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Economia sostenibile, Schemi e mappe concettuali di Economia Dello Sviluppo

Riassunto libro di testo di economia dello sviluppo

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 14/10/2023

sara.zuccarino
sara.zuccarino 🇮🇹

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Economia sostenibile e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Economia Dello Sviluppo solo su Docsity! L’Era Dello Sviluppo Sostenibile Capitolo 1: Introduzione allo sviluppo sostenibile Che cos’è lo sviluppo sostenibile? Lo sviluppo sostenibile come concetto analitico e normativo Sviluppo sostenibile: fondamentale per la nostra epoca; è un modo di concepire il mondo e un metodo per la soluzione di problemi globali. Gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (OSS) saranno le linee guida della diplomazia economica mondiale della prossima generazione. Il punto di partenza è il sovra ollamento del ff nostro pianeta. Attualmente, la popolazione della terra è di 7,2 miliardi di individui, 9 volte maggiore di quella agli albori della Prima Rivoluzione Industriale del 1700. La popolazione mondiale continua ad aumentare rapidamente, nel giro di una decina d’anni saremo 8 miliardi, e forse toccheremo i 9 miliardi nei primi anni 2040. Queste miliardi di persone sono alla ricerca del loro punto d’appoggio nell’economia mondiale: i poveri lottano per avere il cibo, l’acqua potabile, l’assistenza sanitaria e un rifugio ai fini della mera sopravvivenza; chi si trova appena al di sopra della soglia di povertà è alla ricerca di un maggior benessere e futuro migliore per i propri figli; chi si trova nei paesi ad alto reddito spera nei progressi tecnologici. Insomma, 7 miliardi di persone stanno cercando di migliorare la propria posizione economica e lo fanno nell’ambito di un’economia mondiale sempre più interconnessa attraverso il commercio, la finanza, le tecnologie, i flussi produttivi, le migrazioni e le reti sociali. Le dimensioni attuali del PML (prodotto mondiale lordo) sono almeno 200 volte maggiori di quello del 1750. Il PML è stimato attualmente intorno ai 90 milioni di dollari. Il nostro mondo è caratterizzato da ricchezze favolose e da estreme povertà: miliardi di persone godono di una longevità e di una buona salute che le precedenti generazioni nemmeno si immaginavano; eppure almeno un miliardo di esseri umani vive in condizioni di miseria tali da dover lottare ogni giorno solo per sopravvivere. I poveri fra i più poveri a rontano quotidianamente la sfida tra la vita e la morte dovuta alla scarsa alimentazione, alla ff mancanza di assistenza sanitaria, ad abitazioni malsane, alla mancanza di acqua potabile e alle pessime condizioni igieniche. Perciò, il PML ha dimensioni enormi, cresce velocemente (3-4% annuo), e la distribuzione del reddito fra i diversi paesi, e al loro interno, è gravemente squilibrata. L’economia mondiale, oltre ad essere molto squilibrata, rappresenta una grande minaccia per la Terra. L’umanità, come ogni specie vivente, dipende dalla natura per il cibo, l’acqua e le materie prime in caso di gravi minacce ambientali, quali epidemie e calamità naturali. Facciamo ben poco per proteggere la base concreta della nostra stessa sopravvivenza. La gigantesca economia mondiale sta propiziando un’altrettanta gigantesca crisi ambientale, una crisi che minaccia la vita e il benessere di miliardi di persone e la sopravvivenza sul pianeta di milioni di altre specie, se non anche della nostra. Le minacce ambientali si stanno presentando su diversi fronti: l’umanità sta alterando il clima, la disponibilità di acqua dolce, la composizione chimica degli oceani e degli habitat di altre specie. Questi e etti sono ora tanto estesi da ff provocare alla Terra stessa mutamenti nel funzionamento dei processi basilari dai quali dipende la vita terrestre. Qui entra in gioco lo sviluppo sostenibile, che tenta di capire il senso delle interazioni tra economia mondiale, società globale ed ambiente fisico terrestre. È una forma di ricerca intellettuale che si chiede come modificare l’economia mondiale; a cosa è dovuta la crescita economica; perché continua ad esserci povertà; se c’è un modo per combinare sviluppo economico con sostenibilità ambientale. Lo sviluppo sostenibile raccomanda un insieme di obiettivi cui il mondo dovrebbe aspirare. Le nazioni adotteranno gli OSS (Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile) proprio come guida per il corso futuro dello sviluppo economico e sociale del pianeta. Lo sviluppo sostenibile auspica che nel mondo il progresso economico abbia la più ampia di usione: che la povertà estrema sia eliminata; che la solidarietà sociale sia ff incoraggiata mediante politiche volte a ra orzare il sentimento comunitario; che l’ambiente venga protetto ff dal degrado provocato dalle attività umane. Lo sviluppo sostenibile propone un quadro olistico in cui la società punta a obiettivi economici, sociali e ambientali. Tale concetto viene sintetizzato così: gli OSS richiedono una crescita economica inclusiva dal punto di vista sociale e sostenibile dal punto di vista ambientale. Per raggiungere gli obiettivi economici, sociali e ambientali degli OSS si deve conseguire però un quarto obiettivo: una buona governance. I governi devono svolgere molte funzioni essenziali per la prosperità delle società; fra tali funzioni vi sono la fornitura di infrastrutture quali strade, porti ed energia; la protezione degli individui dalla criminalità e dalla violenza; la promozione della ricerca scientifica e delle nuove tecnologie; la messa in atto di norme e regolamenti a difesa dell’ambiente. Molto spesso, però, i governi portano solo corruzione. Una buona governance, nel mondo d’oggi, non può riferirsi solo ai governi, poiché sono spesso le multinazionali a disporre di maggior potere. Il nostro benessere dipende dal fatto che queste grandi aziende agiscano secondo la legge, rispettino l’ambiente naturale e diano sostegno alla comunità in cui operano, in particolare nella lotta alla povertà estrema. La realtà è frequentemente di segno opposto: le multinazionali sono spesso gli agenti della corruzione, dedicandosi all’evasione, al riciclaggio di denaro sporco. Perciò ai fini di una società ben ordinata, l’aspetto normativo dello sviluppo sostenibile prevede il perseguimento di quattro obiettivi fondamentali: prosperità economica; inclusione e coesione sociale; sostenibilità ambientale; buona governance da parte dei principali attori sociali, governi e aziende comprese. Raggiungere questo scopo è la sfida più importante per la nostra generazione, per il pianeta sovrappopolato, pieno di ingiustizie e degradato in cui viviamo. L’origine del termine “sostenibile” risale a molto tempo fa: nel settore ittico, il termine “rendimento massimo sostenibile” si riferisce alla quantità massima di pesce che può essere pescato annualmente senza compromettere gli stock ittici. Oppure, Nel 1972, alla Conferenza ONU sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma, fu portato per la prima volta all’attenzione del mondo il problema del mantenimento della sostenibilità nel contesto della crescita economica. Il best seller “I limiti dello sviluppo”, pubblicato dal Club di Roma, sostenne con grande vigore che la continua crescita economica sulla base dei modelli predominanti avrebbe finito per scontrarsi con la limitatezza delle risorse della Terra, portando a un loro futuro esaurimento e quindi a un crollo dell’economia stessa. Otto anni dopo, l’espressione “sviluppo sostenibile” fu introdotta in una pubblicazione dal titolo “World Conservation Strategy”, nella cui prefazione si osservava che “gli esseri umani, nel ricercare lo sviluppo economico e il godimento delle ricchezze della natura, devono venire a patti con la limitatezza delle risorse e devono tener conto dei bisogni delle generazioni future”. L’espressione fu poi adottata e resa popolare dalla Commissione Brundtland, cioè la Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo. Fu la Commissione a dare una definizione classica del concetto, nel 1987, che venne usata per i successivi 25 anni. “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”. Questo concetto “intergenerazionale” di sviluppo sostenibile venne adottato di usamente anche al summit ff sulla Terra di Rio de Janeiro nel 1992. Uno dei principi chiave della Dichiarazione di Rio fu che “lo sviluppo attuale non deve minacciare i bisogni della presente generazione e di quelle future”. Nel corso del tempo, tuttavia, la definizione di sviluppo sostenibile ha assunto un’impostazione più pratica che stabilisce un collegamento fra sviluppo economico, inclusione sociale e sostenibilità ambientale. Nel 2002, a Johannesburg, al Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile all’ONU, si parla di “integrazione delle tre componenti dello sviluppo sostenibile, come di tre pilastri interdipendenti che si sostengono vicendevolmente, ovvero sviluppo economico, sviluppo sociale e protezione dell’ambiente”. Questa visione dello sviluppo sostenibile basata su tre componenti viene messa di nuovo in risalto in occasione del ventesimo anniversario del Summit di Rio. Nel documento finale del Summit di Rio+20, vennero espressi gli scopi dello sviluppo sostenibile, tra cui: “promozione di una crescita economica sostenuta, inclusiva ed equa; creazione di maggiori opportunità per tutti; riduzione delle diseguaglianze; incoraggiamento di uno sviluppo sociale equo ed inclusivo; promozione di una gestione integrata e sostenibile delle risorse naturali e degli ecosistemi”. Nello stesso documento si afferma che gli OSS devono essere fondati sullo schema delle tre componenti. Vengono annunciati come “orientati all’azione concreta; espressi in termini concisi e facili da comunicare; ambiziosi; di natura globale ed applicabili a tutti i paesi; rispettosi di politiche e priorità nazionali”. Abbracciare la complessità Lo sviluppo sostenibile, oltre a essere un concetto normativo (etico), è anche una scienza dei sistemi complessi. Un sistema è un gruppo di componenti interagenti che, assieme alle regole per la loro interazione, costituiscono un tutto interconnesso. L’economia è un sistema composto da milioni di individui e imprese, tenuti assieme nell’ambito di mercati, contratti, leggi, servizi pubblici e regolamenti. Un’economia in crescita è più della somma delle sue imprese e dei suoi lavoratori: ogni sistema complesso ha delle proprietà emergenti, cioè caratteristiche che emergono per dar luogo a qualcosa che è maggiore della somma delle sue parti. Quando confrontiamo i diversi PIL intendiamo confrontare il volume reale di beni e servizi, non la di erenzaff dovuta semplicemente ai prezzi di mercato. Quindi gli statisti, per fare un confronto valido, hanno deciso di ricorrere a un insieme comune di “prezzi internazionali” per calcolare produzione e consumo di ciascun paese. A questa misura rettificata si dà il nome di PIL a parità di potere d’acquisto (PPA); l’uso di un insieme comune di prezzi internazionali ci dà la sicurezza che in ogni paese un dollaro di PIL, se calcolato a PPA (ovvero a prezzi internazionali), ha uno stesso potere d’acquisto in termini di beni e servizi e ettivi. ff In terzo luogo, il PIL pro capite è solo un indicatore approssimativo del vero benessere economico. Il Pil misura solamente i beni e servizi che sono oggetto di transazione nell’economia di mercato, non quelli fuori mercato, ad esempio, in ambito domestico. Né tiene conto degli eventi negativi, o danni che accompagnano la produzione. Che cosa intendiamo quando parliamo di crescita economica La crescita economica misura la variazione del PIL in un dato periodo confrontato con quello precedente. Insomma, crescita economica significa aumento di PIL. Se il PIL pro capite aumenta, anche il benessere economico tende ad aumentare. Il nostro interesse riguarda il PIL pro capite, piuttosto che il Pil in sé, poiché se il Pil aumenta di 100 ma la popolazione raddoppia, allora la fetta media della torta economica rimane invariata. Inoltre, ci interessa l’aumento della produzione effettiva di beni e servizi, non dei loro prezzi. Non ci interessa il PIL a prezzi correnti, ma a prezzi costanti. Che significa? Immaginiamo che un paese produca una tonnellata di acciaio a 500 dollari per tonnellata. In questo caso, il contributo al PIL è di 500 dollari; se il prezzo dell’acciaio aumenta a 1000 dollari per tonnellata e la produzione rimane ferma ad una tonnellata, il contributo dell’acciaio al Pil sale a 1000 dollari, anche se non c’è variazione della produzione effettiva. Perché ci interessa il Pil pro capite a prezzi internazionali costanti? Perché se il Pil pro capite aumenta, aumenterà anche il benessere. Per esempio, i paesi più ricchi (con un Pil più alto) mediamente hanno un benessere materiale più elevato rispetto ai paesi più poveri. La popolazione dei paesi ricchi tende ad avere livelli di consumo più alti e maggiore sicurezza alimentare, a essere più longeva più protetta da malattie e catastrofi ambientali; anche la probabilità di subire violenze ed essere coinvolta in eventi bellici sono più basse. Eppure, l’aumento del PIL pro capite è lungi dall’essere una misura perfetta del benessere. Se sommiamo il PIL (a prezzi internazionali costanti) di ogni paese e poi dividiamo il risultato, cui diamo il nome di PML, per la popolazione mondiale per trovare il PML pro capite, scopriamo che quest’ultimo è cresciuto piuttosto regolarmente di circa il 2-3 per cento all’anno. La crescita globale, a sua volta, è stata accompagnata da molti altri progressi a livello di benessere materiale, come migliori condizioni di salute, istruzione e sicurezza alimentare. Regola del 70: maniera empirica per determinare la crescita economica. Se prendiamo 70 e lo dividiamo per il tasso annuo di crescita del PML pro capite, determiniamo il numero di anni necessario affinché le dimensioni dell’economia raddoppino. Se un’economia cresce al 2% all’anno (PML pro capite: 2% annuo), raddoppierà in 35 anni (70:2=35). Il PML pro capite incominciò a salire solamente intorno al 1750 con molta gradualità. Nella storia dell’umanità, l’intera vicenda della crescita economica è una questione recente poiché si snoda su poco più di due secoli. Durante la maggior parte della storia dei due passati millenni, la crescita economica fu molto piccola o addirittura nulla. Il periodo che inizia nel 1750 viene definito dagli storici dell’economia “era della moderna crescita economica”. Durante gran parte della storia umana, il prodotto pro capite è stato a un livello molto basso, la maggioranza degli esseri umani viveva di agricoltura e produceva il cibo per la propria sussistenza. Nelle annate buone il raccolto era su ciente a mantenerli in vita, mentre in quelle cattive il cibo scarseggiava e la ffi gente moriva, a volte anche in gran numero. I raccolti insu cienti potevano rendere la popolazione più ffi soggetta alle malattie infettive poiché la malnutrizione indebolisce il nostro sistema immunitario. A partire dagli anni intorno al 1750 incominciò ad accadere qualcosa di fondamentalmente nuovo: una crescita economica positiva. L’incremento del PML fu determinato dall’aumento delle attività industriali, come l’estrazione del carbone, la fabbricazione dell’acciaio, la produzione tessile. Infatti, a questo primo decollo della crescita economica nel periodo 1750-1850 si dà il nome di Rivoluzione industriale. Dopo il 1950 circa, nei paesi ad alto reddito l’aumento del PML è stato individuato nella crescita dei servizi (sistema bancario). Il prodotto mondiale per persona superò il livello di sussistenza ed in 250 anni aumentò di circa 30 volte. Figura 1.1 → stima dell’evoluzione del PML pro capite calcolato in dollari dal 1 d.C. al 2010. Figura 1.2 → popolazione mondiale dai primordi della civiltà, circa 12.000 anni fa, cioè da quando gli uomini smisero di essere cacciatori e divennero coltivatori stanziali; non più nomadi, vivevano in villaggi stabili. Intorno al 1820, l’umanità raggiunse il traguardo del miliardo di persone; nel 1930 arrivò a due miliardi. E da lì i numeri salirono vertiginosamente: 4 miliardi nel 1974, 5 nel 1987; 7 nel 2011. Si pensa che entro il 2040 dovremmo essere 9 miliardi. A partire dal 1750 circa, gli agricoltori sono stati in grado di produrre più cibo grazie a migliori varietà di sementi; migliori tecniche agrarie; fertilizzanti chimici per ra orzare le sostanze nutrienti del suolo; ff attrezzature e macchinari per seminare, per la raccolta delle messi, per lavorare le derrate, per immagazzinare e trasportare nelle città i generi alimentari. L’aumento della popolazione e quello del PML a partire dagli inizi dell’Ottocento è assolutamente sbalorditivo. Crescita economica ed incrementi demografici sono andati di pari passo in tempi moderni. La moderna crescita economica è caratterizzata da combinazione fra aumento del prodotto per persona e rapido incremento demografico: più reddito pro capite e più persone sul pianeta hanno dato luogo ad un’enorme espansione dell’attività economica. Il prodotto mondiale totale è uguale al prodotto pro capite moltiplicato per la popolazione mondiale. La recente crescita della Cina La Cina, il paese più popoloso al mondo con 1,3 miliardi di abitanti, è anche una delle economie con lo sviluppo più impetuoso nella storia dell’umanità. A partire dal 1978, anno dell’avvento al potere di Deng Xiaoping, la Cina ha introdotto alcune fondamentali riforme del mercato che hanno avviato il paese verso una crescita economica straordinaria, con tassi di sviluppo del PIL vicini a una media annua del 10 per cento. Consideriamo il caso di Shenzen, città della Cina meridionale molto vicina ad Hong Kong, abitata oggi da 12 milioni di persone. Questo è successo con la maggior parte delle città del litorale orientale della Cina, che sono diventate vere potenze del commercio internazionale. Oltre 200 milioni di persone sono a uite dalle ffl campagne verso le città, in cerca di un lavoro nell’industria e nei servizi. La Cina è diventata la fabbrica del mondo e detiene la leadership negli scambi commerciali mondiali. Ci sono caratteristiche tipiche della crescita economica in Cina, anche se in versione turbo. L’economia è passata da rurale a urbana, da agricola a industriale e di servizi; è passata da tassi di fecondità alti (numerosi figli per donna) a bassi, e da alta a bassa mortalità infantile. L’aspettativa di vita si è notevolmente allungata, la salute pubblica è migliorata e i risultati in campo scolastico sono brillanti (maggior numero di laureati al mondo). Tutto ciò è accaduto nell’arco di poco più di tre decenni. Non bisogna però pensare che la crescita economica cinese abbia solo aspetti positivi; infatti, ve ne sono almeno tre molto negativi: la transizione accelerata dell’economia da rurale a urbana e dall’agricoltura all’industria e ai servizi ha scombussolato la vita di centinaia di milioni di persone, provocando una migrazione di massa all’interno del paese e spezzando l’unità familiare, in quanto i genitori spesso se ne andavano via per cercare lavoro nelle città e lasciavano i figli nelle campagne con i nonni. In secondo luogo, la sperequazione dei redditi è notevolmente aumentata, in quanto i lavoratori urbani hanno registrato un miglioramento del proprio tenore di vita, mentre il reddito di chi è rimasto nelle campagne spesso è rimasto fermo. In terzo luogo, l’ambiente è stato devastato e l’industrializzazione a marce forzate è stata accompagnata da un fortissimo aumento dell’inquinamento. In breve, la Cina ha conseguito una spettacolare crescita economica, ma non è ancora riuscita a imboccare la via di uno sviluppo sostenibile. Progressi nelle condizioni di salute globali L’aumento globale del PML pro capite è stato accompagnato da un altro sviluppo positivo: il miglioramento della salute pubblica. L’aumento dei redditi ha significato per moltissimi un miglioramento dell’alimentazione. Ad innovazioni tecnologiche nell’agricoltura e nelle industria si sono sommati notevoli progressi in campo medico e sanitario, quali antibiotici, vaccini, strumenti diagnostici e chirurgici, oltre a quelli in altri campi che hanno apportato enormi benefici per la salute, come i miglioramenti nella fornitura di acqua potabile, dell’installazione di reti fognarie e nell’igiene domestica. Il calo del tasso di mortalità infantile (TMI) da 134 all’anno per ogni 1000 nascita, a 37 è un grandissimo risultato dovuto allo sviluppo economico e ai sistemi sanitari pubblici. Il declino dei tassi di mortalità di ogni classe di età ha migliorato la qualità della vita. La nostra speranza di vita sta aumentando in maniera significativa, con un fortissimo incremento della longevità, che è un altro beneficio della crescita economica e del progresso materiale, ed esemplifica l’ampia gamma dei miglioramenti che si stanno realizzando in numerose zone del mondo. Il primo pilastro dello sviluppo sostenibile, cioè la prosperità conquistata mediante la crescita economica, si può costruire su larga scala e si sta verificando già laddove le popolazioni hanno beneficiato di un aumento del PIL pro capite. Tale aumento è stato accompagnato da diversi cambiamenti strutturali della società: passaggio dalla vita di campagna come contadini alla vita di città con un posto di lavoro nell’industria o nei servizi. Povertà persistente tra l’abbondanza L’esperienza della Cina mostra che alti livelli di reddito pro capite non sono necessariamente appannaggio esclusivo di una ristretta parte del mondo, ma possono essere conseguiti quasi ovunque. Non dimentichiamo che la Cina un tempo era poverissima. Tuttavia, come abbiamo fatto notare nel caso della Cina, anche una crescita economica accelerata non è su ciente ad assicurare una crescita economica sia inclusiva e che non ffi lasci indietro milioni di persone, e che sia sostenibile dal punto di vista del benessere. Dobbiamo fare in modo che la crescita ambientale non venga intaccata, in maniera che il progresso non mini alla base i sistemi che sostengono la vita sulla Terra, cioè biodiversità, produttività dei suoli, clima non alterato, oceani pescosi. Tuttavia, alcune aree del pianeta, nonostante questi progressi, rimangono bloccate in una grande indigenza. Ma che cos’è oggi la povertà estrema? Per esempio, ciò che avviene in Etiopia Settentrionale. Non ci sono trasporti moderni o una rete elettrica; il terreno è secco; la regione è arida; le famiglie di contadini vivono a stento e non riesco a garantirsi una produzione annuale di cibo sufficiente al loro nutrimento. In tutto il mondo, centinaia di milioni di persone vivono in slum urbani; e spesso, nelle grandi città, la povertà si trova proprio a ridosso dei quartieri più ricchi. Anche se gli abitanti di questi slum vivono in un’area urbana popolata da milioni di persone, si trovano quasi tutti nell’impossibilità di assicurarsi i bisogni primari, di accedere a un pronto soccorso, di avere la corrente elettrica, pasti adeguati, fornelli da cucina non inquinanti, acqua potabile e condizioni igieniche decenti. La povertà estrema è un concetto a più dimensioni. La povertà viene descritta come mancanza di un reddito adeguato, e la povertà estrema va intesa in termini più generali, come incapacità di soddisfare i bisogni umani primari di cibo, acqua, igiene, energia sicura, istruzione e mezzi di sussistenza. Povertà estrema significa mancanza di energia pulita ed e ciente, per ffi cucinare in modo sano e non inquinante, al posto di fornelli a legna che provocano un inquinamento cronico da fumo nelle case e il conseguente insorgere di malattie respiratorie nei bambini. Spesso, significa che le famiglie non possono garantire un’istruzione adeguata ai propri figli; può darsi che non ci siano scuole nei dintorni, oppure che non ci siano insegnanti preparati, oppure che la scuola faccia pagare una retta che la famiglia non può permettersi. In breve, vive in estrema povertà chi non può soddisfare i bisogni primari. La vita è una lotta quotidiana per la dignità e talvolta persino per la sopravvivenza. Nonostante il fatto che, in tutto il mondo, il numero di coloro che vivono in povertà estrema sia andato diminuendo e che negli ultimi decenni la percentuale della popolazione mondiale che si trova in tale situazione si è ridotta ancor più rapidamente, è impressionante quante siano le persone che tuttora si dibattono in condizioni di povertà estrema. Questa lotta per la sopravvivenza ha luogo sia nelle aree rurali sia in quelle urbane; in prevalenza, si tratta di un fenomeno rurale, che però, con lo sviluppo degli slum in tutto il mondo, sta sempre più assumendo caratteri urbani. I paesi che hanno un PIL pro capite basso tendono anche a essere quelli in cui le famiglie vivono in condizioni di povertà estrema. Come si può evincere dalla figura 1.8, i paesi dove la povertà estrema è stata completamente eliminata sono quelli con un PIL pro capite di oltre 30.000 dollari: USA, Canada; Europa Occidentale; Giappone; Australia. Si evince invece che i paesi più poveri sono concentrati nell’Africa sub sahariana, cioè i paesi situati a sud dell’Africa settentrionale e a nord della punta meridionale del continente. La metà della popolazione di questi paesi è in povertà estrema. La successiva regione più povera è l’Asia meridionale, con paesi quali India, Pakistan, Nepal e Bangladesh. Questi paesi sono molto popolosi, quindi se anche il PIL pro capite sia più alto di quelli dell’Africa Subsahariana, c’è molta gente poverissima. Si hanno pure pochi altri paesi con sacche di povertà, come, nell’America del Sud, la Bolivia, che è priva di sbocchi sul mare, e altri paesi, ugualmente senza sbocchi sul mare, nell’Asia centrale, come la Mongolia. Si tratta di paesi dove la povertà è elevata e la posizione geografica avversa. Vedremo che la mancanza di uno sbocco sul mare rende di coltosa la crescita economica, perché spesso quest’ultima dipende dal commercio ffi internazionale, ma per paesi che si trovano a centinaia o migliaia di chilometri da un porto, gli scambi commerciali non sono per niente facili. Lo sviluppo sostenibile presenta 3 aspetti principali: sviluppo economico, inclusione sociale e sostenibilità ambientale, tutti e tre sostenuti da una buona governance. Ma cosa intendiamo per sviluppo economico, e come si misura? Lo sviluppo economico ha numerose dimensioni e quindi sono necessarie diverse misurazioni per valutare il processo di sviluppo di un paese. Ciononostante, tendiamo a basarci su una sola misurazione, quella del prodotto interno lordo (PIL), che rappresenta la produzione totale di un paese in un anno. Nel pil, prodotto significa che ciò che misuriamo non è l’attività commerciale su beni capitali pre-esistenti, ma il flusso di produzione nuova in un dato periodo; interno significa che si misura l’attività economica che si svolge in determinati confini geografici, di solito quelli di un paese; lordo che si calcola ogni transazione di mercato all’interno del paese. Nella misurazione del PIL c’è però un punto piuttosto critico. In generale, ci interessa avere un’idea del tenore di vita di un paese. A tale scopo, consideriamo la produzione totale del paese in un dato periodo di tempo, la dividiamo per la popolazione e così troviamo il PIL pro capite. I paesi più grandi hanno una popolazione più numerosa, più lavoratori e quindi producono di più. Non sappiamo però se il tenore di vita in questi paesi è realmente più alto di quello dei paesi più piccoli. In realtà, il PIL pro capite non è una valutazione esauriente dello sviluppo economico, perché vi sono numerosi altri indicatori importanti del benessere, fra cui la salute e l’istruzione della popolazione. Comunque, è l’elemento utilizzato dalla Banca Mondiale e da altre organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite per sintetizzare il livello di sviluppo di un paese e classificarlo su tale base. La Banca Mondiale inserisce gli stati in tre categorie principali: a reddito alto, medio e basso. I paesi ad alto reddito sono: Stati Uniti, Canada, Europa occidentale, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e pochi altri. Essi rappresentano circa un miliardo di persone dei 7 che abitano il pianeta, più o meno il 15 per cento della popolazione mondiale. Il folto gruppo dei paesi a reddito medio copre una vasta estensione del pianeta; in e etti, i cinque settimi della popolazione mondiale sono nella categoria a reddito medio. Dei paesiff a reddito basso fanno parte circa un miliardo di persone e si trovano in Asia Meridionale ed Africa Subsahariana. C’è poi un’altra categoria molto importante stabilita dall’ONU. Si tratta di un sottogruppo, all’interno di quello dei paesi a basso reddito, che si trova in una situazione disperata. Sono paesi non solo poveri ma, in molti casi, a itti da gravi problemi di salute, bassissimi livelli di istruzione e elevata instabilitàffl sociale. In più, sono anche soggetti a siccità, alluvioni, conflitti e violenze. Sono stati classificati dalle Nazioni Unite come PMS, Paesi Meno Sviluppati. Molti di questi non hanno sbocchi sul mare, cosa che non è una coincidenza poiché lo sviluppo economico dipende in larga misura dal commercio internazionale, reso difficile dalla mancanza di porti. L’esserne privo costituisce un ulteriore ostacolo allo sviluppo del paese. Molto spesso questi sono isolati. Per quanto riguarda il calcolo del PIL, ci sono altri due dettagli importanti. Poiché i paesi dispongono, in genere, di monete nazionali, le transazioni sono misurate in quella valuta. Per avere un’unità di misura comune, devono quindi essere convertite tutte in un’unica valuta mediante un tasso di cambio. Quasi sempre, l’unità di misura è il dollaro e quindi il tasso di cambio con il dollaro viene utilizzato per convertire il PIL. C’è anche un’altra conversione che può essere estremamente utile per tener conto delle di erenze di costi o ff prezzi nei diversi paesi. Se si compera un’automobile o un televisore in una qualsiasi parte del mondo, il prezzo sarà abbastanza simile, perché si tratta di beni commerciati a livello internazionale. Nel caso, invece, di molti altri beni e servizi, come gli a tti delle case, i generi alimentari prodotti e consumati a livello locale ffi o i servizi personali, i prezzi possono variare enormemente da paese a paese, anche se convertiti in dollari al tasso di cambio di mercato. Se un paese ha un Pil pro capite di 6.000 dollari e uno di 3.000, potrebbe sembrare che il primo sia più ricco. Tuttavia, se nel secondo paese il livello medio dei prezzi è la metà di quello del primo, cioè se beni e servizi costano la metà, i tenori di vita sono più o meno simili. A volte, per tener conto delle di erenze nel livello dei prezzi, il PIL pro capite viene calcolato mediante un ff parametro comune di prezzi internazionali. Con questo metodo si misura quello che viene chiamato PIL pro capite a prezzi internazionali (in dollari) o PIL pro capite a parità di potere d’acquisto (PPA). Nel caso dei paesi più poveri, la correzione per tener conto del potere d’acquisto è molto maggiore. Per esempio, in un tipico paese africano povero, il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto tende a essere 3-4 volte più grande del PIL calcolato a prezzi di mercato. Quindi, in linea generale, il quadro dello sviluppo economico viene delineato mediante il PIL pro capite, corretto per tener conto della popolazione, della moneta e del livello dei prezzi. Ma allora, perché i paesi si trovano a diversi livelli di sviluppo economico? Cosa possono fare i paesi a basso reddito per alzare il loro tenore di vita? Disuguaglianze campagna-città Abbiamo considerato il PIL pro capite come indicatore sintetico, ma dobbiamo rilevare che i tenori di vita variano in misura significativa sia fra paesi sia al loro interno. È molto importante comprendere le variazioni e le disuguaglianze nell’ambito di un paese, specialmente in virtù dell’impegno dello sviluppo sostenibile a favorire l’inclusione sociale e la di usione del benessere. La di erenza più marcata che si riscontra ff ff all’interno di un paese è probabilmente quella fra vita rurale e vita urbana. Prima della Rivoluzione industriale, la quasi totalità della popolazione mondiale viveva in zone rurali. Adesso è ancora così in molte zone del mondo, in particolare in Africa ed Asia, anche se in realtà è in atto un processo di urbanizzazione accelerata che sta cambiando il nostro modo di vivere e sta producendo profonde di erenze all’interno dei paesi. Praticamente ovunque vi sono popolazioni rurali e urbane, spesso con qualitàff e stili di vita molto di erenti. Poiché molti paesi si trovano in una fase di transizione da un ambiente ff prevalentemente rurale a uno prevalentemente urbano, è davvero importante capire la di erenza fra i due tipiff di vita e cosa comporta in termini di benessere, livelli di reddito e tipologia di attività economiche. Un’area urbana è un luogo densamente popolato in cui risiedono almeno alcune migliaia di individui. In ogni caso, la di erenza fra «rurale» e «urbano» presenta caratteristiche basilari molto importanti per il ff processo di sviluppo economico e per la natura delle disuguaglianze interne ai singoli paesi. La prima riguarda il modo in cui la gente si guadagna da vivere. Nelle aree rurali è l’agricoltura l’occupazione principale, mentre nelle aree urbane lo sono l’industria e i servizi. In generale, il reddito per persona tende a essere più alto nelle aree urbane che in quelle rurali, cosa che favorisce il flusso di popolazione verso le aree urbane. Anche nella densità della popolazione, abitanti per chilometro quadrato, c’è una notevole di erenza. ff Nelle zone rurali la densità è generalmente bassa. Al contrario, le aree urbane sono spesso sovrappopolate, con migliaia di abitanti per chilometro quadrato. Di conseguenza, tende a essere di erente anche la qualità ff dei servizi pubblici: nelle aree rurali fornire elettricità, acquedotti o fognature è molto più difficile, poiché la popolazione è dispersa, mentre in quelle urbane gli abitanti sono concentrati in spazi ristretti. Un’altra di erenza significativa riguarda i tassi di fecondità (numero medio di figli per donna), che tendono ff a essere più alti nelle aree rurali. Questo per molte ragioni, ma una è fondamentale: i bambini vengono spesso considerati lavoratori agricoli produttivi, mentre nelle aree urbane sono visti spesso come «un costo». Tendenze globali nell’urbanizzazione Nella figura 2.3 si può vedere la percentuale della popolazione di ciascun paese residente nelle aree urbane, che è molto simile a quella della distribuzione di reddito per persona. Le popolazioni dei paesi ricchi sono tendenzialmente più urbane, quelle dei paesi poveri più rurali: le Americhe sono molto urbanizzate, dato che oltre l’80% risiede in aree urbane, mentre l’Africa Subsahariana è molto rurale, poiché solo il 25-35% della popolazione risiede in aree urbane. Ciò che è certo, però, è che quasi ovunque nel mondo l’urbanizzazione avanza a ritmo sostenuto e costituisce un fattore critico nel processo di sviluppo economico. Nella figura 2.4 si notano i tassi di crescita delle aree urbane, e si vede come in Africa l’incremento è più alto, quindi quella zona sta recuperando terreno in fatto di urbanizzazione: alcune zone crescono del 5% all’anno e quindi le loro dimensioni possono raddoppiare. In tutto il mondo, la tendenza è verso l’urbanizzazione: ci aspettiamo che la popolazione mondiale raggiunga gli 8 miliardi nel 2025 e i 9 nel 2040. Si prevede che tutto questo incremento avvenga nelle zone urbane: tutto il futuro aumento della popolazione si concentrerà nelle città. La quota dei residenti in zone urbane passerà dal 53% nel 2013 al 67% nel 2050. Nel processo di sviluppo economico la direzione è decisamente quella dalle campagne alle città, e questo modifica anche le campagne stesse, poiché via via che la popolazione rurale si sposterà, le aziende agricole finiranno per unirsi ed ingrandirsi. L’urbanizzazione porta con sé redditi più alti, servizi pubblici e istruzione migliori, tassi di fecondità in calo; è un fenomeno che osserviamo in numerose regioni a basso e medio reddito. Nel loro cammino, società e culture presentano profonde divisioni in termini di interessi, politiche e stili di vita urbani e rurali. Disuguaglianze di reddito all’interno dei paesi All’interno di un paese, anche le di erenze di reddito possono essere molto marcate. Bisogna tener conto ff non solo del livello medio di reddito di un paese, ma della sua distribuzione. In media, il reddito può essere su ciente ma se lo è perché pochissimi individui sono fantasticamente ricchi mentre il resto del paese è ffi tremendamente povero, le cose non vanno poi così bene. Quindi, oltre a misurare il PIL pro capite, dobbiamo misurare la disuguaglianza di reddito all’interno del paese, e a tale scopo si usano diversi indicatori. Possiamo considerare il rapporto fra i redditi più alti e quelli più bassi confrontando i redditi medi del 20 per cento delle famiglie più ricche con quelli del 20 per cento delle famiglie più povere. Un altro indicatore molto utile è il coe ciente di Gini. Questo coe ciente varia da 0,0 a 1,0, dove 0,0 significa completa ffi ffi uguaglianza di reddito (a tutti lo stesso) e 1,0 significa completa disuguaglianza (tutto il reddito ad una sola persona). Nel mondo reale, le società si trovano a metà tra i due: paesi equi nella distribuzione del reddito come Norvegia o Danimarca hanno un coefficiente di Gini allo 0,25%; paesi dove la distribuzione è più diseguale hanno lo 0,4 o più. In America e nei paesi africani i coefficienti sono circa allo 0,45%, dato che la distribuzione del reddito è diseguale Se si considera il coe ciente di Gini dei paesi ad alto reddito, si vede che esistono vie di erenti allo ffi ff sviluppo economico. Diventare più ricchi non significa necessariamente diventare più diseguali, ma non è neppure una garanzia di maggiore uguaglianza. Come spiegare tali differenze? Le ragioni della disuguaglianza sono numerose; le vicende storiche, geografiche e politiche giocano un ruolo importante nella relativa uguaglianza o disuguaglianza di una società. In passato, quando la maggior parte della ricchezza si basava sull’agricoltura, contavano moltissimo le dimensioni delle proprietà terriere; alcuni paesi, in particolare nelle Americhe, avevano tenute molto vaste di cui spesso si impadronivano gli emigranti europei, che poi costringevano le popolazioni indigene ad andarsene e si servivano degli schiavi. Disuguaglianze che esistono ancora oggi, sebbene in forme meno palesi. Nel mondo odierno, in cui industria e servizi sono molto più importanti, anche le di erenze di ff scolarità rappresentano un forte ostacolo all’uguaglianza. Ad esempio, l’istruzione può essere un fattore di equilibrio sociale se tutti hanno le stesse opportunità; ma se solo i ricchi possono accedervi diventa una fonte di diseguaglianza. Il divario campagna-città è un altro fattore chiave di disuguaglianza. Chi si trasferisce nelle aree urbane trova spesso migliori opportunità di lavoro e un reddito più alto, mentre chi rimane nei villaggi di campagna come piccolo agricoltore spesso riesce a malapena a sopravvivere. Le discriminazioni hanno poi un peso determinante. In tutto il mondo, nel mercato del lavoro alle donne non vengono o erte le stesse chance e la stessa retribuzione, anche se fanno lo stesso lavoro, e magari pure ff meglio. Spesso, le minoranze razziali, etniche e religiose sono vittime di tali disparità di trattamento tanto da essere gravemente ostacolate nell’accesso all’istruzione e alle mansioni qualificate nel mondo del lavoro, per cui non sono in grado di ottenere il tipo di occupazione che meritano. Le politiche governative hanno grandi responsabilità nel promuovere l’uguaglianza o favorire la disuguaglianza. Governi corrotti che si servono del denaro pubblico per foraggiare le proprie clientele possono dare luogo a enormi disuguaglianze. Spesso infatti, i paesi che vivono di risorse minerarie come petrolio, oro o diamanti, sono molto diseguali perché la rendita pubblica di quelle risorse viene distribuita fra una cerchia ristretta di privilegiati. Si parla quindi di maledizione delle risorse naturali, paradosso per cui un paese ricco di risorse naturali finisce per essere povero e sottosviluppato, con corruzione e diseguaglianza. Nello stesso tempo, i governi possono essere grandi promotori di uguaglianza. Se usano le rendite da risorse naturali per assicurare un accesso di uso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, possono ridurre le ff disuguaglianze di reddito e nel contempo accrescere l’e cienza economica complessiva, consentendo ai ffi poveri di investire nel miglioramento della propria esistenza. Le possibilità riguardo a ciò che possiamo fare per promuovere una maggiore uguaglianza sono ampie e si tratta di una scelta che non possiamo più rimandare. Attuare lo sviluppo sostenibile significa sia capire la natura e le origini della disuguaglianza sia porsi come obiettivo un alto grado di inclusione sociale nello sviluppo economico. Valutazione del benessere In parte, il benessere è determinato dalla possibilità di soddisfare bisogni materiali e aspirazioni, e quindi dipende dal reddito. In parte, dipende dai servizi sociali forniti dallo stato, nonché dalla nostra percezione in tema di sicurezza o insicurezza personale. La povertà estrema, ovviamente, è un’o esa al benessere e alla ff soddisfazione esistenziale. I beni materiali non sono tutto; infatti, la loro importanza diminuisce in maniera inversamente proporzionale al reddito: per un povero, anche un dollaro fa la differenza; per un ricco no. Pertanto, siamo ben consapevoli che valutazioni semplificate come il PIL pro capite danno solo un’idea approssimativa del livello di benessere di un individuo o di una nazione. Ma come fautori dello sviluppo sostenibile siamo più interessati al miglioramento del benessere umano che al semplice aumento del reddito. Per questa ragione, è importante chiedersi come misurare al meglio il benessere al di là del PIL pro capite. Due secoli fa questo enorme divario non esisteva: prima dell’avvio della Rivoluzione industriale intorno al 1750, i livelli di reddito del mondo erano sostanzialmente uguali. Solo a partire dalla Rivoluzione industriale alcune parti del mondo conobbero forti incrementi del prodotto interno lordo pro capite per lunghi periodi, trasformandosi così da società rurali a urbane, passando dall’agricoltura di sussistenza a quella ad alta produttività, dall’industria a domicilio a quella moderna, fino a diventare ciò che sono oggi, cioè moderne economie industriali e di servizi a tecnologia avanzata. In soli 250 anni il divario tra ricchi e poveri si è formato: il decollo economico inizia intorno al 1750, dopodiché il prodotto mondiale balza all’insù bruscamente, come si può dedurre dalla figura 1.3 (grafico). Il prodotto mondiale totale, che è la somma del PIL di ciascun paese è composto da due fattori. Uno è il PIL pro capite, l’altro la popolazione mondiale. Moltiplicandoli fra loro otteniamo il prodotto mondiale totale. Ma allora, il decollo dell’economia mondiale nel 1750 è il risultato dell’aumento del prodotto per persona oppure di quello della popolazione? Entrambi hanno avuto un ruolo importante. La popolazione è rimasta sostanzialmente stabile per migliaia di anni con una dimensione inferiore al mezzo miliardo di persone al tempo dell’impero romano, con fluttuazioni di notevole entità nei periodi di calamità. A partire dalla metà del Settecento, ha cominciato a crescere rapidamente. Questo incremento demografico fu favorito in gran parte da cambiamenti nel know-how economico e tecnologico, in particolare nella capacità produttiva delle derrate agricole, con la possibilità, quindi, di nutrire una popolazione numerosa. Anche il prodotto pro capite è cresciuto notevolmente, a partire più o meno dallo stesso periodo, ovvero all’inizio della Rivoluzione industriale; e quello mondiale pro capite è rimasto quasi piatto per secoli. Uno dei maggiori economisti della nostra epoca, fece una descrizione molto accurata di questo lungo periodo di quasi stasi, dai tempi dell’impero romano fino agli inizi della Rivoluzione industriale. Keynes afferma che dai primissimi tempi di cui abbiamo testimonianza, dal 2000 a.C, fino al 1700 non ci fu un grande cambiamento significativo nel tenore di vita dell’individuo medio che viveva nei centri civilizzati della terra. L’assenza di progresso o progresso lentissimo fu dovuto all’assenza di importanti innovazioni tecniche dalla preistoria all’età moderna, e alla mancata accumulazione di capitale. Nel primo caso, si tratta di un fatto eccezionale, poiché quasi tutto ciò che ha importanza e che il mondo possedeva nell’era moderna era già noto dalla preistoria. Tra questi troviamo il fuoco; linguaggio; frumento; orzo; vite e ulivo; ruota; remo; aratro; vela; cuoio; lino; mattoni; pentole; oro, argento, rame, stagno, piombo... La tesi di Keynes è che la tecnologia ha un ruolo cruciale per lo sviluppo economico. Nel corso di un lungo periodo, è rimasta praticamente invariata, tenore di vita più o meno uguale, un mondo quasi immutato su un arco di tempo di ben diciassette secoli. Poi, le curve della popolazione, del prodotto pro capite e dell’innovazione tecnologica cominciano a impennarsi. Inizia la rivoluzione industriale. La Rivoluzione Industriale e l’Inghilterra La crescita economica moderna ebbe inizio in Inghilterra. Si trattò di un evento straordinario, raro, eccezionale, che si verificò in Inghilterra, luogo particolare del pianeta, a metà del Settecento per poi di ondersi in tutta l’economia mondiale. ff L’espressione stessa, come possiamo notare, fa riferimento alla parola industria. Per la prima volta, la base economica di una società non era più costituita dall’agricoltura, ma dall’industria, cosa che comportò un cambiamento fondamentale nelle competenze tecnologiche del singolo. Le nuove tecnologie, il motore a vapore, filatura e tessitura meccanizzate, produzione siderurgica su larga scala, furono essenziali, ma ci vollero anche interconnessioni economiche complesse: la vita dell’economia moderna richiede l’interazione di molte parti tra loro. Era necessario aumentare la produttività dell’agricoltura per disporre di un surplus di derrate alimentari da destinare ai lavoratori dell’industria. Era necessario un sistema di trasporti per trasferire le derrate dalle aziende agricole alle città industriali, e i beni industriali dalle fabbriche alle campagne. Ci volevano nuovi porti e una rete di trasporti marittimi per esportare le merci prodotte dalle aziende manifatturiere, al fine di scambiarle con le materie prime necessarie alla produzione industriale. Cominciò ad a ermarsi un sistema di approvvigionamenti a livello mondiale; e ff queste transazioni sempre più complesse richiedevano mercati borsistici, assicurazioni, attività finanziarie, diritti di proprietà e altri elementi software e hardware di una moderna economia di mercato. Cosa accadde in Inghilterra? 1. La produttività agricola cominciò ad aumentare, come urbanizzazione e commerci; 2. Ci fu un’economia di mercato più sofisticata; 3. I diritti di proprietà divennero più flessibili e complessi (costituzione di nuove aziende o tutela di brevetti); 4. Il principio della legalità si rafforzò; 5. Ci furono importanti scoperte nell’ambito della rivoluzione scientifica tra 500 e 600 (Galileo, Newton, Bacon). Nel 1712, Thomas Newcomen inventò la macchina a vapore. La nuova invenzione si serviva della combustione del carbone per produrre la forza motrice, che poteva essere usata per pompare l’acqua dai pozzi delle miniere di carbone. James Watt poi la migliorò e la nuova macchina a vapore venne alla luce nel 1776: si poterono sfruttare ingenti quantità di energia a carbone. Egli riuscì anche a far brevettare la sua invenzione perché all’epoca in Inghilterra già c’erano i primi accenni ad una legislazione commerciale. Tuttavia, bisogna tener conto del fatto che se nel paese non ci fossero stati né carbone né ferro, non ci sarebbe mai stata una macchina a vapore o la Rivoluzione industriale: questi, estratti dai giacimenti, potevano essere utilizzati grazie alle favorevoli condizioni di trasporto, mediante fiumi, canali, strade. Dunque, tutto contribuì a quella rivoluzione: condizioni toponomastiche, vie fluviali, canali, porti e giacimenti minerari, assieme a incentivi di mercato, il principio della legalità e propensione alla ricerca scientifica promossa da grandi università. Queste sono le condizioni speciali che si combinarono tra loro nell’Inghilterra nella metà del Settecento per rendere possibile la Rivoluzione industriale. Il primo a descrivere questo fenomeno fu Adam Smith nel testo “Indagine sulla natura e cause della ricchezza delle nazioni”, noto giustamente come fondatore dell’economia moderna. “La Ricchezza delle Nazioni” fu pubblicato nel 1776, stesso anno in cui Watt realizzò la macchina a vapore e le colonie americane proclamarono l’indipendenza. Adam Smith fu il primo a spiegare il funzionamento di un’economia moderna in termini di specializzazione e divisione del lavoro, e ci offrì l’idea di “mano invisibile”, secondo cui gli individui, agendo nel proprio interesse particolare determinano un aumento della produttività, e dunque della “ricchezza delle nazioni”. Si fa appello non alla benevolenza o umanità del singolo commerciante, ma al loro egoismo, cioè alla loro considerazione per il proprio interesse. Ciò che determina la divisione del lavoro ed il funzionamento dell’economia moderna è la volontà di soddisfare desideri e bisogni mediante transazioni di mercato. La macchina a vapore fece sì che le fabbriche non fossero più alimentate dall’energia umana o animale, ma da questa. Le dimensioni dell’attività industriale aumentarono vertiginosamente. La macchina a vapore rese possibile anche nuove modalità di trasporto, come le locomotive ferroviarie e le grandi navi mercantili. La maggiore disponibilità dell’energia consentì un aumento senza precedenti delle attività industriali di trasformazione delle materie prime, il che consentì una smisurata espansione di città, industrie ed infrastrutture. Il cambiamento delle condizioni di vita fu molto forte, e spesso traumatico. Uno dei critici più spietati della durezza della prima industrializzazione fu, naturalmente Karl Marx. Nel 1848, Marx e Engels scrissero “Il Manifesto del partito comunista”, una sorta di tributo ironico al potere della nuova economia industriale e delle sue grandi innovazioni tecnologiche. Descrivevano il mercato mondiale, che era stato creato dalla grande industria e aveva dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni via terra. Aveva influito anche sull’espansione dell’industria e ha causato lo sviluppo della borghesia, cioè la nuova classe dei capitalisti. Questa era descritta, sempre nel Manifesto, come colei che trascina a forza nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare; colei che si serve dei prezzi bassi come arma e colei che costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione borghese. In breve, colei che crea un mondo a propria immagine e somiglianza. Le grandi ondate del cambiamento tecnologico All’inizio dell’Ottocento, la nuova era della moderna crescita economica era ormai in atto. Mercati e innovazioni tecniche orientavano questo processo, dapprima in maniera molto irregolare e alla fine di ondendolo in quasi tutto il mondo (come previsto da Marx). Questo è il periodo che Kuznets, studioso ff dello sviluppo economico e storico dell’economia, vincitore del premo Nobel, chiamò “era della moderna crescita economica”. Se la crescita economica è l’incremento del PIL pro capite, per calcolare una media globale, sommiamo i PIL nazionali, ottenendo il prodotto mondiale lordo (PML), che poi dividiamo per la popolazione mondiale. Nel corso di oltre 200 anni, l’era della moderna crescita economica, il PML pro capite è aumentato in maniera sostenuta, benché molto squilibrata fra le diverse regioni del globo. Dobbiamo perciò analizzare il processo di crescita globale, facendo una distinzione basilare fra i due tipi di crescita, ciascuno caratterizzato da un incremento sostenuto del prodotto per persona. Un tipo di crescita è quello dei leader tecnologici mondiali. All’inizio del Settecento il leader fu senza dubbio l’Inghilterra; nella seconda metà del secolo lo furono la Germania e gli Stati uniti; nel Novecento, gli Stati Uniti furono di gran lunga il paese più dinamico dal punto di vista tecnologico. La crescita economica dei “leder tecnologici” aveva un carattere del tutto particolare in quanto stimolata da continue innovazioni, che tendevano ad amplificarsi passando da una tecnologia all’altra e da un settore all’altro attraverso nuove innovazioni e combinazioni di processi. Ad esempio, la macchina a vapore di Watt trovò applicazioni nel settore dei tessili; delle miniere; delle ferrovie... Gli economisti l’hanno definita crescita endogena, ovvero che nasce dall’interno di un sistema, non all’esterno. Crescita endogena significa progresso economico derivante dai meccanismi interni dell’economia: i progressi tecnologici fanno aumentare il PIL, che a sua volta fa aumentare gli incentivi all’innovazione. Questi portano ad un ulteriore incremento del PIL, che porta ad un’ulteriore ondata di innovazioni, che danno origine a macchinari, attrezzature, industrie... C’è poi un secondo tipo di crescita economica, quella dei paesi “ritardatari” che per ragioni storiche, politiche, geografiche sono rimasti indietro rispetto ai leader tecnologici. La Cina, per esempio, non si è industrializzata nell’Ottocento. A un certo punto, però, paesi come la Cina e le odierne economie emergenti hanno incominciato a recuperare terreno, a ridurre il divario con i paesi leader, attingendo alle tecnologie e ai sistemi organizzativi di questi ultimi. Questo tipo di crescita è molto di erente da quello endogeno, e a ff volte viene chiamato crescita “catch-up”. L’essenza di tale strategia consiste nell’importare tecnologie dall’estero invece di svilupparle in casa. La crescita catch-up può essere notevolmente più veloce di quella endogena. I leader tecnologici hanno avuto una crescita tendenziale fra l’e il 2 per cento pro capite, mentre i paesi con la più veloce crescita catch-up (come Corea del sud e Cina) hanno registrato un aumento del PIL pro capite fra il 5 e il 10 per cento all’anno. Questa è una crescita a razzo, accelerata, che riguarda riduzione o annullamento dei divari, non l’invenzione di nuove tecnologie. Questi due meccanismi di crescita sono le due vie principali della crescita economica mondiale. Bisogna aver chiaro le differenze tra le due, altrimenti c’è grande confusione nel dibattito sullo sviluppo economico: la struttura organizzativa necessaria per stimolare la crescita endogena è diversa da quella per una crescita catch-up accelerata. In questo caso poi, un intervento deciso dello Stato (come avvenuto in Cina, Corea del Sud e Singapore) può stimolare molto l’adozione accelerata di tecnologie avanzate importate dall’estero. Certamente l’innovazione non è tanto importante come lo sviluppo di infrastrutture. Talvolta, gli economisti definiscono la crescita endogena come un processo di “rendimenti di scala crescenti e dinamici” o come un’economia con reazione a catena. Le innovazioni stimolano ulteriori innovazioni, alimentando il processo di crescita: una nuova innovazione fa aumentare il PIL; ciò aumenta il potere d’acquisto del mercato per ulteriori innovazioni; altri innovatori potenziali intensificano le attività di ricerca e sviluppo (R&S) cercando innovazioni redditizie, il che spinge ad impegnarsi ancora di più nelle suddette attività di R&S. A questo processo contribuisce anche il fatto che le innovazioni possono essere combinate fra di loro, moltiplicandone gli e etti. Per esempio, la Rivoluzione industriale prese avvio con la forza ff motrice del vapore, poi con i progressi nella produzione di acciaio, e questi due fattori diedero luogo a innumerevoli innovazioni in altri settori, come le ferrovie e la navigazione, e alla fine ci fu l’avvento delle automobili basate sul motore a combustione interna. Fin dagli albori della Rivoluzione industriale ci sono state ondate di innovazione tecnologica. Parliamo di era del vapore, dell’elettricità, dell’automobile, dell’aviazione e così via. Su queste ondate tecnologiche sono state formulate numerose teorie, la più importante fu quella dell’economista Nicolaj Kondrat’ev. L’idea principale di Kondrat’ev era che lo sviluppo economico fosse stimolato da ondate di grande cambiamento tecnologico che risalivano alla Rivoluzione industriale. Egli considerò questi cicli di cambiamento tecnologico di lunga durata come i principali fattori trainanti del progresso economico e anche come le cause delle crisi economiche quando la dinamica della crescita di un ciclo si esaurisce e la successiva ondata tecnologica non ha ancora preso forza. I seguaci di Kondrat’ev, oggi, individuano approssimativamente da quattro a sei cicli di cambiamento tecnologico di lunga durata. Il primo ciclo di Kondrat’ev mette al centro la macchina a vapore, dal 1780 al 1830, ovvero dalla sua invenzione fino all’impiego su larga scala. Il secondo ciclo è rappresentato dall’esplosione delle attività nei settori della costruzione delle ferrovie e della produzione di acciaio, a partire dagli anni 30 dell’800. Si tratta di applicazioni di importanza essenziale derivate dalla macchina a vapore, dell’espansione del settore metallurgico e dello sviluppo dell’ingegneria di precisione. Queste tecnologie rivoluzionarono le economie nazionali e quella mondiale poiché ridussero drasticamente i costi di trasporto e quindi permisero di collegare fra di loro anche mercati molto distanti: le materie prime si potevano trasportare, agevolmente e con profitto, e commerciare sui mercati internazionali. L’inizio del ‘900 fu un’epoca economica miracolosa. Le ondate delle innovazioni tecnologiche avevano portato a un aumento inimmaginabile della capacità di produrre beni e servizi, soddisfare i bisogni materiali, allungare la durata della vita, risolvere annosi problemi di salute pubblica e fare grandi passi avanti in termini di qualità della vita mediante l’elettrificazione, i moderni mezzi di trasporto e la produzione industriale di massa. Tuttavia, vi erano anche grandi differenze tra ricchi e poveri. La moderna crescita economica era ormai pienamente avviata in Europa e in pochi altri paesi delle zone a clima temperato ma non ancora nel resto del mondo. Alla fine della I guerra mondiale, Keynes volge lo sguardo al periodo prebellico, affermando, nel suo libro “Le Conseguenze Economiche della Pace”, che nell’agosto del 1914 il cittadino inglese medio poteva ordinare diversi prodotti da tutto il pianeta stando a letto, parlando al telefono. Si aspettava di vederseli consegnati presso il proprio domicilio; oppure poteva investire il suo denaro nelle risorse naturali e nelle nuove iniziative mondiali, considerandolo normale. Parlava da cittadino inglese, brillante e privilegiato, mentre chi si trovava sotto il tallone del domino coloniale non poteva fare altrettanto. Eppure, K., esprimeva anche l’eccezionalità di un’epoca nella quale la moderna crescita si era a ermata in molte parti del mondo e ff aveva già creato un’economia di mercato globale. Quell’economia globale soccombette alla guerra e al caos, con lo scoppio del I conflitto mondiale nel 1914. Scatenò il caos in tutto il mondo, milioni di morti per eventi bellici, altri milioni a causa di malattie infettive, come l’influenza spagnola del 1918, e provocò anche movimenti rivoluzionari, dei quali il più importante fu la Rivoluzione russa del 1917. La I guerra mondiale scatenò fortissime crisi politiche e finanziarie che portarono, negli anni Venti, a una forte instabilità monetaria e finanziaria, che a sua volta ebbe un ruolo chiave nel manifestarsi della Grande depressione del 1929. Questa diede origine a un’altra ondata di eventi politici fra cui l’ascesa al potere di Hitler in Germania e di Mussolini in Italia, nonché l’avvento del fascismo in Giappone durante gli anni Trenta. Alla fine del II conflitto mondiale, molte tecnologie innovative (radar, computer,aviazione, energia nucleare...) erano state ulteriormente perfezionate, sebbene alcuni dei leader tecnologici del periodo bellico (Germania e Giappone) fossero in rovina. Nel 1945 però, non era certamente in rovina il principale leader tecnologico, gli Stati Uniti. Tranne che per l’attacco giapponese nel 1941 a Pearl Harbor, il paese era uscito dalla guerra senza subire praticamente alcun danno e nel 1945 la sua economia era di gran lunga la prima al mondo e tale sarebbe rimasta fino alla fine del secolo. Nel 1945, l’economia mondiale era divisa approssimativamente in tre: 1. Primo Mondo comprendeva i paesi industriali a economia di mercato che operavano nell’ambito di un sistema di sicurezza guidato dagli Stati Uniti (Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone); 2. Secondo Mondo comprendeva i paesi comunisti guidati dall’Unione Sovietica e dopo il 1949, la Cina; maggioranza dei paesi che si erano da poco liberati dal giogo coloniale. Alcuni si rifugiarono sotto la protezione o erta dagli Stati Uniti altri invece sotto il blocco sovietico.ff 3. Terzo Mondo cioè i paesi che si dichiararono non allineati. Negli anni ‘60, si usò un’altra espressione informale, il Quarto Mondo, che indicava i più poveri fra i paesi poveri. Con la fine della guerra fredda nel 1991, queste definizioni sono cadute (disuso). Per diversi decenni l’economia mondiale procedette sulla base di queste ripartizioni geopolitiche. Il primo mondo si riprese con notevole rapidità durante gli anni ‘50, dalle devastazioni della guerra; si a ermò la ff crescita economica endogena stimolata dalla innovazioni tecnologiche e nei paesi ad alto reddito il tenore di vita crebbe velocemente. Per questi paesi, il secondo dopo guerra fu per breve periodo di ricostruzione e poi di crescita endogena accelerata. Nel secondo mondo per qualche tempo l’industrializzazione parve avere un certo dinamismo, ma già negli anni ‘60 si ebbe una crisi dovuta alla stagnazione economica; negli anni ‘70, lo sviluppo si stava bloccando completamente, cosa che indusse alcuni paesi ad avviare una politica di riforme. In Cina, ad esempio, ci furono quelle di Deng Xiaoping che aprirono il paese ad un sistema di mercato e agli investimenti nel commercio internazionale. Quelle riforme ebbero grande successo nell’avviare la crescita catch –up, al punto che l’economia cinese ha avuto il più rapido sviluppo mai visto nella storia. Ad altre parti del mondo comunista ci volle molto più tempo per liberarsi: l’Unione Sovietica si rifiutò a lungo di fare riforme analoghe, finché nel 1985 arrivò al potere Michail Gorbaciov, che avviò le indispensabili riforme per passare a un’economia di mercato; poi, nel 1989, ci furono le rivoluzioni democratiche ed economiche dell’Europa dell’Est. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, il Secondo Mondo entrò finalmente a far parte dell’economia mondiale. Il Terzo e Quarto Mondo comprendevano decine di paesi, ciascuno con politiche e strategie proprie. Alcuni cercarono ben presto di integrarsi con le economie del Primo Mondo, rendendosi conto che l’arrivo delle onde tecnologiche poteva inserirli in un processo di industrializzazione molto particolare. Questo nuovo tipo di “industrializzazione ritardata” si esplicò nella costruzione di fabbriche locali che producevano per aziende multinazionali, nell’ambito dei sistemi di produzione globali. Per esempio, un’azienda della Corea del Sud si metteva a fabbricare prodotti di elettronica o di abbigliamento per i dettaglia nti di Stati Uniti ed Europa, sulla base della tecnologia e delle proprietà intellettuali delle aziende americane ed europee. I primi paesi ad abbracciare questa strategia furono Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, chiamati in seguito, “tigri asiatiche”. Negli anni ‘60, le economie di questi quattro paesi crebbero a ritmi impressionanti mediante l’integrazione della loro base industriale con i settori hi-tech del Primo Mondo. Quando il loro successo fu certo, altri paesi in via di sviluppo iniziarono ad aprirsi al commercio ed agli investimenti esterni al fine di attrarre nuove imprese multinazionali e cogliere i vantaggi della crescita globale fondata sulla tecnologia. È così che, dopo la seconda guerra mondiale, ebbe origine, gradualmente, l’attuale era della globalizzazione. La nuova crescita catch-up prese il via nei paesi che aprirono i propri confini a scambi e investimenti esteri; nuovi sistemi di produzione globali, imperniati su grandi imprese multinazionali, si servirono dei paesi più poveri per quelle parti del sistema produttivo che richiedevano molta manodopera a bassi salari. La catena del valore globale venne sempre più suddivisa fra molti paesi per cogliere i vantaggi di livelli retributivi. I paesi poveri riuscirono a inserirsi nei sistemi di produzione globali quando o rirono infrastrutture valide, unaff buona rete di trasporti e manodopera a basso costo ragionevolmente qualificata. La globalizzazione della produzione venne facilitata da innovazioni nelle tecnologie e nei trasporti, fra cui l’impiego di container standardizzati che facilitavano il trasporto intermodale, internet e la telefonia mobile. Queste tecnologie ICT fecero aumentare notevolmente la capacità delle imprese di gestire sistemi produttivi globali molto complessi e dislocati in varie parti del mondo, e quindi anche quella di creare aziende globalmente integrate. Le grandi imprese multinazionali divennero così i principali agenti della propagazione ininterrotta della moderna crescita. Il Giappone fu un leader di questo processo, coniando la metafora delle oche in volo. Questo modello si basa sulla prima oca che sta davanti e le altre che la seguono. Lo stesso avvenne nel caso dello sviluppo economico dell’Asia: dapprima ci fu l’industrializzazione del Giappone e dietro di esso, arrivarono Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Quindi arrivarono Indonesia, Malaysia e Thailandia e poi, dietro questi ultimi, Cina e Vietnam; ora è la volta di Cambogia, Laos e Myanmar. Nella figura 3.5 ci sono le localizzazioni dei siti produttivi delle multinazionali di settore tessile e abbigliamento nel 1999. In Asia, come previsto da Adam Smith, si trovano tutte sulla costa. La figura 3.6 mostra una mappa degli investimenti diretti esteri in Cina durante il grande balzo nella sua economia dal 1978 al 2000. Si nota come la Cina divenne la fabbrica del mondo, usando generalmente tecnologie e processi industriali provenienti dall’estero, spesso mediante investimenti diretti di imprese multinazionali. Le località remote nelle zone interne dei continenti, quelle circondate da alte montagne o le isole negli oceani hanno ancora problemi di sviluppo economico. Capitolo 4: Perché alcuni paesi si sono sviluppati ed altri sono rimasti poveri Il concetto di economia clinica Abbiamo visto come la moderna crescita economica si sia di usa nel mondo durante gli ultimi 250 anni. ff Abbiamo esaminato i motivi per cui la crescita economica si è verificata in alcuni paesi prima che in altri, e addirittura quasi per niente in pochi altri. Abbiamo anche rilevato i motivi dell’industrializzazione precoce o ritardata in altre parti del mondo: il clima ha avuto un ruolo importante; certamente hanno influito molto i fattori geopolitici, come il dominio politico imperialista dell’Europa occidentale sulle colonie; importanti sono anche i problemi sanitari. In proposito, dobbiamo considerare tre questioni principali. Primo, la moderna crescita economica è stato un processo di di usione. Secondo, i modelli di di usione sono chiari. Terzo, negli ultimi 250 anni sono entrati ff ff in gioco molti fattori di erenti e la loro importanza relativa continua a cambiare, specialmente in seguito ff all’evoluzione delle tecnologie. Si tende purtroppo a o rire spiegazioni eccessivamente semplici per dinamiche economiche complesse. Da ff molte parti i legge che la crescita dipende dalla libertà economica o dalle istituzioni inclusive, o dal controllo sulla corruzione. Questi fattori possono certamente giocare un ruolo, ma non l’unico e neanche il principale, in luoghi e tempi della storia diversi. In più, singolarmente presi, non ci aiutano a prevedere lo sviluppo futuro e non spiegano i modelli di sviluppo passati. Il problema è che moltissime cose possono andare storte in un processo complesso quale è quello del cambiamento radicale di un’economia. Un professionista dello sviluppo, per essere e cace, invece di o rire ffi ff una sola diagnosi semplicistica, una sola prescrizione o una sola richiesta di consulto, dovrebbe fare una diagnosi accurata ed e cace sulla base di condizioni, storia, situazione geografica, cultura e struttura ffi economica del paese in questione. I medici definiscono diagnosi di erenziale questo processo di ricerca della causa e ettiva di un malattia. ff ff Anche i professionisti dello sviluppo sostenibile devono fare una diagnosi di erenziale. Questo concetto è ff stato definito da Jeffrey Sachs “economia clinica”. Egli ha fatto una lista di controllo, analoga a quella dei medici, per una particolare «malattia» ancora molto di usa nel XXI secolo: la povertà estrema, in cui vivonoff intrappolate circa un miliardo di persone tutt’ora. La lista di controllo diagnostica comprende sette categorie principali e numerose sottocategorie. Primo, la condizione di base potrebbe essere quella che chiamiamo trappola della povertà, che si verifica quando il paese è troppo povero per fare gli investimenti primari necessari. Secondo, la povertà potrebbe essere la conseguenza di politiche economiche sbagliate. Terzo, la povertà potrebbe essere il riflesso del dissesto finanziario dello stato. È il caso della bancarotta finanziaria, ad esempio. Quarto, la povertà potrebbe essere dovuta alla posizione geografica. Magari il paese non ha sbocchi sul mare o isolato tra le montagne; che debba affrontare gravi malattie o che sia soggetto a continue calamità naturali. Quinto, può essere che il paese sia vittima di un cattivo governo più che di politiche sbagliate, dettate dalla corruzione o dal malgoverno. Un sesto fattore della persistente povertà può essere costituito dalle barriere culturali, come nelle società che continuano a discriminare le donne. Il settimo fattore è rappresentato dalla geopolitica, cioè dalle relazioni politiche e di sicurezza che un paese intrattiene con i propri vicini, nemici e alleati. Se un paese è protetto da attacchi, disporrà della piena sovranità nazionale e potrà stabilire rapporti commerciali e pacifici con altri paesi, quindi lo sviluppo economico sarà favorito dalla geopolitica. Se invece è dominato da una potenza straniera, o è teatro di una guerra di grandi potenze, può essere fiaccato o devastato. È il caso dell’Afghanistan. Circa questi fattori e le loro numerose sottodivisioni, c’è un punto da considerare prioritariamente: i problemi evidenziati non riguardano indistintamente tutti i paesi. Le di erenti aree del mondo, in tempi di erenti, ff ff hanno dovuto a rontare situazioni diversissime per liberarsi da una sorta di assuefazione alla povertà. ff Sarebbe un disastro per i pazienti seguire sempre la medesima prescrizione medica, e lo stesso vale per un’economia. Ogni paese è diverso, si trova in una situazione diversa e ha bisogno di cure diverse. Una crisi in Polonia non è uguale ad una crisi in Africa. Due sono le vie principali per sottrarsi alla trappola della povertà. La prima è che lo stato prenda a prestito i fondi necessari per gli investimenti pubblici e poi faccia a damento sulla futura crescita economica per rimpinguare le proprie casse e poter così restituire i prestiti. ffi La seconda è che governi, aziende e fondazioni estere, nonché le istituzioni internazionali, forniscano un sostegno temporaneo per finanziare i bisogni più urgenti; con la conseguente ripresa della crescita economica, quel sostegno può essere gradualmente ridotto e, alla fine, eliminato. Tale sostegno viene tecnicamente definito aiuto allo sviluppo e comprende una grande varietà di aiuti a condizioni migliori rispetto a quelle di mercato. Quando gli stati e le agenzie u ciali forniscono l’aiuto, questo viene chiamato ffi assistenza u ciale allo sviluppo; se viene fornito da organizzazioni non governative e fondazioni private, ffi viene chiamato aiuto privato allo sviluppo. A partire dal 2000 sono state create diverse istituzioni ad hoc per indirizzare gli aiuti u ciali a progetti di ffi provata e cacia, con l’adozione da parte delle Nazioni Unite di obiettivi globali per la lotta alla povertà, notiffi come obiettivi di sviluppo del millennio od obiettivi del millennio. Una delle più importanti è il Fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria: i governi, le aziende o le istituzioni filantropiche fanno donazioni ed il fondo le distribuisce ai paesi poveri colpiti dalle malattie in questione. Tuttavia, gli economisti (la maggior parte) sono ancora convinti che la povertà sia causata da singoli fattori come corruzione o mancanza di libertà economica. Ulteriori considerazioni di natura geografica: trasporti, energia, malattie, raccolti. stessi diritti degli uomini? Sono ancora soggette a pesanti discriminazioni? Naturalmente, l’uguaglianza di genere ha anche aspetti politici, ma la cultura gioca un ruolo molto importante. Probabilmente, non esiste società al mondo in cui le donne non siano tuttora soggette a qualche discriminazione. Purtroppo, ci sono ancora molti posti dove le donne si vedono sbarrata la strada verso la loro partecipazione alla vita economica e politica. Una conseguenza di questo è che la società in questione cerca di reggersi su metà delle proprie energie intellettuali e dei propri talenti ed è destinata a rimanere indietro. È un’era dove, nel corso degli ultimi trent’anni, si sono verificati importanti cambiamenti positivi, quantunque i progressi non siano per niente uniformi. Il ruolo della politica Oltre alla situazione geografica, alla trappola della povertà e alla cultura, nella nostra lista di controllo della povertà dobbiamo includere la politica e la governance. La politica può fallire in molti modi; in proposito, nella lista di controllo ho incluso quattro tipologie: politiche economiche sbagliate; dissesto finanziario; cattiva governance; condizioni geopolitiche sfavorevoli. La governance ha grande importanza perché il ruolo dello stato nello sviluppo economico è cruciale. Gli investimenti pubblici sono vitali per la costruzione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo di qualsiasi economia. L’intervento statale è necessario anche per lo sviluppo di capitale umano negli ambiti di istruzione, sostengo alimentare e assistenza sanitaria. Un governo e cace ed e ciente è necessario per assicurare opportunità economiche a tutti i cittadini, ffi ffi compresi i più poveri fra i poveri. Lo stato è essenziale per a ermare il principio di legalità: se non ci fosse, prevarrebbero anarchia e violenza; ff se fosse corrotto altre istituzioni opererebbero in un ambiente illegale e sarebbero destinate a fallire o a non dare il proprio contributo allo sviluppo economico. Se non fosse possibile far rispettare i contratti, chi lavorerebbe? Chi farebbe impresa? Dunque, nel considerare un paese in crisi dobbiamo tenere conto di diversi aspetti della situazione politica. La Cina, una delle economie cresciute più rapidamente, è un esempio eccellente di capacità dello stato di impegnarsi in grandi investimenti infrastrutturali: nelle città ci sono estese reti metropolitane; una buona elettrificazione su larga scala ed un fantastico sistema di trasporti ferroviario. Sono però ancora numerosi i governi che non investono in infrastrutture. Lo stato deve anche regolamentare i settori chiave dell’economia, fra cui quello finanziario. I sistemi bancari non regolamentati tendono a entrare in crisi. Il mondo intero l’ha sperimentato nel 2008, quando la deregulation di Wall Street, fulcro del sistema finanziario mondiale, ha provocato una crisi di proporzioni enormi che si è propagata ovunque. Il governo aveva lasciato che le potenti lobby di Washington promuovessero le deregulations dei mercati finanziari, e Wall Street ha così fatto enormi profitti, mentre il resto delle società ha subito enormi perdite. Le attività lobbistiche delle grandi imprese possono dare luogo a di usi fenomeni di corruzione e al ff fallimento dei processi di regolamentazione. Ovviamente, è piuttosto di cile misurare le dimensioni della ffi corruzione. Gli stati hanno un ruolo di primo piano nell’assicurare anche ai figli delle famiglie povere la possibilità di accedere all’«ascensore» sociale ed economico. Ciò implica un gran sostegno pubblico dato ai bambini poveri; ma in questo e più in generale nell’impegno alla lotta contro povertà, le di erenze fra le nazioni sonoff notevoli in campo sociale. Nei paesi ad alto reddito aderenti all’OCSE (figura 4.11), pochi fanno la differenza. Sicuramente i paesi scandinavi, ma non gli Stati Uniti od il Giappone, dove il sostegno alle famiglie e ai bambini poveri è molto modesto. Non sorprende che i tassi di povertà infantile più bassi si registrino in Scandinavia, dove è più alta la spesa sociale, e i più alti in Messico, Stati Uniti, Italia e Turchia, paesi che investono molto meno in sicurezza sociale. Per ridurre la povertà infantile mediante l’incremento della spesa sociale, gli stati devono aumentare le tasse e spiegare chiaramente ai cittadini che uso verrà fatto delle somme raccolte. I paesi scandinavi, ad esempio, accettano di buon grado di pagare tasse più alte per ridurre la povertà infantile e la disuguaglianza sociale. Per le società, ritrovarsi con una divisione tanto netta fra ricchi e poveri può rivelarsi una sciagura. Le società caratterizzate da un’alta disuguaglianza sono ingiuste e ine cienti, in quanto finiscono per sprecare il ffi potenziale di una parte consistente dei loro cittadini, dal momento che non aiutano i poveri. Una delle dimensioni dello sviluppo sostenibile è proprio l’inclusione sociale: cioè, che a tutti deve essere data una chance, inclusi i bambini nati in famiglie povere. Lo stato deve perciò avere un ruolo proattivo e positivo. Quali sono i paesi ancora bloccati nella povertà? La buona notizia è che negli ultimi anni, in particolare dal 2000, nell’Africa subsahariana la crescita economica ha avuto un’accelerazione: sono stati fatti importanti passi avanti in campo scolastico, nel controllo delle malattie e nelle infrastrutture. Tuttavia, non c’è ancora una crescita autosu ciente. ffi Facciamo, dunque una diagnosi differenziale sulla zona. L’Africa subsahariana presenta numerose caratteristiche peculiari che riguardano lo sviluppo economico. Ai tropici vi è una forte concentrazione di malattie, in particolare malaria, dengue e infezioni da vermi; l’agricoltura può essere molto di cile; l’acqua spesso scarseggia, le temperature sono molto alte, vi è ffi vulnerabilità alla siccità e un regime di piogge molto variabile; nel contesto tropicale, lo sfruttamento eccessivo dei nutrienti del suolo può essere molto dannoso. Ma nulla è irrimediabile. Abbiamo già fatto notare che, fra tutti i continenti, l’Africa è quello con il maggior numero di paesi privi di sbocchi sul mare. È un problema di non scarsa rilevanza, per cui conviene fare una pausa per capire quali sono le sue origini. Una ragione chiave di tale situazione è il retaggio coloniale: non è la natura a tracciare i confini fra gli stati, sono i politici a stabilirli, poiché quando le potenze europee procedettero alla spartizione dell’Africa, la divisero in lotti molto piccoli, tracciando linee di divisione che poco si curavano dei gruppi etnici (separandoli), e delle aree ecologiche naturali. Ciò rese ancora più difficile, per la popolazione, raggiungere le coste. Inoltre, alcune popolazioni africane si sarebbero spostate verso l’interno per difendersi dalla tratta degli schiavi, che ovviamente avveniva sulle coste. C’è anche un altro aspetto, relativo alla situazione geografica, che giustifica tali distanze: in molte zone l’ambiente costiero è piuttosto sfavorevole agli insediamenti. Le coste sono abbastanza aride, e la densità demografica è alta non sulle coste, bensì nei paesi interni privi di sbocchi sul mare. Il retaggio coloniale ebbe anche altre conseguenze sfavorevoli: quando l’Africa ottenne l’indipendenza, pochissime erano gli africani con un titolo di studio. Le potenze europee non favorivano certo l’istruzione, che consideravano un rischio per il loro dominio. Inoltre, queste si lasciarono alle spalle, per quanto riguarda le infrastrutture fisiche, una situazione estremamente carente: in Africa le potenze coloniali europee non si accordarono per costruire una rete integrata, ma ciascuna potenza costruì la sua, perciò il sistema ferroviario era un insieme scollegato di linee. Questo fu un danno enorme. In India invece, dove c’era solo la Gran Bretagna, il sistema ferroviario era molto buono. In breve, i lasciti del dominio coloniale in Africa sono stati estremamente dannosi. Tuttavia le politiche pubbliche hanno metodi già sperimentati per risolvere questi problemi, e dare loro soluzioni che analizzeremo nel prossimo capitolo. Capitolo 5: Sradicare la povertà Perché crediamo che la povertà estrema possa essere sconfitta Abbiamo potuto constatare che dove la crescita si è verificata, la povertà estrema è diminuita. C’è motivo di credere che la crescita economica sostenuta possa di ondersi alle regioni finora rimaste escluse e quindi ff eliminare le ultime sacche di povertà. Tale prospettiva non è per nulla certa, non si verificherà spontaneamente ma, al contrario, dovrà essere conquistata attraverso un deciso impegno locale, nazionale e globale. La soglia della povertà stabilita dalla Banca Mondiale è certamente la più utilizzata: la BM definisce la povertà estrema un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno. In base a tale valore, si stimava che nel 2010, le persone sotto la soglia di povertà estrema fossero 1,2 miliardi. La definizione sembrerebbe un po’ ristretta: sarebbe meglio definire la soglia della povertà estrema in base alla capacità degli individui di soddisfare i bisogni primari come cibo, acqua, servizi igienici, abitazione, vestiario, accesso all’assistenza sanitaria, istruzione di base, trasporti, energia. Questi bisogni costituiscono il minimo necessario per la sopravvivenza e la dignità umana. Potremmo definire coloro che vivono in povertà come individui che per mancanza di reddito familiare e/o servizi pubblici, non sono in grado di soddisfare i bisogni primari. Secondo questa più ampia definizione, il numero dei poveri raggiunge i 2 miliardi. La BM misura anche altre soglie, più alte degli 1,25 dollari al giorno; una di queste traccia il confine a 2 dollari al giorno. Ovviamente, sotto questa soglia si trova una quota più alta di abitanti del pianeta: al 2010, la stima è di 2,4 miliardi di persone. Il tasso di povertà misura la percentuale della popolazione sotto una data soglia di povertà. Nella figura 5.1 possiamo apprezzare l’andamento del tasso dal 1981 al 2008, e notare la sua rapida discesa: tra il 1990 ed il 2008 questo si è dimezzato. Sembrerebbe che il primo obiettivo dello sviluppo del millennio (dimezzare, fra il 1990 ed il 2015, la percentuale di persone con reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno) sia stato raggiunto. Nella figura 5.2 vediamo come la riduzione della povertà in Cina ha raggiunto livelli mai visti: dall’84% nel 1981 al 12% nel 2010. Nell’Africa Sub Sahariana è successo l’opposto, poiché il tasso di povertà è aumentato del 7%. Con l’impiego di politiche adeguate è possibile prevedere, la fine della povertà estrema sul pianeta entro questa generazione, forse per il 2030 o il 2035. L’idea è che l’umanità potrebbe e ettivamente lasciarsi alle ff spalle questo antico flagello. Le aree del mondo tuttora bloccate nella povertà estrema possono uscire dalla trappola se perseguono politiche intese a superare le barriere specifiche che frenano la loro crescita. L’Africa sub sahariana ha già imboccato questa strada e recentemente i tassi di crescita sono saliti a circa il 6 per cento annuo e potrebbero aumentare ulteriormente. Tuttavia, il successo non dipenderà solo da buone politiche interne, ma anche dalla collaborazione con altre aree del mondo. Keynes, economista britannico, evocò l’idea di porre fine alla povertà già nel 1930, sebbene in quel momento stesse certamente pensando ai paesi industrializzati, non al mondo intero. Nel suo saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, egli affermò che dai tempi dell’impero romano fino al Settecento il tasso di innovazione tecnologica è rimasto molto basso; così tanto che un contadino dei tempi dell’impero avrebbe vissuto senza problemi nell’Inghilterra rurale di inizio Settecento. Descrive poi l’esplosione di progressi tecnici con la rivoluzione industriale, e afferma che la produttività sarebbe aumentata al punto tale da ridurre la povertà in Gran Bretagna e nei paesi ad alto reddito. Immaginava un netto miglioramento, da 4 a 8 volte, anche nel tenore di vita dei paesi in via di progresso. Nel giro di un secolo secondo (e quindi nel 2030) lui il problema economico poteva essere risolto, e dunque non essere il problema permanente del genere umano. La sua previsione si è mostrata esatta già nel 1980, poiché in quel momento la povertà estrema nei paesi ad alto reddito era stata sconfitta. È interessante che la previsione “secolare” di Keynes potrebbe dimostrarsi valida per il mondo intero, non solo per i “paesi in via di progresso”, come definì i paesi industrializzati dei suoi tempi. Ancor più notevole, è il fatto che quando K. fece quella previsione, la popolazione mondiale era di soli 2 miliardi, mentre adesso è di 7,2 miliardi. Inoltre, egli previde l’assenza di guerre, ma ce n’è stata una disastrosa, ovvero la Seconda Guerra Mondiale. Gli Obiettivi dello Sviluppo del Millennio Nel settembre del 2000, oltre 160 capi di stato e di governo si riunirono alle Nazioni Unite per presentare e comunicare le speranze del mondo per il nuovo millennio. Kofi Annan, all’epoca segretario generale dell’ONU, propose ai leader mondiali una “dichiarazione del millennio” davvero rivoluzionaria. In questa, vennero proposti dei grandi obiettivi globali: diritti umani universali, pace e sicurezza, sviluppo economico, sostenibilità ambientale e una riduzione radicale della povertà estrema. Con la Dichiarazione, i leader mondiali fecero propri 8 obiettivi di sviluppo che ben presto divennero noti come obiettivi di sviluppo del millennio (MDG: millennium development goals). Gli obiettivi sono espressi in modo da poter essere compresi nei villaggi, negli slum, nei posti dove i poveri vivono, lavorano e lottano per la sopravvivenza, ed hanno come scopo una grande sfida morale: migliorare le condizioni di vita delle popolazioni più deboli del pianeta, oltre a stimolare l’intervento attivo delle varie componenti della società come governo, imprese, comunità, famiglie, gruppi religiosi, studiosi e singoli individui. Gli obiettivi sono intesi a suscitare un ampio cambiamento sociale. Questi sono: 1. Chiedere di sradicare la povertà estrema e la fame; 2. Rendere universale l’istruzione primaria 3. Promuovere l’uguaglianza di genere, in modo tale che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini e le medesime possibilità di accesso al progresso economico; 4. Ridurre la mortalità infantile; 5. Ridurre la mortalità materna e migliorare la salute riproduttiva; 6. Combattere AIDS, malaria e altre malattie importanti; 7. Garantire la sostenibilità ambientale; ora). Se la diminuzione del tasso di fecondità fosse più lenta, allora la variante ad alta fecondità prevede che la popolazione sarebbe ancora più numerosa e raggiungerebbe i 5,3 miliardi. L’Africa coglierà molti benefici dallo sviluppo se riuscirà a contenere l’aumento demografico nei limiti della variante a basso tasso di fecondità. Tanto per cominciare, con una popolazione meno numerosa ci sarebbe una maggiore disponibilità pro capite di terra coltivabile, petrolio, legname ed altre risorse naturali. Inoltre, le famiglie sarebbero più piccole e tutte potrebbero allevare meglio i propri figli in termini di istruzione, salute e alimentazione. Terzo, l’età media della popolazione sarebbe più alta; quarto, la popolazione aumenterebbe più lentamente e si potrebbero fare investimenti e risparmi. Ecco che ridurre il tasso di fecondità sarebbe ottimo. Ci sarebbero inoltre miglioramenti anche nell’istruzione: con una coorte di giovani meno numerosa, ciascuna famiglia sarebbe in grado di assicurare salute, istruzione e alimentazione a tutti i figli; ora invece le famiglie fanno studiare solo il primogenito. Come investire sulla riduzione della fecondità? Per prima cosa il governo deve assicurare alle ragazze la possibilità di studiare almeno fino al conseguimento del diploma di scuola superiore, in modo da scoraggiare i matrimoni in età troppo giovanile. Secondo, dovrebbe investire in una drastica riduzione della mortalità infantile, al fine di convincere le famiglie che avere meno figli è “sicuro” in relazione alla loro sopravvivenza; terzo, dovrebbe contribuire alla di usione dei metodi contraccettivi a basso costo e di ff interventi sulla pianificazione familiare. Asia meridionale, la sfida permanente degli approvvigionamenti alimentari In Asia meridionale, pur avendo fatto progressi nella riduzione della povertà, ci sono ancora 500 milioni di poveri su una popolazione totale di circa 1,6 miliardi di persone, ed il problema riguarda sia le aree rurali che quelle urbane. Cosa distingue l’Asia Meridionale dalle altre regioni? Sicuramente un ottimo retaggio culturale ed elementi dell’ambiente fisico, ma soprattutto la straordinaria densità demografica. Per esempio, l’India e il Bangladesh, due regioni dell’Asia Meridionale, sono tra le zone del mondo più densamente popolate: in India vive il 16% della popolazione mondiale; eppure questa copre solo il 2,5% della superficie terrestre. Nel corso della storia indiana, le conseguenze dell’alta densità demografica sono state negative: i poderi indiani sono sempre stati piccoli e la produttività sempre bassa, mentre le città sono molto affollate e la popolazione è anche aumentata negli ultimi anni. Negli anni ‘50 e ‘60 ritenevano che la popolazione fosse così numerosa che non sarebbero stati in grado di procurarsi le necessarie risorse alimentari, facendo previsioni tremende di carestie di massa. Eppure, l’India non solo le ha evitate, ma nel corso degli ultimi vent’anni ha avuto una crescita ragionevolmente veloce: è uno dei leader mondiali della rivoluzione dell’IT, con grandi capacità di progettazione ed innovazione nell’impiego di queste tecnologie per lo sviluppo economico. Attraverso l’IT l’India si è integrata nell’economia mondiale, spesso in settori di avanguardia grazie a bravissimi ingegneri. Come ha fatto ad evitare il destino che le era stato predetto? Il successo dell’India parte dall’agricoltura, poiché la società era costituita in grande maggioranza da piccoli coltivatori sempre alle prese con la scarsità e l’insicurezza delle risorse alimentari. È stato il grande progresso della tecnologia agricola degli anni ‘50 e ‘60 a consentire all’India di superare le ricorrenti carestie del passato e dare inizio a una crescita economica sostenuta, con un importante progresso della tecnologia agricola noto come Rivoluzione Verde. Questa ebbe inizio grazie a un agronomo, Borlaug, che mise a punto una varietà di sementi ad alta resa per il frumento in Messico e fu invitato in India a lavorare con Swaminathan, un altro importante agronomo. Questi presero le sementi speciali per le condizioni climatiche messicane e le seminarono nei terreni indiani. Il primo anno le cose non andarono bene ma nel secondo anno si vide che quelle varietà funzionavano a meraviglia anche nelle condizioni climatiche indiane: bastava solo seminarle in maniera corretta. Per far scoppiare questa rivoluzione si inserì il ministro dell’Agricoltura dell’India nella prima metà degli anni ‘60: l’idea era di produrre le sementi, seminarle con fertilizzanti e acqua ed impiegarle in India. I risultati furono sorprendenti: le rese delle colture indiane registrarono un fortissimo aumento (gli e etti ff furono evidenti a fine anni ‘60). Vi fu un miglioramento delle sementi, maggiore impiego di fertilizzanti e l’irrigazione grazie ai quali le rese aumentarono. India e Pakistan non hanno raggiunto i livelli di produzione del Messico, ma dagli anni 60 le loro rese sono aumentate da tre a quattro volte. C’è tuttavia ancora il problema della crescita demografica, molto rapida e proseguita anche dopo il 1965: la popolazione non è cresciuta così rapidamente da mangiarsi tutti i guadagni ottenuti nelle rese agricole, ma è comunque cresciuta perché molti di quei guadagni siano stati ridimensionati ed abbiano dato luogo, in alcune zone, ad una rinnovata crisi alimentare. Se anche la produzione di cerali è aumentata di 4 volte, la popolazione si è triplicata, annullando la maggior parte degli aumenti della produzione pro capite. Adesso l’incremento della produzione cerealicola è inferiore a quello di vent’anni fa, dato che si è bloccato. La stagnazione della produzione pro capite nelle zone rurali dell’India ha creato una nuova serie di questioni e di tensioni legate alla fame e il problema della malnutrizione/denutrizione cronica dei bambini. Quando i bambini non ricevono necessari elementi nutritivi, si ha lo stunting, ovvero il blocco della crescita, fortemente di uso anche in Africa e Asia.ff L’India ha il numero più alto di bambini affetti da stunting: permangono i timori sulla sicurezza alimentare di cibo e dieta equilibrata, soprattutto fra i più poveri, nonostante la crescita nell’IT. Swaminathan sostiene che in India ci sia bisogno di una Seconda Rivoluzione Verde, che ha definito Rivoluzione evergreen. Questa però sarebbe diversa dalla prima, poiché dovrebbe ridurre consumi di acqua e fertilizzanti, poiché l’acqua è in esaurimento ed i fertilizzanti hanno inquinato le coste ed i fiumi. Bisognerà inoltre sviluppare colture capaci di resistere a ondate di calore, siccità, inondazioni ed altri shock causati dal cambiamento climatico. In India e in Asia devono fare anche fronte al problema della parità dei sessi, del MDG n.3: le donne in molte culture dell’Asia meridionale, sono fortemente penalizzate; a molte non è consentito lavorare, possedere o ereditare beni immobili, gestire denaro. Spesso alle ragazze non viene assicurata né un’alimentazione adeguata, né l’assistenza sanitaria, né la possibilità di avere almeno un’istruzione. L’emancipazione è una delle conquiste recenti. Uno degli strumenti grazie al quale le donne, negli ultimi decenni, hanno potuto emanciparsi è rappresentato dalla micro finanza, il sistema per l’erogazione di piccoli prestiti adeguato ai bisogni delle donne che vivono nelle campagne e si trovano in condizioni di grande miseria. I primi passi vennero compiuti in Bangladesh da due ONG famose in tutto il mondo. Queste due avviarono l’emancipazione femminile nei villaggi mediante gruppi solidali e intrapresero una massiccia espansione della micro finanza attraverso prestiti di gruppo. Con questo sistema, un gruppo di donne garantisce la restituzione dei prestiti fatti ad un singolo membro del gruppo, riducendo il rischio di insolvenza e consentendo l’erogazione del prestito. I membri distribuiscono i fondi agli altri componenti del gruppo e gestiscono il rimborso. I tassi di rimborso di BRAC o Grameen sono normalmente molto alti, tranne in periodi di crisi forti. La microfinanza si è poi diffusa nel mondo come strumento di grande efficacia nell’emancipazione delle popolazioni rurali, parità dei sessi e produzione di reddito. Una delle caratteristiche rilevanti dell’emancipazione femminile è che ha spronato le giovani a sposarsi più tardi e a ridurre la propria fecondità totale. Si è arrivati ad un declino del tasso di fecondità in Bangladesh (attualmente è a 2, cosiddetto tasso di rimpiazzo, poiché ogni donna ha in media due bambini e quindi una sola figlia, perciò rimpiazza se stessa con una figlia nella generazione successiva). Inoltre, dieta inadeguata; infezioni croniche da parassiti; mancanza di accesso ad acqua ed altri servizi igienici fanno sì che la denutrizione nei bambini sia cronica, minacciandone la sopravvivenza, la salute e la capacità di apprendimento. La soluzione sarebbero diete miglior, farmaci e disponibilità di acqua potabile e servizi igienici. Uno sguardo ravvicinato agli aiuti ufficiali allo sviluppo Con le diagnosi differenziali di Asia Meridionale ed Africa Subsahariana abbiamo potuto evincere che investimenti mirati ad agricoltura, sanità, istruzione ed infrastrutture possano aiutare queste regioni a liberarsi dall’antico flagello della povertà estrema. Investimenti in queste aree possono davvero aiutare una famiglia povera o una regione povera ad avere reddito in più. Salendo al primo gradino della scala dello sviluppo, la famiglia o regione può passare al secondo, al terzo e così via, eliminando la povertà estrema. Con la trappola della povertà, però, il problema è che un paese potrebbe essere troppo povero per fare il primo passo. Il paese impoverito ha perciò bisogno di una mano per salire la scala dello sviluppo. L’idea di un’assistenza u ciale allo sviluppo (ODA), cioè di un sostegno da parte di governi o enti internazionali, ffi circola fin dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti lanciarono il piano Marshall per contribuire alla ricostruzione dell’Europa dopo le devastazioni della guerra. Questo o rì un’iniezione temporanea di fondi per la ripresa economica; durò quattro anni e diede risultati ff spettacolari nell’aiutare l’Europa occidentale a rimettersi in piedi. Venne creato un sistema di sovvenzioni e prestiti a bassi tassi d’interesse con lo scopo non solo ad aiutare la ricostruzione postbellica ma anche ad incentivare la crescita economica di lungo termine, per esempio, nei paesi africani e asiatici, poveri e di recente indipendenza. Bisogna sottolineare che solo pochi sono favorevoli all’ODA come strumento a lungo termine; i sostenitori degli aiuti estremi ritenono che debbano essere una misura temporanea, solo negli investimenti iniziali, e non una soluzione permanente. I paesi che li ricevono possono conseguire, attraverso la crescita economica, un livello di reddito tale per cui presto si liberano dal bisogno di essere sovvenzionati. Gli aiuti ufficiali allo sviluppo divennero un pilastro fondamentale della comunità mondiale intorno al 1970: una commissione sullo sviluppo internazionale guidata da Pearson, Nobel per la pace ed ex primo ministro del Canada, si adoperò per un impegno globale verso l’ODA. Il report della commissione, Partners in Developement, fece appello ai paesi ricchi affinché aiutassero quelli poveri, donando l’1% del proprio pil per sostenere la lotta contro la povertà, di cui lo 0,7% per canali ufficiali, da governo a governo, e lo 0,3 restante attraverso organizzazioni filantropiche. In base a questo report, l’Assemblea Generale dell’ONU adottò formalmente l’obiettivo per cui i paesi ad alto reddito dovessero contribuire al fondo ODA con lo 0,7% del proprio reddito nazionale. Dalla figura 5.20 si evince che solo 5 paesi raggiungono la soglia dello 0.7% del reddito nazionale, tra cui Svezia, Norvegia, Danimarca, Lussemburgo e Paesi Bassi. All’altro estremo si vedono i paesi che contribuiscono poco e niente. Attraverso l’ODA si possono finanziare diverse cose, seguendo però i seguenti criteri: il denaro deve andare ai paesi poveri; deve essere fornito da un ente ufficiale del paese donatore; deve essere impiegato per lo sviluppo economico del paese beneficiario. Inoltre, vi è una distinzione importante fra tipologie di aiuti: per esempio, l’intervento di emergenza come l’invio dei generi alimentari durante una carestia che è detto soccorso umanitario. I soccorsi di emergenza in caso di calamità naturale sono considerati aiuti anche se il loro scopo non è lo sviluppo, ma salvare vite umane. Gli aiuti allo sviluppo che possono aiutare un paese ad uscire dalla povertà sono quelli che incrementano la dotazione di beni capitali, come strade asfaltate, potenziamento della distribuzione dell’elettricità, maggior numero di scuole o ambulatori… ma anche formazione di insegnanti e operatori sanitari, o investimenti sociali nel servizio sanitario. Nel periodo degli MDG, l’ODA dai risultati migliori è stato proprio nel campo della sanità pubblica: opo il 2000, c’è stato un notevole incremento degli aiuti indirizzati ai problemi della salute, che ha svolto un ruolo decisivo nell’aiutare i paesi poveri a tenere sotto controllo AIDS, malaria e tubercolosi, e a rendere sicura la maternità, per quanto riguarda sia il parto che la sopravvivenza dei neonati. Progettare interventi pratici: il caso dei Millennium Villages Dopo aver fatto diagnosi differenziali ed aver messo in moto gli aiuti, ci resta solo il problema dell’implementazione dei piani di sviluppo, grossa sfida operativa. Il Progetto del Millennio è stato fatto dalle Nazioni Unite (2002-06): in una speciale Assemblea generale gli stati adottarono numerose idee chiave su come procedere per raggiungere gli MDG. I consigli provennero da molte discipline differenti, e nel 2005 il progetto presentò agli stati membri dell’ONU un copioso report riassuntivo. Perciò, Sachs ed i suoi colleghi pensarono di realizzare tali idee in alcune località dell’Africa rurale: prende così avvio il decennale Progetto Millennium Villages, in alcune zone agricole dell’Africa. Lo scopo era quello di a rontare gli MDG in ciascuna di queste particolari piccole zone, perché ognuna di esse presenta ff problemi e caratteristiche specifiche, diverse le une dalle altre. Ad esempio, c’è differenza in ambito di produzioni agricole, poiché le colture principali sono diverse in ogni zona. Ci si chiese come affrontare i particolari MDG in ciascuna zona agro-ecologica, considerando che anche l’incidenza delle malattie è di erente nelle zone. Applicare gli MDG significava impostare programmiff per raggiungere tutti e otto gli obiettivi, con un approccio olistico che era suggerito sia dal fatto che ciascun obiettivo ha validità in sé, dall’altro che tutti gli obiettivi sono sinergici, ovvero, conseguirne uno aiuta a conseguire anche gli altri. Un miglioramento in un certo settore fa sì che anche uno collegato ad esso possa goderne. Il Progetto Millennium Villages durò dal 2006 al 2016, e nei primi cinque anni si guadagnarono 60 dollari pro capite per gli aiuti allo sviluppo. Grazie a questi si costruirono scuole e ambulatori, oltre a punti di approvvigionamento idrico e reti stradali. Uno dei più grandi successi è stata la costruzione del sistema sanitario locale, con una grande riduzione della mortalità infantile e materna. Inoltre, sono stati formati molti pianeta. Viviamo anche in un mondo in cui i paesi in via di sviluppo cercano di colmare il divario di reddito rispetto al mondo ricco e hanno i mezzi tecnologici per riuscirci. Se, però, questa crescita economica ininterrotta viene perseguita usando le tecnologie e i modelli economici attuali, l’umanità sfonderà i limiti, provocando sconvolgimenti nel sistema climatico e nell’approvvigionamento di acqua dolce, accrescendo l’acidità degli oceani e determinando un impatto negativo sulla sopravvivenza delle altre specie. Al fine di conciliare la crescita che ci piacerebbe vedere con le realtà ecologiche del pianeta, abbiamo bisogno che l’economia mondiale si sviluppi in maniera radicalmente diversa. La questione energetica Fra tutti i problemi da a rontare per conciliare la crescita con i limiti del pianeta, probabilmente nessuno è ff più urgente e più complicato della sfida costituita dal sistema energetico mondiale: i combustibili fossili che hanno consentito di fare un passo avanti nella crescita economica moderna ora sono un pericolo. Una soluzione semplice parrebbe quella di utilizzare semplicemente meno energia, ma non è, in realtà, così semplice, perché energia significa poter lavorare. Qualsiasi lavoro utile all’interno di un’economia dipende dall’accesso a energie di qualità elevata. Certo, l’e cienza energetica deve essere parte di qualsiasi soluzioneffi per lo sviluppo sostenibile, ma il mondo ha bisogno di risorse energetiche ed è probabile che il loro uso aumenti man mano che l’economia mondiale cresce. Nell’uso totale di energia rientrano combustibili fossili, legna da ardere, energia idroelettrica, geotermica, eolica e solare, nucleare e biocarburanti (diversi dal legno). Quando l’economia cresce, l’utilizzo di energia tende a crescere di pari passo, nonostante i guadagni in termini di e cienza. È utile quantificare l’energia ffi che utilizziamo, quanta CO2 di conseguenza immettiamo nell’atmosfera e cosa ciò implica per l’intensità del cambiamento climatico che stiamo provocando. Approssimativamente il 46 per cento di ogni tonnellata di CO2 rilasciata è sospesa nell’aria. L’altro 54 per cento si deposita in quelle che sono chiamate «fogne naturali», ovvero oceani, terreni e vegetazione. Questo significa che, se in un anno immettiamo 31 miliardi di tonnellate, come successo nel 2010, un po’ più di 14 rimangono sospese nell’aria. Nel 2010, dunque, i 14 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera hanno aumentato la concentrazione di CO2 di circa 1,8 ppm. È un grande incremento per un anno? Sì. Dovremmo spaventarci? Sì. Secondo il grafico a pagina 206, la concentrazione di CO2 negli ultimi 200 anni, e soprattutto negli ultimi 100, è schizzata alle stelle. Coincide con la scoperta dei combustibili fossili. Abbiamo raggiunto un livello di CO2 nell’atmosfera mai visto nei tre milioni di anni precedenti. Gli scienziati che studiano il clima ci dicono che ciò è coerente con l’aumento rilevante delle temperature sul pianeta. In e etti, raggiungendo le 450-500 ppm di CO2, come potrebbe succedere in tempi brevi, è molto ff probabile che l’umanità si ritrovi a vivere su di un pianeta che è, in media, di 2 °C più caldo del periodo precedente la Rivoluzione industriale. Un aumento di 2 °C nella temperatura media globale può sembrare poca cosa, ma implica aumenti di temperatura ancora maggiori alle latitudini alte e, quindi, cambiamenti rilevanti nel sistema climatico, come siccità, alluvioni, aumento del livello degli oceani molto significativo… Se non avviamo rapidamente un drastico cambiamento di rotta, andremo incontro a una seria minaccia: a causa della nostra dipendenza dai combustibili fossili, assisteremo a un forte incremento nella frequenza delle ondate di caldo. Molto probabilmente, assisteremo con maggiore frequenza a forti siccità, inondazioni, tempeste estreme, estinzione di specie, cattivi raccolti, aumento del livello dei mari e a una massiccia acidificazione degli oceani. Tra le soluzioni c’è una profonda decarbonizzazione del sistema energetico, cioè produrre ed utilizzare l’energia con emissioni di CO2 di gran lunga inferiori a quelle attuali, mediante 3 pilastri. Questi sono: efficienza energetica, cioè usare molto meno energia per unità di PIL rispetto ad oggi; il secondo è l’energia a basso tenore di carbonio, cioè quella eolica, solare, nucleare…; il terzo è lo spostamento dall’utilizzo dei combustibili fossili a quello dell’elettricità a basse emissioni di carbonio. Ogni parte del mondo dovrà partecipare a questo triplice processo. Dobbiamo davvero cambiare rotta in fatto di energia e dobbiamo farlo presto, molto più rapidamente di quanto ci dicono i politici. Ma c’è qualche buona notizia. Ci sono a disposizione potenti tecnologie a basso tenore di carbonio a prezzi che stanno registrando una forte flessione per l’energia eolica e solare, l’e cienzaffi energetica, i veicoli elettrici e altro ancora. Queste tecnologie saranno cruciali per un futuro a basso tenore di carbonio. La questione alimentare C’è un settore che ha un impatto ambientale analogo a quello energetico o anche maggiore: l’agricoltura. L’agricoltura, naturalmente, è fondamentale per la nostra sopravvivenza. Dobbiamo mangiare. E, fin dagli inizi della civiltà, gran parte dell’umanità è impegnata nell’attività agricola. Anche oggi, agli inizi del XXI secolo, metà della popolazione mondiale risiede in aree rurali ed è quindi collegata in modo abbastanza diretto con l’agricoltura. Tuttavia, l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente è ancora maggiore di quanto appaia. Si pensi ai limiti del pianeta: quasi tutti sono collegati all’agricoltura. I limiti dal punto di vista dell’agricoltura sono: 1. Cambiamento climatico; 2. Acidificazione degli oceani; 3. Riduzione dell’ozono; 4. Flussi di azoto e fosforo; 5. Sfruttamento eccessivo delle riserve d’acqua dolce; 6. Biodiversità; 7. Aerosol; 8. Inquinamento chimico. Oltre a violare questi limiti del pianeta, l’agricoltura ha altri impatti negativi: uno di questi è che il sistema alimentare sta dando origine a nuovi agenti patogeni, come avviene negli allevamenti industriali di pollame, dove si diffondono batteri e virus. Quando bestiame e pollame si incrociano con animali selvatici, ci sono ulteriori ricombinazioni virali che danno origine a molte malattie infettive, tra cui, si pensa, la SARS del 2003. Secondo Malthus la crescita demografica sarebbe stata superiore alla capacità di coltivare cibo: la popolazione tende ad aumentare geometricamente (2; 4; 6; 8…), mentre la capacità di coltivare alimenti a livello aritmetico (1, 2, 3…), ovvero solo ad un dato tasso di crescita annuo. La crescita geometrica sarebbe stata di gran lunga superiore a quella aritmetica. Sosteneva che le persone sarebbero state così tante che la fame sarebbe stata inevitabile, con ripercussioni devastanti quali guerre, carestie, malattie e altri flagelli che avrebbero portato a una diminuzione della popolazione. Malthus non poteva immaginare i progressi scientifici che ci sarebbero stati nell’Ottocento e nel Novecento: la scienza moderna ha consentito una crescita geometrica della produzione alimentare, in linea però con l’incremento geometrico della popolazione mondiale. Malthus, in realtà, aveva più ragione di quanta gliene venga riconosciuta e dovremmo ringraziarlo di cuore per aver fatto rilevare un rompicapo che ancora persiste: fintanto che l’agricoltura mondiale non diventa un’attività sostenibile, non dovremmo avere troppa fretta nel mettere Malthus da parte, poiché l’agricoltura alimenta il pianeta ma non in maniera sostenibile sotto il profilo ambientale. Così come avremo bisogno di trovare una nuova strada per l’energia, basandoci sull’e cienza energetica e ffi sull’o erta di energia a basse emissioni di carbonio, avremo anche bisogno di trovare nuovi sistemi agricoli, ff adatti alle condizioni ambientali locali e che producano meno danni. Dinamica demografica e sviluppo sostenibile Gran parte della nostra capacità di realizzare uno sviluppo sostenibile dipende dalla dinamica futura della popolazione mondiale: quante più persone ci sono, tanto più sarà difficile combinare crescita economica, sostenibilità ambientale ed inclusione sociale. I paesi poveri con alti tassi di fecondità sono spesso bloccati in una «trappola demografica»: poiché sono povere, le famiglie hanno molti bambini. A rontare la questione dell’elevata fecondità è quindi cruciale: una ff riduzione volontaria dei tassi di fecondità, nel rispetto dei diritti umani e dei desideri delle famiglie, è dunque essenziale per uno sviluppo sostenibile e per porre fine alla povertà. Il futuro demografico del mondo non è ancora determinato perché dipende dalle scelte che le famiglie fanno per il futuro e dal sostegno che i programmi sanitari pubblici danno a quelle scelte. Se i numeri dei figli rimanessero quelli attuali, spostando semplicemente le lancette dell’orologio in avanti, nel 2100 la popolazione mondiale sarebbe di 28,6 miliardi, quattro volte quella attuale! La Terra non potrebbe reggerla e, quindi, non succederà. Questo scenario, tuttavia, ci dice che i tassi di fecondità devono scendere rispetto ai livelli attuali. Se le donne avessero in media giusto mezzo figlio in più, il mondo arriverebbe a 16,6 miliardi di persone. Una piccola variazione del tasso di fecondità ha come e etto quasi 6 ff miliardi di persone in più sul pianeta entro il 2100. I tassi di fecondità contano! Se ogni donna avesse, in media, 0,5 bambini in meno nella variante della fecondità media, la popolazione raggiungerebbe un massimo di 8,3 miliardi intorno al 2050 per poi scendere gradualmente fino a 6,8 miliardi entro il 2100. Questa è la variante dello sviluppo sostenibile. Questi scenari mostrano come piccole variazioni dei tassi di fecondità avranno grandi e etti sui risultati.ff Si può evincere dal grafico a pagina 214 che mentre il tasso di crescita proporzionato della popolazione è rallentato, l’incremento annuale aritmetico rimane intorno agli 80 milioni di persone. Nella variante della fecondità media, il tasso di crescita demografica tende a diminuire fino quai a zero entro la fine del secolo perché i tassi di fecondità si riducono al livello di sostituzione, cioè che ogni madre ha due figli, un maschio ed una femmina, rimpiazzando se stessa nella generazione successiva: ciò mantiene la popolazione stabile nel lungo periodo. Nelle aree più povere, ci sono molte regioni in cui non esiste la pianificazione familiare, le ragazze smettono di andare a scuola in età molto precoce; e le donne si misurano con una forte discriminazione, non solo nel mercato del lavoro. In queste situazioni è molto importante una transizione volontaria, rapida, al tasso di sostituzione. Cosa potrebbe portare a una transizione più rapida verso un tasso di sostituzione nelle regioni a elevata fecondità? Sono molte le determinanti. L’età del matrimonio è centrale. Una seconda determinante è l’accesso alla contraccezione e ai servizi di pianificazione familiare. Una terza determinante del tasso di fecondità totale è il ruolo delle donne nel mondo del lavoro. Un altro fattore che può incidere è la residenza in aree urbane o rurali: le famiglie di agricoltori spesso considerano i propri figli come una risorsa dell’azienda. La sopravvivenza infantile è un’altra determinante fondamentale della fecondità: se un bambino muore precocemente, o i genitori temono che ciò possa accadere, è probabile che essi abbiano più figli. Uno dei fattori chiave per una riduzione volontaria della fecondità è abbassare il tasso di mortalità infantile: la legalizzazione dell’aborto, insieme alla leadership politica, giocano un ruolo importante. Infatti, le dimensioni delle famiglie sono influenzate anche dalle norme sociali. Le dinamiche demografiche sono molto importanti per lo sviluppo sostenibile: ci sono buoni motivi per ritenere che la maggior parte delle famiglie opterebbe per tassi di fecondità inferiori potendo accedere alla pianificazione familiare, all’istruzione per le figlie, a migliori tassi di sopravvivenza infantile, a lavori dignitosi nonché all’assenza di discriminazione per le donne. Crescita economica entro i limiti del pianeta Molti ambientalisti, allarmati per il fatto che l’umanità stia oltrepassando i limiti del pianeta, sono giunti alla conclusione che si debba porre fine alla crescita economica, che un’ulteriore crescita e il rispetto dei limiti del pianeta siano in netta contraddizione. Suggeriscono, anzi, che i paesi ricchi abbassino in misura significativa i consumi per lasciare spazio alla crescita degli standard di vita nei paesi poveri. Invece, il punto è che, con le tecnologie giuste, possiamo continuare a crescere e a rispettare i limiti del pianeta. Prendiamo, ancora una volta, il caso dell’energia: sfruttando l’energia eolica e solare, per esempio, sarebbe possibile, allo stesso tempo, estendere l’accesso all’energia, sostenere un’attività economica maggiore ed evitare le pericolose emissioni di gas serra. In ambito agricolo invece, attraverso tecniche agricole migliori, è possibile coltivare più alimenti con meno acqua e minore impiego di fertilizzanti. L’obiettivo della crescita ininterrotta è valido, specialmente nei paesi a reddito medio-basso, per i quali crescita significa più sanità, istruzione migliore, maggiore disponibilità di tempo per viaggiare e divertirsi, maggiore sicurezza nei confronti delle varie minacce al benessere. È valido anche per i paesi ad alto reddito, finché basano la loro crescita su tecnologie che risparmiano risorse in modo da non violare i limiti del pianeta o lasciare più spazio ai paesi più poveri. Perché i mercati non garantiscono di per sé che la crescita sia sostenibile? Due le ragioni fondamentali. La prima è che la maggior parte dei danni planetari sono «esternalità», il che significa che chi li fa non ne paga i costi. La seconda ragione è intergenerazionale: le generazioni attuali impongono costi a quelle future. Chi vive oggi depreda l’ambiente senza doverne sopportare la responsabilità. L’economia ambientale studia come utilizzare diversi tipi di incentivi, di mercato e natura sociale, per ridurre le esternalità: quando questi vengono ignorati, le esternalità dilagano. Come ha scritto il famoso ecologista Garrett Hardin, abbiamo una «tragedia dei beni comuni»: oceani, fiumi e atmosfera vengono depredati dagli abusi e dall’inquinamento eccessivo. Questa tragedia si può controllare tramite una varietà di «strumenti economici» o di policy, tra cui: • Una tassazione correttiva che attribuisca un «prezzo» alle sostanze inquinanti spingendo le imprese e gli individui a ridurne l’uso; • Sistemi che limitino l’ammontare complessivo di attività inquinanti, come l’autorizzazione a emettere CO2; Oltre all’istruzione, anche la sanità è in genere considerata un bene meritorio, in parte perché è opinione di usa che gli individui abbiano il diritto fondamentale alla salute, ma anche perché aiutando le persone a ff mantenersi sane si aiuta anche il resto della società. L’attenzione alla soddisfazione dei bisogni universali fondamentali, in particolare sanità e istruzione, si può giustificare sulla base dei diritti umani o dell’utilitarismo. Possiamo essere certi, in ogni caso, che il pensiero etico ha un ruolo vitale per una buona politica pubblica. Dichiarazioni delle Nazioni Unite, accordi e MDG. Quando furono costituite le Nazioni Unite, alla fine della seconda guerra mondiale, uno dei primi grandi passi dopo la loro istituzione, fu, nel 1948, l’adozione della «Dichiarazione universale dei diritti umani», documento molto valido adottato in un momento di speranze e con il ricordo delle devastazioni prodotte dalla guerra appena finita. L’idea prevalente della Dichiarazione era che, soddisfacendo i diritti fondamentali di tutte le persone al mondo, si poteva non solo garantirne la dignità e migliorarne il benessere economico, ma anche contribuire a evitare un’altra guerra globale. Dopo più di mezzo secolo, la Dichiarazione è ancora fonte di ispirazione e guida per il mondo intero. Nel preambolo si dice che tutti gli stati membri devono tendere ad insegnare, raccomandare, rispettare ed attuare progressivamente tutti i diritti della Dichiarazione. Nel documento ci sono molti diritti; richiederebbero tutti uno studio approfondito, ma alcuni meritano di essere messi in evidenza. L’articolo 22 proclama il diritto alla sicurezza sociale, cioè un reddito di base che tuteli la dignità umana e consenta di soddisfare i bisogni umani più elementari; l’articolo 23 proclama il diritto al lavoro e a mezzi di sostentamento che pongano gli individui in condizione di sostenere se stessi e le loro famiglie; l’articolo 24 proclama il diritto al riposo e al divertimento, dato che non si può lavorare tutto il giorno a ritmi inumani; l’articolo 25 stabilisce che c’è un diritto universale a un livello di vita adeguato alla salute e al benessere dell’individuo e della sua famiglia, in settori come cibo; vestiario; alloggio; disoccupazione; malattia…; l’articolo 26 afferma che tutti hanno diritto all’istruzione, che dovrà essere libera. L’articolo 28 a erma che «ognuno ha diritto a un ordine sociale e internazionale in cui possano essere ff pienamente realizzati i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione». La Dichiarazione è concepita come una proclamazione di ordine sociale e politico in cui i diritti enunciati possano essere realizzati progressivamente: è questo il punto chiave. A seguito della Dichiarazione vi sono stati due accordi internazionali specifici che hanno contribuito a dargli attuazione: uno è il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR – International Covenant on Civil and Political Rights) e l’altro è il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR – International Covent on Economic, Social and Cultural Rights). Questi due accordi, adottati nel 1966, coprono le cinque aree principali dei diritti umani. Il primo si concentra sui diritti di cittadinanza e sulla protezione dagli abusi dello stato; per esempio, nell’articolo 6 si afferma che lo stato non può togliere la vita deliberatamente e senza un giusto processo; mentre gli articoli 7 e 8 affermano rispettivamente che nessuno può essere torturato e che nessuno può essere tenuto sotto schiavitù. Il secondo prende atto che i diritti economici, sociali e culturali potranno essere realizzati solo con il tempo, in parte nella misura in cui i paesi raggiungono la crescita economica e uno sviluppo sostenibile. Si riconosce il diritto al lavoro (art 6); una remunerazione dignitosa (art.7), livello di vita adeguato (art.11). Il criterio è la realizzazione progressiva di tutti i diritti. La maggior parte dei governi ha sottoscritto entrambi gli accordi. Gli Stati Uniti non hanno accolto l’ICESCR ed è interessante capire perché. Mentre molti americani concordano con l’ICESCR, il filone libertario dell’opinione pubblica non accetta il ruolo dello stato nel raggiungimento di obiettivi economici. I libertari sostengono che i governi dovrebbero lasciare che i mercati e gli individui compiano liberamente le loro transazioni e che non è compito dello stato realizzare un contesto etico che vada al di là della protezione degli individui e della proprietà privata. In più, l’ONU ha adottato molti obiettivi più specifici per quanto concerne la soddisfazione dei bisogni fondamentali. I più importanti sono stati gli MDG, del settembre 2000, il cui scopo è realizzare i diritti umani e soddisfare i bisogni fondamentali. I diritti umani sono stati al centro dell’agenda degli MDG e continuano a essere il perno morale delle Nazioni Unite e della nuova era dello sviluppo sostenibile. Società divise L’inclusione sociale mira a una prosperità di usa, all’eliminazione della discriminazione, a una giustizia ff imparziale, a mettere ciascuno in condizione di soddisfare i bisogni fondamentali e a un’elevata mobilità sociale. Naturalmente, nessuna società realizza un’uguaglianza uniforme e nessuno lo vorrebbe. Considerando i dati sulle disuguaglianze di reddito in varie parti del mondo, notiamo che le lunghe eredità storiche hanno portato a questi diversi gradi di disuguaglianza. Ad esempio, le Americhe sono zone del mondo con redditi alquanto disuguali, e coefficienti di Gini ben elevati; l’Europa Occidentale invece è un’area con distribuzione di reddito alquanto equa e con coefficienti di Gini abbastanza bassi. Finché Cristoforo Colombo non collegò l’Europa alle Americhe con commercio ed insediamenti dopo il 1492, queste rimasero pressoché isolate dalla popolazione del Vecchio Mondo. Colombo e le ondate di europei che sbarcarono verso la fine del Quattrocento godevano di due enormi vantaggi: avevano armi molto più potenti e portavano con sé agenti patogeni che si di usero con ondate ff epidemiche in tutte le popolazioni non protette dei nativi americani, provocando morti di massa. Le Americhe si svilupparono, quindi, come «società di conquista», in cui gli europei dominavano le popolazioni indigene. A partire dagli inizi del Cinquecento, introdussero poi un altro elemento cruciale: il lavoro degli schiavi africani. Quella che emerse nelle Americhe era dunque una società molto complessa, composta da gruppi dotati di ricchezza e potere assai di erenziati: un piccolo gruppo di europei governava ff con forza e potere imperiale sulle popolazioni indigene e schiavizzate del Nuovo Mondo. Nel corso del tempo europei, indigeni amerindi e schiavi africani si mescolarono e divennero molto più complessi, dando vita a popolazioni meticce. Dal Cinquecento in poi, si trovarono ad affrontare situazioni estremamente divergenti dal punto di vista politico, sociale ed economico: le Americhe si trasformarono in un’area con ampie disuguaglianze di ricchezza e potere, con nativi deprivati delle loro proprietà terriere e spinti verso aree agricole più piccole ed europei che possedevano le terre migliori. La storia violenta e conflittuale dell’America ha creato, dunque, disuguaglianze enormi e sconvolgenti, che si sono protratte, in misura considerevole, fino ai nostri giorni. La situazione delle Americhe riflette la lunga eredità delle società create dalla conquista europea, e questo genere di prospettiva storica è necessario per comprendere le forze della disuguaglianza presenti oggi in varie parti del mondo. In molte regioni, le disuguaglianze create nei secoli passati continuano a proiettare la loro ombra, ad esempio con la dinamica intergenerazionale del reddito, poiché l’eredità della povertà ha continuato a farsi sentire. Vi è il fenomeno scioccante, che si riscontra in tutto il mondo, che vede le popolazioni indigene a rontare ff una discriminazione arbitraria, basata generalmente su brutali confische di terre e maltrattamenti nel passato. I gruppi indigeni sono stati spesso obbligati a insediarsi in terre marginali, come foreste, montagne o regioni desertiche. I tassi di povertà delle popolazioni indigene sono molto elevati in tutto il mondo, e la loro incidenza sulla povertà estrema a livello globale non è irrisoria. Si può vedere come nei tassi di povertà in alcuni paesi relativamente poveri delle Americhe, come Guatemala, Ecuador, Messico e Perù, i tassi di povertà tra le popolazioni indigene sono più elevati rispetto a quelle non indigene: queste affrontano grandi sfide che derivano dalla lunga storia di violenza e discriminazione politica. La mappa dei gruppi etno linguistici a pagina 142 mostra come in tutto il mondo la diversità etnica viene misurata anche in base alle lingue, con alcuni gruppi che dominano economicamente e politicamente gli altri. Oltre alle disuguaglianze fra gruppi, ci sono quelle fra individui: vi sono di erenze inevitabili fra gli ff individui a livello di impegni lavorativi, capacità e fortuna, che creano disuguaglianze di reddito. Tuttavia, la loro dimensione dipende anche dalle politiche pubbliche. Con tutto questo voglio dire che dobbiamo a rontare le sfide della disuguaglianza sociale e dei diritti umani ff sotto parecchi punti di vista. La razza, l’etnicità, il potere, la conquista e le caratteristiche individuali sono tutti fattori di disuguaglianza all’interno di una società. E lo sono anche le risposte politiche, lo sforzo fatto dal potere per ridurre le disuguaglianze o aggravarle. La disuguaglianza, dunque, è un’eredità delle di erenze di potere, storiche, economiche e individuali, amplificate o ridotte dai poteri dello stato.ff Le forze delle crescenti disuguaglianze Nel corso degli ultimi vent’anni, la disuguaglianza di reddito è aumentata considerevolmente negli Stati Uniti e in molti altri paesi. Ci sono almeno tre forze fondamentali che contribuiscono a questo stato di cose negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e in molte economie emergenti. Un fattore chiave è il divario crescente nei guadagni tra lavoratori qualificati e non, per cui gli individui meno istruiti sono rimasti indietro in termini di guadagno, anche per la globalizzazione ed i cambiamenti tecnologici; un secondo fenomeno è l’uso crescente della robotica, di sistemi avanzati di gestione dei dati e di altre tecnologie dell’informazione, che, a quanto pare, stanno spostando il reddito dal lavoro al capitale; la terza forza è il sistema politico che negli Stati Uniti ha amplificato le crescenti disuguaglianze provocate dalle forze di mercato. Possiamo vedere come il premio sul reddito dei laureati negli Stati Uniti è salito quasi del 45% dal 1979, anno in cui è iniziata la globalizzazione. La globalizzazione e l’integrazione economica che hanno avuto inizio alla fine degli anni Settanta si sono tradotte nella globalizzazione dei sistemi produttivi. Le aziende hanno cominciato a delocalizzare spostandosi verso la Cina, il Messico e altre regioni con un minore costo del lavoro: per cui, i lavoratori americani meno istruiti che svolgevano questi lavori manuali ed avevano qualifiche inferiori hanno subìto un danno ed una riduzione dei salari. A parte la globalizzazione, un’altra forza in gioco è la rivoluzione dell’informazione e la progressiva automatizzazione di molti processi produttivi. È un’altra forza che porta a una maggiore produttività, ma anche a meno posti di lavoro nei settori manifatturieri tradizionali: il cambiamento tecnologico ha radicalmente ridisegnato l’ambiente di lavoro dei settori manifatturieri più importanti, come si può vedere con la robotica, che può aumentare enormemente la produttività e abbassare i costi di beni e servizi, ma anche mettere a dura prova i lavoratori che facevano i lavori che oggi si possono automatizzare. Il terzo fattore fondamentale è la politica: quando la disuguaglianza nei mercati comincia ad aumentare, entra in scena anche questa. In alcuni sistemi, le forze di governo contrastano la crescente disuguaglianza fornendo un aiuto extra ai lavoratori meno qualificati. In altri posti, tuttavia, compresi gli Stati Uniti, le forze politiche tendono ad amplificare piuttosto che a contrastare le forze di mercato: questa pratica aberrante iniziò proprio nel 1981 con Reagan che incoraggiava i tagli ai servizi pubblici federali, riduzione delle imposte e deregolamentazione in ambito economico. La disuguaglianza aumentò proprio in quel periodo, e con la deregolamentazione e l’indebolimento dei sindacati i CEO americani iniziarono a concedersi dei megastipendi. Negli Stati Uniti, con l’aumento della disuguaglianza, è anche declinata la mobilità sociale: i bambini poveri crescono per divenire adulti poveri, ed i figli delle famiglie povere non riescono a evitare la trappola della povertà. Infatti, molti abbandonano la scuola precocemente e pochi hanno i mezzi per completare l’istruzione con quattro anni al college. Esistono politiche idonee a ristabilire la mobilità e l’inclusione sociale, ma il sistema politico dovrebbe collaborare per renderle e caci. Finora invece il sistema politico statunitense ha ffi continuato a compiacere gli interessi delle famiglie più ricche e delle imprese. Disuguaglianza di genere La disuguaglianza di genere non è una novità nella maggior parte delle società del mondo. Gli uomini hanno fatto parte della forza lavoro retribuita mentre le donne si sono dedicate tradizionalmente ai lavori agricoli e alla produzione domestica, mentre allevavano i figli. Le leggi e le consuetudini sociali, inoltre, hanno sempre acuito questa divisione del lavoro, rendendo impossibile alle donne lavorare od esercitare controllo sul proprio reddito. Fortunatamente, queste disuguaglianze stanno rapidamente diminuendo in molte parti del mondo: siamo in un periodo di continue mutazioni, in cui pratiche secolari di discriminazione nei confronti delle donne stanno cambiando, come cambiano le idee, le esigenze economiche e le possibilità economiche per donne e ragazze che si muovono nella direzione giusta. Lo sviluppo sostenibile può aiutare questo processo promuovendo cambiamenti giuridici e amministrativi che diano potere alle donne. Gli MDG hanno a rontato l’uguaglianza di genere in maniera decisa e diretta. Il terzo MDG fa appello alle ff società perché promuovano l’uguaglianza di genere e diano potere alle donne. L’obiettivo specifico è nel settore scolastico. Molti benefici sociali verranno conseguiti mano a mano che i paesi realizzano questo obiettivo: il primo è il diritto umano delle donne all’uguaglianza e alle opportunità economiche; il secondo è nei vantaggi economici diretti ed indiretti delle donne (donne più istruite che entrano poi nel mondo del lavoro e figli che crescono più sani e meglio nutriti). Come l’indice dello sviluppo umano, l’indice della disuguaglianza di genere (GII) combina diversi indicatori su base ponderata per ottenere una valutazione quantitativa della disuguaglianza di genere in ogni paese. Il GII comprende tre categorie: la salute riproduttiva, ovvero il tasso di mortalità materna e il tasso di fertilità adolescenziale; l’attribuzione di potere, misurata dalla quota di seggi parlamentari occupati e dal tasso di iscrizione delle donne all’istruzione superiore; la partecipazione alla forza lavoro, intesa come il rapporto fra uomini e donne all’interno del mondo del lavoro. qualità. Anche quelli che la iniziano mal preparati finiscono per ritirarsi, pieni di debiti e senza laurea. Quando il mercato manda un messaggio che dice che una determinata azione ha un alto tasso di ritorno, ci si aspetterebbe che venga seguito; così ci aspetteremmo che negli Stati Uniti un maggior numero di persone porti a termine il corso di laurea. Negli Stati Uniti, paese molto ricco, un’alta percentuale di giovani non può usufruire dei vantaggi derivanti dall’aver portato a termine gli studi universitari: il tasso di completamento della scuola superiore molto aumentato nel tempo, ma quello delle lauree hanno smesso di crescere ad un valore almeno vicino a quello che ci si aspettava. Le tasse sono una barriera enorme e non solo sono lievitate rispetto al passato, ma anche rispetto ai livelli che si registrano in altri paesi. Il secondo aspetto inquietante è che il completamento degli studi universitari riguarda in misura sproporzionata i ragazzi provenienti dalle famiglie più ricche. Nella distribuzione dei redditi, l’istruzione universitaria è un fattore che esaspera le disuguaglianze. I divari sono evidenti non soltanto sotto il profilo del reddito, ma anche per quanto riguarda la razza e l’appartenenza etnica: a non farcela sono soprattutto i ragazzi poveri, e ancora di più i non bianchi. Gli Stati Uniti non hanno dispiegato politiche sociali finalizzate a far fronte a queste ampie disuguaglianze e al pericoloso sotto-investimento nella realizzazione di obiettivi formativi. Gli Stati Uniti si trovano dunque di fronte a una triplice sfida: accesso estremamente diseguale all’istruzione universitaria, aumento irrisorio del tasso di laureati a partire dagli anni Settanta, crescita massiccia del debito studentesco. Una soluzione potrebbe consistere in un decisivo abbassamento delle tasse universitarie a cui l’istruzione online potrebbe dare un importante contributo. La mobilità sociale L’istruzione è una strada per conseguire una vita più produttiva e redditi più alti, ma può essere anche un amplificatore della disuguaglianza sociale. Se l’istruzione universitaria è così costosa da consentire soltanto ai ragazzi provenienti da famiglie abbienti di conseguire diplomi e se nello stesso tempo sono alti anche i ritorni in termini di reddito, allora l’istruzione diventa una strozzatura per i poveri e causa di disuguaglianze sempre più ampie. Sembra essere questa la situazione in cui oggi si trovano gli Stati Uniti, paese che una volta si vantava di essere «la terra delle opportunità», ma che oggi è una società caratterizzata da grandi disuguaglianze e scarsa mobilità sociale. I Paesi relativamente equi sul piano della distribuzione del reddito hanno un’alta mobilità sociale, mentre i paesi più iniqui tendono ad averne una bassa. Il reddito dei genitori è un buon indicatore del reddito futuro dei figli. Società più eque, generalmente caratterizzate anche da un ruolo forte del governo nel garantire lo sviluppo dei bambini nella prima infanzia e accesso a un’istruzione di qualità a tutti i livelli, finiscono per avere una maggiore mobilità intergenerazionale. Il ruolo dell’istruzione universitaria nel progresso tecnologico. Per crescita endogena si intende la crescita economica basata su nuove conquiste tecnologiche: questa, insieme alla crescita catch up, è fondamentale per l’istruzione universitaria. Queste conquiste tecnologiche tendono ad essere il risultato di un’intensa attività di ricerca e sviluppo (R&D) svolta da scienziati ed ingegneri altamente qualificati. La quota di reddito nazionale dedicata alle R&D è concentrata nei paesi ad alto reddito, ed è così sin dalla Rivoluzione Industriale. A sostenere ricerca e sviluppo non è una singola istituzione (per esempio, l’università), ma una rete che comprende università, laboratori nazionali e imprese attive nel settore hi-tech. La complessa interazione nella realizzazione di progressi tecnologici va sotto il nome di «sistema nazionale dell’innovazione», alla cui base c’è sempre un solido sistema di istruzione universitaria in ambito scientifico, ingegneristico e di amministrazione pubblica. Il secondo tipo di crescita, quella di catch-up, è collegato all’adattamento di tecnologie provenienti dall’estero, e talvolta queste non richiedono la presenza di specializzazioni locali nel paese importatore. Alcune tecnologie non si possono semplicemente usare: vanno adattate all’uso locale. Il trasferimento di tecnologie all’estero richiede almeno la presenza di specialisti altamente qualificati nel paese importatore: le università sono pertanto cruciali per la forza lavoro specializzata e per formare gli insegnanti perché sappiano usare le nuove tecnologie. Ma le università sono determinanti anche per una terza, fondamentale attività: aiutare la società a individuare e risolvere i problemi locali di sviluppo sostenibile. Da lungo tempo l’America stimola le sue università ad assumersi un ruolo nella soluzione di problemi di questo genere. Uno dei primi passi fu il Morrill Act, approvato dal Congresso e trasformato in legge con la firma di Abraham Lincoln nel 1862; questo istituiva università con concessioni di terre per promuovere progressi agricoli e meccanici basati su scienza e tecnologia, assegnando terreni e finanziamenti ad ogni stato per fondare istituti universitari specializzati in studi di agraria ed ingegneria. Queste università non erano creati solo per formare gli studenti ma anche per collaborare con le comunità locali in cui erano situati per risolvere problemi complessi e sviluppare abilità tecniche. Il Sustainable Development Solutions Network (SDSN) è un’organizzazione, sotto l’egida del segretario generale dell’ONU, finalizzata a creare legami tra università, imprese e altre istituzioni culturali nei paesi del mondo per a rontare la sfida dello sviluppo sostenibile. Paesi e regioni in tutto il mondo ora stanno ff fondando proprie sezioni del SDSN. La speranza è che il SDSN riesca a fare delle università distribuite nel mondo soggetti orientati alla risoluzione dei problemi. Capitolo 9: Salute per tutti Una copertura sanitaria universale La salute è al centro dello sviluppo sostenibile, e da tempo è considerata un bisogno e un diritto fondamentale dell’uomo. L’obiettivo è: “Le migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire”, dal momento che la salute “perfetta” non può essere un obiettivo, perché ogni essere umano a ronterà malattie e morte. ff Sin dalla nascita della organizzazione delle Nazioni Unite la salute è stata una priorità. Nel 1948 la “Dichiarazione universale dei diritti umani” ha esplicitato che la salute è un diritto e un bisogno basilare dell’uomo, e che anche quando diritti di questo genere non possono essere acquisiti in un colpo solo vanno realizzati passo dopo passo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), creata anch’essa nel 1948, dichiara nel suo atto costitutivo che il massimo livello di salute ottenibile è un diritto fondamentale dell’uomo “senza distinzioni di razza, religione, orientamento politico, condizione economica o sociale”, ma quest’obiettivo non è ancora stato raggiunto. Dopo il 1948, una campagna globale molto importante per il conseguimento di un buono stato di salute universale è stata lanciata nel 1978. I responsabili della sanità di tutto il mondo si riunirono e adottarono la dichiarazione che proclamava il 2000 come l’anno in cui doveva essere realizzato l’obiettivo della salute universale. Purtroppo non fu così, anzi in molte regioni del mondo si riscontravano cattive condizioni di salute e pandemie. Quella di HIV/AIDS dilagava a un ritmo sfrenato, ma anche la malaria, una malattia tropicale letale, che ebbe una tremenda impennata perché il parassita era diventato resistente al farmaco. Il 2000 fu un vero e proprio anno nero per la malaria, ma lo fu altrettanto per la tubercolosi. L’impennata era dovuta in parte alla pandemia di HIV/AIDS che faceva morire di tubercolosi chi aveva malattie pregresse, ma anche al fatto che ci fu resistenza ai farmaci: si di ondevano nuovi batteri della tubercolosi resistenti a unff ampio spettro di medicine tradizionali. Da allora si sono fatti molti progressi, si può dire che il periodo dal 2000 ad oggi è stato un periodo di progressi straordinari. Ricordiamo che tre degli otto obiettivi del MDG riguardano la salute, quindi questa è uno dei principali obiettivi. Dal 2000, ed in particolare dal 2005, le ricerche nell’ambito della sanità, le scoperte nella medicina moderna e in ambiti quali la produzione alimentare e le infrastrutture urbane hanno prodotto grandi miglioramenti. Ma anche grosse sono le sfide da a rontare: milioni di bambini, soprattutto nei paesi più poveri, muoiono ogni ff anno per cause prevenibili o curabili. Una malattia non curata è una minaccia sociale che si riversa sull’intera popolazione: tempo e denaro che si spendono per combattere simili infezioni e le perdite di vite umane sono un costo immenso per le comunità, sul piano umano e finanziario. I governi hanno un ruolo centrale in questo campo. In ogni caso, i grandi progressi in campo sanitario sono uno dei maggiori risultati conseguiti nell’era moderna: al tempo della Rivoluzione Industriale, l’aspettativa di vita alla nascita (LEB – Life Expectancy at Birth), era di 35 anni, che era l’età media. Nel 1950 arrivò a 46 anni e nel 1955 a 65. Tuttavia, nei paesi meno sviluppati è ferma ai 40, non molto diversa dal mondo pre-industriale. Sul piano della salute vi sono ancora gap enormi tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Nei primi l’aspettativa di vita alla nascita è di 80 nei secondi solo di 60 anni: c’è un divario di almeno 20 anni nell’aspettativa media di vita tra paesi ricchi e poveri. Si potrebbe fare molto per migliorare lo stato di salute di quelli poveri. Nella sanità oggi una vita piena è quella che dura 80 anni, e nei PMS l’eccesso di mortalità è quasi sempre dovuto alla povertà. Nei paesi più ricchi l’aspettativa di vita è più alta rispetto a quelli poveri, e i motivi principali sono i miglioramenti tecnologici e sociali in campo sanitario, i miglioramenti farmacologici, ma anche stili di vita più salutari e consapevolezza in termini di salute e malattia. Nei paesi più poveri anche un lieve aumento di reddito fa migliorare l’aspettativa di vita, come si evince dalla figura a pagina 286. Ciò significa che investimenti modesti ma mirati nell’assistenza sanitaria per le fasce povere della popolazione possono fare una grande differenza. Anche una piccola somma in più, come 60 dollari, potrebbe aiutare, e dato che i governi di quella zona non le posseggono, si dovrebbe ricorrere ad un fondo straniero. Nei paesi a basso reddito il tasso di mortalità materna sta scendendo rapidamente, ma c’è comunque un grande divario con i paesi ricchi. In generale, le cause di morte differiscono tra i paesi ricchi e poveri, nel senso che in quelli poveri si muore per diabete, cancro, malattie cardiovascolari come nei ricchi, ma anche per malattie infettive come morbillo o malaria, in cui nei paesi ricchi non si muore più. Un principio fondamentale in campo sanitario è che la denutrizione indebolisce le capacità del sistema immunitario di resistere alle infezioni. Per questo i bambini in paesi molto poveri, muoiono di malattie diarroiche o infezioni respiratorie che non ucciderebbero un bambino ben nutrito in un paese più ricco. Le disparità tra ricchi e poveri e tra gruppi etnici valgono anche all’interno degli stessi paesi. Negli Stati Uniti ci sono disparità significative nell’aspettativa di vita tra New York o Boston e Alabama o Georgia: nel profondo Sud le aspettative di vita sono inferiori, ed ancor più quelle degli afroamericani o ispanici rispetto ai bianchi. Per misurare i risultati in termini di salute si usano vari indicatori statistici: l’aspettativa di vita alla nascita, U5MR e MMR sono i tre indicatori che abbiamo visto. Un altro concetto importante è quello degli anni di vita corretti in base alla disabilità (DALYs). Un anno di vita con una disabilità è conteggiato come porzione di un anno di vita perso, dove la misura della porzione dipende dalla gravità della disabilità: vivere un anno con una disabilità grave quali paraplegia, schizofrenia o cecità conta come una frazione ragguardevole di un anno di vita perso, anche fino a 0,9 anni persi per ogni anno vissuto in tali condizioni. L’indice DALYs di una popolazione è la somma degli anni di vita persi e di quelli persi per disabilità: è uso corrente dividere il DALYs totale per la popolazione al fine di calcolare il DAYLs pro capite (come dividiamo il PIL per la popolazione per calcolare il PIL pro capite). Gli indici DAYLs pro capite vengono utilizzati per capire il di erente carico di malattie nelle diverse aree ff del mondo. Il carico di malattia registrato nell’Africa sub sahariana è fortemente concentrato nel HIV/AIDS e nella malaria e tifo; e l’indice è il più alto che in tutto il mondo, mentre nei paesi ad ad alto reddito c’è il carico più basso in ogni gruppo di malattie (figura pag 293). Ciò non vuol dire che nel mondo ricco non ci siano malati e decessi per HIV o AIDS, ma solo che il carico di questa malattia per persona è molto più basso rispetto al carico enorme dell’Africa Subsahariana. E nei paesi ad alto reddito le malattie infettive o contagiose sono del tutto assenti e affrontate con comuni misure di prevenzione. In più si hanno anche altre malattie contagiose e condizioni legate a gravidanza e nutrizione. Molte di queste malattie sono focalizzate nella località Africana e perciò bisognerebbe concentrare le varie azioni su queste categorie principali, e anche in Asia Meridionale c’è un carico altissimo di malattie collegate a gravidanza e nutrizione. HIV / AIDS, altre malattie contagiose e condizioni legate a gravidanza e nutrizione sono le tre categorie dove si registra il carico maggiore in Africa Subsahariana. Le malattie cardiovascolari sono invece molto diffuse in Europa Orientale e Asia Centrale: in Russia e in altre regioni dell’ex Unione Sovietica gli uomini di mezza età so rono pesantemente di infarto e altri disturbiff cardiocircolatori, si pensa che sia collegato allo stile di vita (fumo, alcol, poco esercizio fisico). Povertà e malattia Il problema dei costi elevati e crescenti del sistema sanitario è al primo posto nelle agende politiche ed economiche, anche nei paesi ricchi, fermo restando che in quelli poveri ci sono problemi finanziari ma ancora più importanti sono quelli dell’incidenza della malattia tuttora altissima. per cento del PIL all’assistenza sanitaria per i paesi poveri, allo scopo di colmare la carenza di finanziamento per il sistema sanitario di base. La seconda raccomandazione è di destinare questi soldi a organizzazioni altamente e caci. ffi Raccomandazione 2: metà dei soldi della raccomandazione 1 dovrebbe essere impiegati attraverso il GFATM (fondo globale per la lotta all’AIDS, malaria e tubercolosi) che diventerebbe il fondo sanitario globale. La terza raccomandazione è che i paesi a basso reddito contribuiscano al fondo sanitario con circa il 15 per cento del loro bilancio nazionale. Raccomandazione 3: i paesi a basso reddito dovrebbero adempiere all’Abuja Target destinando al settore sanitario circa il 15 per cento del reddito nazionale. La spesa totale dovrebbe essere di almeno 60 dollari l’anno per persona in modo da garantire i servizi sanitari di base. La quarta raccomandazione è di completare il lavoro svolto per avere un controllo completo della malaria. Raccomandazione 4: il mondo dovrebbe adottare un piano per avere il controllo completo della malaria con la fine della mortalità. La quinta raccomandazione è che i principali paesi donatori dovrebbero rispettare il loro impegno di lunga data a fornire accesso universale ai farmaci antiretrovirali (ARV) per gli individui a etti da AIDS. ff Raccomandazione 5: il G8 dovrebbe rispettare l’impegno a consentire l’accesso universale agli ARV. La sesta raccomandazione è che i principali paesi donatori dovrebbero portare avanti l’impegno di finanziamento e la collaborazione con i paesi poveri per il Global Plan to Stop Tuberculosis. Raccomandazione 6. Il mondo dovrebbe realizzare il Global Plan to Stop Tuberculosis. La settima raccomandazione è che il mondo dovrebbe garantire l’accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, che includono l’assistenza ostetrica di emergenza per parti sicuri, l’assistenza prenatale per una gravidanza sicura e contraccettivi moderni, se le famiglie li desiderano. Molte donne in tutto il mondo desiderano usare contraccettivi moderni e avere meno figli, ma non possono accedervi o non hanno i soldi per riuscire a procurarseli sul mercato. Queste donne necessitano di un completo finanziamento dei servizi di pianificazione familiare, della contraccezione, dell’assistenza ostetrica di emergenza e dell’assistenza alla gravidanza, tutti servizi che vanno forniti con un budget molto basso ed essere quindi trasformati in servizi universali. Raccomandazione 7. Il mondo dovrebbe finanziare l’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, compresa l’assistenza ostetrica di emergenza e la contraccezione entro il 2015, in parte attraverso il fondo sanitario globale e in parte attraverso l’UN Population Fund. Raccomandazione 8. Il fondo sanitario globale dovrebbe istituire uno sportello finanziario per sette malattie tropicali trascurate, ma controllabili: anchilostoma, ascariasi, tricuriasi, oncocercosi, scistosomiasi, filariasi, linfatica, tracoma. Raccomandazione 9. Il fondo sanitario globale dovrebbe istituire uno sportello per i sistemi sanitari, compreso l’addestramento di massa e il dispiegamento di un milione di CHW (community health workers) in Africa entro il 2015. Raccomandazione 10. Il mondo dovrebbe introdurre l’assistenza sanitaria di base, per le malattie non trasmissibili nelle seguenti aree: sanità odontoiatrica, assistenza oculistica, salute mentale, malattie cardiovascolari e disturbi del metabolismo. La morale è che il mondo è prossimo a realizzare la sanità di base per tutti attraverso la copertura sanitaria universale. Le sfide della copertura sanitaria nei paesi ad alto reddito. Nei paesi ad alto reddito, la spesa pubblica annuale per l’assistenza sanitaria si aggira sui 3-4.000 dollari l’anno per persona. Il problema è che, specialmente negli Stati Uniti, 8.000 dollari l’anno a persona sono troppi: è una spesa così eccessiva che rappresenta un onere rilevante per l’economia, per il bilancio pubblico e per i poveri che sono spesso esclusi dal mercato dell’assistenza sanitaria a causa dei prezzi troppo alti, ma anche per quei membri del ceto medio che possono trovarsi gravati da prezzi esorbitanti. Anche se il problema riguarda principalmente gli Stati Uniti, le lezioni che se ne traggono possono essere applicabili a livello globale e sono quindi importanti: una delle ragioni principali del costo elevato è che si tratta di un sistema di fornitura dei servizi sanitari di natura privatistica. Il settore privato sarà anche più efficiente, ma è soprattutto più costoso. Per prima cosa la salute è un diritto umano fondamentale ed è un bene meritorio, poiché l’accesso a questa dovrebbe essere universale. La fornitura pubblica di questi servizi è importante, se non altro per aiutare a garantire che i poveri siano in grado di accedere a questi beni meritori esattamente come i ricchi. In un articolo del 1963, l’economista Arrow osservò che il settore sanitario non può funzionare come un settore di mercato concorrenziale, perché i pazienti non sanno ciò che è meglio per loro da un punto di vista medico, ma devono affidarsi ai medici. C’è dunque un’asimmetria informativa che viola uno degli assunti fondamentali del corretto funzionamento di un’economia di libero mercato, secondo cui in una transazione consumatori e venditori hanno informazioni simili. Quando c’è un’asimmetria informativa, e il venditore è l’unico a possedere la conoscenza, è possibile che il consumatore si ritrovi a pagare troppo, se gli incentivi per il venditore non sono progettati correttamente. Il sistema americano, purtroppo, ha questo problema. Troppi fornitori di assistenza sanitaria sono incentivati a far pagar troppo ai clienti. Un altro problema nel trattare l’assistenza sanitaria come se fosse un prodotto nel libero mercato è che questa richiede un’assicurazione, nel caso in cui a causa di malattie gravi ci siano da a rontare costi elevati. ff Tuttavia, se gli individui conoscono le loro condizioni ma l’assicuratore no, questo penserà che il premio è troppo basso, alzandolo. Quindi solo le persone sane non si assicureranno, cosa che faranno invece solo quelle molto malate. Il mercato assicurativo si restringerà o addirittura collasserà. Il sistema americano è caratterizzato da una frode sostanziale, da assistenza eccessiva, da sprechi e dal potere monopolistico dei fornitori di salute locali. I mercati assicurativi non funzionano bene ed escludono molti dal sistema privato. In un recente lavoro, una delle principali organizzazioni scientifiche che studiano il sistema sanitario americano, l’Istitute of Medicine of the U.S. National Academies of Science, ha fatto una scoperta straordinaria. Gli sprechi, le frodi e gli abusi nel sistema ammontano al 5% del reddito nazionale americano, circa 750 miliardi di dollari l’anno. Le cause sono le fatturazioni eccessive, lo spreco di risorse, gli esami ripetuti, la frode pura e semplice e gli elevati costi del management. In altre parole, gli Stati Uniti stanno spendendo per la sanità il 18% del PIL, in valore reale, ottenendo solo il 13% del reddito nazionale. Questo perché gli USA sono l’unico paese ad alto reddito in cui i pagamenti privati rappresentano più della metà delle spese totali: il sistema è sia quello più costoso che quello più privato. La spesa per ogni paziente dimesso da un ospedale è pari a 18.000 dollari; negli altri paesi ad alto reddito è meno di un terzo. Un’altra disparità è negli stipendi: negli Stati Uniti, i medici guadagnano molto di più dei medici di altri paesi. Il sistema americano è notevolmente costoso, non perché fornisca una gamma di servizi eccezionale rispetto agli altri paesi, ma perché i costi unitari degli interventi e dei farmaci sono molto più alti. L’ultima dimensione di questo problema è la politica: negli Stati Uniti il settore sanitario è in grado di opporsi a una regolamentazione e cace o a una sostituzione con il sistema pubblico. ffi Il settore sanitario, è quello che più contribuisce al finanziamento delle campagne elettorali. Quali potrebbero essere le opzioni di riforma? La prima sarebbe di passare da un sistema a pagatore unico come in Canada: il sistema sanitario canadese è di alta qualità e costa molto meno. I governi delle province del Canada pagano la maggior parte dei costi, per cui le spese private sono inferiori al 30 per cento del totale. Una seconda possibilità è il sistema definito “tutti pagatori”: i pagamenti per la sanità verrebbero da datori di lavoro, ma la regolamentazione eviterebbe un potere di monopolio nello stabilire i prezzi. Ci sarebbe un unico prezzo, noto al pubblico, per ogni servizio: medici ed ospedali non potrebbero applicare discriminazioni di prezzo. Una terza possibilità è quella della capitazione. Invece di pagare il servizio, l’ospedale o il medico riceve un ammontare fisso all’anno per paziente, indipendentemente dagli specifici servizi che devono essere resi durante l’anno. L’ammontare fisso dipenderebbe dai costi attesi per fornire un’assistenza sanitaria di qualità: se quelli effettivi sono maggiori, l’ospedale si farebbe carico della parte eccedente, senza far pagare troppo al singolo paziente o richiedere servizi in eccesso. Infine, la tecnologia può dare un importante contributo alla riduzione dei costi, con la tecnologia dell’informazione, i sistemi intelligenti e anche con i pazienti che monitorano i loro valori fondamentali da casa. Ci sono tante strade per introdurre riforme: bisogna, in parte, cambiare gli incentivi e si devono impiegare le nuove tecnologie. Naturalmente, il tipo di riforma dipende anche dalla politica: se il sistema americano viene gestito a beneficio del pubblico, si possono fare enormi progressi per raggiungere più persone e migliorare i risultati sanitari a costi notevolmente inferiori. Capitolo 10: Sicurezza alimentare Approvvigionamento sostenibile e fine della fame Come farà il mondo a nutrirsi? È una delle domande più complesse che lo sviluppo sostenibile si pone e a cui tuttora non è stata trovata una risposta. È un problema di vecchia data. Eppure molti credevano che si sarebbe risolto con gli enormi passi in avanti in termini di produttività compiuti grazie alle scoperte scientifiche: oggi non solo buona parte dell’umanità è malnutrita, ma le minacce alla sicurezza alimentare sono gravi. I primi avvertimenti in questo settore risalgono al 1789, quando Malthus nel suo Saggio sul principio di popolazione affrontava la questione sicurezza alimentare vs crescita demografica. Egli partiva dalla constatazione che qualunque aumento temporaneo della produzione in grado di allentare la morsa dell’insicurezza alimentare porta inevitabilmente ad un incremento della popolazione, che inevitabilmente conduce ad una nuova insicurezza alimentare. Quando Malthus si chiedeva come a rontare la sfida di nutrire il mondo, il nostro pianeta era abitato da 900 ff milioni di persone. Da allora la popolazione si è moltiplicata per otto, per cui la sfida è di nuovo attuale. Il problema è più complesso di quanto Malthus avesse previsto, essenzialmente per quattro ragioni: • Una percentuale consistente della popolazione mondiale è malnutrita; • La popolazione complessiva continua a crescere; • I cambiamenti climatici e ambientali costituiscono una minaccia per la futura produzione alimentare; • Gran parte dei danni climatici e ambientali sono causati dallo stesso sistema alimentare. Affrontiamo prima la piaga della malnutrizione, che riguarda il 40% della popolazione mondiale: una delle principali manifestazioni è la fame cronica, definita dalla FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) come un’assunzione insufficiente di energia e proteine. Un altro tipo di malnutrizione è la fame nascosta, o carenza di micronutrienti come vitamine ed acidi grassi; il terzo tipo di malnutrizione è l’obesità, ovvero, l’eccessiva assunzione di calorie. Si ha quando il BMI è superiore a 30. Il mondo non è proprio come avremmo auspicato che sarebbe stato 200 anni dopo le ammonizioni di Malthus sulla cronicità delle crisi di insicurezza alimentare: ci troviamo nel bel mezzo di una crisi. La fame cronica riguarda essenzialmente l’Africa Subsahariana e l’Asia Meridionale. Può compromettere irreparabilmente lo sviluppo fisico dei bambini, con ritardo nello sviluppo cognitivo o patologie quali malattie cardiovascolari da adulti. La gravità della denutrizione cronica dei bambini viene misurata da diversi indicatori: il primo livello è quello dello stunting, il blocco della crescita, caratterizzato da un basso rapporto altezza/età. Lo stunting può anche dipendere da dieta inadeguata o infezioni croniche come parassiti intestinali. Il secondo livello, ancora più preoccupante, è quello del wasting, il deperimento. A di erenza dello stunting, ff in cui il bambino non cresce, in questo caso è il rapporto tra peso e altezza a risentirne. Il wasting è spesso sintomo di una situazione così grave da mettere in pericolo la vita, come in caso di carestie, che richiede terapie mediche di emergenze. La denutrizione cronica è diversa da quella acuta, poiché quest’ultima è conseguenza di guerre, disastri naturali o siccità. La fame nascosta non colpisce solo chi so re di malnutrizione cronica ma anche un altro miliardo di personeff che assume una quantità adeguata di calorie ma non una varietà su ciente di nutrienti. In Asia meridionale, ffi occidentale e centrale ed in gran parte dell’Africa subsahariana ha le percentuali più alte. L’obesità si trova all’estremità opposta dello spettro della malnutrizione ed è anch’essa causa di tantissime malattie e morti premature: Stati Uniti, Messico e Venezuela ne soffrono molto. In parte è dovuta alla quantità complessiva di calorie ingerite, in parte è il risultato della sedentarietà nei contesti urbani. Potrebbe anche essere dovuta al consumo di alimenti industriali con elevato indice glicemico come bevande gassate. In estrema sintesi, con ogni probabilità la grande di usione dell’obesità è il risultato dell’ingestione di un ff numero eccessivo di calorie e del tipo sbagliato nonché all’estrema sedentarietà della vita urbana. Per contrastare il dilagare dell’obesità, sarebbe su ciente modificare la propria dieta e fare più movimento ffi seguendo quelle che sono le nuove indicazioni delle scienze della nutrizione. Per quanto riguarda la sicurezza alimentare nel mondo, se già navighiamo in brutte acque, è probabile che la situazione peggiori ulteriormente prima di riprendersi. Non solo il 40 per cento del mondo è malnutrito, ma assistiamo a una Il sistema alimentare, una minaccia per l’ambiente La questione è ulteriormente complicata dal fatto che non solo la disponibilità di cibo è minacciata dai cambiamenti climatici, ma sono proprio i sistemi di coltivazione odierni la principale causa del cambiamento ambientale indotto dall’uomo! I danni che l’agricoltura provoca all’ambiente rendono ancora più arduo il tentativo di sfamare il pianeta in maniera sostenibile: bisogna capire come modificare il modo di lavorare la terra affinché l’agricoltura smetta di essere fonte di così tanti danni all’ambiente, mantenendo inalterati i raccolti a fronte delle minacce ambientali e sfamare un maggior numero di persone nel futuro in maniera adeguata. I sistemi agricoli devono conservare ecosistemi e biodiversità, con un minore impatto sul clima e sulle riserve d’acqua. Il maggior responsabile dei cambiamenti ambientali indotti dall’uomo è il settore agricolo, non le auto o le fabbriche alimentate a carbone, come pensano in molti. Quali sono le pressioni esercitate dall’agricoltura? Innanzitutto, genera i gas serra: il settore agricolo è uno dei primi produttori dei tre principali gas serra: CO2, metano e ossido d’azoto. Il secondo impatto ambientale dell’agricoltura è quello relativo al ciclo dell’azoto. Questo è presente al 79% nella nostra atmosfera sotto forma di diazoto. Sotto forma di composti reattivi come nitrati o ammoniaca è di fondamentale importanza per le specie viventi perché contribuisce alla produzione di amminoacidi e proteine. Gli agricoltori lo immettono nel terreno sotto forma di fertilizzanti chimici perché è un macronutriente fondamentale. Tuttavia, l’uso intenso di questo provoca danni all’ecosistema molto gravi, che aumentano l’intensità dei flussi d’azoto nell’ambiente. Il terzo considerevole impatto negativo dell’attività agricola sull’ambiente è rappresentato dalla distruzione degli habitat di specie diverse dalla nostra. L’umanità si è già appropriata di gran parte della terraferma, circa il 40% delle terre emerse, e perciò il fatto non sorprende molto. Inoltre si accanisce anche sulle aree forestali quando le foreste pluviali sono ricche di biodiversità. Uso di pesticidi ed uso eccessivo di acqua dolce rientrano nei modi in cui l’attività agricola danneggia l’ambiente. Per tutte queste ragioni, il settore agricolo è uno dei principali driver della perdita di biodiversità indotta dalle attività umane ed è indispensabile modificare le tecnologie, i processi e le modalità di sfruttamento del terreno a nché il sistema alimentare sia compatibile con un pianeta sostenibile.ffi Inoltre, complessivamente, all’uso diretto o indiretto di combustibili fossili sono attribuili i due terzi delle emissioni di gas serra. Attività che esulano dal settore energetico sono quindi ritenute responsabili di un terzo delle emissioni totali, tra cui CO2, N2O e inquinanti chimici quali gli idrofluorocarburi. L’agricoltura è ai primi posti per le emissioni di CO2, ma anche di altri gas serra: il naturale ciclo dell’idrogeno è stato ormai surclassato in termini di attività umana. Haber e Bosch, due ingegneri importanti, tra il 1908 e il 1912 hanno messo in atto il processo Haber-Bosch, che consente di scindere il legame triplo dell’azoto ottenendo la sintesi industriale dell’ammoniaca su larga scala, da usare nei fertilizzanti azotati. Il processo risolse il problema della carenza dei nutrienti azotati necessari per incrementare la produzione globale di cibo. Sono stati i concimi azotati, nonché le sementi ad alta resa della Rivoluzione verde e altri progressi agronomici, a rendere possibile la produzione di una quantità di cibo su ciente per 7,2 miliardi di persone. ffi L’azoto chimico impiegato in agricoltura finisce nelle riserve idriche: va nell’acqua sotto forma di nitrati, compromettendone la qualità, e nell’atmosfera come diossido di azoto causando smog e inquinamento, provocando gravi danni ambientali. Abbiamo svariati problemi derivanti dal massiccio uso di fertilizzanti: maggiori emissioni di gas serra, acidificazione del suolo, ripercussioni sulla qualità dell’acqua a causa dei nitrati e dei nitriti nelle riserve idriche; eutrofizzazione degli estuari; peggioramento della qualità dell’aria a causa di NO2 e NO3 e di altre molecole a base di azoto che entrano nell’aria urbana creando smog e ozono troposferico con conseguenti ripercussioni sulla salute di quanti abitano nelle città. Perciò ci troviamo davanti ad un grosso dilemma: per produrre cibo abbiamo assolutamente bisogno di azoto, ma questo provoca un crescente numero di ripercussioni sull’ambiente. L’agricoltura ha un forte impatto anche sulle foreste, la cui superficie perde terreno in tutte le principali foreste pluviali. In Amazzonia la deforestazione vuole far posto a nuovi terreni agricoli, pascoli ed infrastrutture. In Africa ci troviamo di fronte a un fenomeno diverso: l’agricoltura è in mano a piccoli coltivatori locali; qui il problema non è la deforestazione su larga scala ma lo sfruttamento del legno per ottenere legna da ardere da parte dei piccoli proprietari nelle zone confinanti. Qui la popolazione è veramente povera e la carbonella è l’unico modo per riscaldarsi. In tutte queste aree, per preservare gli habitat, proteggere la biodiversità e contenere le emissioni di gas serra dovuti alla deforestazione, vanno chiaramente incoraggiate azioni che rispondano alle particolari sfide ambientali e agli specifici bisogni delle popolazioni locali. Verso un approvvigionamento globale sostenibile La creazione di un sistema agricolo sostenibile è di importanza vitale: l’agricoltura deve riuscire a nutrire una popolazione sempre più numerosa e al tempo stesso ridurre le tremende pressioni che esercita sugli ecosistemi terrestri, e deve poi resistere meglio ai cambiamenti climatici e ambientali in atto. Che cosa potrebbe succedere se non modifichiamo il nostro operato? Se continuassimo a comportarci come stiamo facendo, assisteremmo a un incremento dell’insicurezza alimentare in alcune regioni del mondo: la denutrizione continuerà ad avere come epicentro l’Africa subsahariana e l’Asia del Sud. Se non cambiamo atteggiamento anche la malnutrizione all’estremità opposta dello spettro, ovvero l’obesità, si aggraverà in Nord America e in molte zone dell’America Latina. Il cambio di destinazione del suolo avrà costi altissimi, soprattutto nelle aree di foresta pluviale. Un ristretto numero di zone riuscirà a sottrarsi ad alcune di queste minacce, ma nessuna riuscirà a sottrarsi a tutte. Ci saranno milioni, anzi centinaia di milioni, di rifugiati ambientali. Come sterzare verso uno sviluppo sostenibile? Data la complessità del sistema alimentare, le interconnessioni tra sfruttamento della terra, l’impiego di azoto e di inquinanti chimici, nonché la vulnerabilità delle coltivazioni a fronte di temperature sempre più elevate ci sarà bisogno di risposte diverse, di natura olistica, che tengano ben presente il contesto locale. Quali azioni si potrebbero mettere in atto? Innanzitutto, si potrebbe migliorare le capacità di coltivazione: abbiamo bisogno di una nuova Rivoluzione Verde. In alcuni casi si tratterà di concentrarsi su varietà resistenti al clima arido, perché è molto probabile che i periodi di siccità diventeranno sempre più frequenti. I biotecnologi stanno provando a creare piante che resistono meglio alla siccità mediante modificazione genetica ed incroci. Molti ritengono che questa sia pericolosa per la nostra salute e dannosa per l’ambiente, ma la verità è che queste tecnologie vanno testate. La seconda azione da intraprendere è rendere alcune coltivazioni più nutrienti. Un’alimentazione più sana presuppone ovviamente la scelta delle coltivazioni più adatte per una dieta equilibrata a base di frutta, verdura, cereali integrali e oli vegetali. Si potrebbe ovviare a certe mancanze rendendo più nutrienti alcuni alimenti di base: è questo il principio che sta dietro al cosiddetto golden rice messo a punto nelle Filippine, dove si sta provando ad arricchire il genoma del riso di betacarotene per far sì che i bambini che si nutrono di quel riso ricevano la vitamina A. La terza direzione in cui muoversi è quella dell’agricoltura di precisione, già molto di usa nei paesi a più ff alto reddito, che mira a ridurre il consumo di acqua, azoto e altri fattori, in modo che a un maggior quantitativo di cibo prodotto possa corrispondere un minore impatto ambientale. L’agricoltura di precisione si basa su tecnologie informatiche, mappatura dettagliata della tipologia di terreno e spesso dai sistemi GPS che indicano all’agricoltore che cosa sta avvenendo nel terreno nel punto in cui si trova in quel preciso momento. Più generalmente, l’analisi delle sostanze nutritive presenti sul terreno può essere effettuata mediante test più affidabili e mappature del terreno, con strumenti portatili o satellitari che incrementano la produttività in terreni poveri di nutrienti e consentono ai paesi che eccedono nell’uso di fertilizzanti di tagliarli drasticamente. Un altro passo fondamentale da compiere riguarda la gestione idrica. Anche la migliore gestione delle fasi di raccolto, stoccaggio e trasporto per evitare i pesanti sprechi che oggi hanno luogo nel percorso che le materie prime compiono dal campo alla nostra tavola rappresenta un obiettivo da raggiungere. È fondamentale trovare modelli imprenditoriali migliori per i piccoli agricoltori; non solo per porre fine alla povertà estrema ma anche per permettere loro di investire in colture migliori e a livello di irrigazione e stoccaggio in modo da incrementare i rendimenti agricoli e quelli economici. Infine, dobbiamo assumerci in prima persona la responsabilità della nostra salute e del nostro modo di approcciare le questioni alimentari. La presenza e diffusione dell’obesità dimostra che c’è qualcosa di errato nel modo prevalente di nutrirsi. La conclusione è una sola: il cammino verso uno sviluppo sostenibile comporta una modifica dei comportamenti, una coscienza pubblica, una responsabilità politica e individuale, una mobilitazione di nuovi sistemi e tecnologie per ridurre drasticamente le pressioni sull’ambiente e contribuire a rendere più elastici la nostra economia e il nostro stile di vita di fronte ai cambiamenti ambientali già in atto. Capitolo 11: Città Resilienti L’andamento dell’urbanizzazione nel mondo Abbiamo parlato dei grandi ecosistemi sulla terra; ora è il momento di concentrarci sulle città dove nel 2008 per la prima volta nella storia dell’umanità vive più del 50% della popolazione mondiale. Fin da 10.000 anni fa, le città hanno prodotto manufatti urbani e servizi che scambiavano con i prodotti provenienti dalle campagne. Fino alla Rivoluzione Industriale, l’agricoltura non era sufficientemente produttiva da supportare un’economia urbana di grandi dimensioni: anche prendendo in considerazione le più importanti città della storia come Roma, El Cairo, Parigi, Londra o Pechino, prima della rivoluzione industriale viveva il 10% della popolazione circa, poiché la maggior parte della popolazione viveva in comunità rurali. Solo grazie alle rivoluzioni scientifica, agricola ed industriale del XVIII secolo c’è stato un avanzamento delle tecniche agricole, che ha consentito un maggiore accesso ai nutrienti del terreno e ad un miglioramento delle condizioni di trasporto. Ciò ha fatto sì che gli agricoltori incrementassero la produttività dando sostentamento a un numero crescente di persone che vivevano in città e non producevano cibo. Con l’industrializzazione ha preso avvio l’urbanizzazione di massa. La produttività per agricoltore aumentò enormemente, grazie a maggiori conoscenze scientifiche; varietà a più alto rendimento; gestione scientifica dei nutrienti del terreno e macchinari che consentono al singolo di gestire aree più estese. Inoltre, l’agricoltura possiede altri due tratti distintivi che la differenziano dall’industria e dai servizi: il primo è che la domanda non cresce in proporzione al reddito, e quindi all’aumentare del pil pro capite non corrisponde un aumento del consumo pro capite di cibo; il secondo è che dipende dalla terra, di cui gli agricoltori hanno bisogno. Gli agricoltori hanno bisogno di vivere in aree poco popolate con tanto terreno a disposizione, mentre chi opera nelle industrie e nei servizi deve abitare in zone densamente popolate, vicino a fornitori e acquirenti. Si passa da vaste campagne scarsamente popolate ad aree urbane ad alta densità abitativa. A questo si aggiunge la ricerca e sviluppo, attività specifica essenzialmente concentrata nelle città e basata su innovazione scientifica e scoperte: le città sono la culla dello sviluppo tecnologico, anche quando il destinatario di questo è l’agricoltura. Ne consegue una simbiosi dinamica tra campagna e città: un’agricoltura più produttiva consente alle città di crescere, e queste offrono progressi tecnologici alle campagne in modo che la produttività continui a salire. Interazione costruttiva: i progressi dell’agricoltura hanno dato impulso alle città che a loro volta danno impulso di ulteriore crescita alle attività rurali, come dimostrato nella figura a pagina 366. La figura mostra infatti che a redditi pro capite più elevati corrispondono percentuali di urbanizzazione più alte. È poi nelle città che si concentra la politica: le capitali sono spesso teatro di profondi scontri e tragedie politiche. Si è protestato contro le conseguenze della globalizzazione, tra cui disuguaglianze e disoccupazione derivanti dalla costante evoluzione della tecnologie. Grazie alle nuove tecnologie però anche i governi hanno uno strumento di controllo in più, potendo vedere se si organizzano proteste ed eventualmente stroncarle. Quali sono i fattori distintivi delle città? - Concentrazione della popolazione elevata: si definisce urbano un “insediamento densamente popolato” che supera una soglia minima di 2.000 o 5.000 persone. - Attività economica svolta all’interno delle città: poche attività agricole, prevalenza di industrie e servizi soprattutto nei paesi ad alto reddito; - Le città sono relativamente produttive nel panorama dell’economia nazionale, con una produzione media pro capite al doppio o al triplo di quella delle campagne e quindi maggiore produttività; - Nelle città fervono attività innovative come università, centri di ricerca o aziende; - Le città sono centri di commercio dove gran parte delle attività riguardano lo scambio di beni; Nei Paesi Bassi, ad esempio, è stata costruita una diga di sbarramento che protegge la terra ma consente il naturale flusso di oceano e maree per il resto del tempo, dato che si resero conto che bloccare l’oceano con barriere tradizionali avrebbe danneggiato gli estuari. I cambiamenti climatici ed ambientali mettono a rischio tutte le grandi città, e ognuna di queste deve valutarli in maniera seria e dettagliata, dal momento che non c’è una soluzione unica per tutti. Pianificare uno sviluppo sostenibile Le città sostenibili sono verdi, poiché hanno basso impatto ecologico e basse emissioni di gas serra, e resilienti poiché pianificano per riuscire ad affrontare eventuali shock futuri. Le città decisamente verdi negli USA sono Portland e Seattle, che per prime hanno adottato piani sostenibili. I dieci obiettivi del PlaNYC per rendere New York sostenibile sono: 1. Prepararsi all’arrivo di un altro milione di abitanti entro il 2030 pianificando alloggi e prezzi migliori; 2. Creare più parchi e spazi pubblici, vitali per la qualità della vita e della salute pubblica; 3. Bonificare le aree inquinate; 4. Migliorare il sistema fluviale; 5. Garantire qualità ed adeguatezza della rete idrica cittadina; 6. Creare un sistema di trasporti pubblici capace, efficiente, economico ed ecologico; 7. Ridurre il consumo energetico; 8. Migliorare la qualità dell’aria; 9. Passare ad una gestione dei rifiuti più focalizzata su riciclo e produzione di energia; 10. Ridurre le emissioni di gas serra. I quattro piani di intervento principali del piano sono: 1. Riduzione delle emissioni di CO2 di aria condizionata e riscaldamento (con pompe di calore, migliore isolamento, riscaldamenti naturali…); 2. Energia più pulita e rinnovabile (pannelli solari sui tetti); 3. Trasporti sostenibili, con passaggio verso veicoli elettrici; 4. Migliore gestione dei rifiuti. In tutte le città bisogna accelerare la transizione verso lo sviluppo sostenibile. Capitolo 12: Cambiamento climatico I dati scientifici di fondo sul cambiamento climatico Il rischio del cambiamento climatico fu evidenziato per la prima volta su scala globale dalla Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente umano del 1972; quello stesso anno il libro “I Limiti dello Sviluppo” avvertì che l’ordinaria amministrazione, ovvero il BAU, business as usual, poteva condurre al collasso economico nel XXI secolo. All’epoca l’idea dei limiti del pianeta era agli albori e la comunità scientifica non aveva ancora una visione sufficientemente chiara di quali fossero i limiti davvero importanti: nel 1972 c’era la grande preoccupazione che l’umanità, esaurendo le riserve di alcuni minerali strategici, si trovasse nell’impossibilità di mantenere un certo livello di attività economica. Ciò che non si comprendeva appieno all’epoca, però, era che i limiti non avevano a che fare con qualche minerale ma con il funzionamento degli ecosistemi terrestri, la biodiversità e la capacità dell’atmosfera di assorbire i gas serra emessi dall’uomo. I limiti del pianeta hanno a che fare soprattutto con l’ecologia, più che con le materie prime, e la maggiore minaccia è il cambiamento climatico indotto dall’uomo che nasce dall’accumulo dei gas serra. Il cambiamento climatico è la questione più ardua mai affrontata dalle politiche pubbliche: innanzitutto, è una crisi globale, poiché riguarda ogni luogo del pianeta e non c’è modo di sfuggirvi, e tutti i paesi del mondo vi contribuiscono, anche se in maniera diversa poiché alcuni provocano più rischi di altri. Chiaramente, i paesi ad alto reddito vi contribuiscono maggiormente poiché emettono maggiori quantità di gas serra per abitante, mentre quelli poveri sono spesso le prime vittime del cambiamento climatico indotto dall’uomo, pur avendo contribuito poco. In secondo luogo, quando le crisi sono globali affinché il mondo si mobiliti ed intervenga occorre superare grandi sfide. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), approvata al Summit di Rio nel 1992, fu sottoscritta da 195 governi più l’Unione Europea. Firmarono 195 paesi che hanno punti di vista ben diversi: alcuni sono esportatori di combustibili fossili, altri importatori; alcuni usano energia rinnovabile e altri molto poco; alcuni sono ricchi e altri poveri; alcuni democrazie ed altri no. In terzo luogo, il problema è trasversale alle generazioni oltre che ai paesi, poiché le persone più influenzate dal cambiamento climatico indotto dall’uomo devono ancora nascere. L’umanità non è assolutamente pronta a risolvere o analizzare una simile crisi multigenerazionale. Quarto, il problema delle emissioni di gas serra è al centro dell’economia moderna, la cui crescita dipende dalla possibilità di sfruttare l’energia dei combustibili fossili. Quinto, il cambiamento climatico è una crisi molto veloce rispetto alle epoche geologiche ma molto lenta rispetto agli eventi quotidiani e al calendario politico: se questa crisi si condensasse ogni anno in un unico evento, sicuramente l’umanità si organizzerebbe per prevenirla o adattarvisi. Sesto, le soluzioni al problema del cambiamento climatico sono intrinsecamente complesse, poiché le modifiche necessarie coinvolgono ogni campo dell’economia: edilizia, trasporti, produzione di cibo, generazione di energia, progettazione urbanistica, processi industriali… Pochissimi governi sono stati in grado di definire piani o itinerari fattibili. Settimo, nel settore dell’energia operano le imprese più potenti del pianeta: grandi compagnie del petrolio e del gas naturale ecc. Abbiamo a che fare con i più pesanti tra i pesi massimi dell’economia e politica globale, che sperano, lavorano e premono perché il mondo continui a dipendere direttamente dal petrolio e dal gas, nonostante i rischi, e dispongono di molti strumenti per procurarsi il sostegno politico necessario a rallentare il passaggio all’energia a basse emissioni di carbonio. Tra questi, finanziamenti elettorali, azioni lobbistiche ed altri mezzi di persuasione come la propaganda volta a seminare nell’opinione pubblica dubbi su posizioni scientifiche note e condivise. I dati scientifici di fondo sul cambiamento climatico Il miglior punto di partenza nella ricerca di una vera soluzione al problema è proprio la scienza: le conoscenze sul fenomeno non sono nuove. Arrhenius, premio Nobel per la chimica, nel 1896 calcolò manualmente le conseguenze del raddoppio della concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera, ovvero un aumento della temperatura media del pianeta di circa 5 gradi centigradi. Tuttavia, aveva immaginato che ci sarebbero voluti 750 anni perché l’uso di combustibili fossili raddoppiasse la CO2 nell’atmosfera. Ma ciò è avvenuto in soli 150 anni. I raggi solari arrivano alla terra sotto forma di radiazioni ultraviolette, e solo una parte di queste si riflette sulle nuvole e torna nello spazio, mentre la maggior parte attraversa l’atmosfera e raggiunge la superficie del pianeta. Fa ritorno nello spazio solo in piccola parte. Questi raggi che non tornano nello spazio riscaldano la terra. Di quanto? Fino alla temperatura alla quale irradia energia nello spazio allo stesso ritmo con cui il sole gliela trasmette. Facciamo chiarezza. Qualsiasi corpo caldo, inclusa la Terra, irradia energia elettromagnetica: più è caldo, più le radiazioni aumentano. Quando il Sole irradia energia sulla Terra, questa si riscalda fino a raggiungere la temperatura alla quale irradia a sua volta nello spazio un’energia pari a quella in arrivo dal Sole. In tal modo il pianeta si trova in equilibrio energetico. Questo concetto di si chiama black body radiation, ovvero radiazione di corpo nero. Mentre il Sole invia raggi ultravioletti verso la superficie della Terra, questa irradia nello spazio raggi infrarossi a onda lunga: perché ci sia equilibrio energetico i raggi ultravioletti in arrivo devono essere pari agli infrarossi in partenza. MA la CO2 nell’atmosfera intrappola parte delle radiazioni infrarosse verso lo spazio e gli ultravioletti in arrivo sulla Terra sono superiori agli infrarossi diretti verso lo spazio. Questo avviene a causa non solo della CO2, ma dei GHG, ovvero gas che intrappolano le radiazioni infrarosse, tra cui metano, ossido di azoto e idrofluorocarburi, tutti generati dall’uomo. C’è anche il vapore acqueo che compie lo stesso fenomeno ma non è del tutto dipendente dall’uomo, bensì solo in parte poiché il riscaldamento del pianeta tende ad aumentare il vapore acqueo presente nell’atmosfera, provocando un effetto serra supplementare. La Terra perciò si riscalda alla stessa temperatura alla quale irradia nello spazio ulteriori raggi infrarossi in misura tale che la parte di infrarossi che non rimane intrappolata equivalga ai raggi in arrivo dal Sole. Per quanto concerne l’effetto serra, questo non è del tutto dannoso poiché senza i GHG la temperatura media sulla Terra sarebbe di -14 gradi centigradi. Ma con più GHG la temperatura aumenta di più. Ci sono molte cose da notare sui vari GHG: 1. La CO2 rimane a lungo nell’atmosfera, anche secoli; 2. Il mondo emette circa 55 miliardi di tonnellate di CO2; 3. Nell’atmosfera ci sono 400 ppm di CO2, mentre prima della Rivoluzione Industriale ce n’erano 280; 4. La curva di Keeling ci dice che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è più elevata nei mesi invernali e primaverili e più bassa in estate e autunno; 5. Innalzando il livello di CO2 nell’atmosfera, la temperatura terrestre aumenta. Infatti, in passato, eruzioni vulcaniche o scambi di CO2 tra oceani ed atmosfera innalzavano i livelli di CO2 e anche la temperatura terrestre. Perciò, sebbene al Summit della Terra di Rio del 1992 i governi del mondo si fossero impegnati a ridurre le emissioni annuali CO2, in realtà queste hanno continuato ad aumentare, quindi la concentrazione di CO2 nell’atmosfera continua a salire e la curva di Keeling continuerà a salire verso l’alto. Le conseguenze del cambiamento climatico indotto dall’uomo Dovremmo essere più spaventati che preoccupati dai cambiamenti climatici indotti dall’uomo, al punto tale da agire per attenuarli riducendo le emissioni di GHG ed adattarci al cambiamento accrescendo la preparazione e la resilienza delle nostre economie e società. Stern Review of Climate Change → Rapporto pubblicato da Nicholas Stern che ha sintetizzato graficamente i rischi potenziali dell’aumento della temperatura. La parte alta del diagramma mostra diversi aumenti della temperatura per effetto delle possibili concentrazioni di CO2, a sinistra ci sono invece i principali ambiti influenzati da questo aumento: cibo, acqua, ecosistemi… (figura a pagina 410). Si vede come in ciascun ambito il pericolo aumenta significativamente all’aumentare della temperatura media globale: ci sarebbe un calo dei raccolti agricoli in ambito cibo tale da provocare carestie di massa; i ghiacciai sparirebbero e non ci sarebbe più umidità nel terreno, oltre al fatto che non ci sarebbero precipitazioni. I mari si innalzerebbero di parecchi metri con un eventuale scioglimento totale dei ghiacciai. Le varie megalopoli vicino al mare sarebbero risucchiate, e già oggi sulla costa nord-orientale degli Stati Uniti è salito di 30 cm e ha provocato aumento di tempeste ed erosione costiera nel resto del mondo. Alcune aree del mondo sono eccezionalmente esposte ad aumenti della temperatura e dispersione dell’umidità nel suolo. Tra questi abbiamo gli stati uniti sudoccidentali (Texas, Arizona, California…), ma anche i paesi del bacino mediterraneo tra cui Italia, Spagna e Grecia, oltre a quelli dell’Africa Settentrionale e del Mediterraneo Orientale. A causa dell’inaridimento, questi potrebbero subire effetti devastanti. Nel bacino mediterraneo le precipitazioni sono già cambiate nel corso dell’ultimo secolo, poiché quest’area ha già dimostrato una notevole tendenza alla siccità. Ma qual è il modo migliore per riportare sotto controllo il cambiamento climatico indotto dall’uomo? E in che modo possiamo attenuarlo? Attenuazione delle emissioni di GHG per limitare a 2°C il riscaldamento globale Due termini chiave sintetizzano due diversi approcci, entrambi importanti: attenuazione e adattamento. Il primo termine fa riferimento a alla riduzione di GHG per limitare l’aumento della temperatura globale a non più di 2°C. Il secondo termine implica misure per salvaguardare le grandi città dalle tempeste, proteggere i raccolti dalle alte temperature e dalle ondate di siccità e ridefinire le tecnologie agricole affinché si accresca nelle colture e nei sistemi produttivi la resistenza alla mancanza d’acqua. Bisogna prevenire i futuri cambiamenti climatici con la decarbonizzazione e convivere con una certa dose di cambiamento climatico; l’adattamento richiederà cambiamenti in molti settori poiché nell’agricoltura bisognerà adottare colture più resilienti a temperature elevate o aumento di inondazioni e siccità; le città andranno protette dall’innalzamento degli oceani; proteggersi dalle malattie che si estenderanno geograficamente a causa dell’aumento delle temperature; e proteggere la biodiversità. Strumenti delle politiche di decarbonizzazione profonda Per incentivare produttori e consumatori a ridurre le emissioni di CO2 occorrono correttivi di prezzo: il biossido di carbonio impone alle società costi elevati ma questi non gravano su chi emette CO2, e dunque il mercato non ha incentivi ad abbandonare i combustibili fossili a favore di quelli alternativi. L’ideale sarebbe se le scelte di produttori e consumatori tra le varie tecnologie energetiche alternative fossero tali da minimizzare i reali costi sociali dei consumi di energia, compresi quelli del cambiamento climatico e delle conseguenze negative per la salute derivate da fonti energetiche inquinanti. Su entrambi i fronti,clima e salute, gli utilizzatori di combustibili fossili dovrebbero pagare un prezzo più alto rispetto a chi consuma energia pulita, se vogliamo passare ad un’economia a basse transizioni di carbonio. Tra i modi per superare in parte o del tutto l’attuale inadeguatezza dei prezzi per l’uso di combustibili fossili, quello più semplice è far pagare a tutti gli utilizzatori di combustibili fossili la cosiddetta carbon tax, di 25- 100 dollari per tonnellata di Co2, equivalente al costo sociale stimato di una tonnellata di Co2. In tal modo il costo di petrolio, carbone e gas aumenterebbe rispetto alle fonti di energia a bassa emissione di carbonio. Nel tempo l’importo probabilmente dovrebbe aumentare per rispecchiare il peggioramento della situazione climatica e dunque il maggiore costo sociale. Un altro sistema è la presenza di un permesso per avere autorizzazione ad emettere CO2: chi emette co2 compra sul mercato o dal governo il permesso per farlo. Se un soggetto intende emettere più Co2 può acquistare sul mercato ulteriori permessi. Le tasse sulle emissioni di CO2 probabilmente aiuteranno a rendere più prevedibile il prezzo futuro della CO2, mentre i permessi di emissione potrebbero contribuire a prevedere in modo più attendibile le quantità in esse: le emissioni totali sono più prevedibili se trovano un limite nella disponibilità di permessi; ma i sistemi di permesso raramente sono credibili perché se scarseggiano il loro prezzo salirà i governi finiranno per concederne di più. Le tasse sono molto più facili da gestire, mentre i sistemi di permessi sono più facili da configurare in modo da tener conto di particolari interessi. Probabilmente in futuro ci saranno entrambi gli approcci anche se sistemi di tipo fiscale rimangono più affidabili. Un terzo modo di correggere i prezzi di mercato è quello delle tariffe di feed-in. in questi casi il governo dice ad un’azienda elettrica un produttore di energia di essere disposto a comprare elettricità purché provenga da una fonte a basse emissioni di carbonio, come l’energia solare. Anziché tassare la CO2, il governo favorisce le fonti alternative. Il principale problema di queste tariffe però è che i bilanci pubblici potrebbero non avere risorse sufficienti a sovvenzionare l’energia pulita, cosa che con la carbon tax non si verifica. Il processo tecnologico come arma a doppio taglio È rassicurante pensare che i progressi tecnologici consentiranno all’umanità di trovare un mondo sicuro, efficiente e poco costoso per compere la transazione dai combustibili fossili ad un’economia di basse emissioni di carbonio. I progressi della tecnologia potrebbero salvarci. Però paradossalmente in un mondo di esternalità quali sono le emissioni di CO2, la tecnologia a volte peggiora la situazione esasperando la spinta allo sfruttamento di fonti energetiche ad alte emissioni di carbonio. Ad esempio, la Shell ha creato un impianto galleggiante per la produzione di gas naturale liquefatto che ha lo scopo di raffreddare il gas naturale dei giacimenti offshore producendo gas naturale liquefatto destinato al trasporto via mare, invece di trasferire il gas estratto presso strutture che lo trasformano in GNL. Un secondo esempio di progresso tecnologico prevede lo sfruttamento delle vaste riserve canadesi di sabbie bituminose, ovvero contenenti bitume, una forma di petrolio molto vischiosa. Queste sabbie sono enormi giacimenti che se sfruttati aumenterebbero fortemente la qualità di petrolio disponibile sui mercati mondiali. Fino a poco fa, la produzione era troppo costosa, ma ora il combinato effetto dei progressi nelle tecnologie di estrazione e lavorazione e dell’aumento dei prezzi petroliferi mondiali rende remunerativo lo sfruttamento di questi giacimenti. La Keystone XL Pipeline è un progetto per costruire un nuovo oleodotto che trasporterebbe il petrolio dal Canada alle raffinerie del Golfo del Messico e poi verso i mercati globali. Questo progresso tecnologico porterebbe un grave inquinamento locale e un grande incremento della disponibilità di combustibili fossili che tenderebbe ad accelerare ulteriormente il cammino del mondo verso e oltre la soglia dei 2 gradi. Un terzo esempio è la trivellazione orizzontale e la fratturazione idraulica ai fini di estrazione del gas naturale imprigionato nelle rocce argillose. Il processo prevede la perforazione, prima verso il basso e poi orizzontalmente, delle rocce contenenti metano. Questa avviene facendo penetrare nella roccia una miscela di fluidi e materiali di perforazione che fa risalire il gas in superficie dove viene raccolto. È detto gas da argille e ha trasformato lo scenario energetico ed il paesaggio rurale degli Stati Uniti con risultati controversi: da un lato c’è un boom del petrolio e del gas e dall’altro questo genera un massiccio inquinamento locale di carbonio fossile. Questi progressi stanno rendendo più difficile rispettare i limiti delle emissioni di carbonio. La politica di attenuazione del biossido di carbonio Per arrivare ad un mondo di basse emissioni di carbonio sono molti gli ostacoli di tipo tecnologico, economico, ingegneristico e organizzativo da superare. C’è bisogno di pianificazione, azione delle forze di mercato, cooperazione globale, decarbonizzazione profonda… Ma il maggior ostacolo è di tipo politico, con le posizioni negoziali dei grandi produttori. Infatti, la politica globale sul cambiamento climatico è in gran parte ferma al 1992, quando i governi del mondo approvarono l’UNFCCC. La Convenzione è un documento meditato ed equilibrato che indica la via per arrivare ad un’attenuazione su scala globale. Come si legge nell’articolo 2, l’obiettivo principale è di stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra ad un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico. Da quando la UNFCCC è entrata in vigore ne 1994, due anni dopo la ratifica di un numero sufficiente di paesi, il mondo non è riuscito ad attuare correttamente le disposizioni. Le parti firmatarie hanno continuato ad incontrarsi tutti gli anni, e nel 2014 a Lima si è svolta la ventesima edizione della Conferenza delle Parti (COP20). Ma non si è ancora riusciti a rallentare l’aumento annuale delle emissioni di GHG. Il primo importante tentativo di dare attuazione al trattato è stato fatto nel 1997 con la firma del Protocollo di Kyoto: un accordo dei paesi ad alto reddito per ridurre entro il 2012 mediamente il 20% le proprie emissioni rispetto al 1990. I paesi in via di sviluppo, comprese economie emergenti come la Cina, non avevano specifici target di emissione da rispettare: il trattato non ha funzionato. Da una parte, gli USA non l’hanno mai sottoscritto e dall’altra Australia e Canada, pur avendolo sottoscritto, non l’hanno mai recepito. Inoltre, le emissioni della Cina ed altri paesi emergenti sono salite alle stelle, mantenendo i livelli totali di emissione su una traiettoria di forte crescita. Dal 1992 il Senato USA è stato ostaggio non solo delle lobby di carbone, petrolio e gas, ma anche dell’idea che gli Stati Uniti non devono fare nulla se la Cina non ha fatto altrettanto. Secondo questa logica è ingiusto chiedere agli USA di agire prima perché ciò darebbe alla Cina una posizione di vantaggio competitivo nei commerci mondiali. L’UNFCCC attribuisce la responsabilità dell’attenuazione in prima battuta ai paesi ad alto reddito in quanto questi possono sostenere i maggiori costi dell’energia a basse emissioni di carbonio e sono i maggiori responsabili dell’aumento di Co2, mentre i paesi poveri hanno bisogno di tempo e aiuto per colmare il divario rispetto a quelli ricchi. Dal 1992 ad oggi però sono cambiate molte cose: la Cina è diventata la seconda economia del mondo ed è al primo posto per emissioni di GHG per minor efficienza energetica, maggior uso di carbone e maggiore industrializzazione dell’economia cinese, che comprende molti settori ad alta intensità di energia come la siderurgia. Però la Cina è anche più ricca e potrebbe fare qualcosa. Infatti il paese è molto vulnerabile al cambiamento del clima ed è molto esposto a tempeste ed altri eventi estremi. Il forte inquinamento dello smog nelle principali città cinesi è sempre più frequente: il fenomeno deriva da una miscela di inquinamento industriale, massiccio ricorso al carbone e congestione del traffico automobilistico. Secondo stime recenti in alcune regioni del nord l’inquinamento dell’aria riduce l’aspettativa di vita di ben cinque anni e mezzo. Il passaggio all’energia a basse o nulle emissioni di carbonio favorirebbe la salute dei cittadini e attenuerebbe il cambiamento climatico. Nel 2011, al COP17 di Durban in Sud Africa le parti firmatarie dell’UNFCCC hanno concordato di raggiungere entro il 2015 un accordo risolutivo per il controllo del clima che prevede per tutti i paesi impegni vincolanti per l’attenuazione delle emissioni di GHG. A differenza della Convenzione Quadro, che imponeva ai paesi ricchi di agire per primi, il nuovo accordo dichiara che in linea di principio l’intervento riguarda tutti. Si tratta di un importante progresso e un passo avanti, anche se è stata una decisione presa 19 anni dopo la firma dell’UNFCCC. Capitolo 13: Salvare la biodiversità e proteggere i servizi ecosistemici Che cos’è la biodiversità? Abbiamo ampiamente analizzato cosa accade quando un’economia mondiale in crescita preme sui limiti del pianeta. L’economia mondiale raddoppia più o meno ogni 20 anni. Il superamento dei limiti del pianeta avviene in molti modi, ma il più drammatico è la perdita della biodiversità: l’umanità sta esercitando sulla Terra una pressione tale da provocare un drastico aumento del tasso di estinzione delle specie che oggi è mille volte più rapido di prima della Rivoluzione Industriale. Si potrebbe provocare la sesta grande estinzione nella storia del pianeta. I rischi per la sopravvivenza delle specie provengono da molte direzioni: non c’è linearità tra causa ed effetto e quindi non si va da un’unica causa ad un unico effetto, in realtà gli stressor sono molti, come pure i driver del cambiamento ambientale e le cause dell’estinzione di specie e della diminuzione dell’abbondanza e varietà genetica. Comprendere la complessità di questo sistema è essenziale poiché nessun approccio in sé può bastare a sconfiggere questa sesta grande estinzione. Per capire cos’è la biodiversità dobbiamo capire cosa sia un ecosistema: un insieme di piante, animali e vita microscopica che interagisce con la parte abiotica (non vivente) di un determinato ambiente. La chiave di volta è che questo insieme di organismi viventi e di ambiente non vivente è un sistema in cui tutti interagiscono contemporaneamente. Per comprendere gli ecosistemi analizzano i flussi e le dinamiche del sistema: circolazione dei nutrienti e processi di metabolismo; ossidazione; respirazione; fotosintesi… ed i modi in cui questa varietà di specie influenzano il comportamento di tutto l’ecosistema. Un altro aspetto fondamentale è la varietà biologica o biodiversità. La biodiversità è la variabilità della vita che si manifesta a tutti i livelli di organizzazione: sia la variabilità intraspecifica (ciascuno di voi è diverso dagli altri) sia la varietà tra le specie nell’ambito di un ecosistema e le relazioni tra specie, come tra predatore e preda. Le interazioni tra le specie determinano alcune caratteristiche di fondo di un ecosistema, come la sua produttività biologica (per esempio in termini di fotosintesi) e la sua resilienza agli shock, come cambiamenti climatici o introduzione nel sistema di nuove specie o sovrasfruttamento di una parte del sistema ad opera dell’uomo. Infine la biodiversità comprende la diversità delle specie tra un ecosistema e l’altro: le interazioni tra ecosistemi, anche a grande distanza, influenzano il funzionamento di ciascun ecosistema e la regolazione della Terra nel suo complesso. Se un bioma critico subisce un forte cambiamento come quello climatico, ciò può avere profondi effetti sugli altri ecosistemi per via di varie interazioni a grande distanza tra i processi della Terra riguardanti precipitazioni, venti, circolazione oceanica e così via. Perciò, per comprendere la biodiversità dobbiamo comprendere la variabilità della vita a tutti i livelli della sua organizzazione, e come tale variabilità influenzi in modo rilevante la performance degli ecosistemi. Uno degli studi più importanti fatto in quest’ambito è consistito in un vasto progetto globale che nel 2005 ha prodotto il rapporto Millennium Ecosystem Assesment o MEA che ha analizzato i principali ecosistemi del mondo in una prospettiva globale, cercando di inquadrarne concettualmente il funzionamento, l’interazione o lo svolgimento di varie funzioni, o servizi ecosistemici, che arrecano benefici all’umanità. Uno dei principali schemi concettuali prodotti dal MEA è quello delle influenze tra ecosistemi e benessere umano; alla base c’è l’idea di definire le influenze che gli ecosistemi hanno sul benessere umano: la parte sinistra (immagine pagina 450) descrive quattro categorie di servizi ecosistemici. La prima è formata da servizi di approvvigionamento, che comprendono i modi in cui gli ecosistemi provvedono direttamente alle necessità umane come cibo o acqua potabile; la seconda categoria è costituita dai servizi di regolazione, che comprendono le varie funzioni svolte dagli ecosistemi nel controllare i modelli climatici fondamentali , la trasmissione delle malattie e i cicli dei nutrienti che rivestono un’importanza essenziale per l’umanità, come i cicli dell’acqua e dell’ossigeno. Gli ecosistemi influiscono enormemente sulla regolazione del clima; se quelli delle regioni artiche e antartiche venissero drasticamente modificati dai cambiamenti climatici indotti Inoltre, non basta regolare la pesca di una specie per volta, ma è necessario regolare l’ecosistema nel suo insieme, considerato in termini olistici. L’umanità sta attaccando gli ecosistemi marini su più fronti contemporaneamente, ovvero la pesca ma anche riscaldamento dei mari e acidità marina, oltre alla distruzione del corallo per motivi turistici e inquinamento marino. Deforestazione Le foreste sono ancora oggi una delle principali componenti degli ecosistemi terrestri del pianeta e ricoprono il 31% della terraferma, sebbene prima dell’arrivo dell’umanità la loro presenza fosse molto più estesa. Sono millenni che l’uomo disbosca e ancora oggi continuiamo a perdere grandi aree boschive a causa delle crescenti pressioni dell’uomo sui sistemi forestali, digradando gli ecosistemi e cancellando un’enorme biodiversità, poiché le tre aree di foresta pluviale equatoriale (bacino del Congo, bacino amazzonico e arcipelago indonesiano) sono sede di una parte notevole della biodiversità del pianeta. Le aree come Europa Occidentale o Cina furono deforestate secoli o millenni fa, mentre le aree della Canada settentrionale, Russia o costa orientale degli USA, oltre alla fascia equatoriale, sono ancora molto ricche. Oggi il grosso della deforestazione avviene nelle regioni tropicali e subtropicali ad alta crescita, soprattutto nelle foreste pluviali, dove la densità demografica sta aumentando. Queste zone vengono violate sempre più spesso dall’uomo per le proprie esigenze come legnami tropicali, agricoltura e pascolo. Zone di deforestazione → Amazzonia, bacino del Congo ed Arcipelago Indonesiano; Zone di riforestazione → Cina Settentrionale, Stati Uniti e Scandinavia. Lovelock ricorda come quando degradiamo un ecosistema impediamo o indeboliamo il funzionamento di ecosistemi in altre parti del pianeta. Sulle foreste pluviali ricorda che queste contribuiscono a ridurre la temperatura del pianeta grazie alla vasta coltre di nuvole che riflette nello spazio una parte dei raggi ultravioletti altrimenti destinati a raggiungere la Terra. C’è una domanda mondiale di prodotti provenienti dalle foreste abbastanza rapida, proveniente perlopiù dai paesi ricchi o in rapida crescita e dunque difficile da controllare. Un esempio è l’olio di palma o la soia. È una domanda insaziabile che provocherà deforestazione e impedirà la sopravvivenza di specie minacciate come l’orango in Indonesia e Malesia. Non sono mancati tentativi di rimediare al problema, come collegare la conservazione delle foreste pluviali all’agenda del cambiamento climatico riducendo la carbon footprint legata alla deforestazione. UN-REDD+ (Reduced Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è un progetto che cerca di intervenire sia contro il degrado delle foreste che contro la loro scomparsa, offrendo incentivi finanziari ai coltivatori e alle comunità locali che tutelano questi ambienti. I programmi REDD+ sostituiscono alla componente di reddito che le comunità perdono a breve termine, rinunciando al sovrasfruttamento dei prodotti forestali, un flusso di reddito sostenibile di altro tipo, anche grazie ad aiuti provenienti da paesi donatori. Ad esempio, la Norvegia ha offerto al Brasile un miliardo di dollari nel quadro di un’iniziativa REDD+. Lo sforzo è importante ma ancora relativamente modesto. Dinamica Internazionale I paesi di tutto il mondo hanno compiuto qualche passo per scongiurare la sesta grande estinzione; alcuni di questi paesi hanno partecipato alle attività per il controllo del clima previste da REDD+; altri hanno sottoscritto trattati per limitare alcuni tipi di inquinanti trasfrontalieri; altri hanno tentato di affrontare frontalmente il problema della diversità biologica. Tra questi, abbiamo la Convenzione sulla diversità biologica (CBD) del 1992, che ha lo scopo fondamentale di arrestare e ribaltare la tendenza alla perdita di biodiversità; e la Convenzione sul commercio internazionale di specie minacciate di estinzione (CITES) del 1973, che punta a limitare il commercio di specie minacciate. Entrambe le iniziative hanno avuto successi e fallimenti: le spinte dell’economia globale sono talmente forti che persino quando si approva un trattato o si varano norme internazionali gli interessi in gioco si oppongono con forza alle misure decise, e i meccanismi di controllo sono spesso in balia di attività illegali o scandali e corruzione. La CBD è un coraggioso tentativo per cercare di tenere sotto controllo le minacce dell’attività umana alla diversità biologica. Con l’UNFCCC e la Convenzione contro la desertificazione (UNCCD), la CBD è uno dei tre grandi accordi multilaterali sull’ambiente disposti al Summit della Terra di Rio nel 1992. Tuttavia, anche se ha prodotto grandi risultati, la CBD non è riuscita ad avvicinarsi all’obiettivo strategico di evitare la perdita massiccia di biodiversità, come aveva però formulato nella Convenzione. Infatti la CBD pone un forte accento non solo sulla conservazione della diversità biologica ma anche sulla giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo di risorse genetiche. All’epoca si credeva molto nel cosiddetto bioprospecting, processo di esplorazione della biodiversità che avrebbe richiamato nelle grandi aree forestali del mondo gli scienziati alla ricerca di nuovi farmaci di grande valore medico e finanziario. Certamente in natura esistono molti composti chimici da scoprire che avrebbero grande utilità, ma ci si concentrò troppo sulla ricchezza promessa dal bioprospecting, anziché sulle limitazioni delle attività umane necessarie a impedire il collasso degli ecosistemi e della biodiversità. Negli USA i politici liberisti rifiutarono l’idea che il mondo dovesse concordare un’equa e giusta ripartizione dei prodotti biologici, dietro al quale rifiuto forse c’erano gli interessi industriali. I mercati però devono servire agli scopi umani, non essere fini a se stessi o strumenti di avidità che si scaricano sugli altri enormi costi sociali. Quando i mercati non tengono conto della biodiversità o dell’estinzione diventano nemici del benessere umano; motivo per cui questa nozione di “libero mercato” è assolutamente fuorviante. Anche se gli USA mantengono uno status di osservatori della CBD, la loro assenza tra i firmatari ha indebolito l’attuazione del trattato. I tre accordi multilaterali sull’ambiente approvati al Summit della Terra sono stati riesaminati vent’anni dopo, in occasione di Rio+20, in una scheda che vediamo a pagina 478. Il “voto” dato all’attuazione sulla perdita della biodiversità è stato un secco F, failure. La Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES) del 1973 propone di ridurre le pressioni sulle specie e i rischi di estinzione regolando il commercio delle specie a rischio. Si individuano le seguenti categorie: specie minacciate; specie non ancora minacciate ma che possono esserlo se non se ne limita il commercio; specie il cui commercio minaccia indirettamente le specie minacciate. Se anche la CITES ha prodotto risultati importanti, come al solito le forze dell’economia mondiale sono in grado di vanificare ciò che è stabilito sulla carta e spesso producono effetti devastanti. Si è visto con il commercio illegale di corni di rinoceronte e il vasto sterminio di questi animali dovuto alla crescente domanda di corni. Tutta la domanda proviene attualmente dalla Cina; la merce è di grande valore ma il rinoceronte nero è una specie gravemente minacciata. Ciò avviene anche con le zanne di elefante: la vera forza propulsiva della massiccia perdita di biodiversità è l’economia mondiale e i suoi 90 trilioni di dollari. Per concludere, decenni di sforzi globali non sono bastati ad affrontare la sesta grande ondata di estinzioni. Capitolo 14: Obiettivi di Sviluppo Sostenibile Gli obiettivi Il mondo è ancora lontano dal raggiungere uno sviluppo sostenibile. La questione è all’ordine del giorno da oltre quarant’anni, precisamente dal 1972 quando a Stoccolma si tenne la prima conferenza delle Nazioni Unite e contemporaneamente venne pubblicato I limiti dello sviluppo, che sottolineava come le difficoltà derivanti dal coniugare crescita economica e sostenibilità ambientale avrebbero posto grandi problemi nel XXI secolo. Vent’anni dopo il mondo si incontrò a Rio de Janeiro alla Conferenza ONU su ambiente e sviluppo, detta anche Conferenza di Rio, dove vennero adottati due importanti accordi multilaterali, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e la Convenzione sulla Diversità Biologica, e furono poste le basi per la Convenzione contro la desertificazione. E a vent’anni di distanza dal Summit di Rio, il mondo si incontrò per una terza volta, sempre nella città brasiliana, per la Conferenza sullo sviluppo sostenibile, nota anche come Rio+20. Al summit del 2012, i leader internazionali presero in esame quarant’anni di politiche ambientali e vent’anni di convenzioni internazionali. E ciò che scoprirono fu allarmante: la diagnosi che avevano fatto nel lontano 1972 era essenzialmente corretta, poiché la sfida di riuscire a coniugare crescita economica, inclusione sociale e, soprattutto, sostenibilità ambientale non era ancora stata vinta, ma, anzi, si era fatta ancora più ardua. I leader dovettero ingoiare anche una seconda di cile verità: i principali trattati ambientali, considerati ffi pietre miliari al Summit della Terra del 1992, non erano riusciti nel loro intento, almeno fino a quel momento. Avendo ben chiara la situazione, i leader del mondo nel giugno 2012 ribadirono di voler condurre quella battaglia e capirono che c’era bisogno di un nuovo e drastico approccio. La prima cosa che dichiararono nel documento finale Il futuro che vogliamo è che non dobbiamo darci per vinti, e sottolinearono un altro aspetto importante: tra tutte le sfide relative allo sviluppo sostenibile la più urgente era la lotta alla povertà estrema, impegno assunto nel 2000 con l’adozione degli obiettivi di sviluppo del millennio, urgente perché per almeno un miliardo di persone è questione di vita o di morte. Per chi vive in condizioni di povertà estrema, la sopravvivenza è una lotta quotidiana e ogni anno ancora oggi muoiono nel mondo 6,5 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni, soprattutto a causa di malattie che potrebbero essere curate o evitate. La povertà estrema è una crisi, e sradicarla è una grande sfida globale da affrontare e un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile, come affermarono i leader di Rio+20. Di fatto, analizzando gli MDG e riscontrando quanto fossero stati utili nella lotta alla povertà estrema nei loro 12 anni di vita, i leader mondiali giunsero alla conclusione che il mondo avesse bisogno di adottare un approccio analogo sullo sviluppo sostenibile e concordano di passare dagli MDG agli SDG (sustainable development goals). Se i primi avevano spronato all’azione, i nuovi avrebbero dato vita a entusiasmo, conoscenza ed interventi fattivi. Da parte dei leader ci fu una presa di posizione per spostarsi su nuove priorità coinvolgendo la comunità internazionale (scienziati, leader della società civile e studenti), a differenza degli MDG che coinvolgevano quasi esclusivamente i paesi poveri e vedevano un coinvolgimento di quelli ricchi come donatori. Questi obiettivi possono infondere nuovo impulso, risorse, mobilitazione sociale e volontà politica a una sfida che il mondo ha ben presente da quarant’anni, che è oggetto di convenzioni internazionali da venti, ma che non si è ancora stati in grado di a rontare in modo adeguato. Dopo Rio+20, il segretario generale delle ff Nazioni Unite ha chiesto a Jeffrey Sachs di creare un network globale dedicato alla risoluzione dei problemi legati allo sviluppo sostenibile, il SDSN (Sustainable Development Solutions Network). Alla base di questo c’è l’idea che il mondo abbia bisogno di nuovi obiettivi, motivazione politica e volontà, e di un nuovo modo per risolvere le questioni in tema di salute, istruzione, agricoltura, città, diversità biologica… Il consiglio direttivo del SDSN è composto da scienziati, uomini d’affari, personalità della società civile e leader politici e ha definito gli obiettivi stessi dello sviluppo sostenibile, proponendone dieci all’ONU e al suo segretario generale. Questi stabiliranno le priorità post 2015 e dovranno essere approvati dall’Assemblea Generale dell’ONU. Ogni obiettivo ha tre target specifici e diversi indicatori numerici per seguire i progressi compiuti. Questi sono:  Porre fine alla povertà estrema e alla fame. Eliminare qualsiasi forma di povertà estrema, obiettivo già adottato nel 2013 dalla Banca Mondiale.  Raggiungere lo sviluppo economico compatibile con i limiti del pianeta. Sviluppo economico che rispetta i limiti del pianeta e assicura modelli di produzione e consumo sostenibili.  Assicurare un apprendimento e cace a tutti i bambini e ai giovani, per la vita e il sostentamentoffi . Ogni bambino deve poter sviluppare le capacità di cui ha bisogno per essere produttivo, avere una vita soddisfacente, essere un buon cittadino e trovare un buon lavoro, secondo il cosiddetto apprendimento efficace.  Raggiungere l’uguaglianza di genere, l’inclusione sociale e i diritti umani per tutti. La discriminazione costituisce una barriera enorme e persistente a una soddisfazione piena e a una vera partecipazione alla vita economica. Attirare l’attenzione del mondo sul concetto di povertà relativa, situazione non estrema ma che comunque impediscono ad una famiglia di prendere parte in maniera dignitosa alla vita sociale;  Garantire la salute e il benessere a tutte le età. Cioè garantire copertura sanitaria universale in qualsiasi stadio della vita al fine di assicurare che tutti ricevano servizi sanitari di qualità senza andare incontro a difficoltà finanziarie. Tutti i paesi dovranno promuovere politiche che aiutino i cittadini a fare scelte sane in termini di esercizio fisico ed alimentazione.  Migliorare i sistemi di coltivazione e aumentare la prosperità delle aree rurali; morte. E quindi quando si parla di beni meritori, beni a cui tutti devono poter accedere, ci sono ambiti in cui il governo DEVE fornire dei servizi, che le persone li possano pagare o meno. (sanità, istruzione). In questo caso il finanziamento pubblico ha un ruolo strategico Secondo, si hanno settori in cui è di cile recuperare gli investimenti fatti, in termini economici. Ad esempio,ffi la conoscenza scientifica è a disposizione di tutti e i ritorni sono costituiti dai passi avanti che la società può compiere grazie ad essa. Le scienze hanno bisogno dei fondi pubblici perché il profitto da solo non è una motivazione sufficiente: gli scienziati non brevettano forze della natura da loro scoperte. Terzo, i fondi pubblici sono importanti per la previdenza sociale per chi rimane senza lavoro a seguito di un andamento avverso del mercato globale o si trova ad a rontare circostanze di cili che non possono essere ff ffi coperte e cacemente da assicurazioni private. In queste occasioni il governo deve fungere da rete di ffi protezione. Queste sono solo tre delle tante ragioni per cui il finanziamento pubblico sarà indispensabile per il raggiungimento degli SDG: il supporto dei contribuenti dei paesi ricchi avrà un ruolo fondamentale nell’aiutare quelli più poveri, privi di un sistema fiscale adeguato. Anche quando il finanziamento riguarda esclusivamente il settore privato, è indispensabile disporre di un contesto normativo adeguato e di misure correttive ad hoc affinché i privati investano nella giusta direzione, quella dei benefici sociali complessivi. Il dibattito è ancora aperto su un aspetto del finanziamento pubblico, ovvero sull’assistenza u ciale allo ffi sviluppo (official developement assistance, ODA), che si ha quando i contribuenti di un paese finanziano con degli aiuti i servizi pubblici di un altro paese. Alcuni sono estremamente critici al riguardo mentre altri sostengono che sia uno strumento vitale e cruciale. In estrema sintesi, una corrente di pensiero ritiene che gli aiuti possano essere utili, se non addirittura vitali, in determinate circostanze, ma, per essere e caci, hanno bisogno di essere indirizzati correttamente e ben ffi gestiti. I critici avanzano motivazioni di varia natura: per alcuni gli aiuti non sono necessari e la soluzione sono sempre i mercati, per altri, gli aiuti sono inevitabilmente uno spreco. Un terzo gruppo sostiene che siano debilitanti, oltre che uno spreco, visto che portano a una mentalità di dipendenza e quindi influiscono negativamente sull’innovazione. Altri ancora non hanno voglia di occuparsi del resto del mondo. Gli aiuti possono funzionare ed essere vitali in alcune situazioni, soprattutto quando la povertà è estrema e le persone si trovano di fronte a eventi che mettono a repentaglio la loro vita. I mercati non possono soddisfare i bisogni dei più poveri e chi è disperatamente povero non produce profitto immediato. Gli aiuti internazionali possono essere veramente efficaci? Non è certo facile architettare sistemi e caci. Ad esempio, l’Alleanza mondiale per vaccini e ffi immunizzazione (GAVI) raccoglie fondi nei paesi più ricchi e ha messo a punto un sistema per valutare le proposte di utilizzo nei paesi riceventi, e controllano che gli aiuti siano realizzati in maniera efficace. Le fasi andrebbero monitorate da vicino in tutte le situazioni; è così che dovrebbero funzionare le cose. Nella GAVI c’è anche un meccanismo di follow up e feedback. C’è bisogno di un maggior numero di sistemi centralizzati come questo, di fondi globali per la sanità, l’istruzione, l’acqua potabile e l’igiene, per i piccoli proprietari terrieri, per l’accesso a fonti energetiche a basse emissioni di CO2 e per la messa a punto di meccanismi a tutela della biodiversità. Esiste già il Global Environment Facility, creato nell’ambito della Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), che rappresenta un importante passo avanti. Bisogna capire in quale direzioni ci sono maggiori probabilità di successo; quali le innovazioni in termini di finanziamenti e un maggior numero di partnership tra pubblico e privato in cui i finanziamenti di entrambi sottostiano a regole precise e puntuali. Ce n’è bisogno nel campo di energia pulita e nuove infrastrutture. L’efficacia ODA richiede un vero processo di pianificazione, monitoraggio, e aggiornamento e valutazione di strategie. Principi di buona governance Lo sviluppo sostenibile è caratterizzato da quattro dimensioni perché le tre tradizionali, sviluppo economico, inclusione sociale e sostenibilità economica, hanno bisogno di essere supportate da un quarto elemento: una buona governance. Quest’ultima avrà un ruolo fondamentale per successo o fallimento degli SDG e quindi è fondamentale fare chiarezza sul termine: governance vuol dire regole di comportamento, soprattutto nelle organizzazioni. Non si tratta solo di politica e governi, ma anche delle principali organizzazioni che sono attori chiave nello sviluppo sostenibile, tra cui le aziende private. La buona governance riguarda tanto il settore privato che quello pubblico. Visto che i governi e gli insiemi di regole per governare il mondo sono tanti e svariati, è impossibile imporre un unico set di norme per l’implementazione degli SDG. Invece di direttive universali, si possono stabilire principi di governance condivisi tra pubblico e privato. Innanzitutto la responsabilizzazione: governi e aziende devono essere responsabili delle loro azioni. Le aziende lo sono già in parte di fronte ai mercati, ma dovrebbero esserlo anche di fronte ai tribunali e rispetto all’opinione pubblica. Nei paesi democratici i governi sono responsabili di fronte ai loro cittadini, ma devono esserlo anche in quelli non democratici: devono adottare obiettivi, esserne responsabili mettendo a punto le misure necessarie per raggiungerli, e comunicare i progressi fatti. Questo criterio dovrebbe valere per tutti i sistemi politici. Il precedente principio ne richiede un secondo, che pure trascende il tipo di governo o di azienda: la trasparenza. Come cittadini, come soggetti di un mercato e come esseri umani che vogliono uno sviluppo sostenibile possiamo ritenere governi e organizzazioni responsabili di azioni e comportamenti solo se ne siamo informati. In altre parole, dobbiamo far pressione affinché le nostre potenti istituzioni e dicano no alle varie forme di segretezza, tra cui quella dei paradisi fiscali che consentono alle persone di nascondere il loro denaro e le loro attività, anche quando questi hanno un forte impatto negativo sugli obiettivi di porre fine alla povertà. Il terzo principio è la partecipazione, ovvero la capacità dei cittadini e degli stakeholder di partecipare al processo decisionale. Le opinioni a riguardo sono molteplici come pure i sistemi di partecipazione: le elezioni ne sono un esempio, ma ci devono essere anche incontri pubblici, delibere e chiarimenti sui provvedimenti adottati. Anche le aziende devono coinvolgere gli stakeholder negli ambiti e nelle modalità previste (lavoratori, fornitori, consumatori, non solo gli azionisti). Una buona attività economica adotta sempre un principio multistakeholder. Un quarto aspetto della buona governance che ricade sotto la responsabilizzazione è il principio «chi inquina paga», in base al quale ognuno pulisce dove ha sporcato. Ovvero, quando in veste di consumatori o membri di un’azienda imponiamo ad altri costi che non rispecchiano i prezzi di mercato, tocca a noi sostenerli. È come quando le aziende inquinano acqua o aria. Le aziende e i consumatori devono internalizzare le esternalità, ovvero sopportare tutti i costi sociali derivanti dal loro modo di agire. E qui entra in gioco la corporate responsibility: è corretto che un’azienda si trasferisca in un paese povero dove le leggi antinquinamento sono lasse e lo inquini, anche se tecnicamente non sta andando contro la legge? È dovere delle aziende inquinare se non è vietato dalla legge per massimizzare i guadagni degli azionisti, secondo molti. Secondo l’autore del libro è assolutamente sbagliato, poiché bisogna insistere affinché le aziende smettano di creare danni esterni come l’inquinamento, anche se la legge non glielo permette, secondo il motto latino primum non nocere. Una buona governance innanzitutto non causa danni: essere etici è la nostra prima responsabilità. Infine, la buona governance comporta un chiaro impegno rispetto allo sviluppo sostenibile. I governi sono responsabili rispetto ai bisogni del pianeta: in un mondo interconnesso come il nostro i politici non possono e non devono negare le loro responsabilità. Buona governance è anche senso di appartenenza e partecipazione universale. In più, l’elaborazione degli SDG fino al 2015 e la loro successiva implementazione rappresentano un’opportunità per migliorare la governance globale. Lo sviluppo sostenibile è realizzabile? Lo sviluppo sostenibile è raggiungibile? Possiamo mettere a punto gli SDG e far sì che diventino realtà per tempo? Nel nostro mondo confuso e confondente, nonché distratto, stiamo andando prepotentemente fuori strada sotto molti punti di vista: cambiamento climatico, sesta grande estinzione, città in pericolo, approvvigionamento alimentare a rischio, massicci spostamenti di popolazioni, crescenti disuguaglianze di reddito, alti tassi di disoccupazione giovanile, instabilità politica. È ragionevole pensare di poter rientrare nei ranghi? È una domanda che desta non poche preoccupazioni: Jane Jacobs, una delle più grandi urbaniste mondiali, ha scritto un libro intitolato Dark Age Ahead, nel quale afferma che le comunità si stanno sfilacciando, il concetto di bene comune sta scomparendo, l’istruzione superiore è disfunzionale, i governi sono più sensibili agli interessi personali che ai bisogni reali… insomma, la questione andrà peggiorando. Lord Martin Rees ha scritto un libro dal titolo Our Final Century, nel quale afferma che la situazione è drammatica, anche se vede una via d’uscita. Lovelock nel volume La rivolta di Gaia ha dichiarato che siamo già nei margini di sicurezza planetari e che buona parte del mondo è destinata a soccombere. Detto in parole povere, lo sviluppo sostenibile è la sfida più grande e complessa che l’umanità abbia mai dovuto a rontare. Cambiamento climatico, mondo che va urbanizzandosi, netto processo di estinzione, ff incremento demografico, ipersfruttamento di oceani e risorse della Terra, commercio illegale… sono problemi complessi ed imperniati nella scienza, sono questioni di grande incertezza, caotici, non lineari e complesse. È un problema multigenerazionale ed, in quanto tale, nuovo. I tempi sono lunghi, ma ci rimane poco tempo. Non dobbiamo perdere le speranze: abbiamo capito quali sono le strade da seguire, attraverso il backcasting ed il roadmapping, per andare da dove ci troviamo oggi a dove dobbiamo essere. Ci sono tecnologie per la decarbonizzazione, per economizzare le superfici coltivate ed incrementare la produttività, ridurre i flussi di azoto e fosforo; ci sono infrastrutture intelligenti. Tutte opportunità a portata di mano. Per avere la conferma dell’impatto positivo che comporterebbero gli SDG basta osservare i grandissimi passi in avanti compiuti con gli MDG. Anche se sembra che i sistemi politici siano indiffernti, le cose possono cambiare poiché le idee contano. Sempre, nel corso della storia, le idee hanno promosso il cambiamento e alcune hanno dato il via ai più importanti movimenti degli ultimi due secoli. Primo, la fine della schiavitù. Anche la lotta contro il colonialismo in un primo momento sembrò qualcosa di impossibile. È poi venuto il movimento per i diritti umani. Tutte idee che hanno ispirato il movimento per i diritti civili, che hanno lastricato più volte il cammino, ma il cammino verso grandi cambiamenti. Accade anche con il movimento femminista. E questo ci porta alle idee chiave del nostro tempo: la convinzione che possiamo porre fine alla povertà estrema è oggi la dottrina ufficiale di grandi istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. L’etica di fondo alla base di queste idee è un’etica globale condivisa, come gli SDG; l’impegno primum non nocere; i diritti umani, la trasparenza, la partecipazione, la buona governance…. Sono passati cinquant’anni da quando due vicende statunitensi hanno cambiato il corso della storia: il movimento per i diritti civili e la proposta di pace del presidente John F. Kennedy all’URSS; abbiamo tratto ispirazione da entrambe per far fronte alle sfide odierne. Nel 1963, Kennedy riuscì a negoziare con i sovietici un trattato sulla messa al bando parziale dei test nucleari. È giunto a questo con le parole e non con la forza, e il 10 giugno di quell’anno tenne il discorso sulla pace. L’idea è che l’umanità può risolvere i problemi in maniera pacifica e vivere insieme, poiché quello che abbiamo in comune è molto più importante di ciò che ci divide. Anche lo sviluppo sostenibile è un processo e un modo di risolvere i problemi pacificamente e globalmente, ricorrendo alla scienza, alla tecnologia, e ad un’etica globale condivisa che risponda ai nostri bisogni comuni più profondi. Kennedy riuscì a far firmare il suo trattato di pace aiutando così il mondo ad arretrare rispetto al baratro nucleare mediante un primo passo di un processo graduale e pratico. Dobbiamo ricominciare a pensare in termini di processi pratici. Nell’ultimo discorso ai leader del mondo, alle Nazioni Unite nell’autunno del 1963, subito dopo la firma del trattato sulla messa al bando parziale dei test nucleari, il presidente americano concluse con le parole che devono guidarci oggi: “Sembra che Archimede spiegando il principio della leva abbia detto ai suoi amici: «Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo». Per questo vi dico: troviamo il nostro punto d’appoggio in questa Assemblea delle nazioni. E vediamo se, in questa nostra epoca, possiamo spostare il mondo verso una pace duratura”. Oggi sta a noi vedere se riusciremo a guidare il mondo verso uno sviluppo sostenibile.
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