comunitari, mantenendo sotto la competenza della DG-Agri le nascenti politiche di sviluppo rurale. Oggi alla politica di sviluppo rurale viene destinato il 24% delle risorse complessive della Pac (Storti, 2016) pari a 95,5 mld euro. Le misure settoriali per l’agricoltura e le foreste sono ancora quelle che caratterizzano questa politica, anche se sono previste misure per la diversificazione economica miranti alla creazione di posti di lavoro al di fuori del settore agricolo, per l’animazione sociale e l’offerta di servizi destinati alle imprese. - L’ultima riforma comunitaria (2014-20) ha introdotto il rafforzamento dell’integrazione strategica tra fondi come opzione per superare la separatezza della loro azione. - La recente riforma dei Fondi di Sviluppo e di Investimento Europei (Sie) e le nuove prospettive finanziarie 2014-20 hanno introdotto una dotazione di 500 milioni di euro per le aree rurali interne in Italia, a carico del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr). Gli interventi strutturali per l'agricoltura e lo sviluppo rurale sono finanziati a seconda dell'ambito di programmazione da due distinte fonti: Feoga - Garanzia e Feoga- Orientamento. Il Feoga - Garanzia partecipa all'attuazione dei Piani di Sviluppo Rurale (Psr) e degli interventi eventualmente realizzati nell'ambito dei Docup Obiettivo 2; Feoga-Orientamento cofinanzia i Por e l'iniziativa Comunitaria Leader+. Leader è l’acronimo di “Liaison Entre Actions de Développement de l’Economie Rurale” (collegamento tra le azioni di sviluppo dell ́economia rurale) è un’iniziativa comunitaria avviata nel 1991. E’ un approccio di intervento teso a mobilizzare e sviluppare le comunità locali attraverso partenariati pubblici privati (Gal). La programmazione Leader è rivolta all’insieme degli attori locali, prende in considerazione il potenziale endogeno di sviluppo e punta ad uno sviluppo integrato e innovativo del territorio. Il Community-led local development (Clld) in continuità con l’iniziativa comunitaria Leader, supporta la creazione di partenariati locali e la realizzazione di programmi di sviluppo integrato nelle aree rurali dell’Unione che adottino soluzioni innovative calibrate sulle specificità locali. 31 POLITICHE EUROPEE E TERRITORIO: LINEE EVOLUTIVE DELLO SVILUPPO REGIONALE DALL’AVVIO AGLI ANNI ‘90 Politiche europee di coesione: le linee evolutive La politica regionale rappresenta uno strumento di solidarietà finanziaria e una potente forza di coesione e integrazione economica. La solidarietà intende portare vantaggi concreti ai cittadini e alle regioni meno favorite, mentre la coesione risponde al principio che la riduzione dei divari di reddito e di benessere esistenti tra le regioni europee giova a tutti. La distribuzione della ricchezza non è omogenea né fra Stati membri, né all’interno degli stessi. Le regioni più ricche in termini di PIL pro capite (misura standard del benessere) sono tutte aree urbane: Londra, Bruxelles e Amburgo. Il paese più ricco, ovvero il Lussemburgo, lo è sette volte di più della Romania e della Bulgaria, i due paesi più poveri che hanno da poco fatto il loro ingresso nell'UE. Gli impulsi dinamici derivanti dall’adesione all’UE, con il sostegno di una politica regionale vigorosa e mirata, possono effettivamente produrre risultati. Particolarmente incoraggiante è il caso dell’Irlanda: se nel 1973, anno dell’adesione del paese all’UE, il suo PIL era pari al 64% della media UE, oggi è uno dei più elevati dell’Unione. Una delle priorità della politica regionale consiste nel ravvicinare quanto prima alla media europea i tenori di vita dei paesi che sono entrati a far parte dell'UE dal 2004 in poi. La solidarietà tra i popoli dell'Unione europea, il progresso economico e sociale e il rafforzamento della coesione sono sanciti nel preambolo del trattato di Amsterdam (1997). L'articolo 158 stabilisce inoltre che: "La Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo di quelle più svantaggiate o insulari, comprese le zone rurali". Per attuare questa politica, gli Stati membri si avvalgono dei Fondi strutturali e del Fondo di coesione. L'Unione europea non si limita tuttavia ad una semplice partecipazione finanziaria, ma inquadra gli interventi locali in una prospettiva comunitaria e attraverso la sua politica regionale completa, laddove è necessario, il mercato interno e l'unione economica e monetaria. QUALI SONO LE FASI DI SVILUPPO? 1. Pre–politica regionale (propriamente detta): 1957-1989 2.Primo periodo di programmazione: 1989-1993 3.Secondo periodo di programmazione: 1994-1999 4.Terzo periodo di programmazione: 2000-2006 5.Quarto periodo di programmazione: 2007-2013 6.Quinto periodo di programmazione: 2014-2020 ‣ 1957: Gli Stati firmatari del trattato di Roma fanno riferimento, nel suo preambolo, all'esigenza "di rafforzare l'unità delle loro economie e di garantirne lo sviluppo armonioso riducendo il divario fra le diverse regioni e il ritardo di quelle più svantaggiate”.1958 Vengono istituiti due Fondi settoriali: il Fondo sociale europeo (FSE) e il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG). ‣ 1975: Nasce il Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), con lo scopo di ridistribuire alle regioni povere una parte dei contributi degli Stati membri. ‣ 1986: L'Atto Unico europeo getta le basi di un'effettiva politica di coesione destinata a controbilanciare i vincoli del mercato unico nei paesi del sud dell'Europa e nelle altre regioni meno prospere. ‣ 1989 - 1993: Il Consiglio europeo di Bruxelles (febbraio 1988) modifica il meccanismo dei Fondi di solidarietà, ormai denominati Fondi strutturali, dotandoli di un bilancio di 68 miliardi di ECU (in base ai prezzi del 1997). ‣ 1992: Nel trattato che istituisce l'UE, entrato in vigore nel 1993, la coesione è proclamata uno degli obiettivi fondamentali dell'UE, accanto all'unione economica e monetaria e al mercato unico, ed è prevista anche la creazione del Fondo di coesione a sostegno dei progetti per l'ambiente e i trasporti negli Stati membri più poveri . ‣ 1994 - 1999: Il Consiglio europeo di Edimburgo (dicembre 1993) decide di destinare alla politica di coesione circa 177 miliardi di ECU (ai prezzi del 1999), ossia un terzo del bilancio comunitario. I Fondi strutturali sono integrati da un nuovo strumento finanziario di orientamento della pesca (SFOP). ‣ 1997: Il trattato di Amsterdam conferma l'importanza della coesione e inserisce inoltre un paragrafo sull'occupazione che mette in primo piano l'esigenza di un'azione comune volta a incrementarla. ‣ 1999: Il Consiglio europeo di Berlino (marzo 1999) riforma i Fondi strutturali e modifica in parte il meccanismo di funzionamento del Fondo di coesione, dotandolo di oltre 30 miliardi di euro l'anno, per 32 un totale di 213 miliardi di euro nell'arco di sette anni. Lo Strumento per le politiche strutturali di pre- adesione (ISPA) e il Programma speciale di adesione per l'agricoltura e lo sviluppo rurale (SAPARD) completano il programma PHARE per lo sviluppo economico e sociale dei paesi candidati dell'Europa centrale e orientale. La prima fase (1957-1989) - Fase in cui lo sviluppo economico era equiparato sostanzialmente allo sviluppo della (grande) industria. - Modello di intervento caratterizzato da un elevato centralismo sia nella programmazione che nell’attuazione delle politiche; - Obiettivo principale la riduzione degli squilibri economici tra territori sviluppati e regioni “in ritardo di sviluppo”. In questa fase, nonostante le indicazioni contenute nel Trattato di Roma, le politiche di sviluppo regionale continuarono ad essere appannaggio esclusivo degli Stati membri  “Regional policy is clearly the concern of the public authorities in the member states” (EC, 1969) Es. Italia  Cassa per il Mezzogiorno. ‣ 1969: viene istituita nel quadro della CEE la DG politiche regionali, ma inizialmente le sue competenze sono piuttosto limitate ‣ 1973: Allargamento a Danimarca, Irlanda, Regno Unito  Crisi economica internazionale  La Commissione Europea pubblica un rapporto intitolato “The regional problems in the Enlarged Community” (COM (73) 550 final, 2 May 1973): si riconosce che non vi è sviluppo bilanciato ed armonioso della comunità. ‣ 1975: viene creato il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR – ERDF) con l’obiettivo è quello di correggere i principali squilibri nella comunità. Il FESR è inizialmente concepito soprattutto come meccanismo compensativo per quei paesi creditori del budget della CEE. I fondi vengono attribuiti e interamente gestiti dagli SM. Alla fine degli anni ’70 ci sono alcune esperienze pilota di programmi comunitari. Dibattito avviato sin dagli anni ’70 Necessità di un approccio europeo alla pianificazione regionale per non aggravare le differenze geografiche esistenti - (1981) Towards a European Regional Planning Concept - (1983) European Regional Planning Charter (Carta di Terremolinos)  Primo accordo internazionale di pianificazione spaziale in Europa - Anni ’80: Nuova ondata di regionalismo in tutta Europa (Keating, 1998; Perulli, 1998; Caciagli, 2003) ‣ 1981: allargamento alla Grecia ‣ 1986: allargamento a Spagna e Portogallo ‣ 1985: Programmi Integrati Mediterranei in Grecia, Italia e Francia L’Atto Unico Europeo (1986) introduce tre innovazioni fondamentali in termini di politica regionale: 1. Modifica le regole di funzionalità delle istituzioni europee, ampliando il potere della Comunitàmaggioranza qualificata invece che unanimità, istituzionalizzazione di una serie di politiche comunitarie, riconoscimento istituzionale procedure di cooperazione monetaria, rafforzamento del ruolo del parlamento, introduce la politica di sicurezza comune. 2. Introduce una progressiva apertura verso la creazione del mercato unico all’interno della Comunità Europea a partire dal 1 gennaio 1993, definito come “un’area senza frontiere interne in cui la libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali è assicurata conformemente alle previsioni del Trattato”. 3. Stabilisce una politica comunitaria di coesione economica sociale, ufficialmente per contro-bilanciare gli effetti del mercato unico sugli Stati Membri meno sviluppati e per ridurre le disparità di sviluppo tra regioni (art. 130). I. L’ingresso di paesi “deboli” pone all’attenzione il problema della convergenza/divergenza dell’economia europea; II. Esigenza di assicurarsi che le regioni svantaggiate dall’integrazione potessero avere un incentivo a perseverare in questo processo. 35 all'obiettivo 1. Le misure adottate nel quadro di questo obiettivo dovrebbero interessare circa il 20% della popolazione totale dell’Unione. Promuovere lo sviluppo delle regioni più arretrate, dotandole di quelle infrastrutture di base di cui sono ancora prive, e favorendo l'afflusso di investimenti per il decollo delle attività economiche. Il 70 per cento degli stanziamenti previsti è assorbito da una cinquantina di regioni, in cui vive il 22% della popolazione dell’UE. 2. Obiettivo 2: (territoriale) contribuisce a favorire la riconversione economica e sociale delle zone con difficoltà strutturali diverse da quelle ammissibili al nuovo obiettivo 1, che raggruppa i precedenti obiettivi 2 e 5b, ed altre zone con problemi di diversificazione economica; in generale esso riguarda le zone in fase di trasformazione economica, le zone rurali in declino, le zone in crisi che dipendono dalla pesca e i quartieri urbani in difficoltà. Questo obiettivo può interessare al massimo il 18% della popolazione dell'Unione. L'11,5% degli stanziamenti previsti è destinato a questi territori, in cui vive il 18% della popolazione dell’UE. 3. Obiettivo 3 (settoriale): Modernizzare i sistemi di formazione e incrementare l'occupazione. Questo riguarda l'intera Unione, ad eccezione delle regioni che rientrano nell'Obiettivo 1 dove le misure introdotte a tale scopo sono parte integrante dei programmi tendenti a ridurre i divari di sviluppo. Il 12,3% del bilancio dei Fondi strutturali è destinato al perseguimento di questo obiettivo. Quattro Fondi strutturali consentono oggi all'Unione europea di concedere aiuti finanziari a programmi pluriennali di sviluppo regionale negoziati fra le regioni, gli Stati membri e la Commissione nonché ad iniziative ed azioni comunitarie specifiche, specificamente: 1. il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), che finanzia le infrastrutture, gli investimenti produttivi intesi a creare posti lavoro, i progetti di sviluppo locale e gli aiuti alle PMI; 2. il Fondo sociale europeo (FSE), che favorisce l'adeguamento della popolazione attiva ai mutamenti del mercato dell'occupazione nonché l'inserimento professionale dei disoccupati e delle categorie sfavorite, soprattutto finanziando le azioni di formazione ed i sistemi di incentivi all’assunzione; 3. il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG - sezione "orientamento"), che finanzia le azioni di sviluppo rurale e di aiuto agli agricoltori, principalmente nelle regioni che presentano un ritardo nello sviluppo ma anche nel quadro della Politica agricola comune (PAC) nel resto dell'Unione; 4. lo Strumento finanziario di orientamento della pesca (SFOP), che finanzia la riforma strutturale del settore della pesca; 5. Inoltre, un fondo speciale di solidarietà, il Fondo di coesione, intende finanziare progetti ambientali e di miglioramento delle reti di trasporto negli Stati membri dell'Unione il cui PIL è inferiore al 90% della media europea, ovvero Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo. La stagione 2007-2013 A metà degli anni 2000, i problemi economici, l’allargamento, portano ad allontanare l’attenzione dal tema della pianificazione spaziale Il tema politico dominante degli anni 2000 è legato alla necessità di accelerare lo sviluppo economico dell’UE, per raggiungere livelli USA e paesi asiatici. L’Agenda di Lisbona, adottata nel 2000, e l’Agenda di Gotherborg, nel 2001, si concentrano su competitività, economia della conoscenza, crescita sostenibile, creazione di lavoro, coesione sociale. La politica di coesione dell’Unione europea, che figura nei trattati sin dal 1986, si è posta come obiettivo di ridurre i divari esistenti fra i livelli di sviluppo delle diverse regioni, al fine di rafforzare la coesione economica e sociale. L’adesione dei dieci nuovi paesi nel 2004 e l’entrata nell’Unione europea della Bulgaria e della Romania nel 2007 hanno reso necessario un maggiore sforzo di armonizzazione. I principali beneficiari dei fondi sono stati chiamati a contribuire allo sviluppo economico dei loro nuovi partner. Al contempo, l’intera Unione deve affrontare le sfide poste dall’accelerazione dei processi di ristrutturazione economica indotta dalla globalizzazione, nonché dall’apertura degli scambi, dagli effetti della rivoluzione tecnologica, dallo sviluppo dell’economia basata sulla conoscenza, dall’invecchiamento demografico e da un aumento dell’immigrazione. Gli Obiettivi della stagione di programmazione 2007-13 sono: 36 Nel periodo 2007-2013, il Fondo di coesione non opera più in modo indipendente ma rientra nell’ambito dell’obiettivo «Convergenza». I tre fondi sono soggetti alle stesse norme di programmazione e gestione. - I tre nuovi obiettivi integrano le missioni dei precedenti obiettivi nn. 1, 2 e 3 nonché quelle delle tre passate iniziative comunitarie: Interreg III, Equal e Urban. - Interreg III viene ripresa nell’ambito dell’obiettivo «Cooperazione territoriale europea». - I programmi Urban II ed Equal sono integrati negli obiettivi «Convergenza» e «Competitività regionale e occupazione». Il programma Leader + e il Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG) sono sostituiti dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), mentre lo Strumento finanziario di orientamento della pesca (SFOP) diventa il Fondo europeo per la pesca (FEP). Il FEASR e il FEP possono ormai contare su basi giuridiche proprie e non rientrano più nell’ambito della politica di coesione. Europa 2020 I 5 obiettivi di Europa 2020: 1. Occupazione: innalzamento al 75% del tasso di occupazione (per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni) 2. Ricerca & Sviluppo: aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo al 3% del PIL dell‘intera UE 3. Cambiamenti climatici e sostenibilità energetica:  riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990,  20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili  aumento del 20% dell'efficienza energetica 4. Istruzione: Riduzione dei tassi di abbandono scolastico precoce sotto il 10%, aumento al 40% dei 30-34enni con un'istruzione universitaria 5. Lotta alla povertà e all’emarginazione: almeno 20 milioni di persone a rischio o in situazione di povertà ed emarginazione in meno. I finanziamenti Fondi indiretti la cui gestione è demandata agli Stati membri attraverso le amministrazioni centrali e regionali. I fondi NON sono assegnati direttamente dalla Commissione europea (POR CreO) Fondi diretti gestiti direttamente dalla Commissione europea. La programmazione prevede alcuni principi validi per tutti i fondi: - Concentrazione sulle priorità Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva; 37 - Concentrazione delle risorse, soprattutto sui temi trasversali di innovazione ed occupazione: crescita economica, lavoro e cultura europea; - Coordinamento tra le varie politiche UE; - Semplificazione delle norme; Forte accento su collaborazione pubblico-privato; Parità di genere, non discriminazione e sviluppo Nei primi anni 2000 scarsa attenzione ai temi della pianificazione del territorio europeo. Nella seconda metà del 2000 nuova accelerazione connessa ai risultati del programma di ricerca ESPON (European Spatial Planning Observation Network). ‣ 2007: The territorial Agenda of the European Union: Towards a more competitive and sustainable Europe of diverse regions. ‣ 2011: Territorial Agenda 2020 •Estende e rinforza la versione precedente, sulla base di: 1. adozione dell’obiettivo della coesione territoriale 2. tentativo di collegamento tra agenda territoriale e Europa 2020 3. supporto ESPON per concretizzare coesione territoriale •Include tra i suoi obiettivi quello di “rendere la coesione territoriale dell’Unione Europea una realtà” ✓Obiettivo: offrire orientamenti strategici per lo sviluppo territoriale, rafforzando l’integrazione della dimensione territoriale nell’ambito di diverse politiche a tutti i livelli di governo e assicurare il perseguimento degli obiettivi della strategia Europa 2020 sulla base dei principi della coesione territoriale. - Cambiamenti strutturali conseguenti alla crisi economica - Integrazione europea e crescente interdipendenza tra regioni - Sfide sociali e demografiche territorialmente diverse, gruppi vulnerabili - Cambiamento climatico e rischio ambientale: impatti diversi - Sfide energetiche - Perdita di biodiversità, patrimonio naturale, culturale e paesaggio vulnerabili. PRIORITÀ PER UNO SVILUPPO EQUILIBRATO DEL TERRITORIO EUROPEO: 1. Promuovere uno sviluppo territoriale policentrico e bilanciato 2. Incoraggiare uno sviluppo integrato nelle città, nelle aree rurali e in specifiche regioni 3. Integrazione territoriale in regioni transfrontaliere transnazionali funzionali 4.Assicurare la competitività a scala globale delle regioni basata su forti economie locali 5. Migliorare la connettività territoriale per individui, comunità e imprese 6. Gestire e mettere in rete i valori ecologici, paesaggistici e culturali delle regioni La nuova Politica di coesione richiede alle regioni e agli Stati membri di incanalare gli investimenti comunitari verso quattro settori chiave per la crescita economica e l’occupazione: 1. Ricerca e innovazione 2. Tecnologie dell’informazione e della comunicazione 3. Potenziamento della competitività delle piccole e medie imprese (PMI) 4. Sostegno a favore della transizione verso un’economia a basso tenore di carbonio 5. Politica di coesione: 351,8 Miliardi di Euro (il 32,5% del totale del budget che è di 1.082 miliardi)  Fondi: FESR, FSE, FEASR, FEAMP, Fondo di Coesione  Serie comune di norme per tutti i FondiMigliore utilizzo della tecnologia digitale, Norme di ammissibilità più chiare, Richieste di report più mirate, Norme contabili semplificate. Il nuovo ciclo di programmazione prevede, come condizione ex ante per l’utilizzo delle risorse comunitarie, che le autorità nazionali e regionali mettano a punto strategie di ricerca e innovazione per la “specializzazione intelligente”, al fine di consentire un utilizzo più efficiente dei fondi strutturali e un incremento delle sinergie tra le politiche comunitarie, nazionali e regionali. 40 migrazione e giovani, con un obiettivo prevalentemente sociale (di inclusione sociale) e, infine, competenze e invecchiamento. 2. Promozione dell’integrazione fra territori e della mobilitazione degli attori locali: Promuovere lo sperimentalismo e la mobilitazione degli attori locali. Promuovere la ricerca di soluzioni che incentivino i soggetti locali a investire e rischiare ma scoraggino la cattura dell’azione pubblica da parte di questi stessi soggetti. 3. Contratti fondati su condizionalità ex-ante verificabili: Incoraggiare la diffusione e l’applicazione di metodi controfattuali per la valutazione dell’impatto degli interventi, per comprendere meglio “cosa funziona” e “cosa non funziona”: tale valutazione andrà avviata al momento del disegno degli interventi (uso “prospettico”), ottenendo così un forte effetto disciplinatorio nella definizione degli obiettivi e dei criteri di selezione dei beneficiari. 4. Motivazioni e incentivi per la qualità dell’azione esogena: l’azione esogena deve concentrarsi sui beni e servizi interessati: sanità, istruzione, edilizia abitativa, ordine e legalità, condizioni di lavoro, trasporti e così via. Deve mirare non solo a rendere quei servizi disponibili ma anche a garantirne l’accesso alla popolazione che può trarne vantaggio: acquisire conoscenze attraverso l’istruzione, servirsi del trasporto pubblico, etc. - Una buona governance è il criterio con cui valutare ogni modello concreto di politica di coesione place-based. - Governance multilivello, un sistema che prevede la distribuzione delle responsabilità di attuazione tra diversi livelli di amministrazione e istituzioni locali specifiche (associazioni private, organismi locali di controllo in partecipazione, cooperazione transfrontaliera, partenariati pubblico-privato etc.): i livelli più elevati di governo definiscono gli obiettivi generali e gli standard di prestazione oltre a fissare e fare rispettare le “regole del gioco”. Spetta invece ai livelli più bassi “la libertà di perseguire gli obiettivi in base a quanto essi ritengono opportuno”. Si possono evidenziare quattro aspetti importanti che insieme determinano la misura del successo della governance multilivello: - l’assegnazione dei compiti tra livelli di governo e il ruolo delle regioni giurisdizionali; - gli accordi tra livelli di governo; - i processi decisionali a livello locale; - il dibattito pubblico centrato sugli obiettivi, sull’apprendimento e sulla valutazione dell’impatto controfattuale. AMBIENTE E DIVERSITÀ TRA POLITICHE EUROPEE E NAZIONALI L’evoluzione della tutela ambientale in Europa La tutela ambientale rappresenta una delle grandi sfide per l'Europa e, a tale titolo, rientra tra gli obiettivi prioritari dell’Unione, che si è impegnata a lottare contro i problemi ambientali su scala planetaria e secondo una strategia complessiva. Originariamente, i Trattati istitutivi delle Comunità Europee (i cosiddetti Trattati di Roma, del ‘57) non prevedevano alcuna forma normativa per la tutela ambientale. In quella fase, infatti, le parti contraenti non ritennero necessaria una politica ambientale comune: il pericolo non era ancora tangibile e ben più urgenti vennero ritenute altre politiche, come quella agricola e quella industriale. Nel 1972, di fronte alle nuove emergenze ambientali, in occasione di una riunione di Capi di Stato fu riconosciuta l'urgenza di istituire delle regole comuni in materia ambientale: da allora sono entrate in vigore più di 200 disposizioni legislative comunitarie sull'argomento. Le prime fasi della politica ambientale sono, quindi, caratterizzati da un approccio di tipo verticale, consistente, nell'adozione di singoli interventi settoriali; essa, se da una parte, segna i primi successi nel controllo dei fenomeni di inquinamento e contribuisce ad avviare un dibattito ed un interesse, che saranno via via crescenti negli anni successivi, ha difatti offerto risposte solo parziali ai problemi esistenti. La graduale integrazione della questione ambientale nel complesso delle politiche sociali ed economiche dell'Unione diventa chiaramente l’unico sentiero da seguire per perseguire uno sviluppo durevole e sostenibile. 41 A partire da una sentenza del 7 febbraio 1985 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che aveva affermato il carattere prioritario della protezione dell'ambiente, i passi successivi portano verso una sempre maggiore integrazione: l’Atto Unico Europeo (1987) inserisce nel Trattato Comunitario un vero e proprio Titolo dedicato all’ambiente, conferendo così a tale politica una base giuridica formale e fissando allo stesso tempo tre obiettivi principali in materia: tutela dell’ambiente, protezione della salute umana, utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; con il Trattato sull’Unione Europea del ‘92 (Trattato di Maastricht), il concetto di sviluppo sostenibile viene inserito nella legislazione dell’Unione Europea, nel quadro dell'articolo 130 R, paragrafo 2, che stabilisce che "le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle altre politiche comunitarie" e le competenze europee in campo ambientale sono ulteriormente ampliate; fino a diventare, con il Trattato di Amsterdam del ’97, uno degli obiettivi prioritari dell’Unione Europea. L’obiettivo dell’integrazione è prioritario anche nel Quinto Programma d'Azione per l'Ambiente e, ancor di più, nel Sesto Programma d’Azione per l’Ambiente. ‣ 1994: Conferenza Europea sulle Città Sostenibili (Aalborg) con l’obiettivo di promuovere a livello europeo una adesione forte da parte degli stati membri alla sfida dello sviluppo sostenibile (Agenda 21). ‣ 1997: Trattato di Amsterdam del ’97 tutela ambientale come uno degli obiettivi prioritari UE ‣ 1999: La riforme di Agenda 2000 (ambiente e PAC) ‣ 2001: VI Piano d'Azione Ambientale dell'UE - "Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta" Principi e strumenti chiave ‣ 2001: VI Piano d'Azione Ambientale dell'UE - "Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” Quattro priorità 1. Cambiamento climatico: “... stabilizzare la concentrazione atmosferica di gas serra ad un livello che non causi variazioni innaturali del clima terrestre …”; 2. Natura e biodiversità: Proteggere e, ove necessario, risanare il funzionamento dei sistemi naturali e arrestare la perdita di biodiversità; 3. Ambiente e salute umana; 4. Uso sostenibile delle risorse naturali e gestione dei rifiuti. La politica della Comunità in materia d’ambiente è fondata sui principi della precauzione (la decisione di agire o non agire, che fa riferimento, quindi, ai fattori che attivano il ricorso al principio di precauzione e, una volta attivato, le misure di intervento che ne conseguono) ed azione preventiva, sul principio della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga” (“La responsabilità per danni all’ambiente è finalizzata ad obbligare chi causa danni all’ambiente a pagare per rimediare i danni causati. I principali strumenti di politica ambientale comunitaria Valutazione di Impatto Ambientale (Direttiva 85/337/EEC + Direttiva 97/11/EC): la valutazione degli impatti di determinati progetti pubblici e privati, o di certi piani e programmi (Direttiva sulla Valutazione Ambientale Strategica); Accordi ambientali: in cui le parti interessate si impegnano a ottenere una riduzione dei livelli di inquinamento o obiettivi di carattere ambientale: impegni unilaterali sottoscritti da industrie e imprese, spesso attraverso le associazioni di categoria. - Aiuti di stato in favore dell’ambiente (es. gestione rifiuti o risparmio energetico). - Direttiva Habitat (Direttiva 92/43/CEE del Consiglio): mira a contribuire alla conservazione della biodiversità definendo un quadro comune per la conservazione delle piante e degli animali selvatici e degli habitat di interesse comunitario. Essa stabilisce una rete ecologica "Natura 2000", costituita da "zone speciali di conservazione” e da “zone di protezione speciale”. - Direttiva Uccelli: DIR. 79/409/CEE del Consiglio, concernente la conservazione degli uccelli selvatici e dei loro habitat. - Sistema comunitario di ecogestione ed audit (EMAS): sull'adesione volontaria delle imprese del settore industriale per il miglioramento dei risultati ambientali; - Strumento finanziario per l'ambiente (LIFE), mira a contribuire allo sviluppo, all'attuazione e all'aggiornamento della politica e della legislazione ambientale. 42 Ambiente e natura in Italia L’avvio di politiche d’intervento ambientale in Italia si fa generalmente risalire alla fine degli anni ’70, quando la crisi ambientale e la nuova consapevolezza sociale hanno imposto la definizione di uno sforzo coordinato per la tutela. La salvaguardia ambientale si caratterizzava, infatti, come sotto funzione dell’urbanistica codificata da una norma del 1977, quale materia di competenza legislativa e amministrativa regionale concernente l’organizzazione e l’uso del territorio. Va ricordato, tuttavia, come nel caso della conservazione della natura in senso stretto il nostro paese avesse avviato già dagli anni ’20 una importante azione con l’istituzione di alcuni parchi nazionali. I primi parchi storici sorsero tra gli anni ’20 e ’30 sostanzialmente al fine di preservare alcune specie pregiate dal rischio di estinzione, in gran parte grazie all’impegno di scienziati, in primo luogo zoologi e botanici, e intellettuali impegnati alla protezione di singole specie o di habitat particolarmente delicati. A partire dagli anni '70, prende avvio in Europa l’approvazione di programmi ambientali, è il caso di interventi normativi in materia di tutela dell'aria e dell'acqua dall'inquinamento, smaltimento dei rifiuti, difesa della natura. Nel 1974 l’ENI multinazionale attiva nella produzione di petrolio e di energia, pubblica un rapporto sullo stato dell’ambiente in Italia in cui denuncia l’immobilità del quadro legislativo e istituzionale, il ruolo chiave giocato dal decentramento e lo stesso conflitto determinato dalla sostanziale confusione nel dibattito politico e accademico tra bellezze naturali e paesaggio. La politica dell'ambiente, come ambito autonomo, nasce in Italia nel 1986 con l’istituzione del Ministero dell'Ambiente . Come si è già avuto modo di discutere in questo contributo, la tutela dei beni culturali e di quelli ambientali sono state a lungo collocate dentro un rapporto organico con l’effetto di complicare le relazioni di competenze tra i diversi organi dello Stato e indebolendo di fatto le stesse politiche pubbliche in materia. Fino al 1991, in Italia non esisteva una sensibilità culturale, sociale e politica né una legislazione adeguata in materia di aree protette. Solo il 3% del territorio nazionale era protetto, tanto che il nostro paese rappresentava il fanalino di coda in materia di conservazione in ambito sia europeo sia internazionale. Con l’entrata in vigore della Legge Quadro sulle aree protette n. 394/91, la quale per molti aspetti rappresenta una pietra miliare in materia di politica di conservazione della natura in Italia, la situazione è notevolmente cambiata, dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo, nonostante le difficoltà legate all’applicazione di alcune parti della legge e ad alcune modifiche apportate in seguito in senso non migliorativo. L’Italia ha così in breve tempo recuperato il ritardo rispetto agli altri paesi europei (dai 5 parchi storici nazionali si è passati ai 150 attuali, di cui 23 nazionali), senza considerare il ruolo della protezione ambientale regionale, in forza già dagli anni ’70, con il 19% del territorio nazionale protetto, e fino al 25% se si considerano anche le aree della Rete “Natura 2000”. Alla complessa articolazione del sistema di conservazione della natura, tuttavia, corrisponde un quadro complesso sotto il profilo degli strumenti di governo delle stesse aree protette. Come bene da tutelare, l’ambiente è oggetto di una pluralità di funzioni amministrative – che comprendono la salvaguardia di aria, acqua, suolo; come la tutela di fauna e flora e più in generale degli ecosistemi, alla gestione dei rifiuti, alla valutazione dell’impatto di interventi di modifica – al risarcimento per i danni ambientali provocati. Ma se nella concezione culturale tanto europea quanto anglosassone la comprensione dei valori naturalistici all’interno del paesaggio è acquisita, non lo stesso vale in Italia, dove la nozione giuridica di ambiente all’interno del paesaggio come espressivo di identità culturale presenta confini più sfumati. Si consideri che le ultime, è più articolate disposizioni normative in tema ambientale che un unico corpus normativo raccoglie le norme in materia di difesa del suolo, gestione delle risorse idriche, le norme in materia di gestione dei rifiuti e bonifica dei siti inquinati, nonché le norme in materia di aria e riduzione delle emissioni in atmosfera, ma non contempla alcuni riferimento alla conservazione dei valori paesistici. IL PAESAGGIO TRA TUTELA E PIANIFICAZIONE Il paesaggio nella convenzione europea La Convenzione Europea sul Paesaggio è un documento firmato il 20 Ottobre 2000 a Firenze ed è parte del lavoro del Consiglio d'Europa sul patrimonio culturale e naturale, sulla pianificazione territoriale e sull'ambiente. Oltre a dare una definizione univoca e condivisa di paesaggio, la convenzione dispone i 45 degrado territoriale, avviati con la speculazione edilizia e il boom economico degli anni ’60 e intensificatisi nel corso degli anni ’80 anche grazie a diversi interventi di condono, contro i quali era venuta crescendo la denuncia del mondo dell’ambientalismo e di gruppi di intellettuali. La Legge Galasso individuava intere categorie di beni paesaggistici da tutelare in forza del loro particolare interesse ambientale. È da qui che la visione di «paesaggio» si sposta da una nozione esclusiva di «bellezze naturali», intese come dimensione esclusivamente estetica del territorio, al più esteso concetto di «beni ambientali», considerati beni culturali che interessano vaste porzioni di territorio nazionale. La norma classificava come bellezze naturali soggette a vincolo paesaggistico una serie di territori individuati in blocco e per categorie morfologiche senza la necessità di alcun ulteriore provvedimento formale da parte della pubblica amministrazione: la tutela del paesaggio non è più puntiforme ma si estende a tutto il territorio nella sua globalità. La legge n. 431 ha rappresentato un ampliamento decisivo, operando un’evoluzione del concetto stesso di tutela, da una concezione soggettiva a una maggiormente oggettiva dei beni paesaggistici, includendo anche aspetti naturali ed ecologici, e sancendo il passaggio da una concezione estetizzante verso un approccio strutturale. Nella sostanza, gli elementi di novità introdotti dalla Legge Galasso sono relativi ai due istituti connessi alla materia di paesaggio: il vincolo e il piano. In primo luogo, l’estensione dell’istituto del vincolo ex lege a tutta una serie di contesti territoriali (ad esempio le rive dei laghi, i fiumi, le zone umide). In tali ambiti, si stabilisce come non sia più necessario uno specifico provvedimento di vincolo, sancendo invece per legge la loro natura di beni paesistici. In virtù della legge Galasso il territorio nazionale tutelato triplicava, passando dal 18% al 47%. In questa fase, inoltre si sancisce la pianificazione paesistica obbligatoria per le Regioni, alle quali spettava il compito di definire specifiche normative d’uso e valorizzazione del proprio territorio. In questo senso, si dispone l’allargamento di quella dimensione spaziale vasta, che nella legge del 1939 si limitava all’azione di tutela di singole bellezze naturali. La Legge Galasso affermava quindi la relazione di complementarietà tra tutela dei valori paesistici del territorio e disciplina urbanistica di cui si parlerà a breve. Vale la pena ricordare che all’indomani della legge n. 431 solo quattro delle ventuno regioni italiane si dotarono di un piano paesistico. Altre regioni si sono adeguate in ritardo negli anni successivi. Inoltre, numerosi piani paesistici si limitarono esclusivamente ai beni vincolati, fornendo una lettura del territorio a macchia di leopardo. Questo orientamento ha comportato fra l'altro, negli anni, l’assenza di connessione adeguata tra elementi ambientali strettamente legati, ad esempio, fra un fiume e il relativo bacino idrografico o tra le aree a parco e le aree connesse. Prima di procedere a una disamina degli sviluppi normativi seguiti in Italia alla CEP, è opportuno prendere in considerazione, se pur sinteticamente, il quadro della normativa in tema di urbanistica e dei suoi effetti sul paesaggio italiano. I due ambiti, idealmente vicini, rappresentano terreno in cui più che altrove si legge la separazione, tutt’ora in vigore, tra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche: distinzione che segna l’evoluzione normativa di tutta l’Italia post unitaria. Il dibattito legato a tale separazione si era inaugurato al principio degli anni ’30 con la presentazione di un disegno di legge urbanistica che prevedeva fra i contenuti dei piani regionali alcuni vincoli per la tutela delle bellezze artistiche, tale proposta fu accantonata. La legge successiva, la n. 1150 del 1942, regola solo le espansioni e le trasformazioni urbane. Nonostante i ripetuti tentativi di modifica, operati negli anni sessanta, questa legge è tutt’ora in vigore e costituisce di fatto il riferimento normativo in materia urbanistica. La legge n. 1150 introdusse nella normativa italiana la pianificazione territoriale, attraverso i piani territoriali di coordinamento regionali e provinciali, i quali tra gli altri contenuti prevedono anche le scelte strategiche riguardanti le infrastrutture, le aree di interesse ambientale e le ipotesi di sviluppo urbano. E’ evidente che tra i piani territoriali di coordinamento, introdotti con la legge del 1942, e i piani paesistici configurati dalla legge del 1939 si determinavano elementi coincidenti. In Italia in materia di organizzazione del territorio e, quindi, di pianificazione del paesaggio operano due regimi distinti: uno specifico delle tutele, legato alla legge del 1939, e uno connesso alle trasformazioni urbanistiche, legato alla legge del 1942. A questo si aggiunga che i profili giuridici che si configurano a partire dalla mancanza di coordinamento tra le due leggi determinano un complesso assetto normativo in virtù del quale “il paesaggio si arresta alla soglie della città” (Settis, 2010 op. cit., pag 197), mentre la pianificazione urbanistica si occupa dello sviluppo edilizio. Secondo lo stesso Settis, tale distinzione è tra le prime cause responsabili di quella spaccatura nei rapporti tra città e campagna, in altre parole tra lo spazio urbano, oggetto della pianificazione urbanistica e lo spazio rurale o agrario, governato dalle regole della pianificazione paesaggistica. La legge urbanistica del 1942, tuttavia, si è negli anni giovata di alcune 46 modifiche volte a includere nella strumentazione urbanistica criteri di salvaguardia dei valori paesistici, questo è accaduto, in primo luogo, con la Legge del 1967, la n. 765, che è la prima a contemplare il paesaggio in una legge ordinaria dopo la Costituzione. Tale norma prevede la considerazione della tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali e ambientali nei piani regolatori generali. La legge del 1967, nata per porre un freno agli effetti dell’edilizia speculativa che nel dopoguerra con il boom economico cominciava ad avere effetti particolarmente pesanti sul territorio, si configurava come un intervento transitorio, fu definita legge “ponte”, a cui avrebbe dovuto seguire un provvedimento organico di riforma urbanistica, il quale tuttavia non è mai giunto. Solo in pochissimi casi il piano paesistico fu concepito come figura pianificatoria autonoma. Tale scelta, peraltro, ha prevalso anche in tempi recenti e questa impostazione, d'altro canto, non era contraddetta dalla legge che ammetteva esplicitamente piani tesi ad affrontare contestualmente la tutela e la trasformazione del territorio. In questo quadro, è significativo evidenziare l’atteggiamento di resistenza culturale a considerare il proprio territorio esclusivamente a partire dai valori paesaggistici e in definitiva ad assumere il paesaggio come invariante rispetto alle trasformazioni territoriali. La CEP ha rappresentato un passaggio chiave nell’evoluzione del concetto di paesaggio, con essa molti dei temi di ricerca nel dibattito scientifico internazionale entrano negli orientamenti della normativa comunitaria e dei singoli Stati Membri. Delle molteplici riflessioni legate alla CEP vale la pena evidenziare due elementi rilevanti. In primo luogo, la dinamica coevolutiva che lega l’interrelazione tra gli aspetti naturali e i fattori umani, la quale contribuisce a determinare il carattere identitario del paesaggio stesso. Tale aspetto assunto dalla comunità scientifica già nel corso degli anni ’80 e ’90 attraverso la CEP entra in ambito politico e istituzionale. In seconda istanza, l’estensione della CEP a tutto il territorio e a tutti i tipi di paesaggio, che sancisce il passaggio dalla tutela del “bene paesaggistico” al “paesaggio”. Oltre gli elementi interpretativi di indubbia valenza positiva presenti nella Convenzione, tale documento contiene, tuttavia, alcune criticità intorno al dibattito, in particolare italiano, legato al paesaggio. Al riconoscimento del valore dei paesaggi indipendentemente dal loro valore funzionale consegue che se tutto il territorio è paesaggio, allora esso andrà gestito con strumenti diversi da quelli della tutela, inapplicabili alla globalità del territorio stesso. Nella sostanza la CEP non avendo un carattere prescrittivo si configura come un documento d’indirizzo e di riflessione culturale. Inoltre, quando la CEP sottolinea la dimensione percettiva, evidenzia un carattere soggettivo legato alle popolazioni e come tale a rischio di derive interpretative. Se il paesaggio è solo quello percepito e quindi visibile, infatti, è impossibile operarvi quel processo di conoscenza fondato sulla ricostruzione storica dei rapporti sociali, ambientali, economici e culturali che, nel corso del tempo, lo hanno prodotto. Questo significa precludere, in sostanza, quella “cognizione” che alcuni studiosi italiani hanno posto come obiettivo di ogni seria politica territoriale. In Italia nel 2002, all’indomani della firma della CEP, una commissione ministeriale riceve l’incarico di redigere il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. La norma accoglie il concetto di paesaggio come definito dalla CEP. Il Codice nella sostanza definisce beni culturali quelli noti in passato come beni storico-artistici e li colloca, insieme ai beni paesaggistici, dentro una normativa di settore con un regime analogo basato su tre funzioni: conoscitiva (inventariazione e tipizzazione per i beni paesaggistici e delimitazione/localizzazione sul territorio), di tutela (dichiarazione/ vincolo), e tutela/gestione e valorizzazione (con l’asse amministrativo rappresentato dal piano). Va sottolineato, che in questa direzione il Codice introduce la netta distinzione tra beni paesaggistici, che coincidono con i beni vincolati, e la nozione stessa di paesaggio superando la sinonimia che legava i due termini, nel solco tracciato dalla CEP. La distinzione tra paesaggio e beni paesaggistici, complica in termini giuridici la ricostruzione del sistema normativo e amministrativo. Il Codice si riferisce parallelamente ai beni culturali e a quelli paesaggistici, con specifiche considerazioni rispetto al valore delle azioni di tutela e valorizzazione legate alle peculiarità dei due ambiti. La tutela è per il paesaggio la salvaguardia e la determinazione degli usi e delle trasformazioni compatibili con la tutela stessa. Mentre la valorizzazione “in riferimento al paesaggio, comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati”. Dall’altra parte nel Codice, con le modifiche del 2008, è stato eliminato ogni riferimento all’ambiente, includendo i beni ambientali entro la locuzione di beni paesaggistici. Altro elemento chiave è legato alla funzione di pubblico interesse, che da provvedimento procedurale diventa sostanziale poiché legato a precise prescrizioni d’uso dei beni vincolati. In questo senso, è 47 compresa la modifica dei Piani paesaggistici che possono, con il Codice, individuare ulteriori beni da dichiarare di interesse pubblico, su cui il vincolo viene posto con l’approvazione del piano. Pur con taluni limiti, in ogni caso, il testo del Codice rappresenta una buona mediazione fra le istanze diverse degli attori istituzionali che operano sul territorio, ponendosi in una linea di continuità culturale con la legislazione precedente, Bottai e Galasso in particolare, ma operando, allo stesso tempo, un’evoluzione positiva del concetto di tutela e dalla considerazione del paesaggio stesso come elemento fondante della ricomposizione del territorio nella sua interezza e unicità. Il Codice sancisce inoltre il superamento definitivo, nella nostra legislazione, dell’originaria concezione estetica collegando, fra l’altro, le politiche di conservazione a quelle dello sviluppo sostenibile. La comprensione dei caratteri evolutivi del governo del paesaggio in Italia richiede un’approfondita conoscenza dei complessi rapporti inter istituzionali che presiedono alla definizione delle politiche di pianificazione, dalla loro definizione alla loro attuazione. A partire dagli anni ’70, e con forza alla fine degli anni ’90, il dibattito sui rapporti tra Stato e Regioni, anche dietro alcune spinte federaliste, si è orientato verso il decentramento di alcune funzioni. Nel 1977 , si attua la regionalizzazione di alcune funzioni fino a quel momento di competenza statale. Tra le funzioni trasferite è compresa la delicata delega da parte dello Stato alle Regioni della materia amministrativa legata al paesaggio. Pertanto, da più di trent’anni alle Regioni sono state assegnate tre funzioni chiave in materia di paesaggio: l’identificazione, il vincolo e la gestione stessa dei beni paesaggistici. L’ultimo decennio ha rappresentato un momento chiave nell’affermazione, da una parte di una concezione culturale nuova e più ampia del paesaggio che fa capo alla CEP, e dall’altra, con la Riforma costituzionale del 2001 , nella ridefinizione delle competenze dell’intero quadro istituzionale. In tutta la materia del Codice ha introdotto alcuni elementi che hanno determinato una sorta di microconflittualità strisciante fra Stato da un lato e Regioni ed Enti locali dall’altro, e che ha caratterizzato anche la discussione seguita alla redazione del Codice stesso. Con la riforma costituzionale del 2001, è stato sancito che lo Stato avesse legislazione esclusiva nelle materie legate alla tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Mentre “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a [...] governo del territorio; valorizzazione dei beni culturali e ambientali [...]”. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Il Codice del 2004 è intervenuto anche in questo senso nella modifica del rapporto Stato-Regioni. Mentre nella normativa precedente erano le Regioni, autonomamente, che provvedevano alla redazione dei piani paesistici, dal Codice in poi vi è una nuova assunzione di responsabilità da parte dello Stato. L'impegno dello Stato si estrinseca soprattutto in due passaggi: il Ministero ha il compito di individuare le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio con finalità di indirizzo della pianificazione , mentre le Regioni e il Ministero per i Beni e le attività culturali sono chiamati a stipulare intese per l'elaborazione congiunta dei piani paesaggistici per quanto riguarda le aree tutelate, la cosiddetta copianificazione . Nel sistema delineato dal testo legislativo, le regioni rimangono lo snodo istituzionale decisivo, in quanto impegnate sui due versanti, sia nei confronti dello Stato che nei rapporti con gli enti locali. Paesaggi e territori: il caso della regione Puglia Nel quadro delle riflessioni legate al paesaggio e al territorio, si vuole introdurre il caso del Piano Territoriale Paesaggistico della Regione Puglia, avviato nel 2007 adottato nel 2015. Esso affronta la pianificazione paesaggistica con l’obiettivo di costruire regole condivise di trasformazione del territorio che consentano di valorizzarne i caratteri identitari. Nel quadro dei cinque progetti territoriali, che nel loro insieme rappresentano le proposte di tutela e sviluppo che il piano propone al territorio, il “Patto Città Campagna” è il più rilevante ai nostri fini. Il patto pone al centro della pianificazione i territori della periurbanità non più configurandoli come bacino dell’espansione urbana bensì come un nuovo ambito di possibilità della strumentazione urbanistica per introdurre nella pianificazione paesaggistica le istanze di tutela e le proposte di valorizzazione e sviluppo. Il patto si articola in più componenti tra cui: i parchi agricoli multifunzionali, la campagna del ristretto che è una fascia di territorio agricolo intorno alla città, il parco CO2 che è la proposta di forestazione urbana abitate. Vi è poi la distinzione tra campagna urbanizzata che costituisce la proliferazione di funzioni urbane decontestualizzate e disperse negli ultimi decenni nello spazio rurale (villette, capannoni, centri commerciali) a bassa densità, e campagna abitata 50 – ma anche la sovranità alimentare – intesa come libertà di scelta dei singoli e degli Stati su come soddisfare le proprie esigenze alimentari. Un corposo rapporto dell’International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development (IAASTD 2009) definisce il sistema alimentare come una complessa rete di processi interattivi che determinano la disponibilità di cibo e la qualità dell’alimentazione all’interno di una comunità. Al centro vi sono le attività del sistema alimentare che includono la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo; da queste attività si originano output in termini di benessere sociale, sicurezza alimentare e qualità ambientale. Oltre a tutte le attività lungo la catena alimentare, che va dalle varie fasi di produzione fino al consumo finale, un sistema alimentare include anche tutti gli attori che partecipano al processo, motivati da differenti obiettivi e interessi, non di rado in conflitto tra di loro. Sono parte del sistema anche i consumatori, ma il loro peso nel determinare le modalità produttive e la struttura generale del sistema alimentare non è stato ancora completamente chiarito. La mancanza di una dimensione associativa e le innumerevoli variabili che hanno finora condizionato, e spesso limitato, la scelta alimentare farebbero propendere per un ruolo sostanzialmente passivo che li vedrebbe storicamente come destinatari/bersagli finali degli output produttivi e delle strategie di mercato. Il sistema alimentare globalizzato fa uso delle tecnologie più avanzate e può contare su economie di scala e su grandi investimenti (Welch & Graham, 1999). Tuttavia, esso tende a celare gli impatti negativi che nel corso degli anni sta producendo sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo. Le preoccupazioni maggiori riguardano alcuni aspetti di assoluto rilievo quali il benessere sociale, il diritto al cibo, la sicurezza alimentare, la sovranità alimentare, la qualità e l’ambiente, sollevando in sostanza una serie di perplessità circa la sua complessiva sostenibilità. Tra la fine degli anni ‘90 e il 2000 la provenienza locale dei prodotti agricoli è considerata una soluzione più sostenibile (Feenstra1997, Kloppenburg et al. 2000, Barham 2003), ma già dal principio degli anni 2000 numerosi studiosi mostrano i rischi connessi alla cosiddetta trappola locale: una localizzazione difensiva (Campbell, 2004, Sonnino & Marsden, 2006), i costi ambientali (Born & Purcell, 2006), le ingiustizie sociali (Hinrichs, 2000) e le disparità territoriali (Allen & Guthman 2006), salute e qualità (Born & Purcell, 2006). Su questa strada avanzano le questioni legate alla rilocalizzazione del cibo finalizzata a riconnettere la provenienza con l’origine del cibo (Fonte, 2008), la prossimità geografica e organizzativa (Aubry & Kebir, 2013). Il celebre saggio sulla nuova equazione del cibo e sul concetto di localismo cosmopolitano di Morgan e Sonnino (2010) pone al centro il ruolo delle trasformazioni in atto e le dinamiche attraverso cui esse si connettono al cibo: - l’instabilità dei mercati e dei prezzi dei prodotti agricoli (decisi a miglia e miglia di distanza dai luoghi di produzione e legati per le commodities al prevalere di ragioni speculative; - la sicurezza alimentare e all’accesso al cibo; - i cambiamenti climatici (l’accesso alle risorse naturali, soprattutto quelle idriche); - la fame di terra ed effetti dell’urbanizzazione. In primo luogo il sistema globale aumenta il divario tra i sistemi più produttivi e quelli meno produttivi: questo divario è cresciuto di venti volte negli ultimi 50 anni, collocandosi in un quadro complesso di relazioni e determinanti tra domanda e offerta, con effetti rilevanti nelle relazioni tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Caratterizzato da grandi investimenti di capitale e da un sistema seme/razza che richiede elevati input e condizioni agronomiche favorevoli, esso ha favorito le aziende con maggiori risorse e non in modo uniforme in tutte le regioni del globo. Inoltre, l’agroindustria sembra non essere sempre in grado di assicurare elevati standard di sicurezza nell’uso degli alimenti che produce. Il sistema alimentare globalizzato, sebbene sia soggetto a elevati controlli e standard qualitativi, può ugualmente presentare dei rischi connessi al consumo. La BSE, i polli contaminati da diossina in Belgio, gli OGM o, più recentemente, i vegetali freschi infettati da una forma mutata di Escherichia, rappresentano solo alcune espressioni di un alto profilo di rischio connesso al consumo di alimenti. Negli ultimi decenni, le norme europee che regolano gli standard alimentari sono diventate sempre più rigide testimoniando la necessità di una risposta politica al problema del rischio alimentare. Tuttavia, poiché col passare del tempo la catena di produzione/consumo è diventata sempre più complessa, risulta estremamente difficile controllarla in ogni passaggio in modo efficace; aumentano così i rischi di contaminazione o di adulterazione (intenzionali, non previsti o involontari) (Marino e Pallotta, 2012). 51 Le politiche alimentari urbane nel mondo Pur con le diverse contraddizioni e problematiche, ancora parzialmente irrisolte, che caratterizzano l’attuale dibattito sulla pianificazione alimentare, è certo che molte città si sono organizzate o si stanno organizzando per aumentare la propria autosufficienza alimentare e la complessiva sostenibilità dei flussi che riguardano i propri territori, attraverso la costruzione di food strategy. Le strategie adottate, differenti in relazione ai contesti, hanno sicuramente come tratto comune il coinvolgimento di attori istituzionali, dei mercati e della società civile Uno degli esempi più significativi è offerto dalla città di Amsterdam dove il paradigma trova il suo punto di partenza proprio a livello istituzionale. Le amministrazioni locali e il Ministero dell’Agricoltura hanno intrapreso iniziative e attività volte a garantire cibo locale, prodotto in modo sostenibile, alla popolazione, fino a raggiungere un equilibrio tra l’offerta e la domanda alimentare capace di concorrere alla preservazione dei paesaggi agricoli delle campagne intorno alla città, il paesaggio in questo senso è parte del progetto di politiche alimentari. Progetti analoghi sono stati avviati a Utrecht, dove gli obiettivi principali erano la commercializzazione e la promozione di prodotti alimentari regionali, la riscrittura dei rapporti tra i coltivatori e i venditori, il miglioramento dell’offerta locale e il sostegno alla produzione e al consumo attraverso l’organizzazione di eventi promozionali e informativi; in questo caso, a differenza di quello della città di Amsterdam, l’iniziativa è venuta dalla società civile, solo successivamente recepita e sostenuta dalle istituzioni locali e dal Ministero dell’Agricoltura. Un altro esempio in tal senso è quello londinese, in questo caso il suolo è considerato una risorsa preziosa da non destinare all’edilizia e alla cementificazione, poiché le superfici coltivabili potrebbero determinare una maggiore autonomia alimentare o una completa indipendenza dai flussi esterni. Secondo il rapporto delle autorità per la pianificazione territoriale (Planning and Housing Committee, 2010), nel lungo termine sarà il tema della sicurezza alimentare quello più meritevole di attenzione. Jenny Jones, membro del Comitato, nella prefazione al rapporto afferma che: “Londra è troppo dipendente dall’importazione di cibo ed ha solo tre o quattro giorni di autonomia nel caso in cui gli approvvigionamenti si interrompano per un qualunque motivo. Pertanto le autorità riconoscono la necessità di attuare una strategia alimentare anche in vista di futuri problemi di sicurezza alimentare e delle ripercussioni sulla disponibilità alimentare derivanti dai cambiamenti climatici. Produrre più cibo in questa città diventerà sempre più importante nei prossimi anni”. Sempre secondo il rapporto, nel 2010, a Londra 500 aziende urbane e periurbane hanno prodotto 8.000 tonnellate di frutta e vegetali, si potrebbe produrre molto di più se si coltivasse il terreno “agricolo” intorno alla città, pari al 15% della superficie totale della capitale britannica. A ottobre i rappresentati di 100 città del pianeta hanno firmato il Milan Urban Food Policy Pact, il patto sulle politiche alimentari urbane proposto dal sindaco Pisapia nel 2014. L’impegno delle amministrazioni comunali che hanno preso parte al processo è teso a rendere i sistemi alimentari urbani più equi e sostenibili, il patto mira, tra gli altri obiettivi, a: “sviluppare linee guida a favore di diete sostenibili”, “incoraggiare e sostenere le attività di solidarietà economica e sociale”, “favorire l’erogazione di servizi per i produttori alimentari nelle città e nelle zone limitrofe”, “sostenere le filiere alimentari corte” e “aumentare la consapevolezza in materia di scarti e sprechi”. Il testo include proposte basate sulle esperienze condotte nelle città partecipanti e strategie che hanno mostrato di avere impatti sulla vita economica, sociale e ambientale degli ambiti urbani, e sulla salute dei cittadini. Al documento hanno aderito i sindaci di otto città italiane (Alessandria, Bari, Bologna, Genova, Milano Roma, Torino e Venezia, oltre alla stessa Milano), che verosimilmente proprie svilupperanno strategie alimentari. Seguendo i processi condotti in numerose città nel mondo, tra cui New York, Toronto, Melbourne, San Francisco, Seattle, Detroit, Philadelphia, Toronto, Vancouver, ma anche piccole e medie città dell'Inghilterra, dell'Olanda e, più recentemente di Scozia e Svezia hanno piani locali del cibo. Alcune città in Italia hanno avviato dei percorsi in questa direzione: dopo l’iniziativa condotta a Pisa, Milano, Torino ma anche centri di minori dimensioni come Amelia (PG), stanno muovendo in questa direzione. Di là delle specificità connesse ai singoli ambiti territoriali i processi di ri-territorializzazione e pianificazione dei sistemi alimentari urbani mirano a costruire un quadro conoscitivo e diagnostico, stabiliscono visioni condivise e partecipate con le comunità al fine di raggiungere obiettivi integrati di governance alimentare, innovazione, sostenibilità e sviluppo economico e occupazionale, salute ed educazione alimentare, qualità della vita e giustizia sociale e spaziale. In Italia, come in alcune esperienze estere il tema delle relazioni fra cibo, spazio e territorio trova espressione all’interno di processi di natura bottom up, connessi all’attività del mercato o a forme civiche di partecipazione e co-produzione. E’ 52 complesso restituire il quadro del fermento connesso a queste iniziative, frequentemente esito di microreti informali che in alcuni casi incontrano i processi decisionali istituzionali. Le amministrazioni locali, infatti, non sempre riescono a riconoscere il valore delle pratiche in atto e a consolidarne gli sviluppi. Ne deriva la necessità di muovere dalle singole e frammentate esperienze locali verso un quadro sistemico e coerente che integri una visione strategica nazionale delle politiche alimentari urbane, capace di integrare le molteplici funzioni del rapporto tra agricoltura, cibo e città nelle politiche pubbliche, tenendo insieme la complessità dei valori e degli interessi. Quali prospettive in Italia? Le città, e le aree metropolitane in misura particolare, costituiscono un ambito d’intervento strategico per orientare l’agenda politica nazionale e quella delle aree metropolitane verso modelli resilienti. Questo implica il riconoscimento degli agroecosistemi e della produzione agricola non come attività antitetiche rispetto a quelle urbane, bensì come fenomeni integrati, capaci di svolgere un ruolo chiave nello sviluppo dei sistemi urbani (Val Lewen et al., 2010; Barthel e Isendahl, 2013; Colding e Barthel, 2013). In questa direzione, tali temi possono rappresentare il quadro di riferimento in tema di ricomposizione delle relazioni urbano rurali e alla coesione territoriale. Come muovere verso tale riconoscimento? Attraverso quali strumenti è possibile agire parallelamente a diverse scale di governo del territorio? Come mettere a sistema lo sviluppo economico con la salvaguardia delle risorse? La pianificazione alimentare si sta configurando come uno strumento utile alla gestione di diverse problematiche economiche, ambientali e sociali, questo perché, attraverso una rete complessa di azioni specifiche, facilita e mette a sistema gli obiettivi legati allo sviluppo, garantendo una funzione di coordinamento rispetto a politiche e progetti afferenti ad ambiti tematici diversi, spesso pensati e attuati indipendentemente gli uni dagli altri. Immaginare una politica alimentare vuol dire costruire uno strumento che possa agire al tempo stesso sulla gestione efficiente delle risorse, sulla salvaguardia della biodiversità, come sulla tutela del paesaggio, governando le dinamiche occupazionali quanto sociali, riequilibrando le scelte di molte istituzioni internazionali. Il riconoscimento e la stima del valore economico di un modello di pianificazione alimentare può svolgere un ruolo di primissimo piano verso la resilienza dei sistemi urbani. Uno degli aspetti chiave è una rete transcalare di politiche: il sistema cibo traversa diverse scale di governo del territorio, solo agendo parallelamente a livello urbano, metropolitano e regionale è possibile sviluppare un modello di pianificazione agroalimentare efficace. Non soltanto la produzione, ma anche i processi di trasformazione e stoccaggio del cibo, così come l'evoluzione dell'apparato normativo e la sensibilizzazione della società, devono essere coinvolti nella costruzione di un nuovo modello di pianificazione agroalimentare. Le dinamiche legate alla proprietà fondiaria e alla speculazione edilizia e la necessità di grandi apporti esterni in termini di risorse hanno concorso a indebolire il sistema città, attualmente incapace di reagire ai cambiamenti ritrovando nuovi equilibri economici quanto sociali e ambientali. In questo quadro, le politiche alimentari sono un’occasione per agire parallelamente alla salvaguardia della biodiversità e alla riduzione del consumo di suolo, valorizzando il patrimonio culturale e naturale di cui il territorio dispone. Inoltre, Roma sembra un contesto idoneo a sperimentare politiche del cibo pensate per la città mediterranea, dove il complesso rapporto tra agricoltura e tessuto costruito fa della gestione delle filiere agroalimentari un ricco terreno di lavoro per aumentare la resilienza dei sistemi urbani. A tali questioni si somma la possibilità sia di coordinare azioni sinergiche di tutela e valorizzazione alle diverse scale di governo del territorio, ottimizzando gli obiettivi degli enti locali con quelli degli enti di area vasta, sia di coinvolgere nel processo i soggetti privati e la società civile, agendo sulla partecipazione e facilitando la presa di coscienza sui temi dell'alimentazione, della sostenibilità dei modelli di sviluppo, dell’equità dei modelli economici e sociali. UNA POLITICA TERRITORIALE PER L’ITALIA: IL PROGETTO 80 Le politiche territoriali del dopoguerra A differenza di altri paesi occidentali l’Italia del dopoguerra non si dota di di uno strumento spaziale a scala nazionale e di città e territorio (Calafati, 2009; Renzoni, 2010, 2012). - 1948-49/52-53: Piano Saraceno Distribuzione del reddito e manodopera, il ruolo dell’agricoltura e il ruolo infrastrutturale; L’idea di un territorio che va attrezzato (infrastrutture, residenze, industrie (Lanzani, 1996); 55 Non esiste spazio fisico senza implicazioni economiche e non esiste un sistema economico senza ricadute nello spazio fisico (Ruffolo, 2007) Dimensione territoriale dello sviluppo: il territorio come progetto sociale ovvero il ruolo della dimensione turistico culturale/economico produttiva e di tutela dei caratteri naturali e storico artistici. UNA POLITICA TERRITORIALE: STRATEGIE NAZIONALE PER LE AREE INTERNE Cosa sono le aree interne? Aree significativamente distanti dai centri di offerta di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari processi di antropizzazione. Vive in queste aree circa un quarto della popolazione italiana, in una porzione di territorio che supera il sessanta per cento di quello totale e che è organizzata in oltre quattromila Comuni (DPS, 2013). Aree interessate da un progressivo processo di marginalizzazione che ha interessato queste aree a partire dal secondo dopoguerra: - Calo della popolazione, talora sotto la soglia critica; - Riduzione dell’occupazione e dell’utilizzo del territorio; - Offerta locale calante di servizi pubblici e privati; costi sociali per l’intera nazionale - dissesto idrogeologico e degrado del patrimonio culturale e paesaggistico. - Interventi pubblici o privati (cave, discariche, inadeguata gestione delle foreste e talora impianti di produzione di energia) volti a estrarre risorse da queste aree senza generare innovazione o benefici locali. Una parte maggioritaria del territorio italiano è caratterizzata dall’aggregazione dei cittadini in centri minori, anche assai piccoli, spesso con limitata accessibilità ai servizi essenziali. Si tratta di aree caratterizzate da importanti risorse ambientali (foreste, aree protette, produzioni agricole e agro-alimentari) e culturali (beni archeologici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere) fortemente diversificate, come risultato di aspetti naturali originali e di lunghi e diversi processi di antropizzazione. Le aree interne sono state, tuttavia, anche uno spazio di “buona politica” e buone pratiche. In effetti, il processo di marginalizzazione non ha interessato le aree interne in modo omogeneo e in alcuni territori si può osservare che: a) la popolazione è rimasta stabile o è cresciuta; b) le risorse ambientali e culturali sono state oggetto di progetti di valorizzazione; c) sono state realizzate forme di cooperazione tra comuni per la produzione di alcuni servizi di base (Carlucci e Lucatelli, 2013). Perchè occuparsene? Le aree interne come “questione nazionale”. Rilievo nazionale legato anche ai costi sociali processi di produzione e investimento che, come conseguenza della loro scala e della loro tipologia, generano ingenti costi sociali. Es. instabilità idrogeologica, perdita di biodiversità e perdita di diversità biologica o la dispersione della conoscenza pratica. Le Aree Interne rappresentano una parte ampia del Paese – circa tre quinti del territorio e poco meno di un quarto della popolazione – assai diversificata al proprio interno, distante da grandi centri di agglomerazione e di servizio e con traiettorie di sviluppo instabili ma tuttavia dotata di risorse che mancano alle aree centrali, "rugosa", con problemi demografici ma anche fortemente policentrica e con forte potenziale di attrazione. (...) occuparsene richiede visione d'insieme, azione coordinata, mobilitazione di "comunità". E richiede attenzione al fatto che da queste aree vengono beni necessari per tutti noi: acqua, aria buona, cibo, paesaggi, cultura (DPS, 2012) I caratteri territoriali 1. L’Italia è caratterizzata da una rete di centri urbani estremamente fitta e differenziata; tali centri offrono una rosa estesa di servizi essenziali, capaci di generare importanti bacini d’utenza, anche a distanza, e di fungere da “attrattori” (nel senso gravitazionale); 56 2. il livello di perifericità dei territori (in un senso spaziale) rispetto alla rete di centri urbani influenza – anche a causa delle difficoltà di accesso ai servizi di base – determina la qualità della vita dei cittadini e il loro livello di inclusione sociale; 3. le relazioni funzionali che si creano tra poli e territori più o meno periferici possono essere assai diverse, a seconda delle tipologie di aree considerate. LA CENTRALITÀ DEI SERVIZI ESSENZIALI (SCUOLA, MOBILITÀ, SANITÀ) Il “Centro di offerta di servizi” comune o aggregato di comuni confinanti, in grado di offrire simultaneamente tutta l’offerta scolastica secondaria (almeno una scuola per le tre tipologie considerate: Licei, classico e/o scientifico, Istituti tecnici e professionali e altre tipologie), almeno un ospedale sede di Dipartimento di emergenza urgenza e accettazione (Dea) di I livello 3 e almeno una stazione ferroviaria di categoria Silver4. Gli elementi di innovazione 2012-2013: L’approccio alla coesione territoriale e la Strategie per le Aree Interne (Barca) “Le aree interne, proposte dal documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014- 2020 come una delle tre opzioni strategiche d'intervento per la programmazione 2014-2020”[Il carattere di perifericità]. IL RUOLO DEL CAPITALE TERRITORIALE Uno sviluppo intensivo, con l’aumento del benessere e dell’inclusione sociale di chi vive in quelle aree; uno sviluppo estensivo, con l’aumento della domanda di lavoro e dell’utilizzo del capitale territoriale, Crescita e inclusione sociale, inversione e miglioramento delle tendenze demografiche considerato non sulla base della densità di popolazione bensì sulla base dei servizi di base disponibili. Gli elementi di innovazione (cfr. Approccio Place based, lez. 18): 1. Numero limitato di aree, una per Regione. 2. Carattere nazionale e due linee di azione convergenti: una diretta a promuovere lo sviluppo attraverso progetti finanziati dai diversi fondi europei disponibili, l’altra diretta ad assicurare a queste stesse aree livelli adeguati di cittadinanza in alcuni servizi essenziali (salute istruzione e mobilità). 3. Tempi certi e monitoraggio degli esiti e il confronto delle esperienze realizzate attraverso una Federazione di progetti. 4. La strategia operativa per le Aree interne come una collettività di attori interessati a esperienze progettuali, ispirati da una Strategia e ad obiettivi condivisi e per la costruzione di un comune senso del metodo. 5. Rapporto Sviluppo Nazionale/Locale. Ambiti di lavoro Gli ambiti di intervento: - sostenibile; - rinnovabile; - tutela del territorio; - valorizzazione delle risorse naturali e culturali, turismo; 57 - sistemi agro-alimentari e sviluppo locale, risparmio energetico e filiere locali di energia saper fare e artigianato. - Programmi operativi regionali, PSR - piani di sviluppo [Fondi POR rurale, FSC – Fondo Europeo di Coesione] In sintesi la strategia persegue 5 obiettivi-intermedi:  aumento del benessere della popolazione locale;  aumento della domanda locale di lavoro (e dell’occupazione);  aumento del grado di utilizzo del capitale territoriale;  riduzione dei costi sociali della de-antropizzazione;  rafforzamento dei fattori di sviluppo locale E due obiettivi finali:  Sviluppo locale intensivo/estensivo  Inversione dei trend demografici Da raggiungere attraverso le seguenti azioni (strumenti), ciascuna delle quali ha una dimensione nazionale e locale: I. Adeguamento della qualità/quantità dell’offerta dei servizi essenziali (scuola, trasporti, mobilità); II. Progetti di sviluppo locale. Si distinguono: A. Sviluppo locale intensivo, ovvero cambiamenti che incrementano il benessere pro-capite dei residenti; B. Sviluppo locale estensivo ovvero cambiamenti che oltre a incrementare il benessere pro-capite dei residenti delle Aree interne realizza un incremento nella scala dei processi produttivi (Lettura del ruolo delle Aree interne potrebbero nel quadro nazionale per riassorbire una parte della disoccupazione presente oggi nelle aree urbane italiane). La ricomposizione dei rapporti tra dimensione nazionale e locale. Gli obiettivi locali possono essere così formulati: - incremento del benessere della popolazione locale; - ricostituzione e consolidamento della vitalità delle comunità locali; - rafforzamento dei fattori di sviluppo locale e obiettivi specifici legati all’ambito di intervento. Gli obiettivi nazionali possono essere cosi formulati: • aumento dell’occupazione (e della popolazione); • ri-utilizzazione del capitale territoriale non utilizzato; • riduzione dei costi sociali (assetto idrogeologico; manutenzione del suolo; tutela della biodiversità). Due elementi chiave: - Mercato: Il rilancio delle Aree interne come un rilancio dei sistemi locali come ambiti di produzione attraverso il consolidamento della domanda per i beni e servizi prodotti localmente: la domanda è un fattore di sviluppo fondamentale e le politiche nazionali ed europee possono svolgere una funzione decisiva per garantire che si formi e resti stabile - Lavoro: l’immigrazione e la ricostituzione di una solida fascia di popolazione in età lavorativa; un aumento della conoscenza astratta e della conoscenza pratica incorporata nel lavoro; una adeguata remunerazione del lavoro stesso. Il ruolo dei Progetti pilota: - Possono avere ad oggetto almeno due dei segmenti tematici identificati e simultaneamente i temi che si riferiscono ai servizi di base (Scuola; Sanità e Mobilità). - Coinvolgimento delle Amministrazioni più rilevanti e interessate (Ministeri; Regioni; Province; Comuni e/o Associazioni di Comuni altre). 60 studi orizzontali geografici sul Mezzogiorno, sui sistemi urbani, sulle aree montane, sui modelli locali di sviluppo. Unitamente agli studi di politica economica nella letteratura di riferimento teorico metodologico per la conoscenza del territorio nazionale e per la prefigurazione delle sue linee di assetto va considerato il contributo di urbanisti e geografi. In questa direzione, gli sforzi più fecondi sono rappresentati dalla ricerca Itaten (Clementi et al., 1996). Clementi, De Matteis e Palermo hanno costruito un paradigma interpretativo che poggia sull’analisi delle trasformazioni dei sistemi insediativi ponendo al centro dell’analisi il ruolo degli ambienti insediativi locali per qualificare il modello di sviluppo urbano e territoriale italiano. Più recentemente, Barca ha condotto un percorso d’indagine e di sforzo programmatorio in seno al Ministero per la Coesione Territoriale all’interno della Strategie per le Aree Interne (Barca, 2009, 2010, 2012). Il lavoro di Barca si caratterizza per il valore del percorso, a un tempo politico e istituzionale adottato, per lo spessore degli strumenti metodologici identificati per l’analisi territoriale, per l’indirizzo adottato nel porre al centro le questioni della tutela del territorio e promozione delle diversità e del policentrismo come sentieri di sviluppo. La letteratura economico agraria ha storicamente posto grande attenzione all’analisi, alla mappatura e alla classificazione della dimensione territoriale dell’agricoltura, nel quadro dell’analisi del ruolo del primario nello sviluppo economico. Alla definizione di apparati teorici e metodologici avviata da Serpieri (1929, 1934, 1946), si sono indirizzati gli sforzi di analisi del ruolo territoriale del primario e delle strutture agricole, considerate le unità di riferimento dell’organizzazione del territorio rurale (Turbati, 1947). Medici, 1962). Nel filone più strettamente teso a fornire strumenti per la definizione di politiche agrarie e a orientare la programmazione per lo sviluppo agricolo - che in quella determinata fase storica, era sinonimo di sviluppo del territorio rurale nella sua interezza - Bandini (1968) ha proposto i sistemi agrari come ambiti spaziali nei quali alcuni soggetti attraverso i loro rapporti d’interazione con l’esterno determinano la conservazione dei sistemi stessi. Medici (1956), Rossi Doria (1969) nel quadro del lavoro di ricerca promosso dall’Inea (1976) hanno contribuito a definire un modello di analisi e rappresentazione della realtà produttiva agricola italiana, con particolare riferimento agli aspetti descrittivi della dimensione relazionale che legava l’azienda agraria al suo contesto territoriale di riferimento. Alla fine degli anni ’80, nel quadro delle trasformazioni che hanno interessato il settore primario connesse ai suoi rapporti con i settori a monte e a valle, ai processi di modernizzazione e alla progressiva convergenza delle sue forme organizzative verso quelle prevalenti in altri settori produttivi, i lavori di Cannata hanno proposto una partizione del territorio italiano finalizzata ad adeguare le politiche generali all’esigenze dello sviluppo locale (Cannata 1989; Cannata e Forleo, 1998). L’innovatività dell’analisi condotta da Cannata risiede nell’avere superato la tradizionale lettura economico agraria che ha posto la questione legata alle condizioni di marginalità del primario esclusivamente in relazione agli altri settori economici e non ai molteplici aspetti delle strutture territoriali. L'attenzione è rivolta al ruolo dei sistemi locali e delle filiere territoriali, alla produzione di beni collettivi, all'importanza dei saperi locali e del capitale relazionale, alla ridefinizione dei confini tra rurale e urbano, alla crescente attenzione alla ruralità come spazio di azione per politiche integrate (Meloni, 2013, Meloni e Farinella, 2013), nel quadro dei mutamenti ambientali sociali ed economici che investono il territorio. Il progetto si colloca nel quadro delle analisi sullo sviluppo locale condotte in Italia negli ultimi due decenni, che hanno sottolineato la rilevanza dell’integrazione produttiva e sociale e del processo unitario e interdipendente che opera come sistema territoriale (Gaffard, 1992; Asheim, 1999). Lo stesso Garofoli (1981, 1983) identifica lo stretto connubio tra economia, società e territorio, in una logica di sistema e d’integrazione territoriale, finalizzata a garantire la governance stessa dello sviluppo locale agendo sulla valorizzazione del contesto territoriale, sull’introduzione di istituzioni specifiche a carattere intermedio (cfr. Agenzie di sviluppo, centri di formazione, centri servizi, centri tecnologici), sul governo del processo di trasformazione, implementazione e valorizzazione delle risorse locali. 61 2. IL SeTTOre vITIvInICOLO I CARATTERI EVOLUTIVI DELLA VITICOLTURA ITALIANA La viticoltura nell’Italia pre-unitaria La viticoltura italiana ha vissuto negli ultimi 150 anni profondi cambiamenti che ne hanno radicalmente mutate le caratteristiche, sotto il profilo della base ampelografica, e dunque delle qualità prodotte, quello dei metodi produttivi, quello dei paesaggi agrari a cui essa dà vita. Se da un lato tali trasformazioni sono avvenute sotto la spinta di elementi interni al mondo vitivinicolo, quali le grandi malattie della vite o gli indirizzi imposti dalle politiche di settore, altri, e forse più determinanti, fanno riferimento a fattori di controllo esterni, come il generale sviluppo tecnico ed economico, le metamorfosi del tessuto sociale, le dinamiche demografiche, le tendenze culturali della società. Il manifestarsi, soprattutto in alcune fasi, di spinte divergenti derivanti da tali fattori, le discrasie temporali tra indirizzi politici e loro concreta attuazione (nonché le loro frequenti contraddizioni rispetto alle più ampie esigenze economiche), le profonde differenze regionali pre- esistenti all’Unità e in larga parte mantenutesi anche in seguito, rendono impossibile una ricostruzione lineare della storia recente della viticoltura italiana. Nel suo complesso, essa appare quindi soprattutto governata da dinamiche, spesso locali, di tipo quantitativo e/o qualitativo, di risposta a circostanze specifiche, quali la fillossera con le sue conseguenze anche al di là dei confini nazionali, le necessità di guerra, le ricostruzioni post- belliche, gli indirizzi politici. L’Italia preunitaria si connota per una spiccata varietà morfologica e climatica del suo territorio, e in conseguenza della frammentazione politica e amministrativa al momento dell'Unificazione la realtà vitivinicola italiana presentava forti differenze regionali e locali. Il quadro nazionale si connotava per le marcate diversità qualitative e quantitative prodotti, destinazione, sistemazioni dei terreni, paesaggi, contratti agrari, caratteristiche aziendali e per la predominanza Viticoltura contadina con compresenza di molti vitigni diversi nel medesimo vigneto, auto- consumo, o al più al mercato locale, e con i vini destinati a un rapido consumo: una viticoltura di quantità più che di qualità. Anche a seguito del grande sviluppo della cerealicoltura avvenuto nel corso del Settecento e della prima metà dell’Ottocento, il vigneto italiano appariva, con rare eccezioni, relegato a forme di coltura promiscua (primi 900 rappresentava oltre il 50% della produzione) viticola italiana, associato soprattutto ai cereali, ma anche ad altre piante da frutto o al foraggio. La sua coltivazione, di frequente sorretta da supporto vivo, dava luogo ai diffusi paesaggi viticoli della piantata, caratteristici di vaste zone della Penisola sino alla prima metà del Novecento e presente un po’ ovunque con diverse varianti, ma soprattutto diffusa in area padana e lungo il versante tirrenico, e dell’alberata; in entrambi i casi con la vite maritata alle più diverse essenze (olmo, gelso, acero campestre, pioppo). Nelle zone più aride, nell’estremo sud e nelle isole, dominavano i metodi di coltivazione ad alberello e quello a ceppo basso, di matrice greco-orientale. Legate a specifiche produzioni, in limitate aree del Piemonte, della Toscana, (con il ruolo dell'apporto francese), della Lombardia e della Sicilia, già nell’Ottocento si potevano comunque osservare esempi non marginali di viticoltura specializzata destinata prevalentemente alle esportazioni e di sperimentazioni. È il caso del Marsala siciliano per il mercato inglese, del Vermouth piemontese, del Barolo (la cui produzione fu sensibilmente sostenuta da Camillo Benso di Cavour, del Chianti classico. Dall’Unità d’Italia agli anni ’70 È dunque in un contesto già animato da un discreto dinamismo economico, ma pur sempre contrassegnato da fortissimi squilibri regionali, capace di affiancare aperture anche significative verso i mercati esteri, ma sostanzialmente dominato dal modello dell’autoconsumo, che il settore vitivinicolo fa il suo ingresso nella nuova entità nazionale. Più delle nuove determinanti politiche, saranno però le grandi ampelopatie di origine americana a governare gli sviluppi della vitivinicoltura italiana nella seconda metà del secolo e a modificarne per molti aspetti, e talora in via definitiva, il volto. 62 Contesto già animato da un discreto dinamismo economico, contrassegnato da fortissimi squilibri regionali, capace di affiancare aperture anche significative verso i mercati esteri, ma dominato dal modello dell’autoconsumo. Importanti ampelopatie governano gli sviluppi della vitivinicoltura italiana nella seconda metà del secolo modificandone anche per molti aspetti definitivamente i caratteri. - Oidio (o mal bianco, è causata da un fungo oidium spp.), compare nella seconda metà '800 effetti disomegenei a livello regionale legati alle modalità di intervento e alla disponibilità di zolfo. - Fillossera (causata da un insetto fitofago), compare nel 1875, ma si prolunga tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Venti del Novecento. Varie conseguenze tra cui un immediato aumento della domanda di vino, per lo più da taglio, di produzione italiana sul mercato francese (colpito duramente e prima del contesto italiano). - Peronospora (causata da un fungo Plasmopara viticola), nel 1879. Anche per efftto delle malattie della vite fulminea espansione delle superfici vitate, in particolare nelle regioni del Sud Italia, Puglia e Sicilia in primis, a scapito soprattutto dei grandi spazi ivi dedicati alla cerealicoltura (es. Puglia passaggio dai 90.000 ettari del 1870 ai 320.000 di fine secolo). In Italia la superficie vitata passa da 1,8 milioni di ettari (1871), vent’anni più tardi, a circa tre milioni di ettari (1891). Alle flessioni quantitative delle produzioni e delle superfici, causate dalla fillossera, si affiancarono spesso le trasformazioni dei precedenti metodi colturali, una tendenza alla razionalizzazione dei vigneti, profondi mutamenti qualitativi, anche legati all’introduzione o alle decise preferenze accordate a specifici vitigni. Trasformazioni che accompagnarono la spinta verso una più forte specializzazione commerciale della viticoltura di alcune regioni, Piemonte e Toscana sopra a tutte. In questa difficile fase, un ruolo crescente lo ebbero i centri di ricerca sulla viticoltura e le varie istituzioni di formazione tecnica. Tanto la Prima quanto la Seconda Guerra Mondiale non passarono senza effetti sulla vitivinicoltura nazionale. Conseguenze distruttive sugli impianti in alcuni territori, e altre di tipo indiretto si misurarono soprattutto nel Secondo Conflitto Mondiale (effetti dell’impiego bellico della manodopera contadina e la riorganizzazione del sistema agricolo del paese in ragione delle necessità di guerra, urbanizzazione). Nel 1915 la produzione di vino toccò il suo minimo di tutto il Novecento per recrudescenza della peronospora. Tra il 1941 e 1945 la produzione vinicola italiana scende ai suoi minimi la crescita della superficie coltivata. Ventennio fascista: incremento ricostruzioni post-fillosseriche, politiche e investimenti quantitative più che qualitative, spesso concretizzatosi attraverso la messa a coltura di terreni scarsamente vocati. Fase complicata: risultati altreni tra bonifica (es. Sardegna), Battaglia del grano e retorica ruralista, crollo prezzi, crisi del '29. Anni '20: Arturo Marescalchi progetto per riconoscimento dei “Vini tipici”, che non troverà attuazione ma originerà i primi Consorzi di tutela (es. Moscato di Pantelleria, Marsala, Moscato d’Asti) e la delimitazione di zone di produzione (Orvieto, Soave, Alto Adige, Castelli Romani, Sansevero bianco, Barbaresco), sciolti negli anni '30. Contesto di forte incremento quantitativo, ma di prezzi del vino calanti (con la breve eccezione del periodo 1954-59). Forte incidenza dei processi di abbandono degli spazi viticoli, soprattutto laddove inseriti in quadri locali di forte emigrazione e di conseguente svuotamento delle campagne (fino a tutti gli anni '60). Sostanziale scomparsa della viticoltura promiscua e, seppure non ovunque, la sua sostituzione con impianti specializzati. In Italia centrale (Toscana in particolare) Toscana, questa evoluzione si accompagnò all’abolizione della mezzadria a cui era legata buona parte della viticoltura dell'area. Legge 1963 sancì la nascita delle Denominazioni di Origine (DOC), concreti riconoscimenti nel 1966. Trattato di Roma del 1957, istituzione Politica Agricola Comune. 65 La predominanza dei fattori fondo biologici I processi produttivi agricoli fanno largo uso di fattori fondo biologici: l’uomo, il bestiame da lavoro, gli animali da riproduzione e la terra intesa come capitale fondiario (vale a dire come la “terra nuda” più gli investimenti stabilmente investiti in essa). La stessa terra nuda deve essere considerata come un sistema biologico in quanto essa è costituita da sostanze minerali ed organiche, ed è sede di vita microbica oltre che di attività fisico chimica, caratteristiche che ne determinano una continua evoluzione. In ciascun processo produttivo si può identificare un fattore fondo tecnicamente dominante: nei processi di tipo artigianale esso è costituito dall’uomo (tempo di lavoro giornaliero), in quelli industriali sono invece le macchine che, con i loro ritmi, impongono i tempi di incorporazione degli altri input. I processi produttivi agricoli si caratterizzano per il ruolo del fattore fondo tecnicamente dominante (al quale cioè è necessario correlare l’impiego degli altri fattori fondo e dei fattori flusso) è costituito da un fondo biologico: - la terra (il capitale fondiario) e le piante in essa coltivate, nel caso delle produzioni vegetali; - il bestiame (e in particolare gli animali da riproduzione), nel caso degli allevamenti. In agricoltura sono dunque i “vincoli biologici” che derivano dai caratteri naturali dei fattori fondo, che determinano la funzione di incorporazione degli altri elementi flussi e fondo (ovvero il modo con cui gli altri fattori si combinano e si integrano nel processo produttivo), e di conseguenza l’organizzazione tecnica del processo produttivo. I fattori fondo biologici, contrariamente ad altri tipi di fattori fondo (ad esempio le macchine), forniscono inoltre al processo produttivo un’unità di servizio non uniforme nel tempo, e la cui capacità produttiva non è differibile a momenti successivi avendo il fattore fondo una vita fisica legata a un periodo storico: pertanto l’inattività (tempo d’ozio)del fondo biologico riduce la sua capacità di servizio totale. La centralità dei fondi di tipo biologico fa inoltre sì che l’esecuzione di una stessa operazione non fornisca mai un identico risultato quali-quantitativo nel tempo. La natura biologica del fattore terra determina la necessità di procedere a una pianificazione del suo utilizzo nel tempo: per mantenere costante la fertilità del suolo è necessario alternare anno dopo anno sullo stesso appezzamento una successione di colture, in considerazione della diversa attitudine di ciascuna di esse a modificare le condizioni produttive della terra. La tecnica agronomica ha portato a stabilire una serie di regole precise circa gli avvicendamenti delle colture su di uno stesso appezzamento di terra, in modo tale che alle colture miglioratrici seguano quelle depauperatrici (che cioè tendono a impoverire il terreno di sostanze nutritive) e successivamente quelle preparatrici (che cioè apportano al terreno la struttura e le sostanze necessarie alla coltivazione che le seguirà). Queste regole agronomiche evidenziano l’esistenza di un rapporto di complementarità, sia nel tempo che nello spazio, tra le colture che partecipano all’avvicendamento, e tra queste e la terra. Evidentemente la scelta dell’avvicendamento da praticare deve tenere conto della necessità di sfruttare nella maniera migliore i fattori fondo, sia la terra che le macchine e il lavoro. Per questo motivo spesso si inseriscono inserite nelle rotazioni colture “secondarie”, in quanto il loro valore economico risulta di norma inferiore alle colture principali (che occupano il terreno per la maggior parte dell’annata agraria): - le colture intercalari, che si inseriscono tra le colture principali (nel tempo in cui queste non sono presenti sulla terra) e che concorrono alla piena utilizzazione del terreno agrario; - le colture consociate, che condividono la terra con le colture principali e mirano a realizzare un uso più equilibrato dei fattori fondo (lavoro e macchine) durante l’anno. La “Biologicità” dei processi e la struttura temporale della produzione Il ruolo dei cicli biologici nel determinare il trascorrere del tempo (inteso come succedersi dei mesi e delle stagioni) caratterizza i processi produttivi agricoli, determinando l’intervallo necessario per l’ottenimento del prodotto e organizzando al suo interno una successione di lavori il cui ordine è dettato dalle esigenze che la coltura (o l’animale) ha nel corso del suo sviluppo biologico. I processi produttivi agricoli sono quindi caratterizzati da una forte stagionalità nella utilizzazione dei fattori produttivi e nell’ottenimento della produzione. Quasi tutte le operazioni agricole hanno un proprio periodo utile di esecuzione, e si distribuiscono per lo più con irregolarità durante l’anno; e con irregolarità 66 anche tra un anno e l’altro, a causa dell’interferire del tempo climatico e meteorologico. In sostanza, il processo produttivo agricolo non è de-stagionalizzabile come invece la maggior parte dei processi di produzione industriali e di servizi. Ciò è vero soprattutto per le coltivazioni in pieno campo e per gli allevamenti estensivi (allo stato brado), e in misura molto minore per le colture in serra e per gli allevamenti specializzati. Da ciò derivano alcune implicazioni organizzative sull’esercizio delle attività agricole ma anche su quelle poste a monte e a valle dell’agricoltura verranno riprese successivamente: i processi agricoli possono infatti essere attivati solamente in serie (una coltura per campo per ciascun periodo di tempo) o in parallelo (una stessa coltura può essere praticata nello stesso periodo di tempo su più campi). Non è invece possibile l’attivazione in linea, vale a dire l’attivazione contemporanea di più processi produttivi dello stesso tipo, ciascuno dei quali entra nell’impianto dopo una frazione di tempo più piccola del tempo totale di occupazione dell’impianto da parte di un singolo processo. Questo determina importanti effetti connessi allo sfruttamento più razionale dei fattori fondo disponibili nell’azienda: le scelte dell’imprenditore tengono conto della necessità di limitare i tempi di inattività dei fattori fondo disponibili, con una particolare attenzione a quelli più scarsi. Il progresso tecnologico tende dunque a orientarsi in maniera significativa verso il miglioramento genetico delle specie vegetali e animali, mediante il quale realizzare cambiamenti a livello di cicli biologici (varietà precoci o tardive, resistenza alle malattie) e con la specializzazione tecnica della loro capacità di fornire beni e servizi (ad es. bestiame specializzato nella produzione di carne o di latte, varietà di frumento ad alto contenuto di glutine ecc.). In conseguenza della tipologia dei fattori fondo utilizzati e della biologicità dei prodotti ottenuti, la meccanizzazione assume in agricoltura delle connotazioni peculiari. Nei processi produttivi agricoli, infatti, il ruolo delle macchine è sostanzialmente diverso da quanto accade nei processi industriali: mentre nell’industria è la macchina che trasforma direttamente la materia prima in prodotto finito con caratteristiche prefissate, in agricoltura è la natura che svolge questo ruolo (mediante il lavoro delle cellule vegetali e animali), e alle macchine è affidato solo il compito di creare l’ambiente più favorevole alla vita delle piante e degli animali (migliorando l’esecuzione di determinate operazioni e aumentando il numero di operazioni concorrenti che possono essere svolte in uno stesso periodo di tempo) e, alla fine del processo, di raccogliere il frutto del lavoro delle piante e degli animali. La presenza delle macchine è necessaria solo in alcuni periodi specifici del corso del processo produttivo connessi a specifici momenti. La stagionalità delle operazioni agricole limita fortemente la possibilità di introdurre macchine specializzate: proprio a causa del fatto che esiste un periodo utile ben delimitato per le singole operazioni, e del fatto che i processi agricoli in pieno campo non possono essere attivati in linea, una macchina specializzata ridurrebbe sì i tempi di esecuzione di una operazione, ma aumenterebbe i propri tempi di ozio. Dunque la tendenza dell’innovazione meccanica in agricoltura non è indirizzata ad aumentare la specializzazione delle macchine, bensì di realizzare macchine combinate che possono svolgere contemporaneamente tutte le operazioni di una coltura che ricadono in un medesimo periodo utile (ad es. mietitrebbiatura). Inoltre, almeno nel caso delle produzioni vegetali, sono le macchine che devono portare le operazioni a contatto dei materiali (i prodotti coltivati) e non viceversa: per questo motivo le macchine devono possedere, oltre alla capacità di svolgere un servizio, anche una adeguata mobilità. Il fatto che nei processi produttivi agricoli siano le macchine che si devono spostare sulla terra, fa sì che sia necessario che l’uomo eserciti un continuo controllo sulla funzione che esse svolgono (e non, come in numerosi tipi di processo industriale, sui flussi di materiale che passano da una macchina all’altra). Le specificità dei processi agricoli hanno importanti riflessi anche sull’entità dello spazio geografico occupato dai processi stessi: la dipendenza dal fattore biologico terra (sia per le produzioni vegetali che, indirettamente, per le produzioni animali allevate con metodi tradizionali) fa sì che l’attività agricola abbia necessità di ampie superfici su cui realizzare la produzione. La necessità di ricorrere all’energia solare per la realizzazione del processo di produzione comporta l’estensione delle colture agricole su vastissime aree. Ne deriva una particolare dimensione territoriale dell’attività di produzione agricola e la difficoltà di raggiungere livelli di concentrazione delle attività nello spazio paragonabili a quella degli altri settori. Ovviamente la dimensione territoriale dell’attività agricola la espone alle avversità meteorologiche e ambientali, ma è anche causa di una maggior difficoltà di raggiungimento di livelli qualitativi omogenei 67 dell’output. Ogni singola particella di terreno presenta caratteristiche dei suoli, di esposizione, di giacitura diversi che influiscono sui processi di crescita delle colture e degli allevamenti, e quindi anche sulle quantità e qualità realizzate. Inoltre, la maggior dispersione territoriale delle attività fa sì che le operazioni di sorveglianza e di trasporto abbiano costi più alti per i tempi e per le condizioni condizioni in cui sono realizzate, e richiedano spesso non solo la residenza dell’uomo nel luogo dove l’attività di produzione si realizza, ma anche l’adozione di apposite soluzioni organizzative. Importanza dei fattori climatici e meteorologici: l’aleatorietà I processi produttivi agricoli sono fortemente condizionati non soltanto dal tempo cronologico (succedersi dei mesi e delle stagioni), ma anche dal tempo climatico e dal tempo meteorologico. Il tempo climatico (inteso quale caratterizzazione climatica dell’area in cui ha luogo la produzione) impone di individuare le modalità che meglio assecondano l’evoluzione dei fenomeni biologici posti in essere mediante il processo produttivo, in modo da assecondare al meglio le relazioni che il clima ha con il suolo. Oltre al clima anche il tempo meteorologico, costituito dalla successione e dall’intensità assunta dalle singole manifestazioni meteorologiche, ha una grande rilevanza sulle modalità di svolgimento e sui risultati ottenibili nei processi produttivi agricoli. Le manifestazioni meteorologiche assumono lo status di veri e propri fattori interni all’azienda, nel senso che l’organizzazione della produzione nell’ambito dell’unità di produzione deve tenere conto in maniera sistematica della loro influenza sulle modalità di svolgimento dei processi. Il concreto manifestarsi dei fenomeni meteorologici, e la relativa incertezza che li caratterizza pur nell’ambito di uno stesso clima, determina una forte aleatorietà dei processi produttivi agricoli, aleatorietà che si manifesta su un duplice livello: - determina un’impossibilità di organizzare preventivamente tutti gli inputs; - fa sì che il rapporto tra inputs e output sia di tipo probabilistico. In sostanza l’imprenditore non può controllare tutti gli elementi che entrano nel processo di produzione, e per questo motivo egli è costretto a ricercare una notevole flessibilità organizzativa e strutturale che gli consenta di assecondare anche la manifestazione di fenomeni meteorologici imprevedibili. Considerando ad esempio le operazioni di concimazione e di irrigazione, non solo il loro numero, intensità e momento di svolgi- mento possono variare nel corso del ciclo produttivo a causa della variabilità meteorologica la quale condiziona le fasi di sviluppo delle piante; ma le immissioni nel ciclo produttivo di tali input devono essere effettuate con notevole tempestività di azione che non è prevedibile a priori, ma che deriva da elementi esogenamente determinati. Un ulteriore fattore di aleatorietà dello svolgimento dei processi produttivi agricoli deriva dalla possibile insorgenza di patologie degli animali e delle piante. Tali manifestazioni, che in parte a loro volta derivano dagli andamenti meteorologici, sono comunque oggi maggiormente controllabili e prevenibili che non in passato, ricorrendo all’impiego di determinate tecniche e fattori produttivi (quali anticrittogamici per le produzioni vegetali, o medicinali specifici per gli animali). L’effettuazione delle operazioni necessarie per controllare l’insorgenza di malattie determinano evidenti riflessi sullo svolgimento dei processi produttivi e dunque sui relativi costi di produzione, oltre che sulla organizzazione dei fattori produttivi. In sostanza, quanto detto sopra per le operazioni d’irrigazione e concimazione vale anche per la distribuzione di prodotti antiparassitari atti a contenere gli effetti delle malattie delle piante. Nei processi produttivi agricoli gli impianti sono costituiti da organismi vegetali e organismi animali, dunque da organismi viventi. La produzione vegetale è caratterizzata dal processo biologico di fotosintesi clorofil - liana realizzato, tramite la luce solare, nelle cellule verdi dei vegetali: queste sintetizza- no, a partire dall’anidride carbonica, dall’acqua e dai sali minerali assorbiti dal terreno (in determinate condizioni di temperatura e umidità) la sostanza organica, che rappresenta una accumulazione di energia solare. Il processo produttivo zootecnico si caratterizza per la presenza del bestiame, il quale costituisce un vero e proprio “strumento produttivo” che trasforma in servizi (lavoro animale) e/o in prodotti (carne, latte, lana, ecc.) una parte dell’output dei processi di produzione agricola (foraggi, paglia, altri prodotti vegetali). Il processo zootecnico inoltre svolge (storicamente) una fondamentale funzione nel ciclo di conservazione e sviluppo della fertilità del suolo, che parte dalle sostanze minerali contenute nel terreno e 70 La conformazione della curva di domanda di prodotti agroalimentari (d) ricalca quella di una generica funzione di domanda, tuttavia essa assume connotati di maggior rigidità rispetto a quella relativa ad altri beni. In altri termini, una qualsiasi variazione del prezzo di un prodotto alimentare non provocherà eccessive variazioni della quantità domandata. L’elasticità della domanda al prezzo In termini generali, il concetto di elasticità indica la sensibilità con la quale una grandezza economica reagisce alle variazioni di un'altra grandezza economica, legata alla prima da una relazione di causa effetto. Nel caso dei prodotti agricoli, data una funzione generale di domanda: qDi = f (pi, y, pj) dove: qDi = quantità domandata di un generico bene i; pi = prezzo del bene oggetto di domanda; pj = prezzo degli altri beni consumabili presenti sul mercato; y = reddito del consumatore. A parità di altre condizioni e dati i gusti individuali la quantità domandata di un bene (qDi) è funzione del suo prezzo (pi), del reddito dei consumatori (y) e dei prezzi dei beni che sono sostituti o complementi di quello in esame (pj). Pertanto è possibile misurare la reattività della quantità domandata rispetto a p i (elasticità della domanda al prezzo), a y (elasticità della domanda al reddito) e a pj (elasticità incrociata della domanda). La domanda di prodotti agroalimentari è generalmente rigida, essendo la maggior parte di questi prodotti destinata al soddisfacimento di un bisogno primario e irrinunciabile. I comportamenti di consumo necessitano di un lungo periodo di tempo per modificarsi, ancora spesso sussistono problemi di accesso al mercato e che le informazioni di cui il consumatore può (o è interessato a) disporre non gli consentono in genere una conoscenza perfetta dei mercati. Naturalmente l'elasticità della domanda varia sensibilmente: - da prodotto a prodotto (più alta per i prodotti alimentari “di lusso”, minore per i prodotti consumati quotidianamente pane, pasta, legumi, ecc.); - da paese a paese (in base alla diffusione del prodotto e alle abitudini alimentari); - da consumatore a consumatore (secondo le preferenze del singolo); - da mercato a mercato (locale, regionale, nazionale, mondiale); - nel corso del tempo (col modificarsi dell’entità della popolazione, della composizione per classi di età, dei gusti e delle abitudini dei consumatori, del reddito pro capite). Inoltre, una variazione di prezzo comporta non solo una variazione della quantità domandata da parte dei consumatori presenti sul mercato, ma anche un eventuale ingresso (uscita) dei consumatori “marginali”, ovvero di quei consumatori che prima della variazione del prezzo non possedevano (cessano di possedere) sufficiente capacità di acquisto. Soprattutto nelle realtà dei paesi in via di sviluppo, questo è un fattore di fondamentale importanza. Il valore dell'elasticità della domanda di un prodotto alle variazioni del prezzo di mercato è fortemente influenzato da: - il grado di sostituibilità del prodotto: l'elasticità della domanda si presenterà tanto più elevata quanto maggiore sarà il numero di prodotti succedanei a disposizione; - l'importanza del prodotto nella spesa del consumatore: tanto più importante è il peso della spesa per quel prodotto nel bilancio del consumatore, tanto maggiore sarà la sensibilità del consumatore al momento dell'acquisto del bene (e dunque, ceteris paribus, elevato il valore dell'elasticità). Naturalmente l'ammontare complessivo della domanda di un determinato prodotto è influenzato anche dai prezzi degli altri prodotti presenti sul mercato (Pj). Le variazioni di prezzo di altri prodotti, oltre a comportare modifiche nell'entità del reddito reale disponibile del consumatore (e quindi nel suo potere di acquisto), possono comportare variazioni dello stesso segno o di segno opposto nella quantità del bene richiesta dal consumatore, rispettivamente a seconda che la variazione del prezzo interessi un bene sostitutivo o un bene complementare del prodotto oggetto di domanda. 71 Naturalmente l'ammontare complessivo della domanda di un determinato pro- dotto è influenzato anche dai prezzi degli altri prodotti presenti sul mercato (Pj). È evidente che le variazioni di prezzo di altri prodotti, oltre a comportare modifiche nell'entità del reddito reale disponibile del consumatore (e quindi nel suo potere di acquisto), possono comportare variazioni dello stesso segno o di segno opposto nella quantità del bene richiesta dal consumatore, rispettivamente a seconda che la variazione del prezzo interessi un bene sostitutivo o un bene complementare del prodotto oggetto di domanda. Ad esempio un aumento nel prezzo della birra provocherebbe un aumento nella richiesta di altre bevande (beni sostitutivi: elasticità incrociata positiva); viceversa un aumento del prezzo del caffè porterebbe anche a una diminuzione di consumo di zucchero (beni complementari: elasticità incrociata negativa). Lo studio dell'andamento delle elasticità fornisce un utile supporto teorico nell'analisi del mercato agricolo. La rigidità della funzione di domanda rispetto al prezzo contribuisce in parte a spiegare la difficile posizione dei produttori agricoli rispetto agli altri settori dell'economia. Ipotizzando infatti che il modello di concorrenza pura e perfetta sia rappresentativo della realtà dei mercati agricoli, possiamo dire che l'andamento dei ricavi del settore nel suo complesso dipende strettamente dalle caratteristiche della curva di domanda. In un dato mercato la spesa complessiva destinata dai consumatori all'acquisto di un determinato bene (St) è pari al prodotto della quantità acquistata per il prezzo del bene (St=p x qD), tale grandezza corrisponde anche al ricavo totale(Rt) delle imprese che producono il bene in esame St=p x qD= Rt. Spesa totale e ricavo totale di conseguenza si modificano al variare sia del prezzo sia della quantità acquistata. Prezzo e quantità, tuttavia, poiché la curva di domanda ha inclinazione negativa sono legati tra loro da una relazione inversa. Tutto ciò ha una grande importanza per spiegare da un lato le oscillazioni dei profitti delle imprese agricole e dall'altro per impostare le misure di politica economica da utilizzare per la regolamentazione del funzionamento del mercato dei prodotti agroalimentari. Infatti in presenza di di una domanda rigida come quella dei prodotti agricoli, anche piccoli eccessi di produzione provocano forti cadute di prezzo e quindi di ricavo del produttore. Al contrario la scarsità della produzione (es. andamento climatico) si traduce in più che proporzionali incrementi di prezzo e ceteris paribus di ricavo. Da cui la convenienza, in genere, a contenere anziché ad eccedere nell'offerta globale dei prodotti agricoli. L’elasticità della domanda al reddito A conferma della legge di Engel si noti dalla figura riportata come in Italia la quota dei consumi alimentari sul totale dei consumi sia fortemente diminuita nel corso del tempo. L'analisi dell'influenza della variabile reddito sul comportamento della domanda di prodotti agro- alimentari permette di coglierne alcuni aspetti di lungo periodo; essa consente infatti di comprendere più a fondo le ragioni che stanno alla base del “declino secolare” del settore agricolo relativamente agli altri settori dell'economia. Col termine “reddito” si fa qui riferimento al concetto di “reddito reale disponibile pro capite” (reddito che, rapportato al livello generale dei prezzi (cioè “depurato” dall'influenza dei prezzi), rimane al cittadino dopo il prelievo fiscale. L'andamento dei consumi alimentari delle famiglie rispetto al reddito è stato oggetto di numerosi studi che hanno preso spunto dalle analisi dello statistico tedesco Ernst Engel. Nel “Rapporto produzione-consumo nel regno di Sassonia” (1857), Engel partendo da dati sul consumo delle famiglie operaie, mise in evidenza come il peso percentuale delle spese alimentari nel bilancio familiare fosse tanto maggiore quanto minore era il reddito complessivo della famiglia => “legge di Engel”. Questo appare comprensibile se si pensa che il fabbisogno nutrizionale dell'essere umano è limitato dalla “capacità del suo stomaco”, e che quindi il consumo di prodotti alimentari non può crescere all'infinito ma dovrà prima o poi raggiungere un limite. La domanda di prodotti agroalimentari rispetto al reddito è sostanzialmente rigida, ovvero ad aumenti di reddito corrispondono incrementi meno che proporzionali della domanda di prodotti alimentari. La legge di Engels evidenziò per primo la regolarità empirica secondo cui la quota del reddito utilizzata per il consumo di beni alimentari decresce all’aumentare del reddito stesso. 72 In altre parole, i generi alimentari sono beni inferiori o di prima necessità, dunque l’elasticità della domanda di questi beni rispetto al reddito è inferiore a 1: il loro consumo cresce meno che proporzionalmente rispetto al reddito. La struttura della dieta tende dunque a modificarsi in seguito alle variazioni del reddito reale dei consumatori. La crescita economica comporta un miglioramento qualitativo dell'alimentazione: al crescere dei redditi si consumano cibi più elaborati e di qualità migliore, aumenta il numero dei pasti consumati al ristorante, le calorie di origine animale tendono a sostituire quelle di origine vegetale. Le altre determinanti alla domanda di prodotti agricoli La variabile F ingloba l'insieme di quei fattori demografici, tecnologici, economici, politici, ecologici e sociali che, sebbene di difficile o addirittura impossibile misurazione, sono in grado di agire sul comportamento della domanda e di indirizzarne il percorso evolutivo. I fattori demografici costituiscono un’importante determinante della domanda di prodotti alimentari: è evidente infatti che la crescita demografica implica un aumento della richiesta di prodotti alimentari. Ciò può condurre a situazioni di vere e proprie crisi strutturali in quei paesi nei quali né la struttura produttiva, né gli stock accumulati né le importazioni sono in grado di far fronte a questa domanda crescente. La struttura della domanda muta anche in riferimento all'evolversi della composizione per classi di età: la presenza di una elevata quota di giovani, ad esempio, determina un aumento del consumo calorico medio giornaliero e orienta la composizione della domanda verso determinati tipi di prodotti alimentari. La distribuzione territoriale della popolazione determina differenti modalità di diffusione dei modelli di consumo alimentare: il relativamente recente fenomeno di urbanizzazione (che oggi caratterizza soprattutto la realtà dei paesi in via di sviluppo). Di crescente importanza riguardo alle modifiche della struttura della domanda sono inoltre i flussi migratori tra paesi diversi o tra regioni di uno stesso paese, i quali determinano un innesto di nuovi modelli alimentari e di nuovi prodotti nella società che li ospita. Anche la struttura e l'evoluzione del sistema economico-produttivo costituiscono un elemento di dinamicità della domanda. L'aumento di produttività nelle campagne, nonché l'esigenza degli agricoltori di monetizzare parte della loro produzione per far fronte a spese diverse, porta al passaggio da una “economia di sussistenza” ad una “economia di mercato”; ciò fa sì che si vengano a creare strutture di commercializzazione e di trasformazione su scala artigianale o industriale prima inesistenti. Si nota dunque una forte diminuzione nel livello di autoconsumo nelle campagne e di conseguenza un'espansione della quantità scambiata di prodotti agricoli a parità di produzione realizzata dal settore. L'aumentato volume di scambi così determinatosi, congiunto a un aumento della distanza tra centri di produzione e centri di consumo (conseguenza dei fenomeni di esodo rurale e di urbanizzazione) e grazie anche alla modifica della struttura della rete di trasformazione e commercializzazione, esercita un importante effetto sull'evoluzione delle caratteristiche dei prodotti alimentari presenti sul mercato nonché sulle abitudini di acquisto e sulla composizione della dieta del consumatore. Infatti l'attuale tendenza verso una sempre maggiore concentrazione del commercio al dettaglio (supermercati, ipermercati, self-services, discounts, ecc.) e verso una despecializzazione della catena distributiva è in grado di modificare le scelte dei consumatori, sia attraverso una maggior ampiezza degli assortimenti merceologici presenti, sia dettando un nuovo modo di effettuare gli acquisti, sia presentando prodotti dalle caratteristiche standard, omogenei, spesso in grandi confezioni. Ciò implica una maggior diffusione dei prodotti confezionati e a lunga conservazione e quindi un più elevato livello di standardizzazione dei prodotti consumati (e una conseguente diminuzione dei prodotti freschi e tradizionali). Il progresso tecnologico ha permesso l'introduzione e la diffusione sul mercato di nuovi processi di conservazione degli alimenti e la creazione di nuovi prodotti: i nuovi processi di congelazione e surgelazione degli alimenti permettono ad esempio di rendere disponibili sul mercato prodotti durante tutto l'anno, sottraendoli alla stagionalità derivante dalla “natura biologica” della produzione agricola. Lo sviluppo tecnologico ha così contribuito a “saldare” le punte di domanda con le punte di offerta dovute alla biologicità delle produzioni. I progressi compiuti dalla ricerca (condotta soprattutto dalle industrie chimico- farmaceutiche) hanno consentito la creazione di veri e propri prodotti alimentari “nuovi” realizzati attraverso mix di diversi ingredienti. Importantissimi sono anche gli “alimenti integrati”, soprattutto nelle diete delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, basate spesso su pochi prodotti e dunque suscettibili di determinare carenze vitaminiche o proteiche. L'insieme di queste tendenze determina (ma allo stesso tempo è determinato da) 75 La qualità del vino Quando la decisione di acquisto è stata presa, generalmente l’individuo stabilisce l’ammontare da spendere e ricerca la migliore qualità in base alle informazioni in proprio possesso. Ogni consumatore al momento dell’acquisto si posiziona in un certo segmento del mercato a seconda della propria disponibilità a pagare. La differenziazione del prodotto può essere orizzontale: si fa riferimento alla tipologia (bianco, rosso, rosé, spumante, liquoroso, etc.). Per differenziazione verticale ci si riferisce alla qualità del vino. Fin dall’antichità sono coesistite due viticolture e due enologie: ordinaria, fatta di vini comuni destinati alla massa (“jug” o “basic wine” in inglese), alto livello fatta di vini pregiati (“premium wine”) destinati a nobili ed ecclesiastici prima e all’alta borghesia poi. Se in passato la produzione di vini di alta gamma era molto contenuta, col passare del tempo è cresciuta al pari del potere d’acquisto della popolazione, sicché una classificazione fondata su una mera distinzione dicotomica vini comuni vs vini fini è divenuta insufficiente. Nel corso del tempo sono state elaborate varie classificazioni fondate sul prezzo che assumono implicitamente una forte correlazione positiva tra quest’ultima variabile e la qualità del prodotto. La Rabobank, per esempio, considera vini “basic” quelli con prezzo inferiore a 5 dollari, “premium” quelli che vanno da 5 a 7,99, “Super-Premium” da 8 a 13,99, “Ultra-Premium” da 14 a 49,99 e “Icon” oltre i 50. Alcune cantine vinicole si specializzano in un solo segmento – per esempio i vini di massa o quelli di altissimo livello – ma sempre più aziende differenziano la produzione sia in senso orizzontale che verticale per raggiungere nuovi acquirenti e diversificare il rischio, mettendosi così parzialmente al riparo dai repentini cambi nei gusti e nei consumi. Nonostante l’attuale sfruttamento del vigneto ne abbia accorciato la durata, il ciclo di vita della vite può raggiungere i 70 anni. Vista l’entità degli investimenti necessari per piantare una vigna, essere costretti a riconvertire l’intera produzione a metà o a un terzo del ciclo vitale può compromettere la stabilità finanziaria dell’impresa. A ogni modo, dal momento che la qualità è uno degli elementi chiave nella scelta del vino è importante identificare le variabili che la influenzano. Gli studi in materia utilizzano principalmente i giudizi degli esperti contenuti nelle guide dei vini di famosi assaggiatori quali Robert Parker, Hugh Johnson e Luigi Veronelli. Prima di procedere alla rassegna della letteratura sono necessarie tre precisazioni. In primo luogo, nelle guide dei vini il campione analizzato non è rappresentativo dell’universo di riferimento: i vini comuni venduti nei supermercati tendono a essere esclusi. Vi è, dunque, un forte sbilanciamento a favore dei prodotti di gamma medio-alta acquistati soprattutto nel canale Ho.Re. Ca. (Hotel, Restaurant and Catering). A tal proposito, però, non vi sono – salvo poche eccezioni – motivi per ritenere che le variabili che influenzano la qualità dei vini di gamma superiore non debbano influenzare nella stessa direzione anche quelli di gamma inferiore. Secondariamente, l'affidabilità dei giudizi delle guide. Le valutazioni, infatti, possono essere influenzate da gusti e preferenze personali: Castriota et al. (2013) utilizzando dati provenienti dalla Guida dei Vini di Veronelli dal 2004 al 2009 dimostrano che i giudizi dei valutatori sono condizionati da due tipi di distorsioni soggettive, ovvero la generosità e le preferenze nei confronti di alcune caratteristiche del prodotto. Nonostante ciò, le valutazioni dei sommelier seguono delle regole ormai consolidate a livello internazionale e nel tempo hanno dimostrato la propria affidabilità. Terzo elemento, l’utilizzo delle valutazioni sensoriali (es. persistenza del gusto o livello di acidità) come determinanti dei giudizi di qualità nelle regressioni econometriche: la relazione tra giudizio dei degustatori e variabili sensoriali non è interessante da un punto di vista economico. Per questo motivo ci concentreremo sulle variabili inerenti: il territorio, le tecniche agronomiche ed enologiche e le caratteristiche aziendali. IL TERRITORIO/TERROIR “La qualità è collegata al terroir, la quasi mistica combinazione di terreno, paesaggio, microclima, precipitazioni e tecniche di coltivazione che i Francesi credono appassionatamente conferisca al vino di ogni regione – o addirittura di ogni vigna – il proprio carattere unico” (Bartlett, 2009) Il terreno svolge un ruolo fondamentale. L’influenza della composizione e struttura chimico- fisico- microbiologica del terreno nonché della genetica del portainnesto sono stati ampiamente studiati dagli 76 agronomi e dagli enologi.Lo stesso vitigno piantato in due diverse parti del mondo può dare, infatti, risultati completamente differenti anche a parità di clima e tecniche produttive. Un altro elemento fondamentale del territorio è il clima, capace di influenzare temporaneamente o strutturalmente la qualità del vino. Alcune zone, infatti, godono di un clima molto stabile, altre garantiscono mediamente la produzione di vini di qualità anche se l’incertezza nelle condizioni atmosferiche – soprattutto nel periodo della vendemmia – rende variabile il risultato da un anno all’altro, altre ancora sono poco vocate e non hanno speranze di eccellere. LE TECNICHE AGRONOMICHE ED ENOLOGICHE Gli investimenti in vigna e in cantina sono costosi, ma generano sostanziali miglioramenti nella qualità del vino prodotto. La lista di tecniche e innovazioni potenzialmente rilevanti è lunga: la rilevanza di variabili agronomiche quali il numero dei ceppi per ettaro e dei grappoli per vite, la profondità delle radici e la resa per ettaro, emerge un rapporto di scambio (trade-off ) tra quantità e qualità: all’aumentare della resa per ettaro la qualità del vino diminuisce inesorabilmente. Le tecniche di vinificazione sono altrettanto importanti. (es. durata dell’invecchiamento, l’utilizzo di botte o barrique (botte da 225 litri), l’incremento del contenuto alcolico). LE CARATTERISTICHE AZIENDALI Questo gruppo di variabili comprende l’età, la dimensione e la struttura proprietaria dell’impresa vinicola. L’età dell’azienda può influire positivamente sulla qualità se è correlata con l’età delle vigne dal momento che quelle più vecchie – con più di 30 o 40 anni – vedono diminuire la produttività e aumentare la qualità. Inoltre, gli agronomi e gli enologi sperimentano tecniche e prodotti e imparano dai propri errori (“learning by doing”, imparare facendo). La dimensione aziendale, misurata con le bottiglie prodotte oppure con gli ettari di proprietà o coltivati, può esercitare un effetto positivo sulla qualità media del vino dato che le grandi imprese hanno maggiori disponibilità economiche e possono adottare su larga scala innovazioni tecnologiche che abbattono i costi o innalzano la qualità 24. È, però, anche vero il contrario: vi potrebbe essere una relazione negativa tra dimensione dell’impresa e qualità media vista la difficoltà crescente a collocare sul mercato prodotti di alta gamma caratterizzati da prezzi inaccessibili alla maggioranza delle persone. Quanto alla struttura proprietaria, le aziende possono essere società private, società pubbliche, cooperative, fondazioni o far parte di un gruppo di imprese. Nelle società private il controllo dell’intera catena produttiva e, quindi, della qualità è nelle mani del proprietario che può perseguire un determinato livello qualitativo in base al segmento di mercato in cui ha deciso di collocarsi. Un aspetto importante che può influire sulla qualità del vino riguarda la separazione tra proprietà e gestione (management), dal momento che il proprietario ha tutto l’interesse a gestire al meglio l’azienda ma non è detto che ne abbia le capacità (o, perlomeno, che sia la persona più adatta). Nelle imprese pubbliche il controllo della catena produttiva è nelle mani dell’azienda, ma spesso non esistono meccanismi che incentivano i manager a perseguire risultati in termini qualitativi e quantitativi come avviene nelle società private. Le cooperative hanno il pieno controllo della produzione solo in cantina, nella fase della vinificazione, dal momento che le scelte in materia di tecniche e macchinari per la lavorazione delle uve sono una prerogativa del management. La fase a monte, invece, ovvero quella agronomica della produzione delle uve, è decentralizzata e delegata ai singoli soci-proprietari terrieri. Questi ultimi devono rispettare una serie di istruzioni e regole impartite dalla cooperativa, ma sono soggetti a un forte incentivo a comportarsi in modo opportunistico dal momento che i costi di coltivazione ricadono interamente sull’individuo mentre i guadagni derivanti da una qualità superiore delle uve vengono ripartiti in modo uguale tra tutti i soci, indipendentemente dai meriti di ciascuno. I prezzi del vino Il vino è un prodotto esperienza: la qualità la si scopre solo al momento del consumo. L’acquirente può fare affidamento su informazioni che, però, sono costose da acquisire ed elaborare. Il consumatore si affida a segnali quali: il prezzo, le informazioni in etichetta e i giudizi degli esperti. 77 Buona parte della teoria economica considera che il prezzo rifletta la struttura del mercato, ma il prezzo può essere utilizzato anche come strumento di marketing, per esempio quando influenza la percezione della qualità da parte dei consumatori. Il tema della reputazione e dei segnali è particolarmente rilevante. La letteratura economica ha mostrato come a correlazione tra qualità sensoriale e prezzo non è necessariamente forte. Vari elementi – come i costi di produzione, la qualità passata/reputazione e le campagne di marketing – possono influenzare la disponibilità a pagare dei compratori (lato della domanda) e i prezzi praticati dai produttori (lato dell’offerta). Occorre analizzare le determinanti dei prezzi al netto della qualità. Da un punto di vista economico, infatti, ciò che più interessa è identificare le variabili che, a parità di qualità del prodotto, contribuiscono ad aumentare o diminuire il prezzo dello stesso. Gli studi empirici hanno dimostrato che i prezzi del vino dipendono dai seguenti fattori (Castriota, 2015): - qualità del prodotto; - tipo di vino; - vitigno; - annata; - invecchiamento; - potenziale di invecchiamento; - tecnologia; - aspettative sulla qualità; - appartenenza a una denominazione di origine/area geografica; - sistema di classificazione stabilito dalle pubbliche autorità; - produzione biologica/biodinamica; - dimensione aziendale. I canali attraverso cui queste variabili incidono sul prezzo del vino sono essenzialmente cinque: 1. qualità, 2. preferenze dei consumatori, 3. costi di produzione, 4. scarsità, 5. reputazione Le preferenze dei consumatori per le tipologie di prodotto possono, inoltre, differire da un paese all’altro anche in funzione delle condizioni climatiche e mutare nel tempo in base alle mode. Stesso discorso vale per i vitigni, che hanno rese e costi di produzione diversi e possono salire o scendere nelle preferenze dei consumatori. L’OFFERTA DEI PRODOTTI AGRICOLI E IL MUTAMENTO DELL'AGRICOLTURA L’analisi dell’offerta dei prodotti agricoli Per “offerta aggregata” si intende l'offerta del settore agricolo relativa a un determinato territorio (che può essere una nazione o una sua parte, un insieme di nazioni ecc.); essa non coincide con la semplice somma delle funzioni di produzione delle singole aziende a causa della rigidità nell'offerta di input. Si può considerare indifferentemente l'offerta aggregata di un singolo prodotto oppure quella complessiva di tutte le produzioni agricole. L’analisi dell’offerta dei prodotti agricoli è di grande importanza per l'individuazione delle cause del cosiddetto “problema agricolo”, ovvero delle specificità del primario. Essa, infatti, consente di spiegare le interrelazioni tra il sistema dei prezzi e le produzioni, e per questa via il funzionamento dei mercati. Ciò consente di evidenziare le determinanti della disparità tra il livello dei redditi agricoli e quello degli altri settori, e del permanere del fenomeno della sottoremunerazione dei fattori produttivi impiegati in agricoltura. 80 Un’ulteriore spiegazione della rigidità dell’offerta si fonda sulla particolare struttura dei costi delle aziende agricole, caratterizzata da una incidenza dei costi fissi molto elevata rispetto ai costi variabili. Infatti, la maggior parte delle aziende agricole non impiega lavoro salariato a tempo indeterminato, e il lavoro dell'agricoltore e dei familiari può essere considerato fisso a causa della mancanza di alternative occupazionali di breve periodo e dei legami di carattere non economico che l'agricoltore stringe con la propria attività (ciò a differenza delle aziende industriali, ove spesso i salari sono il costo variabile più importante); essendo anche i costi dei macchinari, della terra e degli investimenti fondiari considerabili “fissi” nel breve periodo e mancando o essendo solitamente trascurabili i costi relativi agli acquisti di materie prime (tipici invece delle aziende industriali), spesso i costi variabili sono costituiti solo da mangimi, fertilizzanti, sementi, antiparassitari, energia, e dunque incidono relativamente poco rispetto all’incidenza dei costi fissi sul costo totale. FIGURA 8: CURVE DEI COSTI DELL'AZIENDA AGRICOLA Dalla teoria economica è noto come l'imprenditore, dati i costi fissi, sarà spinto a restare sul mercato (attivando cioè i processi di produzione) anche se il prezzo unitario del prodotto finito scende al di sotto del costo totale medio, e non cesserà la propria attività fino a quando il prezzo di mercato resta comunque superiore al costo variabile medio: essendo quest'ultimo, come si é visto, una piccola parte del costo totale, ogni singola azienda continuerà a produrre fino a che non si verifichino riduzioni molto for- ti e durevoli dei prezzi di vendita (ad esempio nella figura Curve dei costi dell'azienda agricola l'agricoltore continuerà a produrre anche con un prezzo minore di P1 e finché esso non scende a P2 o a livelli inferiori). Al contrario un aumento dei prezzi agricoli stimola, dopo un certo intervallo di tempo, maggiori investimenti a livello di ogni sin- gola azienda ed anche l'ingresso di nuove aziende nel settore. Si può dunque concludere che la curva di offerta può assumere la forma descritta nella figura Curva di offerta a doppia inclinazione; essa sarebbe cioè dotata di una certa elasticità rispetto agli aumenti dei prezzi, ma molto più rigida alla diminuzione degli stessi. Questo fatto, unito alla tendenza all'aumento della produttività agricola dovuta al progresso tecnologico e alla staticità della domanda, é causa dei frequenti crolli dei prezzi agricoli e, più in generale, del loro basso livello. Questo modello però, pur essendo valido per una spiegazione di breve periodo, non riesce a spiegare la tendenza alla stabilità o alla crescita della produzione aggregata nel lungo periodo (quando cioè nessun fattore produttivo può essere considerato fisso). Le trasformazioni dell’agricoltura Il processo di sviluppo dell'agricoltura nelle economie avanzate segue percorsi articolati. La trasformazione dell'economia, la crescente apertura dei mercati, l'introduzione di innovazioni hanno portato l'agricoltura a mutare aspetto e funzioni nel tempo e nello spazio, dando origine a diverse modalità di integrazione all’interno nel sistema economico e della società. Negli ultimi decenni nelle economie avanzate il settore agricolo ha subito una rapida accelerazione del suo processo evolutivo, che ha comportato da un lato una forte contrazione del numero di aziende agricole presenti sul territorio, e dall’altro un cambiamento della natura e dell’organizzazione dei processi 81 produttivi attivati, con una progressiva espulsione di fasi del processo produttivo “tradizionale”, e contemporaneamente all’acquisizione di nuove fasi e funzioni, in un processo di “frantumazione” e “ricomposizione” di attività, attivando e disattivando relazioni e flussi a livello locale e a livello globale. Questo processo di ristrutturazione dell’azienda agricola e del settore nel suo complesso è stato accompagnato, assecondato, stimolato, talvolta ritardato, dalle politiche agricole messe in atto dall’operatore pubblico ai vari livelli. In questo contesto un ruolo di primo piano negli ultimi cinquant’anni è stato giocato in Europa dalla Politica Agricola Comunitaria (PAC) che, sia per l’importanza “economica” delle risorse destinate al settore agricolo, per la sua innegabile importanza “politica” nell’ambito del processo di costruzione di un’Europa unita, ha inciso profondamente sui cambiamenti strutturali dell’agricoltura. Negli ultimi cinquant’anni l’agricoltura ha visto trasformare profondamente i propri caratteri strutturali e assetti organizzativi, sia a livello di singola azienda/impresa che a livello di settore agricolo e di sistema agro- industriale. Di pari passo con cambiamenti più generali che hanno interessato il sistema economico e la società, sono mutate, seppur con livelli e ritmi differenziati tra tipologie aziendali e aree territoriali, le modalità di connessione delle imprese agricole sia con gli altri operatori che a vario livello concorrono alla realizzazione dei prodotti agro-industriali per il mercato finale (settore fornitore di input, trasformazione di prodotti agricoli, commercializza- zione e distribuzione, servizi, operatore pubblico), sia le modalità di interrelazione dell’impresa agricola a livello territoriale, a causa del modificarsi delle strutture economiche e istituzionali delle aree rurali. Le trasformazioni profonde del primario subiscono una forte accelerazione a partire dalla seconda metà del Novecento. Negli anni ’60 il tumultuoso processo di (re)industrializzazione dei sistemi economici induce un rapido cambiamento: le città (le industrie) drenano risorse finanziarie e soprattutto umane dalle aree rurali (esodo agricolo e rurale), le più marginali e svantaggiate delle quali subiscono diffusi fenomeni di spopolamento, con gravi conseguenze economiche, sociali, culturali e ambientali. Questi fenomeni portano a considerare in modo crescente le aree rurali come “aree problematiche” in quanto arretrate o a rischio di arretratezza, oggetto di specifici bisogni che non sono semplicemente quelli dello sviluppo dell’attività agricola: la senilizzazione della popolazione, la carenza di servizi di prima necessità, il degrado ambientale e paesaggistico nonché sociale e culturale sono i problemi che assumono un crescente rilievo all’attenzione dei policymakers. L’attenzione e gli sforzi erano riposti nel garantire il sostegno al processo di industrializzazione, nell’ambito del più generale sforzo di “modernizzazione” del sistema economico (e sociale). Puntare sull’industria e adottare in tutti i settori dell’economia i principi base del modello di sviluppo industriale (sistema di fabbrica, specializzazione, economie di scala, tecnologie capital-intensive, etc.) appariva chiaramente come la chiave del “progresso” della nazione. In questo periodo si assiste dunque anche alla massima diffusione del modello della “modernizzazione” in agricoltura (“produzione di massa”), che implica una particolare organizzazione delle attività all’interno dell’impresa agricola, con la crescente introduzione di innovazioni tecnologiche di tipo capital-intensive e con lo sviluppo delle attività industriali connesse all’attività agricola (settori fornitori di input e della trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli). In effetti la maggior parte degli studiosi, constatando come la continua perdita di importanza del settore agricolo sia caratteristica della crescita delle moderne economie industriali, ha per molto tempo ritenuto che il processo di crescita dovesse necessariamente passare attraverso una progressiva “marginalizzazione” del settore agricolo (il cui peso eccessivo all'interno del sistema economico non costituiva che un ostacolo) a vantaggio del settore industriale, il quale appariva dunque il solo capace di far crescere l'economia a tassi sostenuti. Nell'evoluzione del pensiero economico, la fiducia riposta nelle capacità e nei possibili contributi che il settore agricolo era in grado di fornire al processo di crescita era andata diminuendo in linea con l'effettivo contributo di questo settore all'economia dei paesi avanzati in termini di occupazione e di valore aggiunto. L'agricoltura veniva sempre più relegata al ruolo di fornitrice di manodopera a buon mercato agli altri settori, e di produttrice di alimenti a prezzi decrescenti per l'intero sistema economico. Si trattava dunque di un ruolo passivo, di "serbatoio" di risorse a cui dovevano attingere gli altri settori, e non già di un ruolo attivo, di "motore" della crescita. Affinché il settore agricolo potesse assolvere il suo ruolo di produzione di alimenti a basso costo occorreva aumentare la produttività delle risorse. L’aumento della produttività poteva essere raggiunto grazie all’adozione di un modello di produzione agricolo che sposasse appieno i principi della 82 modernizzazione (o industrializzazione dei processi) anche nei processi produttivi dell’agricoltura (modernizzazione agricola). Le funzioni del settore agricolo nell'economia nel periodo della modernizzazione: 1. Aumentare l'offerta di prodotti alimentari, al fine di soddisfare la domanda in quantità e qualità della popolazione. Le quantità prodotte devono essere offerte a prezzi sempre più bassi in modo da rendere accessibili i prodotti alimentari anche agli strati più poveri della società; inoltre l'aumento dell'offerta indotto dal progresso tecnologico, nella misura in cui si trasmette in una diminuzione dei prezzi agricoli, conduce ad un aumento del reddito reale dei lavoratori degli altri settori, garantendo un adeguato saggio di accumulazione del capitale industriale e rendendo possibile l'aumento del consumo e del risparmio. 2. Produrre alcune materie prime per il settore agro-industriale (ad esempio caucciù, cotone, legname), contribuendo allo sviluppo di altre attività collegate a monte e a valle e creando così occupazione e nuova ricchezza. 3. Creare un flusso di esportazioni capace di finanziare l'acquisto dall'estero di mezzi di produzione o di prodotti alimentari. Anche per le economie dei paesi avanzati, il contributo del settore agricolo alla bilancia commerciale può raggiungere livelli elevati, soprattutto se nel settore agricolo si ricomprende non solo l'agricoltura in senso stretto ma anche l'attività di trasformazione e commercializzazione collegata a valle. 4. Cedere forza-lavoro al settore extra-agricolo, tanto che, soprattutto nelle prime fasi del processo di crescita economica, tale settore è spesso considerato soltanto come "serbatoio di manodopera". Si fa notare infatti come nell'agricoltura siano presenti fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione nascosta e che quindi é possibile liberare manodopera da questo settore senza causare nel contempo una diminuzione della produzione complessiva, reimpiegandola in maniera produttiva nel settore industriale e contribuendo così al processo di accumulazione del capitale industriale; 5. Formare capitale e trasferirlo verso gli altri settori: come nel caso della cessione di forza lavoro, la sua rilevanza decresce tuttavia col procedere dello sviluppo stesso, in dipendenza della diminuzione del peso dell'agricoltura nel PNL, fino a diventare poco significativa nelle economie avanzate. Gli strumenti attraverso i quali si opera questo trasferimento sono principalmente la creazione di risparmio extra-agricolo e il trasferimento di reddito diretto tra i settori. Il primo strumento opera attraverso l'aumento del reddito reale extra-agricolo derivante dalla diminuzione dei prezzi dei generi alimentari; il secondo può agire sia tramite la libera iniziativa dei risparmiatori e degli investi- tori che per mezzo dell'azione governativa la quale, con opportune forme di redistribuzione, può far sì che il sostegno pubblico all'agricoltura risulti inferiore ai prelievi di carattere tributario e non tributario operati su di essa; 6. Fornire un mercato di sbocco per i prodotti del settore extra-agricolo: lo sviluppo delle relazioni intersettoriali non é ovviamente caratteristica esclusiva del settore agricolo (qualsiasi settore si sviluppi più rapidamente degli altri agisce da "locomotiva" per l'intera economia) ma, considerato che nella maggior parte dei casi é l'agricoltura il primo settore che compare sulla scena economica, é chiaro che spetta in modo particolare ad essa il ruolo di guida nelle fasi iniziali. L'accresciuto potere d'acquisto che può derivare dall'aumento di produzione del settore agricolo si riflette dunque in un aumento della domanda verso gli altri settori, sia di beni di consumo che di mezzi tecnici e beni di investimento. Le specificità agricole erano dunque interpretate come vincolo da eliminare al più presto sia per quanto riguarda i processi produttivi, sia per le forme di conduzione che per i prodotti. IL SISTEMA AGROALIMENTARE ITALIANO Economia e agricoltura L’Italia si estende per una lunghezza di 1.200 chilometri, su una superficie complessiva ammonta a 302.073 chilometri quadrati. Il territorio montano rappresenta il 35,2% della superficie nazionale, quello collinare il 41,6%, la parte classificata come pianura il 23,2%. Con una densità media di poco meno di 200 abitanti per kmq l’Italia è il quarto paese dell’Unione europea per popolazione (dopo Germania, Francia e Regno Unito) rispetto a una media UE-28 di 112,7 abitanti per km2. Il 20,3% della popolazione italiana vive in aree prevalentemente rurali (Istat, 2015). 85 La struttura del settore agroalimentare e il comportamento delle diverse imprese che vi operano dipende anche dall’ambiente socio-culturale e istituzionale di riferimento. - Le attuali caratteristiche del settore agroalimentare derivano dai diversi cambiamenti intervenuti in relazione ad alcune importanti fasi dello sviluppo delle economie occidentali. Storicamente il settore che ha risposto ai bisogni alimentari è stato l’agricoltura e solo recentemente si è sviluppato il ruolo dell’industria e della distribuzione alimentare. Per grandi linee è possibile individuare le seguenti fasi nell’evoluzione del comparto alimentare. - Una fase originaria dove la produzione e il consumo alimentare si presentavano esclusivamente su base locale con una dieta fortemente legata alle capacità produttive agricole di un territorio. - Una fase di apertura commerciale caratterizzata dal progressivo aumento degli scambi di derrate di base a livello territoriale ancora circoscritto (i mercati medioevali e successivi) ed, in seguito, dall’apertura degli scambi internazionali relativamente a derrate speciali (spezie e affini) a partire dallo sviluppo dei grandi traffici marittimi nel sedicesimo secolo. - Una fase di pre-industrializzazione del settore agroalimentare, che vede la progressiva specializzazione territoriale delle fasi di produzione e consumo alimentare, in connessione con la concentrazione urbana e la maggiore specializzazione produttiva connessa ai primi stadi della rivoluzione industriale a partire dal diciottesimo secolo. In tale fase nasce nella sua forma pre-moderna il settore della distribuzione alimentare aiutato dal progressivo sviluppo dei trasporti. - Una fase di allargamento degli scambi su base prevalentemente regionale che risponde all’affermarsi dell’assetto moderno del rapporto città-campagna e alle esigenze di divisione del lavoro e organizzazione socio-economica richiesti dalla fase di sviluppo industriale delle economie occidentali. - Una fase di modernizzazione caratterizzata da: la diffusione su larga scala delle tecniche industriali di conservazione e trasformazione degli alimenti (nasce la moderna industria alimentare); la spinta industrializzazione dell’agricoltura con l’introduzione su larga scala della chimica e della meccanizzazione; - un progressivo aumento degli scambi internazionali con la tendenza ad una specializzazione territoriale della produzione; -l’affermazione dei consumi di massa. Una fase di terziarizzazione e internazionalizzazione. - L’attuale fase di transizione caratterizzata dalla coesistenza di fenomeni contraddittori: la globalizzazione dei consumi e la difesa dei prodotti tipici; la ricerca del basso costo e della differenziazione; la concentrazione della GDO e l’e-commerce; l’estrema industrializzazione del settore agricolo (con la chimica affiancata dalla biotecnologia) e lo sviluppo dell’agricoltura biologica. Il settore primario è soprattutto un settore fornitore di materie prime che vengono successivamente trasformate o variamente elaborate dall’industria di trasformazione per passare al settore distributivo che le convoglia ai consumatori finali ma anche, ed in misura crescente, ai ristoranti ed agli altri operatori della ristorazione collettiva, dal momento che il numero dei pasti consumati fuori casa è cresciuto enormemente nel nostro paese di pari passo con la crescita del reddito procapite e con il cambiamento delle abitudini di vita, di lavoro, di organizzazione interna alle famiglie. Il settore agricolo è inserito in una pluralità di relazioni commerciali con imprese, istituzioni, partner di natura anche molto diversa gli uni dagli altri. L’intensità di queste relazioni e le modalità con le quali avvengono sono determinanti per i risultati economici delle imprese agricole e di tutti i soggetti interagenti; ma sono anche determinanti in termini di capacità del tessuto produttivo di offrire i beni alimentari , ed i servizi connessi, in quantità e qualità conformi alle richieste dei consumatori e, più in generale, ai bisogni della società. Con il termine filiera si indica l’insieme di tutte le imprese/soggetti che, a qualsiasi titolo, partecipano alla realizzazione di un bene. In generale, le fasi più a monte includono “l’apporto” delle materie prime e quelle più a valle includono “l’approdo” al consumatore finale. Nel “gergo” di analisti e studiosi, i soggetti (non solo imprese) che partecipano ad una filiera si chiamano anche stakeholder a sottolineare che si tratta di portatori di interessi. Le filiere agroalimentari possono includere, oltre ai produttori di materie prime, trasformatori cosiddetti di I, II, III livello e oltre; grossisti, commercianti ed intermediari ai diversi livelli, distributori, esportatori, importatori, consulenti, esperti, professionisti sia dell’area tecnica che commerciale/legale. In relazione alla loro configurazione, le filiere possono essere definite come: lunghe o corte in riferimento al numero di passaggi necessari per giungere al consumatore finale ma anche in riferimento al numero di kilometri percorsi da materie prime, semilavorati e prodotto finito; locali/regionali/nazionali/ globali, in relazione alla localizzazione geografica dell’intero processo; filiere a composizione stabile/ 86 variabile in relazione alla mutevolezza nel tempo dei soggetti che vi partecipano ed al tipo di relazioni che questi stabiliscono. Il made in Italy, l’insieme dei prodotti individuati dai consumatori come tipici del nostro paese, prosegue nel 2014 il trend di lieve peggioramento, perdendo l’1,4% in termini di saldo normalizzato, risultato dal lieve aumento del saldo del- le importazioni e dal lieve peggioramento del saldo delle esportazioni. In particolare, alla flessione contribuisce la parte dei prodotti trasformati, punto di forza del nostro settore agroalimentare, per i quali il valore del saldo normalizzato si attesta al 63,1%, peggiorato rispetto al 2013 del 2%. A questo risultato concorrono dinamiche di crescita di entrambi i flussi che risultano però più accentuati per le importazioni (+10,6%) che per le esportazioni (+3%). Per quanto riguarda i prodotti agricoli tipici del nostro paese, il saldo normalizzato rimane stabile da un anno all’altro, attestandosi al 59%. I prodotti con la dinamica più rilevante per il settore agricolo sono i cereali, che guadagnano il 48% tra il 2013 e il 2014, totalmente attribuibile all’aumento dei volumi esportati. Per il settore dei prodotti trasformati, le essenze riportano una crescita delle esportazioni del 29,8%, an- che in questo caso con una influenza preponderante della componente quantità, seguite dall’incremento del riso (+8,6%), favorito dall’aumento del prezzo, mentre il vino sfuso perde il 17,8% a causa della flessione del prezzo. Come valori assoluti, i prodotti che vantano la migliore performance nel 2014 per le tre categorie del made in Italy, agricolo, trasformato e industria, sono come nel 2013 la frutta fresca, il vino confezionato e la pasta. LA DISTRIBUZIONE AGROALIMENTARE La nascita del sistema agroalimentare moderno I grossisti costituiscono il legame tra agricoltura e industria/distribuzione, e tra industria e distribuzione/Ho.Re.Ca. (Hotel, Ristoranti, Catering). I grossisti acquistano le merci dai produttori (agricoli o industriali) per rivenderle al dettaglio, ma ci sono anche grossisti che assicurano i rapporti interindustriali o tra agricoltura e industria. L’attività di un grossista connette il mercato e gli scambi, concentrando le partite di più fornitori, garantendo una funzione di finanziamento e di conservazione, operando una selezione delle partite e una classificazione per gruppi omogenei, garantendo il rifornimento di altri operatori intermedi o finali. Il grossista non vende al consumatore finale. Nel settore alimentare, le imprese di ingrosso economicamente più rilevanti sono normalmente despecializzate; seguono poi i grossisti di ortofrutta fresca, ovvero prodotti pronti al consumo che non necessitano trasformazione, dove le stesse imprese di ingrosso provvedono alla classificazione, confezionamento e fornitura dei servizi logistici, particolarmente delicati a causa della natura deperibile di questi prodotti (ortofrutta fresca, ma anche per latte e derivati, carne). Germania, Francia, Regno Unito, Spagna e Italia sono i paesi più importanti per quanto riguarda il fatturato delle imprese grossiste. La dimensione economica delle imprese è mediamente più contenuta all’interno dei paesi mediterranei (Portogallo, Spagna, Italia). Normalmente i paesi dove la moderna distribuzione è più sviluppata mostrano anche imprese all’ingrosso di più rilevante dimensione economica media, e un conseguente numero inferiore di imprese grossiste: la concentrazione nella distribuzione finale, cioè, porta ad una concentrazione nel settore all’ingrosso. Tuttavia, progressivamente, la concentrazione nel settore dell’industria alimentare e nella distribuzione, e lo sviluppo nei sistemi di interfaccia informatici e logistici tra le grandi imprese del sistema agroalimentare, tenderà ad esercitare una pressione alla contrazione del numero dei grossisti. Molto spesso, nel sistema agro-alimentare, le imprese grossiste operano all’interno di strutture collettive, in Italia soprattutto pubbliche, utili per rendere più efficienti i processi di commercializzazione dei prodotti o per fornire maggiori garanzie ai clienti e ai consumatori finali: i mercati all’ingrosso (spesso denominati “mercati annonari” o “mercati generali”) sono strutture per la vendita all’ingrosso di prodotti deperibili (ortofrutta, carni, pesce, ecc.). Fisicamente sono costituiti da una serie di magazzini, di piazzali, di celle frigorifere, di locali destinati alla contrattazione o nei quali vengono prestati i servizi comuni per gli operatori del mercato, situati gli uni accanto agli altri, secondo un progetto unitario, costituendo un’unica struttura integrata. La realizzazione e la gestione dei mercati generali sono affidate nella maggior parte dei casi ai Comuni o, comunque, ad Enti Pubblici, che devono garantire che la fase di 87 commercializzazione all’ingrosso dei prodotti oggetto di contrattazione si svolga secondo modalità coerenti all’interesse generale. Le funzioni dei mercati all’ingrosso sono principalmente: - Intermediazione: collegamento tra produzione e consumo e coordinamento degli scambi attraverso una rapida rotazione del prodotto; - Assortimento: composizione di assortimenti orizzontali e verticali. Completamento della gamma della merce in vendita attraverso la contrattazione dell’offerta. - Prezzo: “scoperta” del prezzo: le contrattazioni nel mercato portano infatti alla formazione del prezzo di mercato (per molti prodotti, non per tutti) e fanno da riferimento per le contrattazioni “fuori mercato”. - Servizi: stoccaggio, assicurazione, imballaggio e confezionamento, trasporto, strutture per la contrattazione (es. aste), listini prezzi, informazione sull’andamento dei mercati. LE PRINCIPALI TIPOLOGIE DEI MERCATI ALL’INGROSSO 1. Mercati generali alla produzione: localizzati vicino ai luoghi di produzione (zone agricole per i mercati ortofrutticoli o floricoli, zone di allevamento per i macelli pubblici, porti pescherecci per i mercati del pesce, ecc.). In qualità di offerenti troviamo i produttori (aziende agricole, allevatori, ecc.), le loro cooperative (che hanno la possibilità di concentrare e diversificare l’offerta, specie quando i produttori sono costituiti da micro- imprese) e i cosiddetti grossisti raccoglitori, vale a dire operatori commerciali che si presentano sul mercato dopo aver effettuato la necessaria opera di selezione e concentrazione delle partite offerte dai piccoli produttori della zona. Gli acquirenti tipici sono rappresentati da imprese all’ingrosso specializzate, che si approvvigionano di questi articoli nelle zone di produzione per collocarli in seguito nelle zone di consumo, in Italia o all’estero. 2. Mercati generali al consumo. Localizzati in prossimità dei grandi centri di consumo (aree metropolitane, zone intensamente abitate, ecc.) e presentano in qualità di offerenti gli stessi operatori all’ingrosso specializzati che agiscono da acquirenti nei mercati alla produzione. Gli acquirenti tipici sono invece costituiti dalle imprese commerciali al dettaglio che gestiscono punti di vendita localizzati nella zona di attrazione del mercato. Tra i clienti dei mercati generali al consumo non vi sono solo dettaglianti di tipo tradizionale, ma anche imprese della DO (in diminuzione). 3. Mercati generali di redistribuzione: sorgono in località baricentriche rispetto ad ampi bacini di mercato e molto ben collegate dal punto di vista del sistema dei trasporti. La loro funzione principale, come suggerisce il loro stesso nome, è quella di fare da elemento di collegamento tra le località di produzione e di consumo, con frazionamenti, accorpamenti, ricondizionamenti delle partite a seconda delle esigenze dei differenti mercati da servire. Gli operatori che agiscono al loro interno sono essenzialmente grossisti specializzati, sia in posizione di venditori che di compratori. 4. Mercati generali misti: strutture nelle quali vengono svolte contestualmente le funzioni caratteristiche di più di una delle tipologie di mercati annonari in precedenza ricordati. L’evoluzione del sistema agroalimentare, e in particolare la forte crescita delle imprese della moderna distribuzione, hanno contribuito in larga misura ad evidenziar nei principali fattori di criticità dei mercati all’ingrosso: - strutture: in molti mercati vi sono notevoli carenze alle strutture, spesso vecchie e obsolete, localizzate nei centri storici, con carenze nell’accesso e nei punti di sosta, nelle strutture di conservazione e condizionamento, nella capacità di fornire servizi; - dimensione: dimensioni limitate frenano le possibilità di adeguamento alle esigenze dei mercati moderni, ostacolando il collegamento domanda-offerta; - concorrenza di nuove strutture: sviluppo di piattaforme logistiche extra-mercato, facenti capo ad Organizzazioni di produttori o alle imprese della moderna distribuzione (Ce.Dis.). Queste pressioni competitive e carenze strutturali e organizzative hanno fatto sì che nel corso degli ultimi anni molti mercati abbiano dovuto chiudere (in particolare quelli localizzati all’interno delle aree urbane e di dimensione operativa più contenuta), mentre altri, in particolare i mercati generali all’ingrosso di maggiori dimensioni e localizzati nelle zone più dinamiche del Paese, hanno proceduto ad una ristrutturazione e riorganizzazione, offrendo nuovi servizi anche per le imprese della moderna distribuzione e interfacciandosi meglio con gli altri operatori e i servizi logistici del sistema agro- alimentare. 90 transitano non solo le merci confezionate e conservabili, ma anche i prodotti freschi più deperibili, come ad esempio i prodotti ortofrutticoli. Il modello gestionale adottato dalle imprese della GDO contribuisce a ridurre la segmentazione spaziale dei mercati anche per quei prodotti tradizionalmente più "protetti"; la possibilità per i fornitori (industria alimentare, agricoltura) di restare nell'assortimento dei distributori (cioè di essere referenziati) è sempre meno legata alla vicinanza geografica e sempre più invece alla capacità di adattarsi ai tempi e alle esigenze anche qualitative del distributore, nonché alla capacità di differenziare il proprio prodotto. La GDO fa registrare inoltre un processo di crescita e internazionalizzazione delle imprese, con fenomeni di acquisizione di imprese distributive, ad opera anche di gruppi provenienti da altri Paesi, realizzando così economie di scala a livello organizzativo, logistico, amministrativo, etc. I distributori tendono così ad operare anche per i propri approvvigionamenti su una scala sempre più ampia e transnazionale, anche mediante la creazione di "mega-centrali di acquisto" su scala multinazionale: l'internazionalizzazione della distribuzione tende ad accrescere la concorrenza tra i fornitori di prodotti sia trasformati che freschi, e pone in rapporto stretto di sostituzione le stesse produzioni tipiche di Paesi diversi. In effetti le imprese della moderna distribuzione hanno la possibilità, grazie alla loro dimensione, di attuare politiche attive di supporto e di politiche attive di prezzo rispetto ai prodotti da esse trattati: - le politiche attive di supporto si realizzano attraverso la gestione strategica della superficie espositiva (ad esempio posizionamento dei prodotti su scaffali di altezze diverse) e/o l'attività promozionale nei punti- vendita; - le politiche attive di prezzo si realizzano attraverso manovre sui margini commerciali e modificano la competitività di ciascun prodotto. Tali comportamenti sono in grado così di influenzare la struttura stessa delle preferenze del consumatore, intervenendo sul suo set informativo e sulla dinamica dei prezzi relativi al consumo. L'aumento della dimensione economica delle imprese della GDO, e la crisi del settore del dettaglio tradizionale, fa assumere un ruolo di importanza centrale del settore distributivo nelle filiere e nel sistema agro-alimentare: la GDO svolge cioè un ruolo sempre più importante sia nel condizionare i consumatori, sia nello strutturare i rapporti con l’industria agro-alimentare e agricoltura. La ristorazione Consumi extra-domestici: questi ultimi sono circa il 30-35% del totale, ed è suddiviso in tre diversi canali: Ristorazione collettiva: che prevede l’erogazione di un servizio rivolto a comunità di vario tipo (aziende, scuole, ospedali, case di cura, case di riposo, enti pubblici, caserme, colonie, ecc.), Vending, e Ho.re.ca.” (hotel, ristoranti e bar-caffè). La ristorazione commerciale italiana può essere articolata in tre segmenti diversi per dimensione della domanda, valore di mercato e numero di contatti: - Tradizionale: nella formula commerciale e nel tipo di servizio offerto basato su un equilibrato rapporto qualità-prezzo. - Top: il fattore chiave è la qualità del prodotto e del servizio. - Moderna: la ristorazione veloce che si caratterizza per l’elevato numero di contatti, qualità standard e ricerca di prezzi contenuti. I cambiamenti delle abitudini alimentari hanno forti implicazioni sul settore del pubblico esercizio che è a diretto contatto con stili di consumo in costante evoluzione, si contrae la ristorazione tradizionale mentre cresce la ristorazione veloce e quella operativa sui mezzi di trasporto. Il ciclo di vita della ristorazione documenta l’evoluzione possibile delle formule di servizio: - il ristorante d’eccellenza vive una nuova fase di sviluppo per la rinnovata attenzione; - la trattoria può ritornare alla sua tradizione (qualità/prezzo). 91 EVOLUZIONE DEI RAPPORTI INTERNI AL SAA: TRA COMPETIZIONE E COORDINAMENTO Le prime fasi di sviluppo del SAA I grossisti costituiscono il legame Il sistema agroalimentare a causa di una serie di fattori quali il consolidamento nell’industria e nella distribuzione alimentare l’importanza della qualità e della differenziazione e l’aumento del grado di coordinamento verticale ha progressivamente abbandonato il paradigma neoclassico della concorrenza perfetta per costituirsi come un’articolata serie di mercati interrelati con strutture di governance complesse. Ormai privi della protezione offerta dalle politiche accoppiate, i produttori affrontano mercati agroalimentari imperfettamente competitivi caratterizzati da un forte sbilanciamento nella distribuzione del potere contrattuale. In questo scenario i produttori agricoli si configurano come i soggetti deboli, ovvero come operatori soggetti al potere contrattuale esercitato da altre imprese (a monte o a valle) che organizzano la governance di filiera sulla base di obiettivi privati. La comunità scientifica e il legislatore comunitario, riconoscendo questa evoluzione dei mercati agroalimentari, hanno affrontato con particolare enfasi il tema della concorrenza nelle filiere agroalimentari. Esiste una corposa letteratura volta all’individuazione del potere e alla valutazione delle sue conseguenze in termini di benessere sociale, sviluppatasi a seguito dei considerevoli processi di concentrazione nell’industria di trasformazione e nella distribuzione. L’analisi di tali processi può procedere in chiave cronologica andando a esaminare le diverse fasi in cui il processo di sviluppo dei rapporti interni al Sistema Agroalimentare. Nelle prime due si assiste ad una concentrazione dell’industria alimentare, mentre agricoltura (fornitore di materie prime all’industria e/o distribuzione) e la distribuzione permangono settori a basso grado di concentrazione. Nella terza fase prende avvio la concentrazione del settore distributivo, che amplifica e rafforza la concentrazione dell’industria alimentare. Infine, nella quarta fase, la concorrenza tra imprese della moderna distribuzione e il cambiamento riscontrabile nei consumatori esercita un parziale effetto di de- concentrazione sull’industria alimentare. Occorre tuttavia sottolineare che il processo di concentrazione nell’industria alimentare non ha interessato in ugual misura tutte le tipologie produttive, perdurando ancora oggi una situazione frammentata che vede in numerosi comparti la contemporanea presenza di grandi imprese industriali, anche a carattere multinazionale o transnazionale, a fianco di una moltitudine di piccole e medie imprese a carattere artigianale e con bacini di approvvigionamento e sbocco non sempre locali. La prima fase è caratterizzata dalla realizzazione di investimenti materiali e dalla ricerca di economie di costo tramite economie di dimensione a livello di stabilimento. Le imprese industriali ricercano una competitività di costo, che comporta una industrializzazione e una standardizzazione dei processi e dei prodotti, che si riflette sulle richieste ai settori a monte in termini di caratteristiche degli approvvigionamenti: grandi partite, costanza di fornitura e standardizzazione dei livelli qualitativi. Le imprese agroalimentari marginali e di più piccola dimensione, che non riescono a realizzare gli investimenti minimi necessari per competere sul lato dei costi di produzione, risultano spiazzate da questo processo, e si registrano elevatissimi tassi di cessazione. In questa prima fase il mercato al consumo è un mercato di massa (mass market), che chiede prodotti standardizzati e non è attento alla qualità e alla differenziazione dei prodotti. I prodotti alimentari industriali sono sinonimo di modernità e progresso. Le imprese innovatrici hanno ampi margini di crescita e godono di extraprofitti, grazie ai quali costituiscono elevate barriere all'entrata, derivanti dalla necessità di dotarsi di grandi impianti ad elevato contenuto di capitale. Il processo di concentrazione in questa fase trova ancora limiti sia nel permanere di un certo localismo dei consumi, ovvero della difficoltà dell’industria alimentare di proporre un prodotto standard a territori vasti in cui ancora l’omogeneizzazione degli stili di consumo e delle abitudini di acquisto stenta ad affermarsi, che nella frammentazione del sistema distributivo (aggravato dalla deperibilità del prodotto), che pone problemi logistici e nei rapporti commerciali a livello locale. Nella seconda fase le risorse generate dalle economie di costo realizzate dalle imprese agroalimentari vengono utilizzate prevalentemente per la realizzazione di investimenti immateriali: ricerca applicata, 92 sviluppo di nuovi prodotti, pubblicità e affermazione dell’immagine di marca. In questo periodo infatti si sviluppa fortemente la marca industriale. Le imprese mirano al conseguimento di economie di scopo (relativamente alle risorse immateriali – marchi ombrello - e a quelle materiali, specie a livello di rete distributiva). Le grandi imprese di marca acquisiscono così un crescente potere di condizionamento nei confronti del settore distributivo, in questa fase formato ancora in prevalenza da imprese di piccola dimensione, di tipo familiare, in molti paesi protetto da normative che ponevano forti limiti all’innovazione delle formule distributive (e in particolare all’apertura di punti vendita delle imprese della GDO) per non compromettere l’occupazione del settore terziario. La crescente forza acquisita dalla marca industriale sottrae alla distribuzione finale al dettaglio (ancora tradizionale) alcune importanti funzioni, e crea le basi per il successivo sviluppo della moderna distribuzione. In particolare la crescente affermazione della marca industriale: - sottrae il potere di informazione e di garanzia che il piccolo dettagliante ha fino ad allora svolto nei confronti del consumatore, rendendo meno necessario il legame diretto e di fiducia tra negoziante e consumatore; - sottrae in parte al dettagliante anche la funzione di sezionare, pesare, prezzare, confezionare il prodotto, poiché i prodotti della grande industria alimentare sono venduti confezionati, in scatola o busta, e spesso prezzati. Relativamente ai rapporti col settore agricolo, si riduce il legame tradizionale (potremmo dire “storico”) tra industria e agricoltura a livello locale. I citati progressi nelle tecnologie di trasporto e conservazione, e dei sistemi informativi, permettono all’industria alimentare di svincolarsi dagli approvvigionamenti di materia prima a livello locale, per attingere materia prima e anche semi- lavorati su un mercato mondiale, e dunque anche di destagionalizzare le lavorazioni, fino ad allora ristrette dalla stagionalità delle produzioni. La crescita delle dimensioni operative minime necessarie rende indispensabile approvvigionarsi anche da altri territori, per la frequente impossibilità di aumentare i volumi produttivi all’interno del tradizionale territorio di acquisto. In questo periodo, ovvero nelle prime due fasi evolutive del sistema agroalimentare, il processo di concentrazione nel settore della trasformazione agroalimentare trova due principali limiti: - il primo limite è situato nella struttura frammentata del sistema distributivo, il quale impone notevolissimi costi logistici per raggiungere un sufficiente numero di (potenziali) consumatori; - il secondo limite è costituito dalla scarsa “adattabilità” dell’agricoltura alle nuove richieste dell’industria alimentare. Gli effetti del progresso tecnico (e dunque l’intensità del processo di concentrazione) non sono infatti uniformi nei diversi comparti dell’industria agroalimentare, e permangono numerosi problemi relativi in particolare al raccordo con la fase agricola. Tra questi assumono particolare rilevanza la deperibilità di alcune materie prime agricole, la stagionalità della produzione agricola, e la estrema variabilità delle caratteristiche qualitative delle materie prime agricole tra diverse aree ed aziende, oltre che nel tempo (tra una campagna produttiva e l’altra). Potere di mercato e relazioni interne al SAA: le fasi recenti Nelle fasi precedenti si è visto come il settore distributivo fosse caratterizzato da: - la predominanza di piccole imprese a conduzione familiare; - la presenza di una legislazione tesa a tutelare il piccolo dettaglio per la funzione sociale (occupazionale) svolta. - l’assenza di pressioni competitive provenienti da altri paesi (assenza di concorrenza estera, basso grado di internazionalizzazione del dettaglio). L’affermazione della distribuzione moderna è legata a: - l’introduzione di innovazioni organizzative e di "prodotto" (del servizio distributivo) e la realizzazione di grandi unità di vendita despecializzate; - la preselezione dell’offerta di prodotti agricoli e agroalimentari da parte del distributore; - la disponibilità di assortimenti più profondi e ampi e la possibilità offerta al consumatore di effettuare dunque maggiori comparazioni direttamente nel punto vendita; - la fornitura di maggiori informazioni direttamente al consumatore; 95 produzione per la GDO; tali imprese possono infatti limitare fortemente i propri investimenti in promozione e pubblicità. Un effetto simile ha anche la diffusione della ristorazione collettiva privata, aziendale e istituzionale (mense universitarie, ospedali, altre collettività): le imprese della ristorazione collettiva infatti sono particolarmente attente al rapporto tra qualità intrinseca, servizio incorporato e prezzo, mentre in genere è del tutto marginale l'attenzione posta da esse sui fattori estrinseci di differenziazione. Un’ulteriore spinta alla de-concentrazione dell'industria agro-alimentare deriva dal fatto che, con l'aumento della competizione inter-store nell'ambito del sistema distributivo, aumentano le possibilità di collocamento di prodotti di qualità elevata/locali /freschi/tipici; di quei prodotti cioè che possono a vario titolo contribuire al rafforzamento dell'immagine dell'insegna del distributore. Certamente le imprese della trasformazione diventano "dipendenti" per quanto riguarda i propri sbocchi dalla GDO per le quali producono, possono subire compressioni di prezzi, e sono abbastanza facilmente sostituibili da parte del committente/distributore; su tale segmento poi talvolta operano anche le grandi imprese di marca, al fine di saturare meglio la loro capacità produttiva, per cui la concorrenza si può rivelare molto accesa e anche la permanenza in esso può risultare tutt'altro che facile. Le Private Label I primi prodotti a marchio commerciale (private label) erano soltanto imitazioni, spesso ai limiti del plagio, dei corrispondenti prodotti di marca Oggi esiste una diversificazione delle tipologie dei prodotti a marchio commerciale, espressione delle tendenze evolutive della GDO e dei rapporti GDO-IAA. Le imprese commerciali moderne ritengono compatibile con la propria mission esprimere una autonoma attività innovativa per la gestione dei prodotti a marchio. La distribuzione sta aumentando la propria influenza nel processo di definizione degli aspetti tecnici e di marketing dei prodotti a marchio, e in alcune categorie merceologiche sta raggiungendo una capacità di innovazione confrontabile con quella espressa dai produttori industriali. Inoltre la distribuzione intensificherà la collaborazione con l’industria per sviluppare nuove tipologie di referenze a marchio, caratterizzate da punti di forza diversi rispetto a quello tradizionale della «convenienza». I passaggi più significativi dell’evoluzione dei prodotti a marchio possono essere sintetizzati in quattro fasi, a cui corrispondono altrettante generazioni di prodotti Private Label: I. La prima generazione. L’introduzione negli assortimenti dei primi prodotti PL corrisponde all’epoca in cui la mission della GDO consisteva nella ricerca delle condizioni di massima efficienza nel processo di trasferimento ai consumatori finali di beni progettati e fabbricati dall’industria. Le decisioni riguardanti il design del prodotto e la gestione delle leve di marketing in termini di scelta del canale distributivo e del prezzo al consumo erano completamente nelle mani dei fornitori (IAA). I prodotti PL erano banali imitazioni dei pro- dotti leader, nelle merceologie a maggior rotazione, vendute a prezzi più convenienti rispetto agli analoghi prodotti di marca. La distribuzione, infatti, negoziando gli ordini con fornitori impegnati a saturare la propria capacità produttiva riusciva a ottenere condizioni di acquisto particolarmente favorevoli. Questi prodotti procuravano importanti vantaggi per la distribuzione: un miglioramento della propria marginalità e del livello di servizio commerciale, grazie alla maggiore completezza degli assortimenti, e un contributo alla creazione e al consolidamento dell’immagine unitaria tra i punti vendita appartenenti alla medesima organizzazione commerciale. Il distributore assume quindi un ruolo di marketing limitato e i prodotti acquistano una specifica identità di insegna soltanto grazie all’etichettatura, mentre il contributo della GDO sul piano innovativo è pressoché insistente. Con questo concept di prodotto, il distributore si rivolgeva al target dei consuma- tori sensibili al prezzo – le PL della prima generazione, infatti, costavano circa il 20% in meno rispetto alle marche leader – e poco sensibili al richiamo della marca. Nella prima fase infatti la concorrenza si svolgeva soprattutto tra formule distributive diverse sulla base del prezzo degli assortimenti (concorrenza inter-tipo col dettaglio tradizionale), e le PL a basso prezzo erano un modo di attrarre consumatori. II. La seconda generazione. Le imprese commerciali iniziano a capitalizzare i vantaggi collegati alla posizione privilegiata derivante dal contatto quotidiano e diretto con i consumatori finali. Negli assortimenti vengono introdotte nuove referenze a marchio in grado di sostenere un posizionamento più impegnativo rispetto a quello della generazione precedente. La qualità media delle PL raggiunge livelli simili ai prodotti di marca, mentre il numero delle linee di PL presenti in assortimento aumenta fino a coprire tutte le principali merceologie. Il livello medio dei prezzi, inferiore del 5-10% rispetto a 96 quello delle marche nazionali leader, rappresenta ancora un importante elemento di valutazione per il consumatore, ma non è più né l’unico aspetto considerato né quello decisivo. Si assiste a un maggiore impegno della distribuzione nella definizione della propria offerta a marchio. Inoltre, il potere contrattuale che in quel periodo – che corrisponde indicativa- mente al decennio ’80–‘90 in Italia - la distribuzione aveva acquisito nei confronti dell’industria un potere tale da indurre i fornitori ad assecondare le richieste delle insegne relative non solo alle quantità di PL da produrre, ma anche quelle relative a modifiche che divenivano sempre più frequenti ed invasive rispetto alla configurazione originaria del prodotto. La capacità di differenziazione e innovazione continua ad essere delle imprese industriali. Tuttavia è in corrispondenza di questa fase che si rileva per la prima volta una forma blanda di innovazione nei prodotti del distributore. Si tratta di un’innovazione che nella maggioranza dei casi nasce in modo spontaneo in seguito alle modifiche e alle varianti introdotte su indicazione dei retailer nella versione standard del prodotto a marchio proposta dai fornitori e che possono riguardare le materie prime, le varianti (nei colori o nei gusti disponibili) e i formati. III. La terza generazione. Agli inizi degli anni ’90, in Italia si registra la riduzione del peso delle marche nazionali ed una forte crescita della presenza delle PL e, contestualmente, dei primi prezzi. Cresce l’autonomia di marketing dei distributori nei confronti dell’industria. Il distributore esercita un controllo più incisivo e rivolto ad un maggior numero di aspetti delle produzioni a marchio. Per le imprese industriali, l’accettazione di tali condizioni spesso rappresenta un requisito per avere accesso con i propri prodotti agli scaffali dell’insegna. Mentre le prime due generazioni di prodotti a marchio erano state «garantite» ai consumatori dall’insegna che attraverso il logo tra- sferiva i valori del proprio brand al prodotto, con la terza generazione è il prodotto a marchio che inizia a trasferire valori positivi sull’insegna, offrendo un contributo rilevante nell’ambito delle strategie di consolidamento del brand e di fidelizzazione al punto vendita. Le PL di questa nuova generazione sono caratterizzate da standard qualitativi ancora più elevati e, in alcuni casi, il loro concept di prodotto anticipa alcune tendenze del mercato (ad esempio la ricerca di prodotti alimentari più genuini, senza conservan- ti o con trattamenti chimici ridotti). Questo nuovo approccio viene adottato anche in Italia da Coop che introduce nelle proprie linee a marchio rilevanti novità nelle modalità di presentazione di prodotto, arricchendo le etichette di nuove informazioni sulle caratteristiche degli ingredienti, relativi apporti nutrizionali, etiche etc. Nello stesso periodo nasce la linea «Prodotti con Amore» per le carni e l’orto-frutta. Puntando su un rigoroso controllo di qualità e sulla produzione integrata, si intendeva caratterizzare in modo diverso queste linee di prodotti a marchio, dotandole di maggiore visibilità e originalità rispetto alle altre famiglie di PL tradizionali. IV. La quarta generazione. L’impresa commerciale inizia a progettare e lanciare sul mercato – da sola o in collaborazione con i fornitori industriali – prodotti a marchio ad elevato contenuto di innovazione. Sfruttando la propria posizione di anello finale della filiera, le imprese commerciali hanno avuto la possibilità di rilevare la presenza di uno spazio di mercato per categorie di prodotti a marchio posizionate in modo diverso e, in particolare, connotate da una forte valenza di brand. La GDO assume il ruolo di garante non solo della genuinità intrinseca del prodotto, ma anche della qualità dell’intera «filiera», rispetto a tutti gli ingredienti utilizzati nell’ambito dei processi di produzione. Introduzione di PL di nuova concezione, i quali senza rinunciare alla tradizionale immagine di convenienza, puntano sull’offerta al pubblico di una nuova dimensione di garanzia di qualità basata sulla tracciabilità di filiera dei prodotti. I RAPPORTI TRA IMPRESE NEL SISTEMA AGROALIMENTARE Strategie di sviluppo delle imprese del SAA La pressione esercitata dalle forze dominanti del sistema agro-industriale mette alla prova le capacità di reazione del settore agricolo, che manifesta strutture organizzative e meccanismi di risposta molto variabili, soprattutto in funzione del modo di fare agricoltura delle singole imprese [Van der Ploeg, 1996] più che della dimensione delle stesse. L'adattamento alle richieste dei grandi interlocutori comporta l'adozione di strumenti informativi e organizzativi avanzati implicano la presenza e lo sviluppo di capacità imprenditoriali e di tecniche di produzione e commercializzazione più moderne, non sempre facilmente reperibili all'interno del settore agricolo. 97 Un'alternativa, che in certe situazioni può riscuotere maggior successo, consiste in un maggior orientamento verso altri canali/interlocutori, spesso più diretti, saltando quindi i grandi interlocutori. Il che significa sia utilizzare i canali più tradizionali (piccole industrie locali, mercati all'ingrosso e dettaglio tradizionale, ecc.) che rivolgersi a canali più nuovi, quali vendita diretta, negozi specializzati, esportazione. In entrambi i casi, ovvero tanto che l'inserimento del prodotto sul mercato avvenga tramite canali "globali" che "alternativi", la scelta della modalità di adattamento dell'agricoltura moderna alle nuove tendenze del sistema agro-industriale non potrà essere operata semplicemente in riferimento alla tipologia di prodotto realizzata, quanto sulla base delle caratteristiche dell'imprenditorialità agricola e del livello organizzativo presente nel settore e nelle singole imprese. Il settore agricolo, pur essendo ancora caratterizzato dalla persistente presenza di numerose piccole imprese, è sempre più di frequente chiamato ad aumentare la propria capacità di gestione dei rapporti intersettoriali (verticali) con realtà territoriali molto distanti e con imprese di rilevanti dimensioni. In questa direzione assumono una importanza preminente le capacità innovative a li- vello organizzativo che consentano di stringere contatti stabili con le fasi a monte e a valle riducendo l'incertezza dei mercati, di attenuare la posizione di debolezza contrattuale, di trasmettere agli utilizzatori i requisiti qualitativi delle produzioni tenuto conto che la "qualità di conformità" (vale a dire l'adeguamento del prodotto agli standard dettati dagli utilizzatori intermedi - trasformazione e/o distribuzione - o finali) rappresenta oggi una scelta obbligata per restare sul mercato. In ogni caso le prospettive del sistema rendono necessario il perseguimento di una continua valorizzazione e differenziazione qualitativa delle produzioni, sulle cui modalità, oltre alla tipologia del prodotto stesso e alla struttura dei mercati, incidono soprattutto le caratteristiche strutturali e le capacità dell'impresa (e dei sistemi di imprese, anche territoriali). Il numero di casi in cui la competizione continuerà a giocarsi sul versante del prezzo, e quindi del costo di produzione, appare infatti in diminuzione per l'aumentata concorrenza derivante dall'apertura dei mercati e dalla continua crescita di importanza delle produzioni realizzate in aree che possono meglio competere su questo fronte. In queste situazioni il settore agricolo, non disponendo di un elemento su cui poggiare "rivendicazioni", si troverà sempre più esposto alla competizione su di un mercato di approvvigionamento globale, in cui gli investimenti in strutture e tecnologie finalizzate alla competitività di costo costituiscono tuttora una condizione necessaria di successo, anche se non più sufficiente a garantire all'impresa agricola un vantaggio competitivo sufficiente e duraturo. La differenziazione produttiva Una strada sempre più indicata per perseguire la differenziazione qualitativa è rappresentata dalla rivalutazione dei legami tra agricoltura e territorio, intesi nella dimensione culturale (produzioni tipiche e/ o di elevata qualità intrinseca, fornitura di servizi agrituristici), nella dimensione intersettoriale (con l'attivazione o il potenzia- mento dei collegamenti con le attività turistiche, artigianali, piccolo- industriali16 e dei servizi), e nella dimensione ambientale, che si manifesta nell'impiego di tecniche produttive più soft (ad esempio produzioni biologiche o a lotta integrata) e nella funzione di presidio e di tutela del territorio e del paesaggio. Questa strada è spesso presentata come "via di uscita" dal modello "tendenziale" della globalizzazione e massificazione dei mercati e dalle pressioni dei grandi interlocutori di filiera, ed espressione di crescente libertà e di un recupero di margini di autonomia del settore agricolo nei confronti degli operatori a valle nella filiera, non solo in un'ottica di appropriazione del valore aggiunto, ma anche in quella di riappropriazione di valori e di autodeterminazione del percorso di sviluppo. Tuttavia anche su questi mercati la competizione è sempre più accentuata, non solo per l'affacciarsi di un numero elevato di prodotti concorrenti, ma anche per la crescente occupazione diretta di spazi da parte della grande industria e della GDO [Canali, 1996], le cui strategie produttive e commerciali fanno sempre più spesso leva su prodotti ecocompatibili (in particolare realizzati con metodi di lotta integrata) e/o tipici, di cui in molti casi si fanno garanti in prima persona, anche per le attuali carenze dell'offerta. Se infatti fino ad oggi in Italia la moderna distribuzione non si è mostrata particolarmente propensa ad inserire in assortimento i prodotti tipici e locali, questo è in larga parte dovuto all'eccessiva frammentazione delle aziende agricole e artigianali fornitrici e alla contemporanea carenza di strutture intermedie in grado di realizzare una sufficiente concentrazione della produzione e di rispettare i rigidi standard sulle caratteristiche del prodotto e sulle modalità di consegna e di presentazione. Inoltre l'accesso agli scaffali presenta costi elevati, soprattutto se la commercializzazione si basa su produzioni limitate e non sufficientemente riconosciute e richieste dal consumatore.
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